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3 economia italiana COMITATO SCIENTIFICO MICHELE BARBATO, GIORGIO BASEVI, INNOCENZO CIPOLLETTA, ANTONIO FAZIO, MICHELE FRATIANNI, ANTONIO MARIA FUSCO, ANTONIO MARZANO,ANDREA MONORCHIO, ANTONIO PEDONE, GUIDO MARIA REY , DOMINICK SALVATORE, P AOLO SAVONA, FRANCO SPINELLI, ANGELO TANTAZZI, GIANNI ZANDANO DIRETTORE SCIENTIFICO P AOLO SAVONA DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE BARBATO RIVISTA QUADRIMESTRALE EDITA DA CAPITALIA
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Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana

May 16, 2023

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Page 1: Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana

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economiaitaliana

COMITATO SCIENTIFICO

MICHELE BARBATO, GIORGIO BASEVI, INNOCENZO CIPOLLETTA,ANTONIO FAZIO, MICHELE FRATIANNI, ANTONIO MARIA FUSCO, ANTONIO MARZANO, ANDREA MONORCHIO, ANTONIO PEDONE,GUIDO MARIA REY, DOMINICK SALVATORE, PAOLO SAVONA, FRANCO SPINELLI, ANGELO TANTAZZI, GIANNI ZANDANO

DIRETTORE SCIENTIFICO

PAOLO SAVONA

DIRETTORE RESPONSABILE

MICHELE BARBATO

RIVISTA QUADRIMESTRALE EDITA DA CAPITALIA

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economiaitalianaEDITA DAL 1979*

DIRETTORE RESPONSABILE

Michele Barbato

GESTIONE EDITORIALE

Mario Calderoni

La corrispondenza e le comunicazioni relative alla Rivista, nonché le richieste di autoriz-zazione per la riproduzione di articoli, dovranno essere indirizzate a:

CAPITALIA SPA “ECONOMIA ITALIANA”Area Relazioni Esterne e ComunicazioneVia M. Minghetti, 17 - 00187 Roma

E-mail: [email protected]. 06 67070245 / 0339 / 0678Fax 06 67070241 / 0778

Le opinioni e i giudizi espressi dagli Autori in questo fascicolo non impegnano la respon-sabilità di CAPITALIA SpA.

La Rivista può essere richiesta gratuitamente a CAPITALIA.Questa copia è fuori commercio, ma può essere acquistata presso i punti di vendita dellaCasa editrice Feltrinelli.

* Edizione italiana di “Review of Economic Conditions in Italy”, fondata da Costantino BrescianiTurroni nel 1947.

REDAZIONE

Giovanni Farese

AMMINISTRAZIONE E COORDINAMENTO

Laura Guglielmotti Biancucci

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Temi di discussioneMARCO FORTIS e MONICA CARMINATI: I distretti industriali nella realtà economica e normativa dell’Italia ................................. 9GIANCARLO CORÒ e STEFANO MICELLI: I distretti industriali come sistemi locali dell’innovazione: imprese leader e nuovi vantaggi competitivi dell’industria italiana ......................... 47FABIO SFORZI: Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana ......................................... 79SERGIO LUGARESI e ZENO ROTONDI: Internazionalizzazione e finanziamento dei distretti industriali........................................ 105

Studi e ricercheGIUSEPPE GUARINO: Stato sociale e sviluppo in Italia (1945-1992): notazioni e ipotesi..................................... 129FLAVIO MONDELLO: Il 50° anniversario della firma dei Trattati di Roma .................................................. 163

Studi di settoreA CURA DI SIMONA CAMERANO, ALBERTO CARRIERO, MARIA ELENA PERRETTI, LAURA TORCHIO:Don’t stop me now – Il trasporto marittimo di merci e la cantieristica navale ............................................................. 183

Incontri - Dibattiti - CommentiPAOLO SAVONA: Su Eurosistema ................................................... 213

Rassegna dei provvedimenti economici e finanziariA CURA DI BRUNO COSTI

Le liberalizzazioni del Governo Prodi nei Pacchetti Bersani 1 e 2 ....... 219

Rassegna della letteratura economicaA CURA DI ANTONIO MARIA FUSCOLetture:

Ricette per un’Europa che segna il passo ............................. 243Su Claudio Napoleoni e il suo marxismo critico ...................... 251

Schede .................................................................................... 263

indice

economiaitaliana

ANNO 2007 - N. 1 GENNAIO-APRILE

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Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana

Fabio Sforzi*

Nel periodo 1981-2001 l’economia italiana si è terziarizzata. La perdita diposti di lavoro nell’industria manifatturiera è stata maggiore nelle economielocali non distrettuali che in quelle distrettuali. Non solo, ma i settori mani-fatturieri nei quali i distretti sono specializzati o in cui si trovano localizzatihanno mostrato performance occupazionali migliori delle restanti economielocali del paese (cfr. Appendice). Inoltre, nei distretti, la crescita di occupa-zione nei servizi alle imprese, compresi quelli relativi alle ICT, è stata più vi-gorosa che altrove. Negli anni recenti (2001-2004) sembra che per i distrettiqueste tendenze siano rallentate. A differenza che in passato, anche le econo-mie distrettuali si sarebbero mostrate più vulnerabili alle trasformazioni del-l’economia mondiale. Qualunque siano le cause di questa inaspettata vulne-rabilità, esse non vanno ricercate nella dimensione delle imprese distrettuali.Il modo di produzione distrettuale è il più adatto a sostenere una domandaframmentata e variabile, ma non lo è altrettanto per competere sui mercati dimassa. Oltre ai mercati, si dovrebbero chiamare in causa le istituzioni e chie-dersi come sia potuto accadere che dopo quindici anni di politiche industria-li per i distretti, questi appaiano oggi più deboli di ieri invece che più forti.

1. Introduzione

L’approccio distrettuale allo studio dell’industria sposta l’accento dal-l’impresa al luogo dove l’impresa – piccola o grande che sia – svolge, tuttao in parte, la produzione. Ogni luogo è contrassegnato da un sistema divalori, da un modo di organizzare la produzione, dalla presenza di istitu-zioni (sociali e politiche). Famiglie, imprese e istituzioni si compenetranofra loro attraverso modalità differenti da un luogo a un altro, secondo gra-di di intensità variabili da un tempo a un altro, che nelle realtà produttivepiù consolidate hanno portato alla formazione di un cultura industriale lo-cale tipica (Sforzi, 2005). Vale per Prato come per Torino, fatte salve le dif-

* Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Parma; e-mail: [email protected].

