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ANDREA CZORTEK IL MONACHESIMO CAMALDOLESE NELLA DIOCESI DI CITTÀ DI CASTELLO NEI SECOLI XII-XIII 1 Gli studi dell’ultimo quindicennio hanno evidenziato come tra le diocesi dell’Umbria medievale, quella di Città di Castel- lo si caratterizzi per la presenza di vari monasteri afferenti alle congregazioni vallombrosana e camaldolese, ma se la presenza vallombrosana si riduce a pochi monasteri, nel caso di Camaldo- li è possibile individuare una modalità insediativa più numerosa e diversificata, caratterizzata da un numero di poche abbazie e da una più cospicua serie di priorati, talora organizzati in forma di ‘rete monastica’ 2 . 1 Per permetterne l’accesso pubblico locale presento qui, in forma sintetizzata, quanto esposto in occasione dei convegni di Camaldoli (31 maggio-2 giugno 2012), Raggiolo (22 settembre 2012) e Sansepolcro (22-24 novembre 2012) e della conferenza di Città di Castello (28 novembre 2012), nell’ambito dei mille- nari di Camaldoli e di Sansepolcro. I testi completi saranno pubblicati nei volumi degli atti dei convegni. 2 Cfr. G. CASAGRANDE - A. CZORTEK, I Vallombrosani in Umbria: i monasteri di Città di Castello, in L’Ordo Vallisumbrosae tra XII e XIII secolo. Gli sviluppi istituzionali e culturali e l’espansione geografica (1101-1293). Atti del II Col- loquio vallombrosano (Vallombrosa 1996), a cura di G. Monzio Compagnoni, Vallombrosa 1999, II, pp. 841-883. Notizie sulle singole fondazioni in G. MUZI,
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Il monachesimo camaldolese nella diocesi di Città di Castello nei secoli XII-XIII, in «Pagine altotiberine», 53, 2014, pp. 7-30.

Apr 02, 2023

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AndreA Czortek

IL MoNACHESIMo CAMALDoLESENELLA DIoCESI DI CITTà DI CASTELLo

NEI SECoLI XII-XIII 1

Gli studi dell’ultimo quindicennio hanno evidenziato come tra le diocesi dell’Umbria medievale, quella di Città di Castel-lo si caratterizzi per la presenza di vari monasteri afferenti alle congregazioni vallombrosana e camaldolese, ma se la presenza vallombrosana si riduce a pochi monasteri, nel caso di Camaldo-li è possibile individuare una modalità insediativa più numerosa e diversificata, caratterizzata da un numero di poche abbazie e da una più cospicua serie di priorati, talora organizzati in forma di ‘rete monastica’ 2.

1 Per permetterne l’accesso pubblico locale presento qui, in forma sintetizzata, quanto esposto in occasione dei convegni di Camaldoli (31 maggio-2 giugno 2012), Raggiolo (22 settembre 2012) e Sansepolcro (22-24 novembre 2012) e della conferenza di Città di Castello (28 novembre 2012), nell’ambito dei mille-nari di Camaldoli e di Sansepolcro. I testi completi saranno pubblicati nei volumi degli atti dei convegni.2 Cfr. G. CAsAGrAnde - A. Czortek, I Vallombrosani in Umbria: i monasteri di Città di Castello, in L’ordo Vallisumbrosae tra XII e XIII secolo. Gli sviluppi istituzionali e culturali e l’espansione geografica (1101-1293). Atti del II Col-loquio vallombrosano (Vallombrosa 1996), a cura di G. Monzio Compagnoni, Vallombrosa 1999, II, pp. 841-883. Notizie sulle singole fondazioni in G. Muzi,

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Gli inizi della presenza camaldolese nella diocesi:la donazione del monastero di Dicciano nel 1133

Nel 1133, i fratelli Bernardino, Martulo e Ranieri, Bernar-dino di Gualfredo, Tignoso e Gastone del fu Bernardino, Quin-tavalle e Astoldo donano al priore di Camaldoli, Azzo, lo ius e l’ordinationem del monastero di Dicciano e la sua pertinenza, consacrati in onore di Santa Maria, con il consenso di monaci e laici, affinché il priore e i suoi successori vi costituiscano e ordinino abati, monaci, chierici e famigli secondo il precetto del beato Benedetto, promettendo di difendere il monastero e i suoi beni 3. In tal modo l’eremo di Camaldoli ottiene il primo inse-diamento nella diocesi di Città di Castello, con una donazione animata da un chiaro intento riformatore. Nel volgere di pochi anni il possesso del monastero è confermato da papa Innocenzo II, che dietro richiesta del priore Azzo, nel 1136, conferma i beni di Camaldoli, tra cui il monastero di Santa Maria di Dicciano, “salvo iure Castellane ecclesie” 4. Si riconosce, dunque, un certo diritto del vescovo diocesano, che progressivamente si estingue-rà con il crescere dell’autonomia della congregazione.

L’acquisizione dell’abbazia di Sansepolcro

Più complessa l’acquisizione del secondo monastero nel-la diocesi, cioè l’abbazia del Santo Sepolcro, documentata dal 1012 nella località di Noceati. Se con Dicciano eravamo in pre-senza di un insediamento montano-rurale di piccole dimensioni, in questo caso ci troviamo di fronte a un’abbazia di maggiori

Memorie ecclesiastiche di Città di Castello, II, Città di Castello 1842 e IV, Città di Castello 1843.3 E. AGnoletti - B. Giorni, Caprese Michelangelo, Città di Castello 1975, p. 96.4 Muzi, Memorie ecclesiastiche cit., IV, p. 139.

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proporzioni, al centro di un processo di sviluppo urbanistico – del quale proprio il monastero è causa – e a capo di una rete monastica non trascurabile.

Pare che sia papa Pasquale II a sollecitare l’aggregazione del monastero alla congregazione camaldolese, incontrando però l’opposizione dei monaci locali 5. Di questa eventuale sollecita-zione non vi è traccia nel privilegio indirizzato dal papa all’abate Giraldo nel 1106: impegnato in un’azione di recupero delle terre della Chiesa sottratte alla diretta signoria pontificia, Pasquale II prende il monastero sotto la propria protezione e conferma all’abate sia quello che già possiede che quanto gli sarà conces-so, rinnovando i diritti di mercato e di riscossione delle decime, concedendo la facoltà di amministrare il battesimo, “salva in ceteris Tifornensis episcopi reverentia”, e riconoscendo tutte le immunità e le libertà delle quali il monastero già gode 6.

