1 Paola Liberace (Scuola Normale Superiore) Il carattere poetico: dall’idea alla storia Nella Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio, che funge da introduzione della redazione definitiva della sua Scienza Nuova 1 , Vico enuncia il principio che considera un cardine dell’opera: Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per c a r a t t e r i p o e t i c i ; la qual discoverta, ch’è la chiave maestra di questa scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria 2 . Benedetto Croce, dichiarando l’Estetica “veramente una scoperta del Vico” 3 , ricordava questa dichiarazione nel capitolo della sua monografia vichiana dedicato alla poesia e al linguaggio. Croce considerava il carattere poetico inadatto a definire la poesia, la quale non può avere a che fare né con una determinazione storica particolare, come può essere una determinata epoca dell’umanità, né con le storie particolari che in tale epoca vengono raccontate. Il carattere poetico rappresenta secondo Croce una contraddizione, quella di “un concetto che vuol essere immagine e un’immagine che vuol essere concetto” 4 , che la poesia non può ammettere, ma che è incarnata piuttosto dalla dottrina del mito, in Vico mai nettamente distinto dalla poesia. Questa contraddizione nel carattere poetico suonava inammissibile a una filosofia come quella di Croce, che distingueva la poesia e la filosofia come il particolare e l’universale; e distingueva, almeno a questo stadio, la categoria ideale dal fatto storico. Ma il carattere poetico vichiano è, in un senso ancora più profondo, un paradosso: in esso si fronteggiano proprio una componente ideale ed una storica; a patto di intendere “ideale” in un senso molto lontano da quello crociano. L’importanza della matrice “ideale” della Scienza Nuova risiede nel paradosso di una narrazione che vuol essere storia ideale eterna, ossia insieme un racconto disteso, una storia, ed un quadro, nel quale 1 Le tre edizioni della Scienza Nuova d’ora in poi saranno così citate: SN25= Principi di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni (1725), in Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, tomo II. SN30= Principi d’una Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1730), rist. anastatica a cura di M. Sanna e F. Tessitore, Morano, Napoli 1991. SN44=Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744), in Opere, cit., tomo I. Le citazioni della prima e della terza edizione sono per paragrafi; quelle dall’ edizione intermedia si intendono invece per pagina. 2 SN44: § 34. 3 CROCE 1911: 52. 4 CROCE 1911: 69.
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1
Paola Liberace (Scuola Normale Superiore)
Il carattere poetico: dall’idea alla storia
Nella Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio, che funge da introduzione
della redazione definitiva della sua Scienza Nuova1, Vico enuncia il principio che considera
un cardine dell’opera:
Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilità,
per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per c a r a t t e r i
p o e t i c i ; la qual discoverta, ch’è la chiave maestra di questa scienza, ci ha costo la ricerca
ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria2.
Benedetto Croce, dichiarando l’Estetica “veramente una scoperta del Vico”3, ricordava
questa dichiarazione nel capitolo della sua monografia vichiana dedicato alla poesia e al
linguaggio. Croce considerava il carattere poetico inadatto a definire la poesia, la quale non
può avere a che fare né con una determinazione storica particolare, come può essere una
determinata epoca dell’umanità, né con le storie particolari che in tale epoca vengono
raccontate. Il carattere poetico rappresenta secondo Croce una contraddizione, quella di “un
concetto che vuol essere immagine e un’immagine che vuol essere concetto”4, che la poesia
non può ammettere, ma che è incarnata piuttosto dalla dottrina del mito, in Vico mai
nettamente distinto dalla poesia. Questa contraddizione nel carattere poetico suonava
inammissibile a una filosofia come quella di Croce, che distingueva la poesia e la filosofia
come il particolare e l’universale; e distingueva, almeno a questo stadio, la categoria ideale
dal fatto storico. Ma il carattere poetico vichiano è, in un senso ancora più profondo, un
paradosso: in esso si fronteggiano proprio una componente ideale ed una storica; a patto di
intendere “ideale” in un senso molto lontano da quello crociano. L’importanza della matrice
“ideale” della Scienza Nuova risiede nel paradosso di una narrazione che vuol essere storia
ideale eterna, ossia insieme un racconto disteso, una storia, ed un quadro, nel quale
1 Le tre edizioni della Scienza Nuova d’ora in poi saranno così citate:
SN25= Principi di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni (1725), in Opere, a cura di A.
Battistini, Mondadori, Milano 1990, tomo II.
SN30= Principi d’una Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1730), rist. anastatica a cura
di M. Sanna e F. Tessitore, Morano, Napoli 1991.
SN44=Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744), in Opere, cit., tomo I.
Le citazioni della prima e della terza edizione sono per paragrafi; quelle dall’ edizione intermedia si intendono
invece per pagina.
2 SN44: § 34.
3 CROCE 1911: 52.
4 CROCE 1911: 69.
2
l’umanità tutta appaia di fronte al lettore; la Scienza Nuova utilizza, a partire dal 1730, una
Dipintura che funge da introduzione e presentazione dell’opera, nella quale particolari
“geroglifici” richiamano i vari temi trattati all’interno5.
L’espressione “carattere poetico” è felicemente scelta: in questo modo Vico può infatti
riferirsi sia alla matrice grafica del termine “carattere”, sia al “carattere” drammatico, come
modello, personaggio di commedia o di tragedia. Per la prima accezione, leggiamo nella
SN25:
Siccome la lettera A, per esemplo, è un carattere della gramatica ritruovato per uniformarvi tutti
gl’infiniti diversi o gravi o acuti suoni vocali così articolati; il triangolo, per cagion di altro
esemplo, è un carattere disegnato dalla geometria per uniformarvi tutte le innumerabili figure in
grandezza di tre angoli che si aguzzano da tre linee unite in tre punti; così si sono ritruovati essere
i caratteri poetici stati gli elementi delle lingue con le quali parlarono le prime nazioni gentili6.
Si tratta dell’unica definizione esplicita rinvenibile nell’opera. Subito dopo queste righe,
Vico spiega quale sia il procedimento logico sottostante alla designazione del carattere
poetico:
Perché, se una nazione, per essere di mente cortissima, non sappia appellare una proprietà astratta
o sia in genere, e, per quella la prima volta avvertita, appelli in ispecie un uomo da quella tal
proprietà, col cui aspetto ha ella l’uomo la prima volta guardato; - e sia egli, per esemplo, con
l’aspetto di uomo che faccia una gran fatica comandatagli da famigliare necessità, onde egli
divenga glorioso [...]- e l’appelli “Ercole”, da Hrais “gloria di Giunone”, che è la dea delle
nozze, e, in conseguenza, delle famiglie: - tal nazione certamente, da tutti i fatti che per quella
stessa proprietà di fatighe sì fatte avrà avvertito essere stati operati da altri diversi uomini, e in
diversi tempi appresso, darà a quegli uomini il nome dell’uomo da quella tal proprietà la prima
volta appellato: e, per istare sul dato esemplo, appellerà ogni uomo di quelli Ercole.
Si intravede in questo punto il secondo senso dell’espressione, che nell’opera gioca un
ruolo almeno equipollente a quello della prima: il carattere non è solo un segno grafico, ma
può diventare un personaggio, col quale si indichi una categoria di uomini, e che quindi
assume una funzione logica, oltre che designativa. Spostando l’attenzione sulle successive
redazioni dell’opera, troviamo che la definizione (anche se non l’accezione) grafica del
carattere è scomparsa, e la personalità propria del carattere è stata portata a livello esplicito,
attraverso uno strumento concettuale nuovo che individua il processo logico sopra
esemplificato da Ercole: l’universale fantastico.
Tali caratteri si truovano essere stati certi g e n e r i f a n t a s t i c i (ovvero immagini, per lo più
di sostanze animate o di dèi o d’eroi, formate dalla lor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie
o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti; appunto come le favole de’ tempi umani, quali
sono quelle della commedia ultima, sono i generi intelligibili, ovvero ragionati dalla moral
5 Per un esame del significato e del ruolo della Dipintura nell’opera vichiana, oltre che per uno studio
approfondito dei suoi rapporti con i geroglifici e le imprese (di cui si dirà in seguito), si veda PAPINI 1984(a).
