1 GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI RASSEGNA STAMPA Anno 6°, n..6 - Giugno 2013 Sommario: American Way of Life........................................................................(pag. 2) Andrè Kertész, padre della fotografia contemporanea......................(pag. 4) Antoine d'Agata................................................................................(pag. 7) Aprono le esposizioni di F4/un'idea di Fotografia a Pieve di Soligo...(pag. 9) Berengo e i giocattol.i, a cominciare da Venezia...............................(pag.11) Bill Brandt, un maestro che realizzò nella sua fotografia una... ........(pag.12) Camerino: a Palazzo Ducale una mostra di Enzo Carli........................(pag.15) Col fotofonino sul banco... ................................................................(pag.17) Elliott Erwitt, il fotografo narratore dallo stile ironico........................(pag.20) F4/un'idea di fotografia alla Casa dei Carraresi di Treviso.................(pag.22) Henri Cartier Bresson al Lucca Center of Contemporary Art...............(pag.24) Il naufrago delle immagini.................................................................(pag.25) Il plagio in fotografia: intervista a Massimo Stefanutti......................(pag.27) Intervista a Erwin Olaf......................................................................(pag.31) Elio Ciol: conoscersi per riconoscerci.................................................(pag.33) Jacque Henri Lartigue, il fotografo del quotidiano.............................(pag.36) L'uomo che svestì Bologna ..............................................................(pag.38) La fotografia e il sacro, Salgado e Biasucci........................................(pag.40) Venni, vidi, mangiai...........................................................................(pag.43) La mostra a Milano/Gianni Berengo Gardin testimone di... ...............(pag.45) Le foto di massa che nessuno guarda................................................(pag.47) Le prime fotografie aeree a inizio '900 grazie agli aquiloni................(pag.50) Piccola, raffinata e di carta................................................................(pag.52) Storie e personaggi del XX secolo negli scatti di René Burri..............(pag.54) Storie di Cenerentole.........................................................................(pag.56) Una sola macchina, un solo obiettivo, la pellicola..............................(pag.59) Vedi Venezia e poi muore..................................................................(pag.60) Edward Steichen: in High Fashion.....................................................(pag.63) Bellissime le donne di Tichy, voyeur con fotocamera di cartone........(pag.64) .......................
66
Embed
GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI...1 GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI RASSEGNA STAMPA Anno 6 , n..6 - Giugno 2013 Sommario: American Way of Life.....(pag. 2) Andrè Kertész, padre
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
1
GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI
RASSEGNA STAMPA
Anno 6°, n..6 - Giugno 2013
Sommario: American Way of Life........................................................................(pag. 2)
Andrè Kertész, padre della fotografia contemporanea......................(pag. 4) Antoine d'Agata................................................................................(pag. 7) Aprono le esposizioni di F4/un'idea di Fotografia a Pieve di Soligo...(pag. 9)
Berengo e i giocattol.i, a cominciare da Venezia...............................(pag.11) Bill Brandt, un maestro che realizzò nella sua fotografia una... ........(pag.12)
Camerino: a Palazzo Ducale una mostra di Enzo Carli........................(pag.15) Col fotofonino sul banco... ................................................................(pag.17) Elliott Erwitt, il fotografo narratore dallo stile ironico........................(pag.20)
F4/un'idea di fotografia alla Casa dei Carraresi di Treviso.................(pag.22) Henri Cartier Bresson al Lucca Center of Contemporary Art...............(pag.24)
Il naufrago delle immagini.................................................................(pag.25) Il plagio in fotografia: intervista a Massimo Stefanutti......................(pag.27) Intervista a Erwin Olaf......................................................................(pag.31)
Elio Ciol: conoscersi per riconoscerci.................................................(pag.33) Jacque Henri Lartigue, il fotografo del quotidiano.............................(pag.36)
L'uomo che svestì Bologna ..............................................................(pag.38) La fotografia e il sacro, Salgado e Biasucci........................................(pag.40) Venni, vidi, mangiai...........................................................................(pag.43)
La mostra a Milano/Gianni Berengo Gardin testimone di... ...............(pag.45) Le foto di massa che nessuno guarda................................................(pag.47)
Le prime fotografie aeree a inizio '900 grazie agli aquiloni................(pag.50) Piccola, raffinata e di carta................................................................(pag.52) Storie e personaggi del XX secolo negli scatti di René Burri..............(pag.54)
Storie di Cenerentole.........................................................................(pag.56) Una sola macchina, un solo obiettivo, la pellicola..............................(pag.59)
Vedi Venezia e poi muore..................................................................(pag.60) Edward Steichen: in High Fashion.....................................................(pag.63) Bellissime le donne di Tichy, voyeur con fotocamera di cartone........(pag.64)
.......................
2
American Way of Life PAOLA MELIGA GALLERIA D'ARTE, TORINO
Comunicato stampa da http://undo.net/it
From the Seventies... Un'esposizione che illustra gli U.S.A. in un arco temporale che spazia dagli anni '70 per arrivare ai giorni nostri attraverso le fotografie di Leslie Krims, Arthur Tress e Roberto Brosan.
La galleria Paola Meliga conclude questo ciclo espositivo – prima delle vacanze estive – proponendo una mostra dedicata allo stile di vita
americano dagli anni 70 in poi.
Una tri-personale di artisti eclettici, realisti, emozionali che hanno vissuto il vero senso del “way of life americano”. Due di loro sono
americani e già conosciuti al pubblico che segue la galleria: Leslie Krims e Arthur Tress, il terzo è un fotografo torinese, ma americano
d’adozione, Roberto Brosan, allievo di Leslie Krims alla fine degli anni ’60.
Un’esposizione che illustra gli U.S.A. in un arco temporale che spazia
dagli anni 70 per arrivare ai giorni nostri.
Gli anni '70 sono anni di libertà, di trasgressione, di lotte politiche, di
contestazioni scaturite dalle tensioni generazionali, e comportamenti aggressivi. Il sesso e, purtroppo, anche le droghe, diventano parte
integrante dello stile di vita tra i più giovani. Gli anni '70 sono stati
Di Frisco, Martina Garioni, Nicola Genchi, Elena Giandomenico, Kateryna Kovarzh,
Simone Mantovani, Nicole Moserle, Marios Orphanos e al.
----
Fondazione Forma per la Fotografia - piazza Tito Lucrezio Caro, 1, Milano
Orari: Tutti i giorni dalle 10 alle 20 - Giovedì e Venerdì fino alle 22. Chiuso il
Lunedì - Costo biglietto: 7.50 euro Ridotto 6 euro Scuole 4 euro.
9
Aprono le esposizioni di F4 / un’idea di Fotografia a
Pieve di Soligo
da Artribune Segnala
La terza edizione di F4 / un’idea di fotografia, festival promosso da
Fondazione Francesco Fabbri, ha la sua seconda tappa con le esposizioni di Villa Brandolini a Pieve di Soligo in provincia di Treviso. Un percorso
composto da tre mostre che presenta l’opera di Leonard Freed, uno dei membri della celebre agenzia Magnum, il fotografo emergente Gianpaolo
Arena con il suo reportage sul Vietnam e una rassegna dedicata al Fondo Munari realizzato in collaborazione con il FAST.
La prima esposizione Leonard Freed. Io amo l’Italia, a cura di Enrica Viganò, presenta cento immagini scattate in diverse località della
Penisola, dalla metà del Novecento agli inizi del nuovo secolo. Una sorta di diario degli oltre quarantacinque soggiorni compiuti dal fotografo in
Italia, terra con la quale intrattenne un rapporto che lui stesso definì “una storia d’amore”.
