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Il contributo di R. B. Cattell allo studio della personalità e dell’intelligenza
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Gianluigi Cosi
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Cattell si ritirò dall’Università dell’Illinois nel 1973 per sopraggiunti limiti di età e
si stabilì in Colorado per cinque anni. Quindi si trasferì nelle Hawaii nel 1978, dove
assunse la cattedra di professore e relatore all’Università delle Hawaii e
successivamente insegnò nella School of Professional Psychology. Nel tempo libero
continuò a scrivere libri ed articoli in riviste psicologiche fino alla sua morte, avvenuta
ad Honolulu nel 1998.
In settant’anni di carriera, Raymond Cattell ha pubblicato 55 libri e circa 500 tra
articoli e capitoli di altri libri. Egli ha fornito molti contributi importanti alla psicologia,
influenzandone in modo rilevante l’affermazione come disciplina scientifica. In una
survey della Western Kentucky University (Haggbloom, Warnick et al., 2002), in cui
Freud risultò lo psicologo maggiormente citato nella letteratura delle riviste
professionali, Cattell ottenne la settima posizione in classifica.
I contributi di Cattell riguardano: la creazione di una teoria unificata delle
differenze individuali; la mappatura dei domini della personalità, del temperamento,
della motivazione e delle abilità mediante analisi fattoriale; l’individuazione di un
ampio numero di abilità cognitive e la distinzione tra intelligenza fluida e intelligenza
cristallizzata; l’elaborazione di modelli di comportamento sociale; la definizione di
predittori della creatività e del successo.
In questo lavoro approfondiremo in particolare gli aspetti legati allo studio della
personalità (anche nei suoi aspetti applicativi) e dell’intelligenza.
2222 Il contributo teoricoIl contributo teoricoIl contributo teoricoIl contributo teorico allo studio della personalitàallo studio della personalitàallo studio della personalitàallo studio della personalità
L’interrogativo su quali siano le caratteristiche peculiari che contraddistinguono ed
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accomunano i diversi individui ha segnato la storia dell’uomo; tuttavia lo studio della
personalità ha una tradizione relativamente recente in termini di indagini sistematiche.
La personalità si può definire come l’insieme dei sistemi psicologici che contribuiscono
all’unità e alla continuità della condotta e dell’esperienza individuale, sia come viene
espresso sia come viene percepito dall’individuo e dagli altri (Caprara e Cervone, 2002).
Si tratta di un costrutto ipotetico, la cui validità è legata al quadro teorico di riferimento.
Il modello dei Big Five (cfr. §4.1), che individua cinque dimensioni fondamentali
per la descrizione e la valutazione della personalità, è oggi uno degli approcci che
raccoglie maggiori consensi. Le tradizioni di ricerca che convergono sul tale modello
sono la tradizione lessicografica e la tradizione fattorialista: la prima è basata
sull’ipotesi secondo cui le differenze individuali più salienti e socialmente rilevanti
vengono codificate nel linguaggio naturale (Allport, 1937), la seconda sostiene che le
differenze individuali possono essere ricondotte a pochi fattori comuni, rintracciabili
dall’applicazione della tecnica statistica dell’analisi fattoriale. L’approccio lessicale
guarda dunque al linguaggio naturale come fonte per la definizione di una tassonomia
scientifica degli aspetti della personalità, a partire dai lavori di Klages e Baumgarten
negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso e proseguendo con i lavori di Allport (1937),
Cattell (1943a), Norman (1963) e Goldberg (1981).
2.1 La lista di Allport e Odbert
Lo studio semantico di Allport e Odbert partì dal Webster’s New International
Dictionary del 1925, che prevedeva 550.000 termini in lingua inglese. Furono
selezionati i termini in grado di “distinguere il comportamento di un essere umano da
quello di un altro” (Allport e Odbert, 1936, p.24), con una preferenza per aggettivi e
participi rispetto ai nomi. La ricerca portò i due autori a definire un elenco di 17.953
parole, che essi classificarono in quattro categorie (o “colonne”):
1) termini neutrali che designano possibili tratti di personalità (4.504), ad esempio
“aggressivo”, “introverso”, “socievole”;
2) termini descrittivi primariamente di attività e umori temporanei (4.541), ad esempio
“imbarazzato”, “festoso”;
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3) termini che indicano giudizi caratteriali su condotta personale e influenza sugli altri
(5.226), ad esempio “insignificante”, “meritevole”, “irritante”;
4) categoria mista di termini che comprendono caratteristiche fisiche, capacità, talenti,
condizioni non assegnabili alle altre tre categorie (3.682), ad esempio “slanciato”,
“prolifico”.
Si trattava di un elenco enorme e, nonostante l’eliminazione delle forme meno comuni
nel caso in un cui un termine prevedesse delle varianti, i due autori osservarono che
“probabilmente metà dei termini sembrano strani e non familiari al lettore americano”
(Allport e Odbert, 1936, p.25).