6 SN25: § 261
3
filosofia, de’ quali i poeti comici formano generi fantastici (ch’altro non sono che le idee ottime
degli uomini in ciascun suo genere), che sono i personaggi delle commedie. Quindi sì fatti caratteri
si truovano essere stati favole, ovvero favelle vere; e se ne scuoprono l’allegorie, contenenti sensi
non già analoghi ma univoci, non filosofici ma istorici di tali tempi de’ popoli della Grecia7.
Sin dai primi passi della Scienza Nuova il carattere poetico è segno, lettera, e insieme
favola, mito. Da un lato le favole, che sono vere e proprie storie dei popoli antichi (da
interpretare cioè non come velami di sapienza riposta, ma come l’unico possibile modo di
raccontare la storia) sono definite “lingua delle leggi”8, o il “vocabolario delle prime
nazioni”9; dall’altro quelle stesse storie furono conservate proprio attraverso i geroglifici o le
imprese eroiche, vista la povertà di parlari delle prime epoche. Scopo di questo lavoro sarà
mostrare come le due coesistenti funzioni del carattere poetico finiscano per divergere
sempre più man mano che Vico procede nella elaborazione dell’opera; e, in questa, man
mano che l’umanità procede nella propria civilizzazione.
In corrispondenza di questo procedere, la fisionomia del carattere poetico si articola
ulteriormente sia attraverso le redazioni della Scienza Nuova che nello svolgersi dell’opera
stessa. Insieme alla duplice accezione di “carattere”, il criterio da tenere presente per seguire
questa articolazione è la distinzione più esplicita che Vico opera all’interno del campo dei
caratteri poetici: quella tra caratteri poetici divini ed eroici. Essa corrisponde alla
successione delle epoche iniziali dell’umanità descritta da un “rottame dell’egiziache
antichità”: l’età degli dèi, poi quella degli eroi (prima di quella degli uomini) ciascuna con la
propria lingua e la propria “spezie di caratteri”; non necessariamente i caratteri sono i
componenti della lingua, anzi spesso i due corrispondono senza coincidere. La distinzione
tra caratteri divini ed eroici non è dettata solo da ragioni cronologiche: affiancandola alla
divergenza tra il carattere-elemento delle lingue e il carattere-personaggio, si può verificare
che essa è motivata da differenze profonde nella struttura interna dei due termini.
Dall’incrocio dei due criteri che abbiamo individuato è possibile così rintracciare quattro
fisionomie distinte del carattere poetico.
1. Caratteri-lettera e caratteri-personaggio
I primi caratteri che incontriamo nella SN25 sono “caratteri muti”, componenti della
lingua sacra o per geroglifici; una lingua arcana, custodita negli ordini dei sacerdoti, che è
insieme lingua delle religioni e delle leggi, e che ogni gens ha autonomamente escogitato.
Di questi caratteri Vico dice che essi, nella povertà dei parlari dovuta alla difficoltà di
articolazione delle prime nazioni, furono corpi, sia naturali che scolpiti o dipinti. Bisogna
7 SN44: § 34.
8 SN25: § 470.
9 SN25: § 249.
4
ricordare che il modello presente a Vico in questo frangente, e tutte le volte che ritornerà
sullo stesso tipo di caratteri, sono i geroglifici egiziani, sui quali era disponibile una copiosa
letteratura (Warburton, con il suo Essai sur les hyéroglyphes des égyptiens, pubblicato lo
stesso anno della redazione definitiva della Scienza Nuova, nel 174410
, è solo l’ultimo della
serie). Ma tutti i Kircher, i Marsham, gli Spencer, avevano sempre insistito sulle altissime
dottrine nascoste nei geroglifici, imparentati in questo con i caratteri magici dei caldei e gli
ideogrammi cinesi, attribuendo agli egiziani loro depositari una sapienza riposta contro la
quale Vico non smette di polemizzare. Non da impostura, ma da natura nacquero la
letteratura sacra e le leggi; perché i parlari muti con cui erano scritte si componevano di
“corpi, ed atti, che abbiano naturali rapporti all’idee, che si vogliono significare”11
. Ma
questa stessa definizione ritorna poco dopo, nel capo XXVIII, nel quale “si ritruova la vera
origine delle imprese eroiche”. Le imprese, cui Vico dedica uno spazio considerevole -
molto più di quanto avverrà nelle successive stesure dell’opera - compongono la seconda
lingua delle nazioni, o lingua simbolica, per “metafore, immagini e simiglianze”; Vico la
chiama anche “lingua delle armi”, una lingua naturale alla quale è ristretta la lingua sacra
quando “vennero i medesimi popoli naturalmente a farsi signori delle leggi nelle repubbliche
popolari”12
. Essa soffre, a questo livello, di qualche problema di individuazione: se da un
lato mantiene la significazione naturale, dall’altro serve a nazioni di lingue convenute
diverse per comunicare tra loro nel caso di guerre, commerci, alleanze, etc. Questa lingua è
definita così con gli stessi attributi dei geroglifici: e anzi Vico parla senz’altro di
“geroglifici, ovvero imprese eroiche” nel capo XXXI13
; ma essa sembra insieme proiettata
10 L’opera era originariamente parte di The divine legation of Moses demonstrated on the principles of a
religious deist, pubblicata tra il 1738 e il 1741, e fu tradotta in francese da L. de Malpenses. L’edizione italiana
è a cura di A. Verri, Saggio sui geroglifici egiziani, Longo, Ravenna 1986.Come nota NICOLINI 1949(b): 126
sgg., la relazione più interessante tra l’opera di Warburton, il cui scopo originario era quello di anteporre la
sapienza egiziana a quella mosaica, consiste nella tesi comune della primordialità di quello che Warburton
chiama il “linguaggio d’azione”. Per un resoconto dettagliato del dibattito sui geroglifici, dalle interpretazioni
neoplatoniche ed ermetiche rinascimentali ai trattatisti contemporanei di Vico (già largamente orientati verso
una smentita dell’interpretazione “dotta”), si veda ROSSI 1969: 81-131.
11
SN25: § 251.
12
SN25: § 78.
13
La corrispondenza tra geroglifici ed imprese eroiche, data la stessa natura simbolica, era comune nella
letteratura dell’impresistica, sia pure con tentativi frequenti di delimitazioni di campo e di definizione; basta
consultare un trattato come il Delle Imprese (Napoli 1592) di G.C. Capaccio, per trovare l’affermazione che
“sono i Ieroglifici quasi una base ove si fondano l’Imprese”. I geroglifici vengono considerati antecedenti delle
imprese nell’opera di A. Farra, Il settenario dell’humana riduttione, Venezia 1571, di carattere ermetico ed
iniziatico; ma ugualmente ai simboli sacrali dei geroglifici si riferiscono le immagini, più pratiche e fruibili,
della Iconologia (Siena 1613) di C. Ripa, che ricorda proprio la sapienza degli Egizi come prima origine della
scienza figurativa tentata nel trattato; il punto di riferimento comune è la summa di P. Valeriano. Laddove però
il geroglifico rappresenta un concentrato di sapienza divina, l’impresa, che congiunge immagine e motto fa
invece riferimento a un contesto eroico (S. Ammirato, nel suo dialogo Il Rota ovvero delle imprese, Firenze
1598, la definisce “una filosofia del cavaliere”): rimane, ed è quel che passa a Vico, la comune radice
metaforica delle immagini degli antichi e delle imprese moderne, radice che giustifica il ruolo comune di
elementi delle prime lingue “significanti naturalmente”. Su questi temi cfr. ancora PAPINI 1984(a) e BATTISTINI
1984-85; Come rileva quest'ultimo, il potere significativo affidato alle icone accomuna Vico e un trattatista
5
verso l’età delle lingue articolate e convenute; in ogni caso, piuttosto che addentrarsi nei
problemi che pone la definizione della sua incerta fisionomia14
, è utile tornare più nel
dettaglio sulle imprese che la costituiscono. Le imprese eroiche sono composte da una serie
di elementi, quali colori, metalli, fregi, scudi etc.; tra essi troviamo anche qualche elemento
che Vico ha esplicitamente chiamato poco prima “carattere eroico”: ad esempio l’oro, che
come la lira d’Orfeo (anch’essa carattere) viene menzionato a proposito della spiegazione
dell’“impropriazione” o corruzione delle favole, per recuperarne il primitivo significato. Le
favole possono dunque essere composte di caratteri eroici. In un altro senso, però, esse
coincidono con il carattere poetico: è il caso dei caratteri che, anziché rappresentare un
oggetto, o essere costituiti da un cenno o un atto, sono personaggi derivanti da modelli veri o
personificati. In sede di definizione della favella poetica, quando le tre lingue vengono
descritte in successione, ai caratteri sacri si affiancano i “caratteri di false divinità”: di essi
Vico ci ha detto, poche pagine prima, che si tratta di “istorie degli antichissimi costumi
superstiziosi de’ popoli della Grecia”15
, e ne ha illustrato la nascita attraverso la favola di
Giove. Si tratta della prima in assoluto delle favole poetiche (le quali sono “caratteri di
sostanze corporee immaginate intelligenti”16
), che racconta come, in seguito allo spavento
suscitato dal fulmine, il cielo sia stato creduto dai primi uomini “un vasto corpo animato”.