La selezione di scatti di Leonard Freed – dal 1972 membro della Magnum
– spazierà dagli esordi fino alla maturità, abbracciando le numerose tappe della sua prestigiosa carriera. Il percorso espositivo, attraverso immagini
analogiche rigorosamente in bianco e nero, consentirà di cogliere il lato
più profondo di Freed, capace di ritrarre la nostra società senza usare stereotipi, con scenari che descrivono uno spaccato umano nel quale sono
evidenti le influenze maturate grazie agli incontri che il fotoreportage ha reso possibili.
Quando fra il 1952 e il 1958, mosso dall’interesse per l’arte, compie i suoi
primi viaggi in Europa, Freed scopre la passione per la fotografia - che inizialmente costituisce solo un espediente per procurarsi da vivere - e
viene conquistato dall’Italia. Un Paese, quest’ultimo, con il quale l’artista entra in contatto dapprima nella Little Italy di New York e che diventa
presto un luogo anche figurato di ricerca interiore e,
contemporaneamente, un campo di osservazione in cui “il passato è sempre presente non solo nei luoghi ma nella vita quotidiana delle gente”.
Molto più che per l’arte, l’architettura o il paesaggio, l’amore di Freed è per gli italiani. È affascinato dalla vita della gente comune, dal calore e
dalla spontaneità - colta nei lavoratori siciliani, nei soldati seduti su un ponte a Firenze o tra gli aristocratici veneziani e romani - che non
mancano mai nelle sue fotografie.
La ricerca di Leonard Freed, sensibile all’antropologia culturale e all’indagine etnografica, scaturisce dalla necessità di ritrovare il senso
delle proprie origini attraverso lo studio di comunità cosiddette
tradizionali. Come sostenne lo stesso artista: “Sono come uno studente curioso, che vuole imparare. Per poter fotografare devi prima avere
un’opinione, devi prendere una decisione. Poi quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando.
Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare
ciò che lui pensa, essere sempre molto amichevole e neutrale.” E ancora: “Voglio una fotografia che si possa estrapolare dal contesto e appendere
in parete per essere letta come un poema.”
A seguire, la mostra personale del fotografo Gianpaolo Arena intitolata My
Vietnam, a cura di Carlo Sala. Un percorso di oltre quaranta scatti che propone in anteprima il reportage realizzato in Vietnam nel 2013. Già dal
titolo si percepisce come l’autore abbia compiuto un viaggio dai forti connotati personali, dando una interpretazione inedita del paese che va
oltre gli stereotipi. Appaiono le grandi città e gli scenari naturali in una serie di fotografie che alternano visioni paesistiche a ritratti, ma anche
frammenti di realtà all’apparenza secondari che sono pregni di significati. Il fruitore si trova di fronte alle caotiche e rumorose Ho Chi Minh e Hanoi,
le bianche spiagge di Nha Trang, gli altipiani delle regioni centrali, l’aristocratica cittadella imperiale di Hué, la cittadina fluviale di Hoi An, i
paesaggi mistici circondati da verdi risaie di Tam Coc, il maestoso delta del Mekong. Emerge una società sospesa tra passato e presente, tra
tradizione e desiderio di rinnovamento, tra tensione e rivelazione.
Frammenti di realtà all’apparenza marginali sono indizi rivelatori del cambiamento in atto.
Il FAST (Foto archivio storico trevigiano) è un patrimonio inestimabile di
foto d’autore e vernacolari con fondi ancora da scoprire. Attraverso le sue raccolte viene creato un affascinante percorso che espone una serie di
ritratti realizzati a inizio novecento dallo Studio Munari di Pieve di Soligo. Volti ritrovati. Ritratti dal fondo Munari propone scatti in bianco e nero,
tra contesti storici e abiti desueti. Un percorso che fa emerge l’intensità dei volti di uomini e donne di una società carica di valori, oramai
scomparsa. Un viaggio alla scoperta delle proprie radici, tra immagini
nuovamente svelate che raccontano l’identità dei territori.
F4 / un’idea di Fotografia
Leonard Freed. Io amo l’Italia
A cura di Enrica Viganò
Gianpaolo Arena. My Vietnam
Volti ritrovati. Ritratti dal fondo Munari
A cura di Carlo Sala
11
Villa Brandolini, Pieve di Soligo (Tv) Piazza Libertà, 7
Dal 23 giugno al 11 agosto 2013 - Orari di apertura: da giovedì a sabato 16.00-20.00;
domenica 10.00-13.00 e 16.00-20.00. Chiuso il 28/29/30 giugno). Evento promosso da
Fondazione Francesco Fabbri e Comune di Pieve di Soligo. Con il patrocinio di FIAF,
Landscape Stories, TRA e Enzimi, con il supporto di Associazione Amici Fondazione Fabbri,
Admira e FAST. Rassegna inserita in RetEventi Cultura Veneto realizzata da Provincia di Treviso e Regione del Veneto. Con il sostegno di Promotreviso.
Ingresso unico delle mostre di Treviso e Pieve di Soligo: Intero euro 7,00. Ridotto euro 5,00
dai 13 ai 25 anni; over 65; studenti universitari; aderenti FIAF, soci Touring club, TRA,
Enzimi e Amici Fondazione Fabbri; gruppi di almeno 15 persone. Gratuito minori di 12; portatori di handicap con accompagnatore; giornalisti con tesserino.
Gianni Berengo Gardin non ha davvero bisogno di presentazioni. Se c'è un
uomo che può incarnare con la propria vita il mestiere del fotogiornalista è senza dubbio lui. Da sempre punta le sue Leica su tutto quanto possa essere
motivo di riflessione. Innumerevoli le sue fotografie e tutte dedicate al
desiderio di vedere bene ciò che accade per dare modo a se stesso e agli altri di provare a capire. Mai fazioso, sempre un passo indietro, disposto a
nascondersi dietro l'umiltà dell'artigianato piuttosto che prevaricare un'immagine con la sua personalità e i suoi preconcetti artistici o ideologici,
posto che ne abbia.
Berengo rappresenta ancora il meglio dell'utilità sociale di un fotografo, a fronte del diluvio di fotografanti che la tecnologia digitale riproduce come tanti
vanesi e autoreferenziali robot oculari tutti uguali tra loro. Mentre l'editoria nazionale e internazionale, vedi la recente vicenda del Chicago Sun Times, si
arrende al consumismo visivo licenziando i propri fotoreporter e sostituendoli con un noto smartphone di moda consegnato ai suoi giornalisti, Berengo
Gardin continua imperterrito a osservare cosa accade e a tradurlo in immagini coerenti, culturalmente utili e storicamente necessarie. Di recente è tornato
alla sua Venezia, ma non per aggiungere qualche perla alla sua infinita collana
d'immagini che ne scrutano e rivelano la bellezza più inattesa. Tra le quali,
quella che più vorrei possedere è l'interno del vaporetto, realizzato nel 1960.
Montaggio caleidoscopico raggiunto con una sintesi istantanea davvero mirabile.
Stavolta a richiamare Berengo a Venezia è uno degli sfregi maggiori che
l'industria del crocerismo di massa sta portando alla Serenissima: il transito nel
bacino di San Marco e nel canale della Giudecca di quei giganteschi condomini galleggianti che sovrastano per mole e altezza la città lagunare trasformandola
in un modellino di se stessa, quasi fosse una giocattolo di plastica di gusto statunitense o nipponico da poter consumare e dimenticare come qualsiasi
altro prodotto di questo junk system in cui siamo sempre più infognati. Se qualche dubbio ancora restava, se gli interessi corporativi di chi campa sul
turismo, e per farlo sarebbe anche disposto a vendere la madre, davano una parvenza di legittimità a questo vero e proprio stupro culturale e ambientale,
con le fotografie di Berengo l'evidenza dei fatti mette tutti con le spalle al muro.
