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Il cinema di Renato Castellani (Carocci, 2015)

Apr 26, 2023

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Elisa Tonani
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spettacolo

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I lettori che desiderano informazioni sui volumi

pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a:

Carocci editoreCorso Vittorio Emanuele ii, 229

00186 Roma, telefono 06 42 81 84 17,

fax 06 42 74 79 31

Visitateci sul nostro sito Internet: http//www.carocci.it

Volume pubblicato con il patrociniodel Museo Nazionale del Cinema di Torino

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Il cinema di Renato Castellania cura di

Giulia Carluccio Luca Malavasi Federica Villa

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Centro Sperimentale di Cinematografia

PresidenteStefano Rulli

Consiglio di amministrazioneOlga CuccurulloNicola Giuliano

Aldo GrassoCarlo Verdone

Direttore generaleMarcello Foti

Comitato scientificoStefano Rulli (presidente)

Francesca ArchibugiGian Battista Canova (detto Gianni)

Giuseppe RotunnoFederico Savina

Piero Tosi

Collegio dei revisori dei contiNatale Monsurrò (presidente)

Andrea MazzettiMarco Mugnai

Cineteca Nazionale

Conservatore: Emiliano Morreale Direttore: Gabriele Antinolfi

Amministrazione: Mario Militello Redazione: Caterina Cerra

Collaborazione alla ricerca iconografica: Marina CiprianiSegreteria organizzativa: Charmane Spencer

1a edizione: giugno 2015

© Copyright 2015 byFondazione Centro Sperimentale di Cinematografia

Carocci editore S.p.A.

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-430-7801-1

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta otrasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico,

meccanico o altro senza l’autorizzazione scrittadei proprietari dei diritti e degli editori.

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Sul set di Questi fantasmialla pagina precedente: sul set di Mare matto

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Introduzione 13

Ritratti

Uomini e animali. Renato Castellani nonrealista 21Francesco Pitassio

“Ma ecco in agguato Castellani...” 31Nuccio Lodato

Renato Castellani e la cultura popolare nell’Italia degli anni Cinquanta.Giulietta e Romeo tra neorealismo, Luigi da Porto e Shakespeare 37Raffaele De Berti

Prassi della mobilità nel Castellani dei primi anni Sessanta 46Gabriele Rigola

Castellani e il cinema dei professori 53Luca Malavasi

Prospettive

La televisione di Castellani 63Emiliano Morreale

Quelle maledette carte. Intorno ad alcuni progetti non realizzati 72Matteo Pollone

La volontà timbrica: Renato Castellani, sceneggiatore per Blasetti 81Mariapia Comand

“Leggi l’Ariosto!”. Narrazione e letteratura in Renato Castellani 89Simona Morando

Tracce di commedia all’italiana nella trilogia della povera gente 97Aldo Viganò

Carmela, l’inquieta natura del corpo cinematografico femminile anni Cinquanta 105Deborah Toschi

Queer Castellani 115Giuseppe Fidotta

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Film

“Quel non so che” di Zazà. Oltre i veli del film 125Elena Mosconi

I morti di ieri: La donna della montagna tra il vecchio e il nuovo 134Silvio Alovisio

Mio figlio professore: prima di Umberto D. 142Pier Maria Bocchi

Il brigante, un film dimenticato 147Alberto Pezzotta

Ritratto d’artista. Giuseppe Verdi nello sguardo di Renato Castellani 154Raffaele Mellace

Il finale nel cassetto. I sogni nel cassetto e il destino del neorealismo rosa 170Caterina Taricano

Contraddizioni e compromessi tra Shakespeare e l’antica narrativa italiana nel Giulietta e Romeo di Renato Castellani 181Franco Prono

Idioma e idioletto: Magnani e Masina in Nella città l’inferno 189Mariapaola Pierini