D’altro canto, la lingua simbolica, come gli egizi secondo Vico chiamavano le imprese
eroiche, non consta solo di immagini, metafore e somiglianze, ma è composta delle “favole
eroiche ritruovate dalla seconda età poetica, che fu quella de’ poeti eroi”17
: anche in questo
caso si tratta di “istorie de’costumi eroici della Grecia”18
. E, sia che si tratti di dèi, sia di
eroi, “le significazioni di sì fatti caratteri d’entrambi i generi sono veramente le poetiche
come il Tesauro (su questo accostamento si veda anche VASOLI 1955), ma per Vico esse restano lontane dal
rappresentare simboli di sapienza riposta; proprio per questo, resta ben fermo il divario tra il primo linguaggio
e le imprese contemporanee di Vico, il che gli permette di interpretare storicamente il primo, e non le seconde.
14
Per un’interpretazione di questa ambiguità della lingua eroica, si veda CANTELLI 1986: 135-174. La
presenza in tale lingua di “metafore, immagini e simiglianze” è dovuta secondo Cantelli ad un processo di
“astrazione e desacralizzazione”; le significazioni naturali della lingua divina, date dalla perfetta
corrispondenza tra idee, cose e parole, sarebbero cioè alterate nella seconda lingua fino al trasporto metaforico
(in corrispondenza di mutamenti socio-politici: CANTELLI 1995 ribadisce il rifiuto dell'appiattimento
cronologico della tripartizione linguistica vichiana). Si veda anche WHITE 1976, che allo stesso modo mostra le
possibili corrispondenze tra la successione dei tropi e gli sviluppi politici della società umana. Questa
prospettiva sembra esser messa in discussione dai successivi sviluppi dell’opera vichiana; BATTISTINI 1990: II,
1848 ha giustamente osservato che mentre nella SN25 sembra che a ciascuna delle tre lingue corrisponda un
tropo ben definito, a partire dalla SN30 si fa strada una teoria funzionale del linguaggio (sulla quale resta
fondamentale lo studio di PAGLIARO 1961), per cui i quattro tropi fondamentali vengono analizzati insieme, e
mantengono in ogni caso la loro naturalità (fatta esclusione per l’ironia, ovviamente) di fronte ai tropi dell’età
degli “addottrinati”, nella quale, allora sì, saranno impropriati.
15
SN25: § 267.
16
SN25: § 255.
17
SN25: § 311.
18
SN25: § 268.
6
allegorie, ovvero parlari contenenti diversi uomini o costumi o fatti sotto una immagine”19
:
allo stesso modo agiva la significazione del carattere poetico di Ercole, che funge da
esempio per tutti i caratteri poetici in generale: “per queste allegorie, dunque, erano da
andarsi a ritruovare da’ mitologi significati univoci delle favole, e non gli analogi”20
.
Ma, anche se i caratteri-personaggio sia divini che eroici sembrano a livello di
definizione perfettamente omogenei, confrontando le ricorrenze degli uni e degli altri si
intravede uno scarto. Significativamente, nella favola di Giove, presentata subito prima della
definizione del carattere poetico con l’esempio di Ercole, non si accenna all’“allegoria” -
intendendo vichianamente con questo termine il diversiloquium21
di cui si è appena detto -
ma l’unico principio invocato è quello dell’animazione e personificazione di sostanze
naturali. Allo stesso modo possono essere definiti dèi come Saturno, Cerere, e i trentamila
dèi di Varrone, dei quali si dirà più estesamente in seguito. Più tardi, nell’ambito della favola
della nascita di Minerva, Giove verrà definito “carattere dei padri e re”22
, con una importante
precisazione alcune pagine dopo: il fatto che un dio possa rappresentare una categoria di
uomini non è intrinseco allo statuto del carattere divino, ma accade solo piuttosto tardi,
quando la proprietà per la quale era stato fantasticato viene applicata a quella categoria23
. Ma
è possibile giustificare in questo modo le personalità degli altri dèi che sono presentati come
caratteri di uomini? Sembra piuttosto che l’osservazione qui rimanga limitata a Giove, e il
fatto che non si ripresenti nelle versioni successive si coniuga col mutamento dello status del
carattere divino. Per ora, il dio tende ad avvicinarsi allo schema di significazione proprio di
Ercole, con frequenti tentazioni evemeristiche: esso sembra essere nient’altro che un uomo
particolarmente notevole, cui siano stati attribuiti onori divini24
. Già subito dopo aver parlato
della favola di Giove, Vico osserva che “ne’ tempi superstiziosi di essa Grecia, i greci
uomini coloro che con nuovi ritruovati giovassero il genere umano guardarongli con aspetto
19
SN25: § 363. L'interpretazione etno-storica dei miti è contestata a Vico da BIDNEY 1969, il quale
mette in discussione l'equivalenza tra primitività e verità del mito; ma in questo caso non sembra esser stata
tenuta sufficientemente presente la peculiarità dell'accezione vichiana di "allegoria", differente, come vedremo,
da quella del tropo retorico comune che davvero presupporrebbe la riflessione di cui parla Bidney. Si veda al
proposito APEL 1963: 445 sgg., che ribadisce la distinzione in Vico tra la mitologia arcaica incarnata
dall'universale fantastico e l'allegorica posteriore, rappresentata dalla concezione simbolica di Goethe.
20
SN25: § 265.
21
L’accezione vichiana di diversiloquium non è affatto scontata: NICOLINI 1949(a): I, 90 osserva infatti
che il significato della parole presso i greci era piuttosto quello di “discorso confuso, su molte cose differenti”,
il che si può verificare confrontando DEMETRIO FALEREO, De Elocutione, Les Belles Lettres, Paris 1993, §100.
22
SN25: § 437.
23
“A questi tempi è da rapportarsi Giove che rapisce Europa col toro, simigliante a quello di Minosse.
Nella quale età da questa favola s’intende che i caratteri degli dèi erano già passati a significare gli uomini, per
quelle proprietà per le quali gli uomini da prima avevano fantasticato essi dèi: come Giove per la proprietà di re
degli dèi poi qui significò l’ordine regnante degli eroi che corseggiavano. Che è un canone assai importante di
mitologia” (SN25: § 447).
24
L’interpretazione vichiana delle favole, come osserva CRISTOFOLINI 1995(b): 72, solitamente si
discosta invece sia dall’evemerismo che dall’interpretazione sapienziale; l’evemerismo ricompare invece, come
vedremo, in un’età piuttosto avanzata dell’evoluzione della civiltà, quando gli eroi si identificano con i loro dèi.
