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INCONTRO CON UN’OPERA
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© 2014 - M. Sambugar, G. Salà - Letteratura & oltre
Il romanzo
● La trama Holden Caulfield, figlio di ricchi ebrei di New York,
sa di esere stato espulso dalla famosa e costosa scuola di Pencey,
in Pennsylvania. Prima che la notizia giunga ai suoi genitori,
decide di fuggire. La sua intenzione è di presentarsi a casa dopo
alcuni gior-ni, con l’inizio ufficiale delle vacanze natalizie.
Giunto a New York in treno, finisce in uno squallido albergo. Dopo
essere passato da un nightclub all’altro, al ritorno all’hotel
accetta la proposta di Maurice, l’addetto all’ascensore, di
procurargli una ragazza. Umiliato per la sua timidezza e per il suo
desiderio di mantenere l’innocenza, derubato e maltrattato dal
ruffiano, si sente defraudato e ingannato. Non solo il sesso, ma
anche altri miti lo hanno deluso: il jazz, il teatro e, più di
tutto il cinema, in cui vede una finzione odiosa e inutile.
Vita e opere di Jerome David Salinger
Nato a New York il 1° gennaio 1919, da padre ebreo e madre
irlandese, J.D. Salinger, crebbe in una agiata famiglia borghese.
Come molti degli eroi delle sue opere, fu un «adolescente
diffi-cile» che abbandonò parecchie scuole, compresa un’accademia
navale. Diplomatosi all’Accademia militare «Valley Forge» della
Pennsylvania, nel 1938 andò in Polonia e in Austria dove si
oc-cupò, per conto del padre, dell’importazione di salumi da quei
paesi. Il primo racconto di Salinger, I giovani, uscì nel
1940.Prese poi parte alla seconda guerra mondiale prima come
ser-gente di fanteria, successivamente, dal 1942, come ufficiale
del controspionaggio americano. Nel 1944 fu in Europa, impiegato in
varie azioni militari. A differenza di altri prosatori della sua
generazione, non privilegiò, però, l’esperienza bellica.Alla fine
della guerra, dal 1945 in poi, la sua attività di scrittore lo
impegnò a tempo pieno. I suoi racconti uscirono su varie rivi-ste.
Nel 1950, un anno di grande importanza per la sua carriera, debuttò
sul «New Yorker» con Per Esmé – con amore e squallore, forse il suo
racconto più pienamente riuscito. Questa rivista pub-blicherà poi
la maggior parte dei suoi racconti. Da un altro rac-conto, Zio
Wiggly nel Connecticut (1941), è tratto il film Questo mio folle
amore, con Susan Hayward e Dana Andrews, che ebbe un grande
successo. È l’unico film tratto da un’opera di Salinger il quale
espresse su di esso un giudizio negativo.Il 16 luglio 1951 uscì Il
giovane Holden, che ebbe un successo im-mediato e inatteso.
Salinger ne fu talmente spaventato che pen-sò di fuggire in Europa.
Ma la fuga cui è destinato questo scrit-tore così peculiarmente
americano non è verso luoghi lontani, ma all’interno del «grande
paese», nel suo angolo più esclusivo e autentico: il New England, e
più precisamente il New Hampshire, in una villa fra il verde.
Della vita privata di Salinger si sa ben poco: vi fu un
matrimonio nel 1955, un figlio e una figlia poco dopo, e un
divorzio nel 1967. Lo scrittore, che non rilasciò mai volentieri
interviste, interruppe i contatti col mondo esterno nel 1953. Di
lui ci restano poche frasi “storiche” dette al telefono o sulla
porta di casa a giornalisti cu-riosi: «Sono conosciuto come un uomo
strano, superbo. Natural-mente scrivo ancora. Mi piace perseverare
nella mia vita ritirata, senza fornire informazioni su di essa. Non
pubblicare dà una me-raviglosa pace. Amo scrivere. Ma scrivo per me
stesso, e per il mio piacere. C’è niente di più noioso di uno
scrittore, quando parla?».Dopo il 1951, le pubblicazioni di
Salinger comprendono Nove racconti (1953), apparsi in precedenza,
come numerosi altri, su varie riviste, specialmente il «New
Yorker». Anche qui, come nel Giovane Holden, i ragazzi e il loro
linguaggio sono l’occhio critico, la struttura narrativa e il
veicolo ideologico. A interessi di tipo metafisico (in particolare,
per il buddismo zen) vengono attribu-iti un certo squilibrio di
fondo e una sorta di manierismo che caratterizzano le opere
successive dello scrittore, capitoli ideali di una complessa saga
familiare Franny e Zooey (1961), Alzate l’architrave, carpentieri
(1963), Seymour. Introduzione (1963) e, infine, Hapworth 16, 1924,
l’ultimo racconto apparso sul «New Yorker» nel 1965, prima del
grande silenzio in cui Salinger si chiu-se volontariamente. È una
disperata dichiarazione di impotenza e di umiltà perché scandita
senza alcuna ironia. Si tratta di una lettera scritta ai genitori
da un ragazzino di sette anni, contenen-te un’assurda richiesta di
libri per il campeggio che per pagine e pagine elenca le opere
della scienza e della letteratura del mon-do. È una lista di
letture a cui lo scrittore si arrende e a cui ci rimanda. Salinger
morì nel 2010.
Il giovane Holden
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Il giovane Holden
Neppure una cara amica capisce l’angoscia di Holden, affranto
osservatore dell’esistenza umana che aspira inutilmente a essere un
adulto responsabile. Intanto, nella sua mente le immagine di Allie,
il fratello minore morto di leucemia, continuano a sovrapporsi alla
real-tà. Dopo un incontro segreto con la sorellina Phoebe, Holden
va dal suo vecchio professore di inglese, Mr. Antolini, ma temendo
che questi voglia sedurlo, fugge nella notte e si rifugia alla
stazione centrale. Alla fine, Phoebe, che egli ha voluto vedere
un’ultima volta prima di partire definitivamente per l’ovest, lo
convincerà a ritornare dai genitori i quali non lo «ammazzano»,
come lei temeva, ma lo ricoverano in una clinica affidandolo alle
cure di uno psicanalista.
● I personaggi Holden Caulfield: è il protagonista del romanzo,
con il quale il lettore ado-lescente può identificarsi. È un
giovane sedicenne, molto alto, bruno, con i capelli a spazzola.
L’epoca di Salinger
●● GLI STATI UNITI DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale come la
nazione più potente del mondo, vittoriosa in un conflitto
combattuto fuori dal suo territorio, in grado di godere di gran-di
vantaggi economici e, nello stesso tempo, tanta fortunata da essere
riuscuita a evitare gli enormi danni causati dalle battaglie
terrestri e dalle incursioni aeree. La vecchia politica di
isolazionismo non era più possibile. Nella loro posizione di grande
potenza, gli USA erano costretti a estendere la loro in-fluenza,
anche solo per ragioni economiche, in una parte tan-to grande della
terra per assicurare un mercato adeguato ai prodotti della propria
industria che si era ampliata in modo considerevole durante gli
anni di guerra. Il presidente demo-cratico Harry S. Truman, che
entrò in carica durante gli ultimi mesi di conflitto, dovette
affrontare i primi anni del dopo-guerra arduo compito di impedire
l’espansione sovietica fuori dalle zone stabilite dalla conferenza
di Malta (febbraio 1945) e, contemporaneamente, di mantenere per
gli Stati Uniti l’im-magine di paese «di pace e libertà» come utile
antitesi all’at-trazione sociale esercitata dai paesi comunisti.
L’immagine, tuttavia, non sarebbe stata sufficiente senza il
denaro. Infatti, grazie specialmente, a un vasto programma di
adiuti ai pesi europei (il cosiddetto piano Marshall) e alla firma
di un ac-cordo di mutua difesa (la Nato), l’Europa occidentale si
legò sempre più agli USA, sia economicamente sia politicamente.
Negli anni Cinquanta, che videro le due presidenze (1952-1960) del
repubblicano Dwight Eisenhower, eroe della guerra da pochi anni
terminata, si stabilì fra i due blocchi mondiali – occidentale e
orientale – la «guerra fredda».
●● NUOVO MODELLO DI VITA NEGLI STATI UNITI
Dal punto di vista sociale, il dopoguerra e gli anni Cinquanta
furono un periodo relativamente tranquillo durante il qua-le si
sviluppò un nuovo modello di vita. Molti americani si trasferirono
nei sobborghi dove l’uniformità delle costruzioni
incoraggiava il formarsi di comunità prive di caratteristiche
individuali. La televisione e il cinema divennero la fonte
principali di divertimento. È proprio contro il secondo che Holden,
figlio di una società che disprezza, si scaglia ritenen-dolo
apportatore di falsi messaggi; egli odia le sale cinema-tografiche,
vere e proprie «gabbie di matti», le chilometriche code davanti
all’entrata, la gente elegante che vi si reca la domenica (cap.
XVI).L’istruzione aveva come unico scopo quello di formare i
gio-vani portandoli al successo e inculcando loro il desiderio di
superare i genitori nel reddito e nella posizione sociale.Contro
questo esasperato arrivismo, contro questi falsi valori della
società imbevuta di ipocrisia, si scaglia Holden alla co-stante
ricerca di verità e onestà che raramente trova.
●● LA SCENA LETTERARIA DEGLI ANNI CINQUANTA
Sulla scena letteraria la seconda parte degli anni Quaranta e la
prima degli anni Cinquanta videro l’ulteriore produzione di
scrittori che erano già famosi prima della guerra – come William
Faulkner, Ernest Hemingway e John Steinbeck – e alcune delle opere
di Truman Capote (1924-1984), caratteriz-zate da un’abile fusione
di elementi fantastici e grotteschi, di umorismi e di orrore.
●● LA BEAT GENERATION
Nella seconda metà degli anni Cinquanta si delinea un feno-meno
destinato a incidere profondamente sulla cultura e sul costume: si
tratta della beat generation i cui più noti rap-presentanti sono
Allen Ginsberg (1926-97), il quale con la poesia Urlo (1956) si
opponeva all’influenza distruttiva della civiltà contemporanea
sulle «menti migliori» della sua genera-zione, e Jack Kerouac
(1922-69), il cui romanzo Sulla strada (1957) descrive il
vagabondare senza scopo di due amici at-traverso gli Stati
Uniti.
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Il giovane Holden
Appartiene alla classe sociale medio-alto borghese, ma si
ribella ai suoi codici di comporta-mento, al suo conformismo e alla
sua assenza di valori. Nei suoi rapporti esterni con il pros-simo
desidera, però, piacere ed essere simpatico. Alla ricerca di una
propria identità, rifiuta di «lasciarsi educare». La sua
contestazione quasi totale lo spinge all’alienazione, a seguito
della quale viene sottoposto a un trattamento psicanalitico che lo
riporti alla “normalità”.
