PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA FACOLTÀ DI TEOLOGIA I ANNO - II SEMESTRE Corso TP1B08 Cristologia e Soteriologia Prof. Gerald O’Collins, sj A. A. 1995-96 appunti di uno studente TESI 1: nozioni essenziali: cristologia dall’alto e dal basso; cristologia implicita ed esplicita; interscambio di proprietà (o “communicatio idiomatum”); natura e persona; unine ipostatica; “homoousios” e “homoiousios” INTRODUZIONE La Cristologia si esprime anche nell’arte: abbiamo davanti a noi il “Giovanni battista” di Tiziano. Con il suo gesto non attira l’attenzione su di sé, ma sul Cristo. Porta anche un bastone fatto a forma di croce, e ai suoi piedi è sdraiato un agnello: tutti elementi che riportano a Cristo. Il Compito della Cristologia. Occorre esplorare Cristo in sé, e Cristo per noi. La Cristologia mira a rispondere alla domanda: chi è Cristo? Allo stesso tempo mira a valutare la sua attività salvifica: Cristo per noi! Sono due dimensioni che si possono distinguere ma non separare. Nel mondo ci sono circa tre approcci alla dimensione Cristologica: 1. Verità. 2. Giustizia. 3. Bellezza. 1. Si può fare Cristologia nell’ambito della verità, studiandola scientificamente (v. S. Tommaso): si tratta di studiare accademicamente la figura del Cristo. 2. C’è anche una Cristologia orientata all’azione, alla ricerca della giustizia e del bene.
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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA FACOLTÀ DI TEOLOGIA
I ANNO - II SEMESTRE
Corso TP1B08
Cristologia e Soteriologia
Prof. Gerald O’Collins, sj
A. A. 1995-96
appunti di uno studente
TESI 1: nozioni essenziali: cristologia dall’alto e dal basso;
cristologia implicita ed esplicita; interscambio di proprietà (o
“communicatio idiomatum”); natura e persona; unine
ipostatica; “homoousios” e “homoiousios”
INTRODUZIONE
La Cristologia si esprime anche nell’arte: abbiamo davanti a noi il “Giovanni battista” di
Tiziano. Con il suo gesto non attira l’attenzione su di sé, ma sul Cristo. Porta anche un
bastone fatto a forma di croce, e ai suoi piedi è sdraiato un agnello: tutti elementi che
riportano a Cristo.
Il Compito della Cristologia.
Occorre esplorare Cristo in sé, e Cristo per noi. La Cristologia mira a rispondere alla
domanda: chi è Cristo? Allo stesso tempo mira a valutare la sua attività salvifica: Cristo per
noi! Sono due dimensioni che si possono distinguere ma non separare.
Nel mondo ci sono circa tre approcci alla dimensione Cristologica:
1. Verità.
2. Giustizia.
3. Bellezza.
1. Si può fare Cristologia nell’ambito della verità, studiandola scientificamente (v. S.
Tommaso): si tratta di studiare accademicamente la figura del Cristo.
2. C’è anche una Cristologia orientata all’azione, alla ricerca della giustizia e del bene.
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3. Nel mondo orientale, vi è una Cristologia più contemplativa, alla ricerca della bellezza
divina, liturgica, della preghiera e della religiosità popolare. Noi esamineremo in dettaglio il
primo approccio, ma dobbiamo sapere che ve ne sono altri.
Segnaliamo tre componenti di ogni Cristologia: essa deve approfondire la storia, la
filosofia, la linguistica. Dobbiamo usare la nostra ragione in 3 settori: storia, filosofia e
letteratura (linguaggio). Sono questi tre punti fondamentali. La Teologia è descritta come fede
alla ricerca dell’intelligenza storica, filosofica e linguistica. Questo non vuol dire che, storia,
filosofia e linguaggio siano 3 settori distinti, difatti spesso non sono separabili.
I. La Storia
Conosciamo Gesù anche attraverso la storia; essa non è l’unica via che porta a Gesù, ma da un
contributo importante:
1. La “preistoria” (nell’AT) e storia di Gesù
Si tratta dell’analisi dell’ambiente giudaico. L’esistenza storica di Gesù va dal 5 a. C. al 30 d.
C. Non è possibile scrivere una biografia di Gesù: si può scrivere qualcosa sulla sua storia, ma
una biografia in senso stretto è impossibile. Difatti, non abbiamo nessun scritto personale di
Gesù. Abbiamo solo un accesso agli ultimi anni della sua vita. Anche per questi ultimi 2-3
anni non vi è un ordine cronologico preciso. Ecco i motivi per dire che no è possibile scrivere
la biografia di Gesù.
1.1. Le fonti non cristiane
Alcuni autori non cristiani ci hanno lasciato dei dati su Gesù: Tacito, Svetonio ed altri:
a) Gesù fu crocifisso sotto Ponzio Pilato (Impero di Tiberio);
b) vi erano degli ebrei coinvolti nella morte di Gesù;
c) alcuni dei seguaci di Gesù lo chiamavano “il Cristo”.
Gli scrittori non cristiani ci forniscono vari dettagli, ma per il resto dipendiamo dagli autori
cristiani. Paolo ci dà molti dati: Gal 3,16 (Gesù era ebreo). In Rm si dice che Gesù era Figlio
di Davide. In 1Cor11 si parla dell’ultima cena. In 1Cor15 si parla delle apparizioni post-
pasquali. Paolo, però non parla dei miracoli, della predicazione del Regno, delle parabole,
della crocifissione a Gerusalemme, ecc.. In 1Pt (agli ebrei) si parla della sofferenza di Gesù
ma senza altri particolari. Per il resto le nozioni che abbiamo vengono dai Vangeli.
Essi sono sì una testimonianza di fede, ma hanno anche un fondamento storico. Mc,
Mt e Lc hanno carattere sia storico che teologico; Gv è più un Vangelo teologico, anche se ha
un certo valore storico.
1.2. Le risposte successive dei cristiani a Gesù
Di Gesù dobbiamo valutare anche ciò che è avvenuto dopo la sua morte: le risposte che lui ha
suscitato nelle generazioni successive. Tali risposte sono numerose:
a) per i cristiani: è la nascita di una nuova comunità dopo l’effusione dello Spirito;
tutto questo appartiene alla storia di Gesù.
b) ricordiamo anche le risposte non cristiane: nell’Induismo Gesù ha una grande
importanza; per i musulmani è un grande profeta.
1.3. Questioni de facto e de iure
Ricordiamo qui un problema spinoso: in che misura la nostra fede Cristologica dipende
dalla conoscenza storica di Gesù?
La nostra fede, infatti, dipende in qualche modo da un certo sapere storico: essa ha al centro la
figura storica di Gesù stesso.
Due questioni:
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a) de facto: è ciò che sappiamo di Gesù in un modo realmente accessibile;
b) de iure: è quanto dobbiamo sapere di Gesù dal punto di vista storico.
Il sapere storico è quindi importante, ma viene fuori la questione de iure, per poter dare
fondamento alla nostra fede. A tal proposito ci sono i massimalisti, quelli cioè che vogliono
sapere fin troppo: vedi i Vangeli apocrifi, ricchi di particolari e di fatti sull’infanzia di Gesù,
ecc.. Anche oggi abbiamo nuovi fatti sulla vita di Gesù, e molti autori credono di poter
esplorare la vita intima di Gesù.
I minimalisti riducono drasticamente il nostro sapere storico: ad es. Bultmann e Kierkegaard.
Bulmann (1884-1976), come storico, sapeva abbastanza della vita di Gesù, come dimostrano
i suoi scritti. Secondo B. la fede non dipende dalla storia: basta sapere che Gesù è esistito ed è
stato crocifisso. B. voleva fare una rinuncia al sapere storico: la fede è una risposta irrazionale
davanti al Kerygma. Per lui il Kerygma e la fede non sono legittimate dallo studio storico.
Secondo B. Paolo e Gv sono d’accordo con lui. Essi avrebbero costruito la loro teologia senza
riferirsi alla storia di Gesù. Ma se ignoriamo i dettagli storici di Gesù, perché dobbiamo
credere che lui ha portato la salvezza (evento che si realizza nella storia) ?
Paolo non esclude il sapere storico, come abbiamo detto sopra: non dice molto da questo
punto di vista, ma qualcosa sì. Inoltre, è da ricordare che le sue lettere sono scritti occasionali,
inviate in determinate circostanze, per risolvere alcuni problemi nati nelle prime comunità.
Per Gv c’è da dire che la sua è un’opera teologica, ma non ignora la storia: ridurre Gv alla sola
teologia è sempre un errore.
S.Kierkegaard: lui riduce tutto all’incarnazione. L’aspetto kenotico è per lui quello più
rilevante. Egli trascura così le parabole ed altri fatti, compresa la crocifissione, riducendosi a
dire solo che insegna agli uomini molte cose (“Noi abbiamo saputo che Dio è comparso nell’anno tale e
nell’umile figura di servo, egli ha vissuto ed ha insegnato fra noi ed è poi morto, questo è più che abbastanza”.)! Rispetto
a Bultmann, K. Propone un’ipotesi de iure: di fatto la generazione contemporanea ci ha
lasciato molto di più. Ma quali dati abbiamo effettivamente ricevuto?
II. La Filosofia
Essa chiarisce i concetti (es. natura, persona...) e mette possibilità alla prova (ad es., la
possibilità di una persona contemporaneamente divina e umana!). Aiuta anche la questione
ermeneutica: l’autore, il testo, la pluralità delle precomprensioni e dei contesti. Come
interpretare ad es. i testi che esprimono i dogmi Cristologici?
Per Heidegger, la storicità umana è essenziale, e la temporalità non è separabile dalla filosofia.
Per Hegel, va mantenuta l’unità tra storia e filosofia. Ma in che modo contribuisce la
filosofia?
E’ importante per chiarire i termini della Cristologia: ad es. persona umana, libertà,
rappresentante (colui che redime l’umanità). Inoltre, la filosofia ci consente di fare alcune
verifiche: per alcuni sembra paradossale il fatto che Gesù sia libero e impeccabile; altri
considerano paradossale l’incarnazione di un essere infinito quale è Dio. La filosofia,
dicevamo, fa anche ermeneutica, ossia l’interpretazione dei testi.
L’esegesi integrale considera l’autore, le sue intenzioni, il testo in sé, i lettori contemporanei
(con le loro domande) e i contesti di lettura. Essa cerca di bilanciare questi quattro elementi.
La Bibbia rimane la Norma non normata.
III. Il Linguaggio
Spesso il linguaggio biblico è ricco di simboli: ad es. l’Esodo, la crocifissione... Parlare di
simbolismo non esclude affatto la realtà storica. Ci sono anche le figure simboliche: il battista,
Gesù stesso... Come verificare le nostre affermazioni? Per la filosofia, la coerenza è ciò che
più conta. Per la storia è la corrispondenza alla realtà. Per il linguaggio, esso deve illuminare
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la realtà: Heidegger parla proprio di questo, cioè del linguaggio che deve svolgere questa
funzione illuminatrice.
CAMBIAMENTI, SFIDE E DISTINZIONI (lez. 19.2.96)
1. La svolta antropologica
La Bibbia è la rivelazione di Dio indirizzata a noi uomini. Nella Bibbia i destinatari sono i
soggetti umani (DV 1-6): la DV riassume tutto usando il termine “storia della nostra
salvezza”, poiché Dio rivolge all’uomo la sua Parola salvifica. Anche GS mette assieme la
svolta antropologica: non si può capire Cristo redentore senza capire l’uomo e viceversa. Il
nostro Papa, nel suo contributo alla DV, porta avanti la stessa linea: nella sua prima enciclica
Redemptor hominis mette assieme il mistero di Gesù e quello dell’uomo.
Cosa vuol dire per noi svolta antropologica? Vuol dire che si parte dall’esperienza umana: dai
genitori, al mondo a Dio. La nostra esperienza è pluriforme ed ha il suo impatto sulla
Cristologia. Noi ci accorgiamo di essere incompleti, bisognosi di salvezza: siamo alla ricerca
di senso, della luce, dell’amore. Si può dire che questo dinamismo nell’uomo è primordiale.
Alcuni, ascoltando l’espressione antropologia pensano a Feuerbach: la sua tomba grigia e
triste (da ateo!) ci riporta al suo pensiero. Per lui l’uomo è la misura di tutte le cose, ma questo
è un falso antropocentrismo. Ricordiamo l’iniziativa divina: la stessa creazione parte da Dio
che crea un cosmos nel caos primordiale. Una svolta antropologica non esclude questa
iniziativa sia nella creazione che nella redenzione. Inoltre, non dimentichiamo di essere fatti a
sua immagine: guardando l’uomo vediamo Dio.
1.1. La coscienza storica
Un altro cambiamento di grande impatto per la Cristologia è il nuovo senso della storicità
dell’esistenza umana. Noi siamo influenzati dal passato, operanti nel presente e aperti al
futuro. Anche la storicità è una dimensione che rientra nella salvezza operata da Dio. Il Padre
è l’autore della salvezza storica - secondo Paolo - attraverso l’invio del Figlio, il quale, morto
e risorto, ci dona lo Spirito che ci porterà alla “consumazione” di tutte le cose. La Trinità è
così presente nella storia . Si parla delle due missioni economiche: quella storica del Figlio, e
quella dello Spirito Santo.
1.2. Differenza presente - passato
Oggi le differenze culturali e religiose si acuiscono maggiormente rispetto al tempo di Gesù;
siamo più sensibili alle differenze tra l’AT ed il NT. Siamo anche più sensibili alla
discontinuità tra il Gesù pre-pasquale e post-pasquale. Il nuovo senso storico ha portato una
nuova sensibilità ai cambiamenti nella storia. Oggi assume maggiore importanza la vita stessa
di Gesù: nessuno oserebbe scrivere una Cristologia senza tener conto della vita e delle
intenzioni di Gesù, anche se è un compito non facile. Rousseau si chiedeva: come trovare in
un’esistenza limitata la salvezza di tutto il genere umano? Eppure, in quella storia particolare
si trova la salvezza assoluta ed universale!
2. I misteri Cristologici
Essi si estendono dalla creazione alla parusia. Cristo è il Verbo, e per mezzo suo è stato fatto
tutto ciò che esiste. Emerge la domanda: qual è il punto decisivo per costruire la Cristologia?
Alcuni sottolineano la predicazione del Regno come mistero centrale; altri considerano di più
la parusia, mentre altri ancora sottolineano la creazione. Cosa diciamo noi a proposito?
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Potremmo dire che ogni punto di partenza è giustificato, ma crediamo più adeguata la risposta
che viene da Kasper e da Pannenberg: il Cristo morto e risorto è il centro di una adeguata
Cristologia.
La Cristologia deve basarsi sulla Pasqua, dal venerdì santo alla domenica di risurrezione. Il
cristianesimo infatti è partito con la predicazione di Gesù morto e risorto. In 1Cor15, 3-5,
Paolo ci dà questa conferma: egli non dice che Cristo si è incarnato, o che ha predicato il
Regno, ma il nucleo del kerygma che lui stesso aveva ricevuto era Cristo morto e risorto.
Certo dopo vi fu la catechesi, la didakè, ma al centro del kerygma apostolico primitivo vi era
il mistero pasquale di Gesù. Vi è un altro motivo: la nostra liturgia.
Siamo battezzati nella morte e risurrezione di Gesù: questo è il significato del Battesimo,
essere inseriti nella morte e risurrezione di Gesù. Così nell’Eucaristia: annunciamo la morte di
Gesù, proclamiamo la sua risurrezione, e non diciamo: annunciamo la tua incarnazione!
Per questi motivi la nostra Cristologia deve essere centrata sulla Pasqua.
2.1. Come sanare il divario tra la Cristologia (Cristo in sé) e la soteriologia (Cristo pro
nobis o la sua opera salvifica) ?
E’ chiaro che dobbiamo tenere assieme la persona di Cristo e la sua missione. La lettera agli
Ebrei mette assieme questi due aspetti in modo particolare. A volte, alcuni studiosi cattolici
hanno studiato Cristo in sé rimandando in appendice la sua missione salvifica. Altro eccesso è
quello di ridurre tutto all’aspetto soteriologico. L’esempio riportato è quello di Melantone:
conoscere Cristo è conoscere i suoi benefici. Egli, discepolo di Lutero, si è poi reso conto
della veduta estremamente soteriologica.
2.2. Come far vedere poi meglio il legame tra la creazione, la redenzione e la
consumazione escatologica?
Da Ireneo a Teilhard de Chardin si è cercato di mediare questo legame tra i tre momenti
dell’unico dramma: Cristo è coinvolto in questi tre momenti e forse il titolo di Cristo come
ultimo Adamo è utile per pensare assieme i tre momenti.
2.3. Altra questione centrale è quella di Cristo e dei non-cristiani
Da una parte il NT è chiaro: Cristo è l’unico rivelatore: extra Christum nulla salus! In Atti si
dice: “In nessun altro vi è salvezza...” (At 4,12). Così Gv 14,6: Cristo è presentato come la
luce del mondo che illumina ogni essere vivente. Ma i non cristiani? D’altra parte vi è la
nostra esperienza. Anche in Mt, quando si parla dei Re Magi, si vuole intendere la portata
universale della salvezza di Cristo.
3. La terminologia in gergo: Cristologia dal basso e dall’alto
La prima è quella della Chiesa di Antiochia, la seconda quella di Alessandria (cfr Cirillo).
Quella dall’alto dice due cose: a) si parte dall’alto; b) vi è un movimento discendente. Quella
dal basso: a) parte dal Cristo uomo; 2) è ascendente. Quella dall’alto è tipica di Gv, ad es. nel
Prologo: “...il Verbo era Dio... e si è fatto carne.” . Nei sinottici si nota una Cristologia
ascendente, dal basso. Mc parte dal battesimo di Gesù per poi salire. Ecco le due impostazioni
che si completano a vicenda; esse devono far fronte a diverse sfide: quella di Gv deve far
vedere la vera umanità di Cristo, la sua dimensione storica. Quella dal basso deve mostrare
che Gesù è veramente Dio ed è il Figlio. La distinzione non è radicale: la Cristologia dei
sinottici non è totalmente dal basso. Ad es., la predicazione del Regno è un evento “dall’alto”.
Anche il concepimento verginale (descritto da Lc) è un elemento dall’alto. Lo stesso è nel
caso di Gv: non è una pura Cristologia dall’alto, come dimostrano la stanchezza di Gesù, il
suo pianto, ecc..
3.1. Cristologie alte e basse
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Non è questione di movimento: Alta - mette in evidenza la divinità di Gesù, anche se a volte
trascura una completa umanità; Bassa - mette in rilievo l’umanità di Gesù, e a volte rischia di
trascurare la sua divinità.
3.2. Cristologie implicite ed esplicite
Ci si riferisce al modo di dire le cose, non al contenuto o alla dottrina. Nel Vangelo di Mc vi è
una Cristologia abbastanza implicita, ma alta: viene fuori la divinità di Cristo. Mc non porta
avanti una Cristologia soltanto bassa, ma riconosce la divinità di Gesù anche se in modo
implicito (ad es., Gesù prende possesso del tempio: ma chi è allora, per compiere tale gesto?).
Le implicazioni sono notevoli: ci potrebbe essere qualcosa di scandaloso sotto tali
considerazioni implicite.
TESI 2: Gesù come ultimo Adamo, la Sapienza e il Verbo di Dio;
le radici di questi titoli nell’AT e il loro uso nel NT
LA RILEVANZA CRISTOLOGICA DELL’AT (lezione del 20.6.96)
Nota previa: La traduzione greca dell’AT ci offre tutti i termini e i concetti che ritroviamo nel
NT. Così per la Cristologia e la soteriologia vengono usati termini dell’AT. Nell’AT i termini
hanno subito diversi cambiamenti. Esso è stato formato in quasi 1000 anni, ed i termini hanno
subito un relativo assestamento, sicché essi non hanno mai valore monolitico. Notiamo anche
che per il linguaggio dell’AT i cristiani ne hanno fatto una rilettura specie circa i termini
Cristologici. Inoltre, il processo di usare tali termini risale a Gesù stesso. Ad es. Figlio di
Davide è un “titolo basso”, e Mc lo utilizza nel suo Vangelo poiché molto probabilmente
venne usato da Gesù stesso.
Triplice ufficio soteriologico di Gesù
Nel Vat II (LG) si usa notevolmente questo concetto del triplice ufficio di Gesù. Re, Sacerdote
e Profeta sono, nell’AT, persone unte, consacrate. In Is 61 si parla dell’unzione di un profeta.
Tali persone avevano una missione specifica, ed è per questo che venivano unte. Sono tre
modi di interpretare l’attività salvifica di Gesù: Re-pastore, Sacerdote-mediatore, Profeta-
rivelatore e maestro. Già i Padri ne parlano: S.Giustino parla di questo triplice ufficio. Nel
Medioevo, S.Tommaso, S.Bonaventura ne parlarono e successivamente il Card.Newmann e ai
nostri giorni Alfaro, Kasper ed altri ne hanno parlato.
1. Re/Messia
Partiamo da 2 Sam 7 che è nella liturgia latina della vigilia di Natale: la promessa fatta a
Davide per bocca del profeta Natan. Tale promessa indica l’elezione di Davide da Dio, che gli
promette vittoria e di adottare i suoi figli e i loro discendenti. Vi è anche un’alleanza con la
casa di Davide, un patto ed una dinastia eterna. Quella promessa non dipende dalla fedeltà di
Davide o dei suoi successori.
L’immagine del Re davidico è raffigurata in modo ideale da Is 9 e 11 (v. Avvento): cosa farà
quel re? Libererà il popolo, porterà giustizia e pace. Più avanti Ezechiele, che scrive al tempo
dell’esilio babilonese, al cap. 34 promette un Re-pastore per il popolo sofferente. Infine, vi
sono i Salmi regali che indicano le aspettative del popolo dal re unto. Is 2 parla di un
banchetto immenso a Gerusalemme: tutti i popoli godranno di quel banchetto. Gerusalemme è
vista come il centro del mondo. Letteralmente la dinastia regale davidica è sparisce dopo
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l’esilio babilonese: emerge la figura del sacerdote. Nell’AT l’idea di un Messia sofferente non
è mai presente, tranne un accenno in Zaccaria. Is 53 parla del servo sofferente che però non è
il re unto: chi è allora? Qual è il senso originario?
Sembra avere un valore collettivo: è il popolo d’Israele che soffre nel silenzio. La sofferenza
del popolo ha valore vicario. Nel NT Gesù stesso, come Messia e Re, non annuncia una
liberazione dai Romani, ma si presenta come pastore (specie nei sinottici) in cerca di pecore
smarrite. Gv sviluppa quest’immagine a modo suo sullo sfondo sinottico. Dietro vi è il
linguaggio di Gesù stesso. Gesù fu crocifisso col titolo “Re dei Giudei”, ritenuto falso messia
regale. Gesù non si presenta mai esplicitamente come Re, anche se parla del Regno di Dio:
dice di essere invece il Figlio dell’uomo (FdU). Ha però sicuramente una coscienza
messianica implicita, e lo dimostra. Dopo la sua morte i cristiani gli danno il titolo di Cristo
Messia. In 1 Tess, Paolo riprende una tradizione consolidata che dà per scontata la
messianicità di Gesù. Così dire Gesù Cristo vuol quasi dire il nome e cognome di Gesù stesso
(invece di Gesù il Cristo). Quel titolo di Messia si trova in riferimento al mistero pasquale.