7
di divinità, e in cotal guisa avessero fantasticato i loro dèi”25
. Allo stesso modo, Apollo fa la
sua prima comparsa come “carattere degli indovini” e “carattere de’ sapienti della prima
setta de’ tempi”; e lo stesso accade anche con dèi che riceveranno la propria definizione
dall’animazione di sostanze naturali, come Saturno, anzitutto carattere “di quei primi uomini
che avevano ritruovato le messi”. Nell’ultimo capo dell’opera, la Condotta delle Materie:
ogni dio viene identificato con un “principio”, tanto da sembrare molto più un simbolo
puntuale che un carattere poetico con la fisionomia che abbiamo detto (basta confrontare
Diana, che arriva a rappresentare nella favola di Atteone “la sorgiva della fontana”). Una
simile uniformità non corrisponde né al quadro fornito nelle Dissertationes accluse al De
Constantia Iurisprudentis, dove si tenta una prima sistemazione del pantheon greco-latino,
né alle versioni successive dell’opera, che riprendono in parte i principi ordinatori di quella
prima sistemazione; e la sostanza delle personalità divine ne è poco toccata, visto che anche
qui troviamo caratteri divini di uomini e di donne (oltre a Giove, già menzionato, Venere e
Marte nella loro versione “plebea”).
Ricapitolando, nella Scienza Nuova del 1725 troviamo una situazione poco
differenziata per quanto riguarda il carattere poetico. La trattazione evidenzia una categoria
di caratteri poetici che fungono realmente da elementi delle prime lingue poetiche: sono atti
muti, corpi, medaglie, imprese, ma anche semplici oggetti, animati e non. Di fronte ad essi,
si trova una seconda categoria di caratteri che possono essere definiti portatori di mitologie:
si tratta di personaggi, derivanti da modelli reali (persone esistenti dalle quali parte la
designazione di una proprietà) o da sostanze animate, dei quali possono essere raccontate
storie e che infatti coincidono con le favole, divine o eroiche.
2. Caratteri divini e caratteri eroici
a) Giove
La prima favola concepita da mente umana, quella di Giove, deriva da un processo
mentale tipico dei primitivi:
gli uomini ignoranti delle cose, ove ne vogliono far idea, sono naturalmente portati a concepirle
per simiglianze di cose conosciute. Ed ove non ne hanno essi copia, l’estimano dalla loro propia
natura. E perché la natura a noi più conosciuta sono le nostre propietà, quindi alle cose insensate
danno moto, senso e ragione, che sono i lavori più luminosi della poesia26
.
25 SN25: § 255.
26
SN25: § 254.
8
Nella SN30, con il mutamento dell’articolazione dell’opera vichiana, questa affermazione
viene rifusa in due delle “degnità” che costituiscono la sezione Degli elementi nel primo
libro dell’opera. In essa, la definizione del carattere poetico si arricchisce significativamente.
Troviamo nella degnità XXX il principio che:
Gli huomini ignoranti delle naturali cagioni delle cose, ove non le possano nemmeno spiegare per
cose simili, essi danno alle cose, ch’ignorano, la loro propia natura, come il vulgo, per esempio,
dice la calamita esser innamorata del ferro.27
Attraverso l’espediente grafico del corsivo, Vico evidenzia opportunamente le due
possibilità che si presentano ad una mente ignorante per comprendere le cause naturali delle
cose: spiegarle per cose simili, oppure dare la loro la propria natura. Nella SN44 la degnità
citata viene arricchita del riferimento alla I, che stabilisce la tendenza della mente umana,
per la sua “indiffinita natura”, a farsi regola dell’universo: appare così chiaro che in entrambi
i casi viene effettuata una connessione tra il noto e l’ignoto. Bisogna ricordare che la logica
dei primi uomini è una logica poetica28
, perciò non una critica, ma una topica, non un
raziocinare deduttivo ma una rassegna di tutto il regno del reale per trovarvi induttivamente
le connessioni che danno senso all’esperienza29
. Com’è noto, nella concezione pedagogica
vichiana la topica ha la precedenza sulla critica, a partire dal De nostri temporis studiorum
ratione, sempre nell’ambito del ruolo fondamentale della retorica, che fornisce la base anche
per la visione vichiana del linguaggio30
. Non sillogismi, ma tropi sono perciò gli elementi
costitutivi del pensiero dei poeti teologi31
: e tra essi, la metafora si pone in posizione
27 SN30: 144.
28 La preminenza della parola poetica, secondo GRASSI 1990, avvicinerebbe il pensiero vichiano a
quello heideggeriano, nel comune rigetto della parola razionale, chiusa all'ambito in cui sorge la realtà umana.
Grassi cerca in Vico un punto d'incontro tra l'heideggerismo e l'umanesimo; tentativo condotto, sulla strada di
una storia della filosofia del linguaggio come ermeneutica trascendentale, anche da APEL 1963. Sempre per
quanto riguarda il problema del rapporto Vico-Heidegger, in AMOROSO 1997 lo spunto per l’accostamento è
tratto dal confronto tra il termine latino lucus, presente anche in Vico, e la Lichtung heideggeriana, che ne
condivide la duplice e contraddittoria relazione al lucere: i due concetti si riferiscono entrambi ad un pensiero
dell’origine storica, ossia dell’origine del mondo umano. 29
A BERLIN 1976, si deve la maggiore insistenza sull’antitesi tra Vico e Cartesio; in questo binario si
inseriscono le interpretazioni come quella di COSERIU 1988: 59 sgg., che vedono nel pensatore italiano uno dei
precursori della distinzione tra natura e cultura, tra scienze della natura e scienze dello spirito. 30
È interessante la verifica, effettuata da BATTISTINI 1975: 173-241, del ricorrere nei testi didattici
vichiani, di alcune metafore archetipiche il cui obiettivo non si esaurisce nel docere, ma tiene conto della
necessità di persuadere. Tuttavia, questa centralità della metafora avvicina e insieme segna la distanza di Vico
dall'eredità barocca; se da un lato non ha senso negare i rapporti di Vico con essa, come fa CROCE 1945,
dall'altro, come giustamente osserva CONTE 1972, bisogna sempre tenere ben presente la valenza cognitiva e
logica che il tropo assume per Vico, in contrasto con il ruolo di raffinato ornamento che il Barocco si compiace
spesso di assegnarle.
31
Per una indagine approfondita sul ruolo della metafora e sulla fondamentalità del tropo retorico per la
logica poetica, in riferimento anche alle opere di Vico precedenti la SN, si veda DI CESARE 1986, 1992-93 e
1995. Sulla topica vichiana il rimando è ad APEL 1963: 430 sgg. e a VERENE 1981: 174 sgg., il quale ne fa il
terreno comune sul quale si incontrano l'ingegno, la metafora e il senso comune; l'universale fantastico vichiano
9
primaria rispetto alle altre figure retoriche, non solo e non tanto a livello esplicito (essa
ricorre solo limitatamente nella Logica poetica, anche se viene dichiarata “il più luminoso di
tutti i tropi”) ma soprattutto su un piano più sommerso, quello della struttura del carattere
poetico. Essa si pone così come comune origine delle due possibilità che abbiamo visto: il
fatto che il modello noto presente alla mente poetica dei bestioni sia differente nei due casi
determina poi la comparsa di leggi di funzionamento ulteriori per la vera e propria
individuazione del tipo di carattere.
Partendo dal secondo caso in questione, qualora l’effetto naturale osservato dall’uomo
non possa essere riportato a nulla di conosciuto, rimane pur sempre la propria natura, cioé la
possibilità di una immedesimazione nell’effetto stesso che, per converso, viene ad assumere
forma umana. Non si tratta però di uno scambio equo: l’uomo dei primordi fa la natura
simile a sé, ma d’altro canto essa rimane sconosciuta e spaventosa, poiché i suoi effetti
meravigliano e sorprendono la limitata mente dei bestioni. Così la degnità XXXV, che
afferma che
Il più sublime lavoro della Poesia è di dar’alle cose insensate senso, e passione.
