Giovanni Mascia – Pietro Grosso I fulmini e il campanile Apprensione, dolore e morte nello storico imperversare dei fulmini a Toro (2014)
Giovanni Mascia – Pietro Grosso
I fulmini e il campanile
Apprensione, dolore e morte
nello storico imperversare dei fulmini a Toro
(2014)
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INDICE
p. 3 AVVERTENZA
p. 4 Estate da dimenticare
Estate 2014: cattivo tempo, temporali, grandine e fulmini in tutta
Italia, e purtroppo anche in Molise e a Toro
p. 5 Un decennio incandescente
Negli Anni Novanta del secolo scorso, fulmini scatenati contro il
Campanile
p. 11 Mezzo secolo fa: una notte di tregenda
Vigilia di San Mercurio 1964: fulmini sull’olmo del Convento e in
casa Parziale (Refridde), in viale San Francesco
p. 17 Terrore e giaculatorie
Formule magico-religiose, rimedio popolare contro i fulmini e il
cattivo tempo
p. 18 Carneficina nel Casino dei Magno
Estate 1957: Pasquale Fracasso, detto Pacchille, rimane vittima di
un fulmine che ammazza due pecore e il cane
p. 19 La brutta fine “du macelinare” e del suo asino
2 luglio 1948: uomo e bestia, folgorati sotto un albero nei pressi
della Carrera di Jelsi
p. 23 Il dramma dei Masciarille: mamma e figlia bruciate vive
15 luglio 1904: Susanna Di Gironimo e Maria Giuseppa Cercio,
colpite da un fulmine nella Curtenelle della Masseria Calicagno
p. 24 Morte sul tratturo
7 maggio 1771: Niccolò Girardi, 43 anni, è ammazzato da un
fulmine
p. 25 Il campanile maledetto
Maggio 1699 e Novembre 1780: vittime di fulmini sul campanile
Tomaso Loreto Di Chinco e Francesco Pantano, rispettivamente
di 16 e 20 anni
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AVVERTENZA
Il titolo non tragga in inganno. Il campanile è solo il luogo simbolo
delle devastazioni e delle morti che i fulmini hanno provocato a Toro
da fine Seicento a oggi. Questa veloce ricognizione, nata
da una idea di Pietro Grosso, cui si devono diverse foto e notizie, in specie
le segnalazioni e le testimonianze sui fulmini nel Casino dei Magno nel 1957
e nella Carrera di Jelsi nel 1948, registra anche danni ad alberi e abitazioni
e morti avvenute in aperta campagna, dove i nostri antenati,
maschi e femmine, erano costretti a portarsi giorno dopo giorno
dalla pressoché generale condizione di contadini.
Di quei tempi, segnati da un terrore diffuso e oggi quasi inconcepibile,
ci resta qualche reperto dialettale, racchiuso nella maledizione
Te calasse ‘na saiétte! (Calasse un fulmine su di te!),
in un proverbio rassicurante che abbiamo posto in epigrafe
(con la variante che invita, indirettamente, a non ripararsi sotto gli alberi),
e nel modo di dire, Santa Barbere e ‘a saiétte, Santa Barbara e il fulmine,
ancora in uso per designare una coppia inseparabile e/o male assortita.
Ci rimangono ancora un paio di formule, metà preghiera, metà scongiuro,
sulle quali ci soffermeremo. Retaggio di antiche superstizioni è anche il tabù
di indicare un fulmine caduto lontano: potrebbe essere recepito
dalle forze avverse come un segno di attenzione e di attrazione fatale.
Qualcosa di simile al divieto di nominare demoni e streghe e per questo
designati con sinonimi tipo Quilli brutte fatte!, Quei brutti ceffi!,
appunto per non correre il rischio di vederseli materializzare accanto.
Doverosi e calorosi ringraziamento vanno alla gentilezza
degli informatori e degli autori delle foto, di volta in volta ricordati.
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- Cuscinzia nétte n'ha paúre de saiétte. - Terra nétte, n'ha paúre de saiétte.
(Proverbi toresi)
Estate da dimenticare.
La turbolenta estate 2014 è stata caratterizzata dall’inclemenza del tempo, anzi del maltempo, che
ha flagellato soprattutto il Nord Italia, senza peraltro risparmiare il resto della penisola. Del
maltempo a Toro, basterebbe ricordare la violentissima grandinata del 13 giugno, festività di
Sant’Antonio di Padova, e il conseguente allagamento della strada provinciale all’ingresso del
paese, in località Pozzo a Monte.
Toro, 13 giugno 2014, i lastroni di grandine galleggiano sull’acqua che ha allagato la Via Nuova,
all’altezza del Pozzo a Monte (Foto Maria Pia Tromba - ToroWeb)
Da record anche il fenomeno dei fulmini, che infierendo sul Centro-Nord ha provocato danni
anche altrove. In Molise, a Trivento, è rimasto lesionato il campanile della cattedrale, mentre a
Castelpetroso, l’incendio dei pneumatici, con ogni probabilità provocato dalla scarica a terra di un
fulmine, si è propagato all’auto in sosta, distruggendola. Ma la notizia tragica è arrivata il 27 luglio
da Frosolone. Marco Berardo, un ventiquattrenne originario di Duronia, è rimasto vittima da un
fulmine che lo ha colpito mentre stava scalando una parete rocciosa. Inutili i soccorsi, per lui non
c’è stato niente da fare.