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1 Il distretto industriale è un organismo produttivo e, più in generale, sociale, che cambia nel tempo.Il cambiamento è alla base della sua vitalità, ma può portare anche alla sua scomparsa; ovvero, allasua evoluzione verso altre forme organizzative della produzione. L’individuazione dei distretti indu-striali secondo la metodologia Sforzi-Istat applicata ai dati di censimento del 1991 (Istat, 1996; Sforzie Lorenzini, 2002) e rivista nel 2001 (Istat, 2006a) si fonda sui sistemi locali del lavoro come unità d’a-nalisi (Istat, 1997). I sistemi locali rappresentano luoghi di vita, cioè ambiti territoriali dove si svolgela maggior parte della vita quotidiana delle persone che vi abitano e vi lavorano. Essi ripartisconocompiutamente il territorio italiano e cambiano nel tempo, sia riguardo ai confini sia riguardo allanumerosità, in relazione al cambiamento di localizzazione delle unità produttive e di residenza dellepersone che vi lavorano, data la possibilità e la convenienza a spostarsi quotidianamente per recarsia lavoro dalla propria abitazione, facendovi ritorno alla fine della giornata lavorativa. I sistemi localifurono individuati in Italia per la prima volta sulla base dei dati del Censimento della popolazionedel 1981 (Irpet-Istat, 1986) e sono stati aggiornati nel 1991 e nel 2001 (Istat, 1997 e 2006). I distretti in-dustriali ai quali si farà riferimento in questo articolo sono quelli individuati nel 1981 e nel 2001, defi-niti in base ai dati statistici dei rispettivi censimenti a partire dai sistemi locali dell’epoca. Questi risul-tati fanno parte di un progetto di ricerca sviluppato dall’Istat insieme al Dipartimento di Economiadell’Università degli Studi di Parma, del quale chi scrive è responsabile scientifico. Si ringrazia Fran-co Lorenzini, dell’Istat, per la disponibilità ad anticipare in questa sede alcuni risultati della ricerca.L’Istat, in occasione del censimento dell’industria e dei servizi del 2001, ha diffuso i dati economiciper i sistemi locali e i distretti industriali 2001 anche in retrospettiva (a partire dal censimento del1971), pur nella consapevolezza che né i sistemi locali, né i distretti del 2001 esistevano nella confi-gurazione attuale prima di questa data. Di conseguenza, un’analisi dei distretti industriali che fossefondata sull’elaborazione dei dati per distretto in serie storica (1971-2001) porterebbe a un’interpre-tazione erronea del cambiamento economico dei distretti.

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ferenze sotto il profilo industriale, fra il modo distrettuale e quello neo-fordista di organizzare la produzione.

Questo modo di guardare all’impresa, come a un processo produtti-vo localizzato, porta a una ri-definizione dei “motori” dello sviluppo in-dustriale italiano: non già grandi e piccole-medie imprese, ma sistemilocali variamente costituiti da raggruppamenti di imprese, ora focaliz-zati su una grande impresa connessa da un rapporto di gerarchia con lealtre imprese, ora composti da una popolazione di piccole-medie im-prese connesse da rapporti flessibili di cooperazione e competizione.

Gli studi empirici condotti in Italia negli ultimi dieci anni (Istat, 1996,1997 e 2005) hanno messo in evidenza che la maggior parte dei sistemilocali, di grande o di piccola-media impresa, sono specializzati in unasingola industria, accanto alla quale il più delle volte si co-localizzanoindustrie ausiliarie e imprese di servizi che forniscono input e servizidedicati. Fra i sistemi locali specializzati, quelli di piccola-media impre-sa corrispondono ai distretti industriali (Istat, 1996 e 2006a).

Per valutare con efficacia il contributo dei distretti industriali al cam-biamento dell’economia italiana, si metteranno a confronto le econo-mie distrettuali con altre tipologie di economie locali1.

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2. Il cambiamento economico in Italia (1981-2001)

Il numero di occupati in Italia nel periodo 1981-2001, corrispondenteagli ultimi due decenni censuari, è aumentato del 15 per cento.

Questa crescita generale dell’occupazione è stata sostenuta dall’au-mento di posti di lavoro nei servizi (tranne che in quelli tradizionali). Inparticolare, i posti di lavoro sono più che raddoppiati nei servizi alleimprese (cfr. in Appendice la Tabella 1).

L’industria manifatturiera, al contrario, ha ridotto l’occupazione nellamisura del 15,9 per cento. Questo valore medio contiene dinamichesettoriali fra loro molto diverse. Ad eccezione della meccanica, che au-menta l’occupazione (+2 per cento), tutte le altre industrie manifattu-riere perdono posti di lavoro: le industrie metallurgiche più di ogni al-tra (-51,7 per cento), seguite dal tessile-abbigliamento (-36,1 per cento)e dalle industrie dei mezzi di trasporto (-33,3 per cento); quindi, dalleindustrie che producono beni per la persona e per la casa (pelletteria ecalzature: -25,6 per cento; mobili e legno, piastrelle ecc.: -20,5 per cen-to). Al di sotto di questa soglia si collocano le industrie chimiche, plasti-che e dei derivati del petrolio (-18,4 per cento), e via via tutte le altre(Tabella 2).

Il risultato di questi cambiamenti occupazionali modifica in parte laspecializzazione settoriale della manifattura italiana. La meccanica con-tinua a occupare il primo posto, i beni per la casa scavalcano al secon-do posto il tessile-abbigliamento e le industrie alimentari superano, alquarto posto, quelle dei derivati del petrolio, mentre le restanti indu-strie mantengono le loro precedenti posizioni. Cambia in misura signi-ficativa il peso occupazionale del tessile-abbigliamento (-3,9 punti per-centuali), delle industrie metallurgiche e dei mezzi di trasporto (rispet-tivamente: -1,6 e -1,5 punti percentuali) sul totale della manifattura.

3. L’Italia: un paese industriale

In che misura, dopo questo ridimensionamento dell’occupazionemanifatturiera, l’Italia resta un paese industriale?

Ancora nel 1981 l’occupazione manifatturiera superava quella nei ser-vizi (con l’esclusione dei servizi tradizionali, che comprendono anche la

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pubblica amministrazione): 34,5 per cento contro 29,9 per cento (+4,6punti percentuali). Nel 2001 la situazione si è invertita, poiché la quotadi occupazione manifatturiera è nettamente sopravanzata da quella neiservizi: 25,3 per cento contro 42,2 per cento (-16,9 punti percentuali).