è subito seguita dal caso concreto di un tale lavoro: citando Lattanzio Firmiano dalle Divinae
Institutiones, Vico enumera tre casi in cui gli uomini dell’età primitiva attribuivano il nome
di divinità: quello che ci interessa al momento è il caso in cui l’attribuzione avviene “ob
miraculum virtutis”, commentato da Vico con il riferimento agli Americani che “ogni cosa
nuova, o grande chiamano Dèi”32
. Vico ha evidentemente presenti, come lungo tutta l’opera,
interpretazioni della mitologia e della teogonia greca come quella di Natale Conti e di G.J.
Voss33
, che conferivano alle divinità significati allegorizzanti e perciò eruditi: come nel caso
dei trattatisti di imprese, anche qui Vico scorge il vizio della “boria dei dotti”, che si
ostinano a ricercare tra gli antichi una sapienza riposta che essi non conoscevano. Il
riferimento agli americani, ossia alle popolazioni dell’America meridionale di recente
scoperta (altrove chiamati “los patacones”), serve proprio a “smitizzare” la teogonia delle
popolazioni primitive, riportandola alla propria reale, e rozza, fisionomia34
.
racchiude di fatto, secondo Verene, una triplice teoria della formazione del concetto, della metafora e del
sensus communis.
32
SN30: 145.
33
Si veda CONTI, N., Mythologiae sive explicationis fabularum libri decem, Venetiis 1567 e VOSS,
G.J., De theologia gentili et physiologia christiana, sive de origine ac progressu idolatriae, Amsterdami 1642.
Vico, come la maggior parte degli eruditi napoletani del suo tempo, conosceva inoltre il Voss per le sue opere
retoriche e per il suo monumentale Etymologicon, da cui attinge gran parte delle proprie etimologie.
34
Prima di Vico, Wilkins aveva accennato con lo stesso scopo: si veda WILKINS, J. An essay toward a
real character and a philosophical language, London 1668.
10
Procedendo nell’opera, ritroviamo la favola di Giove nella sezione della Metafisica
Poetica del libro Della Sapienza Poetica: la metafisica dei bestioni, secondo Vico, fu la loro
stessa poesia, la quale
cominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose, che
sentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnità il vedemmo con Lattanzio [...] alle cose
ammirate davano loro l’essere di sostanze dalla propia lor idea.35
Procedendo in questo modo (così come supponendo una simpatia occulta tra la
calamita ed il ferro, come viene ricordato subito dopo), gli uomini primitivi facevano di tutta
la natura “un vasto corpo animato” (nella SN25 viene detto che si tratta della “metafora, che
fu la prima a concepirsi da mente umana civile e la più sublime di quante se ne formarono
appresso”36
):
tali uomini tutto ciò, che vedevano, immaginavano, ed anco essi stessi facevano, credettero esser
Giove; ed a tutto l’universo di cui potevano esser capaci, ed a tutte le parti dell’universo diedero
l’essere di sostanza animata.37
Cosa sia propriamente Giove, Vico lo dice poco dopo:
Così, per ciò che si è detto nelle Degnità d’intorno a’ principi de’ caratteri poetici, Giove nacque
in poesia naturalmente c a r a t t e r e d i v i n o , ovvero un u n i v e r s a l e
f a n t a s t i c o , a cui riducevano tutte le cose degli auspici tutte le antiche nazioni gentili, che
tutte perciò dovetter essere per natura poetiche.38
Possiamo dunque osservare come afferiscano al carattere poetico di Giove due
processi distinti. Da un lato, egli è figlio della immaginazione creativa dei primi uomini:
confluiscono nella descrizione della sua genesi le degnità sulla abitudine dei primi uomini ad
animare e personificare il mondo circostante; ma, una volta che in questo modo si è
costituito un dio, possono essere ricondotti ad esso altri particolari del mondo, ormai forniti
di una chiave di comprensione.
Come Giove, altri dèi presentano la stessa duplicità; si presentano come frutto di una
immaginazione creativa applicata alle potenze della natura, o ai maggiori principi civili39
, e
insieme rappresentano il punto di riferimento per la comprensione e l’espressione di tutto
quanto possa essere ricondotto alle une o agli altri. A partire dalla SN30 la tassonomia divina
vichiana subisce degli sviluppi, come si è anticipato: i dodici dèi delle genti maggiori
35 SN44: § 375.
36
SN25: § 111.
37
SN44: § 379.
38
SN44: § 381. 39
L'interpretazione naturalistica e quella civile del pantheon greco in Vico sembrerebbero succedersi,
dal Diritto Universale alla SN, secondo la lettura di NICOLINI 1936: III, 793. In realtà il mito naturalistico nella
SN non viene sostituito, ma affiancato da quello civile, di modo che, come ribadisce JACOBELLI ISOLDI 1960:
394 sgg., lo sviluppo dall'uno all'altro non sia una questione di evoluzione del pensiero vichiano ma piuttosto
un passaggio interno nella costituzione del mito stesso, parallelo all'evoluzione della società umana.
11
vengono distribuiti lungo la trattazione della “sapienza poetica”, non solo per rappresentare
le necessità umane e le cose naturali, ma anche per scandire in dodici epoche il cammino
dell’umanità primitiva. Lungo questo percorso si chiarisce la situazione particolare di
ciascuno: Giunone, Diana, Apollo, Venere, Minerva, Mercurio stanno per valori e costumi
civili della prima umanità; Vulcano, Saturno, Cibele e Nettuno sono personificazioni di
elementi naturali, che poi evolvono variamente a rappresentare anch’essi principi civili o
ordini sociali. Le mitologie di ciascuno di questi dèi sono allegorie, nel senso vichiano: ad
esempio, con le divinità di Giove, Cibele, Nettuno i primi uomini “spiegavano tutte le cose
appartenenti al cielo, alla terra, al mare”, tenendo fermo che questo processo “induttivo”, se
si può chiamare così, è logicamente successivo all’animazione. Solo in quanto ci si è
spaventati e meravigliati dinanzi al cielo e al suo fulminare, solo in quanto tuoni e fulmini
sono stati intesi come segnali di un essere animato e superiore all’uomo, insomma solo in
quanto Giove è già Giove è possibile farne il punto di riferimento per “tutte le cose degli
auspici”.
b) “Trentamila dèi”
Insieme a Giove, nella SN30 troviamo i caratteri divini che costituiscono le cifre del
mondo dei primi uomini. Una natura totalmente animata è una natura totalmente deificata;
ma non tutti gli dèi sono uguali: quelli di cui ci siamo occupati finora, infatti, derivano dalla
personificazione di un principio “universale”40
, non un oggetto qualsiasi, ma un elemento
che abbia una parte rilevante nel mondo elementare dei primitivi. Altro sono gli dèi
cosiddetti patellarii, come sono chiamati nel De Constantia Iurisprudentis41
citando Plauto,
ossia le innumerevoli divinità minori che vengono immaginate “d’ogni sasso, d’ogni fonte o
ruscello, d’ogni pianta, d’ogni scoglio”, come “le driadi, l’oreadi, le napee”42
.
Dopo aver fatto riferimento, nelle degnità XXVI-XXVII, alla ormai nota successione
delle tre lingue secondo gli Egizi, e alla testimonianza di Omero sull’esistenza di una lingua
anteriore alla propria, detta lingua degli dèi, Vico menziona Varrone, il quale
ebbe la diligenza di raccogliere trentamila nomi di dèi, che si rapportavano ad altrettante bisogne
della vita naturale, o iconomica, così domestica, e villereccia, e pastoreccia, come civile43
.
Si tratta delle “favole divine de’ latini e de’ greci” che “dovetter essere i veri primi
geroglifici, o caratteri sagri o divini, degli egizi”44
, i quali componevano la lingua degli dèi.
40 Sulla deduzione dell’universale fantastico, cfr. CRISTOFOLINI 1995(a): 87-90.
41
G.B.VICO, De Constantia Iurisprudentis, in Opere giuridiche, Sansoni, Firenze 1974, p. 517.