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Fulmini anche a Toro, fortunatamente con esiti meno pesanti. Nel tardo pomeriggio del 16 giugno,
durante l’infuriare dell’ennesimo temporale, un fulmine si è abbattuto su contrada Marchisi,
provocando problemi alle linee elettriche e telefoniche, che si sono protratti per qualche giorno,
con ripercussioni sulle famiglie che abitano nella zona. Nel pomeriggio del 5 agosto, un altro
fulmine è caduto con un boato fragoroso nei pressi dell’abitato, facendo scattare il salvavita degli
impianti elettrici di alcune case poste tra via, Roma, Via Sotto il Barbacane, Via Sotto le Case e Via
Antica. Danneggiati alcuni televisori.
Un decennio incandescente.
Niente di grave come si vede. Certo è che il fenomeno dei fulmini ha segnato, anche tragicamente,
la storia del nostro paese, accanendosi in maniera specifica contro il campanile, emblema e
pinnacolo dell’abitato, e in quanto tale negli anni Novanta del secolo scorso sottoposto a un vero e
proprio assalto da parte delle folgori che lo hanno bersagliato in almeno quattro occasioni. La
torre del Barbacane, la massiccia rocca torese, contro la decennale furia degli elementi, ma
diversamente dalla rocca di Troia assediata per un decennio anch’essa e alla fine messa a ferro e
fuoco dai Greci, il nostro bastione ha sofferto danni assai limitati prima di essere posto in sicurezza
in via definitiva. Dal fulmine che lo colpì nell’estate 1994, uscì del tutto illeso. Non così l’anno
successivo, il pomeriggio del Ferragosto 1995. Giorno nefasto per tutto il Molise, quando il
maltempo che imperversò in tutta la regione, colpì con particolare intensità il circondario di
Campobasso. Lo rileviamo dalla pagina regionale de «Il Tempo», giovedì, 17 agosto 1995. L’articolo
di apertura riporta il dramma di Sepino, dove si registrò una vittima, un allevatore cinquantenne,
Angelo Maglieri, colpito in un capannone, nei pressi della sua abitazione ad Altilia, mentre era
intento ad accudire un vitellino appena nato. In un trafiletto della stessa pagina sono riportati
alcuni dettagli del fulmine che nelle stesse ore si era abbattuto sul campanile della chiesa del
Santissimo Salvatore a Toro, provocando il crollo di un tratto del cornicione in pietra e del muro
del tetto a terrazzo, della lunghezza complessiva di quattro o cinque metri1. Numerose auto,
parcheggiate nella sottostante Piazza del Piano, riportarono danni. Danni altresì al manto stradale
e all’impianto elettrico che gestisce il moto delle campane. Immediato l’intervento dei vigili del
fuoco, che provvedendo a rimuovere le pietre cadute e a rimettere in sesto quelle rimaste in bilico
1 Che si trattasse di danni non proprio lievi, lo prova il fatto che nel marzo 1997, a distanza di quasi due anni dall’accaduto, il cornicione del tetto a terrazzo non era stato ancora riparato. E ciò nonostante i grandi lavori interni ed esterni (intonaco alla facciata e stilatura delle altre pareti a pietra), che in quegli Anni Novanta interessarono il complesso monumentale della chiesa e del campanile. Cfr. Giovanni Mascia, La chiesa del Santissimo Salvatore a Toro, Edizioni Lampo, Campobasso 1997, pp. 49-50.
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sul tetto del campanile, ripristinarono la circolazione di auto e pedoni nella sottostante piazza e in
via Marconi (popolarmente ‘n coppe u Varvacane).
Ferragosto 1995, il cornicione del campanile colpito dal fulmine
(Da notare, nella foto di Enzo Mascia, anche l’effetto discutibile di un malriuscito intervento di restauro al barbacane del campanile, che successivamente è stato restituito al dovuto decoro)
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Ferragosto 1995, qui e nella foto precedente i vigili del fuoco rimuovono le pietre rimaste in bilico
(Foto Enzo Mascia)
Sul posto anche due pattuglie dei carabinieri di Campobasso, che in collaborazione con i
carabinieri di Toro riportarono alla normalità il nostro piccolo centro, dove si erano registrati
anche diversi allagamenti, tra i quali quello abbastanza grave che aveva interessato l’oreficeria
Lamenta in Via Roma.
Fin qui la testimonianza del cronista S.G. de «Il Tempo», nella quale non è fatta parola di una
tragedia sventata solo per un soffio e con tanta fortuna. Pochi secondi prima che il fulmine facesse
saltare in aria i diversi metri cubi di lastroni e laterizi dall’angolo del cornicione posto a nord-est
del tetto della torre, Donato Funicella, aveva parcheggiato la sua auto sotto il campanile. Il tempo
di chiuderla e raggiungere i gradini del Bar Centrale, a quel tempo gestito da lui, ed ecco il botto
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spaventoso e, nella successiva rovinosa caduta di materiale lapideo, un gran masso piombare sul
tetto dell’automobile sfondandolo completamente.
Ferragosto 1995, le dimensioni preoccupanti di uno dei grossi massi crollati dal cornicione del campanile
(Foto Enzo Mascia)
A distanza di un anno esatto da quegli avvenimenti, altri fulmini si accanirono contro il campanile e
gli elettrodomestici di molte abitazioni circostanti vanno in tilt. A lasciarne testimonianza, «Nuovo
Molise Oggi», a pagina 5 del numero di domenica 18 agosto 1996. Nel trafiletto, firmato L. S. [Lino
Santillo] e intitolato Ancora fulmini. Chi paga i danni?, si legge:
Lo scoppio generato da due fulmini in sequenza ha messo in allarme tutti da subito, ma solo quando televisioni, computer e telefoni hanno smesso di funzionare, ci si è accorti della potenza scaricata a terra. L’ironia della sorte ha voluto che l’episodio si ripetesse a distanza di un anno esatto. Infatti il 15 agosto dello scorso anno fu la torre campanaria a riportare danni alla sua struttura in pietra. Grossi massi si staccarono dalla parte più alta precipitando su alcune auto parcheggiate. In questi giorni è scattata la polemica su chi debba accollarsi le spese per impiantare un parafulmini più potente in sostituzione di quello sistemato sul campanile. Il Comune, l’Enel: a loro si rivolgono le lamentele dei cittadini di Toro, che si sono dovuti accollare tutte le spese per le riparazioni degli impianti danneggiati.
