Linguistica Zero Rivista del Dottorato in Teoria delle lingue e del linguaggio dell'Università degli studi di Napoli “L'Orientale” Numero 5/2012
Linguistica Zero
Rivista del Dottorato in Teoria delle lingue e del linguaggiodell'Università degli studi di Napoli “L'Orientale”
Numero 5/2012
DIRETTORE: Domenico SilvestriREDAZIONE: D. Silvestri, C. Vallini, R. Bonito Oliva, A. MancoCAPOREDATTORE: Alberto MancoCOMITATO DI LETTURA: R. Bonito Oliva, C. Cristilli, A. De Meo, L. di Pace, A. Manco, A.
Martone, C. Montella, R. Pannain, M. Pettorino, G. Raio, D. Silvestri, C. Vallini INDIRIZZO: Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati, via Duomo 319 -
80139 Napoli LINGUA: italiano e inglesePERIODICITÀ: semestraleCONTATTI: tel.: 0816909625 – fax: 0816909631 WEB: www.lz.unior.itISSN: 2038-8675
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INDICE DEL VOLUME
Carmela Auriemma Metodologie ciceroniane di traduzione: il De optimo genere oratorum 3 Rosa Conte Alcune considerazioni sulle lingue in uso presso gli Arabi 14 Azzurra Mancini Prospettive sul linguaggio umano e animale negli studi linguistici:
da Chomsky ad Hurford 48
Valentina Russo La divulgazione linguistica nell’Italia fascista: il tentativo di
Agostino Severino 73 Filippo Silvestri Il linguaggio come condivisione tra innatismo e realizzazione 108 Elena Tavani “Storico” e “linguistico” come elementi del “rivolgimento categorico”.
Esperimenti poetici e politici nell’Empedocle di Friedrich Hölderlin 122
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FILIPPO SILVESTRI
IL LINGUAGGIO COME CONDIVISIONE
TRA INNATISMO E REALIZZAZIONE
È difficile ragionare su che cosa abbiamo in comune, una difficoltà la cui misura si può apprezzare a partire dallo spessore storico e teoretico di un’intera storia dell’umanità, che dal punto di vista filosofico ha ogni volta compreso quanto problematico fosse stabilire in che cosa consistesse la “cosa in sé” dell’umano, come patrimonio condiviso, capace di fare da pilastro nella costruzione di uno stare insieme. La base biologica di questa comune appartenenza ad un genere, per quanto anch’essa misteriosa in ragione dei suoi molteplici funzionamenti, non rappresenta una ragione sufficiente per spiegarsi tutte le convergenze, come ancora le molteplici differenze, che stabiliscono vicinanze e prossimità, distanze e lontananze nella condivisione di un possibile “bene comune”. Fatto sta che in luogo di ogni circostanza politica l’asse per un ragionevole condividere è sempre fatto con materiali eterei o meno (McLuhan 1964) offerti da un linguaggio in quanto mezzo per una relazione dialogica o sempli-‐‑cemente comunicativa, a seconda delle profondità implicate nelle relazioni che ci coinvolgono. Qualunque accordo o disaccordo si misura sul buono o sul cattivo funzionamento di questo strumento della relazione, garante dei rapporti, luogo-‐‑spazio-‐‑tempo di ogni possibile contraddizione, ambiguità, slittamento di senso, come ancora agorà aperta per un possibile sentire comune. Nel cuore di ogni ontologia si può accedere solo a condizione ci si provi in uno studio critico e metalinguistico del mezzo semiotico, che si stabilisce sia ponte tra le differenze. Se sull’origine del linguaggio, è noto, è inutile attardarsi, sulla sua natura è lecito fermarsi per cercare di intendere i meccanismi che lo regolano, laddove le diverse fenomenologie che lo sorreggono sono sempre suscettibili di una nuova indagine, utile a