Il potere del fotografico di insegnare a vedere ciò che prima non si vedeva così
chiaramente, trova in Gardin un suo estremo cultore. E con questo, Gianni Berengo Gardin insegna anche che nel mondo di giocattoli che ci propinano
sempre più massicciamente, saper ritrovare la forza di guardare il proprio
quotidiano e saper trarne delle tracce fotografiche coerenti con l'esperienza che se ne fa non è affatto un esercizio superato. Anzi, a fronte della falsificazione
dei luoghi e delle vite operata dagli agenti mediatici del pensiero unico che trasforma l'umanità in numeri e profitti, proprio questo esercizio individuale e
collettivo di riappropriazione del visibile diventa fondamentale per recuperare coscienza critica e, con essa, capacità di azione e contrasto al destino
cellophanato e prezzato in cui stiamo morendo.
Bill Brandt, il maestro che realizzò nella sua fotografia una perfetta fusione tra forma e contenuto
Tags: Bill Brandt, fotografia, maestri della fotografia, storia della fotografia
Camerino: a Palazzo Ducale una mostra fotografica
del fotografo senigalliese Enzo Carli
da http://www.viveresenigallia.it
E' stata inaugurata venerdì 28 giugno alle ore 18 presso il Palazzo Ducale di Camerino, una mostra fotografica del noto
fotografo senigalliese, studioso e critico di fotografia Enzo Carli.
Alla presentazione della mostra sono intervenuti, oltre allo stesso autore, il
Rettore dell’Università di Camerino Flavio Corradini, l’antropologo Mario De Tommasi, e il docente di estetica dell’Università di Urbino Galliano Crinella, con
la coordinazione di Mario Tesauri. La mostra sarà aperta fino al 14 luglio 2013. L’esposizione consiste in un racconto fotografico suddiviso in due parti:
“Archeologia dei Sentimenti”, presentato per la prima volta nel 2009 all’Ikona Gallery di Venezia e poi a seguire a Parigi (Saint-Nom-La-Breteche), a Reggio
Emilia, a Berlino (Kopenick), a Caltagirone (galleria Ghirri), e “Crisalidi”,
racconto inedito che viene per la prima volta proposto al pubblico.
Crisalidi
Ogni riferimento alla crisalide non può prescindere, nel sapere diffuso, dal
concetto intrinseco di trasformazione in qualche modo associato alla massima alchemica che le conferirebbe, sulla base del principio che “ciò che
continuamente si trasforma non può deperire”, un’aura di immortalità. Poiché, è vero, non è il bruco, né la crisalide a morire, e forse nemmeno la
farfalla, se il tutto è visto in una più ampia prospettiva di mutamento. Come lo stesso Carli afferma, le fotografie “..simboleggiano l’opera
trasmutativa.. la continua e inarrestabile trasformazione. Una forma come canto effimero, transitorio e circoscritto nel tempo… come poesie, meravigliose
farfalle, reticoli di memoria..”.
Trasformazione, dunque, pur attingendo al medesimo microcosmo emozionale che ha ispirato “Archeologia dei Sentimenti” e tutta la produzione fotografica di
Enzo Carli fin qui conosciuta. Mai si è vista infatti una sua rappresentazione, ricerca estetica o linguistica,
riproposizione realistica, astrazione o proposizione concettuale, che non sia
fortemente intrisa di rimandi affettivi. Una trasformazione che si evince dall’apparentemente effimero “contenuto” di
ogni singolo scatto: giochi di luce e di ombre, equilibri e riflessi che invitano l’occhio a soffermarsi un istante in più poiché al successivo batter di palpebre
potrebbero essere non più tali.
Una trasformazione, ancora, che si rafforza nella proposizione accoppiata delle fotografie, quasi una serie di rappresentazioni dicotomiche in cui l’immagine “in
divenire” viene accostata al suo successivo - non ultimo- divenire, idealmente proiettato a un “continuo divenire”, non come realtà che muta, e in
quanto tale ogni istante è irripetibile, ma come percezione di essa che è in continuo evolvere, in balìa di una precarietà di equilibri tra sentimenti,
emozioni, ricordi e altre umane instabilità. Vi è un attimo in cui il filtro della percezione è capace di trasformare un
insieme più o meno armonico di elementi visivi in poesia. Questo è intrinseco
nella natura umana. La missione del fotografo, in quella che è la concezione di fotografia di Enzo
Carli, che si rifà al Manifesto “Passaggio di Frontiera”, è quella di cristallizzare l’istante della poesia nel continuo mutamento di realtà e sentimenti.
In una precedente serie di immagini (“Così Come La Morte”, 1999), Carli
affrontava insieme ai suoi compagni di ricerca (I Fotografi del Manifesto) il tema della “morte” intesa come termine e rinnovamento, metaforicamente
riferita alla vitalità dell’arte. Rivedendo quelle immagini non posso non scorgere, in seme, ciò oggi egli
esprime, forse con maggior chiarezza, con le sue Crisalidi: la vitalità dell’arte –e in particolare della fotografia- non può prescindere dalla sua capacità di
rinnovarsi nella forma e nel linguaggio.
Del resto una cosa molto simile la sosteneva anche Mario Giacomelli: “Uno si
esprime attraverso la forma. E’ questa forma che va di continuo rinnovata
17
perché il linguaggio venga ad essere dentro il tempo” (Spazi Interiori, Ed.
Adriatica, 1990). Ecco che quindi, spogliandolo dei facili connotati esoterici, possiamo
comprendere il significato dell’accostamento alla simbologia della crisalide nell’opera fotografica di Enzo Carli.
Ciò che continuamente si trasforma non può deperire. Fotografia compresa.
Col fotofonino sul banco
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Credo si chiami ancora Educazione artistica la materia di insegnamento a cui i
programmi ministeriali riservano la miseria di poche decine di ore l’anno nella
scuola dell’obbligo.
Già il nome depone male. La materia che insegna ai nostri figli a parlare
meglio, ancheleggendo e studiando i grandi scrittori, non si chiama Educazione
letteraria: si chiama semplicemente Italiano.
Fin dai banchi di scuola, invece, il sapere che riguarda la comunicazione
visiva è assegnato abusivamente in usufrutto esclusivo al campo dell’arte.
Henri Cartier-Bresson al Lucca Center of Contemporary Art
di Daniele Micheli da http://www.loschermo.it
LUCCA, 21 giugno - Inaugura oggi nelle sale del Lu.C.C.A (Lucca Center of Contemporary Art) la mostra "Henri Cartier-Bresson. Photographer", che
rimarrà aperta al pubblico fino al 3 novembre. Realizzata in collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson e con la Magnum Photos di Parigi e curata
da Maurizio Vanni, la personale racconta la storia dei“momenti decisivi” che
hanno contraddistinto la vita artistica di un personaggio nato per rubare le immagini al tempo e cresciuto per testimoniare, in modo assolutamente
personale, alcuni degli istanti che sarebbero diventati storici, mitologici e memorabili.
L’esposizione accoglie 133 scatti che l’artista stesso scelse negli anni Settanta per la realizzazione del volume "Henri Cartier-Bresson. Photographer" e che
venne pubblicato nel 1979 in cui si documenta la lucida imprevedibilità di un artista che non ha mai permesso alla ragione di disciplinare l’istinto e di lenire
la forza delle coscienti illusioni che, con la sua pazienza e maestria, si sono trasformate negli scatti immortali e infiniti di attimi in divenire.