2.2 La riduzione semantica
Cattell riteneva che ci fossero tre fonti principali di dati relativamente alle ricerche
sui tratti di personalità (Hall e Lindzey, 1978): 1) L-Data, dati del comportamento di un
individuo nella società e nella vita quotidiana, ottenuti misurando il comportamento nel
mondo reale e che Cattell raccoglieva principalmente tramite valutazioni effettuate da
pari; 2) Q-Data, dati relativi agli aspetti introspettivi del comportamento e dello stato
d’animo del soggetto, raccolti tramite questionari self-report, ovvero di auto-
valutazione; 3) T-Data, dati raccolti attraverso test obiettivi e situazioni sperimentali
standardizzate create in laboratorio, in cui il soggetto non è consapevole del tratto di
personalità che si sta misurando. Secondo Cattell, affinché una dimensione di
personalità potesse essere chiamata “fondamentale ed unitaria”, dovevano coesistere,
nelle analisi fattoriali, i dati provenienti da tutti e tre questi ambiti.
Egli usò l’elenco di Allport e Odbert come punto di partenza per il suo modello
multidimensionale della struttura della personalità. Lo scopo principale di Cattell era
scoprire le principali dimensioni della personalità sulla base del lessico inglese, per cui
il suo lavoro iniziale aveva lo scopo di ridurre i termini individuati da Allport e Odbert
per ottenere una lista più “maneggevole”. Questo lavoro ebbe un’importanza
fondamentale nel formare le fondamenta del sistema di descrizione di personalità di
Cattell e fornì una selezione di termini che sarà poi utilizzata anche da altri ricercatori.
L’interesse primario di Cattell per i tratti stabili di personalità lo portò ad adottare la
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sola categoria dei tratti nell’elenco di Allport e Odbert, costituita da circa 4.500 termini,
come universo descrittivo della personalità. Egli vi aggiunse tuttavia circa 100 termini
di stato temporaneo, che considerava appropriati per la descrizione della personalità
(Cattell, 1943b).
I termini semanticamente simili furono raggruppati come sinonimi sotto una parola
chiave al fine di ridurre il numero delle caratteristiche di personalità da esaminare
separatamente. Questo lavoro di ordinamento semantico fu svolto separatamente da due
giudici, che arrivarono a liste di sinonimi “praticamente identiche” (Cattell, 1943b,
p.488), anche se Cattell non fornisce informazioni quantitative in merito. Inoltre la
definizione di sinonimo come “termine intercambiabile” non è del tutto chiara: la
dimensione dei cluster ottenuti suggerisce che venne usato un criterio molto più lasco
(John, Angleitner e Ostendorf, 1988), considerando che il numero di sinonimi andava da
48 nel caso di “talkative” (“loquace”) a 24 nel caso di “frank” (“schietto”).
All’interno di ogni cluster Cattell aggiunse un opposto per ognuno dei termini. I
termini che sembravano riflettere tratti dinamici/motivazionali e di abilità non furono
appaiati con opposti in quanto venivano considerati unipolari; inoltre per circa 25
cluster Cattell non trovò degli opposti. In ogni caso, nella maggior parte dei cluster i
termini venivano elencati come coppie di tratti bipolari. Questo formato aveva il
vantaggio pratico di offrire una definizione più completa del significato del cluster, in
quanto definiva entrambi gli estremi.
Il raggruppamento in coppie di termini opposti consentì di classificare i 4.500
termini di partenza in 160 cluster, nella maggioranza bipolari. Per rappresentare i
cluster con un numero inferiore di termini, Cattell selezionò circa 13 termini da ognuno
di essi definendone una parola chiave. In questo modo Cattell aveva eliminato, già in
questa fase, più di metà dei termini previsti da Allport e Odbert e tra questi vi erano tutti
i termini con prefissi la cui radice era già stata inclusa in un cluster. Inoltre furono
eliminati termini rari, obsoleti, strani laddove il loro significato era già rappresentato da
un altro termine.
Per verificare l’esaustività del suo elenco di variabili di personalità, Cattell passò in
rassegna la letteratura personologica di Allport, Burt, McDougall, Sheldon e Stevens,
Spoehrl, Spranger, nonché i suoi test su temperamento (Cattell, 1933, 1934) ed
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intelligenza (Cattell, 1936). Cattell scoprì che solo un fattore di emozionalità
individuato da Burt e tre tratti relativi a disordini nevrotici e psicotici erano assenti dai
suoi 160 cluster e concluse, quindi, che la sua selezione di variabili era completa.
Ciononostante, per ottenere una rappresentazione più elaborata dei domini
comportamentali catturati dai cluster, Cattell aggiunse dei termini derivati dalla
letteratura psicologica. Egli scoprì che i tratti di interessi e abilità, ben documentati nella
letteratura degli anni ‘30 e ‘40, non erano sufficientemente rappresentati nei 160 cluster,
pertanto aggiunse: a) l’intelligenza generale, derivata da Spearman; b) 9 abilità speciali,
tra cui 4 fattori derivati da Thurstone; c) 11 aree di interesse, tra cui le 6 forme di vita
derivate da Spranger.