Ciò che contraddistingue l’inserimento di questa abbazia nella congregazione è la lunga resistenza opposta dai Benedet-tini, che tentano di difendere la propria autonomia inserendosi nella lotta fra impero e papato. Il monastero è elencato per la prima volta fra quelli della congregazione nella lettera con la quale l’imperatore Lotario II, il 10 gennaio 1137, prende sotto la propria protezione il monastero e l’eremo di Camaldoli e tutte le pertinenze, tra cui il monastero del Santo Sepolcro nella diocesi di Città di Castello. Dieci anni dopo, il 7 febbraio 1147, papa Eugenio III conferma ai Camaldolesi l’abbazia del Santo Sepol-cro “cum toto Burgo”. Nel 1154 è papa Anastasio IV a ricono-scere ai Camaldolesi la proprietà dell’abbazia, ancora “cum toto Burgo”. Contemporaneamente si verifica la resistenza dei Bene-dettini alla riforma dell’abbazia, fatto, questo, che denota anche

5 e. AGnoletti, Sansepolcro nel periodo degli abati (1012-1521), Città di Castello 1976, p. 31.6 P. F. kehr, Papsturkunden in Italien, I, Città del Vaticano 1977, pp. 415-416.

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la vitalità del monastero. Di ciò sono prova due documenti del pontificato di Adriano IV: nella lettera con la quale il 14 marzo 1155 il papa conferma la protezione apostolica alla congrega-zione mancano tutti e tre i monasteri nelle diocesi umbre, cioè Santa Maria di Dicciano, Sansepolcro e San Silvestro del Mon-te Subasio; al contrario, il 7 ottobre 1157, il papa, su richiesta dell’abate Ugo, prende l’abbazia sotto la protezione pontificia e conferma l’institutionem dei frati camaldolesi e le proprietà e i diritti, le libertà e le immunità riconosciuti da Pasquale II nel 1106, fatte salve la superiorità della Sede Apostolica e la cano-nica giustizia del vescovo diocesano 7.

Nonostante gli espliciti richiami, i Benedettini continuano a rifiutare il passaggio alla congregazione di Camaldoli, trovan-do nell’impero un valido alleato. Se nel 1137 Lotario II aveva espresso il suo favore nei confronti dei Camaldolesi, adesso Fe-derico I ha adottato una linea differente. Di ciò approfitta l’aba-te, Franciano, che nel 1163 accoglie a Sansepolcro Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia e legato imperiale in Italia, informandolo del tentativo dei marchiones di estendere la loro signoria sul Borgo e di quello dei Borghesi di sottrarsi al con-trollo abbaziale. Per tutta risposta Rainaldo, il 7 settembre, vieta ai marchiones di rivendicare diritti signorili, prende l’abbazia sotto la protezione imperiale, dichiara che i Borghesi devono rispondere solamente all’imperatore, all’abate o al nunzio impe-riale e investe Franciano dell’abbazia, del Borgo e di ogni onore e diritto. Infine, il legato imperiale entra decisamente nel merito della riforma obbligando i consoli di Arezzo e di Città di Ca-stello e il popolo di Anghiari a difendere la libertà dell’abbazia e dei Borghesi, vietando ai Camaldolesi, venuti per riformare

7 G. VedoVAto, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184. Storia e documentazione, Cesena 1994, p. 192, pp. 198, 207, 214-216, 245; P. F. kehr, Italia Pontificia, IV, Berlino1961, p. 110.

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la decaduta vita religiosa, di deporre o eleggere l’abate senza il permesso dell’imperatore 8. Dunque, nel monastero vi sono dei monaci camaldolesi, esclusi però dalla scelta dell’abate senza autorizzazione imperiale.

La tolleranza dimostrata dal legato imperiale, tuttavia, non garantisce del tutto l’abate, il quale si rivolge direttamente all’imperatore. Così, il 6 novembre 1163, Federico I conferma tutto quanto concesso da Rainaldo e proibisce esplicitamente ai Camaldolesi di interferire nella gestione dell’abbazia: essi pos-sono rimanere per riformare la vita religiosa, ma non debbono occuparsi del governo, cioè dell’esercizio dei diritti di natura politica, fiscale e giudiziaria riconosciuti all’abate 9. Lo stes-so giorno l’imperatore invia al vescovo da lui eletto a Città di Castello, Corbello, un privilegio, nel quale si contiene una di-sposizione contro i Camaldolesi: tutte le pievi dell’episcopato castellano, le cappelle e la “capellam sancti Stephani de Anglari in episcopatu Aretino sitam”, la chiesa di Pianettole, ingiusta-mente vendute ai Camaldolesi, siano restituite al vescovo e i Ca-maldolesi non costruiscano nessuna nuova chiesa “in tota plebe Soaria” 10. Questi tre documenti fanno parte di quelli adottati dal Barbarossa per limitare l’espansione della congregazione camaldolese, legata al papato, e tale politica è evidente nel di-vieto rivolto ai Camaldolesi di edificare o acquisire chiese nella diocesi di Città di Castello senza licenza del vescovo, cioè di Corbello, da lui eletto, ma mai consacrato, nel tentativo di sosti-tuire il vescovo Pietro.

8 G. B. MittArelli - A. CostAdoni, Annales Camaldulenses ordinis sancti Bene-dicti, IV, Venezia 1759, coll. 10-13.9 Monumenta Germaniae Historica, Diplomata, X/2, Hannover 1979, doc. 409.10 Ivi; MittArelli - CostAdoni, Annales Camaldulenses cit., IV, coll. 13-14.

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All’inizio dell’anno successivo, il 23 gennaio 1164, il quadro politico generale cambia e il Barbarossa prende sotto la prote-zione imperiale i Camaldolesi e i loro possessi 11. Nel 1166 il nuovo legato imperiale in Italia, Cristiano di Buch, dopo aver confermato, il 3 giugno 1165 12, i privilegi di Rainaldo di Das-sel e di Federico I, concede all’abate Franciano nove masserie nella villa di Casaprati per ricompensarlo del magnifico servizio fornito all’impero e alla sua persona “in Romania et in Campa-nia” sostenendo molte spese, ma nel documento nulla si dice a proposito dei Camaldolesi 13. Lo stesso legato, il 6 maggio 1174, riconoscendo loro alcuni possedimenti, impone ai consoli di Arezzo, di Città di Castello e di Sansepolcro di difendere le proprietà camaldolesi nei rispettivi territori, senza fare nessun riferimento al divieto di esercitare autorità sul monastero 14. È evidente come l’impero abbia mutato la propria strategia nei confronti del papato e, quindi, dei Camaldolesi. La capacità di difesa della propria autonomia dimostrata in questi anni dai Be-nedettini di Sansepolcro nei confronti dei Camaldolesi è lega-ta all’abate Franciano, personaggio di primo piano nella scena religiosa e politica locale, ben capace di valorizzare al meglio sia l’antica condizione di legame con l’impero della propria ab-bazia, sia la nuova situazione di conflitto tra le due massime autorità della Christianitas.