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provare le ipotesi che vanno per la maggiore, saggiandone la consistenza. In quest’ottica è importante tornare sul alcune posizioni che sono classiche. Ammettiamo allora la possibilità che noi si disponga di un comparto di strutture innate che sono come guaine cognitive ed estetiche, certamente biologiche, parti del nostro cervello e della mente che ne consegue. Questa disposizione innata a significare per segni, così come sostiene Chomsky sia in certo modo articolata (Chomsky 2000), rappresenta una garanzia umana di equità, se la circostanza viene letta in modo politico e non solo da un punto di vista cognitivo. Diversamente da tutta una serie di ragioni che si fanno tradizionalmente risalire a Quine (si pensi tra gli altri anche e soprattutto a Dummett (1973) e alla sua re-‐‑interpretazione del problema) e che si riassumono nella diversità delle lingue e nella loro disposizione reciproca per una traduzione, ammettere una grammatica generativa come patrimonio dell’in-‐‑comune umano, significa rendere indipendente l’essere che parla da un determinismo semiotico e cognitivo, che lo legherebbe secondo le sue capacità linguistiche-‐‑rappresentative all’ambiente, al contesto, alla società familiare e civile, con cui si trova ad avere a che fare, fattori che sarebbero come tali alla stregua di circostanze casuali-‐‑causali, dunque non nelle libere disponibilità intenzionali di chi inizia a parlare. Ancora: far dipendere il rapporto tra le parole e le cose dalle determinazioni storiche e politiche, sociali e antropologiche in cui un uomo si trova ad essere gettato, significa avvalorare una tesi comportamentista. Mi comporto linguisticamente, conducendo una vita che si svolgerà nell’imitazione di quello che mi appare consueto e quotidiano, ordinario, rispettando i diversi ordini del discorso che vanno per la maggiore in quel momento, con tutte le censure che certi steccati linguistici la cosa comporta. Di qui le mie sorti linguistiche resterebbero segnate dalla maggiore o minore fortuna, che mi toccherebbe gestire, a seconda di dove mi è capitato nascere e crescere.
Filippo Silvestri
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Dunque ed a confronto due tesi, che non sono necessariamente in contraddizione: da una parte un apparato linguistico-‐‑cognitivo innato e dall’altra un’esperienza del contesto-‐‑ambiente, in un continuo corto-‐‑circuito fatto di in-‐‑put-‐‑out-‐‑put con il mio software semiotico, che viene sollecitato ad esprimersi in italiano, in giapponese, in inglese, sulla base di certe disposizioni alla costruzione del senso, che sono segnate da limiti e confini paradigmatici, che dettano la correttezza e la scorrettezza delle mie costruzioni linguistiche, delle mie domande, delle mie risposte, come delle inter-‐‑locuzioni che mi vengono proposte, senza che questa disposizione innata alla costruzione di un mondo delle rappresentazioni e dei sensi, implichi il mio essere una macchina, un cyborg, fatto di una materia inorganica. Da un lato, dunque, è lecito ammettere una vita che libera nella sua costituzione materiale, resta legata ad un certo modo di mettere in fila le sue rappresentazioni nominali e verbali, dall’altra un mondo che premia e punisce certi modi di parlare e di scrivere, costringendo il pensiero su una linea magari retta, che nient’altro è se non il modo occidentale della scrittura, secondo un ordine del tempo e dello spazio che in altre parti del mondo (non euro-‐‑americane-‐‑mediterranee) viene diver-‐‑samente interpretato (Havelock 1988). La tesi di Chomsky (nota) è quella della povertà dello stimolo: le straordinarie capacità costruttive dell’umano e la sua disposizione a riconoscere con una certa faciltà-‐‑immediatezza cos’è corretto e cos’è sbagliato nella messa in posa di una serie articolata di enunciati, starebbe a dimostrazione di una certa funzione innata a comportarsi bene dal punto di vista linguistico, con una propensione troppo immediata alla correttezza da rendere poco credibile che tutto questo possa essere il frutto dell’incontro fortunato con un maestro delle buone semiosi. Di contro, quelle che sono tesi che con un certo eufemismo si potrebbero dire “ambientaliste” e che alla conta dei fatti teoretici continuano a basarsi su delle prerogative che sono addebita-‐‑bili ad un certo “comportamentismo”, stabiliscono che l’insegnamento linguistico si con-‐‑figura in un contesto-‐‑sistema aperto e variabile,