42
SN44: § 438.
43
SN30: 144.
44
SN44: § 437.
12
In quest’ultima espressione, il genitivo può assumere una doppia valenza, soggettiva ed
oggettiva; nel caso dei trentamila dèi di Varrone e della lingua ricordata da Omero, Vico
pensa non tanto ad un linguaggio usato dagli dèi per comunicare con gli uomini quanto
piuttosto al secondo senso, quello di un vocabolario letteralmente composto di dèi, di
sostanze animate in modo da assumere fisionomia vivente e divina45
, che pervadano tutta la
vita. Da un lato, i primi uomini concepiscono “l’idee delle cose per caratteri fantastici di
sostanze animate”46
dall’altro parlano per geroglifici; di queste due funzioni del carattere
poetico, quella logica e quella linguistico-designativa, i caratteri divini in questione
sembrano incarnare la seconda; eppure, a livello di definizione, essi condividono la funzione
logica attribuita agli dèi principali (per riprendere un luogo citato in precedenza, allo stesso
modo di come con Giove, Cibele e Nettuno vengono significate le cose appartenenti al cielo,
alla terra e al mare, “con l’altre significavano le spezie dell’altre cose a ciascuna divinità
appartenenti, come tutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona”47
). La situazione dei caratteri
divini sembra perciò essere da un lato proprio quella di un mito che coincide con un
linguaggio di primo grado48
; dall’altro, bisogna tener presente che nella definizione della
lingua divina non ritornano gli dèi principali, ma compaiono solo queste deità minori (delle
quali non si fa il nome se non in casi eccezionali); ed esse sono distinte dalle altre almeno
per quanto riguarda la estrema singolarità della personificazione che le riguarda (ciascuna
corrisponde a un sasso, una fonte, una pianta, uno scoglio). La loro estrema moltiplicazione
è dovuta appunto alla mancanza di uno spessore sufficiente per poterle accostare a Giove o
alle altre divinità maggiori; se queste spiccano come caratteri-personaggio, gli dèi patellarii
si definiscono nell’ambito di una lingua immaginosa in cui la significazione, estremamente
frammentata, è supportata da quel processo di animazione basato sulla connessione
metaforica tra la natura e l’uomo.
c) Imprese eroiche e parole reali
45 Non mancano i tentativi di leggere la lingua divina come cenno umano in risposta ad un precedente
cenno divino, e perciò come lingua del dio piuttosto che dell’uomo (secondo CANTELLI 1986: 36 “il linguaggio
umano si costituisce come imitazione del linguaggio divino”; per MODICA 1995: 159 la teologia è
originariamente appunto “discorso del dio”, ossia di Giove “cennatore”). Questa visione della prima fase del
linguaggio, che ha un carattere piuttosto statico e passivo, non si concilia però con il carattere “iconomico”
della comunicazione, che proprio in questo passo Vico evoca chiaramente; si rischia di considerare i primi
bestioni completamente assorbiti in una realtà tutta compresa nel nome di Giove, senza ricordare la loro natura
sociale ed attiva, pur nella tonalità eminentemente religiosa (direi quasi “teologica”) della prima epoca.
46
SN44: § 431.
47
SN44: § 402.
48
La coincidenza tra mito e linguaggio viene considerata in molti studi la conquista eminente dell’opera
vichiana. Essa è data per certa anche in VERENE 1981, in CANTELLI 1995 e in MODICA 1995. È tuttavia
necessario, ed è in parte scopo di questo lavoro, verificare fino a che punto regga questa coindidenza, date certe
strutture linguistiche e la loro variazione attraverso il percorso dell’umanità .
13
Seguendo l’evoluzione delle lingue, o semplicemente passando al livello successivo (a
seconda che si voglia considerare la sequenza delle tre lingue cronologicamente, come Vico
sembra suggerire in un primo momento, o funzionalmente, come invece appare dai
Corollari49
), troviamo che la lingua eroica “si parlò per imprese eroiche, o sia per
simiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni”50
. Nella SN30 un
lungo passo, espunto nella versione successiva, si sofferma sulle imprese e sulla loro
evoluzione, fedele alla degnità secondo cui “natura di cose altro non è che nascimento di
esse in certi tempi e con certe guise”51
, invece che spiegarne il carattere, per così dire,
“tropico”. In generale, man mano che si avanza nella composizione della Scienza Nuova la
trattazione delle imprese viene ristretta, fino ad occupare uno spazio notevolmente inferiore
rispetto alla SN25; sempre più definita, per converso, diventa la loro essenza e la loro
funzione. Così, nei corollari D’intorno all’origini delle lingue e delle lettere troviamo le
imprese eroiche in compagnia dei “nomi”, delle monete, delle medaglie, dei geroglifici
(intesi non come segni sacri ma, in un significato più generico e desunto dalla stessa
letteratura cinque-seicentesca più volte chiamata in causa, semplicemente come simboli
figurati: tali sono le cinque “parole reali” inviate da Idantura a Dario, la “risposta eroica
muta” di Tarquinio il Superbo a suo figlio, il “parlare con le cose” in uso nella Francia
settentrionale e in Germania, ma anche nelle Indie occidentali e in Cina) e dei che
dice Omero, cui vengono esplicitamente fatte corrispondere. La radice comune di tutti è una
natura semantica che congiunge la corporeità dell’oggetto52
e il suo potere designativo.
Particolarmente notevole al riguardo è il brano sulle imprese gentilizie “ne’ tempi barbari
ritornati”53
: grazie all’assonanza tra “segni” e “insegne” Vico attribuisce alle imprese, la cui
prima funzione è l’accertamento dei confini e dei domini nei tempi dell’“inopia di scrittori”,
un valore di significazione che si discosta alquanto da quello “allegorico” delle favole vere e
proprie. Sul piano logico, questo significa che, laddove i caratteri di sostanze animate
servivano ai primi uomini per concepire le cose, questi “geroglifici” sembrano servire solo
per significare (cioè per portare segno, per essere “insegne”) qualcosa di immediato e di
particolare, sempre con il supporto tropico dettato da necessità di natura (nella SN25 si dice a
proposito delle imprese che “la favola e l’espressione sono una cosa stessa, cioè una
49 Sul confronto tra lo schema cronologico e quello funzionale delle tre lingue, si veda PAGLIARO 1961.
50
SN44: § 32.
51
SN44: § 147.
52
VERENE 1995 ha messo in evidenza la corporeità del linguaggio muto che precede il parlare umano
(distinto dal "parlare degli eroi", più simile al "motto" delle imprese eroiche quanto a funzione); il mutismo e la
corporeità vanno così di pari passo, sia nella fase divina che in quella eroica, fino a quando vengono soppiantati
dal cogito e dalla verbalità. In questo caso il termine “carattere” va riferito anche proprio alla fisicità dell’atto
di imprimere, conformemente al significato del verbo ; si veda TRABANT 1996: 43 sgg., che con
questa interpretazione del "parlar scrivendo" vichiano appare più convincente di FANO 1962 (il quale lo
vedeva come una sorta di linguaggio mimico che disegni in aria gli oggetti da rappresentare).
53
SN44: § 485.