Non è certamente un caso che il papa Alessandro III, l’8 apri-le 1180, accogliendo la richiesta del nuovo abate, Filippo, pren-

11 VedoVAto, Camaldoli e la sua congregazione cit., p. 250.12 D. Von der nAhMer, Die Reichsverwaltung in Toscana unter Friedrich I und Heinrich VI., Aalen 1965, p. 172.13 Sansepolcro, Archivio Vescovile [AVS], Pergamene, 4; Von der nAhMer, Die Reichsverwaltung cit., p. 46.14 A. Czortek, Un’abbazia, un comune: Sansepolcro nei secoli XI-XIII, Città di Castello 1997, p. 85.

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dendo il monastero di Sansepolcro sotto la propria protezione e confermando all’abate i diritti, ingiunga anche il rispetto della regola camaldolese 15.

Un percorso quello dell’accettazione della riforma camaldo-lese da parte dei benedettini di Sansepolcro, lungo e travagliato, che riflette in pieno le caratteristiche del monachesimo umbro del periodo, un monachesimo cioè “di stampo tradizionale e ge-loso della propria indipendenza” e che non accetta di buon gra-do “le riforme imposte dall’esterno” 16. Il Licciardello individua nel riconoscimento del diritto del priore generale di deporre ed eleggere i superiori dei membri della congregazione da parte di papa Innocenzo III il 5 maggio 1198 il momento in cui si compie “definitivamente il contrastato passaggio del monastero dall’osservanza benedettina tradizionale a quella camaldolese” 17. Tale diritto, infatti, avrebbe potuto offrire una modalità sicura di inserimento dei Camaldolesi nell’abbazia di Sansepolcro, su-perando ogni difficoltà locale con l’insediamento di un nuovo abate. Se così fosse, questo abate potrebbe essere Pietro.

Il monastero di Santa Maria di Bolsemolo

Tra i monasteri camaldolesi minori rientra anche quello di Santa Maria di Bolsemolo, nelle terre dei Marchiones. La notizia circa l’afferenza alla congregazione, tramandata dagli annalisti camaldolesi e poi ripresa dal Muzi e dalla Casagrande 18, viene

15 Von der nAhMer, Die Reichsverwaltung cit., p. 172. Negli anni successivi si sus-seguono vari documenti che lasciano intendere come ormai il passaggio dell’ab-bazia ai Camaldolesi sia definitivamente compiuto (VedoVAto, Camaldoli e la sua congregazione cit., p. 231 e Czortek, Un’abbazia, un comune cit., p. 74).16 Czortek, Un’abbazia, un comune cit., p. 75.17 P. liCCiArdello, Le visite pastorali all’abbazia di Sansepolcro nel Duecento, in «Archivio Storico Italiano», 171/I, 2013, p. 32.18 G. B. MittArelli - A. CostAdoni, Annales Camaldulenses ordinis sancti Bene-

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confermata da ulteriori riscontri documentari: il 28 novembre 1279 il priore generale scrive a frate Bencevenne e agli altri frati del luogo di Santa Maria di Bolsemolo a proposito di frate Castaldunto 19; il 15 luglio 1284, essendo vacante il monastero di Santa Maria di Bolsemolo per la morte del priore Martino, ne elegge priore Benedetto da Montauto monaco di Anghiari; il 26 aprile 1284 scrive al priore “de Bolsemoro” affinché accolga frate Ranieri come converso; il 26 aprile 1285 scrive al converso frate Francesco dell’abbazia di Urano affinché vada a dimora-re nel monastero di Bolsemolo sotto l’obbedienza del priore; il 3 luglio 1286 costituisce e ordina frate Bencevenne custode e nunzio “in loco de Bolsemoli” affinché possa agire presso qualunque giudice ecclesiastico e civile per il diritto del detto luogo; il 1° agosto 1287 dà licenza a Francesco converso di Bol-semolo di andare presso qualsiasi monastero della regola di san Benedetto “et ibi salvaret animam suam, ad petitionem ipsius, quia mores dicti Francisci moribus fratrum Camaldulensium non conveniebant” e lo scioglie dall’obbedienza all’Ordine; il 15 giugno 1296 il generale rimuove Antonio da Verghereto “de prioratu de Bulsumino” e lo invia come monaco al monastero di Sant’Andrea “de Puteo” 20.

dicti, V, Venezia 1760, p. 149; Muzi, Memorie ecclesiastiche cit., IV, p. 176; Chie-se e conventi degli ordini mendicanti in Umbria nei secoli XIII-XIV. Gli archivi ecclesiastici di Città di Castello, a cura di G. Casagrande, Perugia 1990, p. XXII. La Casagrande segnala anche il documento con il quale, il 13 gennaio 1274, il ve-scovo Niccolò assegna a frate Lorenzo “de Bulsomolo”, nella pieve di Cuminalla, un periodo fino al suo rientro dal concilio di Lione entro il quale il frate e i suoi soci dovranno decidere sull’obbedienza e la reverenza da prestare al vescovo e riconoscerlo come signore e prelato (ivi, doc. 1.5.1).19 Firenze, Archivio di Stato [ASF], Camaldoli appendice, 19, c, 17r. Il registro non contiene indicazioni relative al contenuto della missiva.20 Ivi, 20, cc. 44r, 13r, 223r, 59v, 62v; ivi, 21, c. 23r.