A seguito dell’aggiunta di questi nuovi 21 cluster e dell’eliminazione di alcuni dei
suoi cluster iniziali si giunse ad un totale di 171. La versione pubblicata (Cattell, 1946)
non includeva tutti i sinonimi per ogni cluster e presentava, come esemplificazione, un
numero di termini compreso tra due e cinque per ognuno dei due poli in ogni cluster.
2.3 Il clustering empirico
L’insieme dei 171 cluster era troppo ampio per l’utilizzo con le tecniche di analisi
fattoriale disponibili negli anni ‘40, per cui Cattell decise di usare dei dati empirici per
ridurre i cluster in variabili più ampie, tramite valutazioni di 100 adulti, ognuno dei
quali ricevette un punteggio per ognuno dei cluster da un “conoscente intimo (ma non
coinvolto emotivamente” (Cattell, 1943b, p.436) o da due colleghi (Cattell, 1945b). I
giudici furono istruiti ad indicare se la persona target poteva essere meglio descritta dai
termini a destra o a sinistra nel cluster (per tratti bipolari) o se essa poteva essere
considerata al di sopra o al di sotto la media dello specifico tratto (per tratti unipolari).
Quindi fu definita una matrice di correlazione delle 171 variabili attraverso le 100
persone target (si trattava di 14.535 correlazioni) e Cattell ricercò al suo interno un
insieme di 30-40 variabili che contenesse il maggior numero possibile dei cluster
iniziali. Per semplificare questo processo, egli limitò il numero di correlazioni fissando
due limiti arbitrari: a) due variabili con coefficiente di correlazione di almeno ±0,45
erano considerate come un cluster; b) due variabili con coefficiente di correlazione di
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almeno ±0,84 erano considerate identiche.
A questo punto Cattell escluse dalla lista qualunque cluster che poteva essere
incluso in un cluster superiore e, in aggiunta ai cluster di 6 o più variabili, rimasero
approssimativamente 15 pentadi, 20 tetradi e 88 triadi1. Cattell ignorò quasi tutte le
triadi e giunse ad un insieme finale di 67 cluster.
2.4 Le revisioni successive e la teoria dei 16 fattori
Tramite la riduzione semantica e il clustering empirico, Cattell era giunto dagli
oltre 4.500 termini iniziali a 67 cluster. La carenza di fondi per un’analisi fattoriale che
coinvolgesse questi cluster rese necessaria un’ulteriore riduzione (Cattell, 1945a),
costringendo Cattell ad andare alla ricerca di pubblicazioni psicologiche che
consentissero una validazione dei cluster di tratto (Cattell, 1945b, 1946). Oltre al
proprio lavoro, egli passò in rassegna altri dodici studi e identificò 131 cluster di tratto,
tramite delle combinazioni dei cluster che risultavano sovrapposti. Emersero 50 cluster,
che furono raggruppati in 20 settori di personalità.
Usando il suo compendio della letteratura psicologica, Cattell (1945a) revisionò i
cluster ottenuti tramite il clustering empirico, mantenendo solo 58 cluster confermati da
altri studi. Inoltre, quando due o tre cluster erano sovrapposti con uno o più cluster
derivati dal lavoro di altri ricercatori, introdusse un cluster più ampio, eliminando in
questo modo altri 6 fattori. Alla fine del lavoro di confronto rimasero solo 35 cluster
(Cattell, 1945a), che divennero 36 e poi 42 a seguito dell’aggiunta di “alcuni termini
prudenza; O) apprensività; Q1) apertura al cambiamento; Q2) fiducia in sé; Q3)
perfezionismo; Q4) tensione. Il test può essere usato per misurare anche tratti più ampi,
denominati “fattori globali”, che sono valutabili raggruppando i tratti della personalità
di primo ordine: estroversione; ansietà; durezza; indipendenza; auto-controllo (Cattell,
1956).
Alle scale riferite ai sedici fattori primari di personalità si aggiungono tre indici
dello stile di risposta al test: 1) IM (Gestione dell’Immagine): scala di desiderabilità
sociale; 2) INF (Infrequenza): permette di individuare se il soggetto ha risposto a un
numero relativamente ampio di item in modo differente rispetto alla maggior parte delle
persone; 3) ACQ (Acquiescenza): misura la tendenza a rispondere “vero” ad un item
senza tenere conto del suo contenuto
Il 16PF Questionnaire non ha un limite di tempo, per quanto sia opportuno
incoraggiare i soggetti a lavorare con rapidità. Ne è prevista, oltre alla versione carta e
matita, anche una versione computerizzata. Il questionario è disponibile in tre forme
diverse: la forma A, la forma C e la forma D.
La forma A è un questionario a 185 domande che vengono poste, nella maggioranza
dei casi, in maniera indiretta e rivolte a interessi che il soggetto non percepisce come
necessariamente connessi con il tratto che si esplora (al fine di ridurre i bias di risposta).