14
metafora comune a’poeti, ed a’pittori, sicché un mutolo senza l’espressione possa
dipignerla”54
). Tutto ciò acquista maggior chiarezza se si passa dalle imprese a considerare i
loro elementi costitutivi, che ritornano più volte nell’ambito dell’opera: una serie di oggetti
non personificati, ma significanti di per sé, in virtù della loro natura metaforica; la
connessione che il tropo instaura questa volta non è però tra la natura e la persona umana,
ma semplicemente tra la nozione da significare e il particolare o la proprietà più evidente di
una cosa che rimane comunque se stessa. Nel corso della SN30 e della SN44, come già nella
SN25, alcune di queste metafore vengono definite di per sé “caratteri eroici”: si tratta questa
volta non solo della lira, ma anche del teschio di Medusa, e dei fasci romani (che Vico stesso
usa nella sua Dipintura come geroglifico). Questi caratteri eroici “stanno per” una certa
nozione civile; la loro significazione sembra essere puntuale, più vicina all’universalità di
una parola che a quella di un universale fantastico; difatto, non viene loro attribuita
esplicitamente l’“allegoria” di una molteplicità di particolari, che sul versante “umano” si
traduce nell’antonomasia vossianica, come vedremo tra breve. Nell’età degli eroi, o
semplicemente nella lingua eroica, i caratteri poetici cominciano a perdere la loro
onnicomprensività: a questo livello, le parole articolate, che sono poche ed incerte nella
prima lingua, si fanno man mano strada e raccolgono sotto di sé brandelli di mondo che si
sottraggono al dominio dei caratteri poetici; e così, nel brano dei Corollari che offre la
visione sinottica delle tre lingue, si dice che la lingua eroica, intermedia tra quella divina e
quella umana, è “mescolata ugualmente e di articolata e di muta, e ’n conseguenza di parlari
volgari e di caratteri eroici co’quali scrivevano gli eroi, che dice Omero”55
.
d) Ercole e Omero
La lingua eroica è composta di caratteri eroici, ma non solo; e, per converso, non tutti i
caratteri eroici rientrano nella lingua eroica. La legge di funzionamento dei caratteri eroici
che rappresentano persone, e che derivano da un modello realmente esistente (un uomo
eminente, o comunque considerato per una sua proprietà particolarmente evidente) è
cooriginaria a quella dei primi caratteri divini, e la loro funzione è differente da quella delle
“immagini e somiglianze” che compongono la seconda lingua. Tornando alla degnità dalla
quale siamo partiti, la XXX nella SN30 (XXXII nella SN44), è il caso di riprendere la prima
54 SN25: § 328.
55
SN44: § 446. Secondo WOLFHART 1981 (che ritiene invece che la differenza tra la lingua divina e
quella eroica resti comunque sfumata) la base comune delle tre lingue consisterebbe nel significato, inteso
come transizione dal sensibile al non sensibile; ma, se si può convenire sulla metaforicità originaria di ogni
linguaggio (ricordiamo che per Vico "delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti
i filologi ch'elleno significassero a placito, perch'esse, per queste loro origini naturali, debbon aver significato
naturalmente"), è necessario non dimenticare che la funzione fondamentale è comunque assunta dalla metafora
nei primi linguaggi, nei quali essa si caratterizza per il suo radicamento nella corporeità.
15
delle due possibilità che si offrono alla mente ignorante dei bestioni: conoscere le “naturali
cagioni delle cose” per “cose simili”. Al proposito, è utile confrontare la degnità XLVI nella
SN30:
È un luogo d’oro questo di Giamblico De misteriis aegyptiorum, che gli Egizi richiamavano tutti i
loro ritruovati a Mercurio Trimegisto [...] Non essendo i primi huomini capaci di formare i generi
intelligibili delle cose, ebbero natural necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono certi
generi, ovvero universali fantastici da ridurvi, come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le
spezie particolari a ciascun suo genere somiglianti [...] Questa stessa Degnità è ’l Principio delle
Vere Allegorie Poetiche, che alle Favole davano significati univoci, non analogi, di diversi
particolari compresi sotto i loro Generi Poetici; le quali perciò si dissero diversiloquia, cioè
parlari comprendenti in un general concetto diverse spezie d’huomini, o fatti, o cose56
.
Accade in questo caso con Mercurio Trimegisto quel che accadeva nella SN25 per
Ercole: in entrambi i casi un personaggio viene evocato in sede di definizione del carattere
poetico, ed in entrambi i casi la genesi di quest’ultimo viene esemplificata con la sua
fisionomia collettiva. Nelle opere precedenti, esso era stato distinto mediante un particolare
tropo, l’antonomasia, della specie individuata dal Voss57
: si tratta del tipo “particolarizzante”
dell’individuum pro specie, cui Vico fa riferimento nel De Constantia Iurisprudentis
indicandola come la fonte dei caratteri poetici58
; ma nella SN30 egli dispone dello strumento
dell’universale fantastico per fornirgli uno status. Il fatto che in questo caso entri in gioco un
principio di “somiglianza” anziché uno di “animazione” è ulteriormente sottolineato
nell’evoluzione dell’opera: nella SN44 Vico aggiunge (riprendendo affermazioni risalenti
già al De Constantia, e già da allora riferite all’origine dei tropi) una degnità apposita, la
XLVIII, che recita:
È natura de’ fanciulli che con l’idee e nomi degli uomini, femmine, cose che la prima volta hanno
conosciuto, da esse e con essi dappoi apprendono e nominano tutti gli uomini, femmine, cose
c’hanno con le prime alcuna somiglianza o rapporto59
.
La corrispondenza tra i due principi di funzionamento è testimoniata dal fatto che
nella SN44 la degnità sull’“animazione” (la XXXV nella SN30, divenuta qui la XXXVII) è
completata con un analogo riferimento ad una proprietà dei fanciulli, ossia “prender cose
inanimate tra mani, e, trastullandosi, favellarvi come fussero, quelle, persone vive”60
. Ma
esiste la possibilità che intervenga una contaminazione tra i due processi? In principio di
trattazione la domanda è stata lasciata in sospeso: si era visto che nella SN25 il passaggio
56 SN30: 149.
57
Si veda VOSS, G.I., De Rhetorica, in Opera omnia, tomus tertius, Amstelodami 1697, p. 185. Per un
approfondimento sul ruolo dell’antonomasia vossianica in Vico, si veda BATTISTINI 1978.
58
G.B.VICO, De Constantia Iurisprudentis, cit., p. 455.
59
SN44: § 206.
60
SN44: § 186. Come ha fatto notare CRISTOFOLINI 1995(a): 90, l’attenzione di Vico per il mondo
infantile aumenta con l’avanzare degli anni.
16
degli dèi a rappresentare una categoria di persone viene considerato in via di principio una
evoluzione tarda, ed è in effetti sensato sospettare che la sostanza del dio si affermi già
allorché l’immaginazione creativa le dà forma, e, con una riflessione su se stessa, ritorni al
personaggio che ha animato per significare suo tramite gli elementi del mondo. Perché il dio
impersoni i suoi creatori stessi, questi devono già averne delineato precisamente la
fisionomia, tramite questa animazione. Nella SN44 troviamo diverse divinità, nate a
rappresentare un elemento naturale o un principio civile, che si evolvono così fino a
rappresentare una categoria di uomini:
De’ padri regnanti nello stato delle famiglie ne fecero Giove; de’ medesimi, chiusi in ordine nel
nascere delle prime città, ne fecero Minerva; de’ lor ambasciadori mandati a’sollevati clienti ne
fecero Mercurio; e [...] degli eroi corsali ne fecero finalmente Nettunno.61
Anche in questo caso il processo viene presentato come cronologicamente tardo; esso
interviene infatti nei primi governi eroici come retaggio della mentalità propria dell’età degli
dèi, “che gli dèi facessero tutto ciò che facevano essi uomini”. Addirittura, per il carattere
divino di Marte, l’identificazione è sin dal principio in quanto “carattere degli eroi, che
prima e propiamente, combatterono «pro aris et focis»”62
. A queste divinità si applica poi il
“gran canone di mitologia” per l’interpretazione delle favole, ossia la distinzione tra dèi
“eroici”, che rappresentano l’ordine degli eroi considerati per l’aspetto significato dal dio, e
dèi “plebei”, che significano i famoli di quelli; inutile dire che, senza essere pervenuti ad una
società così articolata, sarebbe stato impossibile fingere questo tipo di caratteri.