Il fondo Renato Castellani del Museo Nazionale del Cinema 199Carla Ceresa

Filmografia a cura di Matteo Pollone 205

Bibliografia essenziale a cura di Gabriele Rigola 227

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Introduzione

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1. Ritratti

A cento anni dalla nascita, abbiamo voluto ricordare la figura di Renato Castellani che ha segnato, come un’anomala saetta mossa da una traiettoria tutta propria, l’orizzonte del cinema e della cultura italiana. Tre realtà univer-sitarie, naturalmente quella genovese, ma anche quelle di Torino e di Pavia, hanno voluto dedicare un convegno, una giornata di studio e una piccola mostra di materiali per omaggiare questo regista ligure, che ha intrattenuto con il proprio tempo una rapporto leggero e al contempo ruvido e marcato.

L’opera di Castellani è indubbiamente ricca di sfaccettature, molti sono i generi che ha attraversato, passando dal film formalista a quello legato ai modi del neorealismo, dalla commedia anni Cinquanta fino al film in costume. Ma alcune cifre comuni sembrano concorrere a definire un’abitudine creativa che viene a manifestarsi nel suo cinema così come nel lavoro dedicato alla televisione.

Alcuni saggi ospitati nella prima sezione si soffermano, ad esempio, sull’i-nattualità di Castellani: il suo cinema guarda al proprio tempo in modo obliquo, rinegoziandone cifre stilistiche e impostazioni ideologiche, offrendo un punto di vista decentrato. È ad esempio la «posizione, intellettuale e pragmatica insieme» che viene a definire l’attitudine di Castellani nei confronti della cor-rente formalista (Luca Malavasi), o ancora l’idea di un respiro nuovo da dare al neorealismo, indebolendone forse la monoliticità statuaria, ma ibridandolo con sfumature prossime alla commedia e, dunque, maggiormente vicine pub-blico (Francesco Pitassio).

Altri mettono bene in luce come la perizia dell’ingegnere riesca a trovare pieno sfogo in una precisa cura del racconto. La progettazione e la costruzione narrativa viene a valorizzare le vicende dei personaggi, tendendo però sempre ben saldo il baricentro nella forza narrativa che li muove in continuazione in un peregrinare fortunoso. Pensiamo alla narrazione di Due soldi di speranza,

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governata da una precisa voce over, che, quale istanza anonima, si accolla l’intero portato del racconto e al contempo lo rende prossimo allo spettatore (Nuccio Lodato). O si pensi anche al cinema di Castellani degli anni Sessanta e alla sua propensione ad aderire a una narrazione frammentaria, fatta di strutture autonome e concluse, quasi micro episodi studiati per enfatizzare una segmentazione narrativa, così chiaramente in sintonia da una parte con il genere coevo dei film a episodi e della programmazione televisiva (Gabriele Rigola).

E, infine, una vera e propria predisposizione alla medietà come valore. Da una parte come assiduo lavorio di mediazione tra diverse suggestioni prove-nienti dalla cultura alta, il caso di Shakespeare per Giulietta e Romeo, e da istanze della cultura popolare, nel caso citato con la novella di Luigi da Porto; dall’altra come contaminazione tra arti diverse, tra scenografia e tradizione figurativa nazionale, tra film a vocazione spettacolare e racconto sostenuto da una forte chiarezza espositiva per il grande pubblico, come avviene per altro anche nei suoi due sceneggiati storici per la televisione La vita di Leonardo da Vinci e Verdi (Raffaele De Berti).

2. Prospettive

Nella sezione Prospettive è segnatamente attraverso lo studio dei documenti d’archivio (tra cui quelli raccolti nel Fondo Castellani conservato alla Biblio-mediateca Mario Gromo del Museo Nazionale del Cinema di Torino) che alcuni saggi si propongono di ricostruire e reinterrogare momenti e questioni della carriera di Castellani, attraverso riferimenti a testi non sempre conosciuti o analizzati in profondità. In questo quadro, per esempio, vengono presi in considerazione i molti progetti lasciati nel cassetto e non realizzati, da Com-media eroica a Do di petto (Matteo Pollone), o la produzione televisiva realiz-zata (ancora La vita di Leonardo da Vinci, poi Il furto della Gioconda e Verdi), ma anche quella rimasta sulla carta, come Venezia e L’isola del tesoro, metten-done a fuoco la peculiare vocazione didattica, in una prospettiva non dissimile da esperienze precedenti o coeve di altri autori italiani, come Roberto Rossel-lini tra tutti (come sottolinea in particolare Emiliano Morreale).