Il soggetto può scegliere per ogni item una delle tre risposte: “affermazione positiva”,
“affermazione negativa” e “incertezza”; fanno eccezione gli item del fattore B
(ragionamento), raggruppati tutti alla fine del test, che propongono tre risposte
verosimili, una sola delle quali è esatta. Si tratta della versione più completa del test
disponibile in lingua italiana e quindi quella che consente la maggiore precisione e
profondità d’indagine. Va utilizzata, preferibilmente, con soggetti che abbiano almeno
completato la scuola dell’obbligo e se c’è sufficiente tempo a disposizione (35-50
minuti nella forma carta e matita).
La forma C è stata introdotta allo scopo di avere a disposizione un questionario più
breve, anche a costo di una parziale discriminazione dei coefficienti di fedeltà. Essa
consta di soli 105 item e presenta un linguaggio più semplice di quello usato nella forma
A, per l’utilizzo con persone che non abbiano ancora terminato la scuola media
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inferiore. In termini di misura di fattori, queste due forme sono esattamente parallele
alla A, anche se presentano qualche item nuovo. Il tempo di somministrazione è di una
trentina di minuti e vi è la possibilità di una interpretazione in chiave di aree
occupazionali.
La forma D è molto simile alla forma C, è una versione più recente e consente una
correzione per età e quindi un risultato maggiormente preciso quando si ha a che fare
con fasce d’età molto ampie e ci si vuole focalizzare su un range più ristretto. Essa non
prevede l’interpretazione in chiave di aree occupazionali.
Le due forme ridotte sono particolarmente utili quando si ha poco tempo a
disposizione: pur presentando i limiti di una forma ridotta esse mantengono inalterate le
capacità di rilevazione psicodiagnostica della personalità.
2.6 Critiche al metodo e alla teoria di Cattell
La soluzione di clustering di Cattell che abbiamo analizzato nei paragrafi
precedenti è stata considerata discutibile e non esaustiva da alcuni autori (ad esempio
John, Angleitner e Ostendorf, 1988). Cattell sostiene che “l’analisi in cluster fu
effettuata interamente alla cieca, utilizzando solo criteri matematici, e lo sperimentatore
divenne consapevole della natura dei cluster solo in fase di elencazione, quando era
necessario fornire dei nomi provvisori” (Cattell, 1943b, p.504); ma egli non descrisse la
natura di questi criteri matematici, rendendo in tal modo di dubbio valore la soluzione
proposta.
L’analisi degli studi di Cattell da parte di alcuni ricercatori (ad esempio Digman e
Takemoto-Chock, 1981) non ha confermato il numero e la natura dei fattori da lui
proposti. Altri studi, ad esempio quello di Burdsal e Bolton (1979), hanno invece
replicato nella sostanza la struttura fattoriale primaria del 16PF.
Kline e Barrett (1983) ottennero dal 16PF sette fattori di primo ordine e due di
secondo ordine (ansietà ed estroversione), verificando che diversi item saturavano su
più di una scala. Sulla base delle loro ricerche, essi conclusero che il questionario non
funzionava bene a livello di item, ma funzionava molto meglio a livello scalare,
ipotizzando che gli errori insiti nei singoli item del questionario si annullavano
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reciprocamente.
Al fine di mettere alla prova le relazioni tra il 16PF di Cattell, le scale di personalità
CPS (Comrey Personality Scales) e il questionario EPI (Eysenck Personality Inventory),
Noller, Law e Comrey (1987) analizzarono le intercorrelazioni tra i tre strumenti
utilizzando un campione di 669 adulti australiani selezionato in modo accurato sulla
base del sesso, dello stato socio-economico e dell’età (16-65 anni). La conclusione fu
che “esiste una sovrapposizione sostanziale nelle scale di Cattell” (Noller, Law e
Comrey, 1987, p.777).
Alcuni studi hanno riscontrato nella struttura del 16PF la presenza dei Big Five, i
cinque fattori che oggi si ritiene spieghino la maggior parte della varianza della
personalità. Ad esempio Boyle (1989) sottolinea come Kline e Barrett avessero
utilizzato una fattorizzazione di ordine superiore delle intercorrelazioni, il che non mette
in discussione la struttura primaria del modello di Cattell. Inoltre, con riferimento allo
studio di Noller, egli sottolinea come l’intercorrelazione tra le scale portasse a ricavare
solo fattori di ordine superiore che saturavano su combinazioni dei fattori primari, per
cui la possibilità di derivare i fattori primari era preclusa fin da principio. Vi è tuttavia
accordo sul fatto che il questionario 16PF sia costituito da un numero inferiore dei 16
fattori teorizzati da Cattell.
3 Il contributo teorico allo studio dell3 Il contributo teorico allo studio dell3 Il contributo teorico allo studio dell3 Il contributo teorico allo studio dell’’’’intelligenzaintelligenzaintelligenzaintelligenza
La definizione di intelligenza è stata molto problematica nell’ambito della
psicologia. I modelli più recenti preferiscono parlare di funzioni cognitive anziché di
intelligenza e in particolare i modelli psicometrici, che si propongono di misurare le
differenze individuali nelle abilità cognitive attraverso l’analisi statistica, riconducono la
maggior parte delle differenze individuali ad un “fattore g” (generale) presente in tutte
le misure di abilità cognitive, il quale fu inizialmente teorizzato da Spearman (1923).