2. Sacerdote
Lo sfondo dell’AT è triplice: a) Melchisedek, riflette una situazione antica (Gn 14). All’epoca
il Re era considerato anche sacerdote: così per Melchisedek; b) vi era il sacerdozio levitico,
cioè di coloro (e solo essi) nati nella tribù di Levi; c) in seguito con la fondazione della festa
di Jom Kippur, dopo l’esilio babilonese, abbiamo il sacerdozio sommo presso gli Ebrei. In
quel giorno (Jom kippur) il sommo sacerdote svolgeva un ruolo centrale. Vi era l’attesa di due
personaggi unti: un messia-re ed un messia-sacerdote, come si legge anche nei frammenti di
Qumran. La figura del Messia-sacerdote, inoltre, era la più importante.
Gesù sacerdote: è un problema dal momento che non apparteneva alla tribù di Levi. Inoltre, fu
crocifisso non in luogo di culto ma in un luogo profano. Vediamo però in che modo si
giustifica il suo sacerdozio.
A- l’ultima cena: Gesù compie gesti sacerdotali, spezzando il pane e offrendo il suo sangue in
segno della nuova alleanza. Gesù interpreta quindi la sua morte come un vero e proprio
sacrificio. Dopo la sua morte e risurrezione Paolo (Rm 3) parlerà del fatto che il sangue di
Cristo ha espiato i nostri peccati. In 1 Cor 5,7: “Cristo, nostra Pasqua è stato immolato”, un
versetto breve dove Paolo non cerca di difendere la sua affermazione, ma dà per scontato
che Cristo è la vittima sacrificale.
B- In Ebrei (il cui autore è anonimo) si fa un salto qualitativo: Gesù è visto alla luce di
Melchisedek e del giorno dell’espiazione. Si prendono vari elementi dell’AT: 1)
Melchisedek, personaggio misterioso, di cui non si conoscono le origini. Inoltre, si ritiene
che è superiore allo stesso Abramo. 2) Nel Sal 110,4 si dice anche che è sacerdote per
sempre. 3) In Es 24 vi è un’eco di quel linguaggio: Mosé introduce la nuova alleanza con
Dio; 4) Ger 31 parla della nuova alleanza interiore, e 5) Lv 16, 10 è centrale per i concetti
sviluppati nella lettera agli Ebrei.. Quali sono le condizioni necessarie per il sacerdozio di
Gesù, secondo la lettera agli Ebrei?
In primo luogo Gesù è autorizzato da Dio: Egli è il Figlio di Dio, e il suo sacerdozio è messo
in stretto rapporto con la sua figliolanza divina. Inoltre, Gesù è solidale con l’uomo in virtù
della sua incarnazione.
3. Profeta
Paolo VI, nel discorso del 5/1/1964 parlò di Gesù profeta. Il nostro Papa nella Redemptor
Hominis (n.19) fa lo stesso. Vi era l’attesa di un profeta simile a Mosè (Dt 18, 15-18). Al
tempo di Gesù fu identificato con Elia, altre volte con Gv il battista. Gesù stesso si interpreta
come profeta (Mc 6,4; Lc 13,33). In Lc il popolo lo considera tale e lo stesso succede in Gv.
Nei primi versetti della lettera agli Ebrei si nota come Gesù è più di un profeta. Nei sinottici,
nella sua attività Gesù trascende la sua veste profetica (cfr Mt 5).
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Il triplice ufficio rappresenta altrettanti titoli bassi ripresi poi nel nostro Credo. Nel NT vi
sono altri titoli, come Alfa e Omega, alcuni alti, che mettono in rilievo la sua divinità, altri
bassi per mostrare la sua umanità. Circa la Cristologia ontologica e funzionale, essa cerca di
approfondire la natura e l’essere ontologico di Gesù. La Cristologia funzionale si sofferma su
ciò che Gesù fa: ci rivela Dio, e ci insegna la verità divina. Una Cristologia funzionale va
bene, ma da sola è limitante poiché occorre considerare l’essere stesso di Gesù.
Dobbiamo anche riconoscere che il NT ha una Cristologia prettamente funzionale e
soteriologica: la Cristologia ontologica è implicita ed emerge maggiormente solo con Gv.
LA RILEVANZA CRISTOLOGICA DELL’AT (LEZIONE DEL 23.02.96)
1. L’ultimo Adamo
Si tratta di un titolo “basso”, e i primi cristiani lo usano a proposito di Gesù. Adamo ed Eva, si
dice in Genesi, sono fatti ad immagine di Dio. Ma a causa della loro disobbedienza, il peccato
entrò in loro. Dopo il primo peccato dei nostri progenitori segue una catena di altri peccati.
Nell’AT , però, si riceve a volte anche un’immagine positiva di Adamo: nel libro del Siracide
(49,16), si dice che egli è superiore ad ogni altro essere vivente. Nel libro della Sapienza
(10,1-2), Adamo è riabilitato nella misericordia di Dio: rimane così la sua forza di dominare il
mondo. Altrettanto nel Sal 8, anche se non è nominato esplicitamente Adamo, ci si riferisce a
lui e alla sua dignità che gli proviene da Dio e che è di poco inferiore a quella degli angeli.
Nel NT troviamo il brano di Rm 5 e 1 Cor 15, dove Paolo dice che Adamo è il capostipite
della razza umana: a partire da lui il peccato entrò nell’umanità. Siamo, così, solidali nel
peccato e siamo tutti sotto l’influsso maligno di Adamo. La morte ha dunque raggiunto tutti
perché tutti hanno peccato. Qui Paolo esprime la morte fisica come segno del peccato.
Cristo è sceso allora in campo: egli è il nuovo Adamo: il primo fu disobbediente, il nuovo è
obbediente! Dove ha abbondato il peccato, lì c’è stata la grazia sovrabbondante. Per Paolo,
Adamo e Cristo sono anche “persone collettive”, cioè il loro ruolo è determinante per
l’umanità intera. In 1 Cor 15, 20-22, 45-49 si dice che a causa di Adamo è venuta la morte; a
causa di Cristo è tornata la vita: Adamo viene dalla terra, Cristo viene dal cielo e dà la vita
eterna. Tutti gli uomini portano l’immagine di Adamo e di Cristo.
Alcuni studiosi pensano di trovare altrove, nelle lettere di Paolo, questo riferimento ad
Adamo, anche se a volte sono delle vere e proprie forzature. Da dove viene però questa
Cristologia adamitica di Paolo?
Non è sicuramente pre-paolina: Paolo ha sì ereditato una Cristologia che vede il Cristo come
Signore, ed ha elaborato la sua Cristologia adamitica. Così, in base all’idea di Paolo è nato un
filone che vede Gesù come l’ultimo Adamo: alcuni Padri fanno questo.
Ireneo, ad esempio, propone addirittura l’immagine di Maria come la nuova Eva. Dopo il
periodo patristico, fino ai nostri giorni, troviamo nella liturgia del Sabato santo, proprio l’idea
di Cristo come nuovo Adamo: anche il CCC usa questa immagine. Paolo ha quindi fatto
fortuna con questo suo modello di Cristologia.
Alla luce di Gv 19 (Cristo morto sulla croce), i padri fanno vedere come la chiesa sia nata dal
costato squarciato di Cristo, così come Eva era nata da una costola di Adamo!
2. La Sapienza
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Si tratta di un titolo “alto”. Occorre distinguere tra “personificazione” e “persona”. Nell’AT,
l’attività divina è personificata come la Sapienza. L’autore del libro biblico omonimo dice
che:
1) La Sapienza è preesistente: è generata da Dio prima di ogni altra creatura;
2) è un’immagine perfetta di Dio: è molto più di Adamo e di Eva. Essi erano sì a immagine e
somiglianza di Dio, ma la Sap. È una “replica” perfetta dell’originale (Dio). In Sap 7, 21 si
vedono questi termini della gloria divina riflessa nella Sapienza;
3) per mezzo della Sapienza, Dio creò tutte le cose, e le governa: è strumento della creazione;
4) la Sapienza vive presso gli uomini per condurci a Dio: essa vive dunque in mezzo al
popolo di Dio;
5) la Sapienza è personificata come una profetessa, che invita tutti al suo banchetto (Sap 8,1;
Pro 9,1-6): è un’immagine audace della letteratura sapienziale (una donna bellissima che
invita gli uomini).
Nel NT, non solo Paolo, ma anche i sinottici e Gv hanno usato l’immagine della sapienza per
parlare di Gesù: Mt 11, 19; Lc 11, 31 (la regina di Saba che è ammirata della sapienza di
Salomone: ben più di Salomone c’è qui!). Il Gesù pre-p. si presentava quindi implicitamente
come la Sapienza divina. “Ben più di Salomone c’è qui!”: Salomone era considerato il più
ricco ed il più sapiente. Anche Mc fa riferimento a Gesù sapienza: a Nazareth, la gente che lo
ascoltava nella sinagoga si meravigliava della sua sapienza. Paolo, in 1 Cor, chiama Gesù
“Sapienza di Dio”, sapienza misteriosa rivelata nella follia della croce, che non risponde alla
logica del mondo. Ricordiamo che il NT applica a Gesù varie funzioni attribuite alla Sapienza,
senza parlare apertamente di “sofia”. Gc 1 (prologo) dice che come la sapienza Gesù è
preesistente ad ogni altra creatura. Gesù è anche la luce divina, irradiazione della gloria
divina. Così anche in Eb 1,3. Anche il banchetto della Sapienza è ripreso da Gv 6,35: Gesù
invita gli uomini a convito, rivelando il mistero di Dio agli uomini. Eppure Gv non usa mai
esplicitamente il termine “sapienza” o gli attributi corrispondenti. Troviamo quindi in Gv e in
Eb una Cristologia sapienziale.
I Padri: quasi tutti i Padri riconoscono Gesù come la divina sapienza. Non così per Ireneo:
per lui la Sapienza era lo Spirito Santo. Un esempio però di quell’immagine dei Padri si trova
nella lettura del breviario del 17 dic., tratto da Leone Magno: esso si inserisce in un filone
tradizionale della Chiesa. Nella IV preghiera eucaristica si dice che Dio ha fatto ogni cosa con
Sapienza e Amore (il Figlio e lo Spirito)! Anche oggi si riconsidera questo tipo di Cristologia
sapienziale.
3. Il Verbo-
Nell’AT il è una personificazione dell’attività di Dio (v. libri sapienziali). Il è un
po’ come la sapienza: preesiste alla creazione. Dio crea per mezzo della sua Parola, ed il
rivela la volontà divina agli uomini. e Sapienza sono quindi sinonimi. Perché
Gv sceglie per il prologo il termine ? Non avrebbe potuto usare il termine Sapienza?
1) La tensione tra la sinagoga e la Chiesa nascente fece sì che Gv facesse questo usa (cfr Gv
9). Per gli Ebrei infatti, la Legge sinaitica era la Sapienza e non poteva incarnarsi;
2) Gesù, poi, era uomo, mentre la Sapienza era personificata da una donna bellissima;
3) Gv compone il suo Vangelo alla fine del I sec., dopo Paolo e Lc: Paolo aveva già
sviluppato la sua teologia del Logos, e ancora di più Lc nel libro degli Atti.
La strada era quindi già tracciata negli scritti del NT. Il termine logos si trova dunque nel
prologo di Gv, ma anche nell’Apocalisse, e serve ad affermare la preesistenza di Cristo: egli
preesisteva nell’eternità. Inoltre per mezzo di lui tutte le cose sono state fatte: il nostro Credo
riprende questo brano senza usare il vocabolo “logos”. Gesù, del prologo, è anche rivelatore,
altra funzione specifica del logos.
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Nel NT ci sono due documenti eccellenti che fanno vedere questa funzione: 2 Cor e Gv. Fin
dal prologo, quindi, Gesù è il logos oltre che la luce ed il “testimone”. Dopo Gv, la sua
teologia del logos ha fatto molta strada: “Il Verbo si fece carne” esprime la realtà più profonda
dell’Incarnazione, ed è citato spessissimo dai Padri. Quel versetto ha provocato un movimento
profondo di riflessione teologica.
In primo luogo, il Verbo fa vedere l’identità e la distinzione nella “deità”: il Verbo appartiene
a chi parla, ma è anche indipendente da chi lo pronuncia (differenza). Questo dunque fa
vedere la distinzione Padre-Figlio.
In secondo luogo, questa terminologia della teologia di Gv si distacca dalla filosofia greca e
non cristiana, come quella di Filone: logos era il termine che collegava al platonismo ed allo
stoicismo. Agostino dirà che i platonici non avrebbero mai potuto dire che il “Verbo si fa
carne”: è impossibile che la trascendenza si limiti.
Il NT ha preso dunque immagini, concetti, ma anche personaggi dell’AT per interpretare
Gesù: Mosé ad es., è menzionato 80 volte nel NT, contro le 58 volte di Davide. Per la
Cristologia di Mt, la fig. di Mosé è quella più citata e significativa. Le radici ebraiche sono
dunque importanti per la nostra Cristologia e liturgia: sono quelle che ci permettono di
interpretare la Cristologia del NT.
TESI 3: Il ministero di Gesù: la sua predica del regno; la sua
autodesignazione come il Figlio dell’uomo; la sua coscienza di
Dio come Abbà. Gesù e la sua pretesa di autorità personale
GESU’ E LA STORIA PREPASQUALE (LEZIONE DEL 26.2.96)
1.1. La storia di Gesù, essenziale per la Cristologia.
Preferiamo parlare di Gesù pre-pasquale, per far vedere meglio la sua identità personale (altri
usano “Gesù della storia”). La storia di Gesù pre-pasquale entra nella nostra fede e nella
Cristologia.
1.2. Nel Credo abbiamo due persone che rendono testimonianza alla realtà storica di Gesù:
Maria e Ponzio Pilato. Essi testimoniano rispettivamente la nascita e la morte di Gesù, due
realtà di ogni esistenza umana.
1.3. La storia è un fondamento perla Cristologia, ma non è tutto, diversamente cadremmo in
estremismi ingiustificati. Il nostro Credo ricorda altri fondamenti: precedenti il Dio
creatore, Dio dei Padri (Abramo, Isacco, Giacobbe), che stabilì la sua alleanza con essi; Gesù
ce lo ricorda nel Vang. di Mc, dove si dice dell’esperienza fatta nel passato. C’è poi
l’esperienza post-pasq. del Signore risorto, con l’esperienza dello Spirito. La storia non è
quindi l’unico fondamento.
1.4. I Vangeli sono testi storici e teologici allo stesso tempo: non si possono ridurre all’una o
all’altra dimensione. Sono fonti limitate, con un’informazione storico-teologica limitata. I
limiti: ad es.. i Vangeli non riportano nessun documento o lettera personale di Gesù, mentre
diversi sono i documenti che risalgono a Paolo. Cicerone, contemporaneo di Gesù ( 43 a.C.),
scrisse 931 lettere, pertanto abbiamo parecchio materiale per ricostruire la sua biografia. Il
nostro accesso a Gesù è limitato ai suoi ultimi anni di vita: prima del battesimo sappiamo
molto poco di lui. Anche l’ordine cronologico degli avvenimenti tra il battesimo e l’ultima
cena non è molto sicuro. Altra sfida del Gesù pre-pasquale è legata al suo mistero personale.
Filippo, ad es., si sente dire che non ha conosciuto bene Gesù, nonostante tutto il tempo
passato con lui.
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1.5. Quando investighiamo su Gesù c’è l’incontro tra due misteri: il nostro e quello di Gesù.
Incontrare profondamente una persona vuol dire incontrare profondamente se stessi!
Molte domande allora emergono: qual è il senso della sofferenza? Qual è il senso della nostra
vita?... Ancora di più nel caso di Gesù: investigando la sua storia è come se investigassimo la
nostra. Uno scrittore inglese non credente, Wilson, scrivendo un libro su Gesù, ha rivelato
implicitamente la sua stessa vita!
1.6. G.Marcel espone bene il tema che stiamo studiando: Conoscere una persona non vuol dire
risolvere un problema, ma approfondire un mistero che ci interpella! Gesù non è mai un
problema da risolvere, ma è il mistero che ci interpella: il mistero entra nella nostra esistenza,
mentre il problema ne rimane al di fuori.
2. I Vangeli come finestre o specchi.
I Vangeli funzionano come finestre e allo stesso tempo come specchi. Mt, Mc e Lc
funzionano così e ci rivelano tre tappe della loro stesura: a) l’attività di Gesù pre-pasquale; b)
la trasmissione delle tradizioni; c) la composizione dei Vangeli stessi esaminata mediante
l’analisi strutturale.
Essi sono anche specchi: studiando i Vangeli vediamo noi stessi ed il nostro mistero
personale. A. Schweitzer dice che il rischio è che studiando i Vangeli vediamo solo la nostra
“faccia”, ossia creiamo Gesù secondo la nostra personalità. Ma sottolineiamo la differenza tra
“creare” (cosa che alcuni fanno) e “vedere” noi stessi in Gesù.
Gv è forse più uno specchio, rispetto ai sinottici, anche se questi ultimi si comportano anche
da specchi. Per Gv il ministero di Gesù durò tre o quattro anni, mentre i sinottici ci presentano
un ministero di quindici mesi circa. Gv, inoltre, parla più diffusamente di Gerusalemme, e
così si capisce meglio l’ostilità delle autorità religiose, che altrimenti non si capirebbe con una
durata minore del ministero. Vi è pertanto una certa attendibilità storica. Ma è chiaro che non
possiamo separare drasticamente Gv dai sinottici.
2.1. I sinottici sono grosso modo più attendibili storicamente: sono quasi tre ritratti di Gesù, ci
lasciano vedere il Gesù post-pasquale. Gv è più un ritratto impressionistico, il ché non
significa che sia meno valido o meno vero.
2.3. Ma cosa fa un artista impressionista? Mette in rilievo alcuni dettagli, tralasciandone altri.
Pertanto Gv è intenzionato a mettere in risalto la figliolanza divina di Gesù. Gv ha inoltre
modificato qualcosa: il FdU è detto nei sinottici come presente (rimette i peccati) e futuro (che
verrà a giudicare). Per Gv il FdU è preesistente, scende dal cielo. Gv, pur conservando la
stessa denominazione, ne modifica la Cristologia. I sinottici fanno vedere Gesù che predica il
Regno, e non se stesso. Gv, invece, modifica la predicazione di Gesù, e non si parla mai del
Regno (tranne Gv 3), ma dell’identità di Gesù stesso: Io sono la via, la verità... Gv ha quindi
modificato massicciamente la predicazione di Gesù. Gv tralascia inoltre altri dettagli:
mancano quasi completamente le parabole, gli esorcismi, anche se parla di Satana.
2.3. Infine, i dati forniti dai Vangeli sono sempre interpretati: i primi discepoli fin dal primo
incontro con Gesù, incominciano ad interpretare la sua persona. Così è anche per noi, quando
conosciamo una persona. Sarebbe impossibile conoscere una persona senza interpretarla. La
testimonianza dei Vangeli è attendibile ma anche interpretata.
3. Il ministero di Gesù: il ministero pre-pasquale possiamo vederlo alla luce di tre aspetti: a) la
predicazione del Regno; b) l’autocoscienza di Gesù; c) la coscienza filiale di Gesù. C’è
qualche radice nell’AT, ma che Gesù cambia radicalmente. Molti ritengono FdU un titolo,
mentre noi lo riterremo come autocoscienza di Gesù. Difatti, quell’espressione assume vari
significati: può significare
1) IO, riferito a Gesù; (il FdU può perdonare i peccati, ossia Io - dice Gesù - perdono...);
2) In Dn 7 FdU è una figura celeste, trascendente.
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Il Papa, nella Redemptoris Missio (12-20), parla della predicazione del Regno di Dio. Tale
predicazione entra anche nella teologia della liberazione.
3.1. Nell’AT Dio è chiamato sovente “Re” (cfr i Salmi ecc.); anche il verbo regnare è usato
frequentemente. D’altra parte, nell’AT, si trova raramente l’espressione il “Regno di Dio”: si
usa il titolo Re, e il verbo regnare, ma mai il Regno di Dio (eccetto in Daniele). Il Libro di
Daniele parla invece del Regno di Dio futuro. Nel NT, Gesù non parla mai di Dio come Re;
tranne forse in Mt 5, ma probabilmente questa è una sua aggiunta. Non parla mai di se stesso
o del Padre come Re. Regno di Dio vuol dire salvezza divina: Gesù parla di un Regno futuro
ancora non realizzato, e di uno presente già realizzato. Vi è una novità: il Regno già
inaugurato è quello che si realizza con la venuta di Gesù. Prima di Gesù, nessuno ha mai
parlato così del regno divino. Altra novità è il legame tra il Regno e Colui che lo predica. Le
parabole sono più che meri esempi o illustrazioni che Gesù fa: esse comunicano il Regno, è
l’invito ad aprirsi al Regno. I miracoli sono poi i primi frutti della venuta del Regno di Dio.
Sono gesti salvifici che anticipano la venuta del Regno. Gli esorcismi mostrano l’opposizione
tra il Regno di Dio e il Regno di Satana. Vi è inoltre la potenza dello Spirito con cui opera
Gesù. Come interpretava Gesù la sua missione?
1. In primo luogo Gesù la interpretava in termini profetici (Mc 6,4 e Lc 13,33); a volte Gesù
dice di essere mandato da Dio (Mc 9,37 e parall.; 12,6 e parall.); al tempo stesso Gesù dice:
“Sono venuto...”, cosa che nessun profeta aveva mai detto, né poteva dire. Gesù dice di essere
più di Giona: da un lato Giona sembra un personaggio divertente, ma dall’altro dimostra la
dimensione universale della salvezza divina. Ecco che Gesù lo prende a modello, dicendo di
essere superiore a lui e a Salomone.
1.1. Gesù aveva quindi un’autocoscienza messianica, anche se non dice mai apertamente di
essere il Messia. Ad es., Mt 11, 2-6 è intitolato “Ingresso Messianico in Gerusalemme” (CEI),
vede la portata messianica di Gesù. Gesù prende però qualche distanza dal titolo di Messia,
come accade, ad es., nella confessione di Pt: Gesù non nega ciò che Pt confessa, ma parla però
del FdU che dovrà soffrire, ecc.. C’è il problema (circa l’attendibilità storica) del processo
subito da Gesù: in Mc 14,15 Gesù, alla domanda “sei tu il Re dei Giudei?”, risponde: “Tu lo
dici!”. Gesù prende distanza da quel riconoscimento. Inoltre, l’iscrizione sulla croce diceva:
“Il Re dei Giudei”: se Gesù non avesse dato adito a tale interpretazione sarebbe inspiegabile
l’iscrizione stessa. Quindi, Pilato e gli altri hanno visto nell’attività di Gesù una certa pretesa
messianica. Inoltre, dopo la risurrezione, i suoi discepoli lo chiamano il Cristo, cioè Messia:
pertanto Gesù deve aver mostrato in qualche modo di avere un’autocoscienza messianica.