Phoebe: è la sorellina di Holden di dieci anni. Ha i capelli
rossi ed è «magra magra, però magra carina». Ama profondamente il
fratello che contraccambia il suo grande affetto. È grazie a lei se
Holden rinuncia al suo piano di fuga definitivo nell’ovest. A
differenza di Hol-den, è molto brava a scuola e non ha problemi di
alcun genere.
Allie: è il fratello minore di Holden, morto di leucemia a
tredici anni. È sempre presente nella mente del protagonista che
parla spesso di lui e «con lui». Aveva due anni meno di Holden, «ma
era cinquanta volte più intelligente» di lui. Aveva i capelli rossi
e «a tavola rideva così forte per qualche cosa che gli girava per
la testa che quasi ruzzolava giù dalla sedia».
D.B.: è il fratello maggiore di Holden e vive a Holliwood dove
lavora scrivendo copioni di film.
Stradlater: è il compagno di stanza di Holden a Pencey. Ha
sempre una gran fretta e tutto è per lui «un affare di stato». Se
ne va spesso in giro a torso nudo perché «è convinto di essere
maledettamente ben piantato» e si liscia sempre per farsi bello
«perché si ama alla follia». È il tipo di bel ragazzo da album
scolastico. Pensa molto alle ragazze e ne ha sempre una da portare
fuori, da «vero mandrillo». Chiede spesso in prestito giacche e
cravatte a Holden che soddisfa sempre le sue richieste.
Ackley: è il ragazzo che occupa la stanza vicina a quella di
Holden. È alto più di un metro e novanta e ha la schiena rotonda «e
certi denti da farti venire il voltastomaco». Ha un brutto
carattere ed è anche un po’ maligno. Non può soffrire il compagno
di stanza di Holden e neppure tutti gli altri, «o giù di lì». Non
gli piace essere chiamato «pivello» perché frequenta l’ultimo anno
di università e non capisce quando Holden gli parla con ironia o
con sarca-smo. È «un bastardo ficcanaso», ma a Holden fa un po’
pena.
Il vecchio Spencer: è il professore di storia di Holden
all’Istituto Pencey. È sulla settantina ed è «tutto piegato in due.
Ma non se la cava poi tanto male». Quando non è in classe, grida
sempre e certe volte «dà sui nervi». Si mette le dita nel naso e
non sta «quasi mai a sentire quando qualcuno gli dice qualche
cosa». Ha, però, pronta una «predica tremenda» per l’a-lunno poco
volonteroso, ma Holden si accorge che il fatto di averlo bocciato
in storia «lo fa sentire un verme».
● La struttura La vicenda si articola in cinque parti.
Prima parte (capitolo I): il narratore-protagonista inizia a
parlare ai suoi lettori. Holden Caulfield, l’io narrante, li
avverte di non avere nessuna voglia di raccontare tutta la sua
«dannata autobiografia». Si limiterà a raccontare «le cose da
matti» che gli sono capitate verso Natale, prima di ridursi «così a
terra» da dovere essere ricoverato nella casa di cura in cui si
trova per ritornare alla “normalità”. Inizia il suo racconto dal
giorno in cui lascia di nascosto l’Istituto Pencey per tornare a
New York, la sua città, essendo stato espulso dalla scuola per
scarso profitto. È sabato pomeriggio e alla scuola si gioca
un’importante partita di rugby che Holden osser-va da un colle
dominante il campo. Si sente solo e triste: la mattina l’incontro
di scherma previsto a New York con la scuola McBurney non ha avuto
luogo perché lui, manager della squadra di Pencey, ha dimenticato
fioretti, equipaggiamento «e tutto» sulla metropolitana.
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Il giovane Holden
Seconda parte (capitoli II-VIII): dalla visita di Holden al
professor Spencer alla fuga del ragazzo a New York. La visita al
professor Spencer – un’alternanza di dialogo fra i due, e di
riflessioni mentali di Holden (una sorta di monologo interiore)
spesso poco lusinghiere per il professore – si conclude con una
serie di consigli e di raccomandazioni da parte dell’insegnante
accolti dal ragazzo con la preghiera di non preoccuparsi per lui.
Holden si reca poi nella sua stanza dove, in attesa della cena,
legge un libro. Viene interrotto prima da Ackley – il ragazzo che
dorme nella stanza accanto alla sua – poi da Stradlater – il suo
compagno di stanza al quale ha promesso di fare un tema
«descrittivo».Dopo cena, all’uscita dalla sala da pranzo, i ragazzi
hanno la sorpresa di trovare il suolo co-perto da un alto strato di
neve e si divertono a «buttarsi palle di neve e a fare i matti
scatena-ti». Quando giunge il momento di fare il tema promesso a
Stradlater, Holden sceglie come argomento la «descrizione» del
guantone di baseball di suo fratello Allie, morto di leucemia un
paio d’anni prima.Stradlater non apprezza l’argomento e Holden
perciò stracciò il foglio senza parlare. Que-sti piccoli gesti sono
significativi perché gettano luce sulla pesonalità del
protagonista, sui suoi sfoghi fanciulleschi, sugli impulsi di
generosità, sui ricordi struggenti, sulle reazioni istintive.Holden
decide improvvisamente di fuggire dalla scuola quella sera stessa:
restare lo fa sen-tire «troppo triste e solo». Andrà a New York e
alloggerà in un albergo economico fino a mercoledì, poi andrà a
casa «riposato e in gran forma». Ha bisogno di una piccola vacanza
perché ha «i nervi a pezzi sul serio».
Terza parte (capitoli IX-XX): dalla Penn Station a Central Park.
Le numerose «avventure» di Holden a New York non sono quasi mai a
lieto fine e il racconto che il ragazzo ne fa è un interessante
contrappunto contrassegnato da intenzioni, situazioni, pensieri,
ricordi, ri-flessioni. Si coglie molto spesso l’angoscia della
solitudine che il narratore cerca di alleviare telefonando a
qualcuno. In particolare, vorrebbe parlare con la sua sorellina
Phoebe, una ragazzina innocente e affettuosa, ma teme che al
telefono rispondano i genitori che ancora non vuole affrontare.
L’unico momento piacevole è la conversazione con due suore alla
ta-vola calda della stazione dove fa colazione dopo una notte molto
movimentata.L’esperienza dell’albergo, la notte precedente – la
stanza «lercia», i «pervertiti e sudicioni» che aveva visto
guardando dalla finestra i vari nightclub nei quali si era recato
durante la notte e dove aveva bevuto alcolici – erano stati
talmente tristi e deprimenti che Holden, pri-ma di addormentarsi,
aveva sentito la «voglia» di suicidarsi buttandosi dalla finestra.
Non lo aveva fatto perché non gli andava che «un mucchio di
ficcanaso» si fermasse a guardarlo «tutto sporco di sangue».
L’avventura con Sally Hayes, una vecchia amica che incontra nel
pomeriggio e lo porta prima a teatro, poi a pattinare sul ghiaccio,
si conclude con un litigio, cosicché Holden se ne va via da solo e,
per passare il tempo, entra in un cinema dove assiste ad un film di
guerra che odia. Entra, poi, in un bar «sofisticatissimo» con un
vecchio compa-gno di scuola e, bevendo alcuni whisky e soda con lui
e parecchi altri da solo, dopo che l’ami-co se ne è andato, si
prende «una solennissima sbornia». È ormai tardi, non sa dove
andare a dormire perché ha speso quasi tutto il denaro. Non è il
desiderio di avventure, quindi, che lo porta a Central Park, un
luogo che gli è assai noto. Ha solo «una malinconia del diavolo».
Si siede su una panchina «tremando come un idioda», e lì, temendo
di prendersi la polmonite e di morire, vive con la fantasia la più
tetra e tormentata delle sue avventure: il suo funerale. Si
risolleva decidendo di andare a casa «a fare quattro chiacchiere
con Phoebe».
Quarta parte (capitoli XXI-XXV): dall’arrivo a casa alla visita
alla giostra con Phoebe. L’avventura con Phoebe è dolce, quasi
sempre piacevole e si conclude con una danza «fan-tastica» che i
due fratelli intrecciano nella casa deserta. È una danza simbolica
in quanto gli adulti ne sono esclusi perché occupati altrove per il
weekend. Ciò che non è piacevole durante l’incontro di Holden e
Phoebe è la preoccupazione della ragazzina, che teme l’ira del
padre alla notizia dell’espulsione del fratello dalla scuola. «Papà
ti ammazza», ripete.
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Il giovane Holden
Quando Holden cerca di rassicurarla e di elencarle i lati
negativi di Pencey, la bambina lo sfida a nominare una sola cosa
che gli piace. E qui, in questo momento clou del romanzo, il
ragazzo rivela forse l’aspetto più significativo della sua
personalità immatura e donchi-sciottesca: ciò che vorrebbe fare è
salvare i giovani in pericolo. Egli immagina sempre tan-ti
ragazzini che fanno una partita di un immenso campo di segale.
L’unico adulto presente è lui, che sta in piedi sull’orlo di un
«dirupo pazzesco» e prende al volo tutti quelli che stanno per
cadere. «Non dovrei fare altro tutto il giorno», afferma. La visita
al professor Antolini, che è stato suo insegnante di inglese e che
egli considera «il miglior professore che abbia mai avuto», è
un’altra avventura spiacevole: le velate proposte omosessuali, che
Holden crede di scorgere nel suo comportamento, lo fanno fuggire
precipitosamente: la sua innocenza è minacciata. Holden decide di
vedere Phoebe un’ultima volta prima di fuggire all’ovest dove
troverà la tranquillità totale nell’incomunicabilità, fingendosi
sor-domuto. La pace, nel sogno, sarà finalmente raggiunta, anche se
il prezzo sarà il silenzio. Ma quando si rende conto che Phoebe
crede in lui e vuole rimanere con lui, messo per la prima volta
davanti a una grossa responsabilità, e sentendosi pieno d’amore per
la sorelli-na, comprende che non può partire. Una visita alla
giostra del parco è l’ultima avventura di quel weekend «pazzesco».
Quell’andare in tondo, gioiosamente a vuoto, piace molto a Phoebe e
procura a lui un’intensa sensazione di allegria che lo induce a
rinunciare defini-tivamente alla partenza e gli permette di
accettare il mondo degli adulti. La sua maturità è vicina. Sta per
verificarsi ciò che il professor Antolini aveva cercato di
comunicargli tramite un biglietto: «ciò che distingue l’uomo maturo
è che vuole umilmente vivere per una causa».
Quinta parte (capitolo XXVI): Holden si congeda dai suoi
lettori. Dopo essere tornato a casa, Holden ha un esaurimento
nervoso dal quale guarisce e può così narrare i giorni drammatici
da lui vissuti e le esperienze a essi legate, ora che si sente
pieno di comprensio-ne per tutte le persone che ha conosciuto,
«perfino per quel maledetto Maurice», l’addetto all’ascensore
dell’Hotel Edmont. Forse in autunno tornerà a scuola, quando sarà
uscito dalla casa di cura.