Davanti al ripetersi degli eventi calamitosi, la polemica su chi doveva accollarsi le spese non aveva
senso. Comunque dovette passare un altro anno e mezzo, prima che, a fine 1997 (data
confermataci dal sindaco Angelo Simonelli), l’Amministrazione Comunale del tempo non
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provvedesse ad adeguare l’impianto, e a racchiudere il campanile, che è anche la torre civica del
paese, in una gabbia di Faraday. Il battesimo di fuoco (è proprio il caso di dirlo), di una struttura
che ancora oggi pare svolgere al meglio la sua funzione, avvenne nell’ottobre 1998, quando una
tempesta di fulmini continuò a illuminare a giorno una notte memorabile: il nuovo sistema fece il
suo dovere, neutralizzando la folgore che si era abbattuta sulla torre.
Dettaglio della gabbia di Faraday, che da fine 1997 protegge il campanile di Toro dai fulmini
(Foto Pietro Grosso, 2014)
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Mezzo secolo fa: una notte di tregenda.
Altri fulmini avevano lasciato la loro impronta annientatrice sull’agro di Toro anche nei decenni
precedenti. Ricordiamo, a titolo di esempio, il fulmine che nell’estate 1973 si abbatté in località
Casino dei Magno, incendiando la cisterna di gasolio di proprietà di Peppino Del Colle (Turcacchie),
posizionata a 30 metri dalla casa di abitazione.
La profonda ferita provocata da un fulmine sul tronco di una quercia. Toro bivio strada Parco e strada Maitina (Foto Pietro Grosso. 2014)
Ricordiamo, soprattutto, il fulmine tristemente famoso, che la sera di festa della vigilia di San
Mercurio, il 25 agosto 1964, centrò con un boato l’olmo secolare del sagrato del convento,
abbattendolo in parte e disseminando enormi schegge nel raggio di settanta, cento metri. In
particolare un grosso ceppo ed altre scaglie più piccole furono scaraventati con forza fino al
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cancello della scuola elementare, nei cui pressi era arrivato, miracolosamente illeso, Padre
Mercurio Parziale, che si stava affrettando a ritornare in convento per scampare alla tempesta in
arrivo.
La foto fissa l’attimo in cui il fulmine colpisce l’albero (Fonte Internet)
Fu grande l’eco dall’evento, che aveva mandato in tilt l’illuminazione pubblica rovinando
irrimediabilmente la serata di festa in piazza: innanzitutto per congratularsi dello scampato
pericolo con il giovane frate, allora poco più che trentenne, ma soprattutto per dolersi della
morte, che sembrava inevitabile, dell’olmo monumentale così duramente colpito. E invece no, la
natura ha compiuto il miracolo e oggi, 25 agosto 2014, vigilia di San Mercurio, a distanza precisa di
mezzo secolo da quella sera, possiamo ribadire quello che tutti i toresi sanno e le nostro foto
comprovano: quell’olmo secolare e gigantesco continua a dominare il sagrato del convento e tutto
il sottostante abitato di Toro, pur presentando ancora ben visibili le smisurate e profonde ferite,
oramai cicatrizzate, inferte in più punti dal fulmine al suo monumentale tronco.
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Le profonde ferite causate cinquant’anni fa dal fulmine all’olmo del Convento, lato Sud-Ovest (Foto Pietro Grosso 2014)
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Altre ferite da fulmine inferte mezzo secolo fa all’olmo monumentale, lato Nord-Ovest (Foto Pietro Grosso 2014)
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Toro, 25 agosto 2014, l’olmo del Convento nel suo secolare rigoglio,
nonostante le numerose e profonde ferite da fulmine, subite dal tronco giusto cinquant’anni prima
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Se grande fu la risonanza che ebbe il fulmine caduto sull’olmo del Convento, non va dimenticato
che in contemporanea, in quella notte di tregenda della vigilia di San Mercurio di mezzo secolo fa,
un altro fulmine si abbatté su Toro, e anche in questo caso, solo per fortuna, o per l’intervento
miracoloso del Santo Patrono, non provocò vittime. A darcene testimonianza, a cinquant’anni
dall’accaduto, Franca Parziale, che si è avvalsa della collaborazione della zia Nicolina Cofelice
(Colagiacomo). Serata di festa, dunque. La nonna di Franca, Cecilia Francalancia e la figlia, zia
Mariettella Parziale (Refridde), che erano anche zia e cugina di padre Mercurio, stavano godendosi
lo spettacolo del vivace passeggio festivo, sedute al fresco davanti casa, in viale San Francesco.
Avevano un orecchio per l’eco dei cantanti che arrivava da Piazza del Piano, e un orecchio per
eventuali strilli o piagnistei in arrivo attraverso la porta di casa lasciata aperta. Al piano superiore,
infatti, dormiva in culla il piccolo Vincenzo Marino, il secondo figlio di Mariettella, di un anno, poco
più, poco meno. Alle prime gocce di una pioggia temporalesca, che arrivò improvvisa e via via
sempre più tambureggiante, le due donne si apprestarono a rientrare, dopo aver salutato il
giovane francescano che a sua volta si era incamminato in tutta fretta per far ritorno in convento.