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La rete monastica dell’abbazia di Sansepolcro

Un elemento peculiare della presenza camaldolese nella dio-cesi di Città di Castello è l’esistenza di una rete monastica fa-cente capo all’abbazia di Sansepolcro, che quando entra nella congregazione è già un centro monastico consolidato, ricco di beni e dipendenze – non del tutto esenti dalla giurisdizione ve-scovile – e forte di diritti e prerogative. Acquisendo l’abbazia la congregazione incorpora anche i vari luoghi da essa dipendenti, molti dei quali nelle diocesi di Perugia e di Assisi. Nella diocesi castellana, a Sansepolcro sono membri manuali dell’abbazia il priorato di San Niccolò e la chiesa di San Lorenzo dell’omo-nimo borghetto; nel distretto sono pertinenze dell’abbazia le chiese rurali di Sant’Angelo di Casaprati, di Santa Fiora, di San Michele Arcangelo, di San Paterniano (o Patrignano) presso il Tevere, Santo Stefano di Farneto; l’abate, inoltre, è patrono, in-sieme ad alcuni laici, della chiesa di San Martino di Fariccio. A Città di Castello è membro manuale dell’abbazia di Sansepolcro il priorato di San Pietro della Scatorbia; nel resto della diocesi appartengono all’abbazia le chiese di Santa Croce di Valle Pe-rello, nella provincia della Massa Trabaria, sulla quale l’abate esercita diritti di elezione del rettore, e di San Martino di Petrio-lo, nella curia di Citerna 21.

I documenti mettono in luce alcuni aspetti dell’esercizio del-la giurisdizione abbaziale, quali l’elezione dei priori e il diritto di reformatio, visitatio e correctio, evidenziando così un dif-ferente livello di rapporti tra i monasteri: Camaldoli, infatti, si rapporta direttamente con Sansepolcro, il cui abate, a sua volta, diventa referente per i membri manuali all’interno di una rete

21 A. Czortek, Chiese e monasteri dipendenti dall’abbazia di Sansepolcro (reper-torio per i secoli XI-XIV), in Monastica et umanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco O.S.B.., a cura di F. G. B. Trolese, Cesena 2003, pp. 106-117.

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complessa e organizzata su più livelli gerarchici. I rettori delle chiese suffraganee – dette “ad dictum monasterium nullo me-dio pertinente”, “manualis abbatie”, “suffraganeum Burgensis [monasterii]”, ad monasterium Sancti Sepulcri […] pleno iure spectans – fanno parte del capitolo dell’abbazia e intervengono in alcune decisioni 22. Talvolta rettori di chiese manuali possono anche diventare abati, come avviene nel 1285 con Pietro, priore di Sant’Agnese di Perugia, eletto abate di Sansepolcro 23.

Il priorato di San Pietro alla Scatorbia in Città di Castello

Le maggiori abbazie del territorio diocesano hanno tutte di-pendenze in Città di Castello e, in alcuni casi, in Sansepolcro. La chiesa di San Pietro alla Scatorbia a Città di Castello fa parte della rete monastica dell’abbazia di Sansepolcro.

Nel 1232, due anni dopo la composizione della lite tra abate e vescovo a motivo del diritto di visita sull’abbazia, le due au-torità religiose sono costrette a cercare un nuovo accordo, che trovano grazie all’arbitrato del priore di Sant’Agnese di Perugia e dell’arciprete di Santa Maria alla Sovara. La questione nasce a motivo della disobbedienza del monaco Leonese, priore di San Pietro alla Scatorbia, che, essendosi rifiutato di obbedire agli or-dini del vescovo, era stato scomunicato e la sua chiesa era stata interdetta. Il 6 settembre i due arbitri impongono al vescovo di togliere l’interdetto alla chiesa, a Leonese di rispettare gli ordini vescovili e ai rettori delle chiese di Sant’Angelo de Curtis, di San Cristoforo e di Farneto di obbedire al vescovo “in paratis, collectis et aliis servitiis debitis et consuetis sicut alie ecclesie plebatus Burgi”; i due, inoltre, riconoscono all’abate di Sanse-

22 Cfr. ivi, pp. 97-98 e 122-123.23 AVS, Pergamene, 1, 9 e 30.

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polcro il diritto di eleggere, con il consenso del suo capitolo e dei rispettivi patroni, i rettori delle tre chiese, i quali avrebbero dovuto prestare obbedienza al vescovo al pari degli altri rettori delle chiese del plebato. Infine, gli arbitri decretano che il ve-scovo debba “defendere et manutenere ecclesiam dictam Sancti Petri ad honorem et utilitatem predicti abbatis qui nunc est et iura ipsius”, che l’abate e i monaci “non cognoscant de causis matrimonialibus et usuriis, nec faciant generales remissiones, nec iniungant publicas penitentias sine licentia domini episcopi memorati” e che “quicumque fuerit capellanus in ecclesia Sancti Petri de Scaturbio teneatur promittere dicto episcopo et obedire sibi pro ecclesia et populo sicut alii clerici civitatis” 24.

Segue un lungo periodo di silenzio fino al 3 febbraio 1277, quando la chiesa è vacante per il trasferimento del priore Ro-mualdo del fu Guiduccio da Perugia al monastero della Trinità di Perugia; per tale motivo l’abate Bartolomeo crea priore di San Pietro Romualdo “Bartoli” da Sansepolcro. In questi anni sono documentati altri atti giurisdizionali compiuti dall’abate: il 28 gennaio 1278 il rettore e priore di San Pietro riceve la vi-sita dell’abate Bartolomeo “ut manualis”; nel 1285 le monache del monastero di San Benedetto di Città di Castello promettono all’abate Pietro, che agisce tramite onorato priore di San Pietro, obbedienza e reverenza “tamquam eorum prelato et domino se-cundum regulam beati Benedicti et constitutionum ordinis Ca-maldulensis”; nel 1298 l’abate Giovanni riforma il priorato di San Pietro e la chiesa di Farneto 25.

Negli ultimi decenni del secolo sono noti anche interventi del priore generale: prima del 3 febbraio 1277 Romualdo del

24 Città di Castello, Archivi storici della diocesi [ASDCC], Registri della Cancel-leria Vescovile [RCV] 1, c. 117r; Archivio Capitolare, Manoscritti, 82, c. 9r.25 AVS, Pergamene, 2-A, 63 (1285), ivi, Quaderni di miscellanea civile, I, 1, cc. 33v (1298) e 34v (1278).