● Genere e significato Il giovane Holden può essere considerato
il testamento spirituale della generazione americana del
dopoguerra. È un’opera che riassume, attraverso le av-venture del
sedicenne Holden Caulfield, l’assurdità del mondo contemporaneo e
individua nel rifiuto dell’universo degli adulti il primato di
quello dell’adolescenza. Salinger di-mostra nel suo romanzo –
l’unico da lui scritto – una notevole capacità di resa del
linguag-gio parlato e degli atteggiamenti dei giovani negli anni
Cinquanta. Questa immediatezza si intreccia con una simbologia che
consente di inserire i personaggi adolescenti in una problematica
essenziale e spirituale, e di trattare con humour i grandi temi
dell’ideologia nazionale americana. Le giornate «avventurose» che
Holden trascorre nella sua città – New York – dopo essere fuggito
dal collegio, diventano simbolo di tutti i miti americani – jazz,
teatro, cinema e sesso – che si rivelano ingannevoli e deludenti,
tragiche spie del disagio giovanile.Ma che Il giovane Holden sia
anche un romanzo di avventure lo dichiara Holden stesso nella prima
pagina dell’opera, quando dice ai lettori: «Vi racconterò le cose
da matti che mi sono capitate verso Natale». E le racconta
veramente tutte queste sue «avventure» con minuziosa precisione
anche cronologica – dal momento in cui fugge dal collegio a quando
decide, per amore della sorellina, di non partire per sempre, come
aveva intenzione di fare, di non andare «in nessun posto», di
tornarsene a casa. Con il suo berretto rosso da cacciatore messo
sempre di sghimbescio, Holden, costantemente pronto a dichiarare
guerra al «peccato», rappresenta, fra i personaggi del dopoguerra
americano, il tipo neopicaresco: rozza e patetica figura
soli-taria, malinconica e beffarda, eternamente donchisciottesca,
nella tradizione di Huckleberry Finn (1884) di Mark Twain
(1835-1910). Anche Huck Finn, infatti, sfugge ai rischi della
civiltà e dell’«educazione» affrontando la discesa lungo il fiume
Mississippi a bordo di una zattera.
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Il giovane Holden
Ma le avventure di entrambi trascendono il modello picaresco per
farsi iniziazione che, nel caso di Holden si conclude, però, con
l’alienazione. In giro per le strade di New York egli spe-rimenta
quanto profondo sia il disagio esistenziale e quanto lacerante la
propria solitudine.Ma proprio attraverso il sofferto scontro con la
realtà, si avvia una lenta integrazione di Hol-den nel contesto
sociale e il suo ritorno alla «normalità»; l’opera, pertanto, può
essere defini-ta anche un romanzo di formazione. È stato anche
detto a ragione che l’intero romanzo è una specie di lungo
«messaggio in bottiglia» (C. De Petris) – a volte spassoso, a volte
dolente – inviato da Holden, chiuso nella più asettica delle
cliniche, a chiunque lo voglia leggere. È una storia di iniziazione
alla maturità, i cui riti dovrebbero essere regolati da un maestro.
Ma Holden non ha maestri. Sua madre è sempre ammalata e nervosa,
suo padre è impe-gnato negli affari. La sua, quindi, è anche la
storia della ricerca di una figura paterna degna di insegnare e
capace di amare. Ma una ricerca vana attende il ragazzo e il suo
fallimento mette in discussione l’intero sistema pedagogico
americano. I tre personaggi che potrebbero aiutarlo a crescere – il
vecchio Spencer, il cameriere ruffiano Maurice e il professor
Antolini – non sono all’altezza del compito: il primo è vecchio e
ottuso, il secondo gli mostra soltanto miseria, brutalità e
inganno, il terzo gli fa temere ambiguità di intenzione.
● Stile e tecniche narrative Il racconto delle avventure di
Holden è un lungo flashback che copre un periodo di circa tre
giorni da un sabato pomeriggio al lunedì sera. La realtà è filtrata
attraverso il modo di pensare, i sentimenti, la capacità di
giudizio di Holden, protagonista del romanzo e io narrante.Il
racconto è spesso interrotto da riflessioni, ricordi, imprecazioni,
confessioni di debo-lezza e di paura che rappresentano, appunto,
l’altro lato della medaglia: il disagio giovanile che il
protagonista sta vivendo.Il rapporto tra Holden e il lettore inizia
dalle prime parole del romanzo «Se davvero avete voglia di sentire
questa storia...». È un inizio alquanto insolito che sorprende chi
legge per il modo immediato e perentorio che lo caratterizza.
Holden si rivelerà con sincerità ai lettori e nelle sue parole ci
sono spesso umorismo, ironia, sarcasmo e disprezzo per il mondo che
lo circonda. Non manca tuttavia l’autocritica che dimostra il
desiderio di Holden di conoscere se stesso nel profondo.Non mancano
anche nel corso dell’opera mutamenti di atmosfera, di condizione
psicologi-ca. Prostrazione, depressione e nevrosi, dovute al
manifestarsi dell’esaurimento nervoso che colpisce il protagonista,
lasciano il posto, talvolta a sorpresa, imbarazzo e incertezza, cui
fa seguito in certi casi la confessione di pentimento. Il punto di
vista è sempre quello di Holden che racconta, a volte nei minimi
particolari, le visioni lugubri che gli attraversano la mente,
segni di uno stato d’animo tormentato, descritto con convincente
verosimiglianza.Il tono del racconto varia, facendosi di volta in
volta serio, ironico, sprezzante, affettuoso.A poche pagine dalla
fine del romanzo, Holden si rivolge ancora direttamente ai lettori
per metterli in guardia dal desiderio di narrare la propria storia.
Il cerchio si è chiuso: Holden nella casa di cura, sta lentamente
imparando ad accettare il mondo degli adulti: le sue ulti-me parole
al lettore rivelano l’inizio di un processo di maturazione.Il
giovane Holden si distingue anche per il particolare linguaggio,
colloquiale e gergale, tipico dei ragazzi che frequentano il
college (college slang), ricco di modi di dire e infarcito di
parole volgari.
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Il giovane Holden
È l’inizio dell’opera e il protagonista – il giovane Holden –
che è anche il narratore, si presen-ta ai lettori. Parla di sé, ma
fa una scelta volontariamente limitata di ciò che narrerà: il suo
racconto, infatti, riguarda in questo brano ciò che gli accade
nelle poche ore che precedono l’abbandono della costosa scuola
privata che lo ospita, in Pennsylvania.
Il giovane Holden, cap. I
Il giovane Holden si presenta ai lettori
Contenuti
┛┛ La spregiudicatezza verso la famiglia
┛┛ Critica all’istituzione scolastica
Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete
sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia
schifa e che cosa face-vano i miei genitori e compagnia bella prima
che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David
Copperfield1, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella
roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio
d’infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro
conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto
mio padre. Cari-ni e tutto quanto – chi lo nega – ma anche
maledettamente suscettibili. D’al-tronde, non ho nessuna voglia di
mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e
compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi
sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da
dovermene venire qui a grattarmi la pancia2. Niente di più di quel
che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fratello e quel
che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo
lurido buco, e viene qui a trovarmi prati-camente ogni fine
settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il
mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei
gingilli inglesi che arrivano sui trecento all’ora. Gli è costata
uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lì. È pieno di
soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena
regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di
racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l’avete mai
sentito nominare. Il più bello di quei racconti era Il pesciolino
nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a
nessuno il suo pesciolino rosso perché l’aveva comprato coi soldi
suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D.B., a
sputtanarsi. Se c’è una cosa che odio sono i film. Non me li
nominate nemmeno. Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che
lasciai l’Istituto Pencey. L’Istituto Pencey è quella scuola che
sta ad Agerstown in Pennsylvania. Pro-babile che ne abbiate sentito
parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se
non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c’è
sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a
Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io
di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni. E
sotto quel tipo a cavallo c’è sempre scritto: «Dal 1888 noi
forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare». Buono per i
merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nel-le
altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse
splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi.
Seppure. E probabilmente erano già così prima di andare a
Pencey.
1. David Copperfield: protago-nista dell’omonimo romanzo di
Charles Dickens (1812-1870).2. grattarmi la pancia: oziare.
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Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby con Saxon
Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato.
Era l’ultima partita dell’anno e pensavano che dovevi per lo meno
ammazzarti se il vecchio Pen-cey non vinceva. […] Io me ne stavo là
sulla Thomsen Hill, e non giù alla partita, per il semplice motivo
che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero
lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di
stato. La mattina eravamo andati a New York per quell’incontro con
la Scuola McBur-ney. Ma l’incontro non c’era stato. Avevo lasciato
fioretti3, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della
malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi
per guardare quella carta, se no non sapevamo dove scendere. Sicché
eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l’ora
di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva
messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci. L’altro
motivo per cui non mi trovavo giù alla partita era che dovevo
anda-re a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia.
Aveva l’influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente
non l’avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale.
Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima
che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey. Questo
mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo
Natale non dovevo più tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro
materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito
tante volte di metter-mi a studiare – specie a metà trimestre,
quando i miei erano venuti a parlare col vecchio Thurmer4 – ma io
niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo
che liquidino qualcuno. È una scuola ad alto livello, Pencey.
Altroché. Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l’aria era
fredda come i ca-pezzoli di una strega, specie sulla cima di quel
cretino d’un colle. Io addosso avevo soltanto il cappotto
doubleface5 senza guanti né altro. La settimana prima, qualcuno era
andato fino in camera mia a rubarmi il cappotto di cammello, coi
guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey
c’erano un sacco di farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da
famiglie ricche sfondate, ma c’erano un sacco di farabutti lo
stesso. Una scuola, più costa e più farabutti ci sono – senza
scherzi. Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel
cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo
che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lì era perché
cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che
ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo
lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non
me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo,
che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.
da Il giovane Holden, trad. A. Motti, Torino, Einaudi, 1961
3. fioretti: spade sottili e fles-sibili, prive di taglio usate
negli incontri di scherma.
4. Thurmer: il preside della scuola.5. doubleface: si dice di
indumen-ti che possono essere reversibili.
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Il giovane Holden
PER LAVORARE SUL TESTO
●● L’inizio alquanto insolito del brano (e del romanzo)
sor-prende i lettori, che raramente si sentono apostrofare da un
narratore-protagonista in modo tanto immediato e perento-rio.
Holden ha le idee molto chiare su tutto ciò che lo circon-da e su
chi gli sta vicino. È spregiudicato a parole verso la sua famiglia,
ma si avverte, in fondo, un affetto sincero per i genitori e
specialmente per il fratello maggiore che chia-ma D.B. Per la
scuola elegante e costosa che lo ha «sbattuto
fuori» prova, invece, soltanto antipatia e perfino disprezzo,
Holden si potrebbe definire un contestatore totale; per lui, tutto,
o quasi tutto, è storto. Eppure, non c’è solo questo in lui, c’è
anche un lato «sentimentale» che si manifesta nell’af-fetto per la
famiglia. Sorprende il lettore anche il linguaggio di Holden –
popolaresco e grossolano – che riproduce con notevole precisione
quello dei giovani americani degli anni Cinquanta.
Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A
VERSO L’ESAME
COMPRENSIONE DEL TESTO
L’infanzia di Holden1. Quale aggettivo usa il
protagonista-narratore per defi-
nire la propria infanzia? Perché?
La famiglia2. Di quali membri della sua famiglia parla Holden?
Qua-
li sentimenti esprime verso di loro?
L’espulsione dalla scuola3. Holden è stato espulso dall’Istituto
Pencey. Come lo
comunica ai lettori?
David Copperfield4. Chi è David Copperfield e perché il
narratore vi fa ri-
ferimento?
La partita di rugby5. Holden non va alla partita di rugby della
sua scuola
per due ragioni: quali?
ANALISI DEL TESTO
Il narratore6. Il narratore della vicenda è esterno o interno,
onni-
sciente o non onnisciente?
Holden racconta ai lettori qualcosa della sua vita nell’Istituto
Pencey. Ricorda in particolare due compagni: Ackley, che dorme
nella stanza accanto alla sua, e Stradlater, che divide con lui la
stanza. Ackley suscita spesso l’ironia e il sarcasmo del
protagonista. A Holden non piace neppure Stradlater che è molto
disinvolto e ama la compagnia femminile. Essendo meno bravo di lui
in inglese e dovendo uscire con una ragazza, gli chiede di fargli
un tema su qualunque argomento, purché sia descrittivo. Holden a
malincuore accetta. Stradlater se ne va felice al suo appuntamento
con Jane Gallagher, una ragazza che il narratore conosce e con la
quale ha giocato per ore a dama. Holden è molto disturbato da
questa idea.
IL FILO DEL RACCONTO
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Il giovane Holden
È sabato sera e ora di cena. È caduta molta neve. Holden, che
non ha la ragazza, decide di uscire con un compagno. Poi scriverà
il tema che gli ha chiesto Stradlater.
Il giovane Holden, capp. V e VI
Un sabato sera in collegio
Contenuti
┛┛ La sofferenza di Holden per la morte del fratello
A Pencey, il sabato sera, la cena era sempre la stessa. E
siccome ti davano la bistecca passava per un avvenimento. Scommetto
mille sacchi1 che ce la davano solo perché la domenica venivano a
trovarci caterve di genitori, e il vecchio Thurmer probabilmente si
figurava che tutte le madri avrebbero domandato ai loro diletti
rampolli che cosa avevano mangiato a cena la sera prima e loro
avrebbero risposto «Bistecca». Bella fregatura. Dovevate vedere
quelle bistecche. Certi affarini duri e risecchiti che non riuscivi
nemmeno a tagliarli. E la sera della bistecca ti davano sempre
quella purea di patate tutta gnocchi, e per dolce la marronata che
nessuno mangiava, tolti forse i ragazzini delle prime classi che
non capivano niente – e i tipi come Ackley che mangiavano qualunque
cosa. Però fu bello quando uscimmo dalla sala da pranzo. C’erano
dieci cen-timetri di neve per terra, e continuava a venirne giù un
sacco e una sporta. Era uno spettacolo fantastico, e cominciammo
tutti quanti a buttarci palle di neve e a fare i matti scatenati.
Una cosa da asilo di infanzia, ma ci divertiva-mo un mondo. Io la
ragazza non ce l’avevo, così con quell’amico mio, Mal Brossard, che
era uno della squadra di lotta, decidemmo di prendere un autobus
fino ad Agerstown per andare a mangiarci un hamburger e magari a
vederci un qual-che schifo di film. Né lui né io ce la sentivamo di
restarcene tutta la sera come due cretini. Mancava solo un quarto
alle nove quando tornammo in dormitorio. Il vecchio Brossard aveva
il pallino del bridge e si mise a girare tutto il dormito-rio per
combinare una partita. Dopo che se n’era andato, mi misi il
pigiama, la vestaglia e il mio vecchio berretto da cacciatore e
cominciai a fare il tema. Il guaio era che non mi riusciva di
pensare né a una stanza, né a una casa né a niente da descrivere ,
come mi aveva detto di fare Stradlater. Non è che descrivere le
stanze e le case mi mandi in estasi, comunque. Sicché andò a finire
che feci il tema sul guantone di baseball di mio fratello Allie.
Era un argomento molto descrittivo. Dico davvero. Mio fratello
Allie, dunque aveva quel guantone da prenditore, il sinistro. Lui
era mancino. La cosa descrittiva di quel guanto, però, era che
c’erano scritte delle poesie su tutte le dita e il palmo e
dappertutto. In inchiostro verde. Ce le aveva scritte lui, così
aveva qualcosa da lettere quando stava ad aspettare e nessuno
batteva. Ora è mor-to. Gli è venuta la leucemia ed è morto quando
stavano nel Maine, il 18 luglio del 1946. Vi sarebbe piaciuto.
Aveva due anni meno di me, ma era cinquanta volte più intelligente
di me. Era di un’intelligenza fantastica. I professori non facevano
che scrivere a mia madre per dirle com’erano contenti di avere in
classe un ragazzo come Allie. E non è che facessero tanto per dire.
Dicevano sul serio. Ma non era soltanto il più intelligente della
famiglia. Era anche il più simpatico, in centomila modi. Non
perdeva mai le staffe con nessuno. Dicono che i rossi di capelli
perdono le staffe molto facilmente, ma Allie mai,
1. mille sacchi : mille dollari.
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Il giovane Holden
ed era rossissimo. Ora vi dico che specie di rosso era Allie. Io
ho cominciato a giocare a golf che avevo solo dieci anni. Mi
ricordo che una volta, l’estate che ero sui dodici anni, stavo per
dare il colpo eccetera eccetera, e mi è ve-nuto come un lampo che
se mi giravo di scatto vedevo Allie. Mi son girato, ed eccotelo là,
stava seduto sulla sua bicicletta dall’altra parte dello steccato –
c’era quello steccato che girava tutt’intorno al campo – e lui
stava seduto là, a duecento metri da me, a guardarmi tirare. Ecco
che razza di rosso era Allie. Dio, era un ragazzo in gamba, però. A
tavola rideva così forte per qualche cosa che gli girava per la
testa, che quasi ruzzolava giù dalla sedia. Aveva solo tredici anni
e loro volevano farmi psicanalizzare e compagnia bella perché avevo
spaccato tutte le finestre del garage. Non posso biasimarli. No,
fran-camente. Ho dormito nel garage, la notte che lui è morto, e ho
spaccato col pugno tutte quelle dannate finestre, così, tanto per
farlo. Ho tentato anche di spaccare tutti i finestrini della
giardinetta che avevamo quell’estate, ma a quel punto mi era già
rotto la mano eccetera eccetera, e non ho potuto. È stata una cosa
proprio stupida, chi lo nega, ma io quasi non sapevo nemme-no
quello che stavo facendo, e poi voi non conoscevate Allie. La mano
ogni tanto mi fa ancora male, quando piove e compagnia bella, e io
non posso più stringere il pugno – ben stretto, voglio dire – ma
tolto questo non me ne importa molto. Voglio dire che in qualunque
caso non diventerò mai un dan-nato chirurgo e nemmeno un violinista
né niente. Ad ogni modo, ecco su che cosa feci il tema di
Stradlater. Il guantone di baseball del vecchio Allie. Per caso
l’avevo là nella valigia, così lo tirai fuori e copiai le poesie
che c’erano scritte sopra. Non dovetti far altro che cambiare il
nome di Allie, in modo che nessuno capisse che era mio fratello, e
non il fratello di Stradlater. Non è che quel tema mi mandasse
molto in estasi, ma non mi veniva in mente nient’altro di
descrittivo. Del resto, mi andò abba-stanza a genio di scrivere
quella storia. Mi ci volle un’oretta, perché dovetti usare quella
schifa macchina da scrivere di Stradlater che continuava a pian-tar
grane. La mia l’avevo prestata a un ragazzo che stava in fondo al
corrido-io, ecco perché non potevo usarla. Finii che erano circa le
dieci e mezzo. Non ero stanco, però, così me ne re-stai per un po’
guardare fuori della finestra. Non nevicava più, ma ogni tanto
potevi sentire una macchina chi sa dove che non riusciva a mettersi
in moto. Potevi sentire anche il vecchio Ackley che russava.
Attraverso quelle dannate tende della doccia, potevi sentirlo.
Aveva la sinusite, e quando dormiva non respirava tanto bene. Le
aveva tutte lui, quello là. Sinusite, foruncoli, denti schifi,
alito cattivo, unghie sozze. Come facevi a non compatirlo un po’,
quel-lo svitato figlio di puttana. [...]
Quando Stradlater ritorna in collegio, dopo aver trascorso la
serata fuori con una ragazza, si interessa del suo tema.
Mentre si toglieva la cravatta, mi domandò se avevo fatto il suo
maledetto tema. Io gli dissi che stava sul suo dannatissimo letto.
Lui andò a prenderlo e lo lesse, sbottonandosi la camicia. Stava lì
in piedi a leggerlo e si accarezzava un po’ il petto e lo stomaco,
con quell’idiotissima espressione sulla faccia. Stava sempre ad
accarezzarsi lo stomaco o il petto, lui. Si piaceva alla follia.
Tutt’a un tratto disse: – Cristo santo, Holden. Quest’accidente
parla di un maledetto guantone da baseball. – E allora? – dissi io.
Freddo come il ghiaccio. – Che vuol dire, e allora ? Ti avevo detto
che doveva parlare di una stanza o di una casa o di un accidente
così.
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Il giovane Holden
– Hai detto che doveva essere descrittivo. Che ti frega se parla
di un guan-tone da baseball? – Dio lo stramaledica –. Aveva un
diavolo per capello. Era addirittura fu-rioso. – Tu fai sempre
tutto a culoverso –. Mi guardò. – Naturale che ti sbattono fuori da
qui, – disse. – Mai che tu faccia una dannata cosa come va fatta.
Dico sul serio. Mai neanche una dannata cosa-– Benissimo,
ridammelo, allora, – dissi. Gli andai vicino e glielo tolsi da
quel-la maledetta mano. Poi lo strappai. – Perché diavolo l’hai
strappato? – disse lui. Non gli risposi nemmeno. Mi limitai a
buttare i pezzi nel cestino della carta; poi mi sdraiai sul
letto.
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PER LAVORARE SUL TESTO
●● Interessante rilevare quanto vivo sia in Holden il ricordo
del fratello minore morto di leucemia. È il guanto da baseball di
Allie che Holden sceglie come argomento del tema. Ciò che viene
ricordato con struggente nostalgia è il ragazzino scomparso, ben
diverso dal narratore, migliore di lui da tutti i punti di vista.
Alla sua morte Holden ebbe una reazione tal-mente violenta da
mettere in pericolo la propria incolumità
fisica. È passato del tempo da quel triste momento, ma Allie è
ancora presente nella mente e nel cuore del protagonista e la
descrizione del guanto gli «va a genio». La reazione di Stradlater
alla lettura del tema «descrittivo» scelto dall’amico è dettata
dall’ira, ma non poteva essere diversa se si pensa che il compagno
di stanza di Holden è un ragazzo superficia-le, vanitoso e privo di
sensibilità.
Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A
VERSO L’ESAME
COMPRENSIONE DEL TESTO
Il riassunto1. Riassumi il testo in circa 8 righe.
Sabato sera2. Che cosa pensa Holden del sabato sera a Pencey?
Quel
sabato sera è rallegrato da qualcosa di insolito. Come accolgono
la novità i ragazzi?
Holden e la morte di Allie3. Come viene descritto da Holden
Allie? Che cosa rivela
del carattere di Holden quella descrizione?
Il tema strappato4. Holden strappa il tema criticato dal
compagno: quale
aspetto del suo carattere emerge da questa reazione?
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Il giovane Holden
Sdraiato sul letto, Holden cerca di sapere che cosa abbia fatto
il compagno con Jane Gallagher. Sente di odiar-lo e comincia a
insultarlo incurante delle proteste dell’altro e delle sue
richieste di smetterla. Stradlater gli sferra allora un pugno che
lo stende a terra e gli fa sanguinare abbondantemente il naso.
Holden passa nella stanza di Ackley, si sdraia sul secondo letto
della stanza «a pensare a Jane e tutto quanto». Poi esce nel
corridoio che gli sembra «silenzioso e deprimente da morire». È a
questo punto che Holden decide di fuggire: prenderà il treno e
andrà a New York, ma non si recherà subito a casa.Giunto a New
York, Holden vorrebbe telefonare a qualcuno, ma non riesce a
pensare a chi. Prende allora un taxi e si fa portare all’Edmont, un
albergo squallido, pieno di «pervertiti e sudicioni», come presto
scopre. Dopo aver fatto alcune telefonate poco soddisfacenti, va al
nightclub dell’albergo, dove balla, beve e, all’ora di chiu-sura,
si siede nell’atrio e pensa con nostalgia a Jane Gallagher, «la
vecchia Jane». Poi va in un altro nightclub e, finalmente, torna
all’albergo. Il giorno dopo è domenica. Holden telefona a Sally
Hayes, una vecchia amica, la porta a pattinare sul ghiaccio, poi
stanco dell’ipocrisia che incontra dappertutto, le chiede di
fuggire con lui nell’aperta campagna nel New England. Questo
progetto poco realistico fa adirare Sally che lo rifiuta con
fermezza suscitando nel suo compagno una reazione violenta che si
manifesta con parolacce. I due litigano; Holden lascia Sally alla
pista di pattinaggio e va prima a vedere un film che, naturalmente,
non gli piace, poi al bar a ubriacarsi. Entra in seguito in una
cabina telefonica del locale, chiama Sally e si riconcilia con
lei.
IL FILO DEL RACCONTO
Dopo aver fatto la pace con l’amica Sally, Holden, ubriaco,
rimane nella cabina telefonica perché a fatica si regge in piedi.
Non sa che cosa fare.
Il giovane Holden, cap. XX
Pensieri di morte
Contenuti
┛┛ La solitudine e la depressione di Holden
Restai in quella dannata cabina telefonica per un pezzo.
Continuavo a reg-germi al telefono, in certo qual modo, se no
crollavo. Non mi sentivo in gran forma, se volete proprio saperlo.
Finalmente, però, uscii di là e andai alla toletta degli uomini,
rullando come un cretino, e riempii un lavabo di acqua fredda. Poi
ci tuffai dentro la testa fino alle orecchie. Non mi curai nemmeno
di asciugarla né niente. Che quella figlia di puttana gocciolasse,
amen. Poi andai al termosifone vicino alla finestra e mi ci sedetti
sopra. Era caldo e gra-devole. Mi faceva sentir bene perché stavo
tremando come un idiota. È una cosa buffa, quando mi sbronzo tremo
sempre a tutto spiano. Non avevo nient’altro da fare, sicché me ne
restai seduto sul termosifone a contare quei piccoli riquadri
bianchi del pavimento. Mi stavo inzuppando. L’acqua mi gocciolava
sul collo a litri e finiva tutta sul colletto e sulla cravatta e
compagnia bella, ma non me ne importava un accidente. Ero troppo
ciucco per badarci. [...] Quando alla fine scesi dal termosifone e
mi diressi al guardaroba, stavo piangendo e tutto quanto.
Vattelappesca perché, ma piangevo. Forse perché mi sentivo così
maledettamente solo e depresso, immagino. Poi, quando ar-rivai al
guardaroba, Dio solo da dove avevo messo quel maledetto scontrino.
La ragazza del guardaroba fu molto carina, però. Mi diede il
soprabito lo
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Il giovane Holden
stesso. E il mio disco di Little Shirley Beans1 – che ce l’avevo
ancora e via di-scorrendo. Le diedi un dollaro perché era stata
così carina, ma lei non volle prenderlo. Continuava a dirmi di
andare a casa e di mettermi a letto. Feci qualche tentativo di
darle un appuntamento per quando smontava dal lavo-ro, ma lei non
volle. Disse che era abbastanza vecchia per essere mia madre e via
discorrendo. Io le feci vedere i miei stramaledetti capelli bianchi
e le dissi che avevo quarantadue anni – per scherzo, naturalmente.
Era carina, però. Le feci vedere quel mio dannato berretto rosso da
cacciatore e le piacque. Prima che uscissi me lo fece mettere
perché avevo ancora i capelli fradici. Era proprio in gamba. Quando
uscii non mi sentivo più tanto sbronzo, ma era tornato un gran
freddo e cominciai a battere i denti come un dannato. Non riuscivo
a tratte-nermi. Andai fino alla Madison Avenue e mi misi ad
aspettare un autobus, perché non avevo quasi più soldi e dovevo
cominciare a far economia sui tassi e via discorrendo. E del resto,
non sapevo nemmeno dove andare. Così andò a finire che mi
incamminai verso il parco. Mi venne l’idea di andare a quel
laghetto per vedere che diavolo facessero le anitre, se c’erano o
no. Ancora non sapevo se c’erano o no. Il parco non era molto
lontano e io non avevo nessun altro posto dove andare – non sapevo
nemmeno dove sarei andato a dormire – così andai là. Non avevo
sonno né niente. Avevo solo una malinconia del diavolo. Poi,
proprio mentre entravo nel parco, successe una cosa terribile. Mi
cadde di mano il disco della vecchia Phoebe. Si ruppe in cinquanta
pezzi a dir poco. Era in una grossa busta tutto quanto, ma si ruppe
lo stesso. A mo-menti piangevo, mi sentivo in un modo terribile, ma
non feci altro che tirare fuori pezzi dalla busta e mettermeli
nella tasca del soprabito. Non servivano più a un accidente, ma non
me la sentivo di buttarli via. Poi andai nel parco. Ragazzi, che
buio! Ho passato a New York tutta la mia vita e conosco Central
Park come le mie tasche, perché da bambino ero sempre là a
pattinare e a scorrazzare in bicicletta, ma quella notte sudai
sette camicie a trovare quel lago. Sape-vo benissimo dov’era – era
proprio a due passi da Central Park South e via discorrendo – ma
non mi riusciva di trovarlo. Dovevo essere più ciucco di quanto
credessi. Continuavo a camminare, un passo dietro l’altro, e
intor-no a me tutto diventava sempre più buio e sempre più
spettrale. Non vidi un’anima per tutto il tempo che restai nel
parco. Meglio così. Probabilmente avrei fatto un balzo di almeno un
chilometro, se avessi incontrato qualcuno. Poi, alla fine, lo
trovai. Era mezzo gelato e mezzo no, ecco com’era. Ma non vidi
nemmeno un’anitra. Feci tutto il giro di quel maledetto lago – a un
certo punto per poco non ci cascavo dentro, anzi – ma non vidi
un’anitra neanche a pagarla. Pensai che forse non ce n’erano, come
niente dormivano o che so io vicino all’orlo dell’acqua, vicino
all’erba e compagnia bella. Fu così che per poco non ci cascavo
dentro. Ma non ne trovai neanche una. Alla fine mi sedetti su
quella panchina, e là non c’era quel buio d’inferno. Ragazzi, stavo
ancora tremando come un idiota, e con tutto che avevo in testa il
mio berretto da cacciatore i capelli dietro, mi si erano come
riempiti di pic-coli pezzetti di ghiaccio. Questo mi preoccupava.
Come niente mi prendevo la polmonite e morivo, pensai. Allora mi
misi a figurarmi i milioni di balordi che sarebbero venuti al mio
funerale eccetera eccetera. Mio nonno di Detroit, quello che quando
andate in autobus con lui dice forte i numeri delle strade, e le
mie zie – ho una cinquantina di zie – e tutti quei pidocchiosi dei
miei cugini. Che ciurma ci sarebbe stata! Vennero tutti quando morì
Allie, tutta quella dannata banda di cretini. Ho quella zia cretina
con l’alito cattivo che
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701. il mio disco ... Beans: un disco che Holden ha comprato per
la sorelli-na Phoebe.
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Il giovane Holden
non la finiva più di dire che Allie aveva un’aria così serena,
lì disteso. Me l’ha raccontato D.B. Io non c’ero. Stavo ancora in
ospedale. Ero dovuto andare in ospedale e tutto quanto, dopo
essermi fatto male alla mano. Ad ogni modo continuavo a
preoccuparmi che stavo buscandomi una polmonite, con tutti quei
pezzetti di ghiaccio nei capelli, e che sarei morto. Mi dispiaceva
enorme-mente per mia madre e mio padre. Soprattutto per mia madre,
perché non si era ancora ripresa dopo mio fratello Allie.
Continuavo a raffigurarmela che non sapeva cosa fare di tutti i
miei vestiti e l’attrezzatura sportiva e compa-gnia bella. Una sola
cosa andava bene: sapevo che non avrebbe permesso alla vecchia
Phoebe di andare al mio maledetto funerale perché era soltanto una
ragazzina. Questa era l’unica cosa che andasse bene. Poi pensai a
tutti loro in gruppo che mi ficcavano in un dannato cimitero e via
discorrendo, col mio nome sulla lapide, e via discorrendo. In mezzo
a tutti quei morti. Ragazzi, quando morite vi servono di tutto
punto. Spero con tutta l’anima che quando morirò qualcuno avrà
tanto buonsenso di scaraventarmi nel fiume o qualco-sa del genere.