Come si è detto in precedenza, in vent’anni i posti di lavoro nei servi-zi alle imprese sono più che raddoppiati. Questa crescita ha portato aun incremento di +8,5 punti percentuali sul totale dell’occupazione ita-liana, un guadagno di poco inferiore alla perdita di posti di lavoro subi-ta dalla manifattura: -9,3 punti percentuali. Con questo, non si vuolesostenere che si tratti di una sostituzione di occupazione, piuttosto chein certi casi la crescita industriale si è manifestata non attraverso l’au-mento di occupazione nella manifattura, bensì nei servizi alle imprese.È del tutto verosimile che questo sia accaduto nelle economie distret-tuali, dove l’espansione dell’industria si traduce in un aumento dellanumerosità delle imprese, e di quelle specializzate nei servizi alle im-prese in particolare, a mano a mano che l’apparato industriale si rinno-va tecnologicamente e si internazionalizza, sia dal lato del commercio,sia dal lato della produzione.

Alla luce dei dati di censimento, lo spostamento verso i servizi ha riguar-dato tutte le economie locali manifatturiere, ma con intensità variabile. Lacrescita maggiore si è avuta nelle economie distrettuali (+142 per cento),che ora contribuiscono più del doppio delle altre economie locali mani-fatturiere all’occupazione nazionale (20,8 per cento). A questo fatto va ag-giunto che le economie distrettuali concentrano il maggior numero di po-sti di lavoro manifatturieri dell’intero paese (39,3 per cento).

Naturalmente, i servizi alle imprese sono cresciuti di importanza an-che nelle economie metropolitane, che forniscono servizi al resto del-l’economia italiana (Tabella 3).

4. I distretti hanno impedito la scomparsa dell’Italia industriale

Il declino occupazionale dell’industria manifatturiera che si è consu-mato in Italia negli ultimi vent’anni del Novecento, dopo una crescitaininterrotta durata fino al 1981 (ancora nel decennio 1971-1981 l’occu-pazione manifatturiera era aumentata del 14,3 per cento), è statistica-mente evidente. Il fatto, poi, che la diminuzione di occupazione abbia

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riguardato tutti i settori, a eccezione – come si è detto all’inizio – dellameccanica, fa capire che si è trattato di un fenomeno generalizzato enon di specifiche crisi settoriali, anche se alcuni settori hanno ridottopiù di altri l’occupazione o più di altri hanno fatto notizia (ad esempio,la siderurgia e l’industria automobilistica).

All’interno di questo andamento negativo generalizzato, non è certoragionevole pensare che i distretti industriali potessero rivelarsi immu-ni. Tuttavia, per via della loro natura di forma organizzativa della pro-duzione in cui l’iniziativa non è in mano a una sola impresa, ma a unnumero elevato di imprese, i distretti sono i più rapidi a cogliere le op-portunità della crescita economica (facendo leva sulla loro versatilitàproduttiva e commerciale) e i più resistenti di fronte alle crisi (c’è sem-pre un certo numero di imprese innovatrici capaci di rinnovare la gam-ma dei prodotti e le relative tecniche di lavorazione, oltre a trovarenuovi mercati sui quali venderli). Sempre che una crisi non duri così alungo da consumare irrimediabilmente il capitale di fiducia, che è unfattore costitutivo determinante del distretto (Dei Ottati, 2003).

Se per alcuni settori vi è un’Italia industriale diversa dall’Italia dei di-stretti – com’è il caso della siderurgia o dell’industria automobilistica,dove i distretti non possono contrastare la scomparsa dell’Italia indu-striale – per i settori del made in Italy questa considerazione non vale.In questi settori, i distretti occupano una posizione di rilievo, nonostan-te che essi si localizzino anche al di fuori degli stessi. Detto in altro mo-do, i settori del made in Italy non sono interamente distrettualizzati: al-cuni lo sono di più, altri di meno, poiché fanno parte di economie me-tropolitane o di grande impresa (ad esempio, la produzione di beni perla casa è uno dei settori meno distrettualizzati). Perciò, è importante ve-rificare se l’appartenenza o no al distretto ha influito sulle dinamiche deisingoli settori.

I distretti industriali, con riferimento ai settori nei quali sono specializza-ti o che vi si trovano localizzati, mostrano tutti quanti performance occu-pazionali migliori delle economie locali che costituiscono la parte restantedel sistema produttivo italiano. Questo accade anche quando si tratta diperformance negative, che nei distretti lo sono meno (Tabella 4).

Fra le performance positive, un caso emblematico è quello della mec-canica. Nella media nazionale l’occupazione cresce (+2 per cento), maquesto valore è il risultato di due andamenti divergenti: negativo, quel-

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lo delle economie locali non distrettuali (-5,3 per cento); positivo, quel-lo delle economie distrettuali (+15,7 per cento).

In conclusione, le economie distrettuali si sono rivelate meno vulne-rabili e più reattive delle altre economie locali del paese di fronte aiprocessi di cambiamento economico.

5. Il cambiamento della struttura dimensionale dei distretti industriali

Se esaminiamo il cambiamento dell’industria italiana sotto il profilodella dimensione degli impianti, si riscontra che la perdita occupazio-nale degli anni 1981-2001 ha riguardato tutte le classi dimensionali, aeccezione delle piccole imprese (10-49 addetti). Nelle economie di-strettuali l’occupazione nelle piccole imprese è cresciuta a un ritmomaggiore delle altre economie locali manifatturiere, ma inferiore aquello registrato nelle economie metropolitane (Tabella 5).

Ciò nonostante, le economie distrettuali restano caratterizzate dallepiccole imprese, poiché è qui che si localizza quasi la metà dell’occu-pazione nazionale di questa classe dimensionale (45,8 per cento). Neidistretti si trova anche la quota più elevata di occupazione delle micro-imprese (37,6 per cento), per quanto ciò non ne rappresenti il tratto di-stintivo, che appartiene ad altre economie locali non manifatturiere.