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come tale legato ad uno standard dell’azione comunicativa, che sorveglia, premia e punisce il modo di comportarsi semiotico secondi modi che sono caratterizzi da un progressione che avanza per aggiustamenti di “tipo pragmatico”: se certe soluzioni linguistiche non si dimostrano vincenti, perché alla prova dei fatti non si rivelano comode, allora queste sono scartate a favore di ri-‐‑soluzioni che si muovono secondo meccanismi più semplici e quindi come tali più accessibili almeno per la maggioranza. Queste ultime posizioni hanno dalla loro il pregio teoretico di essere sempre sintonizzate con le variabili storiche e sociali, politiche dell’agire comunicativo (Habermas 1981) in un contesto sociale di riferimento con le sue regole e le sue leggi, d’altra parte covando in loro una controparte di difficile gestione, nichilista e scettica, che ammetterebbe, lo ripetiamo in una prospettiva semiotica di condivisione, una serie di varianti a questo punto incerte, che consentirebbero ogni cosa (semiotica) come possibile, accentuando il carattere arbitrario della costituzione lingui-‐‑stica delle cose, oltre la loro dimensione simbolica, riconosciuta dalla notte dei tempi nella determinazione del rapporto tra segno e significato: l’ipotesi di potersi trovare di fronte ad un Humpty-‐‑Dumpty sociale e radicale che dispone a piacer suo della lingua che pretende di condividere, è cosa che rappresenta un problema a cui si è esposti nel momento in cui si nega una prospettiva garantista innata nella costruzione del rapporto con il mondo, sebbene, lo si sa, queste prerogative a priori hanno soprattutto un carattere logico di tipo formale. Le questioni che abbiamo introdotto hanno ovviamente un risvolto di natura epistemologica, secondo un confronto classico tra scienze della natura e scienze dello spirito (umano). Chomsky certamente ritiene che il problema linguistico meriti una cura scientifica e come tale va trattato alla stregua di una qualunque fenomenologia sperimentale: si parte da un’ipotesi e la si verifica a tutto campo, in modo contrastivo, verificando in equipe se certe tesi che valgono per l’inglese, trovino dei riscontri nel giapponese, nel russo, con l’italiano etc. Il problema così
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impostato è di verifica empirica, cui si deve sottoporre una scienza linguistica se vuole restare nel novero delle scienze naturali, reggendo in questo modo il peso di un’esposizione al fallimento, alla smentita, che non consente il tergiversare letterario fine a se stesso. D’altra parte una teoria innatista come quella chomskiana ragiona al limite della conformazione ipotetica del cervello e dunque deve confrontarsi con la psicologia e le scienze cognitive, nella loro ricerca dedita alla mappatura del più fitto mistero fisiologico, quello rappresentato dalla mente umana in ragione della sua predisposizione alla complicazione cognitiva ed estetica nella rappresentazione dell’Io nel suo incontro con il mondo. Searle in una delle sue lezioni raccontava (2009: 25):
«Ho avuto molte conversazioni con Francis Crick quando è passato ad occuparsi di neurobiologia partendo dalla biologia molecolare, e una volta mi disse che trovava la coscienza molto più difficile del DNA e dell’ereditarietà dei caratteri».