1.2. Gesù predica in modo nuovo il Regno di Dio: è l’agente profetico e messianico. Il Regno
futuro è già inaugurato tramite la presenza stessa di Gesù; il Messia regale non promette
liberazione o dominazione; il profeta parla con la propria autorità (v.oltre).
2. Figlio dell’uomo
Vi è un cambiamento tra Gesù pre-pasquale e Gesù post-p., come ci dimostrano gli scritti di
Paolo. In At 7, Stefano e altri lo chiamano FdU. S.Paolo parla di Messia così come di Figlio di
Dio (FdD). In Mc 12, Gesù si riferisce implicitamente il titolo di Signore: dopo la Pasqua
verrà usato moltissimo dai discepoli e dai primi cristiani. Nell’AT, Dn 7 parla del FdU come
un uomo celeste che avrà potere su tutte le cose. Gesù parla invece del FdU come una figura
sofferente. Anche l’autorità di giudice escatologico viene messa in risalto da Gesù (non così in
Dn). Vi sono quindi delle novità portate da Gesù. Inoltre, il rapporto con il FdU sarà decisivo
per la salvezza finale.
2.1. Dio come Abbà: raramente nell’AT si parla di Dio come Padre. Gesù, invece, lo
preferisce come titolo più appropriato.
3. Gesù, predicando il Regno, invita gli uomini alla sua sequela, anche rompendo i rapporti
familiari personali. La sequela di Gesù è più importante di ogni altra cosa.
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3.1. Gesù guarisce nel suo stesso nome, non a nome di Dio. Al tempo del giudaismo, vi erano
infatti guaritori che facevano appello a Dio. Pt e i discepoli, invocheranno il nome di Gesù per
ottenere la guarigione degli ammalati.
3.2. Altra dimostrazione dell’autorità di Gesù è il suo modo di insegnare: i profeti dicevano
“Oracolo del Signore”; Gesù invece insegnava nel suo nome. C’è qualche esempio dove
l’Amen veniva detto alla fine della preghiera/insegnamento: non così per Gesù, che
introduceva il suo discorso con l’Amen. Amen, Amen dico a voi...
3.3. Gesù dimostra di avere anche autorità sul sabato, giorno sacro deciso da Dio, e sul
tempio, presenza di Dio in mezzo al popolo. Gesù parlava del nuovo tempio: ci sarà quello
costruito non da mani d’uomo. Inoltre Gesù interpreta e modifica le legge mosaica: “fu
detto...ma io vi dico..”. Gesù era addirittura pronto ad abrogare la legge orale o scritta (cfr
l’episodio sugli alimenti puri e impuri). Anche il perdono dei peccati subisce una novità:
prima bisognava recarsi al tempio per poi rivolgersi al sommo sacerdote. Gesù non era
sacerdote della tribù di Levi, ma era un “laico”, ma nel suo nome e fuori dal tempio
comunicava il perdono divino, atteggiamento scandaloso perché usciva dal sistema giudaico
fissato da Dio. Gesù fu accusato di bestemmie quando pretendeva di avere la stessa autorità
divina. Gesù sembrava usurpare le prerogative divine.
3.4. Gesù ha l’autorità di attribuire i posti nel Regno finale: il FdU verrà nella gloria per
giudicare tutti (Mc 13,26-27). Si presentava come FdU che verrà nel futuro: Bultmann ed altri,
invece, consideravano quel giudice escatologico un’altra figura diversa da Gesù. Giudicare è
una prerogativa divina: chi giudica è solo Dio. Gesù dimostra quindi un’autorità che trascende
il livello umano.
4. Vi è qui una Cristologia implicita, perché Gesù non diceva apertamente di essere FdD,
inoltre tale Cristologia è “alta”. Gesù dimostrava la speranza di essere rivendicato
escatologicamente da parte del Padre. Nei tre casi che abbiamo esaminato, Regno di Dio,
FdU, Abbà, ci sono riferimenti nell’AT, ma Gesù introduce delle novità sostanziali, non
riscontrabili, se non raramente, nell’AT. In tutti e tre i casi compare l’autorità forte di Gesù.
TESI 4: le intenzioni di Gesu’ di fronte alla propria morte
(lezione del 27.02.96)
1. C’è un asserto tradizionale che dice: “Sapere vuol dire distinguere”. Nel nostro caso si tratta
di distinguere tre domande:
1) Gesù previde la sua morte violenta?
2) In che modo interpretò la sua morte? Che valore ha visto in essa?
3) Per chi voleva morire? I beneficiari sarebbero stati tutti gli uomini?
Si possono esprimere queste domande secondo il kerygma primitivo degli Apostoli, come
illustra bene il brano ormai classico di 1 Cor 15, 3-5: “Vi ho trasmesso...che Cristo morì per i
nostri peccati secondo le scritture...”. I cristiani prima di Paolo interpretavano la morte di
Gesù come un evento salvifico. Si distingue quindi, l’interpretazione della morte di Gesù, nel
periodo pre-pasq. da Gesù stesso, e post-pasq., da parte della comunità cristiana. Le intenzioni
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di Gesù non sono l’unico criterio essenziale per il riconoscere la sua morte come espiatrice; vi
sono altri criteri: il Padre e lo Spirito. Erano anch’essi coinvolti nella morte di Gesù. D’altra
parte dobbiamo dare la giusta importanza alle intenzioni di Gesù, in quanto persona umana.
Affrontiamo la prima domanda: vi sono indizi che fanno vedere la previsione di Gesù circa la
sua morte. Non ci voleva molto, infatti, per capire che Gesù sarebbe morto di morte violenta.
2.1. Di certo non si sa quando Gesù cominciò a capire questo, però ad un certo momento si
vede che si accorge dell’imminenza della sua morte. Difatti, si paragona ai profeti, che
morirono soffrendo ingiustamente, fino a Gv Battista.
2.2. La chiave profetica non è però l’unica interpretazione della missione di Gesù, anche se in
vari testi (cfr Lc) emerge questo aspetto.
2.3. Vi è poi la parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12, 1-9): certamente questa parabola risale
a Gesù stesso, per cui si nota la sua consapevolezza della figliolanza divina e del suo destino
imminente.
2.4. La missione de Gesù provocava delle accuse: l’infrazione del sabato; i suoi miracoli
attribuiti all’azione di Satana; Gesù non rispettava inoltre diverse tradizioni: aboliva la legge
sugli alimenti ritenuti impuri (cfr Mc 7), cambiava la stessa legge divina (“avete inteso che fu
detto...ma Io vi dico!”); perdonava i peccati al di fuori del sistema fissato dalla legge di Mosé.
Gesù non era ingenuo e notava questa opposizione crescente.
2.5. L’ingresso in Gerusalemme fu un vero atto di provocazione verso le autorità religiose:
Gerusalemme era il centro dipotere della casta sacerdotale, e Gesù sembrò sfidare le autorità
del tempo.
2.6. L’ultima cena e la sua preghiera nell’orto degli ulivi sono eventi in cui si vede la fedeltà
di Gesù alla sua missione: pur prevedendo la sua morte la accoglieva secondo la volontà del
Padre.
3.1. Che significato Gesù vedeva nella sua morte? Per chi morire? E’ la questione del senso
redentivo della sua morte, e i destinatari di essa.
3.2. Quando Gesù parla del martirio dei suoi predecessori (ad es. i profeti), non aggiungeva
nulla circa il loro significato redentivo; così nella parabola dei vignaioli omicidi.
3.3. Nelle tre predizioni della passione (Mc 8, 31; 9, 31; 10, 33-34), Gesù annuncia la sua
morte imminente (non la crocifissione), e afferma che sarebbe stato in breve tempo riscattato
per mezzo della risurrezione. Si tratta forse di profezie post-eventum? Molti parlano di una
conoscenza soprannaturale di Gesù, ma non è il caso di tirare in ballo queste affermazioni,
poiché era del tutto prevedibile una morte violenta. La seconda parte di queste predizioni
(risorgere il terzo giorno) è comprensibile alla luce della fiducia incondizionata di Gesù nei
confronti del Padre (Abbà). “Dopo tre giorni” era un’espressione non necessariamente
cronologica, ma vuol significare “dopo breve tempo”, “a breve”. Anche per aspettare una
rivendicazione non ci voleva quindi una conoscenza soprannaturale. Ma tali predizioni
risalgono originariamente a Gesù? Alcuni lo negano e le attribuiscono ai credenti; ma vi è un
nucleo storico che risale a Gesù. Le prove emergono da tre fatti:
1) non si parla di una morte espiatoria, particolare che Gesù tace sempre, mentre la prima
tradizione cristiana (cfr 1 Cor 15, 3-5) interpreta subito la morte di Gesù come espiatoria.
2) non si parla della crocifissione: Gesù parla di sofferenze e di morte, ma non dice come
morirà. Se i primi cristiani avessero creato tali espressioni, non avrebbero omesso la croce;
3) troviamo un parallelo in Gv: egli cambia la portata delle parole di Gesù, ma segna la
tradizione sinottica circa questi eventi (Gv 3, 8-12): parla dicendo: “quando sarò innalzato
da terra...”. Egli, cioè, mette assieme morte e risurrezione (sarò innalzato...e attirerò tutti a
me: evento glorioso).
Dobbiamo riconoscere che questi brani non parlano del valore espiatorio della morte di Gesù:
si parla del destino di Gesù, ma non danno valore redentivo per gli altri.
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3.4. La profezia della distruzione del tempio da parte di Gesù: è un gesto simbolico. Prima
purifica il tempio, scacciandone i venditori, poi fa una profezia sulla distruzione, annunciando
un nuovo rapporto salvifico con Dio. Il Nuovo Tempio è nel cuore dell’uomo, per cui tutta la
comunità cristiana sarà il Nuovo Tempio.
3.5. Il Regno di Dio è centrale nella predicazione di Gesù, ed anche veniva introdotto il
termine , la tentazione prima del Regno finale. Si tratta delle persecuzioni, di una
dura prova (Mc 13) prima della venuta finale. Mc 14, 25, nell’ultima cena Gesù dice che
berrà un nuovo vino nel Regno di Dio. Alla vigilia della sua morte, egli la collega al Regno di
Dio venturo. Si ritiene un versetto autentico, risalente a Gesù stesso. Fare questo collegamento
vuol dire che la morte di Gesù è morte salvifica, un avvenimento del Regno della salvezza.
3.6. Le parole dell’ultima cena: abbiamo da una parte la tradizione di Paolo e Luca, e dall’altra
Mc. Però ci sono vari elementi comuni che servono ad identificare la morte di Gesù come
offerta sacrificale: lo spezzare del pane sta ad indicare il corpo di Gesù; il calice contiene poi
il vino, cioè il sangue sparso per “voi” ( o per “molti”). Quel “voi” può rappresentare sia i
presenti all’ultima cena, ma può anche avere una portata universale. L’ultima cena è
importante per stabilire il valore redentivo della morte di Gesù.
3.7. Il comportamento di Gesù è fondamentale: nel suo caso, Gesù era a servizio degli altri,
soprattutto dei più bisognosi di misericordia e di guarigione: la sua morte è l’ultimo atto di
servizio (cfr Lc 22, 27). Ecco che si può ben collegare la sua vita alla sua morte. Non solo si
dirigeva alle pecore d’Israele, ma a tutti coloro che fanno la volontà del Padre (Mt 15, 24; Mc
3,35).
3.8. Al tempo di Gesù (dai martiri Maccabei) vi era l’idea che la morte di un giusto potesse
espiare i peccati del popolo o della città. Forse Gesù aveva interpretato la sua morte come
quella del servo sofferente (Is 52/53), ma non è del tutto chiaro questo riferimento. Gesù
quindi, affronta la morte come servizio redentivo rappresentativo per tutti.
TESI 5: L’identità di Gesù rivelata mediante il mistero pasquale:
come il Messia, il Figlio di Dio e il Signore.
LA RISURREZIONE DI GESU’ (LEZ. DEL 1.03.96)
1.1. Qual è il nucleo dell’affermazione pasquale? Ci sono due modi sbagliati di rispondere a
questa domanda: a) alcuni la presentano come un mero ritorno di Gesù alla vita (come
Lazzaro) e non fanno riferimento alla vita nuova, trasformata di Gesù. Questo vuol dire
ridurre la risurrezione ad una semplice “rianimazione”. Nei Vangeli di Lc e Gv, Gesù ci viene
presentato dopo la risurrezione con una nuova condizione fisica: è libero di entrare o di uscire
da una stanza passando a porte chiuse; allo stesso tempo mangia ciò che gli viene offerto dai
discepoli, ecc.. Essi però, ci presentano Gesù in un modo “naturale”, pur facendo notare i
cambiamenti della nuova vita che Gesù possiede. 2) L’altro modo di ridurre la portata della
risurrezione è alla semplice conversione dei discepoli. In Rm 4, 25 si legge:
“[Gesù nostro Signore] è stato messo a morte per i nostri
peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione
[...]”.
In primo luogo, quindi, la Risurrezione coinvolge Gesù stesso: solo in un secondo momento
essa riguarda la nostra giustificazione.
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Vi è poi un duplice linguaggio circa la Risurrezione nel NT: quello di abbassamento (kenosi)
fino alla morte in croce, e poi quello di esaltazione, con la gloria conferitagli dal Padre. Ma il
linguaggio primario rimane quello di 1Cor 15, 3-5:
“3Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho
ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le
Scritture, 4fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo
le Scritture, 5e che apparve a Cefa e quindi ai dodici.”
Tale linguaggio è più storico: c’è un prima (morì, fu sepolto) e un dopo (è risuscitato ..è
apparso). Una cosa importante è ricordare i vari termini che nel NT vengono usati per
esprimere la Risurrezione di Gesù. Vi sono al riguardo almeno sette generi letterari :
1.21 Le formule kerygmatiche: le proclamazioni pasquali della risurrezione risultano essere
monomembri dove viene messa in risalto la sola Risurrezione (cfr 1 Ts 1, 10: “... e attendere
dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti...”, Rm 4, 24). Vi sono poi formule
plurimembri (Rm 4, 25) e quadrimembri, qual è quella di 1 Cor 15, 3-5.
1.22 Le professioni di fede pasquale: in Rm 10, 9 (“poiché se confesserai con la tua bocca che
Gesù è il Signore, e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.”),
troviamo il credo usato poi nel contesto liturgico battesimale.
1.23 Il nuovo attributo divino: nell’AT ci sono gli attributi dati a Dio; nel NT c’è un attributo
divino centrale: Dio è colui che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Gal 1,1).
1.24 La forma narrativa che troviamo nei Vangeli: i racconti della risurrezione nei Vangeli
sono in questa forma (ad es., la narrazione del sepolcro vuoto, ecc.).
1.25 La forma argomentativa e riflessa (cfr 1Cor 15, 12-58): Paolo dovendo combattere alcuni
errori e malintesi circa la fede pasquale, espone in questa forma la verità della rivelazione. Si
confutano gli errori e con la riflessione e opportune argomentazioni si mette in rilievo tutta la
portata della risurrezione.
1.26 I documenti missionari al principio di Atti: Pt portavoce del collegio dei discepoli dopo
la Pentecoste, parla della cattiva condotta umana e dell’intervento divino (“Sappia dunque con
certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore quel Gesù che voi avete
crocifisso!” At 2, 36).
1.27 Il linguaggio degli inni (Fil 2, 9; 1 Tim 3, 16) e della preghiera (cfr Gv 17,1: “Padre è
giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te...”).
1.31 Consideriamo i due verbi che vengono usati nel NT per indicare la Risurrezione: egheiro
(svegliare) e anistemi (mettere in piedi). La forma primitiva dell’annuncio della risurrezione
era: “Dio [Padre] lo ha risuscitato” (1 Ts 1, 10; 1 Cor 6,14; 15,15; Rm 10, 9), “Dio [Padre] lo
ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1; Rm 4,24). Altre volte troviamo il passivo: “fu risuscitato”,
si sottintende Dio (pass. Teologico). Troviamo anche il senso intransitivo: “è risuscitato”, così
come anche espressioni dove Gesù è l’agente della sua propria risurrezione.
1.32 Essendo risorto, Gesù vive: Lc ed altri ne parlano (Lc 24, 5-23: Gesù è il vivente, è lui la
fonte della vita nuova); nel libro dell’Apocalisse 1,18, il risorto si presenta come “il vivente”:
è lui la via la verità, la vita! La Risurrezione è dunque il punto di partenza a cui segue la vita
vera.
1.33 Il linguaggio della glorificazione è tipico degli inni: Fil 2, 1 Tim 3,16ss (“fu assunto nella
gloria”); tale linguaggio si estende anche ad altri brani del NT (Lc 24, 26; Gv 7, 39; 12, 16;
17,1).
1.34 In At 2, 32-33 si uniscono i linguaggi di risurrezione e di esaltazione, che non si
escludono affatto, ma si accordano.
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1.4 La differenza tra i Vangeli canonici e l’apocrifo di Pt: quest’ultimo ha avuto fortuna
nell’arte cristiana, perché riporta vari episodi della vita di Gesù, specie la sua risurrezione e la
testimonianza dei soldati di guardia al sepolcro (Gesù viene raffigurato in piedi fuori dal
sepolcro in mezzo ai soldati attoniti). Tale vangelo fu scritto verso la metà del II sec., e cerca
di descrivere direttamente l’evento della Ris., cosa che i Vang. canonici non fanno. Ma come
mai questi ultimi tacciono sull’argomento? La Risurrezione è l’evento escatologico, e con essa
Gesù inizia la nuova era: essa è soggetta alla fede e non può essere provata o dimostrata!
Parlando di ciò che è successo a Gesù nella ris., i Vang. usano espressioni metaforiche: Gesù
addormentato e poi svegliato dal sonno dei morti, ecc..
2. Le apparizioni
Come sapevano i discepoli che Gesù era risuscitato? Le apparizioni di Gesù sono l’evento
decisivo che si distingue dalla ris. Stessa. Le apparizioni entrano nella nostra storia: ci sono
almeno sei punti da segnalare.
1) Anzitutto l’iniziativa di Cristo risorto: 1 Cor 15 usa per quattro volte il verbo che
indica l’iniziativa divina, per farsi vedere dai discepoli;
2) i discepoli lo riconoscono come il Gesù che era stato crocifisso: Mt 28, parlando della
apparizioni del risorto, non dice mai il Cristo o il Signore, ma per cinque volte nomina Gesù:
è il Gesù maestoso che riceve l’adorazione dei suoi discepoli e delle donne, ma è comunque il
Gesù che era stato crocifisso;
3) la chiamata alla fede: Gesù invita i suoi alla fede (o li conferma nella fede). Incontrando
Gesù risorto si diventa credenti, oppure si è confermati nella fede;
4) i discepoli divengono missionari, cioè apostoli: Gesù manda i suoi a tutte le genti; in Gal 1,
Paolo dice che è diventato apostolo dei gentili dopo l’apparizione di Gesù.
5) l’esperienza dei discepoli è qualitativamente diversa e speciale rispetto alla nostra: i primi
discepoli lo incontrano in un modo singolare, mentre noi siamo chiamati a credere in lui pur
senza averlo visto. Rahner, nel suo Corso fondamentale sulla fede, ha considerato questa
testimonianza speciale dei “fondatori” del cristianesimo. Essi hanno avuto la missione
speciale di fondare la Chiesa col loro stesso fondatore.
6) L’esperienza dei discepoli è di tipo “visivo”: sono testimoni oculari. Tutto questo si nota
nel linguaggio adoperato (1 Cor 9, Gv 20, 18: Maria di Màgdala dice “ho visto il Signore”).
Mentre i profeti dell’AT sono uditori della Parola di Dio, i discepoli sono testimoni oculari.
2.1. Il ritrovamento del sepolcro vuoto è un altro segno che conferma la fede pasquale.
All’inizio suscita delle ambiguità: forse hanno rubato il corpo del Signore! E’ chiaro che da
solo questo elemento non prova la risurrezione. C’è però un nucleo storico: se difatti i primi
cristiani avessero voluto dare un valore centrale al sepolcro, non avrebbero riportato la
testimonianza delle donne (che per i giudei non aveva valore), ma degli uomini.
2.2. La portata teologica del sepolcro vuoto: il dibattito storico non produrrà mai buoni
risultati circa la testimonianza del sepolcro vuoto. Occorre una visione teologica di questo
dato: il fatto che il sepolcro è vuoto simboleggia la pienezza della vita contro la sconfitta della
morte. Non esiste più la morte per chi crede in Gesù, ma solo la pienezza della vita.
2.3. Ricordiamo altri segni che confermano la fede pasquale, primo fra tutti il dono dello
Spirito. Anche il ricordo degli apostoli del Gesù prepasquale; le scritture: per la ris. di Gesù,
c’erano solo pochi versetti dell’AT che le si riferivano. Diversamente per la sua passione e la
sua morte (cfr Is 52-53). Inoltre, predicando Gesù risorto, i discepoli sperimentarono la sua
potenza attraverso il “successo” riscosso nella loro nuova missione.
LA RISURREZIONE DI GESU’ (CONT.) LEZIONE DEL 2.03.96
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 18
Partiamo dalla DV: economia della Rivelazione e storia della Salvezza. Nel primo capitolo
della costituzione dogmatica si parla di questi due temi, due punti importanti del nostro
discorso.
1.1. La rivelazione pasquale; in essa si rivela il Dio trino. Con il mistero pasquale, Dio viene
rivelato come Padre, Figlio e Spirito santo. Gli avvenimenti del Venerdì santo, della Pasqua e
della Pentecoste costituiscono lo specchio dell’esistenza trina di Dio. L’autocomunicazione
pasquale di Dio riflette la sua esistenza “tripersonale”. La missione del Figlio e dello Spirito
mostrano come Dio sia ad-intra.
1.2. La missione del Figlio non è una missione qualsiasi: essa è missione “in relazione”,
poiché inviato dal Padre per rivelare il piano di Salvezza. Il Figlio dipende, è in relazione al
Padre, e tale relazione raggiunge l’apice nella missione pasquale. Gesù mostra inoltre di avere
delle pretese, in virtù di tale relazione: a) annuncia il Regno; b) come il FdU, dice di essere il
giudice escatologico; c) egli è l’inviato del Padre (come allude nella parabola dei vignaioli
omicidi omicidi); d) ha autorità sul tempio, sul sabato, sulla legge... Le sue pretese sono
legittimate: non è il bestemmiatore, ma è il Messia, FdD, rivendicato dallo stesso Dio che lui
chiama Abbà. Tali pretese sono dunque “relazionali”, ossia dipendono dal Padre: in relazione
a Lui, G. è rivelato FdD, Messia, FdU, ecc.. Tali pretese vengono rivendicate dalla
Risurrezione stessa, come dimostrano i seguenti testi:
Rm 1, 3-4: “[...] riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di
Davide secondo la carne, e costituito Figlio di Dio con potenza
secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai
morti, Gesù Cristo, nostro Signore.”