Appena dentro casa, le poverette rimasero abbagliate e intronate da un’esplosione terrificante:
attraverso il balcone aperto, un fulmine si era abbattuto contro il contatore della luce del piano di
sopra, scardinandolo dal muro, prima di incanalare la sua potenza distruttiva sull’impianto
elettrico e quindi lungo la tubatura dell’acqua e scaricare la sua potenza a terra. Tutto questo lo
avrebbero verificato dopo. Per il momento il terrore si era impadronito di loro due, che nel buio
pesto della casa e dell’intero paese, animato da un fuggifuggi generale, potevano soltanto
immaginare cosa stesse loro succedendo. A tentoni e con il cuore in tumulto, raggiunsero la culla e
riabbracciarono il bambino in lacrime, ma per fortuna incolume. Accesa finalmente una candela e
guardatesi intorno, nonna Cecilia e zia Mariettella cominciarono a rendersi conto di quanto già il
fumo acre e il terribile puzzo di bruciato lasciavano ipotizzare. I fili elettrici bruciacchiati, la striscia
nera sulle pareti incenerite, i frammenti di intonaco e i calcinacci caduti sul pavimento, la carcassa
distrutta del contatore della luce: le tracce lasciate dal fulmine erano impressionanti. Però il
bambino stava bene. Loro stavano bene. Se l’erano cavata con tantissimo spavento e danni alla
casa, sia pure ingenti, ai quali rimediare con comodo. Tutto ben considerato, potevano consolarsi
e dirsi miracolate, perché sapevano bene, e insieme a loro due lo sapevano i parenti e i vicini di
casa e tutto il paese, che in un caso analogo, avvenuto sette anni prima, a Pasquale Fracasso, alias
Pacchille, alias “Pasquale alla moda”, era andato peggio. Molto peggio. Ma di quello che gli era
accaduto ne parleremo più avanti.
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Terrore e giaculatorie
Per il momento, pur professando rispetto e considerazione per chi ha vissuto in prima persona le
apprensioni, i danni e i disagi legati agli eventi fin qui ricordati, se dovessimo limitarci ad essi
daremmo un quadro distorto del fenomeno e risulterebbe in qualche modo esagerato il terrore
che attanagliava intere famiglie, a cominciare dalle madri, in alcuni casi, vere e proprie matrone e
matriarche riverite non solo in casa, ma dal vicinato e dal paese intero, le quali nei decenni orsono,
all’approssimarsi dei temporali richiamavano i figli in casa, per sprangarsi dentro, appannare gli
scuri alle finestre, e raggiungere insieme gli angoli più nascosti, spesso rannicchiandosi sotto le
coperte, o addirittura sotto il letto, ove recitare spasmodicamente scongiuri magici o giaculatorie
sacre, di implorazione a Santa Barbara protettrice dal fuoco e dai fulmini e affini, e scongiurare in
tal modo gli effetti nefasti del pericolo minacciato:
Santa Barbere benedétte, scampece di lampe, di trune e di saiétte,
manni ‘n quélla valla scúre ado’ n’ ce sta nesciúne alme de creiatúre.2
Peggio ancora per chi si trovava in campagna. All’ansia per la sorte personale, il malcapitato
doveva accomunare l’angoscia per la frutta, gli ortaggi, e il raccolto minacciati dal temporale. Ben
poco aveva da consolarsi con la versione ad hoc del proverbio “Male non fare, paura non avere”,
cioè: Cuscinzia nétte n'ha paúre de saiétte. Né ripetendo con fervida devozione l’incipit del
cosiddetto “Verbo di Dio”, la preghiera che ad ogni buon conto lo avrebbe dovuto assicurare dalla
paura di “tuoni e lampi” e naturalmente dalle saette, perché grazie alla forza apotropaica della
sacra tiritera sarebbe senz’altro scampato alla furia distruttrice degli elementi, invitati a restarsene
lontano, “cento miglia e cento passi”.
U vèrbe de Dje 'léme djce, u vèrbe de Dje 'léme cumenza'.
chi n'u sa ze l'ha da 'mpara', 'n punte de morte ze l'ha da dumanna'.
Chi u djce tré vote 'a sére, n'ha paúre mai de male stréghe;
chi u djce tré vote 'a notte, n'ha paúre mai de mala morte; chi u djce tré vote 'n campagne,
n'ha paúre mai de trune e lampe.
2 Santa Barbara benedetta,/ scampaci dai lampi, dai tuoni e dalle saette,/ mandali in quella valle scura/ dove con c’è nessuna anima di creatura.
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Trune e lampe sta' d'arrasse cinte mjglie e cinte passe…3
A tali formule, “in cui religione e magia si confondono” fa riferimento Eugenio Cirese, il poeta
molisano, in una lirica (ci torneremo più avanti), nella quale rivive “con l’animo di allora gli attimi
che precedono il temporale: quando la vita dei campi è paurosamente raccolta in quello che
avverrà nei due, cinque, dieci minuti che seguono il primo tuono e il primo soffio del turbine che
pare tutto confonda nella sua furia distruttiva, e disperda anche le foglie della speranza dell’uomo
e il pianto della sua fatica. Attesa paurosa di ciò che sarà, e che – nell’inimicizia di Dio e quasi nella
sua impotenza ad arrestare le forze scatenate – non dalla preghiera, ma solo dalla formula, in cui
religione e magia si confondono, potrà forse essere scongiurato”4.
La paura sconsiderata, il vero e proprio terrore, erano del tutto giustificati, quindi, specie in chi
aveva sofferto la perdita di familiari o persone care, perché le tempeste e i fulmini a Toro non
hanno solo rovinato i raccolti o provocato danni agli alberi, agli edifici e ad elettrodomestici, come
fin qui abbiamo visto, ma anche lutti difficili da rimarginare.