Ora, proprio guardando dentro quel segreto-‐‑motore (il cervello, la mente) si nota in fase sperimentale il continuo-‐‑discontinuo alternarsi di luci ed ombre, l’intermittente comparire-‐‑scomparire di una serie di clic, che segnalano l’interessamento di alcune parti del cervello mentre si svolgono certe funzioni linguistiche, diversamente da altre zone che nel frattempo restano al buio perché non “sollecitate”, dove l’alter-‐‑narsi di queste luci-‐‑colori mostra ancora una volta come il cervello-‐‑motore-‐‑mobile di tutte le rappresentazioni dell’umano si possa guardare ed interpretare a partire da una serie di indici (le luci, le ombre, i colori) che dicono che qui ed ora qualcosa avviene, senza che sia possibile attribuire un significato forte di un’interpretazione a quelle luci e a quelle ombre in ragione del loro semplice apparire. Innata sarà pure la disposizione grammaticale alle cose, ma resta un mistero il perché e soprattutto il come tutto si metta insieme fin dall’origine, svolgendosi poi nella maniera sempre sorprendente in cui ogni volta dimostra di sapere funzionare, secondo automatismi che sono della genetica e che restano proprio per questo fuori della
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portata di ogni plausibile cognizione. In ogni caso ed andando oltre questo gioco fatto di luci e di ombre, legato a ragioni “prime” misteriose, certe incapacità dimostrate nella costruzione sintagmatica-‐‑paradigmatica restano a testimonianza di una difficoltà di messa in posa dell’edificio linguistico, se non si rispettano alcune regole che la natura ci impone e tutte queste possibilità ed impossibilità sono un “segno” che dice che il linguaggio è come un “lego” fatto per incastri, che non possono essere forzati, pena l’impossibilità di mettere insieme il puzzle linguistico, che si cerca ogni volta di ri-‐‑costruire nelle forme e nei modi di un quadro ben composto. Rispetto a quanto argomentato, vale d’altra parte la reciproca, nel senso che chi crede ad una prospettiva in qualche modo “comportamentista”, non lo fa per sottrarsi alle sue responsabilità epistemologiche, anzi ed altrettanto decisamente aderisce a questo orizzonte di considerazioni proprio perché condivide la caccia alle streghe novecentesche di chi ancora sostiene una filosofia, che è metafisica della coscienza e delle sue oscurità categoriali, estetiche e cognitive: non è più lecito stare lì a ragionare sul bene o sul male delle cose, se tutto quello di cui si disquisisce non ha un preciso o vago riscontro, comunque osservabile. È uno degli assunti base della psicologia, nella sua presa di distanza dalla filosofia: ciò che studio, lo discuto sulla base di dati che sono osservabili e che fanno riferimento a comportamenti, che possono essere riassunti in dati da laboratorio, a loro volta osservabili. Questa restrizione-‐‑allargamento del campo d’indagine pone come condizione del suo sviluppo un’evidenza visibile, qualcosa e soprattutto qualcuno che si possa vedere mentre si comporta per come si comporta, mentre esclude tutto ciò che non si di-‐‑mostra e non si vede, seconda una dottrina della scienza non solo del linguaggio. Lo sviluppo dell’embrione umano, semioticamente coin-‐‑volto nell’ambiente che lo circonda, è inteso nel suo mostrarsi visibile in un rapporto di “dipendenza” dagli in-‐‑put che lo attraversano e questa definizione della relazione è quanto si può trattare scientificamente, non facendo affidamento su presunte prerogative
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innate, ma solo guardando a quanto si manifesta, per stabilire statisticamente perché certi comportamenti linguistici sono prevalenti, fino a disegnare l’ordine del discorso, che stabilisce come sorvegliare e punire, quanti si abbandonano a comportamenti linguistici, che per la maggioranza (nella migliore delle ipotesi) “risultano” eccentrici. Ci ripetiamo. Tutto questo ordine di considerazioni che fa riferimento ad un “esterno” (se si vuole nel senso di far dipendere “le cose” dalla relazione interno-‐‑mente-‐‑cervello-‐‑coscienza-‐‑esterno-‐‑ambiente-‐‑mondo) non è necessariamente alternativo ad un’ipotesi che ragiona su una struttura innata-‐‑interna, che se fatta in un certo