La mostra è patrocinata dalla Regione Toscana, dalla Provincia di Lucca, dalComune, dall’Opera delle Mura, da Assindustria Lucca, dalla Camera di
Commercio, dalla Confcommercio, dalla Confesercenti, e dalla Confartigianato; è realizzata anche con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di
Lucca, della Fondazione Banca del Monte di Lucca e Gesam Gas.
“Henri Cartier-Bresson. Photographer” - Dal 22 giugno al 3 novembre - Lucca Center of Contemporary Art, Via della
Fratta 36 - Orario di apertura: dal martedì alla domenica 10:00-19:00, chiuso il lunedì e il 15 di agosto
Biglietto intero 9 euro / ridotto 7 euro - Per ulteriori informazioni www.luccamuseum.com
Chi lo vide in azione, come il suo grande amico e compagno di
esplorazioni Joel Meyerowitz, lo racconta così, con divertito affetto: un
«corpulento e sciatto», taciturno, quasi sgarbato camminatore instancabile sui
marciapiedi di New York, a caccia di corpi in azione, con un istinto percettivo
affamato e sicuro, consapevole di un limite: «so cos’è quel che vedo, ma cosa
significa?».
La fotografia gli serve per trovare quel che non cerca: «quel che so già, mi
annoia». E per tornare a casa, una casa dove «gli scatoloni di foto alla rinfusa
arrivavano fino al soffitto» con montagne di reperti misteriosi, da decifrare, da
afferrare a manate, a pacchi, «mi diceva: guarda anche queste, e me ne
porgeva un centinaio».
Per i suoi critici più severi, Winogrand era solo «un instancabile primate
con fotocamera annessa, inconsapevole, irresponsabile e disinteressato al
27
risultato» (A. D. Coleman). Ma questa è la reazione di chi è abituato a pensare
che la fotografia sia (come per tanti autori è stata) la consapevole messa in
forma del mondo da parte di uno sguardo pensante.
E invece no, la fotografia ammette anche un altro rapporto con il mondo:
una ricerca rabdomantica, casuale, condotta con stupore e senza
premeditazione. «Non ho nulla da dire nelle mie fotografie. Se sono fortunato,
ho qualcosa da imparare».
Angosciato dalle incertezze della sua epoca (visse malissimo, come
un’angoscia personale, la crisi dei missili di Cuba del ‘62), Winogrand anticipò,
negli anni Sessanta, lo sgretolamento delle sicurezze eccessive della fotografia
umanista (anche se due sue fotografie erano state scelte da Edward Steichen
per l’epocale mostra The Family of Man), la svolta del ruolo del fotografo da
costruttore a cercatore di senso.
Ma la sorte dei pionieri è a volte ingrata. Winogrand visse i suoi ultimi anni
in preda a una furia acquisitiva ormai fuori controllo. Centinaia di immagini al
giorno (alla fine erano quasi sei milioni) si accumulavano nel suo laboratorio,
più di quante potesse ragionevolmente sviluppare, stampare, guardare.
La fotografia a cui aveva chiesto di spiegargli il mondo lo travolgeva con
l’eccesso del mondo fotografabile. Il caos del visibile tornava ad essere un caos
inguardabile, impossibile da maneggiare.
Anche in questo, forse, con vent’anni di anticipo, Winogrand sperimentò
artigianalmente, su di sé, gli effetti devastanti dell’esplosione termonucleare
delle immagini incontrollate che oggi, con centinaia di miliardi di foto pronte a
debordare dalla gran pancia della Rete, rischia di travolgere anche noi.
Tag: A.D. Coleman, Diane Arbus, Edward Steichen, Franco Vaccari, Garry Winogrand, Henri Cartier-
Bresson, Joel Meyerowitz, John Szarkowski, Lee Friedlander, Leo Rubinfien, SFMoMa, The Family of
Man
Scritto in Venerati maestri, street photography | 19 Commenti »
Il plagio in fotografia: intervista a Massimo Stefanutti
di Nicola Maggi da http://www.collezionedatiffany.com
Photissima Art Fair è una fiera coraggiosa che non ama parlarsi addosso. Un coraggio che ha dimostrato non solo decidendo di dar vita ad una “doppia”
edizione veneziana (Fiera + Festival) proprio nei giorni dell’inaugurazione della
Biennale, ma anche nei temi da trattare negli incontri in programma nella sede che l’ha ospitata dal 29 maggio al 2 giugno (VEGA – Parco Scientifico
Tecnologico di Venezia) e che hanno dato un contributo prezioso alla nascita di un collezionismo di fotografia che possa dirsi consapevole. Uno fra tutti quello
dedicato al Plagio in Fotografia, tema delicato che ha sviscerato con maestria l’avvocato Massimo Stefanutti, esperto di Diritto della fotografia e della
proprietà intellettuale, assieme a Michele Smargiassi, giornalista de La Repubblica, redattore del Blog Fotocrazia e autore di “Un’autentica bugia – La
fotografia, il vero, il falso”; e a Guido Cecere, fotografo ed insegnante al Corso
di Fotografia all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Per approfondire il tema, Collezione da Tiffany ha raggiunto l’avvocato Stefanutti nel suo studio di
Marghera per una chiacchierata decisamente illuminante…
Nicola Maggi: Avvocato, è possibile dare una definizione di “plagio”?
Massimo Stefanutti: «“Plagio” è un termine generalista, direi nazional-
popolare o, senza offesa, di utilizzo giornalistico, che preso da solo non vuol
dire assolutamente nulla. La sua specificazione deve essere il contesto
“artistico-fattuale” nel quale opera, contesto che diventa ancora più importante
di una ipotetica definizione del termine. Per il diritto (le c.d. legal norms),
“plagio” non è una parola giuridica, in quanto nessuna norma – a mia
conoscenza - cita, o meglio, definisce il “plagio”. Per cui il “plagio” è da
considerarsi un concetto negativo, addirittura un concetto di “confine” che deve
esser ricostruito partendo dai confini (incerti) che alcune norme ci danno».
L’inaugurazione di Photissima Art Fair al VEGA di Venezia il 29 maggio scorso
N.M.: Chi sono i “soggetti” del “plagio”?
M.S.: «Essenzialmente tre ed esattamente l’autore primario, l’autore
secondario e il fruitore, ai quali io aggiungerei la collettività. L’autore primario
crea, immette in circuito, poi si accorge che qualcuno si è appropriato delle sue
opere o delle sue idee ed ha delle reazioni, anche legali; l’autore secondario
vede opere altrui, se ne appropria (altro termine che non ha una precisa
definizione giuridica, nel settore specifico), le rielabora, crea un’opera (vicina
o distante dalla precedente), subisce la reazione dell’autore primario. Infine c’è
il fruitore, che spazia dal critico eccelso alla casalinga di Voghera».
N.M.: Che però non è detto sia in grado di capire che si trova di fronte
ad un plagio…
M.S.: «Quello della riconoscibilità del plagio all’interno o all’esterno di un
contesto è un tema delicatissimo perché quello che io riconosco qui come
plagio, potrebbe non esser riconosciuto come tale fuori da questo ambito.
Anche se poi non è facile cogliere la differenza (anche temporale) tra autore
primario e autore secondario, e pure anche in noi stessi, intendo che la
medesima persona può essere autore primario e autore secondario. E poi c’è la
Erwin Olaf, olandese, classe 1959, è uno dei protagonisti più stimati del panorama fotografico internazionale, grazie a uno stile particolarmente
riconoscibile, diventato la sua firma anche nella diversità dei soggetti affrontati.
Olaf ha scoperto la fotografia durante gli studi di giornalismo ad Utrecht, capendo che documentare la realtà non lo interessava quanto invece
ricostruire e trasmettere attraverso le immagini il proprio mondo interiore, compito che gli riesce da subito molto bene qualunque sia l'obiettivo del suo
lavoro: progetti personali, pubblicità, redazionali di moda, video.