At 2,32-36: “Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne
siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo
aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva
promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire.
[...] Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio
ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete
crocifisso!”
In Fil 2,6-11, Gesù è il Signore che tutto il mondo dovrà adorare e riconoscere come tale
(“ogni ginocchio si pieghi ed ogni lingua proclami che G. è il Signore”); Mt 28,9-17 descrive
Gesù che riceve l’adorazione dalle donne e poi dai discepoli.
1.3. La risurrezione serve per rivelare la vera identità “in relazione” di Gesù: essa vuol dire
anche “Nuova Creazione” e mette in luce un’altra prerogativa di Gesù, quella di essere
creatore. Non vi è nel NT la testimonianza di Gesù come creatore di tutto l’universo: ma
risorgendo dai morti egli è riconosciuto come creatore del mondo (cfr 1 Cor 8, 6: “Gesù
Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui.”; Col 1,15-17: “[...] per
mezzo di lui tutte le cose sono state create [...]”). Forse ciò si può vedere implicitamente nei
Vangeli, in qualche miracolo operato da Gesù.
1.4. Lo Spirito santo e la sua missione: La rivelazione pasquale include la venuta dello Spirito
santo. La seconda missione, dello Spirito, raggiunge il suo culmine a Pasqua. E’ chiaro che lo
Spirito agiva anche prima, ma la sua missione raggiunge il culmine con l’esperienza pasquale.
Lo Spirito non si incarna: il Montanismo (II-III sec) affermava questa possibilità; nel
cristianesimo ortodosso non si parla assolutamente di questo, ma lo Spirito è colui che ci
rende figli nel Figlio! Lo Spirito non si incarna ma è effuso nei nostri cuori. Lo Spirito viene
per attualizzare per noi la relazione che esiste tra il Padre ed il Figlio. Egli ci porta a
condividere in qualche modo quella relazione intratrinitaria. Ciò che lo Spirito fa per noi
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corrisponde a ciò che Egli è all’interno della Trinità: Egli è l’Amore tra il Padre ed il Figlio, e
tramite la Pasqua ci lascia entrare in questo rapporto d’amore.
1.5. Il mistero trinitario è così rivelato nel mistero pasquale: S.Paolo, sin dalla 1Tess, esprime
la rivelazione del Dio trino in chiave pasquale. Anche Mt (28,19) prende dalla sua comunità la
formula battesimale, usata ancora oggi, e la inserisce nel contesto pasquale: non è un fatto
casuale. Fa così perché vuol dire che il mistero pasquale è il culmine della rivelazione e va
interpretato in chiave trinitaria. Così in Lc (24) e nei primi capitoli degli Atti, si vede come il
culmine della Rivelazione sta nella morte e risurrezione di Gesù, con la venuta dello Spirito
santo. Anche Gv considera questa relazione (v. cc.13-20). Gv è il Vangelo della Riv. per
eccellenza; egli capisce che la riv. del Dio trino sta nel mistero pasquale. Questo mistero,
però, è stato compreso gradualmente: non si dubitava che Gesù fosse una persona distinta dal
Padre, ma si dubitava che fosse realmente Dio.
Fino al Concilio di Nicea, ed anche dopo, ci furono vari dibattiti. Così circa lo Spirito, si
capiva la sua divinità, ma non si capiva se fosse una persona distinta dalle altre della Trinità.
Nicea stabili che Gesù era veramente Dio, e Costantinopoli I stabilì l’identità personale dello
Spirito santo.
1.6. Ma il NT ci dà dei chiari indizi sulla “tripartizione” delle persone divine (cfr Mt 28,20).
1.7. Tramite le due missioni, di Gesù e dello Spirito, i Padri e i primi cristiani hanno
conosciuto la vita interna di Dio. Dobbiamo però distinguere all’interno delle azioni “ad-
extra” di Dio (azioni comuni alle tre persone divine), le peculiarità di ogni singola persona,
poiché ogni persona agisce in modo ad essa conforme (cfr la teoria delle attribuzioni, corso
del prof. Ladaria). Così, ed es., solo il Figlio si incarna, e non il Padre o lo Spirito; allo stesso
modo è lo Spirito che è effuso nei nostri cuori, e non il Padre o il Figlio. L’azione “ad-extra”
coinvolge tutta la Trinità, ma ogni persona agisce in maniera ad essa propria.
2. La Salvezza attuata tramite il mistero pasquale. Il mistero pasquale, è il culmine della
salvezza umana e cosmica.
2.1. Il dono: l’effetto che procurato dal mistero pasquale è definito con più termini nel NT.
C’è una ricca terminologia a riguardo (salvezza, redenzione ecc..).
2.2. L’agente: Gesù riceve diversi titoli per esprimere ciò che lui ha compiuto: il mediatore,
Salvatore, Sommo sacerdote, ultimo Adamo. In Atti 2,36 si dice che Gesù divenne il “Messia
efficace”, morendo e risuscitando. Egli lo era sin dall’inizio, ma in modo ancora più esplicito
nella Pasqua. Luca chiama Gesù Messia e salvatore (cfr Lc 1, sulla nascita di Gesù). In Rm
1,4, Gesù è detto Figlio di Dio “con potenza” e co-datore dello Spirito.
Per esprimere la redenzione e la salvezza di Gesù, 1000 anni fa circa si usavano, sulle lapidi,
le espressioni , poste a forma di croce:
2.3. I beneficiari: sono tutti gli uomini (Lc 24,47; At 2,17; Gal 3, 26-28); Paolo, mediante la
risurrezione, afferma che la salvezza è aperta a tutti gli uomini, per mezzo dello Spirito (Rm
8,18-23).
2.4. Il “luogo” visibile della salvezza è la Chiesa: Cristo risorto non si “vede” più, ma la sua
presenza è visibile nella Chiesa: la risurrezione di Gesù dà inizio alla Chiesa, unitamente
all’effusione dello Spirito. Lo Spirito vive nella Chiesa (cfr 1Cor3), e Paolo dice che la
Comunità è il tempio dello Spirito. Gal 3, 26-27: quanti sono battezzati in Cristo è rivestito di
Cristo e lo Spirito è effuso nei loro cuori. Questo è il linguaggio tipico paolino.
2.5. Cristo è il primogenito, il “fratello maggiore” di molti fratelli e sorelle: Paolo interpreta
così il mistero pasquale. Gesù è la primizia della vendemmia, secondo un’immagine di Paolo.
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Risorgendo dai morti Cristo ha iniziato a cambiare il mondo, indirizzandolo verso gli ultimi
tempi (l’escaton).
3. Parlando della morte e risurrezione di Cristo, conviene seguire la GS, che non parla mai
della morte di Cristo senza il riferimento alla risurrezione e viceversa: le due dimensioni
dell’unico mistero pasquale vengono così tenute assieme. Questo è il centro della Cristologia,
e la liturgia ne è la testimonianza principale. La croce gloriosa getta una nuova luce verso il
futuro (parusia), ma illumina anche il passato. Ciò che sta al centro non esclude né il prima né
il dopo, ma li illumina e dà senso a tutta la realtà.
Storia passata Parusia
LA DISCESA AGLI INFERI, L’ASCENSIONE E LA PARUSIA (LEZIONE DEL 4.03.96)
Parleremo di questi tre misteri Cristologici, che sono strettamente collegati tra loro. Tutti e tre
figurano nel nostro “Credo”, e nella nostra liturgia, il brano classico che si legge nella IV
preghiera eucaristica, subito dopo la consacrazione dice: “In questo memoriale...****
La liturgia introduce tutti e tre questi misteri, e segue la logica della Lex orandi, credendi e
theologiae: se preghiamo in questo modo, vuol dire che Crediamo così, e per cui dobbiamo
fare la nostra riflessione teologica in quel modo.
1. “Discese all’inferno”
Inferno vuol dire “mondo inferiore” (gli inferi): possiamo dire anche il Regno della morte,
dove anche Cristo entra. Per tale evento abbiamo due spiegazioni:
1.1. Chiesa Orientale: Cristo è descritto in questa sua discesa agli inferi in un modo attivo.
Nell’iconografia bizantina si raffigura Gesù che libera Abramo e i Patriarchi; si raffigura
anche la porta degli inferi con accanto il diavolo, mentre al di fuori vi è Gesù che chiama con
sé le anime dei giusti. Con la sua attività Cristo introduce i defunti alla vita eterna con Dio.
Gesù raggiunge quindi l’umanità passata: la sua morte ha questo potere anche sul tempo;
1.2. Chiesa Occidentale: essa riprende anche la spiegazione orientale, ma vi è una visione del
Cristo più passiva. Nel breviario abbiamo una lettura che parla di Gesù che libera Adamo ed
Eva (nell’Ufficio del sabato santo). In 1 Pt 3,18-20, senza entrare nell’esegesi del brano, si
parla del Cristo predicatore e vincitore (“E in Spirito andò ad annunziare la salvezza agli
spiriti che attendevano in prigione [...]”). Nella storia della Chiesa si interpretava quel brano
come la discesa agli inferi di Gesù: Egli libera i Patriarchi combattendo Satana. Ma la
spiegazione della Chiesa occidentale fa vedere che, se Gesù scende agli inferi è perché è
realmente morto! Gesù fu sepolto tra i morti. Ilario di Poitiers, nella sua opera sui Salmi
(53,138), segue questa linea interpretativa.
1.31 S. Tommaso d’Aquino ha chiarito la differenza esistente tra il “limbus patrum” e la
“geenna”. Egli distingueva questi due luoghi dello Sheol: il limbus patrum era il luogo dove si
trovavano i Patriarchi e i giusti; la geenna era il luogo dei dannati.
1.31 Lutero e Calvino affermano che la discesa agli inferi rappresenta semplicemente un
aspetto della morte di Gesù: egli, nella sua passione e nel momento della sua morte, soffre
l’abbandono da parte del Padre, poiché su di lui si è abbattuta “l’ira di Dio”. La discesa agli
inferi non è così un evento “post-mortem”, successivo alla morte, ma è un modo di parlare di
tutta la passione di Gesù.
1.33 H. Urs von Balthasar mette in rilievo questo mistero Cristologico, ed indica la solidarietà
con i defunti ed i peccatori: Cristo ne condivide la sorte, lontano dall’amore e dalla vita in
un’alienazione estrema da Dio.
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2. L’ascensione
2.1. E’ l’evento strettamente connesso alla Risurrezione, essendone un momento intrinseco:
ricorda la glorificazione di Gesù. Nella Bibbia si usano, in proposito, espressioni con il verbo
coniugato in forma passiva ed attiva: ad es., al passivo è elevato, glorificato, salito al Padre
(vedi 1° foglio sulla risurrezione, §1.33 e 1.34); in forma attiva, vedi Lc 24 (i discepoli di
Emmaus), dove Gesù dice che tutti gli eventi che lo riguardavano erano necessari per entrare
nella gloria del Padre. Ascensione, inoltre, non vuol dire assenza: difatti Gesù è sempre
presente, ma in un modo nuovo, mediante lo Spirito. In Mt 28, 20 Gesù dice infatti: “Ecco, io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Allo stesso modo Lc non dice che Gesù è
assente, tanto che nel libro degli Atti Gesù si manifesta nella vita di Paolo: egli è dunque
presente. Si tratta di una nuova presenza: Gesù vive ora in cielo, ma questo cielo non è
lontano da noi.
2.2. Lc, in Atti 1,9-11, sviluppa il mistero Cristologico dell’ascensione in modo narrativo.
Egli descrive vari elementi. La nube: rappresenta la signoria divina, che sottrae Gesù allo
sguardo dei discepoli. Ascensione vuol dire per Lc anche la fine delle apparizioni; vi è solo
l’eccezione per Paolo, sulla via di Damasco.
Inoltre, Lc vede l’ascensione come evento necessario per la venuta dello Spirito, e segna
anche il tempo della Chiesa. L’ascensione sembra essere una Parusia “invertita”: gli stessi
elementi, il cielo, la nube e gli angeli, vengono descritti in entrambi i casi ma in modo
invertito. Lc lega quindi i due eventi del Cristo risorto.
Un’osservazione liturgica: fino al 370, nella Chiesa occidentale, si celebrava a Pentecoste
anche l’Ascensione di Gesù al cielo. Solo dopo quella data l’Ascensione cominciò ad essere
una festa a parte, celebrata dopo 40 giorni la domenica di Pasqua. Lc non ci dà degli elementi
chiari per collocarla 40 giorni dopo Pasqua (cfr Lc 24,51 e At 13,31).
3. La Parusia
3.1. Anche questa realtà è legata alla Risurrezione. Nel Credo si dice: “verrà nella gloria per
giudicare i vivi ed i morti”. La Parusia è la venuta di Gesù con potenza e gloria, nella veste di
giudice escatologico. Questo momento coincide col “giorno di Jahvé”. L’AT parlava di questo
giorno escatologico, atteso alla fine dei tempi. Nel NT quel giorno coincide con la Parusia.
3.2. Il termine vuol dire “visita”, di una persona importante: un imperatore, un alto
funzionario, ecc.. Il termine è usato in Matteo (24,3.27.37.39), nelle lettere di Paolo (1Ts 2,19;
3,13; 4,15; 5,23; 1Cor 15,23).
3.3. A volte si parla del “ritorno” del Signore, ma non è un termine felice, perché dà
l’impressione che il Signore sia assente, sia andato via. La Parusia è invece, un evento
pubblico, un modo diverso di essere presente di Gesù. Nel primo avvento Cristo venne in
umiltà, nella sua kenosi: ha assunto la forma di servo; il secondo avvento sarà nella gloria e
nella potenza. Ecco perché non è il caso di parlare di “ritorno”.
3.4. I sinottici parlano della Parusia, ma in modo differente: vi è continuità, ma anche
discontinuità. Per essi il messaggio del Gesù prepasquale è essenziale: parlano del secondo
avvento alla luce della predicazione di Gesù. Egli aveva parlato del FdU che sarebbe venuto
per giudicare: questo è il cuore del discorso sinottico, e Mt, Mc e Lc pensavano che quel
giorno del giudizio fosse imminente.
3.5. Per Paolo vi è un accento diverso: collega la Parusia alla risurrezione dai morti. In 1Cor
15 si trova questo aspetto. Paolo non parla mai, rispetto ai sinottici, del FdU che verrà nella
gloria. C’è un’attesa prossima, nelle lettere paoline: Cristo non è apparso nella gloria così
come si attendeva. I primi cristiani attendevano la Parusia imminente; c’è un accenno in 2Pt,
ma non si tratta di un vero e proprio “imbarazzo” dei cristiani. Essi si erano abituati al fatto
che la Parusia non si fosse verificata, compreso lo stesso Paolo.
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 22
3.6.Un aspetto più teologico sulla Parusia: essa è già iniziata, non è un avvenimento
completamente futuro. Nel fatto che Gesù è asceso al cielo indica che l’umanità di Cristo è
glorificata. La Parusia è già iniziata, e non è solo un evento futuro: è chiaro che la gloria di
Cristo sarà definitivamente manifestata nel futuro, ma essa è già presente. Ora, questa
presenza è nascosta, ma possiamo ugualmente pregare: “Maranatha, vieni Signore Gesù.” (cfr
1Cor 16,22 e Ap 22,20).
LETTERATURA RECENTE SULLA RISURREZIONE. LEZIONE DEL 5.03.1996
1. Gerd Luedemann (in Die Auferstehung Jesu: Historie, Erfahrung, Theologie, Gottingen
1994): dalla prima pagina del suo libro, si propone di fare una ricerca storica con onestà e
libertà. Divide gli studiosi in due gruppi: quelli che si uniscono a lui nel suo scopo, e tutti gli
altri, che - per lui - sono fondamentalisti e non cercano la verità storica con onestà. Pretende di
avere una superiorità morale sugli altri che soffrono di dogmatismo, fondamentalismo ecc. La
sua epistemologia: per lui sapere vuol dire guardare semplicemente i fatti, ma questa è una
posizione alquanto ingenua.
1.2. Per lui Pietro e Paolo sono i testimoni centrali della fede pasquale, e cerca di spiegare la
loro esperienza alla luce della psicologia profonda (come Freud). Pt era in lutto, aveva tradito
Gesù, ecc..., così si sentiva profondamente colpevole. All’improvviso ebbe un’immagine
vitale di Gesù: non il maestro in persona, ma un’immagine che ha permesso che Pt uscisse
dalla sua condizione. L. si serve delle dinamiche della colpa per spiegare come Pt sia arrivato
alla nuova fede, la quale si è velocemente propagata agli altri discepoli. Per illuminare questa
reazione a catena L. si rifà a due autori: Le Bon e Renan. Si tratterebbe, così, di una
allucinazione collettiva, quella che ha coinvolto i discepoli. Ma Le Bon era assolutamente
contro la religione e assieme a Renan non costituivano una voce scientifica a proposito.
L’allucinazione poi, è una vera e propria forma di malattia mentale, non è accettabile nel caso
dei discepoli. Una ricerca valida, invece, era quella fatta da L. ad Harvard, circa la “dinamica
del dolore”, studiando alcuni casi di 43 vedove e 19 vedovi. Il valore di questa ricerca, anche
se ben fatta, non si adegua al caso di Gesù, di Pt, di Paolo e degli altri. Ci sono due
circostanze che lo dimostrano: 1) G. nel suo ministero, aveva una pretesa straordinaria: la sua
autorità eccezionale e la sua figliolanza divina. Nel caso dei vedovi di Harvard, essi erano
persone normali, senza pretese di sorta; 2) la natura della morte di G. è del tutto singolare,
rispetto alla morte dei coniugi di Harvard. La crocifissione di G. era uno scandalo terribile: vi
è dunque una differenza considerevole, che non permette di giungere ad una conclusione
significativa.
1.3. Per l’esperienza di Paolo, L. si rifà al brano di Rm 7, e L. sa benissimo che la maggior
parte degli studiosi escludono che lì si parli dell’esperienza autobiografica di Paolo. Gli
esegeti infatti hanno lasciato questo tipo di interpretazione. Paolo parla in generale, dell’uomo
non redento, bisognoso della grazia di Cristo. L., però, afferma che quell’esperienza è
personale: Paolo è visto lì come uno pieno di complessi e di conflitti inconsci, desideri
soppressi ecc.; poi giunge l’immagine di Cristo e i problemi si risolvono. E’
un’interpretazione inaccettabile. Problema: come scrivere una psicobiografia di personaggi
morti quasi 2000 anni fa? Normalmente gli storici mettono in dubbio il valore di una tale
opera: i dati sono infatti scarsissimi e si rischia la pura speculazione. La psicologia moderna
non è monolitica, ma vi sono varie scuole.
E’ un processo rischioso, da parte di L., accogliere una scuola escludendo il dialogo o il
dibattito con le altre.
1.4. Anche sulle altre osservazioni, L. non fa delle considerazioni nuove, ma ripete teorie che
altri hanno già proposto: ad es. l’esperienza del perdono come centrale.
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 23
Ad es., L. non cita mai Schillebeeckx, il quale afferma che la chiave di lettura dell’esperienza
di Pt e degli altri è il perdono. Dove troviamo questo nei Vangeli? Sembra non esserci nulla,
neanche in Paolo quando parla della sua esperienza (1 Cor 15, 5-8; 1 Cor 9,1, Gal 1, 12-16;
Fil 3,8). Lc ne accenna appena, e un po’ di più Gv. (20). Nel contesto della Pasqua, manca
dunque questa testimonianza; pertanto, se fosse veramente centrale si sarebbe trovata
maggiormente nei testi pasquali.
Inoltre, 1 Cor 15,6 per L., risale all’esperienza collettiva dello Spirito santo di At 2, 1-13.
Paolo, in 1 Cor 15, parla dell’apparizione a più di 500 persone, un’esperienza straordinaria,
che non si trova altrove. Da più di un secolo, si confronta quel testo con Lc e At: ma i numeri
e l’esperienza non coincidono. At 2 parla di un’esperienza pneumatologica, mentre 1 Cor 15
non fa questo riferimento allo Spirito. Sembra quindi una forzatura: mettere assieme At 2 e 1
Cor 15,6.
Inoltre l’esperienza della via di Damasco , L. la spiega alla luce di 2 Cor 12, 1-10. L’incontro
sulla via di Damasco avviene circa verso il 35 d.C. In 2 Cor. Paolo parla di altre esperienze: il
cuore del discorso è un viaggio “celeste”, dove lui viene rapito in Paradiso. Lì non vede
nessuno ma riferisce di aver ascoltato parole indicibili. L’esperienza di Paolo in 2 Cor è molto
diversa da quella della via di Damasco. In quest’ultimo caso egli divenne Apostolo, mentre in
2 Cor, già lo era.
Ancora, in Ap 1,9-20, Luedemann cerca di trovare il paradigma per gli incontri pasquali. Ma il
veggente di Ap non diventa un apostolo, un testimone del risorto. Quella visione funziona in
modo diverso, e non può illuminare l’esperienza postpasquale. Vi è poi che l’esperienza
postp. è caratterizzata dall’estasi e dalla luce (cfr At 10): in realtà il NT parla dell’estasi, ma
mai nel contesto dei racconti pasquali. Circa le esperienze “luminose” (cfr At 9,22-26), esse
non rientrano nel contesto pasquale. L’apparizione a Maria di Màgdala ha un’attestazione
multipla (Mt e Gv), ma L. non la accetta come esperienza storica.
1.5. Alla fine scopriamo una certa incoerenza nella teoria di L.: egli afferma che tutto è da
giudicare alla luce di ciò che è “storicamente probabile”; però le prove storiche non bastano.
Questa sua seconda affermazione può essere accettabile, perché le prove storiche non
basteranno mai per la fede: occorrono altre esperienze: la preghiera, la comunità ecc.. Circa la
fede, egli segue ciò che disse W.Marxen negli anni ’70: la morte e la risurrezione di Gesù non
aggiungono niente alla fede, ma tutto si trova già nel suo insegnamento. L’esperienza pasquale
non conterebbe dunque per la fede cristiana.
2. Caroline W. Bynum: il suo metodo è buono, servendosi non solo della Bibbia, del
Magistero, della Teologia patristica e medievale, ma investiga personalmente sull’arte, sul
culto, sulla liturgia, sulle usanze funerarie ecc.. Ci sono due conclusioni ricavabili dal suo
studio: a) vi è una certa resistenza popolare ed ufficiale a ridurre la vita nuova ad un’esistenza
puramente spirituale; b) vi è continuità tra il nostro essere terrestre e la vita da risorti. Ciò si
vede già nella storia di Gesù; per mezzo del suo corpo Gesù era in relazione con il mondo, ed
esso è risorto con lui, in tutte le sue dimensioni. Molti non sono d’accordo, e affermano che
risorgeremo in modo indifferenziato: la nostra storia terrena sarà dimenticata. C.W.Bynum
studia la risurrezione in generale, tenendo però al centro la risurrezione di Gesù.