Qualunque cosa, piuttosto che ficcarmi in un dannato cimite-ro. La
gente che la domenica viene a mettervi un mazzo di fiori sulla
pancia e tutte quelle cretinate. Chi li vuole i fiori, quando sei
morto? Nessuno. Quando fa bel tempo, i miei genitori vanno
spessissimo a mettere un maz-zo di fiori sulla tomba del vecchio
Allie. Sono andato con loro un paio di volte, poi ho smesso. Tanto
per cominciare, non mi diverte proprio vederlo in quel cimitero
pazzesco. In mezzo ai morti e alle tombe e compagnia bella. Ancora
ancora quando c’era il sole, ma ben due volte – due volte – eravamo
là quando cominciò a piovere. Era spaventoso. Pioveva sulla sua
lapide schifa, e pioveva sull’erba sulla sua pancia. Dappertutto,
pioveva. Tutti quelli che erano andati a visitare il cimitero si
misero a correre a gambe levate verso le loro automobili. Fu questo
a farmi quasi impazzire. Tutti quelli che erano andati a visitare
il cimitero si misero a correre a gambe levate verso le loro
automobili. Fu questo a farmi quasi impazzire. Tutti quanti
potevano entrare nelle loro automobili e aprire la radio e tutto
quanto e poi andare a cena in qualche posto gradevole – tutti,
fuorché Allie. Non potevo sopportarlo. Lo so che al cimitero c’è
soltanto il suo corpo eccetera eccetera e che la sua anima è in
cielo e tutte quelle cretinate, ma non potevo sopportarlo lo
stesso. Vor-rei soltanto che non fosse là. Voi non lo conoscevate.
Se l’aveste conosciuto, capireste cosa voglio dire. Ancora ancora
quando c’è il sole, ma il sole viene fuori quando gli gira. Dopo un
po’, tanto per togliermi dalla testa quell’idea che mi buscavo la
polmonite e via discorrendo, tirai fuori i miei soldi e mi misi a
contarli alla luce schifa dal lampione. Tutto quello che mi restava
erano tre colpi da uno2, cinque da un quarto e un nichel3 –
ragazzi, avevo spesso un patrimonio da quando ero partito da
Pencey. Allora andò a finire che mi avvicinai al lago e feci a
rimbalzello con le monete da un quarto e il nichel, là dove non
c’era il ghiaccio. Perché lo feci non lo so, ma so che lo feci.
Forse pensavo che mi avrebbe tolto dalla testa quell’idea di
buscarmi la polmonite e di morire, im-magino. Però non me la tolse.
Cominciai a pensare che effetto avrebbe fatto alla vecchia Phoebe
se mi fossi buscato la polmonite e fossi morto. Erano idee da asilo
infantile, ma non riuscivo a smettere. Sarebbe stata molto male se
fosse successa una cosa simile. Le vado proprio a genio. Voglio
dire, mi vuole molto bene. Sul serio. Ad ogni modo, non riuscivo a
togliermi dalla testa quell’idea, sicché alla fine mi venne in
mente quello che avrei fatto, mi venne in mente che era meglio se
andavo a casa di nascosto e vedevo Phoebe, nell’ipotesi che fossi
morto e via discorrendo. Avevo la mia chiave e tutto quanto, sarei
entrato di nascosto
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2. tre colpi da uno: tre pezzi da un dollaro.3. un nichel: un
cente-simo di dollaro.
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Il giovane Holden
nell’appartamento, piano piano e tutto quanto, e mi sarei
fermato il tempo di far quattro chiacchiere con lei. L’unica cosa
che mi preoccupava era la porta d’ingresso. Cigola come una
dannata. È una casa piuttosto vecchia, la nostra, e
l’amministratore è un bastardo sfaticato, e tutto cigola e
scricchiola. Avevo paura che i miei genitori mi sentissero entrare.
Ma decisi che avrei tentato lo stesso. Così me ne uscii subito dal
parco e andai a casa. Feci tutta la strada a pie-di. Non era tanto
lontano, e io non ero stanco e nemmeno più sbronzo. C’era solo un
freddo terribile, e nemmeno un cane in giro.
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PER LAVORARE SUL TESTO
●● Il brano si articola in tre parti:Nella prima parte Holden,
che è ubriaco, cerca di riprender-si tuffando la testa nell’acqua
fredda. Dopo aver lasciato il bar, non sapendo dove andare e che
fare, si incammina verso Central Park che conosce bene. È molto
malinconico e ha bisogno di compagnia, così va in cerca delle
anitre che vi-vono nel lago del parco. Fatica a trovare il lago e
non trova neppure un’anitra. Per poco non cade nell’acqua. Ha
freddo perché è inverno e perché ha ancora la testa bagnata. Teme
di prendersi una polmonite e di morire;Nella seconda parte l’idea
della morte mette in moto la fantasia del ragazzo che, seduto su
una panchina del parco,
nell’oscurità e al freddo, immagina il suo funerale e i «milioni
di balordi che vi andrebbero». I particolari che dà ai lettori sono
indice di uno stato d’animo cupo e tormentato. Il tono è vario: a
volte serio, a volte ironico, sprezzante, perfino blasfe-mo, a
volte affannoso nei particolari e nei pensieri collegati alla
famiglia, specialmente alla madre e alla sorellina;Nella terza
parte, che conclude il brano, i pensieri della morte tanto
insistiti cedono brevemente il posto al gioco, e Holden fa a
rimbalzello sul lago con le poche monete che gli sono rimaste. Ma
non è tutto: il ricordo della sorellina gli per-mette di prendere
finalmente una decisione positiva: andrà a casa a vedere Phoebe e
«a fare quattro chiacchiere con lei».
Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A
VERSO L’ESAME
COMPRENSIONE DEL TESTO
Central Park1. Perché Holden va a Central Park? È un luogo che
gli
è familiare?2. Un’attività riesce a sollevare un po’ lo spirito
del ragaz-
zo. Descrivila e cerca di attribuirle un significato.
I pensieri di Holden3. L’idea della morte mette in moto la
fantasia del ragaz-
zo. In quale direzione?4. Quali particolari del suo immaginario
funerale ti sem-
brano più commoventi? Quali più tetri?5. Quale pensiero fa
allontanare Holden dal parco in
quella notte fredda e buia?
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Il giovane Holden
Giunto nell’atrio di casa, Holden riesce a raggiungere la porta
del suo appartamento senza destare i sospetti dell’addetto
all’ascensore. Vuole soltanto «dare un salutino» a Phoebe e poi
andarsene senza che nessuno sappia della sua visita.Holden, che ha
la chiave di casa in tasca, entra in silenzio nell’appartamento
perché non vuole essere visto dai genitori che lo credono ancora in
collegio e non sanno nulla della sua espulsione da Pencey. Entra
nella camera della sorellina, ma non la trova: dorme nella stanza
del fratello maggiore (che Holden chiama D.B.) quando questo è
lontano da casa come ora. La sua intenzione è di andarsene lontano
per sempre dopo averla salutata.
Il giovane Holden, capp. XXI-XXII
Solo con Phoebe
Contenuti
┛┛ Il rifiuto del mondo degli adulti
Stavo seduto là alla scrivania di D.B. e mi lessi tutto il
notes1. Non mi ci volle molto, e io sono capace di passare tutto il
giorno e tutta la notte a leggere cose di questo genere, il notes
di un pivello, che sia Phoebe o vattelappesca. I notes dei pivelli
mi lasciano secco. Poi accesi un’altra sigaretta – era l’ultima.
Devo averne fumati tre pacchetti almeno, quel giorno. Poi,
finalmente, la sve-gliai. Voglio dire, non potevo mica passare
tutta la vita seduto a quella scriva-nia, e del resto avevo paura
che da un momento all’altro mi piombassero tra capo e collo i miei
genitori e prima volevo almeno salutarla. Così la svegliai. Lei non
ci vuole niente a svegliarla. Voglio dire, non c’è bisogno di
gridare né niente. In pratica, basta sedersi sul suo letto e dirle
«Svegliati, Phoebe», e pam, eccola sveglia. – Holden! – disse
subito. Mi buttò le braccia al collo eccetera eccetera. È molto
affettuosa. Voglio dire, è molto affettuosa, per essere una
bambina. Certe volte è perfino troppo affettuosa. Io le diedi un
bacetto e lei disse: – Quando sei ritornato? – Era felice come una
pasqua. Si vedeva lontano un miglio. – Parla piano. Adesso. Come
stai, prima di tutto? – Bene. Hai avuto la mia lettera? Ti ho
scritto ben cinque pagine... – Sì, parla piano. Grazie. Mi aveva
scritto quella lettera. Io però non ero riuscito a risponderle. Non
parlava che di quella recita di scuola nella quale aveva una parte.
Mi aveva detto di non prendere impegni né niente per venerdì,
perché dovevo andare a vederla. – Come va la recita? – le domandai-
– Come hai detto che è intitolata? – Parata di Natale per gli
Americani. È uno schifo, ma io faccio Benedict Arnold2.
Praticamente è la parte principale, – disse. Ragazzi, era altro che
sveglia. Si entusiasma moltissimo quando vi racconta queste cose. –
Comin-cia che io sto morendo. E allora la vigilia di Natale viene
questo fantasma e mi domanda se non mi vergogno eccetera eccetera.
Sai, perché ho tradito il mio paese eccetera eccetera. Ci vieni? –
Si era messa a sedere sul letto e via dicendo. – È di questo che ti
ho scritto. Ci vieni? – Certo che ci vengo. Ci vengo senz’altro. –
Papà non può venire. Va in California in aereo, – disse. Ragazzi,
era altro che sveglia. A lei le bastano sì e no due secondi per
svegliarsi completamente. Stava seduta sul letto – mezzo
inginocchiata – e teneva stretta la mia dannata mano. – Senti un
po’. Mamma aveva detto che venivi a casa mercoledì, – disse – Ha
detto mercoledì. – Sono venuto via prima, parla piano. Svegli
tutti. – Che ora è? Torneranno a casa molto tardi, ha detto mamma.
Sono anda-
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1. il notes : un notes scritto da Phoebe.2. Benedict Arnold :
(1741-1801) generale che combatté per l’in-dipendenza degli Stati
Uniti dall’Inghilterra. Poi passò dalla parte degli inglesi.
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Il giovane Holden
ti a un ricevimento a Norwalk nel Connecticut, – disse la
vecchia Phoebe. – Hanno detto a che ora sarebbero tornati? – No, ma
molto tardi. Papà ha preso la macchina e tutto, così non dove-vano
preoccuparsi per i treni. Ci abbiamo messo la radio, adesso! Solo
che mamma ha detto che nessuno può aprirla quando siamo in mezzo al
traffico. Io cominciai un po’ a rilassarmi. Voglio dire che
finalmente smisi di star lì a pensare se mi beccavano in casa o no.
Mandai tutto all’inferno. Se mi beccavano, amen. [...] Poi cominciò
a guardarmi in modo strano. – Holden, – disse, – com’è che non sei
venuto mercoledì? – Come? Ragazzi, quella non si può perderla
d’occhio un momento. Se credete che non sia furba, siete matti. –
Com’è che non sei venuto mercoledì? – mi domandò – Non ti sarai
mica fatto buttare fuori o qualcosa del genere, per caso? – [...]
Ci hanno fatto parlare prima. Hanno fatto andar via tutta... – Ti
hanno buttato fuori! Ti hanno buttato fuori! – disse la vecchia
Phoebe. Poi mi diede un pugno sulla gamba. È molto portata a dar
pugni, quando le gira. – Ti hanno buttato fuori! Oh, Holden! – Si
teneva la mano sulla bocca eccetera eccetera. È molto emotiva,
parola d’onore. – Chi l’ha detto che mi hanno buttato fuori?