modo, sarà ricettiva per certi versi e non altri, alla luce di un suo sviluppo finale-‐‑maturo, dove certe parti risulteranno ben formate perché continuativamente interessate, mentre altre (pur presenti) saranno inutilizzabili, perché nel frattempo atrofizzate, perché mai sollecitate nell’interscambio che coinvolge l’apparato percettivo umano complessivamente conside-‐‑rato. Certamente data un’esposizione seppur breve al contesto, su questo punto si tende a convergere sia da parte degli “internisti” che degli “esternisti”, questa apertura al mondo consente una rapida acquisizione. Di cosa? Nella prospettiva di Noam Chomsky l’acqui-‐‑sizione in gioco è di un set di etichette da applicare ai parametri concettuali e significativi, referenziali che corrispondono ai nomi e ai verbi, che sono d’altra parte già incasellati nella loro reciproca disposizione nella mente-‐‑cervello, se considerati dal punto di vista logico e significativo in una prospettiva di considerazioni di ordine formale. Insomma e detto altrimenti, il bambino che impara a parlare, non avrà bisogno di nessuno che gli spieghi la difficile metafisica della differenza tra “verità di ragione e di fatto”, perché sa farlo per conto suo anche perché si “rende conto” che non ha alternative, almeno sul punto in questione (circostanza che non è di poco conto). Quando da grande gli sarà spiegata la differenza tra “empirico” e “concettuale” a scuola, farà allora (forse) una certa difficoltà a spiegarsi la cosa, perché è difficile una ri-‐‑flessione su se stessi, su cose che fanno parte della retta postura della propria colonna vertebrale estetica e cognitiva, una
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colonna vertebrale rispetto alla quale qualunque tipo di con-‐‑torsione resta ai limiti del possibile, pena lo smembramento del burattino parlante umano. Ma ammessa e concessa questa disposizione strutturale delle cose semiotiche, in cosa consiste questa particolare articolazione delle ossa linguistiche? Spostando l’asse delle argomentazioni in senso tradizionale sulle tesi che si fanno risalire a Frege (1892), nel novero delle sue ipotesi ricordiamo l’idea di una perfezione simbolica come risultato di una traduzione in segni del ragionamento matematico. Di là da questa traduzione, un pensiero che viva oltre il linguaggio, secondo Frege è certamente ammissibile: che se ne possa parlare, che sia possibile un accesso alle sue strutture-‐‑idee, non è invece circo-‐‑stanza contemplabile, perché non c’è indagine auto-‐‑cosciente, che non passi attraverso il linguaggio con le sue notificazioni, secondo un circolo semiotico da cui non si può uscire (Dummett 1981). Lasciata allora la cosa in sé (pensiero) da parte, spostandosi sulla traduzione simbolica e restando nei suoi cerchi concentrici, è possibile dire della loro struttura concettuale, come di una perfezione compiuta senza buchi né vie di fuga? Anche qui il rastrello simbolico, nonostante le sue maglie naturali, non è in grado di raccogliere tutto quello che si ha la pretesa che trascini. L’obiezione di Russell a Frege (in una lettera che risale al 1902), è nota e mostra la fuga delle classi nella loro disposizione concettuale, non appena ci si domanda chi controlli i controllori, chi guardi i guardiani (Platone nella sua Repubblica) ovvero ed uscendo fuori dalla metafora, quale sia la classe delle classi che sia in grado di riassumerle tutte: la fuga degli interpretanti è in questo caso logico un regresso all’infinito, che lascia aperta la porta per uno spiffero fatto di classificazioni delle classificazioni, in una moltiplicazione periodica dei fenomeni concettuali che resta ingovernabile. La presenza di una struttura del pensiero che parla, non si potrà forse mai negare, ma va fatta salva la circostanza per cui nella sua complessità teoretica, non c’è costruzione nemmeno matematica che voglia rappresentare un pensiero che pensa, che non