IL FIGLIO DI DIO (LEZIONE DEL 8.03.’96)
Una delle affermazioni del credo dice: “Credo nel Signore Gesù Cristo, unigenito Figlio di
Dio”; ma oltre al credo abbiamo diversi luoghi dove il titolo FdD è centrale. E’ chiaro che i
titoli non dicono tutto di Gesù: occorre esaminare anche ciò che lui disse e operò. I Titoli
hanno tuttavia un’importanza anche liturgica, e servono per riassumere la nostra fede
Cristologica. Ci rivolgiamo ora tre domande:
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1. Da dove proviene tale titolo, qual è la sua origine (FdD)? Nel I sec., nel mondo romano-
ellenistico si applicava tale titolo all’imperatore, e alcuni hanno formulato l’ipotesi che i
cristiani abbiano preso dal mondo pagano-ellenistico tale titolo che poi avrebbero applicato a
G.. Ma tale titolo risale forse a G. stesso, nella sua predicazione? G. non ha parlato mai del
FdD, ma almeno per tre volte si riferisce a se stesso indirettamente come Figlio (Mc 12, 1-12,
la parabola dei vignaioli omicidi; 13, 32: “Quanto poi al giorno o a quell’ora, nessuno li
conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre.”; Mt 11, 27:
“Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre...”). Possiamo
anche vedere nell’AT quale significato aveva tale titolo.
2. Il senso del titolo: alcuni vogliono interpretare il titolo FdD solo in senso funzionale: G. era
il F. nel senso che rivelava Dio, una sorta di finestra attraverso la quale possiamo vedere Dio;
la funzione salvifica dimostra che G. ci ha salvato. Ma forse è da trovare nel titolo un
elemento ontologico, intrinseco: nel linguaggio biblico, chiamare qualcuno con un nome o un
titolo rivela l’identità più intrinseca, più profonda.
3. Perché viene dato il titolo FdD a Gesù? I primi cristiani diedero questo titolo a G., ma ci si
chiede perché. Rm 1, 3-4 assieme ad altri testi, può suggerirci la risposta a tale domanda. I
primi cristiani diedero tale titolo a G. solo alla luce della risurrezione. Presi da soli questi
versetti possono far vedere che è la risurrezione a dare ragione di tale titolo. Così in At 13,33,
Lc cita i versetti del salmo (2,7): “Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato”, dove Lc applica quel
salmo all’evento pasquale, e la risurrezione è vista come una sorta di generazione di Gesù da
parte di Dio. Quel versetto da solo può suggerire che i cristiani, solo dopo la risurrezione
diedero tale titolo a Gesù.
Tale titolo potrebbe rievocare anche il ministero di G.: ricordando il G. prepasquale, il suo
operato potrebbe aver fatto sorgere tale titolo. Le tre domande non sono strettamente separate,
ma possono essere distinte. Da dove venne il titolo in questione, a che periodo risale?
1.1. Nell’AT fdD, o i figli e le figlie di D sono espressioni rare. Gli angeli sono detti fdD (Gb
2,1), ma soprattutto il profeta Osea (11,1) chiama il popolo “FdD”: il contesto originale di
Osea sta ad indicare che la figliolanza del popolo non è biologica, ma è a causa dell’elezione
divina. Ci sono altri testi in cui il popolo è chiamato con tale titolo. A volte il linguaggio è
inclusivo: i figli e le figlie. Inoltre il titolo è riferito a qualche individuo: ad es., il re, nel
giorno della sua incoronazione è detto FdD (cfr Sal 2,7 riferito a Davide; 2 Sam 7,14)). Anche
qualche individuo giusto è detto fdD (cfr Sap 2): il giusto che soffre ed è ucciso è detto fdD.
La sua obbedienza ed il suo rapporto con Dio gli ha meritato tale titolo. I Profeti non vengono
mai chiamati fdD: essi sono chiamati, mandati da Dio, ispirati dallo Spirito, ma mai chiamati
fdD. Vi è poi una domanda spinosa riguardo al fatto che fdD era già un titolo messianico: tra i
documenti di Qumran si vede che al tempo di Gesù tale titolo stava entrando come titolo
messianico. E’ naturale che se il re Davidico era detto FdD, il suo discendente, il Messia
regale, merita lo stesso titolo. Nell’AT però non è chiaro: solo con i documenti di Qumran si
nota il fatto che si inizia ad usare FdD come titolo messianico. Forse Figlio dell’Altissimo nel
primo cap. di Lc è da interpretare così: l’angelo chiama il figlio che Maria genererà in quel
modo per indicare che sarà il Messia. Vediamo anche che Dio viene chiamato Padre: mentre
il titolo fdD nell’AT si trova in qualche brano, il titolo Padre riferito a Dio è molto raro. Solo
15 volte troviamo Dio come Padre del popolo, e nel Sal 89 si dice che egli è Padre del Re, ma
mai padre di tutti gli uomini. Nel libro del profeta Isaia si usa l’espressione padre nostro,
almeno due volte, mentre padre mio si trova solo nel Sal 89, ma sono parole che Dio mette
sulla bocca del Re. Il rapporto però non è simmetrico: Dio chiama il popolo Figlio, ma Dio
non chiama Dio come Padre. Gesù, quindi prende un modo di dire dell’AT, ma gli attribuisce
un significato molto più profondo.
1.2. Il primo scritto cronologico dei cristiani risale a S.Paolo: egli usa 17 volte il titolo FdD.
Egli infatti usa molto di più i titoli Signore (Kyrios) e Cristo, ma laddove è usata l’espressione
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 25
FdD, il brano è centrale: ad es., in Gal 4,4, Rm 1,4 ecc.. Il contesto di Paolo è dunque
importante e significativo. E’ da notare che Paolo prende tale titolo da qualche tradizione più
antica: 1 Tess 1,10 è il frammento kerygmatico, dove Paolo cita una formulazione tradizionale
in cui G. è detto FdD. Inoltre, Paolo non cerca mai di dimostrare che G. è FdD: egli lo dà per
scontato. Paolo dunque non è il primo ad attribuire tale titolo a G., ma esso apparteneva alla
tradizione primitiva.
1.3. Nei sinottici è facile trovare tale titolo: abbiamo detto prima che G. non parla mai
direttamente di se stesso come FdD, ma per tre volte indirettamente si definisce come Figlio.
Mt 11 e Mc 12 (contesto pubblico) e Mc 13(contesto dell’insegnamento privato di G.) sono i
tre testi sopra citati. Mc 13, 32 è un testo imbarazzante poiché G. afferma di non sapere l’ora
ultima: solo il Padre ne è a conoscenza. G. sembra riconoscere un limite alla conoscenza del
Figlio. Mt 11,27 è un’espressione semitica che evidentemente risale a G. stesso, che conosce
il Padre e viceversa: conoscenza mutua ed esclusiva.
1.4. Nei sinottici alcuni chiamano G. Figlio di Dio: per Mt (16,16), Pt non solo dice a Gesù
che è il Messia, ma aggiunge Figlio del Dio vivente. Il Vangelo di Mc raggiunge il suo
culmine con la confessione del centurione (Mc 15,39); gli spiriti maligni lo riconoscono come
il Figlio; la voce di Dio stesso nel Battesimo e nel giorno della trasfigurazione, chiama G. il
Figlio di Dio. Durante il ministero di G. qualche uomo lo ha riconosciuto veramente come
FdD? E’ probabilmente da dubitare. I discepoli lo hanno forse riconosciuto come Messia; altri
lo riconoscono come profeta escatologico e maestro, ma non è probabile che lo abbiano
riconosciuto come FdD. Dopo la risurrezione i cristiani cominciarono presto a riconoscere G.
Come FdD, ma non così durante la sua vita terrestre.
1.5. Vi è nei sinottici il titolo di Dio come Padre: G. parla abbastanza di Dio come Padre:
“Padre mio”, “il padre vostro celeste”, ma quest’espressione di Matteo pare che non si possa
attribuire a G. stesso. Nonostante tutto è chiaro che G. parlava di Dio come Padre. Egli
distingueva la propria figliolanza da quella dei discepoli: i discepoli ricevono la loro
figliolanza da G.. Il titolo aramaico “Abbà” si trova nei Vangeli una sola volta (Mc 14,36) al
Getsemani, ed indica il rapporto intimo tra padre e figlio. E’ un’espressione insolita, poiché
non abbiamo nessun caso in cui prima di G. qualcuno abbia chiamato Dio come Abbà.
Evidentemente quest’uso tipico di G. ha spinto gli altri cristiani a fare lo stesso: in Gal 4,6 e in
Rm 8,15-16 vi sono due riferimenti al cristianesimo primitivo che adotta tale titolo. Ma G.
chiamava in altri momenti Dio come Abbà? Sembra di si. In Mt 6,9; 11, 25-26; 16,17 e Lc
11,2 dietro la parola greca si cela l’espressione aramaica Abbà. Purtroppo Mt e Lc hanno tolto
l’espressione aramaica quasi sistematicamente. Lc toglie tutte le espressioni aramaiche che
prende da Mc (vedi la risurrezione della figlia di Giàiro): in Mc ci sono alcune espressioni in
aramaico che sembrano risalire a G. stesso. Solo due termini aramaici sono rimasti in Mt 21, 9
(Osanna) e 27,33 (Gòlgota). La figliolanza di Gesù era dunque unica ed esclusiva e il testo di
Mt 11,27 è centrale. Inoltre, G. invita i discepoli ad entrare in una nuova famiglia, dove essi
diventano suoi fratelli, accettando Dio come Padre: la loro figliolanza dipende da G. (Lc
22,29-30) ed è diversa dalla sua. A tale proposito colpisce la predicazione di Gesù e la
teologia di Paolo e Gv. Paolo mantiene la distinzione di G. stesso e dice che noi siamo figli e
figlie adottivi (Rm8,14-17, Gal 4, 5-7). Gv esprime la distinzione usando vari termini: solo G.
è il huiòs (il Figlio), mentre noi siamo tèkna.
2.1. Il titolo FdD non è semplicemente funzionale ma senz’altro indica qualcosa in più:
indubbiamente il NT mette in rilievo la funzione di G. che rivela il Padre a quelli che credono,
in quanto come Figlio si comporta come salvatore. La sua funzione rivelatrice e salvifica
implica qualcosa di ontologico: G. agisce come figlio perché lo è!
2.2. Passando a Paolo possiamo notare che egli parla di G. come FdD nella sua esistenza
risorta: potremmo coniare il termine post-esistente per indicare l’esistenza del G. risorto e
glorificato che crea la nuova famiglia escatologica (cfr Rm 8,3-32 dove Gesù è il primogenito
risorto post-esistente che introduce nella nuova famiglia escatologica di Dio tutti i battezzati).
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Allo stesso tempo nelle lettere di Paolo c’è anche la pre-esistenza del Figlio: non è molto
sottolineata da Paolo, però vi è qualche riferimento all’attività nella creazione (1Cor 8,6), e la
successione missione nel mondo per rendere gli uomini partecipi alla nuova famiglia
escatologica (Gal 4,4-7). Si capisce abbastanza bene la figliolanza divina di G. nelle lettere di
Paolo alla luce di questi due termini: postesistente e preesistente.
3.1. I cristiani riconobbero G. come FdD indubbiamente alla luce della risurrezione; però essi
non dicono che G. divenne FdD risorgendo dai morti: questa è l’interpretazione ortodossa.
Alcuni infatti sostengono che la figliolanza divina iniziò soltanto con la risurrezione e
l’esaltazione, citando i primi versetti della lettera ai Rm. Ma in quella stessa lettera Paolo dice
chiaramente che G. era già il Figlio nella sua missione “economica” (Rm 8,3.32). Un
problema analogo lo abbiamo in Lc, quando applica a G. il versetto del Sal 2,7: Lc vuol
leggere la risurrezione come una nuova generazione. Lc più volte chiama G. FdD, fin dal
primo capitolo, e di certo non è incoerente e non vuol affermare che è la risurrezione a creare
la figliolanza divina. Gesù con la morte e la risurrezione e la discesa dello Spirito santo, anche
se lo era sin dall’inizio, diviene il Messia efficace. Infine, i primi cristiani riconobbero G.
come FdD per due motivi: nella risurrezione essi sperimentano il potere salvifico di G., e
diventano Figli nel Figlio per mezzo dello Spirito santo; inoltre essi ricordano, nella sua vita,
come G. si comportasse da Figlio nelle sue parole e nelle sue opere.
GESU’ COME SIGNORE (LEZIONE DEL 9.03.’96)
1. E’ il titolo che esprime bene la fede Cristologica dei primi cristiani: Il titolo Kyrios risale
agli inizi del cristianesimo. Eppure in diverse Cristologie recenti tale titolo è spesso
trascurato. Alcune Cristologie recenti non hanno nulla da dire su Gesù Signore. La preghiera
in aramaico citata da Paolo in 1 Cor 16,22 dice “maranà tha”, ossia “vieni Signore”, la stessa
invocazione che si trova in Ap 22,20. Essa esprime la speranza tra i primi cristiani di vedere il
Signore Gesù nel suo ritorno glorioso. Non si pregava “vieni FdU”, il titolo che G. stesso si
attribuiva come giudice escatologico (Mc 13,26 e Mt 25,31), ma “vieni Signore Gesù”.
2. La prima lettera cristiana è 1Tess, il capolavoro di Paolo, dove il titolo kyrios è usato 24
volte: certo le statistiche non sempre dicono cose significative, ma qui per essere la prima
lettera di Paolo vuol dire che tale titolo ha un senso forte, divino, senza doverlo giustificare al
destinatario ma ritenendolo scontato. In tutte le sue lettere Paolo applica tale titolo a Gesù 230
volte: però non si sa se a volte kyrios è G. o il Padre. Paolo si serve di una tradizione pre-
paolina, citando cioè espressioni precedenti (Rm 10,9 e Fil 2,11). Si usa in proposito il
metodo diacronico: leggendo le sue lettere si vede come Paolo si rifà al periodo precedente in
cui G. viene chiamato Signore.
3. Paolo stesso inizia normalmente le sue lettere con un saluto di augurio: in primo luogo si
nota la continuità tra Gesù e Paolo dicendo che Dio è Padre. Paolo non usa nel suo saluto
l’espressione Abbà, ma chiama Dio Padre, portando avanti l’abitudine del Gesù prepasquale.
Il linguaggio di Paolo non è sempre così: Gesù predica il Regno di Dio, ma Paolo ne parla
poche volte. Non vi è quindi continuità tra Paolo e Gesù nel caso del Regno. In secondo
luogo, G. viene chiamato non Figlio ma Signore: “grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro e
dal Signore G. Cristo”. Paolo mette assieme Dio Padre e il Signore G. Cristo come la sorgente
di pace e di grazia: ma cosa vogliono dire questi due termini? Grazia e pace indicano la
pienezza della salvezza, quella shalom che viene concessa a chi crede.
4. In 1Cor 8,6 vi è un’affermazione molto importante che riguarda la preghiera ebraica detta
“Shemà” (Dt 6,4-5: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno solo”): essa è
trascurata dalle recenti Cristologie, ma Paolo la sottolinea. Paolo prende questa preghiera, la
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divide e pone Gesù al centro. Egli afferma che “c’è un solo Dio, il Padre ... e un solo Signore
G. Cristo, per mezzo del quale esistono tutte le cose”; in altre parole Paolo divide la
professione monoteistica ponendo Gesù Signore al fianco di Dio Padre: diventa così un
monoteismo Cristologico. E’ una posizione audace che Paolo prende senza esitazione: c’è un
solo Dio e un solo Signore. Inoltre, Cristo Signore è il mediatore della creazione: altra
affermazione audace. Per mezzo del Cristo esistono tutte le cose: la creazione è opera divina
poiché solo Dio crea, e attribuirla al Cristo vuol dire riconoscergli una prerogativa divina. Ma
in 2Cor 5, 17, i cristiani sperimentavano già la nuova creazione, e confessavano G. come
agente della prima creazione. Paolo dà anche lì per scontato che G. è creatore di tutte le cose.
5. Una questione terminologica è insita nel termine stesso kyrios: nel greco biblico a volte ha
un significato divino, a volte umano. E’ ciò che accade anche oggi nelle lingue moderne. Nel
caso di Paolo, normalmente kyrios ha un significato “alto” come nell’AT, dove Kyrios (o
Adonai) indicava il nome sacro di Dio, Jahvè. Dio era quindi il sovrano assoluto del Cosmos.
A volte Dio è detto “Signore degli eserciti”, un’espressione molto forte per dire che egli è
sovrano di tutte le forze cosmiche. Nei Vangeli sinottici il titolo Kyrios può essere sia alto che
basso: tra i due estremi ci sono varie possibilità; può indicare il padrone, l’insegnante ecc.. I
casi chiari dell’uso alto si trova in Fil 2,11 o in Gv 13 e 21, Gv 20,28 dove Tommaso chiama
G. “mio Signore e mio Dio”. E’ da sottolineare che il senso alto del termine kyrios si trova già
prima dei Vangeli, nella tradizione prepaolina (cfr Fil 2,11). Alcuni infatti ritengono
erroneamente che all’inizio il titolo kyrios ha senso basso, assumendo sempre più il suo valore
alto.
6. Consideriamo due espressioni che hanno uno sfondo interessante nell’AT: la parola del
Signore e il nome del Signore. Circa la parola del Signore, i profeti dell’AT fanno spesso
appello a questa espressione; dicono infatti: “parola del Signore...” a cui segue l’oracolo e
viceversa. Nel NT a volte si usa la stessa espressione, specie nelle lettere di Paolo e in
particolare nel libro degli Atti. Cosa significa la parola del Signore nel libro degli Atti? E’ il
messaggio del Cristo; è un messaggio su di lui, poiché è lui il contenuto della predicazione ed
è anche il punto di partenza: è Cristo la sorgente della buona novella. Lc usa in At
l’espressione “parola di Dio” (At 8,25) in riferimento a Cristo, espressione che ha il suo
riscontro nel’AT. In 1Tess 1,8, Paolo parla della parola del Signore volendo indicare che il
Cristo crocifisso è risorto.
7. Un caso analogo riguarda l’espressione il Nome del Signore: nell’AT la salvezza viene dal
nome del Signore. E’ il caso del profeta Gioele (Gl 3,5) che afferma: “Chiunque invocherà il
nome del Signore sarà salvato”. Paolo prende quell’espressione e la applica a Cristo: all’inizio
della 1Cor 1,2 per salutare i Corinti. Per essere salvati, nel NT, bisogna invocare il nome del
Signore Gesù. Paolo continua applicando a Cristo proprio l’espressione del profeta Gioele in
Rm 10,13. Chi è il Signore in questo brano della lettera ai Romani? Certamente è il Cristo
risorto e non il Padre.
8. Ci sono diversi brani dell’AT che si riferivano a Dio come Signore e che nel NT vengono
applicati a Cristo: è il caso di Fil 2, 10-11 dove troviamo la chiara eco di Isaia 45,23 (“davanti
a me (Jahvé) si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua”). La lettera agli Ebrei
(non si tratta di una lettera quanto piuttosto di un discorso omiletico, un’omelia) soprattutto
all’inizio (1, 10-12) cita il Salmo 2,7 (“Tu sei mio figlio...”), per applicare a Cristo quel
linguaggio che nell’AT veniva applicato a Dio (Cfr Eb 1, 10-12 Sal 102, 26-28 ).
9. Il titolo usato dell’Apocalisse (Ap 17,14 e 19,16) per Gesù è Signore dei Signori e Re dei
Re; nel contesto, il libro dell’Ap parla di Roma, dei sette colli e dei sette Re (dal punto di vista
storico). Ma il numero 7 è anche simbolico: indica totalità, perfezione. Per cui quel numero
indica tutti i re terrestri: Gesù è il sovrano di tutti i re terrestri.
10. Cristo domina anche sugli Angeli: per il NT è importante far vedere che il Cristo è il
sovrano assoluto (Cfr Fil 2,10: “Ogni ginocchio si pieghi nei cieli...”). Anche in Eb 1-2,16, si
parla degli angeli che sono sottomessi a Gesù, Signore degli Angeli. In Ap 5, 11-14, tutte le
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creature del cielo e della terra adorano il Cristo: è una visione cosmica della sovranità del
Cristo, il quale merita la stessa adorazione che si deve a Dio. E’ interessante in Ap il parallelo
tra l’adorazione a Cristo e a Dio: il linguaggio converge. Gesù è dunque il Signore del
Cosmos.
11. Gesù è anche il Signore del tempo e della storia. Un esempio interessante è quello del
Giorno di Jahvé. Ci sarà il giorno di Dio, il giorno del Signore, quando Dio giudicherà i
peccatori e manifesterà la sua gloria divina, ristabilendo il popolo di Dio. Sempre più dunque
vi era nell’AT l’attesa di quel giorno. Nel NT quest’idea è applicata a Cristo, così il Giorno di
Jahvé diventa la Parusia, ossia il giorno del ritorno glorioso del Cristo. Paolo in 1Cor 1,8 e
5,5 applica al Giorno di Gesù Cristo l’idea del Giorno di Dio. Si parla anche del giorno del
FdU (Lc 17,24-30).
Altri titoli applicati a Cristo
1. Alfa e Omega: nell’AT, il deutero-Isaia (41,4; 44,6) chiama il Signore il Primo e l’Ultimo.
Molti interpretano questi titoli nel senso di Creatore (Primo) e di Sovrano di tutta la storia
(Ultimo): Dio è l’ultimo nel senso che guiderà la storia fino alla fine. Nel libro
dell’Apocalisse, Gesù viene anche detto l’Alfa e l’Omega (Ap 1,17; 2,8; 22, 13): è un titolo
alto, divino, pertanto Gesù come Dio è colui che guida la storia.
2. I vari titoli esaminati (FdD, Signore, Messia, Profeta, ultimo Adamo...) sono certamente
titoli maschili, ma ve ne sono altri neutrali ed altri addirittura femminili. Alfa ed Omega ,ad
es., è un titolo neutrale; Sapienza è un titolo “femminile”: sappiamo infatti che nell’AT la
Sapienza divina è raffigurata come una donna che invita tutti al suo banchetto. Nell’AT ci
sono queste immagini femminili per Dio, ed il NT lo riprende nel modo di parlare di Gesù. Un
esempio per eccellenza è Lc 13,34, dove Gesù parla di sé come una Chioccia che vuole
raccogliere i suoi pulcini. E’ un’immagine molto apprezzata nel Medioevo. Ricordiamo infatti
che nell’AT Dio si è presentato a volte come un’aquila che protegge il suo popolo: Gesù
addolcisce quell’immagine, con un ritratto più domestico, prendendo spunto dalla Chioccia.
GESU’: SALVATORE E DIO (LEZIONE DEL 12.03.’96)
1.1. Nell’AT al centro della fede vi era l’idea di Dio che salva: era l’esperienza comunitaria
della liberazione d’Israele dall’Egitto, il ritorno dall’esilio babilonese, ecc.. Dio era visto come
il Salvatore. Anche a livello individuale, nei Salmi, si nota il ringraziamento da parte di
uomini giusti: essi a volte protestano, si lamentano con Dio, ma alla fine lo ringraziano perché
Jahvé è un Dio che salva.