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fu Guiduccio da Perugia, priore di San Pietro alla Scatorbia, è trasferito come priore al monastero perugino della Trinità, che non fa parte delle dipendenze del monastero di Sansepolcro 26; il 3 ottobre 1283 il priore generale ordina al priore del monastero di San Pietro di ospitare, fino alla prossima festa di Pasqua, don Biagio da Arezzo “ut studendi habeat facultatem”, secondo l’au-torizzazione concessagli dallo stesso generale; il 31 marzo 1300 David, priore generale, considerato che i rettori o priori della chiesa di San Pietro “de Scaturbia” di Città di Castello hanno venduto proprietà della chiesa senza licenza sua o dell’abate “monasterii Sancti Sepulcri de Burgo Sancti Sepulcri, cui eccle-sia eadem sive prioratus subiectus esse”, dichiara nulle le ven-dite effettuate 27.

I monasteri della diocesi castellana nella congregazione camaldolese

Dopo il 1133 sono documentati, com’è naturale, numerosi rapporti tra i monasteri altotiberini e il governo centrale della congregazione. A Dicciano, già nel 1150 il generale è indicato nei contratti stipulati dall’abate quale autorità arbitrale in caso di controversie 28, ma nell’insieme i casi noti di rapporti tra il centro e questo monastero non sono molto numerosi: nel 1222 l’abate fa parte della commissione che accompagna il generale nell’inchiesta sull’abate di Sansepolcro che si conclude il 4 gen-naio con la deposizione dell’abate stesso 29; nel 1242 l’abate è

26 Czortek, Chiese e monasteri cit., pp. 115 e 118.27 ASF, Camaldoli appendice, 20, c. 2r (1283); AVS, Pergamene, 2-A, 71 (1300).28 E. BAronCini, Summaria instrumentorum et scripturarum omnium que extant in Archivo Camaldoli in tres partes divisa, pp. 1352-1353; ms. del 1698 in ASF, Corporazioni Religiose Soppresse, 39, 295.29 Regesto di Camaldoli, III, a cura di E. Lasinio, Roma 1914, doc. 1688.

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rimosso per avere compiuto “multa inreligiosa” 30; il 15 marzo 1256 il generale elegge in priore della Santissima Trinità di Pe-rugia Ranieri, abate di Dicciano, sostituito da Placido 31; il 24 ottobre 1279, nomina Donato, monaco di Dicciano, priore di San Lorentino di Arezzo; il 27 settembre 1281 scrive all’abate di Dicciano “pro fratre Guidone converso et sacerdote”; il 12 marzo 1282 trasferisce il monaco Romualdo da Dicciano a San Michele di Pisa; l’11 ottobre 1282 scrive all’abate di San Mi-chele di Pisa “pro frate Paulo de Dicciano”; il 16 maggio 1284 il monaco Salimbene dell’eremo “de Salute” è trasferito all’abba-zia di Dicciano; il 13 settembre 1285 il generale incarica l’abate di Dicciano di confermare l’elezione di Pietro a nuovo abate di Sansepolcro; il 21 settembre 1285 autorizza l’abate di Dicciano ad accogliere “dominum Gregorium de Burgo Sancti Sepulcri” come monaco; nel 1286 il monaco Bonavito è trasferito da Dic-ciano a Poplena 32.

Nei registri dei priori generali si ha memoria anche delle vi-site ai monasteri della diocesi castellana. La più antica che si co-nosca risale al 1222 e riguarda l’abbazia di Sansepolcro, visitata dal priore Guido II il 4 gennaio e conclusa con la deposizione dell’abate Graziano 33. La seconda visita all’abbazia di Sanse-polcro nota risale a quarantaquattro anni dopo quando, nella pri-mavera del 1266, il neoeletto priore generale Angelo, che si reca personalmente presso i principali monasteri della congregazio-ne, è accolto dall’abate e dai monaci e riceve il giuramento di fedeltà da parte di ciascun monaco 34. Al 1266 rimonta anche la

30 Regesto di Camaldoli, IV, a cura di E. Lasinio, Roma 1922, doc. 2260.31 MittArelli – CostAdoni, Annales Camaldulenses cit., V, pp. 28-29.32 ASF, Camaldoli appendice, 19, cc. 64v, 71r, 77r; ivi, 20, cc. 9v, 12v, 29rv, 32v.33 ASF, Diplomatico, Camaldoli, 1222 gennaio 4.34 Camaldoli, Archivio del monastero [AMC], ms. 262, p. 27.

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prima notizia di una visita del generale a Dicciano 35. Ben diver-sa è la visita compiuta dal 28 al 30 agosto 1267 da Angelo, che si reca nell’abbazia per indagare a seguito delle accuse rivolte contro l’abate e i monaci 36. Il caso è stato di recente individuato e analizzato dal Licciardello, il quale ha messo in luce come dall’interrogatorio di tutti i monaci emerga “un quadro alquan-to impietoso della vita morale della comunità, tra libertinaggio, scandali sessuali, favori e regali, offese tra monaci e debolezza del governo dell’abate”, ma “limitato ad un periodo ben preciso, circoscritto nel tempo” 37. Tracce di una visita, piuttosto rapida, a monasteri di diocesi umbre si hanno nel 1279, quando il gene-rale è a Dicciano il 2 dicembre, a Sansepolcro il 5 dicembre, a Pianettole dal 15 al 23 febbraio 1280 38.

Sono noti anche ulteriori interventi del priore generale, di na-tura giurisdizionale o fiscale: il 2 gennaio 1255 ratifica l’elezio-ne di Bono, priore di Sant’Agnese di Perugia, ad abate di San-sepolcro 39; il 24 aprile 1282 minaccia la scomunica all’abate di Sansepolcro, in ritardo nel pagamento della somma di 26 lire per la colletta, se entro dieci giorni non consegnerà il dovuto; l’8 novembre 1283, essendo vacante il monastero di San Pie-tro di Pianettole per il trasferimento di Giovanni al priorato di San Vito di Faenza, ne elegge priore Andrea; il 23 agosto 1284 scrive al priore di Anghiari e all’abate di Sansepolcro incarican-doli di riscuotere alcuni crediti dell’abbazia di Sansepolcro; il 2 dicembre 1285 richiede all’abate di Sansepolcro il pagamen-to di 4 lire, probabilmente per la colletta indetta per il capitolo generale; il 13 settembre 1285 incarica l’abate di Dicciano di

35 Muzi, Memorie ecclesiastiche cit., IV, p. 142.36 AMC, ms. 262, pp. 105-109.37 liCCiArdello, Le visite pastorali cit., p. 58.38 ASF, Camaldoli appendice, 19, cc. 17r e 20rv.39 MittArelli - CostAdoni, Annales Camaldulenses cit., V, p. 23.