In Italia, la media impresa sta calamitando l’interesse degli studiosi edei politici da quando si è fatta strada l’idea che essa rappresenti la nuo-va fase del capitalismo italiano, dopo quella delle grandi imprese priva-te, delle partecipazioni statali e dei distretti industriali (Colli, 2002). Sen-za entrare nel merito di questo dibattito, è tuttavia opportuno richiamarel’attenzione sul fatto che la media impresa conta il maggior numero dioccupati proprio nei distretti industriali (Tabella 5). Se poi guardiamo lastruttura dimensionale delle economie distrettuali, è vero che essa restacentrata sulle unità di piccola dimensione, ma è altrettanto vero che ilpeso occupazionale della media impresa è di poco inferiore, se nonmaggiore, a quello che si riscontra nelle altre economie locali manifattu-riere: dipende dal modo in cui si definisce la media impresa (Tabella 6).

Ciò dovrebbe far riflettere su quanto sia fuorviante la contrapposi-zione tra quarto capitalismo e capitalismo distrettuale. Se non si trattadella stessa cosa, è perché, in un caso, si ragiona assumendo come

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2 Sul problema della formazione di un’architettura istituzionale per lo sviluppo locale si veda Sera-valli (2006).

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unità d’analisi l’impresa, deprivata dell’ambiente esterno prossimo,che costituisce il suo tessuto vitale (produttivo, sociale e istituzionale)e influisce sul suo successo competitivo nel corso del tempo (Porter,1991); nell’altro caso, si ragiona assumendo come unità d’analisi pro-prio l’ambiente esterno prossimo dell’impresa, il luogo (o sistema lo-cale) del quale essa fa parte, considerandolo come la vera e propriaunità di produzione. L’attenzione per il luogo di vita dell’impresa – chenon è necessariamente unico, se l’impresa è multilocalizzata – nonrappresenta una prerogativa dell’approccio distrettuale, ma appartie-ne a una tradizione interpretativa della realtà economica che conside-ra la produzione attraverso il modo in cui essa si organizza nel territo-rio. Questo approccio implica un disegno di politica industriale in cui,invece delle agevolazioni alle imprese, contano i beni pubblici che leistituzioni locali e intermedie – di loro iniziativa o per iniziativa del go-verno centrale, quindi attraverso un processo di cooperazione inter-istituzionale dall’alto – mettono a disposizione della collettività delleimprese del luogo2.

6. Altri aspetti che aumentano l’importanza dei distretti industrialiper l’economia italiana

Si è già detto che negli ultimi due decenni censuari la crescita dell’occu-pazione italiana è stata guidata dai servizi, in particolare dai servizi alle im-prese, e che essa è stata particolarmente vigorosa nei distretti industriali.Questo sta a dimostrare che la co-localizzazione di attività manifatturiere edi servizi alle imprese non rappresenta necessariamente il risultato di pro-cessi di deindustrializzazione; viceversa, può significare che all’internodell’industria locale ha agito un meccanismo di specializzazione/integra-zione che ha portato a una nuova divisione del lavoro e allo sviluppo dinuove conoscenze produttive, come risultato dell’evoluzione competitivadell’apparato industriale. Detto altrimenti, la crescita dei servizi alle impre-se può essere la dimostrazione concreta dell’evoluzione commerciale etecnologica dell’industria locale, invece che del suo declino. Tutto questo,

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3 In questo capitolo si anticipano alcuni risultati della ricerca sulla localizzazione delle ICT in Italia cheè in corso (insieme ad Andrea Lasagni) presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Parma. 4 La definizione di ICT qui adottata è quella proposta dall’OECD (2000), modificata escludendo leattività commerciali. In proposito, si veda anche Iuzzolino (2002).

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sotto la condizione che fra le due attività vi sia un’effettiva integrazioneproduttiva, che solo la ricerca sul campo può confermare o smentire.

Un aspetto del cambiamento economico italiano sul quale è in corsoun vivace dibattito è la diffusione delle nuove tecnologie dell’informa-zione e della comunicazione (ICT) nell’industria manifatturiera. La loropresenza è considerata determinante per la crescita della produttività diun’economia locale3.

Tra il 1981 e il 2001 l’occupazione nelle ICT è cresciuta in Italia del77,9 per cento4. Si tratta di un valore medio che nasconde andamentimolto diversificati fra i vari settori che le compongono. A fronte di unadiminuzione dell’occupazione nella componente manifatturiera (-16,6per cento), l’occupazione nei servizi ha avuto un forte incremento(+584 per cento), che è stato molto più modesto nelle telecomunicazio-ni (+20,8 per cento) (Tabella 7).

Le economie distrettuali hanno segnato nei servizi la loro miglioreperformance (+658,3 per cento), determinando la crescita dell’occupa-zione delle ICT nel loro insieme (+62,6 per cento), dimostrandosi moltopiù dinamiche delle economie locali manifatturiere, sia in termini dimaggiore crescita, sia di minore perdita occupazionale nelle attività dovequesto accade: la componente manifatturiera e le telecomunicazioni.Queste ultime si rivelano un settore tipicamente metropolitano, come di-mostra il loro peso occupazionale sul totale Italia (67,8 per cento). Anco-ra, per quanto riguarda le economie distrettuali, non va sottovalutato ilpeso occupazionale della componente manifatturiera (21,3 per cento).

Alla luce di quanto si è detto, si può affermare che la diffusione dellenuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei distrettiindustriali è stata, nell’insieme, rilevante; di certo non meno che nellealtre economie locali. Così che nei distretti la struttura occupazionaledelle ICT si presenta principalmente costituita dai servizi (come in tuttele altre economie locali, ma in misura più marcata) e dalla manifattura(inferiore alle economie locali manifatturiere, seppure di poco, mamolto superiore alle restanti economie locali).

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5 ASIA-UL 2004 è il Registro statistico delle unità locali delle imprese (e dei relativi addetti) chel’Istat ha diffuso alla fine del 2006. I dati sono rilevati come “valore medio annuo” e, come tali,non sono comparabili con i dati rilevati attraverso i Censimenti generali dell’industria e dei ser-vizi. Inoltre, il campo di osservazione di ASIA-UL 2004 è diverso da quello del Censimento del2001, così che la comparabilità fra le due fonti statistiche è possibile solo a condizione che siproceda alla ricostruzione del dato censuario in base all’universo di riferimento di ASIA (Istat,2006b).6 I dati per sistema locale disponibili online (www.istat.it) non offrono la possibilità di determina-re l’occupazione dell’industria manifatturiera (poiché il dato relativo è stato aggregato alle altre at-tività industriali con le quali essa forma la c.d. “industria in senso stretto”) e neppure quella deiservizi alle imprese (poiché essi sono compresi tra gli “altri servizi”).