Non solo Dio, ma anche alcuni uomini dell’AT vengono definiti con l’aggettivo di
“salvatore”: uno dei più famosi è Giosuè, il cui nome vuol dire appunto “Dio salva”. In
ebraico, infatti, Giosuè è omonimo a Gesù.
Nel NT il titolo “salvatore” è riservato a Dio, oppure a Gesù (compare rispettivamente 8 e 16
volte): la tradizione cristiana riprende quindi l’uso dell’AT. Il CCC dimostra una certa
preferenza del titolo “salvatore” (45 v.) rispetto a “redentore” (15 v.).
1.2. Gesù è detto Signore e Salvatore: sin dalla sua nascita (cfr Lc 2,11), l’angelo annuncia la
buona novella ai pastori, e dice che colui che nascerà sarà il Salvatore. Maria, inoltre, dà lei il
nome a Gesù, che significa Dio salva. Nel Vangelo di Mt è Giuseppe a dare il nome a Gesù,
ed anche qui si spiega il significato del nome. Il NT usa i titoli Signore e Salvatore diverse
volte: il binomio non è frequente, ma accompagna tutta la vita di Gesù, dall’annuncio
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 29
dell’angelo a Maria in poi. In 2 Pt 3,2, tale binomio si associa all’insegnamento di Gesù. Un
altro esempio della stessa lettera (2 Pt 2,10), si riferisce alla conoscenza dei fedeli in Gesù.
Conoscere vuol dire fare esperienza, ed è questo che il NT intende: un’esperienza personale,
vitale. In 2 Pt 2,10, Gesù è sperimentato come Signore e Salvatore. Nella Parusia (Fil 3,20 e 2
Pt 1,11) si vede ancora che Gesù nel suo avvento finale sarà il Signore e il Salvatore
dell’umanità.
2.1. Il binomio Dio e Salvatore si trova nel NT più volte: in 2 Pt 1,1 si legge: “la giustizia del
nostro Dio e (del) Salvatore Gesù Cristo”, e sembra essere questa la traduzione più probabile,
dove i titoli vengono attribuiti entrambi a Gesù; però si potrebbe tradurre mettendo fuori
parentesi il del: in quest’ultimo caso si farebbe la distinzione tra il Padre ed il Figlio. Lo stesso
dubbio si ha in Tt 2,13, dove si parla della manifestazione della gloria del nostro Signore Gesù
Cristo: anche qui si può pensare ad una eventuale distinzione tra il Padre ed il Figlio, ma è
improbabile poiché il contesto è quello della Parusia.
Un altro esempio del binomio è in 2 Tess 1,12: si potrebbe dividere “il nostro Dio (Padre) e
Signore Gesù Cristo”, ma il contesto della lettera è il saluto iniziale, dove Paolo parla della
grazia che proviene da Dio Padre e da Gesù.
2.2. Rm 9,5: Paolo mette assieme i 7 privilegi del popolo d’Israele. Il problema sta nella
punteggiatura, che ovviamente manca nel codice originale:
1) “da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio
benedetto nei secoli”;
oppure:
2) “....carne. Dio che è sopra ogni cosa, sia benedetto nei secoli.”.
Nel testo originale, dunque manca la punteggiatura, introdotta poi nel corso dei secoli. Il
Codex Vaticanus (IV sec.), mette il punto lì dove è nella 2a ipotesi, separando così Cristo da
“Dio benedetto nei secoli”. Cosa possiamo dire in proposito? Molti Padri della Chiesa
leggevano Paolo secondo la 1a ipotesi: Gesù, secondo questa interpretazione, è quel “Dio
benedetto nei secoli”. Oggi, invece, gli esegeti sono dubbiosi: Fitzmyer cerca di valutare i pro
ed i contra delle due posizioni, esaminando così il Cristo secondo la carne e secondo la sua
divinità. Riporta, a tale proposito, un altro brano di Paolo, Rm 1,1 ss., dove si parla di Gesù in
modo analogo a Rm 9,5. Ci sono però delle difficoltà, perché Paolo normalmente dice Theòs
riferendosi a Dio Padre. Ma è chiaro che nulla esclude che siamo di fronte ad un’eccezione,
come in Fil 2, 6. Normalmente Paolo rivolge le sue dossologie a Dio Padre; ma nel NT c’è
qualche eccezione, come in Eb 13,21, dove la dossologia è rivolta a Gesù.
In definitiva, in quel caso la dossologia di Paolo si riferisce a quanto lui ha già detto in
precedenza: Paolo stava parlando di Cristo secondo la carne.
In 1 Cor 11,3, il capo di Cristo è Dio Padre, colui che è sopra ogni cosa; ma vi sono delle
eccezioni: Fil 3,21 dice che Cristo ha il potere di sottomettere a sé tutte le cose. Forse la
conclusione più probabile è quella di leggere il versetto precedente in riferimento a Cristo, ma
è solo una probabilità.
2.3. Eb 1,8-9: completa il nostro quadro. L’autore della lettera cita due Salmi:
“Il tuo trono Dio sta in eterno
scettro giusto è lo scettro del tuo Regno;
hai amato la giustizia...”
questo Salmo (45, 7-8) viene messo sulle labbra del Padre, così come:
“Tu, Signore, da principio hai fondato la terra
e opera delle tue mani sono i cieli.
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Essi periranno...”
è il Salmo 102, 26-28, e si riferisce al Figlio, che è Dio eterno e creatore.
2.4. Il Vangelo di Gv per due volte parla di Gesù come theòs (Gv 1,1 e 20,28); forse in Gv
1,18 si parla per la terza volta di Gesù ugualmente come theòs, poiché nel manoscritto che
risale al II sec., si parla di Dio Unigenito e non di Figlio Unigenito, ed è forse la lectio più
probabile.
2.5. Il NT riserva dunque il titolo theòs a Dio Padre, ma con delle eccezioni, che vedono tale
titolo applicato a Gesù. Il NT, inoltre, attribuisce a Gesù altri titoli: A e , Lògos, ecc..
3.1. Il NT riconosce la divinità di Cristo descrivendolo come esaltato e seduto sul trono alla
destra del Padre (cfr Mc 14,62; Ef 1,20 ...)
3.2. Il FdU verrà con “le nubi del cielo” (Mc 14,62): è un’immagine tipica dell’AT, con le
nubi, gli angeli, il trono di gloria, segni e testimonianza della divinità di Gesù. Vi è inoltre un
senso totalizzante: Dio so rivolgerà a tutti gli uomini e a tutte le nazioni. Questo linguaggio
totalizzante esprime il dominio universale di Dio.
3.3. Il termine =gloria, è rivolto a Dio (Lc 2,14; Fil 2,11) ma anche a Cristo: 1 Cor 2,8
ma soprattutto Ap 5,13 dove l’Agnello immolato riceve la stessa gloria che è rivolta a Dio.
3.4. Il verbo proskunèo = adorare, riceve il suo significato nel contesto in cui è inserito. Ad
es., Mt 4,10, alla fine delle tentazioni nel deserto, Satana invita Gesù ad adorarlo: Gesù gli
risponde citando Dt 6,13, dove si riconosce che solo Dio merita adorazione. Ma nel caso di
Gesù può significare solo rispetto: nel Vangelo di Mt si trovano tali esempi. In altri casi quel
verbo ha il senso più forte, di vera adorazione (Mt 2,2.8.11). Alla fine del Vangelo di Mt, le
donne e poi i discepoli adorano Gesù risorto (Mt 28,9-17). Anche Mt 14,33, quando Gesù
cammina sulle acque, riceve adorazione dai discepoli. Vi è quindi un’inclusione tra Mt 2 e Mt
28, con l’adorazione degli angeli all’inizio e dei discepoli alla fine.
3.5. L’ultimo esempio del riconoscimento dato a Gesù nel NT è il titolo di Sposo. Nell’AT era
Dio e Dio solo lo sposo del suo popolo (Os 2,19; Is 54,4-8; 62, 4-5; Ez 16, 7-63). Nel NT,
forse Gesù nel suo ministero si è rivelato come sposo, anche se non tutti i biblisti sono
d’accordo. Il brano più forte è Mc 2,18-20: risale probabilmente a Gesù stesso, ma in ogni
modo tutto il NT parla di Gesù come lo Sposo (v. Paolo e Gv in Ap 19,7; 21,2). Il punto
decisivo è che il Messia non è mai identificato come lo sposo: il Messia sacerdotale e regale
non è mai definito come lo Sposo, titolo riservato al solo Dio. L’asserzione di vedere il
Messia come sposo è solo un’ipotesi: di certo si esprime però in modo bellissimo l’identità del
Signore.
GESU’, LO SPIRITO E IL DIO TRINO (LEZIONE DEL 15.03.’96)
Prendiamo in considerazione alcune formule trinitarie del NT:
1.1. La formula battesimale che rimane normativa, Matteo la pone sulle labbra di Gesù: “Nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” (Mt 28,19). Anche Paolo parla di essere
battezzati in Cristo Gesù, ma non riporta la stessa formula di Mt (cfr Rm 6,3 e 1 Cor 6,11).
Solo successivamente la formula verrà elaborata fino alla formula riportata da Mt 28,19.
1.2. S.Paolo, nell’augurio finale di 2 Cor 13,13 scrive: “la grazia del Signore Gesù Cristo,
l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”, dove la formulazione è
chiaramente trinitaria. La formulazione è precedente, e Paolo la adotta prendendola dalla
tradizione anteriore. L’ordine che Paolo usa in questa lettera è: Gesù, il Padre e lo Spirito.
Inoltre, non si dice, come in Mt, nel nome di Gesù, del Padre,..., che ci riporta alla Signoria
delle tre persone della Trinità, ma Paolo parla della grazia, dell’amore, della comunione.
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1.3. Altre formulazioni ternarie di Paolo si trovano, ad es., in 1 Cor 12, 4-6:
“Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità
di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma
uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.”
L’ordine delle persone è ancora cambiato: prima lo Spirito, poi Gesù, infine il Padre. Il
contesto è la sorgente dei carismi della comunità: tutto deriva dal Padre per l’utilità comune,
quindi Paolo non sta facendo un trattato di trinitaria. Si veda anche in Ef 2,18.
2. Il rapporto tra il Figlio e lo Spirito
2.1. Nell’AT si parla dello Spirito di Dio sotto forma di vento, soffio di vita, ispiratore dei
profeti: tale dono, dato ai profeti, non era sempre stabile e poteva essere transitorio, a
differenza del sacerdozio. Lo Spirito, il Verbo e la Sapienza sono praticamente modi sinonimi
di esprimere l’attività potente e rivelatrice di Dio nel mondo: un esempio si può trarre dal Sal
33, 6: “Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro
schiera”, dove parola e soffio hanno significato parallelo, pressoché equivalente. In Gen 1, 3-
31, Dio parla e le cose esistono: la centralità di questo brano è del logos. Invece, nel Sal 104,
30 (“Mandi lo Spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.”) è lo Spirito che rende
possibile la creazione. Spirito e Sapienza sono due altri modi sinonimi di parlare dell’attività
di Dio nel mondo.
L’espressione Spirito santo è rara nell’AT, e compare solo in alcuni casi, come Is 63,10-11;
Sal 51,13, ecc.. Nei frammenti non canonici ritrovati a Qumran, si trova invece più volte
l’espressione “Spirito santo”.
2.2. Nel ministero di Gesù si vede l’azione dello Spirito santo: “lo Spirito santo lo sospinse
nel deserto ...”(Mc 1,13); in Lc 4,14: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito
santo...”. Le guarigioni e gli esorcismi vengono operate nella potenza dello Spirito. I sinottici
presentano lo Spirito santo allo stesso modo dei profeti, almeno per ciò che riguarda l’attività
prepasquale di Gesù. Inoltre, Gesù rivela il senso e la consapevolezza della sua figliolanza, ma
non dimostra la stessa consapevolezza speciale nei confronti dello Spirito. Questo stato di
cose cambia con la risurrezione, e quasi di instaura un legame “maggiore” tra Gesù e lo
Spirito. Inoltre, Gesù ed il Padre mandano lo Spirito: solo Dio può mandare lo Spirito, e con
la risurrezione Gesù mostra anche questa sua prerogativa divina.
3. Cristo risorto e lo Spirito.
3.1.1. Paolo non nega, ma allo stesso tempo non dice apertamente che Gesù ha mandato il suo
Spirito (cfr Gal 4,4ss; 2 Cor 1,22; 5,5; Rm 5,5). Paolo usa il passivo teologico per dire che
comunque lo Spirito è inviato da Dio. Nelle sue lettere Paolo dice: “Lo Spirito di Dio” (Rm
8,9; 1 Cor 2,11.12.14) e lo “Spirito di Cristo” (Rm 8,9; Gal 4,6): come va interpretato questo
genitivo? E’ infatti equivoco: forse vuol dire lo Spirito che viene da Dio, che è inviato da lui.
Il genitivo indicherebbe quindi origine o provenienza. Ma potrebbe essere un genitivo di
identità, come quando diciamo “la città di Roma”, nel qual caso le espressioni precedenti
significherebbero: “Lo Spirito che è Dio...che è Cristo”. In ogni modo, dobbiamo riconoscere
che Paolo non dice mai espressamente che il Cristo risorto ha mandato lo Spirito.
Paolo ci dà anche una descrizione dello Spirito come persona (cfr Rm 8,16 “Lo Spirito attesta
al nostro spirito che siamo figli..”; 8,26: “Lo spirito viene in nostro aiuto...intercede con
insistenza per noi, con gemiti inesprimibili”): solo una persona può compiere determinate
azioni, e non una forza o una potenza. Anche in Paolo l’espressione “Spirito santo” è rara, e
viene usata solo 13 volte nelle 7 lettere riconosciute come autentiche di Paolo (Rm, Cor, Gal,
Ef, Fil, Tess, Filemone), mentre l’espressione “Spirito” viene riportata più di 100 volte.
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3.1.2. Il Vangelo di Luca: Egli dice chiaramente che lo Spirito è stato inviato da Gesù risorto
(v. At 2,33);
3.1.3. Anche Gv dice lo stesso: c’è una promessa nell’ultima cena e poi, dopo la risurrezione,
vi è l’effusione dello Spirito, secondo lo schema promessa-compimento, così come in Lc.
L’unica differenza è che Lc parla per oltre 50 volte dello “Spirito santo” (Lc+At), mentre Gv
solo 4 volte.
3.2.1. Lc e Gv presentano Gesù come mandante e mandato: essi convergono nel dire che lo
Spirito non è il dono esclusivo del Figlio, poiché Gesù stesso lo riceve dal Padre. Qual è allora
la distinzione tra il Cristo e lo Spirito? La distinzione Padre - Figlio è chiara, mentre Lc e Gv
non distinguono sempre così chiaramente tra il Mandante (=Gesù) e il Mandato (=lo Spirito).
Ad es., At 9,10-16 (o 18,9-10; 22, 17-21) dice che Gesù risorto guida i suoi ministri; ma nello
stesso libro è anche lo Spirito che guida gli Apostoli (At 8, 29; 10,19; 16,6). Luca passa quindi
indifferentemente da un modo di parlare all’altro. In At si trova anche l’espressione “Lo
Spirito di Gesù” (At 16,7), mettendo in stretto rapporto lo Spirito e Gesù risorto. Lo stesso
problema si trova in Gv che non sempre distingue chiaramente tra Gesù risorto e lo Spirito.
Ad es., dal cap. 13 di Gv, Gesù parla della venuta dello Spirito, promettendo allo stesso tempo
il suo ritorno.
3.2.2. Paolo usa due espressioni per parlare della vita nuova di coloro che sono giustificati: lo
Spirito abita in noi (Rm 8, 9.11.16 e 5,5), espressione che praticamente coincide con quella
del Gesù risorto nel quale siamo incorporati (Rm 6,3.11.23; 16,11 ecc.). Lc, Gv e Paolo
parlano quindi di Gesù e dello Spirito alludendo quasi ad una identificazione o convergenza,
cosa che chiaramente non avviene.
3.2.3. E’ evidente però che il NT non identifica il Cristo risorto con lo Spirito: ad es., nel
concepimento verginale di Maria (Lc 1,35), Gesù è concepito per mezzo della potenza dello
Spirito (Lc 1,35; Mt 1,20) e non viceversa; in Gv 1,14 si legge che il Verbo si fece carne, non
lo Spirito; Dio mandò il proprio Figlio “in una carne simile a quella del peccato” per
distruggere il peccato (Rm 8,3), dandolo alla morte (Rm 8,32). E’ il Figlio che è consegnato
alla morte, non lo Spirito. Risorgendo dai morti, Cristo diventa “il primogenito tra molti
fratelli” (Rm 8,29) e la “primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15,20): non è lo Spirito il
primogenito della nuova famiglia escatologica, ma solo Gesù. Infine, solo nello Spirito
possiamo dire che Gesù è il Signore (1 Cor 12,3), poiché è lo Spirito che ci porta a Cristo e
non viceversa.
Riassunto: tornando all’augurio che Paolo fa in 2 Cor 13,13, si nota come questo racchiuda
tutto il tema della salvezza. Si parla della causa e delle conseguenze della storia della
salvezza: la causa è caratterizzata dalla grazia e dall’amore; gli effetti sono la Koinonia dello
Spirito santo, la creazione cioè della nuova comunità nella comunione dello Spirito santo. La
salvezza è dunque il tema centrale, che i primi Padri riprenderanno in esame: in Gesù, il Dio
tripersonale si rivela come il Dio per noi, che agisce con grazia e amore, creando una nuova
comunità e comunione con noi.
TESI 6: Il contributo cristologico di uno dei Padri seguenti:
Giustino, Ireneo, Tertulliano o Origene
P E R I O D O P A T R I S T I C O
La panoramica fino a CALCEDONIA (451 D.C.)
Ci poniamo tre domande:
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1) Quale esperienza salvifica ha reso possibile nei Padri la nascita di una dottrina
Cristologica?
2) Qual è stata l’importanza della Bibbia per coloro che hanno poi scritto trattati Cristologici?
3) Qual è il contesto in cui essi hanno insegnato la loro Cristologia? La Bibbia, infatti, è letta
in un determinato contesto, ed è questo che vogliamo anche considerare.
1.1. L’esperienza alle spalle dell’insegnamento Cristologico riguardava la salvezza, ossia della
nuova vita ricevuta per mezzo di Gesù, nello Spirito. I primi cristiani sperimentavano in
qualche modo la “deificazione”, cioè la partecipazione alla vita divina. In 2 Pt 1 si fa
riferimento esplicito a quest’idea centrale dell’insegnamento Cristologico. Se questo è
l’effetto che sperimentiamo - dicevano essi - chi è allora Gesù? Chi è lo Spirito santo (cause
di tutto ciò)? Si passa quindi dal Cristo “pro nobis”, al Cristo in sé.
1.2. Così viene formulata la frase di S.Ireneo: “Dio diventa uomo, affinché noi diventiamo
Dio” (cfr anche Atanasio, Basilio, Cirillo). Troviamo questa espressione ai primi vespri del 1°
gennaio: è l’ “admirabile commercium” tra Dio e l’uomo. Lo stesso concetto lo ritroviamo
espresso, ad es., nella formula recitata dal sacerdote quando versa nel calice una goccia
d’acqua.
1.2.1. Dio, dunque, diventa uomo. Per operare la nostra salvezza e divinizzazione, l’agente
deve essere simultaneamente divino e umano. S.Atanasio spiega la necessità della natura
divina del Figlio, perché egli è l’agente della creazione, e solo lui può essere l’artefice della
nuova creazione per mezzo della grazia. C’è dunque parallelismo tra la prima creazione e la
nuova. Un sec. dopo, Cirillo d’Alessandria interpretò diversamente lo stesso assioma
riferendosi alla filiazione: noi diventiamo figli adottivi nella nuova creazione, e ciò non è
possibile se non attraverso il “Figlio naturale”, realmente divino, che ci rende partecipi della
sua figliolanza. Cirillo parte dall’effetto (cioè, dall’esperienza dell’essere figli), per risalire
alla causa: Gesù è anche uomo e non solo Dio.
1.2.2. Dio diventa uomo: “Quod non est assumptum non est sanatum” (Gregorio Nazianzeno,
Epist., 101). La salvezza implica guarigione, anticipata dai miracoli in vista della salvezza
eterna. Noi sperimentiamo così la guarigione, dice Gregorio, la cui causa deve aver assunto
pienamente la natura umana. Gregorio non è l’unico a dire questo: già Origene e Tertulliano
avevano proposto lo stesso assioma.
Nel Vat II, in AG 3, nota 4, vi è un lungo riferimento a questo principio prediletto dai Padri:
“Quod non est...”. Basilio, Leone Magno, ecc., dicono che la redenzione è una sconfitta e una
vittoria dal di dentro: Gesù sconfigge il demonio che agiva all’interno della nostra umanità, e
vince la morte. Il Cristo è il redentore che nella sua piena umanità vince questa battaglia.
2.1. Per ciò che riguarda la seconda domanda che ci eravamo posti, circa l’importanza della
Bibbia, la Scrittura era la norma, il criterio nei dibattiti sulla Cristologia dei primi secoli. E
questo sia per i Padri ortodossi che eterodossi.
2.2. Marcione voleva escludere l’AT dai libri canonici, poiché vedeva nel Dio dell’AT un Dio
crudele e giustiziere. Solo il NT contava per lui, poiché il Dio rivelato da Gesù Cristo è il
Padre buono della parabola del figliol prodigo (Lc 15,11ss), un Dio di misericordia. Per
fondare la sua dottrina, accettava solo un canone ridotto: parte del Vangelo di Lc, 10 lettere di
Paolo, ecc.. In questa dottrina poneva in contrasto esagerato l’AT ed il Vangelo. Giustino
combatté per difendere l’autorità di tutto l’AT, nonostante non ci fosse un canone definitivo.
Egli accettava non solo le cosiddette “memorie” di Lc, ma anche di Mt e degli altri
evangelisti, opponendosi a Marcione, cosa che fece anche il suo discepolo Taziano,
raccogliendo ed armonizzando i quattro Vangeli (Diatessaron, c.155). Vi fu anche la reazione
romana a Marcione, semplificata dal frammento Muratoriano, contenente un elenco quasi
completo dei libri sacri canonici del NT. Alcuni ritengono che tale frammento risalga al IV
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sec., proveniente dall’oriente, ma forse è più probabile farlo risalire al II sec., di provenienza
romana.
2.3. Gli Gnostici affermavano di essere in possesso di nuove rivelazioni e di fatti “inediti” su
Gesù, raccolti in altri scritti.
Ireneo, riaffermando l’AT, accetta l’identità del Dio creatore (Demiurgo) e il Padre di Gesù.
Accetta i quattro Vangeli, illustra l’uso dell’AT e un paolinismo equilibrato (la ricapitolazione
nell’ultimo Adamo). Per la Cristologia di Ireneo, essa non sarebbe pensabile senza il canone
completo dell’AT e del NT. Il canone biblico era dunque al centro dell’attenzione dei Padri.