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Chiesa del monastero di Santa Mariadi Dicciano.

Cattedrale di Sansepolcro,prima della ricostruzione del rosonesulla facciata(da Gio Bini, Sansepolcro immagini di un secolo, Petruzzi Editore, Città di Castello 1997).

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confermare l’elezione di Pietro a nuovo abate di Sansepolcro; l’8 agosto 1294 assolve Giovanni da Arezzo, monaco a San-sepolcro, dalla scomunica in cui era incorso per aver messo le mani addosso al suo confratello Angelo e il 2 novembre seguen-te concede all’abate di Sansepolcro che i suoi monaci che vivo-no nelle chiese dipendenti dal monastero possano usare i cibi comuni (quindi anche la carne) e gli vieta di praticare locazioni a usura 40.

Infine, è il priore generale che autorizza la prosecuzione de-gli studi: il 27 luglio 1281 autorizza Andrea da Pianettole, in-sieme ad altri monaci, a studiare grammatica a Bologna; il 17 settembre 1281 concede la licenza di studiare a Domenico da Città di Castello, monaco di Dicciano, e a Romualdo, monaco a San Michele in Borgo a Pisa; il 13 settembre 1285 concede a frate Giovanni «Aquisti» monaco a Sansepolcro la licentiam studendi in qualunque luogo e in qualunque facoltà vorrà 41.

Non mancano tracce di interventi a carattere disciplinare: il 13 febbraio 1280 il priore generale Gerardo II autorizza l’abate di Sansepolcro ad assolvere il monaco Pietro da Preggio dalla scomunica nella quale era incorso per avere malmenato un sa-cerdote. Sul finire del 1285 il generale interviene nei confronti di Tommaso, monaco di Sansepolcro: il 29 ottobre gli ordina di restituire, entro dieci giorni, un breviario al monastero del-la Berardenga, pena un’ammenda di 12 lire e il 1° novembre gli impone anche la restituzione, allo stesso monastero, anche del libro dei Dialoghi, del valore di 20 lire senesi. Tuttavia le disposizioni rimangono inascoltate e richiedono un sollecito il 30 marzo 1286. Il 16 dicembre 1281 il generale condanna a una multa di 100 lire il priore di Anghiari, Bartolomeo, e il priore di

40 ASF, Camaldoli appendice, 19, c. 71v; ivi, 20, cc. 36v, 17v, 20v, 29r; ivi, 21, cc. 70v-71r.41 Ivi, 19, cc. 62r e 64v; ivi, 20, c. 29r.

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Pianettole, Giovanni, perché non hanno ricevuto onorevolmente il capitano e alcuni nobili di Arezzo quando questi si trovavano nel monastero di Anghiari 42.

Tra i più noti interventi del generale vi è quello che riguarda l’abbazia di Sansepolcro e il priorato di San Severo di Perugia tra 1279 e 1281. Il 7 dicembre 1279 Gerardo II convoca l’abate di Sansepolcro per discutere di alcune questioni e il 31 dicem-bre scrive a tutti i suffraganei dell’abbazia affinché convengano nel monastero per trattare argomenti di interesse del monastero principale e degli altri monasteri soggetti. Il 4 gennaio 1280 scri-ve al podestà e al consiglio dei Ventiquattro del comune affinché “prospere ac honorifice dirigant” il predetto capitolo. La situa-zione del monastero non è florida, dal momento che il generale rimuove l’abate Pietro, per eccessiva prodigalità, e convoca il capitolo di Sansepolcro, il quale elegge abate Zeno. Il 30 gen-naio 1280 il generale incarica il priore di Anghiari di ricevere l’obbedienza del neoeletto e comunica l’avvenuta elezione al podestà, al capitano e ai Ventiquattro, con una lettera nella quale richiama esplicitamente l’amore, la dilezione e la «teneritudi-nem» verso i Borghesi. Poco più di un anno dopo la situazione si presenta ancora difficile, dal momento che il 7 settembre 1281, essendo il monastero oppresso dai debiti, il priore di Anghiari è inviato a Sansepolcro e a Perugia per indagare circa i debiti del monastero e soprattutto sull’incendio della chiesa di San Severo al Monte 43.

Camaldolesi e vescovo diocesano

Sul piano dei rapporti con il vescovo diocesano si verificano

42 Ivi, 19, cc. 22v, 68rv; ivi, 20, cc. 30v e 32r.43 Ivi, cc. 17r-18v, 21r, 63v.

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varie situazioni di conflittualità, particolarmente dagli inizi del XIII secolo. Il più noto è il caso di Sansepolcro dove nel corso del secolo i poteri e gli interessi dell’abate, del vescovo e del priore generale si confrontano, e si scontrano, di frequente. A monte di tutta la questione vi sono per lo meno due fattori. Il pri-mo di essi è rappresentato dagli ampi diritti concessi all’abate da imperatori e papi specialmente nel 1013/1038 e nel 1106/1163; diritti, peraltro, non solo di natura fiscale o politica, ma anche ecclesiastica, quali l’amministrazione del battesimo o l’utilizzo delle insegne episcopali. Il secondo fattore è dato dall’essere l’abbazia inserita nella congregazione camaldolese, i privilegi della quale vengono estesi dal capo ai membri, andando così a creare una situazione di ambiguità, dal momento che il diritto di visita dell’abate viene a sovrapporsi a quello del vescovo 44.

All’origine della questione vi è il trasferimento della pieve di Santa Maria da Boccognano al Borgo nella primavera del 1203, quando, il 23 marzo, i canonici della cattedrale di Cit-tà di Castello, dai quali dipende la pieve, e i consoli di San-sepolcro si accordano circa la costruzione della nuova chiesa. Gli interessi del comune e quelli dei canonici convergono, il primo per indebolire il potere abbaziale, i secondi per evitare il depotenziamento della loro pieve 45. Nel patto interviene anche il vescovo, che si impegna a difendere in tutta la diocesi i diritti dell’abbazia, tranne che contro il comune di Sansepolcro e la canonica di San Florido; i consoli, dal canto loro, si impegnano ad acquietare l’abate, che evidentemente fin da subito si oppone al trasferimento della pieve, intendendo l’operazione lesiva dei suoi diritti. Tuttavia, in un primo momento, monaci e canonici si accordano e il 23 aprile 1204 l’abate, Pietro, e il priore della

44 liCCiArdello, Le visite pastorali cit., p. 45.45 AVS, Pergamene, 2-A, 7; trascrizione in Czortek, Un’abbazia cit., pp. 131-133.