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•Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana

È difficile valutare, in assenza di riscontri statistici, quanto questa pre-senza nelle economie distrettuali di produttori di beni e servizi di ICTabbia inciso sull’aumento di produttività e contribuito a generare quel-le esternalità positive che si ritiene potrebbero portare alla formazionedi una filiera ICT nazionale (Sterlacchini, 2005). Appare, tuttavia, ragio-nevole affermare che una politica industriale orientata in tale direzionenon possa trascurare il fatto che queste attività si localizzano anche neidistretti e non solo al di fuori di essi, nei centri metropolitani. Politicheindustriali volte a favorire la nascita di distretti tecnologici e l’evoluzio-ne tecnologica dei distretti industriali non sembrano, dunque, configu-rarsi come due strategie alternative – contrariamente alla sensazioneche si ricava dalla lettura di alcuni rapporti di ricerca, funzionali all’ini-ziativa politica del governo (Fondazione Cotec, 2005) – bensì comple-mentari.

7. I cambiamenti recenti (2001-2004)

La crescita dell’occupazione in Italia nel periodo 1981-2001 è continuatafra il 2001 e il 2004 (+4,5 per cento). Ma è continuata anche la perdita di po-sti di lavoro nell’industria manifatturiera (-5 per cento).

Queste due affermazioni si basano sui dati diffusi dall’Istat attraver-so l’archivio ASIA-UL 20045. Allo stato attuale l’archivio non permetteun aggiornamento dell’analisi dei distretti industriali secondo la lineadi ricerca qui adottata6. Tuttavia, dalle stime che è stato possibile ef-fettuare, nelle economie distrettuali la crescita occupazionale sarebbeproceduta a un velocità inferiore (+2,7 per cento) a quella delle altreeconomie locali (+5,1 per cento), invertendo la tendenza riscontrata

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7 L’Istat, nella Nota di presentazione di ASIA-UL 2004, propone, con una certa cautela, un’analisidel cambiamento dei distretti tra il 2001 e il 2004 basata sulla variazione del numero di occupatiper mille abitanti residenti in età di lavoro 15-64 anni. Per quanto questo modo di misurare ilcambiamento sia incomparabile con quello qui adottato, vale la pena segnalare i risultati ai qua-li si giunge, dal momento che essi contribuiscono – pur senza alcun contraddittorio, vale a diresenza il confronto con le dinamiche delle altre economie locali – a formare l’opinione correntesulle difficoltà che le economie distrettuali avrebbero incontrato negli ultimi anni, dimostrandouna perdita di competitività. Si afferma nella Nota, che nel periodo 2001-2004 le principali va-riazioni negative si registrano nei distretti specializzati nel tessile-abbigliamento e nelle pelli,cuoio e calzature; e che nei distretti in crescita occupazionale i risultati appaiono molto mode-sti, mentre in quelli in crisi le contrazioni sono decisamente più importanti. Infine, si richiamal’attenzione sul fatto che nel 78 per cento dei distretti l’occupazione manifatturiera (su mille abi-tanti) risulta in diminuzione (Istat, 2006b, p. 7).

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in passato. Di conseguenza, vi sarebbe stata una leggera perdita dipeso occupazionale sull’Italia. A quali attività economiche si debbaattribuire questo andamento dell’occupazione al momento non èpossibile stabilirlo. D’altra parte, la presunta perdita di posti di lavoronella manifattura a livello nazionale non aiuta a sostenere l’ipotesiche questo settore sia stato estraneo alla modesta performance occu-pazionale dei distretti7.

8. La solitudine dei distretti industriali

8.1 La legislazione nazionale sui distretti: un’occasione mancata. Il ricono-scimento del ruolo dei distretti industriali nell’economia italiana si svol-ge lungo un arco temporale di quindici anni, che ha nella legge 317 del1991 e nella legge finanziaria del 2006 il suo inizio e la sua fine. Nelcampo della politica industriale, si tratta di una parabola che descrivel’involuzione concettuale del distretto piuttosto che l’evoluzione for-male delle politiche pubbliche a esso destinate.

L’involuzione concettuale consiste nel fatto che mentre al principio, nel-le intenzioni del legislatore nazionale, il distretto industriale identificava unsistema locale specializzato in un’industria, organizzata attraverso la coo-perazione tra imprese di piccola-media dimensione, alla fine esso corri-sponde a una libera associazione di imprese. E il luogo (vale a dire, la so-cietà locale e le istituzioni sociali e politiche) da fattore costitutivo del mo-dello di organizzazione distrettuale della produzione diventa espressionedella tendenza generale delle imprese ad agglomerarsi nel territorio.

L’evoluzione formale delle politiche consiste nel fatto che mentre al

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8 Questo accadde con l’approvazione della legge 11 maggio 1999, n. 140, “Norme in materia di at-tività produttive”. Una ricostruzione di questa fase dell’esperienza dei distretti industriali si trova inIPI-Ministero delle Attività Produttive (2002). 9 Il principio di laissez faire adottato dal governo dell’epoca discendeva dalla convinzione, diffusa inquegli anni, che i distretti fossero: “sistemi vincenti che non richiedevano risorse o interventi specifi-ci”, come ricorda Andrea Balestri in una nota sulle “Politiche industriali per i distretti” (s.d.). D’altraparte, nei convegni c’era chi sosteneva le ragioni dello Stato a non occuparsi dei distretti industriali einvitava a lasciar fare alle regioni e alle amministrazioni locali. L’errore fu di pensare che per mantene-re competitivi i distretti industriali, in tempi di globalizzazione, fossero ancora sufficienti le politicheche gli enti locali, di propria iniziativa, avevano attuato fino ad allora e che potevano continuare a rea-lizzare; ovvero, che fosse sufficiente ciò che le imprese potevano imparare attraverso i rapporti con laclientela o confrontandosi con i concorrenti. È ancora Balestri che richiama l’attenzione sul fatto chefino al 1995 – la data di costituzione del Club dei distretti – “gli stessi protagonisti dei [distretti indu-striali] non si sono preoccupati di coalizzarsi per rivendicare direttamente interventi in loro favore”.10 Un’analisi del cambiamento economico dei distretti industriali condotta regione per regione po-trebbe gettare luce sulla diversa efficacia che hanno avuto le politiche regionali.