2.4. Il linguaggio biblico, narrativo viene successivamente interpretato alla luce di quello
dottrinale e filosofico. Sappiamo infatti che la Bibbia usa spesso un linguaggio simbolico, e al
tempo dei Padri sorge la necessità di interpretare quel linguaggio in chiave dottrinale-
filosofica. E’ chiaro che la Scrittura aveva un’autorità indiscussa: così per gli Ariani, solo che
essi affermavano l’inferiorità di Gesù rispetto agli angeli (cfr Eb 1,4). Inoltre, leggendo At
2,36 (“Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e
Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”), essi affermavano che prima di allora Gesù non era
Signore e Cristo. Vi era dunque il problema della subordinazione del Figlio rispetto al Padre
(cfr 1 Cor 15,28; Col 1,15). Anche l’uso Cristologico dell’AT ha creato problemi: es. Pro
8,22. Giustino, commentando quel brano, dice che la Sapienza era prefigurazione di Cristo.
Ma dopo la controversia Ariana, l’espressione “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua
attività...” (Pro 8,22), sembrò affermare che Cristo è stato creato, e non generato. Vi sono
dunque problemi Cristologici a riguardo. Atanasio, o gli altri padri ortodossi, avevano altri
brani: 1Cor 8, 5-6, dove Gesù è lo strumento della creazione, ossia la sua natura è divina. Fil
2,9-11, mostra Gesù esaltato che riceve l’adorazione cosmica, e poiché solo Dio merita
adorazione, allora egli è Dio. Ma come interpretare le affermazioni bibliche che sembrano a
volte opposte tra loro?
E’ il caso di Gv 14,28, dove sembra che il Figlio sia subordinato al Padre, mentre in Gv 10,30
si dice che Gesù è il Padre sono una cosa sola. Gli ortodossi e gli Ariani davano quindi per
scontata l’autorità biblica, ma vi erano problemi circa la testimonianza Cristologica.
3. Il contesto
La Bibbia è stata letta in vari contesti; esamineremo quattro elementi del contesto di lettura e
di interpretazione della Bibbia:
a. la realtà politica;
b. gli interlocutori;
c. elementi culturali e filosofici;
d. realtà pastorale.
3.1. Al tempo di Giustino vi era l’oppressione dei cristiani, contesto differente rispetto al
tempo di Costantino, quando invece il cristianesimo sarà la religione ufficiale dell’Impero.
Proprio Costantino sarà l’artefice del primo Concilio ecumenico. Addirittura, il Concilio di
Calcedonia non fu convocato dal papa Leone Magno ma dall’Imperatore Marciano: notiamo
quindi l’influsso politico sull’insegnamento Cristologico.
3.2. Giustino voleva inoltre interpretare Cristo, rimanendo in dialogo con gli Ebrei. Più tardi
Atanasio dedicherà una parte di una sua opera (De Incarnatione Verbi) a tale dialogo. Tra gli
interlocutori abbiamo anche alcuni pagani colti, come Celso, che scrive un’opera contro i
cristianesini (Il discorso veritiero); oppure i cristiani eretici o confusi, altri Vescovi, ecc..
3.3. Per quanto riguarda l’ambiente filosofico, gli stoici, ad es., accettavano quel logos che
permea tutte le cose, secondo una sorta di panteismo; vi erano inoltre le diverse forme di
platonismo, secondo cui l’incarnazione era considerata uno scandalo, data la loro concezione
del dio totalmente trascendente.
3.4. Per molti Vescovi, l’unità della fede era estremamente essenziale: occorreva mantenere
l’unità della professione di fede in Cristo, accettando a volte diverse terminologie. A volte la
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rivalità tra sedi vescovili opposte (cfr Alessandria vs Costantinopoli), ha avuto influssi
rilevanti sulle questioni Cristologiche e sul relativo sviluppo dottrinale.
LO SVILUPPO DI TERMINI, IMMAGINI E FRASI (LEZIONE DEL 16.03.’96)
Crecheremo di commentare tre fenomeni che vanno dal II al V sec d.C., ossia di alcuni
problemi connessi ad alcuni termini, frasi o immagini che hanno fatto difficoltà in ambito
Teologico e Cristologico.
Una simile situazione ha avuto luogo anche perché il testo biblico veniva letto in nuovi
contesti, e pertanto era necessaria un’operazione di inculturazione e di adeguata
interpretazione. In particolare, tre sono i termini chiave dello sviluppo Cristologico di questi
primi secoli: Ousia (a cui è legato il termine homoousios = della stessa sostanza); Hypostasis
e Physis.
I. Alcuni termini chiave
1. Prima di Nicea Homoousios aveva un significato eterodosso (discrepante dalla dottrina
cattolica); non si trova nell’AT e Valentino (uno gnostico di Roma del 140 dC.) parlava
addirittura di una triplice consustanzialità:
a) il nostro spirito umano (pneuma) è consostanziale a Dio;
b) l’anima (psyche) è consostanziale al demiurgo che ha creato il mondo;
c) la materia (ulè) è consostanziale al diavolo.
Questo triplice schema corrispondeva alla suddivisione degli uomini in spirituali, psichici e
materiali, ossia vi era una sorta di classifica: uomini di serie A, B e C.
Paolo di Samosata (deposto come Vescovo di Antiochia nel 268) dice che homoousios al
Padre è il e non il Cristo. Forse voleva intendere che il Padre ed il Figlio condividevano
la stessa materia o sostanza , ma solo dal punto di vista fisico, oppure intendeva negare la
distinzione personale all’interno della divinità: Padre e Figlio sarebbero così due modi di
rivelarsi di Dio come soggetto unico e non distinto in due persone.
In ogni modo, Homoousios ebbe una storia tormentata tra il II e III sec.. Il Concilio di Nicea
(325) decise di affermare che Gesù è homoousios, ossia della stessa sostanza, del Padre. Il
Figlio non è quindi una creatura: i Padri conciliari volevano far vedere che il Figlio non nasce
dalla volontà del Padre, come le altre creature, ma è eterno poiché della stessa sostanza del
Padre. Il termine, però, lasciava qualche perplessità: homoousios vuol dire della stessa
sostanza individuale o generica? Ad esempio: io e mio fratello siamo della stessa sostanza
generica, ma non della stessa sostanza individuale!
2. Hypostasis: Il Concilio di Nicea usava questo termine quasi come sinonimo di homoousios,
e solo in seguito è stato distinto e si è chiarito il significato. E’ un termine usato in diversi
contesti: nel NT, in ambiente filosofico stoico e neoplatonico. In ambito filosofico poteva
avere lo stesso senso di ousia o di principio individuante:
1) ciò che sta sotto;
2) principio individuante, soggetto individuale.
Nel III sec., nella lettera scritta da Papa Dionigi, si vede la sua preoccupazione circa il
“triteismo”, poiché si poteva pensare che Dio avesse tre hypostasis, tre deità, tre essenze
(secondo il primo senso).
Origene, invece, usava il termine come principio individuante, non negando l’unica sostanza
in Dio, ma conservando le tre “persone”.
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Con Nicea, seguendo l’esempio di Papa Dionigi, si adottò il termine secondo il primo
significato. Lentamente però, si affermò sempre più l’uso di Origene, come si vede nei Padri
Cappadoci: Dio, tre soggetti individuali. Il Concilio di Calcedonia stabilì definitivamente che
Dio è 1 ousia e tre hypostasis.
Verso il 376 Girolamo, segretario di Papa Damaso, affermò: “dire che in Dio ci sono tre
hypostasis è impossibile”; difatti per lui hypostasis aveva il primo significato, e quindi seguiva
il Concilio di Nicea e non i Padri Cappadoci. L’uso di questi ultimi prevaleva, e con
Calcedonia si disse che hypostasis (sostanza individuale, principio individuante) coincide con
il concetto di prosopon = persona.
3. Physis: sta a significare “essenza” con attributi propri, ossia principio di attività
(movimento). In natura physis è l’essenza attiva, e come per gli altri due, anche questo termine
ebbe una storia tormentata.
Troviamo l’espressione di Apollinare di Laodicea: “mia physis tou Theou Logou
sesarkomene”, che fa entrare il termine physis nel dibattito Cristologico: secondo
l’espressione di Apollinare si avrebbe un’integrazione della carne col Verbo che toglie
all’umanità del Cristo la ragione (nous), una vera anima superiore. Tutto questo allo scopo di
accentuare la divinità del Verbo: i Padri Cappadoci si opposero decisamente. Un sec. dopo,
Cirillo d’Alessandria riprenderà l’espressione di Apollinare, credendola, erroneamente, di
Atanasio: egli dunque, pur usando la stessa espressione, affermava l’umanità completa ed
un’anima intellettiva del Cristo (psyché logiké).
C’è da notare che, per l’antropologia dell’epoca esistevano due schemi: uno binario e l’altro
ternario:
1) sarx = corpo 2) physis = sarx + psyché
+ +
psyché = anima oppure nous = anima
+
nous = spirito
Ciò che contava era più di tutto il nous = anima razionale. Cirillo d’Alessandria ne fece un uso
un po’ equivoco: con il Concilio di Calcedonia si stabili, però, che in Gesù vi erano due
physeis (divina e umana) ed una hypostasis o prosopon.
II. Immagini e frasi ambigue
Si tratta di scritti di Tertulliano, Atanasio, ecc., che potrebbero portare ad una dottrina
eterodossa.
1. L’incarnazione come una manifestazione. Nella lettera a Tito si parla di manifestazione:
“E’ apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini.
[...] Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore
per gli uomini [...]” (Tt 2,11; 3,4)
Il problema è che si potrebbe pensare ad una mera manifestazione o apparenza: si rischia di
cadere nel docetismo, secondo cui il corpo di Gesù era solo apparente e non autenticamente
umano.
2. L’altro equivoco stava nell’umanità vista come l’indossare un vestito da parte di Gesù: vedi
Cirillo, Quod unus sit Christus, 775 d-e; 766 d.; ma anche Tertulliano, Atanasio, ecc.. Si può
dire che Cristo si “rivestì” della nostra umanità, ma si rischia di ridurre la portata
dell’incarnazione: l’umanità assunta da Gesù non è un vestito da indossare.
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3. In Cristo “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9): è l’idea
dell’Incarnazione come “inabitazione”. Cristo è il tempio dove abita il logos eterno. Anche
questa espressione, se usata male, può risultare equivoca, benché appartenga al NT. Si
potrebbe equivocare tra la nostra condizione e quella di Cristo: noi siamo tempio dello Spirito,
ma ciò è un dono che ci viene dalla grazia.
4. L’unione tra la divinità di Cristo e la sua umanità come mescolanza/fusione (terminologia
tratta dallo stoicismo). Tale tipo di fraseologia si trova nei testi dei Padri Cappadoci: la physis
divina mescolata con quella umana. Cirillo d’Alessandria faceva notare che si rischiava di
confondere le proprietà delle due nature.
III. Alcune “intuizioni precoci”
1. La doppia generazione: non è chiara nel NT, ma Paolo, in Rm 1,3ss, dice:
“... riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio
di Dio
con potenza secondo lo Spirito...”
Anche in Gal 4,4 si parla del Padre eterno che manda il Figlio, e della nascita di Questi da una
donna. C’è una lunga lista di Padri che hanno scritto a proposito di questa “doppia
generazione”, secondo quell’intuizione neotestamentaria che Calcedonia accolse
favorevolmente.
2. “Generato non creato”: sono le parole del nostro Credo; nella lettera di Papa Dionigi (DS
114), si usa la stessa frase in greco. Nel Sal 109, nell’originale ebraico, il senso
dell’espressione è di “generazione” del Figlio da parte del Padre, prima ancora della creazione
delle stelle.
3. Doppia consustanzialità: Tertulliano parlava di due sostanze, divina e umana, di Cristo.
Anche questa terminologia è stata assunta da Calcedonia: Cristo è consustanziale al Padre
riguardo alla sua divinità, e agli uomini, circa la sua umanità.
4. Cristo “l’uno e medesimo”: Ireneo usava spesso quest’espressione, o altre equivalenti,
perché voleva difendere la sana dottrina dagli gnostici, che a seconda dei nomi o degli attributi
di Gesù, volevano intendere una pluralità di soggetti. Oggi sarebbe utile ricordare Ireneo tra
quelli che vorrebbero separare il Gesù storico dal Cristo della fede.
S.IRENEO: ADVERSUS HERESES (Contro le Eresie) (LEZIONE DEL 18.03.’96)
Il Concilio di Nicea ebbe luogo nel 325, più di due secoli dopo la stesura del NT:
esamineremo il periodo che va dal 90 d.C. fino al Concilio stesso, con l’apporto che i diversi
Padri della Chiesa hanno dato alla Cristologia. Analizziamo dapprima l’opera di S Ireneo.
1. In primo luogo egli collega la Redenzione con la creazione: è come se si trattasse di un
unico progetto divino, un dramma in due atti con al centro Cristo, il FdD. Ireneo ci dà un
esempio ammirevole di Cristocentrismo.
2. Ireneo non fa molta speculazione, ma si dedica piuttosto all’approfondimento del testo
biblico: lo si potrebbe definire il più grande “teologo biblista”. Da Gv prende i titoli quali:
Verbo, Figlio, ma soprattutto predilige l’espressione “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Da
Paolo prende l’idea del Cristo come secondo Adamo, in tutto obbediente al Padre (cfr Rm 5 e
1Cor 15). Inoltre, vede Maria come la novella Eva. Dalla lettera agli Ebrei prende quindi
l’immagine del Cristo come nuovo capo: in Lui tutto si ricapitola. Parte dell’insegnamento di
Ireneo verrà ripreso nel Vat II: a tal riguardo si può vedere GS 38,45. Vediamo un testo tratto
da “Adversus Hereses”:
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“Se uno ci dirà: Allora, come è stato emesso il Figlio dal Padre? Noi gli
rispondiamo che questa emissione o generazione.. o qualunque altra parola
con cui si indica la sua generazione, che è ineffabile, nessuno la conosce: né
Valentino, né Marcione, né Saturnino, né Basilide, né gli Angeli, né gli
Arcangeli, né le Potestà, ma solo il Padre che ha generato ed il Figlio che è
stato generato. Pertanto, essendo la sua generazione ineffabile, tutti coloro
che tentano di spiegare le generazioni e le emissioni non sono sani di mente,
perché promettono di spiegare cose che non si possono spiegare. Infatti, che
la parola è emessa dal pensiero e dall’intelligenza, certamente lo sanno tutti
gli uomini. Dunque, non hanno fatto una grande scoperta coloro che hanno
inventato le emissioni, né hanno scoperto un mistero nascosto se hanno
riferito al Logos unigenito di Dio ciò che tutti capiscono; se di colui che
chiamano ineffabile e innominabile, come se lo avessero assistito alla
nascita, spiegano l’emanazione e la generazione della sua prima nascita,
assimilandolo alla parola umana che viene proferita. Dicendo questa stessa
cosa della sostanza della materia non sbaglieremo, poiché è stato Dio a
produrla. Infatti, abbiamo appreso dalle Scritture che Dio ha il primato su
tutte le cose. Perciò, come l’abbia prodotta, nessuna scrittura loha esposto,
né noi dobbiamo immaginarlo, facendo infinite congetture su Dio, a partire
dalle nostre opinioni, ma dobbiamo riservare a Dio questa conoscenza
(2.28.6-7),
Ireneo si oppose energicamente all’eresia di Marcione: questi separava l’AT (rifiutandolo) dal
NT, poiché riteneva che il Dio dell’AT fosse un Dio crudele, mentre solo il Dio
misericordioso del NT poteva essere accettato. Ireneo confutò questa posizione: tutto l’AT è
Scrittura Sacra, così come il NT non può essere ridotto al solo Vangelo di Lc (ridotto
anch’esso da Marcione). Vi erano poi i Valentiniani ed altri gnostici, che credevano di
possedere nuove rivelazioni e nuove scritture: Ireneo difendeva invece la Regula Fidei, ossia
la Tradizione pubblica della Chiesa che i Vescovi conservavano e tramandavano in continuità
con l’insegnamento degli Apostoli. I Valentiniani erano dualisti: spirito e materia, per loro, si
opponevano. La materia, negativa, derivava dal quel dio-demiurgo dell’AT. Inoltre, gli uomini
erano divisi in tre categorie:
a) pneumatici: questi erano già salvati;
b) psichici: potrebbero giungere alla salvezza;
c) “ilici” (da = materia): condannati a non salvarsi.
Ireneo, invece, dice che la materia non è affatto un ostacolo, anzi proprio perché il Verbo si è
fatto carne, e quindi materia, noi siamo salvati . Per mezzo del corpo e del sangue di Cristo
giungiamo all’immortalità e alla salvezza.
I. Nel brano considerato, Ireneo usa un linguaggio gnostico: “emissione” per lui diventa
sinonimo di “generazione”, ed è ineffabile, cioè misteriosa e non si può comprendere. Ireneo
usa quindi una teologia apofatica (negativa) di fronte al mistero della generazione eterna del
Figlio di Dio: è meglio tacere dinanzi al mistero. Nessuno può dire nulla, né Valentino, né
Marcione; solo il Padre conosce la natura di tale generazione. E chi volesse spiegare tali cose,
di certo “non è sano di mente”. I titoli Figlio e Verbo sono i preferiti di Ireneo: dopo Nicea
sarà Figlio il titolo più usato, assieme a Signore e Cristo.
Vi è un’analogia riconosciuta con riluttanza da Ireneo; quando dice: “Infatti, che la parola è
emessa dal pensiero e dall’intelligenza...(vedi sopra)”, ossia contro le affermazioni degli
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 39
gnostici, analogia che riprenderà anche Agostino. Al termine riporta un’analogia biblica:
“Dicendo questa stessa cosa della sostanza della materia, non sbaglieremo poiché è stato Dio a
produrla.”. La generazione del Figlio è dunque simile alla creazione del mondo materiale:
“Perciò come l’abbia prodotta, nessuna scrittura lo ha esposto, né noi dobbiamo
immaginarlo...”; Ireneo dice che la Scrittura non spiega come Dio abbia fatto materialmente la
creazione, cosa che appartiene al mistero stesso di Dio. Tale analogia è però rischiosa, come il
Concilio stesso affermerà in seguito, sottolineando la generazione del Verbo nell’espressione
“generato e non creato”.
“Il Figlio, che esiste da sempre con il Padre, da lungo tempo e fin dall’inizio
rivela sempre il Padre agli angeli... e a tutti coloro ai quali Dio vuol
rivelarsi; [...] il Figlio di Dio non cominciò ad esistere allora perché esisteva
da sempre presso il Padre” (2.30.9 e 3.18.1)
L’esistenza eterna del Figlio è chiarissima in Ireneo: eternità è un attributo centrale di Dio;
Ireneo mantiene anche l’esistenza eterna del Figlio presso il Padre, contro la dottrina eretica di
Ario.
“La gloriosa generazione che gli deriva dal Padre Altissimo e... la gloriosa
nascita che gli deriva dalla Vergine” (3.19.2)
Questa intuizione di Ireneo verrà ripresa anche dai Padri conciliari a Calcedonia: questa
“duplice generazione” non dà origine a due soggetti, ma all’unico Gesù, FdD.
Al termine del brano esaminato, Ireneo riporta un’analogia di tipo biblico:
“Dicendo questa stessa cosa della sostanza della materia non sbaglieremo poiché è
stato Dio a produrla.
Infatti, abbiamo appreso dalle scritture che Dio ha il primato su tutte le cose.”
La generazione del Figlio è simile alla creazione del mondo materiale: “Perciò come l’abbia
prodotta, nessuna scrittura lo ha esposto, né noi dobbiamo immaginarlo ... ma dobbiamo
riservare a Dio questa conoscenza”. Le Scritture non spiegano come Dio abbia fatto
materialmente la creazione, cosa che appartiene al mistero stesso di Dio. Però, tale analogia
potrebbe risultare rischiosa poiché mette assieme creazione e generazione: sappiamo infatti
che in seguito il Concilio terrà a sottolineare tale differenza nell’espressione “generato e non
creato”.
“Il Figlio esiste da sempre con il Padre, da lungo tempo e fin dall’inizio
rivela sempre il Padre agli Angeli...e a tutti coloro ai quali Dio vuol
rivelarsi”.
L’esistenza eterna del Figlio è chiarissima in Ireneo: eternità è un attributo centrale di Dio, e
Gesù, vero Dio, è eterno come il Padre, contro l’opinione e la dottrina di Ario. La generazione
del Figlio e la sua gloriosa nascita, che gli deriva rispettivamente da Dio Padre e da Maria, è
un’intuizione che Calcedonia riprenderà da Ireneo. Gesù FdD e Gesù Figlio di Maria è sempre
il medesimo soggetto, e non si tratta quindi di due persone distinte.
II. “Dio non aveva bisogno di loro [gli Angeli] per creare ciò che aveva
deciso di creare. Come se non avesse le sue mani! Da sempre, infatti, gli
sono accanto il Verbo e la Sapienza, il Figlio e lo Spirito. Mediante loro e
in loro ha creato tutte le cose, liberamente e spontaneamente, e a loro
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appunto parla dicendo: ‘creiamo l’uomo a nostra immagine e
somiglianza’.” (4.20.1)
“Così pure all’inizio Dio non plasmò Adamo perché avesse bisogno
dell’uomo, ma per avere uno nel quale deporre i suoi benefici.. Né ci
comandò di seguirlo perché avesse bisogno del nostro servizio, ma per
procurare a noi stessi la salvezza... procura a quelli che lo servono e lo
seguono la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna (4.14.1). Noi gli [a Dio]
rimproveriamo di non averci fatti dèi fin dal principio, ma dapprima uomini
e poi in seguito dèi (4.38.4). Dio è colui che deve essere visto, la visione di
Dio procura l’incorruttibilità e l’incorruttibilità fa essere vicino a Dio
(4.38.3)”.
E’ la sezione dove si trova l’immagine famosa delle “mani di Dio”, riferita al Figlio e allo
Spirito Santo. Ireneo attribuiva allo Spirito Santo l’immagine della Sapienza di Dio, mentre
gli altri Padri la attribuivano al Figlio. Figlio e Spirito sono dunque gli strumenti della
creazione: le due mani di Dio che creano il mondo. “Creiamo l’uomo...” è il dialogo che
Ireneo considera intratrinitario: egli ha una visione più che positiva dell’umanità che è fatta a
immagine e somiglianza di Dio. Dio, inoltre, non aveva bisogno dell’uomo, ma voleva che
qualcuno godesse dei suoi benefici e della sua salvezza. La creazione è frutto della bontà
divina, poiché il bene è “diffusivum sui”, si diffonde da sé. La salvezza, per Ireneo, libera poi
l’uomo dalla corruzione e dalla corruttibilità, più che dal peccato. L’uomo che vedrà Dio
otterrà la salvezza eterna, la vita incorruttibile e immortale. Circa l’idea della divinizzazione,
in 4.38.4, Ireneo fa vedere come tutto rispecchi la volontà di Dio che opera per il bene
dell’uomo.