3.1 Intelligenza fluida e intelligenza cristallizzata
Un primo contributo di Cattell fu relativo alla teorizzazione di due tipi distinti di
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capacità mentale adulta (Cattell, 1943c): 1) l’intelligenza fluida ha il carattere della
capacità di discriminare e percepire relazioni, fa riferimento ad abilità che non sono
trasmesse dalla cultura e non sono legate all’esperienza, aumenta fino all’adolescenza
per poi declinare lentamente; 2) l’intelligenza cristallizzata consiste nelle abitudini
discriminatorie che si acquisiscono in un particolare ambito tramite l’originaria
applicazione dell’intelligenza fluida, fa riferimento alla capacità di comprendere i
messaggi che vengono comunicati, alla capacità di giudizio e di ragionamento in
situazioni quotidiane, non declina fino ad età molto avanzate, migliorando fino a circa
60 anni per l’effetto cumulativo dell’esperienza. Secondo Cattell questa ipotesi indicava
la necessità di una misura duplice nei test di intelligenza per adulti al fine di prevedere
in modo affidabile le prestazioni individuali in situazioni e periodi differenti.
3.2 Il test Culture Fair
Il Culture Fair Intelligence Test (Cattell e Cattell, 1981) nacque con lo scopo di
ridurre le influenze derivanti dall’apprendimento culturale e dall’ambiente sociale,
senza perdere la predittività dei comportamenti pratici. Esso si basa sull’assunto, già
noto alla fine degli anni ‘20, che si possono costruire test relativamente liberi da
influenze culturali. Il test Culture Fair utilizza stimoli non verbali e garantisce
l’accuratezza dei confronti transculturali e l’assenza di bias culturali, e in questo si
differenzia dai test tradizionali di tipo verbale e numerico in quanto misura
abilità di lettura e di scrittura (Grw); 5) memoria a breve termine (Gsm); 6) intelligenza
fluida (Gf); 7) velocità di elaborazione (Gs); 8) immagazzinamento a lungo termine e
rievocazione (Glr); 9) elaborazione uditiva (Ga); 10) velocità nel prendere decisioni
(Gt). Vi sono inoltre molteplici abilità ristrette sottostanti ad ognuna delle abilità ampie.
Il modello CHC è un modello psicometrico delle abilità cognitive con una base
empirica molto forte e consente di valutare l’intelligenza e scegliere gli strumenti di
misura secondo una prospettiva condivisibile dal punto di vista metodologico. Esso
consentì la creazione della CHC Table of Cognitive Elements, una tavola che può essere
considerata analoga alla tavola periodica degli elementi in chimica e che permette una
descrizione operazionalizzata e univoca delle differenze individuali, riducendo gli errori
di interpretazione dei test.
McGrew classificò secondo il modello CHC i subtest delle più importanti scale di
intelligenza (McGrew e Flanagan, 1998), tra cui la Stanford-Binet Intelligence Scale e
le Scale di Wechsler, con l’obiettivo di individuare le abilità effettivamente misurate da
ciascun subtest delle diverse scale e selezionare quelli che misurano con maggiore
precisione le singole abilità. Tramite un’analisi fattoriale confermativa e altre prove di
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validità non fattoriali McGrew classificò i singoli subtest come misura di una o più
abilità Gf-Gc ristrette e ampie (stratum II e stratum I) e chiese a un gruppo di dieci
esperti di verificare le classificazioni dei subtest contenuti nelle scale, ottenendo nella
maggior parte dei casi valutazioni congrue con la classificazione dei fattori ampi Gf-Gc.
Prima della metà degli anni ‘80, il modello teorico aveva un ruolo secondario nella
creazione degli strumenti e la maggior parte degli strumenti antecedenti al 1998 non si
basava sul modello Gf-Gc, per cui si misuravano solo alcune abilità (generalmente
l’intelligenza cristallizzata e l’elaborazione visiva). A seguito dei lavori di Carroll
(1993) e di McGrew (1997), che modificarono criteri di costruzione e parametri di
lettura e valutazione dei risultati degli strumenti, questi misurarono in maniera adeguata
quattro o cinque abilità ampie, tra cui l’intelligenza fluida e la velocità di elaborazione.
Alcuni di questi strumenti sono costruiti facendo riferimento al modello CHC, come ad
esempio la Woodcock-Johnson III (McGrew e Woodcock, 2001). Altri strumenti sono
una riedizione di strumenti già esistenti, come la Stanford-Binet Intelligence Scale, Fifth
Edition (Roid, 2003).
Un esempio rilevante è dato dalla modifica delle Scale Wechsler per bambini in
relazione al cambiamento del modello teorico. Il passaggio dalla concezione
dell’intelligenza come fattore g alla sua concettualizzazione come insieme di abilità
molteplici modifica l’importanza attribuita al Quoziente Intellettivo totale, accresce il
numero dei punteggi compositi da calcolare e ne aumenta la specificità.