"I want to create my own world, I don't want to follow reality, because I
like to dream my own life".
Le immagini di Olaf lavorano su diversi livelli, hanno innanzitutto un forte
impatto estetico: sono perfette, ben composte, nelle sue inquadrature tutto è esattamente dove dovrebbe essere, la luce sembra scolpire le figure, niente è
lasciato al caso e ogni sua immagine è in grado di indurre l'osservatore verso
un'esperienza estatica.
Ma le fotografie di Olaf vanno oltre questo: osservandole con attenzione
c'è sempre un dettaglio, uno sfasamento temporale, o anche solo il modo in cui sono costruite che spinge a interrogarsi su temi pregnanti come l'ipocrisia, la
violenza, il dolore, la solitudine... Olaf esplora le diverse forme che l'uomo assume indossando maschere imposte sia da se stesso che dalla società,
e sviscera nelle sue foto numerosi temi sociali, portando avanti una feroce critica alla società capitalistica contemporanea.
Mi diverte che alla mia domanda su come avvenga il suo processo creativo, Olaf risponda che le idee gli vengono stando sdraiato sul divano a
guardare programmi televisivi orribili - "The worst the television program is, the better the idea"-. Mi diverte perché invece la sua è una fotografia molto
colta, in cui riferimenti culturali e pittorici sono molto evidenti, dalla pittura della Golden Age olandese, ai surrealisti, e ancora a Caravaggio, Otto Dix e
George Grosz, per non parlare poi dei rimandi alla filmografia di Visconti,
Pasolini, Fellini…
Quello che Erwin cerca di evitare è di guardare troppo alla contemporaneità,
a cosa fanno gli altri fotografi e artisti perchè "I'm afraid it will go too much in my mind and then I would start to imitate it: I want to dream my own
dreams".
Le immagini di Olaf sono davvero un momento sospeso nel tempo di cui
non possiamo conoscere il prima e dopo, sono cariche di intensità emotiva: un esempio calzante di quanto tutto ciò che viene lasciato fuori dal frame è
altrettanto - se non più - importante di quanto ciò che in esso vi è incluso.
Quello che l'artista vorrebbe riprodurre con la fotografia è la capacità di emozionare del cinema, ed è per questo che ha iniziato a produrre anche
bellissimi short film che funzionano in modo strumentale alle immagini fisse, così che le sue mostre diventano per lo spettatore un'esperienza
tridimensionale, in grado di proiettarlo in un mondo che esso stesso contribuirà a creare con la propria immaginazione.
"What I would like to achieve is to create emotions in one bit of a second, not in a longer period, so when you look it is a world created only in one bit of a
second, one minute before, one minute after, it was completely different and that is what I really love about photography, that you lie with your camera...I
love personally that in my view I see a world that is perfect, and next to it there is mess and chaos".
Per quanto riguarda le differenze fra il lavoro svolto su commissione e quello artistico, Erwin è molto grato ai clienti e magazine con cui ha collaborato, che
gli hanno sempre permesso grande libertà e la possibilità di sperimentare e
avere i fondi per finanziare i propri progetti personali: per Olaf il lavoro
commerciale e quello artistico si influenzano stimolandosi reciprocamente.
Se l'obiettivo della fotografia commerciale è ovviamente quello di vendere
qualcosa, le immagini di Olaf sono un perfetto esempio di come questa proposta possa essere calibrata su una miscela di componenti pratiche
ed estetiche, in cui ognuno dei due livelli cede qualcosa all'altro, in
modo tale che la proposta di vendita diventi meno brutale e la componente estetica - a differenza di quanto spesso accade nell'arte pura - diventi più
concreta e a portata di tutti, non distaccata e lontana dalla realtà.
Gli chiedo infine cosa consiglia ai giovani fotografi, e lui mi risponde che l'unico
modo per sopravvivere in questo mondo sovraffollato, l'unica cosa possibile per creare qualcosa ed essere riconosciuti, è di restare più fedeli possibile
alla propria personalità "because this is the only thing I have, I only have
my own life and my own history… Know yourself, know your shit, go inside
and then you can slowly start to develop your own style by also looking at the
history of photography, the history of art, use some elements of that and
combine them with your own personality".
L'antidoto all'essere sopraffatti dalla costante orgia visiva in cui siamo immersi,
per Erwin, sta nell'avere il coraggio di fare un passo indietro, non lasciarsi influenzare da tutto ciò che vediamo ma piuttosto allontanarsi dal frastuono
e connettersi con la propria essenza.
"Let's say you have a little idea and a little idea can be wonderful, but if you're
always on internet, you're always reading the latest books and magazines then the little idea is gone within a second because you will discover within a minute
that is already been done twenty times, it's not new, not unique, but you only can make it unique by doing it from the heart, from your heart, but many
young photographers I see are getting disappointed and then they never create anything and you have to make a lot of mistakes and repeat a lot of the
history, the photographers from the history to get your own identity, so I lock myself up".
video e immagini: http://www.vogue.it/vogue-starscelebsmodels/vogue-masters/2013/06/erwin-olaf
Elio Ciol – Conoscersi per riconoscersi
di Fausto Raschiatore da http://www.fiaf.net/agoradicult
FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA. IMMAGINI PER UN DIALOGO “Coloro che emigrano portano con sé sentimenti di fiducia e di speranza che
animano e confortano la ricerca di migliori opportunità di vita. È vero che il
viaggio migratorio spesso inizia con la paura, soprattutto quando persecuzioni
e violenze costringono alla fuga, con il trauma dell’abbandono dei familiari e dei beni che, in qualche misura, assicuravano la sopravvivenza. Tuttavia, la
sofferenza, l’enorme perdita e, a volte, un senso di alienazione di fronte al futuro incerto non distruggono il sogno di ricostruire, con speranza e coraggio,
l’esistenza in un Paese straniero” (Papa Benedetto XVI). Una riflessione sulla
migrazione da cui emerge il sentimento profondo i cui gangli vitali sono la Fede e la Speranza, valori inscindibili che dominano nei cuori dei migranti, animati
“dalla profonda fiducia che Dio non abbandona le sue creature e tale conforto rende più tollerabili le ferite dello sradicamento e del distacco”.
La globalizzazione ha determinato cambiamenti profondi che a loro volta hanno generato ulteriori problematiche e investito i cittadini di tutto il mondo a tutti i
livelli. Alla fotografia, con questo studio-progetto, è stato affidato il compito di “leggere” nel cuore della dimensione indagata. Ed è quello che ha fatto Ciol nel
pordenonese. Ha sviluppato, in linea col suo stile, una trama iconica capace di proiettarsi con l’obiettivo oltre la descrizione. E’ riuscito a penetrare nell’intimo
delle situazioni osservate, in linea con gli scopi del progetto: rappresentare la realtà attraverso lo strumento fotografico per tentare di quantificare lo
spessore visibile della diffidenza reciproca esistente tra autoctoni e migranti. Cogliere, tra i componenti delle diverse comunità presenti in provincia di
Pordenone, momenti che riassumano sentimenti che sono valori fondamentali
per tentare di svelare quei tratti comportamentali innati e universali. Come sintesi a queste riflessioni prende corpo l’idea di una mostra fotografica
intesa come lettura e interpretazione di uno o più contesti friulani, come analisi di una serie di comportamenti, affidata a una persona attenta e sensibile qual è
Ciol, il quale è riuscito nell’intento, perché artista vero, che “vede” oltre il visibile. Come ha scritto Charles-Henri Favrod, “Ciol figura tra coloro che ci
hanno insegnato a vedere meglio e ci hanno fatto condividere le loro scoperte”. Il territorio della provincia di Pordenone è un laboratorio sociale e
antropologico singolare. Al suo interno vanno consolidandosi eventi nuovi che riguardano i rapporti tra gli italiani e gli stranieri. Si tratta di istanze che
mettono in moto lo spirito di emulazione dando al contesto indagato serenità ed equilibrio, moltiplicando lo spirito di adattamento, il tutto in un quadro che
guarda al futuro con fiducia. Ciol ha compiuto la sua indagine con discrezione e rispetto. Ha dato una lettura
del contesto indagato autentica e ha saputo catturare le atmosfere degli spazi
esplorati. Attraverso queste immagini, l’autore ha disegnato un contesto in cui si snodano i segni di un progetto strutturato con l’obiettivo di dare alimento
nuovo all’integrazione e, quindi, al miglioramento dei rapporti sociali e maggiore vitalità alle relative dinamiche. La spiritualità che traspare dalle
immagini è autentica e lineare e lo guida nelle indagini più delicate dove gli stimoli più genuini nascono e si percepiscono solo perché si è sorretti
dall’amore verso il prossimo. L’intero corpus di immagini è pervaso da un’atmosfera positiva che irradia
fiducia e serenità. Dominano senso di appartenenza, rispetto e solidarietà. Italiani e immigrati sono seguiti, ascoltati, rispettati, bene inseriti, ognuno
sembra parte di un processo produttivo che applica le sue regole nel rispetto di tutti. Dalle immagini si “legge” come vivono gli immigrati, si ascoltano le
riflessioni intime, si vivono le atmosfere dell’ambiente. Non diverso il comparto dedicato alla spiritualità: rispetto della persona e della propria storia, della
propria cultura, della propria religiosità, chiave di un’integrazione che passi
attraverso l’espressione di se stessi, soprattutto con riferimento al profilo spirituale. Ben rappresentata e interpretata la sezione dedicata alla
35
socializzazione e alla solidarietà. Visibile nell’ambiente-lavoro l’armonia e il
clima di collaborazione, la gestione del tempo libero, della scuola. Ciol ha costruito una trama linguistico-espressiva di raffinata narratività, in un
quadro in cui si apprezzano, oltre alla composizione, una sequenza visiva ritmica e una tessitura cromatica di qualità. Una fotografia collegata con la
realtà, con il compito di scandagliare il processo d’integrazione, di una
situazione in movimento che Ciol ha interpretato facendoci vivere sensazioni, emozioni e stati d’animo. Visioni e visualizzazioni che l’autore considera come
doni che “riceve” e che condivide con gli altri. Egli vive con trasporto lo scatto fotografico e con intensità il suo compiersi. E’ un testimone della nostra
contemporaneità che estrae dai contesti che indaga emozioni che condivide sempre con gli altri. E questa è una visione della sua personalità, del suo
essere, della sua attenzione verso i più deboli, i meno fortunati, gli Ultimi, i Protetti, come li definiva Padre David Maria Turoldo.
1941) con Genesi al Museo dell’Ara Pacis a Roma - fino al 15 settembre 2013 - ed Antonio Biasiucci (Caserta, Italia 1961) con Sacrificio, tumulto, costellazioni
alla Casa della Fotografia a Villa Pignatelli a Napoli. Due mostre di successo: la fotografia trova nei musei uno spazio espositivo che le dona aura e attrattività,
esaltandone i contenuti profondi. Qui la fotografia si propone come arte e non
più come informazione poiché diventa veicolo di cultura e di riflessione. D’altra
parte, due caratteristiche rendono la pittura e la fotografia arti visive antitetiche: in pittura è la realtà che viene risucchiata verso il pittore che la
rielabora all’interno del quadro; in fotografia è invece il fotografo che si deve muovere verso il reale per poi lasciare che esso si disponga all’interno
dell’immagine fotografica, come fa il cacciatore con la sua preda. E – come nel
mito di Diana ed Atteone – l’arte capovolge i ruoli e il cacciatore diventa lui stesso preda.
Altra differenza: alla pittura si giunge attraverso un curriculum formativo e tecnico specificamente artistico, nel mondo della fotografia, invece, ci troviamo
di fronte ad un’arte eclettica. Salgado ha studiato da economista, Biasiucci è
un antropologo: entrambi, però, hanno trovato nell’immagine fotografica lo
strumento più congeniale per il proprio discorso artistico e culturale. Salgado è
un fotografo di rilevanza mondiale, Biasiucci è già noto a livello italiano ed anche internazionale: entrambi sono giunti, con queste mostre, a trovare la
profondità dell’immagine fotografica all’interno dello spazio sacrale della natura
e nella connessione misteriosa che lega l’uomo e le forme naturali. Si tratta di
mostre solenni, nelle quali grandi immagini, di un raffinato e sgargiante
bianco-nero, avvincono lo spettatore e imprimono dentro di lui il segno silenzioso, ma possente, della scoperta e della contemplazione.
Sebastião Salgado, Antartide
Nelle cinque sezioni che raccolgono le circa 200 fotografie di Salgado esposte
all’Ara Pacis viene in luce una sensibilità drammatica e di grande scenario che
stravolge lo sguardo antropocentrico e trionfalistico della fotografia
naturalistica degli anni ’60 del Novecento.
Dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova
Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America
e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia,
Genesi di Salgado ci parla della Wilderness, di un pianeta Terra che vive e si
riproduce in un abissale silenzio anche senza l’umanità. In esso animali-uomini
e uomini-animali si confondono con alberi e fiumi, cieli e montagne. Il progetto esplicito della mostra ha un contenuto ecologista (salvare il Pianeta vivente),
ma le fotografie di Salgado vanno oltre e raggiungono lo svelamento del sacro
mostrando l’altro senso della Terra: quello che essa possiede quando la natura
diventa l’assoluto teatro di se stessa e la fotografia si fa sguardo aereo e
ininfluente di fronte alla voce tonante e poderosa del Pianeta.
42
Antonio Biasiucci, Ex voto.
Il tema meta-antropologico del sacro emerge anche in Sacrificio, tumulto,
costellazioni di Biasiucci. Qui il background è la fotografia antropologica degli anni ’60 e ’70; ma di nuovo stravolta. Non c’è lo sguardo analitico dei Levi-
Strauss, Riefenstahl, Pinna: l’antropologia si è avvicinata al nostro luogo urbano e scava nel sottosuolo. La fotografia di Biasiucci parte dalla natura, ma
è lavorata in studio: i reperti naturali ed etnologici sono decontestualizzati e indagati, con l’obiettivo, in piegature che fanno smarrire il significato manifesto
a vantaggio di quello latente. Dal corpo umano, gravido, ammalato, rituale e sacrificale si passa al magma e al fango, alla materia terrestre amorfa e
metamorfica ed ancora si giunge, con lievi slittamenti simbolici, a rocce ed asteroidi, a schegge laviche, a frammenti di vasi e infine a maschere di argilla
che rivelano come il volto umano sia la manifestazione precaria e superficiale di una profondità abissale.
Nelle foto: Sebastião Salgado, Antartide;
Venni, vidi, mangiai
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
43
In quanti modi si può fotografare un currywurst? Cinque anni fa l’ottimo
Joachim Schmid li contò: più di trentamila. Ma il tempo è passato, e adesso, a
me, Google Images dà oltre un milione di record.
Il currywurst è un cibo prevedibile e, me lo consentano i tedeschi, senza
offesa, piuttosto noioso. Arrostisci la salsiccina, la copri di ketchup, la spolveri
di curry e la soffochi di patatine. Le variazioni sono molto, molto limitate.