Carneficina nel Casino dei Magno
Come accennato in precedenza, nell’estate del 1957, rimase vittima di un fulmine Pasquale
Fracasso, soprannominato Pacchille e anche “Pasquale alla moda”. Il contadino torese – stando
alla versione del già ricordato Peppino Del Colle, che anni dopo ne avrebbe rilevato la casa rurale
nel Casino dei Magno, sperimentando a sua volta la vocazione della zona ad attirare i fulmini –
stava pascendo le pecore nei dintorni quando fu allertato dall’arrivo del temporale. Aveva fatto
appena in tempo a riportare gli animali nella stalla, contigua alla casa, quando un fulmine colpì la
canna fumaria, per scaricarsi giù per il muro, e quindi lungo la catena, alla quale era legato il cane.
Sfortunatamente, il padrone si trovava a breve distanza: fu salvo per miracolo ma “sentì un forte
calore, come un fuoco che ardeva in tutto il corpo, e si accasciò al suolo”. Concorda
sostanzialmente la versione che Mariangelo Farinacci, il marito di Nicolina Simonelli, la Giornalaia,
dà dell’episodio. L’allora giovanissimo Mariangelo, la sera dell’accaduto, era andato a visitare il
compaesano, per il quale in precedenza era stato a lavorare a giornata con il trattore. Ma non
3 Il Verbo di Dio vogliamo dire,/ il Verbo di Dio vogliamo cominciare,/ chi non lo sa deve impararlo,/ in punto di morte deve domandarselo./ Chi lo dice tre volte la sera,/ non ha paura mai di male streghe;/ chi lo dice tre volte la notte,/ non ha paura mai di mala morte;/ chi lo dice tre volte in campagna,/ non ha paura mai di tuoni e lampi./ Tuoni e lampi state lontano,/ cento miglia e cento passi… 4 Eugenio Cirese, Oggi, Domani, Ieri. Tutte le poesie in molisano, le musiche e altri scritti, a cura di A. M. Cirese, Marinelli editore, Isernia 1997, II, p. 385.
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ebbe modo di vederlo: forse perché già a letto o forse perché nel frattempo era ricorso alle cure
del famoso medico torese Nicolangelo De Sanctis. Seduta accanto al caminetto, c’era solo la
moglie Giovannina, in compagnia di parenti e amici. Il giovane rimase impressionato dalla traccia
lasciata dal fulmine, che era entrato all’interno della canna fumaria, provocandovi crepe e squarci,
prima di incenerire le mattonelle del muro e del pavimento. Detto tra parentesi: la circostanza non
deve sorprendere. I comignoli, in quanto punti eminenti dei tetti delle case, sono naturalmente
più esposti. Inoltre la fuliggine e il carbone della canna fumaria sono conduttori di elettricità. Infine
il fuoco eventualmente acceso nel camino peggiora le cose, perché crea un canale di aria calda che
agevola il fulmine la sua discesa. Sia come sia, - per proseguire il racconto di Mariangelo - attirato
dal comignolo e incanalatosi nella canna fumaria, il fulmine era andato a scaricare la sua potenza
nella stalla adiacente, nei pressi della mangiatoia e del tino riempito di acqua per gli animali. Due
pecore erano morte sul colpo, mentre il cane che era legato alla catena, davanti alla stalla, sarebbe
morto dopo tre giorni di agonia. Non mortali, ma tragiche anche le conseguenze patite dal
padrone, con esiti fortemente invalidanti: da allora in poi camminerà a fatica, a causa del sistema
nervoso gravemente scosso e dei danni subiti al cervello. Poco più che cinquantenne all’epoca
dell’evento, Pasquale Fracasso, che era nato a Toro il 29 luglio 1905, morirà a Roma, in casa del
genero, pochi anni dopo, il 15 settembre 1964. Per curiosa coincidenza, a distanza di appena venti
giorni dai due fulmini che si erano abbattuti rispettivamente sull’olmo del convento di Toro, e in
casa Parziale, in viale San Francesco, rovinando la festa della vigilia di San Mercurio.
La brutta fine “du macelinare” e del suo asino
Senz’altro più penosa e impressionante fu la fine “du macelinare”, (ovvero il monacilionese,
l’abitante di Monacilioni), avvenuta una decina d’anni prima, nei pressi della Carrera di Jelsi. Il
poveruomo, che in verità era nativo di Colle Sannita, stava ritornando da Monacilioni, quando il
temporale lo sorprese in aperta campagna. Ebbe la disgraziata idea di riparare con l’asino sotto un
grosso albero, dove rimasero carbonizzati entrambi, uomo e animale. Di qui la raccomandazione
degli anziani di Toro ai ragazzi a non rifugiarsi sotto gli alberi di grosso fusto in caso di temporali,
per non fare la fine “du macelinare”. Ben sapendo, al contrario, in forza del proverbio Terra nétte,
n'ha paúre de saiétte, che i fulmini non cadono dove la terra è netta, cioè spoglia di alberi.
Del tragico avvenimento resta una croce di ferro, ben piantata alla base dell’albero maestoso,
croce che nella essenzialità del nome e cognome, anzi cognome e nome della vittima, ha colpito
non poco Pietro Grosso quando di recente la ritrovata, spingendolo a investigare per saperne di
più e suggerendogli l’idea di base di questo breve studio sull’incidenza dei fulmini a Toro.