Nella Wechsler Intelligence Scale for Children (WISC), Fourth Edition (Wechsler,
2003) viene abbandonato il raggruppamento dei subtest in scala verbale e di
performance e non si calcolano più i corrispondenti Quozienti Intellettivi: scompaiono,
pertanto, i termini “QI verbale” e “QI di performance”. L’importanza del QI totale si
riduce e assumono una rilevanza sempre maggiore gli indici di comprensione verbale,
ragionamento percettivo, memoria di lavoro e velocità di elaborazione.
5 I risvolti applicativi 5 I risvolti applicativi 5 I risvolti applicativi 5 I risvolti applicativi del 16PF Questionnairedel 16PF Questionnairedel 16PF Questionnairedel 16PF Questionnaire
Il 16PF Questionnaire può risultare molto utile come predittore di performance in
ambito aziendale ed è utilizzato nell’orientamento e nel counselling rieducativo, nonché
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in ambito clinico (Cattell, Cattell e Cattell, 2001).
In un setting di counselling psicologico il 16PF può dare benefici nella
comprensione della personalità complessiva del cliente, nel facilitare la conversazione e
l’interazione con i clienti, nell’anticipare aspetti che potrebbero ostacolare l’auto-
consapevolezza, il progresso e la comunicazione con il professionista, nel suggerire aree
di approfondimento (Cattell e Schuerger, 2003). Esso può agevolare lo sviluppo
dell’empatia e della relazione con il cliente attraverso la discussione sulla sua
personalità. In un individuo possono essere rivelate l’autostima, lo stile cognitivo, la
capacità di insight, l’apertura al cambiamento e la capacità empatica (Cattell e
Nesselroade, 1967). Ciò consente di sviluppare dei piani di lavoro con pazienti che
hanno problemi di comportamento entro i limiti di normalità. Il 16PF può inoltre essere
usato come supporto per terapie di coppia.
Vi sono cinque passi da seguire al fine di agevolare l’interazione con il cliente
(Cattell e Schuerger, 2003):
1) valutare la motivazione del cliente per la terapia e la sua abilità a comprendere le
interpretazioni astratte, al di là degli aspetti concreti;
2) valutare l’accessibilità emotiva del cliente e la sua capacità di intrattenere la
relazione con il professionista, tramite l’analisi dei valori nei fattori2 A
(“espansività), H (“audacia sociale”), N (“prudenza”), Q2 (“fiducia in sé”);
3) stimare i pattern di motivazione primaria del cliente, in modo da scegliere interventi
che siano compatibili con le sue preferenze;
4) valutare lo stile di interazione sociale preferito del cliente tramite l’analisi dei valori
nelle scale globali di estroversione ed indipendenza;
5) stimare le risorse emozionali del cliente e la sua resilienza.
Per quanto riguarda le applicazioni cliniche, queste furono inizialmente trascurate
nella letteratura, che si concentrò invece sulla descrizione della personalità in generale.
Ciò avvenne fino a metà degli anni ’70, quando Karson e O’Dell (1976) riuscirono ad
ottenere informazioni sugli usi clinici del questionario tramite una procedura
particolare: essi collezionarono circa 100 interpretazioni cieche (senza conoscenza dei
2 La denominazione dei fattori in questo paragrafo avviene con riferimento alla terminologia del 16PF-5.
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soggetti) nell’arco di diversi mesi, ogni interpretazione fu analizzata nel suo contenuto e
ogni affermazione sulle caratteristiche dei pazienti fu annotata insieme al relativo
punteggio del 16PF. Ordinando queste annotazioni sulla base dei punteggi per ognuno
dei fattori, si ottenne una collezione oggettiva di interpretazioni delle varie scale. Di
seguito elenchiamo le conclusioni a cui giunsero gli autori (Karson e O’Dell, 1976) con
riferimento ai fattori del primo ordine del 16PF.
1) Fattore A (“espansività”)
In ambito clinico il fattore A indica il calore umano. I soggetti che mostrano
deviazioni estreme in senso negativo o positivo presentano presumibilmente dei
tratti problematici. Soggetti con valori elevati nel fattore A presentano valori bassi
nel fattore Q2 (“fiducia in sé”) e quindi mostrano un’alta dipendenza dal gruppo.
Soggetti con valori molto bassi nel fattore A sono estremamente riservati e
distaccati e possono incorrere in seri problemi di adattamento.
2) Fattore B (“ragionamento”)
Questo fattore presenta delle limitazioni in termini di valutazione dell’intelligenza
generale, ma è un buon indicatore dell’attenzione del soggetto nella compilazione
del test. Un punteggio molto basso nel caso in cui c’è evidenza che il soggetto si sia
impegnato richiede degli approfondimenti: pazienti in preda ad un attacco d’ansia,
ad esempio, non riescono a concentrarsi a sufficienza per rispondere correttamente
agli item previsti. In casi del genere può essere sufficiente chiedere al soggetto i
motivi della sua difficoltà per evidenziare dei problemi di concentrazione.