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principio vi fu un tentativo, da parte del legislatore nazionale, di coor-dinare e indirizzare le politiche regionali per i distretti industriali, allafine esso si trasformò in una controversia sui criteri e i parametri perl’individuazione dei distretti da parte delle regioni. Finché la contro-versia fu risolta alla radice, lasciando ciascuna regione di decidere amodo suo8.

Il laissez faire del governo favorì soluzioni lobbistiche nell’indivi-duazione dei distretti industriali sottraendola a ogni verifica di fon-datezza9. Ogni regione disegnò la propria mappa dei distretti e definìle proprie politiche. Con quale efficacia è difficile verificarlo, in as-senza di rapporti di valutazione redatti da centri di ricerca indipen-denti10. I frequenti richiami alla “crisi dei distretti” che si trovano inletteratura, nella pubblicistica e nei documenti governativi – una cri-si che in qualche misura emerge anche dalla presente analisi – fareb-bero pensare che si è trattato di politiche poco incisive, se non addi-rittura sbagliate, nella misura in cui hanno favorito processi di delo-calizzazione, la cui ricaduta negativa sull’occupazione locale eraprevedibile (Spaventa e Monni, 2007).

Tuttavia, ciò che conta maggiormente, ai fini del nostro ragionamen-to, è che con la devoluzione alle regioni della materia distrettuale il go-verno attestò che i distretti industriali non rappresentavano una prioritàper la politica industriale nazionale.

La disponibilità di una mappa dei distretti industriali condivisa (tragoverno e regioni) è la condizione preliminare per definire una politicanazionale per i distretti. Nei paesi europei in cui esiste una politica in-

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11 È noto che l’impostazione adottata dal governo francese in materia di politica industriale si rea-lizza sia per settori sia per luoghi; ma l’esistenza di questa seconda dimensione della politica indu-striale francese sembra ignorata dal governo italiano quando confronta le proprie linee di politicaindustriale con quelle del vicino d’Oltralpe (Ministero dello Sviluppo Economico, 2006).12 In Italia si sta sviluppando un’interessante letteratura sul rapporto tra Università e sviluppo locale,con riguardo anche all’esperienza dei distretti industriali. A tale proposito, così scrive Laura Rama-ciotti, autrice di un recente libro sull’argomento: “La principale caratterizzazione dei distretti emilianiera data dalla forte interrelazione fra imprese, associazioni imprenditoriali e istituzioni locali, che in-sieme determinavano un contesto sociale solido e dinamico, in grado di garantire una continua in-novazione dei prodotti, senza generare fratture sociali. Negli ultimi anni, in tale contesto si stanno in-tegrando anche le università e i centri di ricerca pubblici presenti in regione” (Ramaciotti, 2006, p.10).

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dustriale nazionale anche su base territoriale, il ruolo dello Stato siesercita a partire dalla validazione dei luoghi nei quali tale politica saràattuata, come nel caso dei poli di competitività o dei poli di eccellenzarurale in Francia11.

8.2 Una politica nazionale per i distretti industriali. Affermare l’esigenzadel ruolo dello Stato nella politica per i distretti industriali vuol dire, in-nanzi tutto, riconoscere l’importanza che il sistema nazionale della ri-cerca e dell’istruzione scolastica, insieme all’Università, ha per il suc-cesso competitivo dei distretti12.

Le possibilità di sviluppo delle capacità umane specializzate – che so-no una delle principali determinanti del vantaggio competitivo distret-tuale – e che si formano attraverso il lavoro (Sforzi, 2005), sono maggio-ri se le persone occupate in un distretto hanno ricevuto un’istruzionescolastica, (generale e tecnica) che ha sviluppato le loro facoltà mentalie ha permesso loro di acquisire cognizioni d’avanguardia in specifici ra-mi del sapere a beneficio di particolari attività. È noto il modesto livellodi istruzione delle persone occupate nella maggior parte dei distretti in-dustriali. Uno dei compiti della politica nazionale dovrebbe essere rivol-to a sostenere l’innalzamento dei livelli d’istruzione attraverso “progettidi distretto” volti a valorizzare e incentivare (ad esempio, attraverso unsistema di borse di studio e di stage) la continuazione degli studi e l’ac-cesso a percorsi di studio in discipline scientifiche e tecnologiche.

Dal lato delle politiche industriali, lo sviluppo di nuove produzioninei settori ad alto contenuto tecnologico, allo scopo di modificare ilmodello di specializzazione settoriale dell’industria italiana, è un obiet-tivo condivisibile e va perseguito con risolutezza, ma dovrebbe tenereconto ab initio anche delle prevedibili ricadute sui distretti industriali,

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per via dei vantaggi di competitività che questi ne riceverebbero, oltreche per la possibilità di creare nuove filiere produttive.

La ricerca scientifica e tecnologica, come la produzione di beni e servizi,si svolge contemporaneamente nei luoghi e fra i luoghi, attraverso “reti diluoghi” che prendono parte a uno stesso progetto. Di solito, questo avvie-ne per condividere competenze professionali specifiche possedute daciascun luogo, la cui messa in rete aumenta le probabilità di raggiungeregli obiettivi stabiliti. Ebbene, delle reti di luoghi possono fare parte sia si-stemi locali di imprese dell’alta tecnologia, di solito corrispondenti ai prin-cipali centri metropolitani che sono anche sedi universitarie, sia distrettiindustriali, quelli che si collocano sulla frontiera dell’innovazione perquanto riguarda il settore o i prodotti nei quali sono specializzati13.

I distretti industriali non sono tutti uguali. Alcuni sono più evoluti dialtri, e non c’è ragione, né teorica né pratica, perché una politica indu-striale per i distretti debba essere uguale per tutti. Al contrario, una po-litica industriale nazionale deve tenere conto delle differenze esistentitra i distretti e, di conseguenza, essere necessariamente selettiva, inter-venendo solo su quei distretti che possono fare da traino per tutti gli al-tri della stessa specie.

Al pari della creazione dei distretti tecnologici, il miglioramento dellacompetitività dei distretti industriali, o anche soltanto di alcuni di essi,contribuisce al miglioramento della competitività dell’intera economianazionale. A nessuno sfugge questa verità elementare, ma il problemaè non dimenticarlo quando si tratta di disegnare la politica industrialedel paese. Eppure, ancora oggi le politiche industriali per la competiti-vità dei distretti si limitano a perseguire l’obiettivo della crescita dimen-sionale delle imprese14.

13 La contrapposizione fra distretti industriali e città, che si sta affermando anche in Italia, favorita inuna certa misura dalle politiche regionali dell’Unione europea, non dovrebbe essere vista di buon oc-chio, e tanto meno alimentata, dai responsabili delle politiche industriali. L’idea che le città oggi conti-no di più dei distretti nel contribuire allo sviluppo economico del paese è sbagliata, come lo era inpassato l’idea che i distretti contassero più delle città, o dei sistemi locali di grande impresa. Questacontinua rincorsa alla ricerca del modello-guida, al quale affidare le sorti del rilancio del sistema indu-striale italiano, impedisce di capire che la varietà di modelli – ciascuno dei quali reca uno specificocontributo allo sviluppo dell’economia nazionale – rappresenta la vera forza economica di un paese.Tutto questo non impedisce di stabilire delle priorità nelle politiche industriali, ma senza cedere allemode del momento; delle quali, è vero, gli studiosi non sono meno responsabili dei politici.14 Si veda, a tal proposito, lo Schema di disegno di legge “Interventi per l’innovazione industriale”dell’attuale governo.

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9. Conclusioni

I distretti, per quanto consta dai dati sull’occupazione, hanno contrasta-to con successo la scomparsa dell’Italia industriale. È soprattutto grazie al-l’evoluzione del loro apparato industriale che la terziarizzazione dell’eco-nomia italiana ha assunto i tratti distintivi dello spostamento dell’industriamanifatturiera verso i servizi anziché della deindustrializzazione.

La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comu-nicazione – malgrado in Italia sia ancora modesta – è stata maggiore neidistretti industriali che nelle altre economie locali e l’analisi della lorostruttura occupazionale mostra come essi siano più dotati, o lo siano inugual misura, di attività di produzione di beni e di servizi ICT.

Questa maggiore capacità innovativa dei distretti industriali dimostrache essi possono svolgere un ruolo determinante per lo sviluppo del si-stema industriale italiano, purché non li si releghi al ruolo di semplice“bastione difensivo” del made in Italy.

Un crescente numero di ricerche conferma che la prossimità geogra-fica e organizzativa fra imprese che operano in attività economiche cor-relate favorisce maggiori livelli di produttività e di innovazione. Questovale per tutti i settori, sia quelli più tradizionali, sia quelli ad alta tecno-logia. Si stanno perciò affermando, con riferimento sia ai paesi indu-strializzati, sia ai paesi via di sviluppo, strategie di industrializzazionefondate non sulle capacità di singole imprese, ancorché di grande di-mensione, ma su raggruppamenti di imprese che a seconda delle scuo-le di pensiero prendono il nome ora di cluster, ora di distretto15. Se per ipaesi in via di sviluppo il problema è come promuoverne la nascita,per i paesi industrializzati si tratta, invece, di far leva su quelli che giàesistono nel proprio tessuto produttivo – o che sono stati realizzati at-traverso politiche pubbliche (come in gran parte è il caso dei distrettitecnologici italiani) – per adoperarli quali strumenti di politica indu-striale. L’adozione di tale linea di politica industriale, caratterizzata daldistretto come unità di riferimento, purché non rappresenti un altromodo di chiamare le politiche settoriali (distretti industriali, tecnologi-ci, turistici, agricoli ecc.), dovrebbe portare al convincimento che an-

15 Sull’evoluzione dei due concetti è d’obbligo il rinvio a Porter (1991 e 1998) e a Becattini (2000 e2006). Riguardo ai paesi in via di sviluppo, si veda, fra gli altri, Van Dijk e Sverrisson (2003).

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16 Sul tema dei rapporti inter-distrettuali su scala internazionale si veda Bellandi (2006).

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che i distretti industriali, al pari dei distretti tecnologici progettati alloscopo, possono contribuire all’obiettivo generale di modificare il mo-dello di specializzazione settoriale dell’industria italiana.

Gli attuali distretti industriali, dei quali si conosce la vitalità, e i futuridistretti tecnologici, che debbono ancora darne prova, sono due mo-delli di innovazione territoriale che nel quadro di una strategia nazio-nale di politica industriale non dovrebbero semplicemente coesistere,ma integrarsi attraverso reti di produzione inter-distrettuali che preve-dano, al tempo stesso, lo sviluppo di nuove industrie e l’utilizzazione dialcuni dei loro prodotti come input per le industrie nelle quali i distrettisono oggi specializzati; senza escludere la possibilità, qualora se necreino le condizioni, di sostenere, attraverso politiche pubbliche coor-dinate dall’alto, lo spostamento di almeno una parte dell’apparato in-dustriale locale verso nuovi settori ad alta tecnologia16.

Questa strategia di innovazione distrettuale si inquadra in un dise-gno generale di politica industriale mirato al miglioramento del van-taggio competitivo del sistema economico nazionale e pone in secon-do piano iniziative di internazionalizzazione della produzione chesingoli distretti possono adottare o hanno adottato. Anche se c’è daaggiungere che le esperienze note non sembrano suffragare la tesiche tali processi di internazionalizzazione siano stati realizzati a sco-po di innovazione, quanto piuttosto per la riduzione dei costi di pro-duzione o per favorire la penetrazione commerciale nei paesi in cui sidelocalizza.

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Tab. 1 – Addetti alle unità locali dell’industria e dei servizi in Italia (1981-2001)

Attività economica Variazione (%) Quota (%) Addetti (v.a.)1981-2001 1981 2001 2001

INDUSTRIA- Attività agricole(a) +9,1 0,6 0,6 118.567- Estrattiva -39,9 0,4 0,2 37.214 - Costruzioni +28,4 7,1 7,9 1.530.917 - Manifatturiera -15,9 34,5 25,3 4.906.315 SERVIZI(b)- Imprese +123,7 8,9 17,3 3.367.930 - Consumatore +46,9 6,7 8,5 1.652.507 - Sociali +31,0 14,3 16,3 3.161.293 - Tradizionali -0,2 27,5 23,9 4.635.813 Totale +15,0 100,0 100,0 19.410.556

(a) Si tratta delle attività agricole “manifatturiere” che compongono il campo di osservazione del Censimento genera-le dell’industria e dei servizi (Istat, 2001).(b) La classificazione dei servizi è stata definita per la prima volta con riferimento al Censimento generale dell’indu-stria e servizi del 1991 (Istat, 1997) e successivamente ripresa per l’analisi dei distretti industriali (Istat, 2006a).