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ll grosso albero nei pressi della Carrera di Jelsi, dove trovò la morte U macelinare (Foto Pietro Grosso)
La croce di ferro, ai piedi dell’albero, ricorda la brutta fine di Bartolomeo Zeolla nel 1948 (Foto Pietro Grosso 2013)
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Successivamente abbiamo appreso che della vicenda si era interessato anni addietro, un periodico
di Jelsi5, che dello “strano incidente” dà questo resoconto, abbastanza dettagliato:
Passando per il tratto pianeggiante della conosciuta strada “La carrera” per recarsi verso i “Tre cunfin” (Tre confini), luogo in cui il territorio di Jelsi confina con quelli di Toro e Pietracatella, appena cento metri dopo il bivio che porta alle “Masserie Ciaccia”, sulla sinistra a circa venti metri dalla strada, si può notare un grande cerro, di forma tondeggiante. Alla base dell’enorme tronco c’è un piccolo mucchio di pietre con al centro una croce di ferro battuto di color ruggine in cui è inciso nome e cognome di un signore che perse la vita a causa di uno strano incidente: fu folgorato da un fulmine. Il terreno dove si trova l’albero è di proprietà della famiglia Ciaccia (attualmente Maiorano). Poche sono le notizie che sono riuscito ad avere dalle poche persone anziane, perché lo sfortunato uomo non essendo nativo di Jelsi era poco conosciuto. Il suo nome era ZEOLLA BARTOLOMEO già inciso sulla croce, nato in un piccolo paesino (Colle Sannita) in provincia di Benevento, di circa 40 anni di età[…] Era il 2 luglio1948, appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, il signor Bartolomeo, dopo aver aiutato durante la mietitura il suocero che abitava nella zona di Monacilioni, rientrava a casa con il suo asinello. Nel primo pomeriggio, appena passato i Tre confini, come arrivò verso la Carrera, il tempo cominciò a farsi minaccioso, poche furono le gocce d’acqua ma moltissimi i lampi e i tuoni. Alcune persone che abitavano vicino la strada lo invitarono a ripararsi dal temporale, ma lui non gli diede ascolto, continuò il suo cammino, ma più avanti il temporale peggiorò e così con il suo asino fu costretto a ripararsi sotto l’albero, che si trovava a pochi metri dalla strada. Questo gesto gli fu fatale, perché fu colpito da un fulmine e morì vicino al suo asino con la mano stretta intorno alla briglia del capestro del suo animale[…] Appena finito il temporale una persona di passaggio vide l’asino per terra sotto l’albero e subito pensò che l’animale stava riposando, forse si era perso e così andò a vedere. Ma l’asino era morto e vicino alla sua testa era disteso anche il padrone. Immediatamente cominciò a gridare aiuto e subito la gente del posto accorse, tra cui anche il proprietario del faggio, il quale andò ad avvertire i Carabinieri che dovettero fare la veglia la morto6.
Fin qui l’indagine di Andrea Fratino in riferimento specifico alle modalità della tragedia. Per
nostra fortuna, l’autore non si è limitato a registrarle, ma le ha corredate, per dire così, di
note a margine, assai colorite, a cominciare da quella dei carabinieri costretti a vegliare il
morto.
Durante la notte – prosegue Fratino - i Carabinieri fermarono e multarono alcune persone che ignare dell’accaduto passavano per la strada della Carrera con i loro muli carichi di grano: partiti da Monacilioni, Pietracatella e Sant’Elia, si dirigevano verso Riccia e Benevento in cambio di altre merci (famoso allora come contrabbando notturno del grano). La cosa più strana è che il morto fu condannato dall’allora legge vigente a 99 anni di carcere, perché lui doveva e poteva ripararsi dal temporale in case rurali vicino alla strada e non sotto alberi di alto fusto.
5 Cfr. Andrea Fratino, Uno strano incidente, in «Jelsi. Voci e immagini della tua terra», edito a cura della Associazione culturale San Amanzio, n. 7, giugno 2006, pp. 20-21. Nell’occasione ringraziamo di cuore l’amico Michele Fratino di Jelsi, che con grande cortesia ci ha segnalato l’articolo e fatto dono, oltremodo gradito e apprezzato, dei numeri della rivista fin qui pubblicati. 6 Ivi.
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Di questo strano incidente si iniziò a parlare per tutto il paese e cominciò a diventare un racconto di paura. Alcune persone che viaggiavano di notte, accompagnate dalla luce della luna e delle stelle, per arrivare presto a Campobasso a vendere e comprare qualcosa, o a mietere nei vicini paesi della Puglia, oppure per contrabbandare grano, “a fronn” (tabacco), o altro, avevano sparso la voce di avere visto dopo mezzanotte il fantasma dell’uomo con l’asino sotto l’albero. Subito questo posto cominciò ad essere visto da tutti come un luogo di paura, perché il morto con il suo asino appariva di notte a chi passava da quelle parti. La maggior parte della gente, che era costretta a passare di notte per la strada della Carrera, preferiva cambiare via, anche allungandola, pur di non passare vicino a quel maledetto faggio7.
Come si vede, il rapporto di Fratino è interessante anche per aver raccolto voci fantasiose come la
condanna postuma a 99 anni di carcere, che sarebbe stata inflitta al morto per un reato
inverosimile: voci che con ogni evidenza paiono ideate e messe in giro dall’estro popolare a
beneficio di anime ingenue e particolarmente corrive. Interessante è anche veder nascere e
svilupparsi su basi reali un tipico “racconto di paura”, innervato anch’esso sulla credulità popolare,
che anche in questo caso pare sollecitata con accortezza da burloni e spiriti balzani o addirittura
dai contrabbandieri del tempo, i quali speravano in tal modo di rendere deserti o almeno
scarsamente frequentati i percorsi dei loro traffici notturni.