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contenga al suo interno delle fughe contraddittorie. Date queste contro-‐‑parti argomentativi che scappano all’orizzonte, se si vuole come vie di fuga fisiologiche per la vita di un pensiero che cresce sulle sue prerogative ed uscendo dalle chimere di una perfezione della “notazione simbolica”, pur riconoscendo il merito dello sforzo di chi la cerca, solo guardando al linguaggio ordinario si nota come lo stesso, pur con tutte le sue imperfezioni, funzioni al meglio nella sua messa in moto pragmatica: le ambiguità e le sfumatura incontrollabili, i doppi sensi e la libertà della significazione, per quanto possano essere disorientanti, non mettono mai in crisi lo strumento dialogico e linguistico nel suo quotidiano srotolarsi. Gli aggiustamenti interlo-‐‑utori che si cercano, finiranno comunque per appoggiarsi al mezzo-‐‑ponte che i due che si parlano, avranno innestato tra le rive dalle quali si dicono quello che vogliono che l’altro intenda. In ogni caso è come se ogni volta si cercasse di stringere il cerchio sul problema della significazione per segni. Come ad esempio fa Kripke (1972), quando individua delle proprietà essenziali della signifi-‐‑cazione, quando ragiona dei nomi propri e delle loro prerogative, dunque di quelle funzioni che ai nomi competono e che li fanno essere dei “nomi propri”, solo di quelle cose, esclusivamente di quelle uniche persone, che così vengono battezzate, nomi propri che, in ragione della loro singolarità eccezionale, sono quei segni che sono e che valgono svolgendo una funzione significativa, che è tutta particolare perché comune e generale e tuttavia ogni volta eccezionale: Luca è quel solo Luca che così viene battezzato, ma può valere e funzionare come etichetta-‐‑nome per tutti i Luca che così saranno chiamati, etichettati, battezzati. Oltre i nomi propri, oltre quelli generali capaci di nominare astrazioni che non esistono (triangoli, scienze, quadrati rotondi), la vita della significazione degli stessi nomi propri si distribuisce per la sua comprensione all’interno di infiniti mondi possibili, in cui valgono certe regole, che non valgono “altrove”. Il mondo è uno solo ovvero con Searle: «[…] come diceva il mio collega Donald Davidson, noi viviamo al massimo in un solo mondo» (Searle
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2009: 23), dove la questione è antropocentrica, nel senso che muovendo da un unico mondo reale sono possibili tutte le sue varianti modali-‐‑modalizzanti. Un mondo è, infatti, possibile quando non è “reale”: la teoria dei mondi possibili è come noto legata alle modalizzazioni in quanto patrimonio di ogni linguaggio, insomma al potrebbe, al dovrebbe, al vorrebbe, insieme all’uso di avverbi modali di chi si pronuncia, senza dire S è p. Il problema del nome proprio e delle descrizione definite, su cui a lungo i logici-‐‑linguisti-‐‑filosofi si sono incontrati (non trovandosi sempre) è ovviamente parte di un’ulteriore differenza che segnala la separazione tra i mondi della realtà e della immaginazione: stiamo nella struttura che ci fa parlare e comportare in certi modi e non altri e tuttavia pur disponendo di questo strumento-‐‑struttura in comune, quando ci troviamo di fronte ad Amleto e al suo “vero” autore Shakespeare, sappiamo di essere a metà strada tra la verità della realtà di Shakespeare e tutte le diverse verità di cui è “protagonista” Amleto, secondo caratteristiche narratologiche che gli possono essere attribuite come no e che aprono un nuovo mondo possibile, dove alcune cose dovranno, potranno, vorranno essere. Resta la differenza tra realtà ed immaginazione, che nessuno può insegnare, resta allo stesso modo una cultura della commedia e delle tragedia, che insegna delle verità ad alcuni che hanno questa fortuna pedagogica, mentre altri saranno destinati alla conoscenza e alla sapienza di altri modi di dire e di raccontare il loro rapporto con il mondo. Poi i due schieramenti dei realisti e degli immaginifici, se si incontrano e vogliono dialogare-‐‑scontrarsi, possono farlo, perché hanno gli strumenti per tradursi nei rispettivi campi avversi. In ogni caso nomi propri e descrizioni definite significano in modo diverso. Il nome sembra funzionare come un’etichetta che viene appiccicata addosso alla cosa che così viene battezzata; nel caso delle “descrizioni determinate” i segni sono legati ad una costituzione del significato che è “complessa”, dove questa complessità dice di un rapporto che non è uno-‐‑a-‐‑uno, ma risponde ad una significazione che implica termini diversi, che concorrono nella loro diversità a diverso