3) Fattore C (“stabilità emotiva”)
In ambito clinico il fattore C indica la forza dell’Io. Questo fattore, insieme ai
fattori di ansietà del secondo ordine, sono tra gli indicatori più importanti per la
ricerca clinica della psicopatologia. Il fattore C è un ottimo stimatore della stabilità
emotiva. Una persona con valori molto bassi in questo fattore può manifestare
difficoltà di adattamento su molti fronti e in tale caso si può dedurre una delle due
circostanze seguenti: a) la persona potrebbe avere una tendenza ad apparire in
maniera peggiorativa (“fake bad”), come tipicamente avviene quando il soggetto
cerca di enfatizzare i propri disagi per mostrarsi idoneo per una psicoterapia; b) la
persona manifesta effettivamente dei seri disagi, non essendo in grado di
riconoscere le implicazioni sociali degli item a cui sta rispondendo, ad esempio in
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quanto prova un forte risentimento verso altre persone. La differenziazione delle
due casistiche può essere effettuata tramite l’analisi degli altri fattori: il primo caso
può essere collegato con alti valori nei fattore O (“apprensività”) e Q4 (“tensione”),
il secondo caso può essere collegato con alti valori nel fattore L (“vigilanza”) e
bassi valori nel fattore Q3 (“perfezionismo”).
4) Fattore E (“dominanza”)
Elevati valori in questo fattore non sono indicativi di psicopatologia e sembrano
utili piuttosto a determinare tratti come la rabbia cronica. Valori bassi in questo
fattore possono essere indicativi di patologia: si tratta di individui eccessivamente
timidi, umili ed accomodanti che potrebbero essere affetti da un elevato livello di
sottomissione (in analogia a bassi livelli nel fattore A). Se i bassi livelli nel fattore E
si associano a bassi livelli nel fattore A ci si può aspettare lo sviluppo di tendenze
schizoidi. Tendenze suicide potrebbero essere collegate con valori molto bassi nei
fattori F (“vivacità”) e Q1 (“apertura al cambiamento”) ed elevati nei fattori O
(“apprensività”) e Q4 (“tensione”): l’ostilità viene rivolta dall’individuo quasi
totalmente su se stesso.
5) Fattore F (“vivacità”)
In ambito clinico il fattore F indica l’impulsività. Già Cattell, Eber e Tatsuoka
(1970) avevano rilevato che bassi punteggi nel fattore F potevano indicare problemi
di depressione. Tale circostanza indica una bassa opinione di sé del soggetto e
scarso ottimismo verso il futuro e quindi va presa in seria considerazione, in
particolare se tali punteggi sono accoppiati con elevati punteggi nei fattori O
(“apprensività”) e Q4 (“tensione”) e bassi punteggi nel fattore E (“dominanza”).
6) Fattore G (“coscienziosità”)
In ambito clinico il fattore G indica il conformismo al gruppo. Spesso valori bassi
in questo fattore si accoppiano con valori elevati nel fattore O (“apprensività”),
indicando un soggetto (spesso adolescente) che conosce le regole ma cerca di
aggirarle e avverte il senso di colpa legato a questa sua carenza di conformismo. Il
terapeuta ha il compito di rilevare al paziente questo circolo vizioso, in modo che
egli possa spezzarlo. Il fattore G e il fattore Q3 (“perfezionismo”) si accoppiano per
determinare il fattore di secondo ordine della sociopatia.
7) Fattore H (“audacia sociale”)
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Valori elevati in questo fattore indicano maggiormente un tratto caratteriale,
laddove valori bassi sono di maggiore interesse a fini patologici. Se valori bassi del
fattore H si associano a valori bassi nel fattore A (“espansività”) e ad elevati valori
nel fattore L (“vigilanza”) sono possibili tendenze paranoidi.
8) Fattore I (“sensibilità”)
Dal punto di vista clinico questo fattore non è strettamente associato alla patologia,
in particolare se è l’unico fattore deviante nel profilo del soggetto.
9) Fattore L (“vigilanza”)
In ambito clinico il fattore L indica la diffidenza. Valori elevati in questo fattore
indicano elevate ansia e rigidità e, in caso di valori estremi, la possibilità che il
soggetto sia affetto da sindrome paranoide. Valori bassi, al contrario, indicano
assenza di patologia: si tratta di un individuo che manifesta una fiducia eccessiva
verso gli altri e quindi potrebbe rimanere spesso deluso, ma ciò non induce in lui
del risentimento.
10) Fattore M (“astrattezza”)
In ambito clinico il fattore M indica l’immaginazione. Valori alti in questo fattore
indicano propensione in attività intellettuali ed estetiche. Valori bassi in questo
fattore indicano assenza di tali interessi e una certa propensione alla praticità e sono
inoltre discriminanti della nevrosi d’ansia (valori superiori) rispetto a disturbi
psicosomatici (valori inferiori).
11) Fattore N (“prudenza”)
In ambito clinico il fattore N indica la scaltrezza. Soggetti che presentano valori
bassi in questo fattore hanno problemi nello stabilire delle relazioni sociali, mentre
soggetti che presentano valori elevati hanno il potenziale per un buon adattamento,
in particolare se tali valori si associano a valori elevati nel fattore E (“dominanza”),
H (“audacia sociale”) e B (“ragionamento”).
12) Fattore O (“apprensività”)
In ambito clinico il fattore O indica la propensione al senso di colpa. Valori estremi
su questa scala indicano l’esigenza di un’investigazione più approfondita. Valori
bassi si associano a elevata auto-confidenza e al rischio di scarsa adeguatezza nei
controlli a livello di super-Io (secondo l’idea di Freud), in particolare se sono
associati a valori bassi nel fattore G (“coscienziosità”) che stanno ad indicare scarso
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conformismo agli standard di gruppo, caso in cui si può generare una nevrosi (in
particolare tra gli adolescenti). Valori elevati si associano invece al rischio che il
soggetto venga travolto dai sensi di colpa, ad elevata apprensività e, in casi estremi,
sono dei buoni indicatori di depressione, in particolare se si associano a bassi valori
nel fattore F (“vivacità”).
13) Fattore Q1 (“apertura al cambiamento”)
Dal punto di vista clinico, questo fattore indica la propensione ad essere ribelli ed è
indicativo di un tratto caratteriale. Elevati valori in questo fattore indicano problemi
nel gestire la relazione con l’autorità, in termini di una forma intellettualizzata di
ribellione (differente dalla ribellione adolescenziale).
14) Fattore Q2 (“fiducia in sé”)
Dal punto di vista clinico questo fattore indica l’auto-sufficienza in termini di
dipendenza dal gruppo sociale ed è di tipo introversione-estroversione. Elevati
valori in questo fattore, in particolare se associati a bassi valori nei fattori A
(“espansività”), F (“vivacità”), H (“audacia sociale”) e B (“ragionamento”)
indicano un estremo isolamento rispetto agli altri; invece valori bassi in questo
fattore sono indicatori del rischio di influenza da parte di cattive compagnie.
15) Fattore Q3 (“perfezionismo”)
Dal punto di vista clinico questo fattore indica l’abilita a controllare l’ansia.
Persone che hanno elevati valori in questo fattore riflettono prima di agire e sono
dei buoni “organizzatori”, ma valori troppo elevati indicano una compromissione di
flessibilità e creatività. Valori bassi in questo fattore, se associati ad altri indicatori
di ansia, indicano che la persona è incapace di incanalare positivamente l’energia
vitale.
16) Fattore Q4 (“tensione”)
Dal punto di vista clinico questo fattore indica l’ansia fluttuante ed è per eccellenza
il fattore indicatore dell’ansia nel 16PF. La scala Q4 prevede item molto trasparenti
e quindi non è difficile che si verifichino dei bias di risposta. Pertanto elevati valori
in questo fattore si associano a una tensione così elevata che il soggetto ne è
sopraffatto e indicano il rischio di nevrosi ansiosa: la persona tipicamente ha
problemi nel mantenere la calma, non è capace di tollerare le critiche, è preoccupata
del futuro. Ciò avviene in particolare in corrispondenza di bassi valori nei fattori L
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(“vigilanza”) e O (“apprensività”) e di elevati valori nel fattore C (“stabilità
emotiva”).
Nell’ambito dell’orientamento il 16PF può essere utilizzato per la definizione di
percorsi di carriera di studenti universitari, potendo valutare aree di compatibilità,
soddisfazione o potenziale conflitto nelle relazioni personali e professionali (Cattell e
Nesselroade, 1967). Manuel, Borges e Gerzina (2005) hanno suggerito una correlazione
tra caratteristiche di personalità e competenza clinica degli studenti di medicina. Agli
studenti fu somministrato il 16PF e il Clinical Skills Assessment (CSA) III; i risultati
indicarono una correlazione tra punteggi elevati nel fattore A (“espansività”) e bassi nel
fattore N (“prudenza”) con punteggi elevati nel CSA III.
Il 16PF rappresenta inoltre un buon esempio di questionario di personalità
ampiamente utilizzato in Italia nell’ambito della psicologia del lavoro come predittore
del successo in campi specifici di carriera e collocamento. Esso può quindi essere
utilizzato per la valutazione organizzativa delle risorse umane al fine di orientare la
carriera dei dipendenti di un’azienda (Novaga e Pedon, 1977) e per la selezione del
personale.
Il 16PF ha dimostrato di essere anche un buon predittore delle prestazioni superiori
legate al lavoro. In particolare, uno studio di Lunenburg e Columba (1992) ha mostrato,
tramite l’uso di tecniche di regressione multipla, che i fattori E (“dominanza”), M
(“astrattezza”), Q2 (“fiducia in sé”) e A (“espansività”) sono predittori di prestazioni
superiori per responsabili nell’ambito dell’istruzione.
L’interpretazione dei protocolli è basata sull’analisi delle 16 dimensioni di primo
ordine e dei 5 fattori di secondo ordine. Sono state proposte e sono in uso delle modalità
specifiche di lettura, orientate alla rilevazione di dimensioni strettamente connesse alla
realtà professionale, come ad esempio la leadership. Quest’uso è in linea con gli studi
nell’ambito della psicologia industriale tra gli anni ‘50 e ‘60, che diedero vita a profili di
personalità correlati a profili professionali (Cattell, Eber e Tatsuoka, 1970).