La copertina del periodico con l’articolo sul “macelinare”
7 Ivi, p. 21.
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Il dramma dei Masciarille: madre e figlia bruciate vive
Allontanandoci a ritroso nel tempo, ci imbattiamo in quella che a memoria d’uomo resta la più
grossa tragedia provocata dai fulmini nell’agro di Toro. Avvenne cento e dieci anni fa, il 15 luglio
1904, per essere precisi in base ai documenti anagrafici ma, come è facile immaginare, ne
conservano memoria anche i discendenti della famiglia che ne fu colpita. Vi rimasero vittima due
giovani donne, la mamma e la figlia. Nel pomeriggio di quel giorno di mezza estate di oltre un
secolo fa, le immaginiamo in cammino, per far ritorno a casa dopo essere state in campagna a
mietere, o ad assistere i mietitori o comunque a esperirvi le mille e una faccenda che la campagna
richiede. Arrivate in quella che volgarmente era detta, ed è detta tuttora, la Cortinella, ovvero quel
che resta del boschetto di quercioli a ridosso della curva che sovrasta la Masseria Calicagno, le due
sventurate furono sorprese dalla furia del temporale e bruciate vive dal fulmine che si abbatté su
di loro.
Le annotazioni anagrafiche, tratte dagli Indici Decennali dei Morti del Comune di Toro (1896-1905),
fissano la data della morte delle due donne al 15 luglio 1904
Si chiamavano, Susanna Di Gironimo, la madre (soprannome di famiglia: Sgrane), e Maria
Giuseppa Cercio, la ragazza, figlia della stessa Susanna e di Giuseppe Cercio (soprannominato
Masciarille). Sappiamo da altre fonti, che abitavano in Rua Annunziata (Arrète ‘a Lenzeiate) e
avevano rispettivamente 47 e 22 anni. Per dare dei riferimenti precisi a beneficio dei lettori di
oggi, aggiungiamo che Maria Giuseppa era la sorella maggiore di zia Giacinta Cercio (Masciarille),
che andrà in moglie a zio Domenico Grosso (de Fulie), contadino, ma soprattutto simpatico
chansonnier torese, autore, tra l’altro, della ballata Ahi Ture, Ture, Tu… Ed era altresì la sorella
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maggiore di zio Angelillo Cercio (Masciarille), il nonno di Angelino e Rosetta Cercio, di Pasqualino,
Nicolina e Rosetta Tucci (Colangelo), e di Angelina e Luigi Cutrone (Parapille). Ora, dopo avere
appreso di questo dramma familiare, c’è ancora qualcuno che potrà definire esagerato il terrore
che si impossessava di alcuno dei parenti delle due poverette all’avvicinarsi e allo scatenarsi dei
temporali? Ed esagerato il loro correre a rinchiudersi nel cuore delle loro case, quasi a volervi
scavare un minibunker nei fondaci o nelle cantine o comunque nei locali sotterranei?
Morte sul tratturo
Di altri morti per fulmini in agro di Toro, oramai non c’è più memoria d’uomo che ne possa
rendere conto. Non per questo, non ne sono accaduti. Anzi. I Libri dei Morti conservati
nell’Archivio Parrocchiale, ci informano della tragica sorte che toccò il 7 maggio 1771 a Niccolò
Girardi, che all’epoca contava circa 43 anni di età, ed era figlio “delli quondam”, ovvero dei defunti
Angelo e Susanna Di Vito coniugi di San Giovanni in Galdo. Il poveretto è registrato come "morto di
fulmine nel luogo detto Ripitella" in un documento avaro di ulteriori dettagli, ma a noi nulla vieta
di immaginare a suo danno una vicenda simile a quella occorsa a Bartolomeo Zeolla, duecento
anni dopo. Anche perché Ripitella non dista molto dai Tre confini, né dal tratturo che all’epoca
costituiva lo snodo viario fondamentale dei traffici non solo dei paesi della valle del Tappino, in
collegamento tra di loro, e con Campobasso a nord e con la Capitanata a sud, ma tra le montagne
di Abruzzo e Molise e le pianure della Puglia, interessate dai ciclici via vai della transumanza delle
greggi e degli armenti a primavera e in autunno, e delle paranze dei mietitori in estate.
7 maggio1771, Fede di morte di Niccolò Girardi, annotata dall’arciprete don Nicola Sforgia (Libro dei Defunti, Toro, Archivio Parrocchiaòle)
Il campanile maledetto
Nei citati Libri dei Morti, il campanile della chiesa parrocchiale di Toro torna prepotentemente alla
ribalta come teatro di eventi luttuosi, sia pure confinati in epoca assai lontana dalla nostra. Nel
caso più vicino a noi, comunque risalente a oltre 230 anni fa, al 15 novembre 1780, un mercoledì,
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è registrato il sedicenne Francesco Pantano, figlio di Leonardo e di Maddalena Nardozza, “morto di
fulmine nel campanile di questa Arcipretale chiesa del Santissimo Salvatore”.
15 novembre 1780, fede di morte del sedicenne Francesco Pantano, stilata dall’Economo D. Pietro Fratino
(Libro dei defunti, Toro, Archivio Parrocchiale)
Ottant’anni prima, un caso analogo: sabato, 30 maggio dell'anno 1699, l’ennesimo fulmine che si
era abbattuto sul campanile vi uccise Tomaso Loreto di Chinco, figlio del quondam Francesco, di
anni venti. “Morto di fulmine nel campanile”: si legge nel V libro dei Morti, che copre gli anni che
vanno dal 1686 al 1733, conservato anch’esso nell'Archivio Parrocchiale di Toro.
30 maggio 1699, Fede di morte del ventenne Tomaso Loreto Di Chinco (Libro dei Defunti, Toro, Archivio Parrocchiale)
Non si sono trovati documenti che accennano a danni sofferti dal campanile o dalla chiesa, nelle
due occasioni. Diversamente accadde qualche anno più tardi. Nel mese di luglio 1707, ancora un
fulmine, con enorme fragore, si abbatté sulla chiesa. Vi causò danni ingenti. Eseguite le necessarie
riparazioni, che comportarono il rifacimento dell'intonaco e la ridipintura dei muri, la chiesa fu
riconsacrata solennemente un paio d'anni dopo dal famoso cardinale Orsini, arcivescovo di
Benevento e futuro papa Benedetto XIII8.