A questo stadio l’allegoria dei caratteri eroici e quella dei caratteri divini si
avvicinano, e allo stesso tempo i due si allontanano sempre di più dal linguaggio; accade
cioè che la funzione logica del carattere si renda autonoma rispetto a quella semantico-
linguistica, per collaborare alla costituzione di una entità con un proprio spessore anche
narrativo. Vico, come abbiamo visto, è cosciente del fatto che il linguaggio fonico non sia
l’unico mezzo per raccontare la storia; se però in principio era il geroglifico, un segno che
condensa in sé infiniti significati, a rappresentare una conoscenza intuitiva ed insieme
discorsiva63
, racchiudendo perciò la favola nell’immagine, la narrazione distesa si fa man
mano strada, minando questa funzione dell’icona, proprio attraverso la suddetta evoluzione
del carattere poetico. Nelle favole eroiche della Scienza Nuova, in particolare nella sezione
della Politica poetica, le icone gravitano attorno ai caratteri per così dire “drammatici”,
come gli attributi intorno al soggetto: il mezzo ideogrammatico di narrazione non è mai
61 SN44: § 629.
62
SN44: § 562.
63
BATTISTINI 1984-85 richiama l’opera di Francesco Patrizi (Della istoria diece dialoghi, Venezia
1560) a testimonianza della tesi che la trattazione della storia possa avvenire anche senza una narrazione
distesa; al proposito, si veda anche GARDINER JANIK 1982.
17
autonomo, ma ha bisogno di trovarsi in successione con altri, ovvero di appoggiarsi ad un
carattere-personaggio del quale significhi una proprietà. Per restare ad uno dei tre caratteri
eroici-oggetti prima nominati (che ricorrono proprio in questa sezione), val la pena di
esaminare la favola di Orfeo:
Orfeo, finalmente, il fondatore della Grecia, con la sua lira o corda o forza, che significano la
stessa cosa che ’l nodo d’Ercole (il nodo della legge Petelia), egli è morto ucciso dalle Baccanti
(dalle plebi infuriate), le quali gliene fecero andar in pezzi la lira (che, a tante prove fatte sopra,
significava la legge).64
Solo personaggi analoghi possono propriamente essere definiti miti, mentre non
possono esserlo (se non marginalmente) i caratteri poetici-oggetti, e non lo sono affatto le
parole reali, ovvero gli oggetti che diventano simboli atti alla comunicazione. Il carattere
eroico-personaggio si distingue da tutti per la sua peculiare comprensività: ricordiamo che
“diversi uomini, e in diversi tempi appresso” condividono la proprietà eminente dell’uomo
osservato per primo (da qui hanno origine tra l’altro quelli che Vico chiama i “mostri di
cronologia”, ossia i personaggi la cui vita ha una durata inverosimile: lo stesso Ercole ne è
un buon esempio, visto che vive dall’inizio dell’età degli dèi per tutta quella degli eroi). La
forma umana è la condizione imprescindibile per diventare protagonisti della storia favolosa,
per rappresentare un mito la cui allegoria sia un parlare comprendente diverse persone65
:
l’alternativa è la lingua simbolica, composta di metafore “comuni a’ poeti e a’ pittori”, che,
via via letteralizzate, si trasformano in parole correnti, la cui etimologia conserva però
ancora la prima significazione. Vico crede infatti che sia un errore considerare convenzionali
le lingue volgari:
perch’esse, per queste lor origini naturali, devono aver significato naturalmente. Lo che è facile
osservare nella lingua volgar latina (la qual è più eroica della greca volgare, e perciò più robusta
quanto quella è più dilicata), che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per
proprietà naturali o per effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue
appo tutte le nazioni.66
Il discorso diventa ancora più chiaro quando si passi ad esaminare i “due grandi tesori
del diritto naturale delle genti di Grecia”, ossia i poemi omerici, che Vico, nella Discoverta
del vero Omero comparsa nella SN30, vuol dimostrare essere “storie civili degli antichi
costumi greci” 67
. Omero fu sublime poeta perché fu “niuno filosofo”, la sapienza riposta
64 SN44: § 659.
65 I caratteri in questione possono perciò rappresentare un esempio di quanto sostiene DORFLES 1969,
ma solo in un senso diverso; affermando che la metafora autentica, modello di sincronia, può conoscere un
processo di diacronizzazione ed approdare così alla storia, Dorfles pensa piuttosto all'estetica contemporanea e
all'opportunità di considerare l'elemento metaforico come modalità di comunicazione estetica attraverso le
epoche.
66
SN44: § 444.
67
SN44: § 156.
18
attribuitagli dai dotti deve essere negata per spiegarne l’”innarrivabile facultà poetica”,
contro le ipotesi dei “Patrizi, Scaligeri e Castelvetri”. Questa “facultà” consiste tra l’altro
nell’aver saputo fingere personaggi come nessun altro, come affermano Aristotele nella
Poetica e Orazio nell’Ars poetica. Vico non ha dubbi nello spiegare le ragioni di questa
superiorità: i caratteri poetici di Omero , come Achille e Ulisse, furono proprio quei generi
fantastici “a’ quali i popoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun
d’essi generi”68
. Il luogo in esame, il quarto capitolo della prima sezione del libro terzo
Della discoverta del vero Omero, è l’unico in cui Vico citi Aristotele a proposito dei
caratteri. Il senso del termine è difatti del tutto coincidente con quello che Aristotele assegna
nella Poetica agli , o con quello dei caratteri teofrastei69
: si tratta proprio di personaggi
di tragedie, accostabili magari al Goffredo di Buglione del Tasso, che nella Degnità XLVII
della SN44 serve da esempio del fatto che “il vero poetico è un vero metafisico, a petto del
quale il vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso”70
. I caratteri
omerici, così definiti, sono impareggiabili perché a fingerli fu un’intera nazione,
conformemente alla “discoverta” della vera natura di Omero cui Vico si appresta:
I caratteri poetici [...] nacquero da necessità di natura, incapace d’astrarre le forme e le proprietà
dei subietti; e, ’n conseguenza, dovetter’essere maniera di pensare di interi popoli, che fussero stati
messi dentro tal necessità di natura, ch’è nei tempi della loro maggior barbarie.71
Nell’esame dei poemi omerici appare ormai evidente come questa funzione logica del
carattere si possa distaccare da quella strettamente linguistica e fungere da base per una
ulteriore costruzione: caratteri siffatti sono ormai fuori dalla lingua di Omero, che non è una
lingua per (di cui egli parla come di uno stadio precedente), ma è ugualmente una
lingua eroica “per somiglianze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi e di
spezie”; è caratterizzata da sentenze, comparazioni, descrizioni poetiche, insomma possiede
tutte le connotazioni di quella parte della seconda lingua che prelude ai “parlari volgari”
articolati. È con questo mezzo, ormai fonico, che Omero racconta le proprie favole; un po’
come accade per il popolo romano, del quale Vico sottolinea fin dalla SN25 come abbia
“spiegato con lingua volgare” (la stessa che funge da esempio della significazione naturale
delle lingue volgari) le “cose civili romane”, a differenza dei greci che usavano una “lingua
eroica”72
. Sull’altro versante, il processo di singolarizzazione del carattere “grafico” culmina
68 SN44: § 809.
69
Nei trattati di poetica dei sopra citati Patrizi, Scaligero e Castelvetro, il termine “carattere” non ha
questa connotazione; per rendere il significato di vengono preferiti termini come “costumi” (Castelvetro) o
mores (Voss). Si vedano PATRIZI, F., Della poetica, ed. critica a cura di D. Aguzzi Bargagli, Istituto Nazionale
di studi sul Rinascimento, Firenze 1969; SCALIGER, I.C., Poetices libri septem, Frommann, Stuttgart 1995;
CASTELVETRO, L., Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, Laterza, Bari 1978; VOSSIUS, G.I., Poeticarum
Institutionum, Amstelodami 1647.
70
SN44: § 205.
71
SN44: § 816.
72
SN44: § 160.
19
nel carattere tipografico, ossia nelle lettere alfabetiche, che figureranno come terza “spezie”
di carattere nel capo Tre spezie di lingue, nel libro sul Corso che fanno le nazioni.
20
BIBLIOGRAFIA
APEL 1963: Apel, K.O., Die Idee der Sprache in der Tradition der Humanismus von Dante
bis Vico, tr.it. di L. Tosti L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico,