GINO BARTALI 1914-2000
Nel 1936 e nel 1937 trionfa al Giro d'Italia
Nel 1938 il commissario tecnico del ciclismo italiano, il grande
Girardengo, lo prepara per battere i francesi.
E Gino li batte
Nel 1931 prende il via la sua grande avventura sulla bici
Tutti pensavano che avrebbe ringraziato il Duce, perché
questa era la legge non scritta ma vincolante per tutti
“Siete voi Bartali? Complimenti” E gli donò una medaglia. Venne fuori che la medaglia era di un finto oro e lui non ci pensò due volte a scagliarla in fondo all’Arno”
Ginaccio ringraziò soltanto i suoi tifosi. Il bouquet da vincitore lo
andò a deporre davanti alla statua della Madonna a Notre
Dame. Per il regime fu un vero e proprio affronto
Nel 1940 il giro, si chiude il giorno prima dell'entrata in guerra dell'Italia, con la vittoria del
gregario e rivale Coppi. La guerra sancì per cinque anni l'interruzione della carriera per i due campioni.
Il Cardinale di Firenze Elia Dalla Costa lo convocò nell’autunno 1943 e gli propose di diventare il postino segreto dell’organizzazione clandestina di soccorso ai
profughi ebrei.
Gino, mantenendo il segreto perfino con sua moglie, cominciò con insistenza a scegliere come percorso di
allenamento il tragitto Firenze-Assisi. Prima di partire, infilava le foto dei rifugiati ebrei ben arrotolate nel tubo del sellino,
nella canna o nel manubrio della sua bici da corsa.
“Quando si
parte?”
175 chilometri separano Assisi da Firenze, la strada della salvezza per molti ebrei
“scusate ma non posso fermarmi perché sono troppo sudato”
“devo andare al più presto dal meccanico perché mi si sta sgonfiando la gomma”
Nell'estate del 1948 è il protagonista di un capolavoro sportivo. Il 14 luglio di quell'anno, il giovane neofascista
Antonio Pallante spara a Togliatti, l'Italia è sull'orlo di una crisi, ma ciò che accade al di là delle Alpi distrae tutti.
Nel 1946 in Italia si corre il Giro della rinascita. In un paese che fa i conti con la fame e con il dramma della ricostruzione, gli
italiani pedalano con Bartali che vince il Giro per la terza volta.
Nel maggio 2005: la medaglia d'oro al valor civile (postuma) per aver aiutato e salvato tanti ebrei durante
la Seconda guerra mondiale.
Il 2 ottobre 2011: Bartali è stato inserito tra i Giusti dell'Olocausto nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova
Il 23 settembre 2013 è stato dichiarato 'Giusto tra le nazioni' dallo Yad Vashem, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime
dell'olocausto fondato nel 1953, riconoscimento per i non-ebrei che hanno rischiato la vita per salvare quella anche di un solo
ebreo durante le persecuzioni naziste.Nella motivazione dello Yad Vashem, si legge che Bartali,
"cattolico devoto, nel corso dell'occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l'arcivescovo della città
cardinale Elia Angelo Dalla Costa".
Le Olimpiadi del 36 erano le olimpiadi di Hitler e gli servivano a testimoniare al mondo la grandezza della Germania. Anche lo stadio era una sua creazione.
Capace di 110mila spettatori e progettato nel 1934 era stato ultimato a tempo di record, e la sua inaugurazione era avvenuta proprio in occasione della cerimonia
d’apertura dei giochi olimpici.
Sul campo gli atleti tedeschi mietevano medaglie in tutti gli sport
Nell’atletica leggera però le cose non andavano altrettanto bene. I tedeschi dovevano subire la superiorità degli statunitensi nella velocità e nei
salti. E proprio quegli statunitensi stavano creando i maggiori imbarazzi al regime nazista ancora in erba
e al suo mito della superiorità della razza ariana.
“Gli americani dovrebbero vergognarsi di sé stessi,
lasciando che i negri vincano le medaglie d’oro per loro”
Carl Ludwig Long, detto Luz, il prototipo dell’ariano: alto,
slanciato, chiaro e soprattutto biondo. E Hitler riponeva grandi
speranze sul suo giovane pupillo
Se Jesse Owens avesse sbagliato anche il terzo ed ultimo salto,
sarebbe stato quindi eliminato dalla finale.
“Uno come te dovrebbe essere in gradodi qualificarsi ad occhi chiusi.”
Luz Long gli suggerì di staccare almeno una ventina di centimetri
prima della linea di battuta. Aveva appoggiato una maglietta (ma altre
fonti parlano anche di un fazzoletto) a fianco della pedana ed all’altezza
del punto ideale di stacco.Owens era riuscito a eseguire il salto
e a qualificarsi per la finale del pomeriggio.
Jesse Owens conquistò il suo quarto alloro olimpico, grazie a un ultimo salto di 8,06 metri, con il quale aveva superato proprio Luz Long,
arrivato a 7,87 metri.
Hitler non si presentò alla premiazione: secondo la storia perché richiamato da un altro impegno improvviso, mentre secondo la leggenda perché si era rifiutato di
omaggiare pubblicamente la vittoria di un nero.
Luz Long si recò da Owens, prima per congratularsi, e poi lo aveva
abbracciato amichevolmente. I fotografi presenti avevano immortalato
quella strana coppia, formata da un biondissimo pupillo dei nazisti e da un
nero dell’Alabama, in una foto che sarebbe diventata
contemporaneamente l’icona immortale di quelle olimpiadi e della
fratellanza tra i popoli.
Per Owens ebbe inizio una repentina discesa dal vertice del successo, e dopo essere stato squalificato dall’atletica ufficiale per avere partecipato ad alcune gare come professionista, fallì il conseguimento della laurea al College, e per guadagnarsi da vivere si dovette arrangiare a interpretare grotteschi spettacoli itineranti a metà strada tra il circo di periferia e il baraccone del luna park, incassando la misera quota di cinque centesimi di dollaro per ogni spettatore pagante.
Luz Long continuò con successo la propria attività di saltatore in lungo, riuscì a diventare avvocato nel 1939, sposarsi nel 1941, e a fare un figlio. Ma l’ex
campione di salto in lungo veniva mobilitato nel 1942 in fanteria col grado di sergente maggiore e inviato in Sicilia, dove nel 1943 risulterà disperso.
Sin dall’inizio del Novecento la nazionale sudafricana e quella neozelandese sono meglio
identificate dal soprannome: gli oceanici sono gli All Blacks, i “tutti neri”; gli africani sono gli
Springboks, le antilopi.
Le due selezioni condividono con orgoglio e fierezza una storia
sportiva che data del 1921, con la prima visita dei sudafricani ai
neozelandesi, terminata con una vittoria per parte
già prima del 1948, quando con l’apartheid l’idea della separazione tra bianchi e
neri viene trasformata in un sistema legislativo compiuto, la legge
imponeva che tutte le squadre in tour in Sudafrica non potessero convocare né tantomeno schierare
giocatori di colore in campo.
Si arriva a boicottare il Sudafrica nelle Olimpiadi di Montreal: il
Commonwealth emana l’accordo di Gleneagles, che vieta ogni tipo di contatto sportivo con la nazione
dell’apartheid. Gli Springboks sono esclusi dalla prima Coppa del Mondo
di rugby nel 1987, vinta dagli All Blacks.
L’apartheid si sfalda poco a poco. A febbraio del 1990 Nelson
Mandela esce dopo 27 anni di prigione. Quattro anni dopo sarà il
primo Presidente del Sudafrica eletto con leggi democratiche non
razziste.Nel 1992 gli Springboks sono di
nuovo ammessi nel circuito internazionale del rugby. E in
quell’estate del 1995 il Sudafrica si risveglia, con quelle straordinarie settimane della Coppa del Mondo
di rugby,
Come la divisione aveva permeato la vita, così aveva permeato lo sport.
«Il nome non si cambia». Una direttiva dall’alto. Un ordine presidenziale.
Nel mondiale del 1995 gli All Blacks dominano le gare. Come da pronostico. Gli Springboks raccolgono consensi e riescono ad arrivare in finale. Non esattamente come da pronostico.Le avversarie di sempre sono di nuovo una davanti all’altra, pronte per l’ultimo scontro.
Un gigantesco Boeing 747 vola sull’Ellis Park di Johannesburg a pochi minuti dal fischio d’inizio. Un boato tremendo, 63mila spettatori che sussultano, poi la scritta: “Good Luck Bokke”, “Buona fortuna
antilopine”. Un’agguerrita mossa dell’organizzazione sudafricana che a sorpresa contrasta gli occhi dilatati
e le linguacce della tradizionale danza haka intimidatoria degli All Blacks.
La finale è dura. Il secondo tempo si chiude su un punteggio 9-9, l’arbitro concede i supplementari. La musica non cambia. Il punteggio è 12-12. A sette minuti dalla fine la svolta: Stransky prova un drop da trenta
metri. L’arbitro lancia il fischio finale: il
Sudafrica si è laureato campione del mondo di rugby.
È un’esplosione di gioia, il principio di riconciliazione di un Paese messo in atto dal
presidente Mandela, per tutti “Madiba”, il capo di governo di una “nazione arcobaleno” che nello scoprirsi campione
di rugby si ritrova unita.