I documenti d’archivio sostengono anche il contributo di Mariapia Comand, dedicato in modo specifico al lavoro di sceneggiatura svolto dal cineasta ligure. Prendendo in considerazione i materiali del Fondo Blasetti conservati alla Cineteca di Bologna, la studiosa lavora sulle sceneggiature realizzate per Blasetti (soffermandosi in particolare su La corona di ferro), analizzandone quel poten-ziale ritmico che, rintracciabile già nelle prime esperienze radiofoniche, con-traddistingue non solo la scrittura per il cinema, ma anche il suo stile registico.

Lo stile e le modalità narrative del cinema di Castellani vengono poi inda-

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gate e approfondite, nella stessa sezione, con altri percorsi e approcci. Simona Morando, per esempio, si concentra sui rapporti che il cinema di Castellani intrattiene con la letteratura e con determinati modelli narrativi, anche in rife-rimento ai casi di adattamento, mettendo a fuoco l’influenza di ben definiti stili letterari. Nell’ottica di cogliere le relazioni che l’opera del regista intesse con specifici generi e forme culturali, l’intervento di Aldo Viganò focalizza invece l’attenzione sulle analogie e le differenze rintracciabili tra la “trilogia della povera gente” (Sotto il sole di Roma, È primavera…, Due soldi di speranza) e i caratteri della commedia all’italiana, attraverso un vero e proprio inventario ragionato. In questo quadro, la dialettica tra le analogie (tra cui, innanzitutto, il primato del personaggio) e le differenze (per esempio, la mancanza della cattiveria tipica della commedia), permette di ridefinire in modo peculiare il percorso di un regista sempre in bilico tra rivisitazione del passato e apertura verso il futuro, mettendo bene in rilievo un legame – quello tra l’immediato periodo postneorealista e le forme della commedia – ancora poco indagato nella storiografia del cinema nostrano.

Altri due saggi offrono poi specifici focus su questioni poco trattate dalla bibliografia dedicata al regista. Deborah Toschi, per esempio, si concentra sulla drammaturgia del corpo femminile, a partire dall’analisi del personaggio di Carmela in Due soldi di speranza. In quest’ottica, il riferimento ai connotati fisici del personaggio e dell’attrice da un lato, e dall’altro lo studio delle carat-teristiche della performance e dell’utilizzo simbolico del corpo, consentono di dimostrare l’assoluta atipicità del caso di questo personaggio rispetto ai ruoli femminili e al panorama sociale degli anni Cinquanta. Infine, Giuseppe Fidotta affronta l’opera di Castellani alla luce di una prospettiva queer, colta attraverso un’analisi articolata di Zazà e, in particolare, attraverso una precisa decostru-zione della rete di sguardi messa in atto dal film, di cui viene pure sottolineata la teatralità camp.

3. Film

Dall’analisi di singoli testi emergono chiaramente alcuni tratti caratteristici del cinema di Castellani, riassumibili nell’immagine di un’ossimorica “comples-sità semplice”. Vale a dire: sotto la superficie di film spesso facili e svelti, leggibili e evidenti, disegnati secondo le regole di genere oppure trascinati dalla necessità di mettere in ordine una storia (o la Storia), sono sempre al lavoro una complessità intertestuale, un palinsesto culturale, un’intenzione autoriale e una rete (anche solo allusa) di parentele e riferimenti tutt’altro che comuni, per densità e ricchezza, tra gli autori del cinema italiano dell’epoca. E questo vale anche per la televisione: in chiusura di carriera, col cinema ormai lontano

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(l’ultimo film, Una breve stagione, è del 1969), Castellani consegna alla Rai le 9 puntate dello sceneggiato Verdi (1982), fornendo, sottotraccia, una specie di autoritratto della propria complessità di artista: nell’approfondita lettura di Raffaele Mellace, il Verdi è infatti «un progetto di alta divulgazione culturale associato all’ambiziosa ricerca d’un linguaggio artistico specifico, connaturato al medium televisivo», che mescola intelligentemente il «perseguimento d’un tono aneddotico-popolaresco» a «una precisa cifra interpretativa, una rilettura critica che investe una serie di problemi particolarmente significativi», dal ruolo e valore della musica nella società del Risorgimento alla psicologia verdiana nella sua evoluzione.

L’“artigianato” di Castellani, dal momento dell’ideazione alla fase finale del montaggio, è un lento, sfaccettato processo di selezione, contaminazione e negoziazione, un ricamo di fonti e motivi, una trama di suggestioni che però non fa mai pesare la propria complessità, né sbanda mai in una sfrenata idio-sincrasia autoriale. Ne è esempio l’autonomia culturale – tutt’altro che indiffe-rente, però, ai molti e diversi precedenti (teatro di prosa, opera, cinema) – con cui il regista lavora per l’ennesima volta il “mito” di Zazà, dando al tempo stesso prova di saper aggirare ciò che il “sistema” gli impone: «Ancora oggi Zazà risulta ad un tempo affascinante, soprattutto per la ricchezza scenografica e la regia, ma in qualche modo artificioso. Se però si prova a dipanarne i veli e i numerosi fili, il film mostra un’inaspettata complessità e un’articolata serie di parentele e di intrecci» (Elena Mosconi). Ma è forse il lavoro sui generi – in prima battuta il melodramma – che dichiara con più immediatezza la sottile “sfasatura” che fa di Castellani un regista costantemente un passo avanti o di lato (ma mai troppo lontano, né tanto meno separato dal resto) rispetto alle linee di forza, narrative e stilistiche, del cinema a lui contemporaneo. Dopo il debutto perbene – troppa letteratura ma un soffio originale di pittoricismo – con Un colpo di pistola (1942), già con La donna della montagna (1943), dal faticoso iter produttivo, Castellani affronta il melodramma con una certa libertà e, ciò che più conta, in sottile e silenziosa controtendenza (mai nessuna vera rivoluzione, nel suo cinema) rispetto a quanto si stava realizzando in quel momento in Italia, anche per il futuro: «Se i melodrammi contemporanei coevi (si pensi alla serie mattoliana I film che parlano al vostro cuore) per certi versi stavano codificando le funzioni stilistiche e ideologiche del mélo fiammeggiante degli anni Cinquanta, Castellani lavora invece su un’opzione diversa che poi il regista sospenderà nell’immediato dopoguerra, per misurarsi invece, in parte già da Mio figlio professore (1946), con la commedia» (Silvio Alovisio). E pro-prio il passaggio alla commedia – che caratterizza gli anni Cinquanta di Castel-lani – sembra mettere subito in atto un processo analogo, di anticipazione e diversione, di rilettura originale e contaminazione. Lo spiega bene Pier Maria Bocchi nel saggio dedicato a Mio figlio professore: «Sei anni prima di De Sica

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e di un film che tutti indicano come uno dei canti più belli e commossi della vecchiaia e della solitudine, Castellani gira una vicenda sulla vecchiaia e sulla solitudine altrettanto bella e commossa, per giunta su uno sfondo storico-sociale per lo più identico a quello di Umberto D., ovvero il dopoguerra (anche se la storia di Mio figlio professore inizia quasi trent’anni prima, intorno al 1919 o il 1920, come il narratore annuncia all’inizio del film), e per di più con un impianto che sembra già guardare avanti, a certa commedia della metà degli anni Cinquanta, sebbene il film a poco a poco tradisca le proprie venature di commedia per diventare vero dramma. È un oggetto davvero curioso e incol-locabile nel contesto del cinema dell’epoca, dunque, Mio figlio professore». Così come, più di dieci anni dopo, appare difficile da collocare – e forse questo ne spiega, almeno in parte, l’oblio a cui la storia del cinema e la critica l’hanno consegnato – Il brigante (1961), di cui Alberto Pezzotta ricostruisce in modo puntuale la vicenda produttiva e la ricezione, per concludere: «Il brigante è un film con un piede nel passato, anche se per altri versi è così in anticipo sui tempi che non se ne accorge nessuno».