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canonica, Rolando, giurano al vescovo Ranieri e all’arciprete di Boccognano, Paolo, il rispetto dell’accordo dell’anno preceden-te 46. Nei tredici mesi che intercorrono tra il 23 marzo 1203 e il 23 aprile 1204, dunque, si pongono le condizioni per l’avvio dei lavori di costruzione della nuova pieve.

Quattro anni dopo, il 30 maggio 1207, l’abate Pietro si la-menta con il vescovo perché arciprete e canonici erano entrati in un terreno abbaziale distruggendo l’edificio che vi sorgeva e asportando la croce che l’abate vi aveva posto come segno della costruzione di una nuova chiesa 47. Un chiaro, segnale, della si-tuazione di tensione che l’edificazione della nuova pieve aveva innescato e, allo stesso tempo, del tentativo dell’abate di oppor-re una propria chiesa alla pieve stessa. La questione, dunque, in questa prima fase si sviluppa tra abate e capitolo della cattedrale e il vescovo è visto dall’abate come autorità arbitrale.

Pietro, però, non ottiene la risposta sperata e la causa si pro-trae per qualche tempo. Nel 1211 papa Innocenzo III la rimette al suo legato in Tuscia, Rolando, e le parti producono ciascuna la propria documentazione. Non ci è pervenuto il dossier presenta-to dall’abate, ma si conserva la denuncia del canonico Teuzone contro l’autenticità di tali documenti, nei quali “contra veritatem et falso in scriptum est monasterium Sancti Sepulcri, Castellane diocesis, esse exemptum a iure diocesani episcopi” 48.

Nel 1230 l’abate, omodeo, per la prima volta si scontra con il vescovo in persona. In occasione della sua visita pastorale al plebato di Sansepolcro il vescovo Matteo chiede di essere ricevuto onorevolmente nell’abbazia e di essere rimborsato del-le spese del viaggio, secondo la consuetudine, antica e nuova, dell’episcopato castellano. L’abate Omodeo rifiuta l’accoglienza

46 ASDCC, Archivio capitolare, Pergamene, 50.47 Czortek, Un’abbazia cit., p. 77.48 RCV, 9, c. 162r.

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del vescovo, probabilmente appellandosi al regime di esenzione derivante dall’appartenenza alla congregazione camaldolese. Il vescovo chiede l’intervento del papa, che a sua volta delega il proposto della cattedrale di Arezzo, grazie alla cui mediazione è possibile giungere a un accordo, dal momento che, come già “dieci anni prima papa onorio III aveva sentenziato che le case camaldolesi, nonostante i numerosi privilegi dell’ordine, doves-sero obbedire ai loro vescovi, così il risultato della vertenza fu il pieno riconoscimento del diritto di visita del vescovo castel-lano” 49. A seguito della sentenza, il 24 marzo 1230 il vescovo compie la visita al monastero 50. Il contrasto tra vescovo e aba-te, peraltro rapidamente ricomposto, nasce dalla situazione di ambiguità nella quale l’abbazia di Sansepolcro viene a trovarsi dopo il passaggio alla congregazione camaldolese, dal momento che il diritto di visita è prerogativa condivisa sia dal vescovo diocesano che dal priore generale 51.

Negli anni successivi, mentre rimangono conflittuali i rap-porti tra abate e comune, più distesi appaiono quelli tra abate e vescovo. Anzi, inoltrandoci nel XIII secolo la tensione sem-bra proprio essersi sopita. L’elemento nuovo intervenuto at-torno alla metà del secolo è la concessione alla congregazione camaldolese da parte di papa Alessandro IV il 23 luglio 1258 dell’esenzione dall’ordinario diocesano in capite et in membris. Infatti, negli anni seguenti non si hanno visite di vescovi all’ab-bazia, mentre sono documentate sia le visite da parte del priore generale (1266 e 1267), sia quelle del vescovo alla pieve (1268, 1270 e 1273) 52.

49 liCCiArdello, Le visite pastorali cit., p. 44.50 RCV, 1, c. 108v.51 liCCiArdello, Le visite pastorali cit., p. 45.52 RCV, 6, c. 138v-139r (17 ottobre 1268); ivi, 4, c. 11v (1270); ivi, 4, c. 40v (1273).

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Il contesto delle alleanze muta radicalmente nell’ultimo ven-tennio del secolo, quando abate e comune superano le antiche tensioni e si coalizzano contro il vescovo diocesano. L’episodio che meglio mette in evidenzia il nuovo quadro di alleanza si verifica sul finire del 1283 53. Essendo Città di Castello colpita dall’interdetto, il vescovo si reca a Sansepolcro per celebrare il Natale e l’Epifania e per compiervi la visita, “ut moris est”. Qui, il miles Rosso da San Miniato, podestà, “diabolico furore accensus, non sine divine maiestatis offensa, crimine sacrilegii non vitato”, a ingiuria di Dio e della Chiesa castellana, il 31 dicembre 1283, di notte, si porta presso il luogo dove il vescovo alloggia, insieme ad altri ufficiali del comune con una molti-tudine di armati gridando: “comburatur episcopus cum familia sua”. Il gruppo sfonda le porte dell’alloggio, asporta le cose che vi sono e usa violenza contro il vescovo e la sua familia, con pericolo e scandalo degli altri e con obbrobrio e contemptum della Chiesa castellana. Per questo motivo il vescovo li scomu-nica e anatematizza, ordina che siano trattati da scomunicati e commina l’interdetto contro il Borgo, le appendici e gli edifici adiacenti. Tuttavia l’abate, Zeno, e i suoi monaci non rispettano l’interdetto, per cui il vescovo scrive loro per richiamarli al do-vuto comportamento, cioè invitandoli a evitare gli scomunicati e a presentare a lui l’eventuale privilegio di esenzione. L’abate, però, trascura il monito e, insieme ai suoi monaci, celebra so-lennemente e pubblicamente gli uffici divini, ammettendovi gli scomunicati. A questo punto il vescovo, non volendo tollerare una tale offesa a Dio, alla Sede Apostolica e alla Chiesa castel-lana, scomunica anche l’abate e i monaci.

Sul momento il presule pare attendere una richiesta di perdo-no, ma il 21 gennaio nell’abbazia viene celebrata con solennità

53 AGnoletti, Sansepolcro cit., p. 73 e Muzi, Memorie ecclesiastiche cit., IV, p. 82.

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la festa di sant’Agnese. Per questo motivo il giorno seguente è avviato un processo che si protrae per circa tre mesi. L’11 feb-braio 1284 il vescovo convoca a sinodo il clero della città e della diocesi nella chiesa cattedrale, ma non intervengono l’arciprete e i chierici del plebato di Sansepolcro. Nell’assemblea si discute della causa tra il vescovo e il podestà, il capitano, il consiglio dei Ventiquattro e il comune di Sansepolcro e don Zeno, abate, e i monaci “monasterii Sancti Sepulcri Burgi” e di altre cause, per le quali vengono eletti procuratori Bartolo, canonico di orvieto e priore dell’ospedale di San Giuliano di Città di Castello, e Enrico Cavalcanti, giudice della chiesa di orvieto. Agli inizi di marzo il processo entra nel vivo. I testimoni affermano di avere visto tre sacerdoti celebrare solennemente la messa nell’abba-zia a porte aperte, suonate le campane, alla presenza di popolo e monaci, sebbene vi fosse l’interdetto, nella scorsa festa di sant’Agnese; che il giorno prima nell’abbazia sono stati cantati i vespri ad alta voce e a porte aperte, sebbene l’interdetto fosse rispettato dai frati e dagli altri chierici del Borgo; che i monaci si recarono alla pieve di Sansepolcro per celebrare, ancora una volta solennemente e pubblicamente, le esequie di un defunto, sebbene fossero scomunicati e vi fosse l’interdetto sul Borgo; che uno dei monaci ha celebrato la messa nella chiesa di San Niccolò pubblicamente in occasione delle esequie di un defunto sepolto nel cimitero della chiesa; che l’abate Zeno “sepe sepius” usò nelle celebrazioni “baculum pastoralem et anulum”, come è pubblica voce e fama “in dicto Burgo et in tota contrata”. Dunque, i monaci hanno trasgredito la sentenza di scomunica in tutte le forme possibili e per di più la notizia è diventata di dominio pubblico fino a Città di Castello, ma il vescovo vuole essere del tutto sicuro dell’atteggiamento dell’abate. Così, il 18 marzo 1284, nomina il chierico Giovanni di Guglielmo da Città di Castello suo procuratore per indagare la verità e due giorni

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dopo riprendono le deposizioni. L’abate, dal canto suo, si di-mostra del tutto incurante dell’inchiesta e celebra solennemente le feste di san Benedetto (21 marzo) e dell’Annunciazione (25 marzo). Il 30 marzo Guidarello, volgarmente detto Corpo, del fu Bonaventura “Incontri” di Città di Castello afferma che l’aba-te, usando le insegne episcopali nella messa solenne e pubblica celebrata nella chiesa del monastero, ha scomunicato il vescovo alla presenza dei monaci, annunciando la scomunica pubblica-mente, al suono delle campane maggiori e minori, con le cande-le accese, alla presenza del popolo, a porte aperte e ammettendo scomunicati e interdetti. L’inchiesta riprende il 24 aprile 1284 e il 27 aprile il vescovo invita l’abate a rispondere a ben dicias-sette quesiti, ricavati dalle deposizioni testimoniali 54. Tuttavia, la risposta dell’abate tarda a venire. Venerdì 8 dicembre 1284 il vescovo Giacomo, che ha scomunicato Rosso da San Miniato podestà di Sansepolcro e altri ufficiali e persone di Sansepolcro e ha comminato l’interdetto al Borgo, a motivo dei notori e ma-nifesti eccessi dei Borghesi, cioè homines e comune, che pure erano stati trattati con umiltà e mansuetudine dal vescovo – così il documento –, affinché essi tornino al cuore e alla devozione della santa madre Chiesa revoca la scomunica e l’interdetto 55.

Se la tensione tra abate e vescovo non costituisce una novità, l’episodio del 1283-1286 rappresenta un cambiamento in ordine ai rapporti tra abate e comune di Sansepolcro. L’alleanza, per la prima volta apertamente manifesta, è segno del superamento delle antiche controversie e ciò è probabilmente da attribuire alla rinuncia, almeno di fatto, da parte dell’abate all’esercizio dei diritti di controllo sulle magistrature comunali.

54 RCV, 5, cc. 85r-89v.55 Ivi, c. 75r. La vicenda termina definitivamente il 10 aprile 1286, quando il ve-scovo revoca l’interdetto lanciato sul Borgo a motivo dell’aggressione subita a opera di Rosso da San Miniato olim podestà (ivi, c. 121v).

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In conclusione

Nel panorama monastico altotiberino la componente camal-dolese assume un ruolo significativo, con i monasteri di Diccia-no, Sansepolcro, Pianettole e Bolsemolo e vari altri priorati. Tra essi, il caso di Sansepolcro emerge come ‘anomalo’, dal mo-mento che attorno a questa abbazia si sviluppa un nucleo abitato che progressivamente assume dimensioni rilevanti, trasforman-do l’iniziale sito rurale di Noceati nel semiurbano Burgus Sancti Sepulcri. L’insediamento camaldolese nella diocesi castellana presenta una gamma piuttosto ampia, tanto da fare parlare più di ‘presenze’ che di ‘presenza’. Infatti, in un contesto territoria-le piuttosto limitato si trovano l’abbazia di Sansepolcro, con le peculiarità sopra accennate che ne fanno un insediamento di tipo urbano, i monasteri di Dicciano e di Pianettole, che mantengono un carattere montano-rurale. Una tipologia insediativa, questa, estremamente varia e multiforme, che interessa la campagna e la montagna in maniera più consistente che la città. Di per sé, lo stesso monastero di Sansepolcro nasce come insediamento rurale e in questo caso è improprio parlare di attrazione della città verso il monastero, dal momento che è il monastero stesso ad attrarre gli abitanti dell’area circostante e a determinare così l’avvio del processo genetico del Burgus, che diventerà civitas nel 1520 56. Escluso, dunque, Sansepolcro, nella diocesi vi è un unico inse-diamento camaldolese propriamente urbano, cioè quello di San Pietro alla Scatorbia di Città di Castello, piccolo priorato mem-bro della rete monastica facente capo all’abbazia Borghese.

56 Cfr. G. GreCo, Sansepolcro diventa città (1515/1520), in La nostra storia. Le-zioni sulla storia di Sansepolcro, II. Età moderna, a cura di A. Czortek, Sansepol-cro 2011, pp. 89-133.