Insomma, fotografare per la milionesima volta un currywurst non aggiunge
molto, diciamo, al sapere condiviso dell’umanità.
Ma non è per questo che si fotografa un currywurst, Schmid lo sa bene e vi
consiglio di leggere le considerazioni che ne ricava sulla fotografia nell’era della
condivisione.
Io ho ripensato a questo suo piccolo illuminante saggio quando mi è arrivata
copia del libro di Ferdinando Scianna, Ti mangio con gli occhi.
Tutt’altra cosa, si capisce. È un libro di scrittura, divagazioni, memorie,
riflessioni, filosofie, e Scianna si rivela un ottimo scrittore, evocativo,
affabulatore piacevolissimo. Le sue fotografie di cibo in questo caso fanno, se il
gioco di parole è consentito, da contorno alla pietanza verbale.
Tuttavia anche Scianna sente il bisogno di farci vedere quel che ama
mangiare. I cibi che ha incontrato nel suo peregrinare professionale sul
pianeta. I cibi proustiani che lo riportano all’infanzia, alla Sicilia, alla natura
stessa.
Eppure, mostrare il cibo mangiato è quasi una cosa oscena. Dopo la
sessualità e le funzioni intestinali, l’atto del mangiare è la cosa più corporale,
ctonia, animale della nostra vita di specie umana. La condividiamo (come il
sesso, e a volte come il cesso) solo con persone con cui siamo in estrema
confidenza.
L’esibizione dell’atto del mangiare può essere un’irriverenza (vedi le
trasparenti perfidie di Martin Parr) oppure un gesto di sopraffazione e di
potere: il pasto pubblico dei re. Ma Scianna fa un’altra cosa, è chiaro, fotografa
e racconta storie di cibo, ambienti di cibo, relazioni col cibo, le sue immagini
trasportano il cibo in una dimensione mitica, poetica, culturale.
Le immagini di cibo, a pensarci bene, ci circondano. Una mostra che si può
visitare a Eataly di Roma (dalla quale prendo in prestito le immagini di questa
pagina) ci ricorda quanto precoce sia stata la promozione del cibo e con il cibo
nella pubblicità, nelle cartoline, nei giornali.
Ma quel cibo di carta, lo sappiamo, è quasi irreale, è cibo fra virgolette, cibo
“citato”, non commestibile, lo sanno bene i food photographers dalla
professionaità sfisticatissima che spesso, per rendere il cibo appetitoso in
immagine, lo mettono in posa con trucchi e additivi che lo renderebbero nella
realtà immangiabile o perfino velenoso.
E invece, questo milione di currywurst (e i milioni di pizze, pasta, bistecche,
wurstel eccetera), sono proprio cibo da mangiare. Anzi, in procinto di essere
Scritto in Immagine e Internet, condivisione, conservazione, fotografia e società, fotografie private | 14
Commenti »
Le prime fotografie aeree a inizio ’900, grazie agli
aquiloni
Per ottenere delle fotografie aeree, oggi, non serve molto: una fotocamera
digitale (ma anche analogica), un biglietto aereo e un posto al finestrino. Una volta decollati si può scattare liberamente dando sfogo alla fantasia, magari
supportati da uno zoom adeguato. Ma a inizio ’900 ossia ai primordi della fotografia, serviva davvero ingegno e abilità nel fai-da-te tecnologico. Ad
esempio George R. Lawrence, guadagnò 15.000 dollari equivalenti a circa
300.000 euro attuali per la sua foto aerea di San Francisco dopo il tremendo terremoto del 1906. Come la ottenne? Appendendo una macchina fotografica
opportunamente comandata e modificata a un aquilone di grandi dimensioni. Nella fotogallery qui sopra possiamo ammirare altri esempi da New York a
Chicago fino a Kansas City. Ma c’era un altro metodo per fotografare dall’alto…
Un’altra mirabile tecnica arrivava dal fotografo tedesco chiamato Julius Neubronner che aveva escogitato un’idea davvero spettacolare: aveva
confezionato una macchina fotograficaabbastanza minuta da essere trasportabile da un piccione. E come ha fatto a scattare foto a distanza dato
che il pennuto non era ammaestrato abbastanza per premere l’otturatore? C’era chi si era affidato alle mongolfiere, lui ha pensato ai piccioni dato che li
utilizzava normalmente per inviare medicinali ai pazienti (era un farmacista, anche). Ha personalmente realizzato una fotocamera in miniatura con
alluminio e legno (per abbassare al minimo valore il peso) e ha confezionato una sorta di bretella da fissare al busto dei volatili, opportunamente addestrati
per volare e ritornare a casa.
Una volta preparato il tutto, Neubronner ha portato i piccioni a 100 chilometri di distanza e li ha liberati. I volatili sono poi diligentemente tornati a casa
volando a un’altitudine compresa tra 60 e 120 metri. Ok tutto molto bello, ma come è riuscito a azionare l’otturatore della fotocamera senza intervenire
personalmente? Ha perfezionato un sistema pneumatico che sostanzialmente riproduceva
l’azione del dito sul pulsante a intervalli regolari, ottenendo così una sorta di autoscatto programmato. Le foto hanno permesso a Julius di brevettare
l’invenzione, dato che l’ufficio per le registrazioni non era fiducioso sull’effettivo funzionamento della sua idea.
Nel 1909 mostrò poi gli scatti all’Esibizione Internazionale di Fotografia di
Dresda, una sorta di antesignano di Photokina, e infiammò la folla facendo
volare i piccioni tra gli stand per poi sviluppare le foto e consegnarle ai
visitatori come souvenir. A proposito di fotografia della “preistoria” ecco la prima foto in assoluto mai scattata e la prima fotografia a ritrarre un essere
umano.
Piccola, raffinata e di carta
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
È un oggettino minuto e pesante, tre etti di
carta patinata opaca o lucida (alternativamente) in formato libro tascabile, che
girano per l’Europa. Una rivista in carta e inchiostro che nell’epoca del tutto-
online sta diventando un piccolo caso editoriale controcorrente.
Image in Progress è uno one-man-magazine, visto che Emanuele Cucuzza,
trentottenne, romano, giornalista e fotografo, dal 2010 ne è il direttore,
l’editore e il redattore pressoché unico («uso alcuni pseudonimi…»), anche se
non ama tanto dirlo in giro, perché non vuole rubare la scena alla sua creatura.
Duecento pagine curate come un oggetto artigianale, italiane ma in lingua
inglese, fitte di interviste in esclusiva, testi, immagini in alta qualità di stampa,
tutto quanto spedito in 30 paesi del mondo, oggetto: la fotografia creativa in
tutte le sue forme, pubblicità, moda, arte.
Quarto numero appena uscito, cadenza irregolare, poco più di un numero
per anno, mille copie che si vendono nelle librerie e nelle edicole internazionali,
finora sempre esaurite, Iip è una idea italiana originale di cui l’Italia si è
accorta ben poco: ovvero l’idea di dare alla comunità dei creatori di immagine
una vetrina di qualità, un accurato “bollettino di collegamento”, una
piattaforma di scambio di idee.
Un sito e una web-tv presto affiancheranno il progetto, ma la carta resterà
sovrana. Una scelta snob? No, di marketing: «Chi va in libreria ha un’idea
precisa, sceglie e compra, sul Web spendi un sacco di soldi solo per
l’atmosfera pacifica e rilassata. Non manca mai in situazioni del genere
il nerd di turno, pungolato dall’irresistibile tentazione di dimostrare che lui ne sa: e così arriva la domanda tecnica che più tecnica non si può. Meglio il 6×6 o
i 35 millimetri? E il banco ottico? Il nostro non si scompone, risponde con il candore che fa pendant con quella barba bianca da vecchio eroe omerico: “Uso
una macchina, un obiettivo, la pellicola. E basta”. Così parlò Mimmo Jodice, e
il nerd dello scatto è bello e sistemato. Cinquant’anni di carriera raccontati in una serata di inizio estate alla Triennale di Milano, partendo dall’esperienza
come docente all’accademia d’arte di Napoli e arrivando al più recente progetto su Le città sublimi, scorci inediti di paesaggi urbani partiti da Montreal – 48mila
visitatori in quattro mesi, bei numeri – e ora in giro per il mondo. Un racconto senza fronzoli, appassionato e coinvolgente, introdotto da Lella Costa e a
fatica indirizzato dal vicedirettore di Grazia Daniele Bresciani. Jodice, davanti alla proiezione delle sue fotografie, si fa incontenibile, procede a ruota libera,
forte di una capacità di fascinazione dialettica che è figlia di chi sa con tanta efficacia parlare per immagini.
Ecco quello straordinario atlante della sofferenza raccolto nella Napoli di fine Anni Sessanta, quando riesce ad ottenere un insegnamento in Accademia
sfruttando l’escamotage offerto dal corso di scenografia, che finge di aver bisogno di un tecnico per elaborare proiezioni che animino le quinte teatrali.
L’aula è gremita, dimostrando come sia ora di cominciare a insegnarla, la
fotografia. E poi via di corsa tra vicoli e piazze, seguendo il miraggio di Magritte e Delvaux, che invitano a indovinare paesaggi irreali: porte
murate, finestre cieche, inquieti giochi d’ombra, auto protette da teloni che trasformano parcheggi in nuvole fantasmagoriche. La reazione alla “natura
morta borghese, da salotto” che si traduce negli scorci rubati alle botteghe di macellaio; la seduzione della classicità e quella del mare, “vissuto però come
orizzonte, così come è stato per millenni da parte dei marinai”. I paralleli tra la collezione di Capodimonte e la gente dei vicoli, con i guappi di oggi discendenti
delle stesse facce che hanno ispiratoCaravaggio e de Ribera; e sempre a proposito di volti quelli del progetto Les yeux du Louvre, che valgono una
personale – con proroga, fatto rarissimo – nel museo più visitato al mondo. E pure, tanto per gradire, un cavalierato.
Vedi Venezia e poi muore
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Il sacrificio è stato svegliarsi alle cinque del mattino per diverse settimane.
«Volevo fotografare i mostri mentre arrivano, mentre fanno la posta alla loro
preda».
Gianni Berengo Gardin, doge della fotografia italiana, è nato a Genova ma ha
vissuto a lungo a Venezia, la città di suo padre, dove ha perfino gestito per
alcuni anni il negozio di famiglia, di vetri e collane di Murano, nella strategica
Calle Larga di San Marco, «allora chi diceva Berengo Gardin pensava alle perle
di vetro… Ora invece c’è un caffè».
Tutto cambia a Venezia, non sempre per il meglio, ma questo non è un
cambio, «questo è un disastro, una tragedia…». Il veneziano che c’è in lui si è
ribellato. L’esito è un reportage duro, severissimo sulle, anzi contro le
61
gigantesche navi da crociera che traversano la Laguna e sfiorano la regina del
mare con i loro inchini interessati e «spaventosi».
Ti sarà costato qualcosa, dare questa immagine della città che ami…
«Proprio perché amo Venezia, da molti anni non sopporto di vederla stuprata
da orde di turisti che vengono a Venezia solo perché “bisogna andare a vedere
Venezia” ma in realtà non gliene frega niente. Ma Venezia vive anche di
questo, e mi sono sempre trattenuto. Però di fronte a questi mostri non ce l’ho
fatta. Qui non è più solo questione di scempio del paesaggio veneziano, di
sporcizia per le strade, di folla rumorosa che straripa, qui c’è un pericolo, un
pericolo reale e incombente. Ci vuol niente che succeda come a Genova, che
uno di questi grattacieli orizzontali vada a sbattere su Palazzo Ducale, su San
Giorgio, sulla Punta della Dogana. Li ho fotografati così perché si vedesse non
solo che sono orrendi, ma che fanno terrore».
Un reportage di denuncia, un gesto politico?
«A Venezia c’è un gruppo di cittadini, mi pare si chiami “No Grandi Navi”, che
si batte contro i mostri del mare, ma io mi sono mosso per conto mio. Sì, ho
fatto un reportage di denuncia, schierato, i reporter fanno anche questo, è un
dovere civile, ma è un lavoro giornalistico. Se poi mi chiederanno queste foto
per appoggiare la loro battaglia, sarò lieto di dargliele».
Perché, per una volta, non hai usato la fotografia a colori? Non sarebbe
stato più forte l’impatto?
«Al contrario. Il colore distrae. Un cielo azzurro brillante sistema molte cose. Il
libro che dedicai a Venezia, nel ’62, era in bianco e nero, era per raccontarla
davvero, oltre la cartolina, anche se quella Venezia ora sembra irreale. Il
bianco e nero dà quello scarto rispetto alla visione naturale che ti costringe a
fare più attenzione, a guardare meglio. Quel muro bianco che chiude la
prospettiva della strada sembra un cielo e invece qualcosa non quadra, è pieno
di oblò, è un cielo di metallo appiccicato alle case veneziane grigie con le loro
finestre gotiche. In questo caso il mio bianco e nero è il pittoresco ribaltato.
62
Volevo che fosse un effetto di shock anche per i veneziani che sanno a
memoria la loro città».
Hai usato qualche attrezzo del mestiere per dare più forza al tuo
sdegno?
«In alcuni casi ho usato un teleobiettivo, ma molto moderato, un 80 millimetri,
in altri un normale 50. Non c’è affatto bisogno di forzare l’immagine, chiunque
passeggi per Venezia avrà coi suoi occhi le stesse impressioni che ha
guardando queste immagini».
Eppure i passanti nelle calli e nelle piazze sembrano indifferenti a
quella massa di metallo che incombe.
«Ne passano anche quattro al giorno. I veneziani purtroppo ci stanno facendo
l’abitudine. Per i turisti invece sta diventando la nuova meraviglia veneziana, li
vedi tutti a fotografare le navi sullo sfondo delle calli, con i loro telefonini…
Guardano più lo spettacolo delle navi che Venezia, ormai. I mostri hanno preso
il sopravvento anche nell’immaginario».
Ma Venezia è una città di mare. Ha sempre fatto i conti con le barche e
con le navi.
«In un libro di inediti ho pubblicato un anno fa la fotografia di una nave
mercantile che diversi decenni or sono vidi ormeggiata sulla Riva dei sette
Martiri. La fotografai perché mi sembrò enorme, impressionante. Era niente al
confronto con queste qui. Non c’è più alcuna misura, capisci? Sono navi
smisurate rispetto alle proporzioni della città, non c’è comune misura. Sono
alte il doppio di palazzo Ducale, lunghe il doppio di piazza San Marco. Nessun
luogo resiste a questa sproporzione, a questa prepotenza visuale».
Perché lo fanno?
«Io posso anche immaginare che, vista da lassù, Venezia sia uno spettacolo
meraviglioso. Ma nn è più una città, non è più questo luogo unico al mondo.
Offerta agli sguardi in questo modo, vista così, Venezia diventa un modellino,
una miniatura, un giocattolo. E i giocattoli non sono cose vere, sono copie
moltiplicabili all’infinito. Non c’è più differenza fra questa Venezia vista dal
dorso del mostro e le Venezie artificiali che hanno rifatto in America. Sono la
stessa cosa, ormai. Anzi quelle resisteranno meglio e fra un po’ saranno più