Una volta entrati nel corpo dei singoli film, la comunanza dei risconti in merito alla particolarissima “posizione” dell’opera di Castellani nel quadro del cinema italiano coevo si fa insomma lampante, assieme alla sensazione che ogni singola opera, mentre alimenta alcuni indici di continuità o permanenza pas-sibili di essere valorizzati in chiave autoriale, sia sempre, anche, una piccola “isola”, un territorio a sé, percorso da altri, specifici fenomeni di rilancio e deviazione, continuità e rinnovamento. Le molte domande di “collocazione” con cui si apre il saggio di Mariapaola Pierini insistono su un’instabilità defi-nitoria non certo caratteristica di un solo film: «Nella città l’inferno (1958) è un film sfuggente, pur nella sua evidente forza, che è in gran parte ascrivibile alla presenza esorbitante di Anna Magnani. È un film “isola”, come in certa misura lo sono tutti quelli realizzati da Renato Castellani dopo i due nuclei più omo-genei dei primi anni Quaranta e poi della cosiddetta trilogia. Nella carriera del regista, Nella città l’inferno arriva dopo Giulietta e Romeo e I sogni nel cassetto, e rappresenta un ennesimo spostamento di rotta: uno sguardo all’indietro per l’ambientazione sottoproletaria, per l’impiego di non attori? Un film ambizioso che rideclina e mescola, seppur sotterraneamente e alle soglie degli anni Ses-santa, alcuni dei tratti del suo cinema, come per esempio la materia melodram-matica? Un film che oscilla tra narrazione e studio d’ambiente, genere, e istanze neorealiste ancora presenti? Un film che sperimenta dal punto di vista tecnico, utilizzando il formato panoramico e il suono in presa diretta? Infine, un film divistico, il più divistico della sua filmografia?».

È questa condizione, infine, a rendere quasi sempre insoddisfacenti, nel caso di Castellani, le attribuzioni di appartenenza a questo o a quel “movi-mento”, sia esso il calligrafismo oppure il “neorealismo rosa” (per non dire il

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neorealismo tout court), di cui il regista è stato a lungo considerato, e non senza colpe, l’iniziatore. In Castellani, semmai, prevale la contaminazione di umori e sfumature, la sovrapposizione complessa e a volte insensibile di pos-sibilità diverse e di riferimenti eccentrici: si veda, per esempio, Giulietta e Romeo (1954), con la sua volontà, non priva di paradosso, di «imporsi come spettacolo audiovisivo che “tradisce” programmaticamente il testo shakespea-riano sovrapponendogli un altro testo letterario e suggestioni figurative che gli sono estranee» (Franco Prono), al punto da disorientare la critica, che di fronte al film annaspa, vedendovi un po’ di tutto – appunto: calligrafismo, neorealismo e “rosa”; o si veda, ancora, I sogni del cassetto, altra piccola “isola” nella fil-mografia di Castellani, con i suoi “non più” e “non del tutto”: «Il film non è evidentemente più neorealista e, proprio in virtù del finale, non possiamo nemmeno definirlo del tutto rosa (Caterina Taricano). Ma forse, come detto, il fascino dell’opera di Castellani sta proprio in queste mosse sfuggenti, in queste oscillazioni sottili, in questi allineamenti a metà – rispetto a una filmo-grafia e a una cultura cinematografica –, movimenti che mai, tuttavia, arrivano a contraddire o anche solo a compromettere l’idea e la promessa di un cinema “facile”, medio, popolare.

Giulia Carluccio, Luca Malavasi, Federica Villa

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Ritratti

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