A questo punto, considerato che le giornate di sabato 30 maggio 1699 e mercoledì 15 novembre
1780 non coincidono con festività di nessun genere, e che quindi è da escludere che i due
8 Archivio Parrocchiale di Toro, Strumento della consacrazione, redatto dal notaio arcivescovile A. Pirrella,
datato 4 luglio 1709. Per i fulmini del 1699 e 1707 cfr. Giovanni Mascia, La chiesa del Santissimo Salvatore a
Toro, op. cit., pp. 18-19.
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sfortunati giovani si siano arrampicati in alto, fino alla cella campanaria, per mettere in moto le
campane e dare inizio al consueto scampanio delle feste, c’è da dare una risposta convincente alla
domanda su chi o che cosa li abbia spinti a salire fin lassù, addirittura durante una tempesta, e a
trovarvi la morte. Una risposta plausibile è data dall’usanza dei nostri antenati che anno per anno
rinunciavano a una misura di grano di “staglio9” a favore del sagrestano, per invogliare lui o i suoi
aiutanti più o meno occasionali a suonare le campane, non appena c’era una minaccia di
temporale, in forza di antiche credenze, secondo cui i demoni che suscitano e governano tali
cataclismi possono essere messi in fuga dal suono del metallo, specialmente da quello di campane
e campanelli. Usanza di cui si discorre con dovizia di testimonianze letterarie e poetiche nel
volume da noi dedicato a un antico rituale di Pasqua, al quale rimandiamo il lettore curioso10. Qui
sarà sufficiente ricordare la lirica di Eugenio Cirese, richiamata in precedenza, in cui il poeta
molisano all’appressarsi del temporale, ritorna con la memoria alla paura che si impossessa della
povera gente e alle pratiche magiche e alle formule per scongiurarne conseguenze nefasti per gli
uomini, gli animali e il raccolto, e annota i seguenti versi:
Ummisce.
O gente, gente! Renzerrate le pècure, arrentrate le cùnnele, rencruciate le fàvece,
scampaniate a grànera.
Ovvero: “Tuona lontano. // O gente, gente! / Rinserrate le pecore, / rientrate le culle, / incrociate
le falci, / scampanate a grandine”11.
9 Staglio, o Estaglio. Il grano o la piccola somma che ciascuna famiglia, secondo le particolari facoltà o condizioni, pagava al medico, al barbiere, ecc. per assicurarsene le prestazioni annuali. Stagliati si dicevano quelli che erano debitori in tal modo e misura e di anno in anno. Per maggiori dettagli cfr. ad vocem “Estaglio”, Luigi Alberto Trotta, Quarto saggio della parlata di Toro. Comparata con la Toscana vivente, in Studi letterari e morali (Tomo VI, Fasc. 18, n. 403 voci), Modena 1891. Il quarto saggio, e i tre precedenti sono stati ristampati in Giovanni Mascia, ’A tavele de Ture (La Tavola di Toro). Reperti dialettali di una comunità molisana, Lampo, Campobasso 1994, in Appendice, pp. 158-197. 10 Giovanni Mascia, Le tenebre nel Molise. Liturgia, lessico e folclore di un antico rituale di Pasqua, Palladino Editore, Campobasso 2001, p. 68 e seguenti. 11 Eugenio Cirese, Oggi, Domani, Ieri…, op. cit., I, p. 55.
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Ad antiche credenze come queste rimanda spesso un altro poeta molisano, il torese Nicola
Iacobacci (1935), che in una sua lirica, dopo aver annotato: “Ho appeso alla porta un ferro di
cavallo / con un nastro rosa e un chiodo di acacia”, scrive:
Qualcuno penserà ch’io sia superstizioso che porti sul petto collane d’amuleti
e comandi alla pioggia, alla neve su le balze, al cielo azzurro, al vento.
Solo le campane allontanano la grandine
al mio paese che guarda dalla costa il fiume bianco d’agnelli12.
L’uso millenario di suonare le campane per allontanare i cattivi spiriti, responsabili dei flagelli
atmosferici, come la grandine evocata dai due poeti molisani, è sancito anche in numerosi distici
medievali di autori ignoti, concepiti come classiche iscrizioni da apporre sulle campane, il cui
bronzo si riteneva avesse il potere magico in sé, acuito dalle benedizioni religiose, di sedare le
tempeste (dissipo ventos), scacciare i fulmini (fulgura frango), allontanare la grandine (fugo
grandinem)13...
Niente di più probabile, quindi, che i due giovani toresi, il sedicenne Tomaso Loreto di Chinco e il
ventenne Francesco Pantano, come figli o aiutanti dei sagrestani pro tempore, si fossero portati
sulla sommità del campanile per scampanare a grandine o a malacqua, con la speranza di fermare
e allontanare il diavolo, il signore del temporale, che avanzava a cavallo della nuvola maligna.
Nessuno mai ci dirà se riuscirono nell’intento. Sappiamo che in ossequio a quella pratica
superstiziosa, in uso nelle nostre campagne fino alla Seconda Guerra Mondiale, sacrificarono le
loro giovani vite sul campanile di Toro. Un altare di dimensioni eccezionali che anche in quelle
tragiche circostanze si confermava per quello che era, una calamita potente e un bersaglio
inevitabile della forza annientatrice dei fulmini.
Toro, 25 agosto 2014, Vigilia della traslazione di San Mercurio
12 Nicola Iacobacci, “Cavalcavo Puledri”, in Coste San Rocco, La Prora, Milano 1978. 13 Giovanni Mascia, Le tenebre nel Molise…, op. cit., pp. 71-72.