Fonte: elaborazione su dati Istat, Censimenti generali dell’industria e dei servizi, 26 ottobre 1981 e 22 ottobre2001.

Tab. 2 – Addetti alle unità locali per tipologia di attività economica dell’industria mani-fatturiera in Italia (1981-2001)

Attività economica Variazione (%) Quota (%) Addetti (v.a.)1981-2001 1981 2001 2001

Tessile e abbigliamento -36,1 16,3 12,4 607.776Pelli, cuoio e calzature -25,6 4,7 4,2 206.035Beni per la casa -20,5 14,0 13,2 647.284Meccanica +2,0 30,3 36,8 1.804.642Oreficeria/strumenti musicali ecc. -2,0 1,1 1,2 63.320Alimentari -6,7 8,3 9,2 452.483Metallurgia -51,7 3,6 2,0 100.201Gomma e materie plastiche -18,4 9,4 9,1 447.489Mezzi di trasporto -33,3 7,2 5,7 279.800Cartotecniche e poligrafiche -8,8 4,8 5,2 257.248Industria manifatturiera (a) -15,9 100,0 100,0 4.906.315

(a) Comprende anche le “altre industrie” manifatturiere.

Fonte: elaborazione su dati Istat, Censimenti generali dell’industria e dei servizi, 26 ottobre 1981 e 22 ottobre2001.

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Tab.

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Fabio Sforzi

Tab. 4 – Addetti alle unità locali nelle industrie manifatturiere localizzate nei distretti industriali e nel resto d’Italia (1981-2001) (quota %: Italia = 100,0)

Attività economicaDistretti Resto

Distretti industrialiindustriali d’ItaliaVariazione % 1981-2001 Quota % 2001 Addetti 2001

Tessile e abbigliamento -31,1 -41,8 57,7 350.707Pelli, cuoio e calzature -24,1 -27,7 60,4 124.543Beni per la casa -17,0 -22,8 42,1 272.585Meccanica +15,7 -5,3 39,3 709.456Oreficeria/strumenti musicali ecc. +44,1 -38,6 65,0 41.187Alimentari -1,8 -8,5 27,3 123.386Metallurgia (a) _ _ _ _Gomma e materie plastiche +2,4 -25,4 31,5 141.114Mezzi di trasporto (a) _ _ _ _Cartotecniche e poligrafiche -3,1 -10,8 28,5 73.209Industria manifatturiera -7,7 -20,4 39,3 1.928.602

(a) Non ci sono distretti specializzati nella metallurgia e neppure nella costruzione di mezzi di trasporto.

Fonte: elaborazione su dati Istat, Censimenti generali dell’industria e dei servizi, 26 ottobre 1981 e 22 ottobre 2001.

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•Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana

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Fabio Sforzi

Tab. 6 – Addetti alle unità locali dell’industria manifatturiera per classe di addetti nei distretti industriali e nelle altre economie locali (2001)

Sistemi localiClasse di addetti Distretti Sistemi locali non manifatturieri Italia

industriali manifatturieri (a) Metropolitani (b) AltriFino a Fino a 9 24,7 18,8 25,4 33,6 25,8Da 10 a 49 38,8 28,1 28,5 32,2 33,3 Da 50 a 499 (c) 33,0 34,1 30,5 26,7 31,2– Da 50 a 249 26,9 23,5 22,7 20,6 24,0 – Da 250 a 499 6,1 10,6 7,8 6,1 7,2 Da 500 a 999 2,3 8,1 6,1 4,4 4,6Da 1000 e oltre 1,2 10,9 9,5 3,1 5,1 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

(a) Si tratta di sistemi locali manifatturieri di grande impresa o specializzati in attività economiche dove è prevalentel’occupazione in unità produttive di grande dimensione (≥ 250 addetti). (b) Comprendono i sistemi locali di Torino (nel 2001), Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari,Catania, Palermo e Cagliari.(c) È la classe di addetti adottata dagli studiosi e dagli uffici studi che sostengono la centralità della media impresaper l’economia italiana (Mediobanca-Unioncamere, 2004). Secondo la Commissione europea, invece, la media im-presa corrisponde alla classe di addetti 50-249. Questa definizione rappresenta il riferimento comune per gli Statimembri dell’Unione europea (per la Commissione, la Banca europea per gli investimenti e il Fondo europeo per gli in-vestimenti) quando debbono stabilire politiche industriali a favore delle piccole e medie imprese (Commissione eu-ropea, 2003).

Fonte: elaborazione su dati Istat, 8° Censimento generale dell’industria e dei servizi, 22 ottobre 2001.

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•Il contributo dei distretti industriali al cambiamento dell’economia italiana

Tab. 7 – Addetti ai settori dell’ICT nei distretti industrialie nelle altre economie locali (1981-2001)

Sistemi localiSettori ICT Distretti Sistemi locali non manifatturieri Italiaindustriali manifatturieri (a) Metropolitani (b) Altri

VARIAZIONE PERCENTUALE 1981-2001Manifattura -15,4 -66,3 +15,1 +0,4 -16,6 Servizi +658,3 +328,9 +607,0 +619,4 +584,0Telecomunicazioni -34,3 -63,7 +73,4 -9,2 +20,8 Totale +62,6 -35,2 +143,8 +82,7 +77,9

QUOTA PERCENTUALE (ITALIA = 100,0) 2001Manifattura 21,3 11,3 46,6 20,8 100,0Servizi 16,4 7,5 54,6 21,5 100,0Telecomunicazioni 5,6 3,6 67,8 23,0 100,0Totale 16,0 7,9 54,5 21,6 100,0

QUOTA PERCENTUALE (TOTALE ICT = 100,0) 2001Manifattura 38,3 41,0 24,5 27,6 28,7Servizi 55,9 51,5 54,7 54,6 54,6Telecomunicazioni 5,8 7,5 20,8 17,8 16,7Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

(a) Si tratta di sistemi locali manifatturieri di grande impresa o specializzati in attività economiche dove è prevalentel’occupazione in unità produttive di grande dimensione (≥ 250 addetti). (b) Comprendono i sistemi locali di Torino (nel 2001), Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari,Catania, Palermo e Cagliari.

Fonte: elaborazione su dati Istat, Censimenti generali dell’industria e dei servizi, 26 ottobre 1981 e 22 ottobre2001.

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