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titolo nella messa in posa del vettore significativo in direzione di una corrispondenza con le “cose”, per cui si potrà dire di una verità, solo avendo “verificato” pezzo per pezzo e nella loro relazione, questa concorrenza significativa nel suo “giusto” funzionamento (Marconi 2008). Date queste differenze della relazione dei significati al mondo, ammessi tutti i paradigmi ed i sintagmi ontologicamente determinati, le coordinate di spazio e tempo finiscono per dare una definizione ulteriore al complesso rapporto tra un io che parla ed il mondo che gli resta lontano perché conficcato ad una distanza, che non potrà essere colmata da nessuna deissi della rappresentazione. Così Amleto resta un nome proprio, ma la sua valenza significativa è “complessa”, perché parte di un’opera, che vale come “l’ambiente” intellettuale in cui si dirà che è vero che Amleto ha fatto certe cose e non altre in un certo spazio-‐‑momento delle vicende che lo vedono protagonista. Dietro quanto detto resta una precisa “divisione del lavoro lingui-‐‑stico” (Putnam 1985): la comprensione di certe espressioni, dunque anche di quelle che “riguardano” Amleto, è nelle mani delle prerogative interpretative di chi sa leggere le opere di Shakespeare, di chi le conosce, di chi sa maneggiarle, salva fatta la circostanza che dietro ogni divisione del lavoro linguistico resta in senso economico e sociale (politico) una divisione ben più profonda, quella del lavoro in senso stretto, che determina da un punto di vista sociolinguistico differenze ed appartenenze, che legano poi le persone a certi ordini e comandi del discorso, a cui difficilmente riescono a sottrarsi (Rossi Landi 1968), dove tutto il discorso fatto sul comportamento e sui margini di dominio-‐‑organizzazione dal punto di vista linguistico, troverebbe un’ulteriore serie di conferme storiche rispetto alla variabile di un comportamento ridotto nelle caselle categoriali del lavoro secondo un ordine della produzione e del consumo linguistico stringenti. D’altra parte non si deve trascurare un’idea fondamentale di Putnam ovvero che il significato, fuori dalla disponibilità che “risieda” semplicemente nella mente, corrisponde ad uno stereotipo che dal punto di vista pragmatico-‐‑cognitivo è nelle mani dei più,
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mentre nel suo valore più complesso dal punto di vista semantico resta una prerogativa degli specialisti del settore. Il dizionario e l’enciclopedia su cui ha ragionato Eco in Kant e l’ornitorinco (1997) sono due concetti, che in qualche modo teoretico assomigliano agli “stereotipi” di Putnam, mentre vanno bene insieme con il taglio esplicitamente economico e politico che alla semiotica del lavoro linguistico ha dato Rossi Landi. Qui in ogni caso (lavorativo) non è questione di un sapere innato, ma di un sapere che si acquisisce, fermi restando dei paletti interpretativi per cui si è in grado da sempre di fare un certo lavoro linguistico, perché siamo uomini e non scimmie, perché siamo capaci di lavorare (in senso interpretativo) diversamente da come fanno le api e dunque siamo tutti in grado, almeno “potenzialmente”, di leggere Amleto, comprendendo il suo agire linguistico, i suoi modi di dire cose vere o false, perché tutti noi (almeno se considerati a partire dalle nostre prerogative naturali) possiamo entrare a far parte del suo “mondo possibile”, del mondo possibile di Amleto, quello immaginato e scritto da Shakespeare. Tutti sappiamo armeggiare con i Sinne e le Bedeutungen che ci ha in-‐‑segnato Frege, tutti sappiamo stare dentro i vettori della significazione della Bedeutung, sapendolo arricchire, quel vettore, di tutti i Sinne che possono essenzialmente riempirlo.
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Filippo Silvestri, “Il linguaggio come condivisione tra innatismo e realizzazione”, LZ 5/2012, pp. 108-‐‑121, ISSN 2038-‐‑8675, [email protected].
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Il linguaggio come condivisione tra innatismo e realizzazione
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