Nessuno ha detto che... – È così. È così, – disse lei. Poi mi mollò
un altro pugno. Se credete che non fa male, siete scemi. – Papà ti
ammazza! – disse. Poi si buttò a pancia sotto sul letto e si mise
sul viso quel dannato cuscino. Lo fa spessissimo. È proprio matta,
certe volte. – E smettila avanti! – dissi. – Nessuno si sogna di
ammazzarmi. Nessuno si sogna nemmeno... Andiamo, Phoebe, togliti
quel maledetto arnese dalla faccia. Nessuno si sogna di ammazzarmi.
Lei però non se lo volle togliere. Nessuno può farle fare una cosa,
se lei non vuole. Continuava a dire «Papà ti ammazza» e
nient’altro. Non si riusciva nemmeno a capirla, con quel dannato
cuscino sulla faccia. [...] Alla fine andai nella stanza di
soggiorno, presi un po’ di sigarette dalla scatola sul tavolo e me
ne misi qualcuna in tasca. Ero stanco morto. Quando tornai, il
cuscino dalla faccia se l’era tolto – questo lo sapevo – ma ancora
non voleva guardarmi, con tutto che stava sdraiata sulla schiena
ec-cetera eccetera. Quando girai intorno al letto e mi sedetti di
nuovo, lei volse quella sua faccia stralunata dall’altra parte. Mi
stava mettendo al bando con tutti i crismi. Proprio come la squadra
di scherma di Pencey, quella volta che avevo lasciato sulla
metropolitana tutti quei dannati fioretti. – Papà ti ammazza.
Ragazzi, quando le viene un pallino non c’è niente da fare. – Ma no
che non mi ammazza. Male che vada, mi dà un altro liscio e bus-so e
poi mi spedisce a quella maledetta scuola militare. Questo è tutto
quello che mi fa. E tanto per cominciare, io non ci sarò nemmeno.
Sarò via. Sarò... probabilmente sarò nel Colorado in quel ranch. –
Non farmi ridere. Non sai nemmeno andare a cavallo. Poi, tutt’a un
tratto, disse: – Oh, ma perché l’hai fatto? – Voleva dire per-ché
mi ero fatto buttare fuori un’altra volta. Mi diede una certa
tristezza, come lo disse. – O Dio, Phoebe, non stare a far domande.
Ne ho piene le tasche di tutti quanti che mi domandano la stessa
cosa, – dissi. – Ci sono perché da vendere. Era una delle scuole
peggiori che mi sia mai capitata. Piena di gente balorda. E gretta.
Mai vista tanta gente gretta in vita tua.
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Il giovane Holden
Allora la vecchia Phoebe disse qualcosa, ma non riuscii a
sentirla. Aveva l’angolo della bocca schiacciato contro il cuscino
e non riuscii a sentirla. – Come? – dissi. – Tira via la bocca di
là. Non riesco a sentirti, se tieni la bocca in quel modo. – A te
non ti piace niente di quello che succede. Quando disse così mi
fece sentire ancora più depresso. – Ma sì che mi piace? Sì che mi
piace! Naturale che mi piace. Non dire così. Perché diavolo dici
così? – Perché non ti piace. Non ti piace nessuna scuola. Non ti
piacciono un milione di cose. Non ti piace. – Invece sì! Qui hai
torto, è proprio qui che hai torto! Perché diavolo devi dire così?
– dissi. Ragazzi, quanto mi deprimeva. – Perché non ti piace –
disse. – Dinne una. – Una? Una cosa che mi piace? – dissi. –
D’accordo. Il guaio era che non riuscito a concentrarmi troppo. È
difficile concen-trarsi, certe volte. – Una cosa che mi piace
molto, vuoi dire? – le domandai. Ma lei non mi rispose. Stava tutta
scontorta e capovolta dall’altra parte del letto. A mille miglia di
distanza. – Avanti, rispondimi – dissi. – Una cosa che mi piace
molto, o che mi piace soltanto? – Che ti piace molto. – Benissimo,
– dissi. Ma il guaio era che non riuscivo a concentrarmi. – Non
riesci a trovare nemmeno una cosa. – Ma sì. Ma sì. – Be’, allora
dilla. – Mi piace Allie, – dissi. – E mi piace fare quello che sto
facendo adesso. Stare seduto qui con te a parlare, e a pensare alle
cose, e... – Allie è morto. Dici sempre la stessa cosa! Se uno è
morto eccetera ecce-tera e sta in cielo, non è veramente... – Lo so
che è morto! Credi che non lo sappia? Ma mi può ancora piacere, no?
Non è mica che uno non ti piace più solo perché è morto, Dio santo,
spe-cie se è mille volte meglio della gente viva che conosci e
compagnia bella. La vecchia Phoebe non disse niente. Quando non
trova niente da dire, non dice più mezza dannata parola. – Ad ogni
modo, mi piace ora, – dissi. – Proprio adesso, voglio dire. Stare
seduto qui con te a fare quattro chiacchiere e a scherzare... –
Questa non è una vera cosa! – È una vera cosa eccome! Certo che lo
è. Perché diavolo non lo è? La gen-te non crede mai che una cosa
sia una vera cosa. Ne ho arcipiene le maledette tasche! – Smettila
di bestemmiare. Va bene, dimmi qualcos’altro. Dimmi che cosa ti
piacerebbe essere. Come uno scienziato. O un avvocato o qualche
cosa. – Non potrei essere uno scienziato. In scienze sono una
schiappa. – Be’, un avvocato, come papà e compagnia bella. – Gli
avvocati sono in gamba, direi, ma non mi attira, – dissi. – Voglio
dire, sono in gamba se vanno in giro tutto il tempo a salvare la
vita degli innocenti e roba simile, ma se sei avvocato queste cose
non le fai. Tutto quello che fai è accumulare soldi giocare a golf
giocare a bridge comprare macchine bere martini e aver l’aria
dell’alto papavero. E del resto! Anche se te ne vai in giro a
salvare la vita della gente e via discorrendo, chi ti dice che lo
fai perché vuoi veramente salvare la vita della gente, e non perché
in realtà quello che vuoi è soltanto di essere un fenomeno di
avvocato, con tutti quanti che ti dànno manate sulla schiena e ti
fanno le congratulazioni in tribunale quando il ma-
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ledetto processo è finito e i giornalisti e tutti quanti, come
si vede in quegli sporchi film? Chi ti dice che non sei uno
sbruffone? Non lo sapresti mai, ecco il guaio. Non sono ben sicuro
che la vecchia Phoebe capisse di che diavolo parlavo. Voglio dire,
in fondo non è che una bambina e via discorrendo. Però stava a
sentire, almeno. Se qualcuno almeno vi sta a sentire non è tanto
brutto. – Papà ti ammazza. Vedrai che ti ammazza, – disse. Ma io
non la sentivo. Stavo pensando a un’altra cosa – una cosa
pazze-sca- – Sai cosa mi piacerebbe fare? – dissi. – Sai cosa mi
piacerebbe fare? Se potessi fare quell’accidente che mi gira,
voglio dire. – Cosa? Smettila di bestemmiare. – Sai quella canzone
che fa «Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo
qualcuno»? Io vorrei... – Dice «Se scendi tra i campi di segale, e
ti viene incontro qualcuno», – dis-se la vecchia Phoebe. – È una
poesia. Di Robert Burns3. – Lo so che è una poesia di Robert Burns.
Però aveva ragione lei. Dice proprio «Se scendi tra i campi di
segale, e ti viene incontro qualcuno». Ma allora non lo sapevo. –
Credevo che dicesse «E ti prende al volo qualcuno», dissi. – Ad
ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una
partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera.
Migliaia di ragazzini, e in-torno non c’è nessuno altro, nessun
grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un
dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti
quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono
sen-za guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e
acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto
l’acchiappatore nella se-gale4 e via dicendo. So che è una pazzia,
ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che una
pazzia. La vecchia Phoebe non disse niente per molto tempo. Poi,
quando final-mente si decise a dire qualcosa, tutto quello che
disse fu: – Papà ti ammazza.
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3. Robert Burns: (1759-1796) poeta scozzese.4. l’acchiappatore
nel- la segale: è il titolo del romanzo nell’originale americano
The Catcher in the Rye.
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Il giovane Holden
PER LAVORARE SUL TESTO
●● Questo brano rappresenta il momento clou del romanzo. Il
giovane contestatore, sempre pronto a ridire su tutto – persone,
scuole, professioni – riesce a indicare, con grande fatica, alla
sorella due «cose che gli piacciono»: il fratello morto e lo stare
vicino a lei «a parlare, e a pensare alle cose». Ma Phoebe gliele
scarta con buone ragioni e gli chie-de poi che cosa gli piacerebbe
essere. Non uno scienziato, non un avvocato, risponde Holden. Egli
non vorrebbe es-sere o fare nulla di quanto è considerato
importante nella
società “bene” americana. Il suo rifiuto dell’universo degli
adulti ha come rovescio della medaglia – o diritto, secondo il
punto di vista – il primato dell’adolescente: non sempre
responsabile, ma generoso, desideroso di affetto, di sinceri-tà e
di guida onesta e disinteressata. L’unica cosa, anche se
«pazzesca», che a Holden piacerebbe fare è salvare i «ragaz-zini»
dai pericoli della vita; è una proiezione fantastica di un ideale
padre-maestro per se stesso.
Analisi di un testo in prosa 1a prova, tip. A
VERSO L’ESAME
COMPRENSIONE DEL TESTO
L’incontro tra Phoebe e Holden1. Come accoglie Phoebe la visita
del fratello?2. Quando si rende conto che Holden è stato espulso
dal
collegio, come reagisce?
Le scelte di Holden3. A Holden piacciono due sole cose: Allie e
«parlare» con
la sorellina. Del carattere di Holden, che cosa eviden-ziano
queste scelte?
4. Holden come motiva il suo rifiuto di diventare scien-ziato o
avvocato?
ANALISI DEL TESTO
L’«acchiappatore nella segale»5. Cerca di spiegare che cosa
significhi per Holden essere
un «acchiappatore nella segale».
La contestazione di Holden6. Qual è l’atteggiamento di Holden
nei confronti della
società e del mondo degli adulti? In che cosa consiste la sua
contestazione?
Holden telefona al professor Antolini, un suo ex insegnante di
inglese, il quale, avendo saputo dell’espulsione da Pencey, invita
il ragazzo a casa sua.Holden è contento di avere un luogo dove
trascorrere la notte, ma, prima di andarsene, torna da Phoebe e
balla allegramente con lei. Improvvisamente rincasano i genitori
che hanno trascorso il fine settimana fuori città.Holden si
nasconde nel ripostiglio e non viene scoperto. Prima di lasciare
Phoebe, le chiede un po’ di denaro e la sorella gli dà tutti «i
soldi di Natale», otto dollari e ottantacinque cents. Tanta
generosità commuove profon-damente il fratello, che scoppia in
lacrime, l’abbraccia e scappa via.A casa di Antolini tutto sembra
normale: il professore parla con l’ex alunno molto seriamente, gli
fa capire che è immaturo e gli fa leggere un pensiero scritto da
uno psicanalista: «Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuole
morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo
maturo è che vuole umilmente vivere per essa». Ma Holden non se la
sente di concentrarsi, è «maledettamente stanco». Va subito a letto
e si addormenta profondamente. A un tratto si sveglia perché
qualcuno gli sta accarezzando la testa: è il professor Antolini. Lo
shock è tale che il ragazzo se ne va immediatamente con una scusa e
passa il resto della notte nella sala d’aspetto della stazione
centrale.
IL FILO DEL RACCONTO
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Il giovane Holden
Quando Holden lascia la sala d’aspetto della stazione centrale
comincia appena a fare gior-no. Decide di fare una passeggiata per
New York, ma è molto depresso. È ora giunto alla Quinta Avenue.
Il giovane Holden, capp. XXV-XXVI
La fuga è finita
Contenuti
┛┛ Il ritorno alla normalità
Era lunedì1 e via discorrendo e mancava poco a Natale, e tutti i
negozi erano aperti. Sicché non era tanto spiacevole camminare per
la Quinta Avenue. Era alquanto natalizio. Fermi alle cantonate
c’erano tutti quei Babbi Natale macilenti che suonavano i loro
campanellini, e sonavano campanellini pure le ragazze dell’Esercito
della Salvezza, quelle che vanno in giro senza rosset-to né niente.
Io continuavo a guardarmi un po’ intorno. Poi, tutt’a un tratto,
cominciò a succedermi una cosa dell’altro mondo. Ogni volta che
arrivavo alla fine di un isolato e scendevo da quel maledetto
marciapiede, avevo la sensazione che non sarei mai arrivato
dall’altra parte della strada. Mi pareva che avrei continuato ad
andare giù, giù, giù, e che nessuno mi avrebbe più ri-visto.
Ragazzi, mi venne un accidente. Non potete nemmeno immaginarvelo.
Cominciai a sudare come dio sa che – tutta la camicia e la
biancheria, tutto! Poi cominciai a fare un’altra cosa. Ogni volta
che arrivavo alla fine di un iso-lato, facevo finta di parlare con
mio fratello Allie. «Allie, – gli dicevo, – non farmi scomparire.
Allie, non farmi scomparire. Allie, non farmi scomparire. Allie,
non farmi scomparire. Per piacere, Allie». E poi, quando
raggiungevo l’altro marciapiede senza essere scomparso, gli dicevo
grazie. E poi tutto dac-capo non appena arrivavo all’altra
cantonata. Ma io continuavo a camminare eccetera eccetera. Avevo
una certa paura di fermarmi, credo – francamente, non me ne
ricordo. So che mi fermai soltanto un bel pezzo dopo la
Sessante-sima, passato lo zoo e compagnia bella. Allora mi sedetti
su quella panchina. Ero spompato e sudavo ancora come non si sa
che. Rimasi seduto un’oretta, credo. Finalmente presi una
decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più
tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuo-la.
Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più
andato in un’altra scuola. Decisi che avrei visto soltanto la
vecchia Phoebe per dirle addio e tutto quanto e ridarle i suoi
soldi di Natale; e che poi mi sarei diretto all’ovest con
l’autostop. Quello che dovevo fare, pensavo, era di andare al
Holland Tunnel e farmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro
pas-saggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei
arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove
nessuno mi conosceva e mi sarei tro-vato un lavoro. Pensai che
potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifor-nimento a mettere
benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di
lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo
loro. Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere
sordomuto. Così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette
chiacchiere idiote e senza sugo. Se qualcuno voleva dirmi qualche
cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il
naso. Dopo un po’ ne avrebbero avuto piene le tasche, e per il
resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero
pen-sato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero
lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle
loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario
eccetera eccetera, e con quei soldi io mi sarei costruito una
capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto
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401. Era lunedì: Holden è fuggito dal collegio il sabato sera.
La sua avventura dura tre gior-ni.
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Il giovane Holden
della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non
proprio nei bo-schi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il
tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se
volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato quella
bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe
venuta a vivere con me nella mia capanna, e se voleva dirmi
qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come
tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in
qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri e insegnargli
a leggere e a scrivere. A forza di pensarci mi entusiasmai da
matto. Quella faccenda di far finta di essere sordomuto era cretina
e lo sapevo, ma mi piaceva lo stesso pensar-la. Però decisi davvero
di andarmene all’ovest eccetera eccetera. Prima vo-levo soltanto
salutare la vecchia Phoebe. Così, tutt’a un tratto, attraversai la
strada correndo come un forsennato – a momenti mi facevo ammazzare,
se proprio volete saperlo – e andai da quel cartolaio a comprare un
blocchetto di carta e una matita. Pensavo di scriverle un biglietto
per dirle dove ci sa-remmo incontrati, di modo ch’io potessi
salutarla e restituirle i suoi soldi di Natale, e poi di portare il
biglietto alla sua scuola e di farglielo consegnare da qualcuno
della segreteria. Perciò mi cacciai in tasca il blocchetto e la
matita e mi incamminai più in fretta che potevo verso la sua scuola
– ero troppo frenetico per scrivere il biglietto nella cartoleria.
Camminavo così in fretta perché volevo che avesse il biglietto
prima di andare a casa a pranzo, e non mi restava molto tempo.
Holden va alla scuola di Phoebe e scrive un biglietto alla
sorellina dicendole che partirà per l’ovest in giornata e che
desidera incontrarla al Museo d’arte nel-la tarda mattinata. Phoebe
arriva con una grossa valigia: vuole andare con lui. Quando il
fratello le dice che è impossibile, la ragazzina comincia a
piangere e Holden le promette che non partirà. Ma Phoebe è ora
adirata con lui. Si incam-minano verso lo zoo: lui su un
marciapiede, lei sull’altro. Allo zoo guardano gli animali, ma
Phoebe è sempre arrabbiata. Vanno poi verso una giostra nel parco e
la ragazzina continua a non volere parlare con il fratello, però si
è un po’ am-mansita.
– Vuoi andare a fare un giro? – dissi. Sapevo che probabilmente
ne aveva voglia. Quand’era piccola piccola, e Allie, D.B. e io la
portavamo al parco con noi, andava matta per la giostra. Non si
riusciva a strapparla da quel dannato aggeggio. – Sono troppo
grande, – disse. Credevo che non mi avrebbe risposto e invece sì. –
No che non lo sei. Vai pure. Io ti aspetto qui. Vai, su, – dissi.
Eravamo proprio lì, oramai. Sulla giostra c’erano alcuni bambini,
per lo più molto piccoli, e i genitori li stavano aspettando lì
avanti, seduti sulle panchine e via discorrendo. Allora finì che
andai allo sportello dove vendono i biglietti e ne presi uno per la
vecchia Phoebe. Poi glielo diedi. Lei mi stava proprio vicina. –
Tieni, – le dissi. – Aspetta un momento... prendi anche il resto
dei tuoi soldi –. Feci per darle il resto dei soldi che mi aveva
prestato.– Tienili tu. Tienili per me, – disse lei. Poi aggiunse
subito: – Ti prego. È deprimente, quando uno ti dice «Ti prego». Se
è Phoebe o qualcuno così, voglio dire. Mi sentii depresso da
morire. Però mi rimisi i soldi in tasca. – Vieni a fare un giro
anche tu? – mi domandò lei. Mi stava guardando in modo un po’
buffo. Si capiva che non ce l’aveva più tanto. – Il prossimo,
magari. Adesso sto qui a guardarti, – dissi- – Hai il biglietto?
–Sì.
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© 2014 - M. Sambugar, G. Salà - Letteratura & oltre
Il giovane Holden
– Vai, allora, io mi siedo su questa panchina. Sto a guardarti
–. Andai a sedermi sulla panchina e lei salì sulla giostra. Ne fece
tutto il giro. Voglio dire che ne fece proprio tutto il giro, una
volta sola. Poi si sedette su quel vecchio stallone scuro dall’aria
malandata. Allora la giostra si mise in moto e io guar-dai Phoebe
che girava, girava. Sopra c’erano solo altri cinque o sei
ragazzini, e la canzona che stavano sonando era Fumo negli occhi.
La suonavano in modo molto buffo, come se fosse jazz. Tutti i
bambini si sforzavano di af-ferrare l’anello d’oro, anche la
vecchia Phoebe, e io avevo un po’ paura che cadesse da quel
maledetto cavallo, però non dissi e non feci niente. Il fatto, coi
bambini, è che se vogliono afferrare l’anello d’oro, uno deve
lasciarli fare senza dire niente. Se cadono, amen, ma è un guaio se
gli dite qualcosa. Finito il giro, lei scese dal suo cavallo e
venne da me. – Stavolta vieni an-che tu. – disse. – No, sto solo a
guardarti. Mi sa che sto solo a guardarti, – dissi. Le diedi un po’
dei suoi soldi . – Tieni. Prendi qualche altro biglietto. Lei prese
i soldi. – Non sono più arrabbiata con te, – disse. – Lo so.
Sbrigati, ora ricomincia. Allora, tutt’a un tratto, mi diede un
bacio. Poi tese la mano e disse: – Sta piovendo. Comincia a
piovere-– Lo so. E allora lei fece una cosa che per poco non mi
lasciava secco: mi infilò la mano nella tasca del soprabito, ne
tirò fuori il mio berretto rosso da caccia-tore e me lo mise in
testa. – Non lo vuoi tu? – dissi. – Per un po’ puoi portarlo. –
D’accordo. Però adesso sbrigati. Finisce che perdi il giro. Non
troverai più il tuo cavallo né niente. Ma lei continuava a esitare.
– Lo pensavi proprio quello che hai detto? È vero che non vai in
nessun posto? È vero che dopo vai a casa? – mi domandò. – Sì, –
dissi. E lo pensavo davvero. Non le stavo dicendo una bugia. Andai
a casa davvero, dopo. – Sbrigati, ora, – dissi. – Si sta muovendo.
Lei scappò via, comprò il suo biglietto e tornò su quella maledetta
giostra appena in tempo. Poi ne fece tutto il giro finché non
ritrovò il suo cavallo. Al-lora ci montò sopra. Mi salutò con la
mano, e anch’io la salutai con la mano. Ragazzi, cominciò a piovere
che non vi dico. A secchi, ve lo giuro su Dio. I genitori e le
madri e tutti quanti corsero a mettersi proprio sotto il tetto
della giostra per non bagnarsi come pulcini eccetera eccetera, ma
io me ne restai per un pezzo su quella panchina. Ero bagnato
fradicio, soprattutto il collo e i calzoni. Il berretto da
cacciatore mi riparava davvero, e molto, in un certo senso, ma ero
fradicio lo stesso. Me ne infischiavo, però. Mi sentivo così
ma-ledettamente felice, tutt’a un tratto, per c