III. “Il Figlio, essendo accanto alla sua creatura fin dall’inizio, rivela il
Padre a tutti: a quelli a cui il Padre vuole, quando vuole e come vuole
(4.6.7). Tutti gli esseri apprendono, per mezzo del suo Verbo, che vi è un
solo Dio Padre, che contiene tutte le cose e dà a tutti di esistere.../il Figlio è
rivelatore del Padre dall’inizio, perché è con il Padre fin dall’inizio (4.20.6-
7). Il Verbo... da sempre era presente al genere umano (3.18.1, cfr 3.16.6).”
Il Figlio si fa prossimo ad ogni creatura: nessuno è fuori dalla sua presenza e dal suo influsso.
Il Figlio è visto qui come il mediatore ed il rivelatore universale, presente dappertutto e per
tutti (cfr Vat II, AG). Inoltre, il Figlio rivela il Padre liberamente “a tutti coloro ai quali Dio
vuol rivelarsi”. Questa sezione è importante soprattutto perché Ireneo vuol far vedere che
nessuno è lontano dal Verbo (riferimento alle differenti religioni). Il Padre è trascendente e
invisibile, ma il Figlio, in qualità di mediatore, lo rivela e dona lo Spirito.
IV. “E’ lui [il Verbo, Cristo] che dice a Mosè: ‘ho ben veduto l’afflizione
del mio popolo che è in Egitto, e sono sceso per liberarli’; è il Verbo di Dio,
abituato fin dal principio, a salire e discendere per la salvezza di coloro che
erano afflitti” (4.12.4).
Ireneo cerca di difendere la trascendenza del Padre, e fa vedere che le visioni dell’AT sono in
realtà Cristofanie, e non teofanie. Il Verbo era attivo sin dall’inizio della storia del popolo di
Dio, ed era lui il mediatore con il Padre. Ireneo segue una pista che si trova in S. Paolo (1Cor
10,4: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, bevevano infatti da una roccia spirituale che
li accompagnava, e quella roccia era il Cristo.”) e in Gv (12,41). Giustino, invece, interpreta
Cristo come “angelo” o “messaggero” nell’AT.
TP1B08 - De Christologia et Soteriologia - Pro.f G. O’Collins - A. A. 95/6 - Appunti di uno studente - Pag. 41
V. “Il Verbo di Dio, Gesù Cristo Signore nostro, che per il suo
sovrabbondante amore si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è
lui stesso (5 pref.). Per questo appunto il Verbo si fece uomo e il Figlio di
Dio si fece Figlio dell’uomo, affinché l’uomo.. diventi figlio di Dio ... come
avremmo potuto unirci all’incorruttibilità e all’immortalità, se prima
l’incorruttibilità e l’immortalità non fosse divenuta ciò che siamo noi?
(3.19.1)”. Contro gli ebioniti: “Come possono essere salvati, se non era
Dio che operò la loro salvezza sulla terra? (4.33.4)”.
Dio diventa uomo affinché noi fossimo divinizzati: è l’idea dell’ “admirabile commercium”.
Contro alcuni giudeo-cristiani, gli ebioniti, Ireneo sviluppa questo punto, insistendo sul fatto
che per la salvezza gli uomini avevano bisogno dell’intervento di Dio.
VI. “E’ Dio colui che avevamo offeso nel primo Adamo, non compiendo il
suo comandamento, e con il quale, nel secondo Adamo, siamo riconciliati,
divenendo obbedienti fino alla morte (5.16.3). Come per la sconfitta di un
uomo, il genere umano discese nella morte, così per la vittoria di un uomo
saliamo alla vita (5.21.1). Come Eva dunque, disobbedendo divenne causa
di morte per sé e per tutto il genere umano, così Maria ... obbedendo
divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano (3.22.4) Il FdD
quando si incarnò e divenne uomo, ricapitolò in se stesso la lunga storia
degli uomini... affinché ricuperassimo in Cristo Gesù, ciò che avevamo
perduto in Adamo, cioè l’essere ad immagine e somiglianza di Dio
(3.18.1)”.
Cristo è il secondo Adamo che, attraverso la sua divinità e umanità, ha potuto salvarci. Il
primo Adamo ci portò la morte, il secondo Adamo ci ha portato la vita. Maria, seconda Eva, è
la donna obbediente che ci dona la salvezza, dando alla luce il Salvatore del mondo. L’ultima
idea è quella della ricapitolazione, ossia del recupero di ciò che avevamo perduto in Adamo.
E’ questo un altro aspetto dell’idea della ricapitolazione vista come “restaurazione”: Cristo
riassume e porta a compimento la storia dell’umanità.
VII. “Giovanni conosce un solo e medesimo Verbo di Dio - e questo è
l’Unigenito e si è incarnato per la nostra salvezza, Gesù Cristo nostro
Signore ... affinché ... non pensassimo che altro era Gesù e altro Cristo, ma
sapessimo che è uno solo e il medesimo (3.16.2). Il Verbo, l’Unigenito, che
da sempre è vicino al genere umano, si unì e si mescolò alla sua creatura...
e si fece carne; e questo stesso è Gesù Cristo Signore nostro, che patì per
noi e risuscitò per noi (3.16.6). A proposito del battesimo... non è vero che
allora Cristo discese in Gesù, né che altro è Cristo e altro è Gesù; ma è il
Verbo di Dio, il Salvatore di tutti e Signore del cielo e della terra, che è
Gesù (3.9.3).”
Gli gnostici cercavano di distinguere tra Gesù uomo e il Cristo, il Verbo eterno creatore del
cosmo: Ireneo difende l’unità di Gesù Cristo, poiché il Verbo eterno è Gesù, che ha avuto una
storia umana. Ireneo ripete come ritornello l’espressione “uno solo e medesimo”, per
sottolineare quest’unità del Cristo. In 3.16.6, Ireneo usa un linguaggio ambiguo (si unì e si
mescolò...), ma l’intento è di sottolineare la vera umanità di Gesù Cristo.
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LA DIVINITÀ E L’UMANITÀ DI CRISTO: TERTULLIANO E ORIGENE
(LEZIONE DEL 19.03.’96)
Vedremo in primo luogo, secondo i due autori, il rapporto che esiste tra l’umanità e la divinità
in Cristo; in secondo luogo vedremo come si concilia, per essi, la divinità di Gesù e la sua
appartenenza alla Trinità con il monoteismo ebraico.
1. Tertulliano
Combatteva su due fronti: all’interno della stessa comunità cristiana, e all’esterno, contro il
politeismo pagano.
1.1. Contro il monarchismo modalista: i cristiani modalisti erano per un monoteismo rigido,
senza distinzioni personali all’interno della divinità. In primo luogo i Patripassiani, con a capo
Prassea, ritenevano che il Padre è colui che si è incarnato, ha sofferto sulla croce ed è
risuscitato. L’unico soggetto in Dio è il Padre.
Vi era poi Noeto che seguiva la stessa linea di Prassea. I Sabelliani (220 d.C.) hanno esteso lo
stesso errore alle tre persone della divinità: queste erano semplicemente tre modi di rivelarsi
dell’unico soggetto divino. Il loro fondatore, Sabellio, fu condannato da Papa Callisto (DS
105), ma la sua dottrina si era già diffusa in gran parte dell’Africa del nord. Alcuni fra i
Sabelliani erano pronti a parlare di tre “prosopon”, tre ruoli diversi di Dio, ma comunque non
esisteva affatto, per loro, distinzione personale in Lui. Essi affermavano l’esistenza di una
hypostasis e tre ruoli, in cui il Logos/Figlio non si distingue affatto dal Padre.
Vi erano poi gli Adozionisti, secondo cui il Gesù storico era un mero uomo, su cui scese lo
Spirito Santo: Gesù, quindi fu deificato (adottato come Figlio) al momento del Battesimo,
tutt’al più dopo la Risurrezione, ma non ha nulla di diverso dagli altri profeti.
1.2. L’altro fronte di combattimento di Tertulliano era costituito dal politeismo pagano:
Tertulliano cerca di difendere l’unità in Dio, sviluppando un linguaggio trinitario: assieme ai
Padri Cappadoci, esaminò la Trinità, per poi passare alla Cristologia.
1.3. Tertulliano, circa la Trinità, adoperava un linguaggio che affermava una sostanza e tre
persone (anche se usa il termine sostanza allo stesso modo in cui noi usiamo natura). Egli
riconobbe in Dio una unità o sostanza differenziata: essa non è divisa, bensì è complessa, e al
suo interno vanno distinte le tre divine persone. Egli fu il primo ad adottare massicciamente il
termine persona, e per primo attribuisce a Dio il termine Trinitas. Le tre persone partecipano
alla sostanza comune: non sono divise o separate, ma distinte. Come salvaguardare allora il
monoteismo, senza cadere nell’equivoco politeista?
Tertulliano adottò delle analogie rifacendosi al mondo materiale, che chiaramente lui stesso
riconobbe come limitate: ad es., il Logos procede dal Padre come un raggio dal sole; lo stesso
ragionamento vale per lo Spirito. Così, l’espressione che usiamo nel Credo “Luce da luce”, si
rifà a quest’idea di Tertulliano. Altra analogia era quella della fonte da cui scaturisce un
fiume, al quale si collegano poi diversi canali d’acqua. Si tratta senz’altro di immagini
limitate, poiché ci rimandano in qualche modo al subordinazionismo, o addirittura che il
Figlio e lo Spirito siano una “porzione” del Padre, ma che ci dicono qualcosa della realtà
trinitaria.
1.4. Circa la Cristologia, Tertulliano affermava la vera e reale Incarnazione, poiché il FdD ha
assunto una vera esistenza umana, in un corpo di carne, contro i docetisti e contro Marcione, il
quale aveva una visione negativa della materia. Una frase cara a Tertulliano era: “Caro, cardo
salutis”, ossia “la carne, cardine della salvezza”. Egli insistette moltissimo su questo aspetto:
Gesù, vero Dio ma anche vero uomo. Inoltre, sviluppò la terminologia trinitaria circa il Padre
ed il Figlio: per quest’ultimo, le due sostanze (nature diremmo noi) conservano le loro
proprietà e sono congiunte, non mescolate in una sola persona. Questa intuizione di Tetulliano
fu ripresa da Calcedonia e dal Papa Leone Magno.
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I suoi contributi sono dunque diversi: anzitutto terminologicamente, adottando i concetti di
sostanza e persona; in Cristo vi è una sola persona con due sostanze (nature) non mescolate.
Contro gli gnostici, conserva l’umanità integrale del Cristo; nel mondo occidentale Tertulliano
ha eliminato in anticipo tendenze eterodosse provenienti dall’Oriente.
Ad es., contro Ario, Tertulliano faceva vedere che si può riconoscere in Gesù il vero Dio;
contro Apollinare, esclude in anticipo la divisione di Gesù FdD e Gesù Figlio di Maria: Gesù
è una persona sola.
2. Origene (254)
Contemporaneo di Tertulliano , nato ad Alessandria, soffrì la persecuzione dei Romani. Fu
uno scrittore prolifico, forse il più fecondo del bacino Mediterraneo. La sua specialità era
l’esegesi, tendendo, più che ad una teologia sistematica, a ricavare commenti spirituali dalle
Scritture. Origene converge con Tertulliano, nel senso che sviluppa la sua teologia in reazione
alle eresie del tempo. Contro i modalisti, manteneva le tre hypostasis nella Trinità: hypostasis
nel senso di soggetto individuale e non di sostanza.
2.1. Contro gli Adozionisti, difendeva la generazione eterna del Verbo: il Cristo non è una
creatura, ma esiste eternamente, anzi “non c’è stato un momento in cui non fosse” (ouk en
hote ouk en, cfr De Principiis 1.2.9; 4.1.2; 4.4.1). Contro i Valentiniani, negava qualsiasi
divisione in Dio: Egli non si separa dal Figlio, così come questi non è una porzione del Padre,
anche quando si incarna.
2.2. Origene sosteneva una sorta di “subordinazionismo” quando parlava delle missioni
economiche del Figlio e dello Spirito. Nonostante parlasse del potere infinito del Figlio e dello
Spirito, al pari del Padre, e della loro eternità, Origene ha spesso fatto uso di un linguaggio
maldestro e impreciso. Il Logos, per Origene, è il mediatore, un po’ come nel platonismo, lo
strumento della Creazione e della Rivelazione. Tutto sommato è evidente che Origene affermi
in tutte le sue opere la divinità del Figlio.
2.3. Circa l’umanità del Verbo, manteneva una teoria platonica: la preesistenza delle anime,
che solo successivamente, e a partire da un dato momento, vengono ad esistere in un corpo
creato. Così sarebbe avvenuto anche per Gesù. E’ vero che l’anima di Gesù in quanto uomo,
così come il suo corpo, è una realtà creata anche se priva di peccato, ma non è lecito parlare
della preesistenza dell’anima.
Origene sembra anche introdurre esplicitamente l’idea della “Communicatio idiomatum”,
concetto che probabilmente risale ad Ignazio d’Antiochia e a Paolo stesso. La comunicazione
degli idiomi consiste in questo: c’è un solo soggetto in Cristo che gode di due nature distinte,
una infinita, divina, l’altra umana, finita. In virtù della Communicatio idiomatum, si possono
attribuire ad una natura gli attributi propri dell’altra. Ad es., “Il FdD morì sulla croce”: Gesù,
vero Dio, morì sulla croce, ma in quanto era anche vero uomo. O ancora: “Il Figlio di Maria
creò il mondo”. Gesù, vero uomo, creò il mondo, poiché era anche vero Dio. Il titolo
Teotokos, Madre di Dio, può così essere applicato a Maria in virtù della communicatio
idiomatum: Maria ha dato la vita all’uomo Gesù, il quale è però, vero Dio, quindi Maria è
Madre di Dio.
TESI 7: l’insegnamento cristologico di Nicea I, Costantinopoli I,
Efeso, Calcedonia e Costantinopoli III.
LA DIVINITÀ DEL FIGLIO /LOGOS: ARIO, NICEA E S.ATANASIO
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1. Ario (± 260-336 d.C.)
Abbiamo parlato precedentemente della dottrina trinitaria di Origene: tre hypostasis, ossia tre
individui distinti tra loro. Origene, in qualche modo, ha insinuato una sorta di subordinazionismo del
Figlio e dello Spirito rispetto al Padre.
1.1. Ario apparteneva alla scuola di Alessandria e spinge alla forma estrema il subordinazionismo di
Origene. Per Ario solo il Padre è il vero Dio, poiché è ingenerato, e l’essenza divina è incomunicabile.
Il sostantivo homoousios, per Ario, è inaccettabile, poiché interpretava in modo fisico quell’aggettivo,
quasi che il Figlio fosse una porzione fisica del Padre; ma Dio non si può dividere in due o tre parti.
1.2. Anche i Sabelliani fanno da sfondo ad Ario: essi erano per la “monarchia divina” assoluta, non
distinguendo Padre, Figlio e Spirito, che altro non sono che ruoli differenti dell’unico soggetto divino.
Essi, pertanto, si rifiutavano di distinguere i tre principi personali divini. Ario, invece, faceva queste
distinzioni, anche se ha trascurato lo Spirito. Volendo inoltre salvaguardare l’assoluta unità di Dio,
diceva che il Figlio era infinitamente inferiore al Padre: è una creatura, ma non come le altre creature.
Atanasio gli rimproverò questa sciocchezza. Il Figlio era creato ex-nihilo, per volere del Padre;
inoltre, non esisteva dall’eternità. Ario si servì della frase “c’è stato un momento in cui non esisteva”,
frase del III sec., che Origene aveva rigettato.
1.3. Il Logos, per Ario, è quasi un demiurgo intermediario tra Dio e l’Universo, inferiore a Dio, che
forma le altre creature: non è veramente Dio, così come non è veramente uomo. Difatti, per Ario, il
Logos incarnato non ricevette l’anima umana razionale. Questa idea falsa ritornerà qualche decennio
dopo, nelle opere di Apollinare.
1.4. I primi Xni seguivano la prassi della sinagoga: gli Ebrei alla fine della preghiera, aggiungevano la
dossologia per rendere gloria a Dio. Nel IV sec., la dossologia era “Gloria al Padre per il Figlio nello
(o con lo) Spirito”, e Ario interpretava il “per” come l’inferiorità del Figlio. I Xni ortodossi, invece,
ripresero la dossologia anteriore, risalente già al III sec. “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito
Santo”: si tratta della piccola dossologia, mentre la grande dossologia è il “Gloria in excelsis Deo”.
2. IL CONCILIO DI NICEA (325)
2.1. Il concilio sottolineò la vera divinità del Figlio, anche se usò in parte una terminologia non
sempre precisa. Il Figlio è “dalla sostanza (ousia) del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da
Dio vero, generato, non creato, consostanziale al Padre” (DS125); il Padre quindi comunica
pienamente la sua divinità al Figlio. La divinità di Gesù è espressa in dimensione trinitaria, e non al di
fuori di tale contesto. A Nicea si deve dunque l’espressione “generato, non creato”.
2.2. I Padri Conciliari condannarono coloro che sostenevano la non preesistenza del Figlio: anàtema
contro quelli che ritengono del Figlio che “ci fu un momento in cui non c’era, fu creato dal nulla e di
un’altra hypostasis o ousia” dal Padre (DS126), compresi Ario e i suoi seguaci. Essi adotteranno i
termini hypostasis e ousia come sinonimi. Papa Dionigi, scrivendo al Vescovo di Alessandria, usava
hypostasis come sostanza/essenza, e non come Origene: principio individuale.
L’aggettivo “homoousios” = della stessa sostanza, ha trovato alcune difficoltà: era da intendere come
essenza comune a diversi individui (sostanza generale), o specifica e individuale?
Atanasio riconobbe il problema: il senso numerico individuale di tale aggettivo fu chiarito in seguito
dai padri Cappadoci. L’altro equivoco risale all’uso dei termini hypostasis e ousia. Se si usa “della
stessa hypostasis”, alcuni Vescovi obiettavano che si potesse cadere nell’errore Sabelliano: nessuna
distinzione personale.
3. DOPO NICEA
I Vescovi accettarono con riluttanza “homoousios”; alcuni proposero il termine “homoiousios” = di
una sostanza simile. Come mai, però, i Padri conciliari scelsero homoousios? Forse per opporsi ad
Ario, che rifiutava in assoluto il termine homoousios.
3.1. Alcuni Vescovi dicevano che homoousios non era un termine biblico, e quindi non andava
adottato. Il nostro stesso Credo segue un linguaggio biblico, per cui non era opportuno usare un
termine extra-biblico. Paolo di Samosata, Vescovo deposto, usò lo stesso aggettivo, pertanto i Vescovi
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non vollero riprendere lo stesso suo linguaggio. Altri vedevano una possibile erranza linguistica, come
per i Sabelliani. L’altra questione riguardava il significato specifico o generico di homoousios, ma
tale questione non fece molta strada.
Altri ancora dicevano che tale aggettivo poteva interpretarsi in senso materiale, e pertanto il Padre ed
il Figlio erano due parti della stessa materia.
3.2. I difensori del termine furono diversi, ad es. Basilio: egli, in dialogo con quelli che preferivano
homoiousios, affermava che “somiglianza” non può essere il termine adatto per esprimere la divinità
del Padre e del Figlio. Il termine poteva essere accettato solo se indicava una somiglianza senza
differenza. Egli, inoltre, proponeva la linea di Origene, interpretando hypostasis come principio
individuante, distinto da ousia. Egli dice: “Accetto la formulazione «simile per essenza» se vi si
aggiunga l’espressione «senza differenza»” (Epist. 9.3). Basilio inoltre appoggerà la piccola
dossologia “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”, risalente a Mt 28,19.
3.3. Atanasio (±295-373) fu un altro difensore dell’insegnamento Xtologico di Nicea: egli si oppose
agli Ariani, ma dal 350 insistette sul termine homoousios per esprimere l’unità del Figlio col Padre.
Al tempo stesso era aperto al termine homoiousios, a qualche condizione: il Figlio è eterno, sempre
presente al Padre, e non è una creatura per volere divino.
3.4. La Xtologia di Atanasio detta del Logos/sarx, aveva al centro Gv 1,14: “Il Verbo si fece carne”.
Egli metteva in rilievo la divinità del Figlio dicendo che il Padre non è mai senza il suo Verbo. La
creazione operata dal Figlio sta ad indicare la divinità stessa del Figlio. Circa la divinizzazione di noi
uomini, Atanasio diceva che una simile opera la poteva realizzare solo un “figlio naturale” di Dio,
ossia un Figlio realmente Dio. Vi è però qualche ombra nella Xtologia di Atanasio: egli non accetta la
mescolanza tra umanità e divinità in Gesù, e neanche che il Figlio abbia assunto l’umanità
“trasformandosi”, come potrebbe succedere se l’acqua miracolosamente si trasformasse in vino. Gesù,
per Atanasio, ha sofferto fisicamente, pur senza mai aver avuto malattie. L’anima razionale umana,
inoltre, non era importante teologicamente: la sua interpretazione apriva la strada ad Apollinare, che
negava l’anima razionale di Xto. Ancora oggi, però, alcuni ritengono che l’anima del Xto fosse solo
divina e non realmente umana.
L’UMANITA’ E L’UNITA’ DI CRISTO
1.1. Nicea ha dato un insegnamento piuttosto trinitario, mantenendo la divinità eterna del Figlio. La
questione si estende alla divinità dello Spirito. Verso il 360 vi erano due partiti: gli homoousiani, che
sostenevano che Figlio e Spirito erano della stessa sostanza del Padre; contro di loro vi erano gli
Ariani, o Anomei, secondo i quali lo Spirito è inferiore al Padre ancor più del Figlio.
1.2. “Una ousia e tre hypostasis” è la terminologia classica, che risponde alla formula di Tertulliano
“una sostanza e tre persone”. I Padri Basilio, Gregorio Nazianzeno e spesso Gregorio di Nissa,
usavano scambievolmente hypostasis (sussistenza individuale e distinta con le proprietà particolari) e
prosopon (il “volto” o la manifestazione visibile dell’hypostasis). Prosopon è un termine meno
metafisico rispetto a hypostasis.
Il termine physis, usato da Origene e Atanasio, fu usato anche nel concilio di Costantinopoli
I.
1.3. Atanasio, che morì dopo una vita tormentata, parla della physis di Dio; pur essendo pronto a
parlare di tre hypostasis in Dio, preferisce usare prosopon. Egli non condivide il linguaggio dei Padri
Cappadoci, ma riprendendo Nicea, usa hypostasis come principio individuale.
1.4. Con Costantinopoli I (381) abbiamo lo stesso linguaggio trinitario dei Padri Cappadoci: in
occasione del Sinodo post-conciliare, in una lettera a Papa Damaso, i Padri sinodali adottano il
linguaggio dei Padri Cappadoci: “una sola divinità, potenza, sostanza (ousia) ... in tre perfettissime
hypostasesin, cioè in tre perfetti prosopois” (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, p.28).
2.1. La problematica Xtologica fu causata da Apollinare: Atanasio riprese quello stesso linguaggio per
errore. Incarnandosi, il Verbo di Dio non avrebbe assunto, secondo Apollinare, una umanità integrale.
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Apollinare usava sarx nel senso greco e non in quello biblico: in quest’ultimo caso sarx indica
l’umanità intera (tutti gli uomini), o un’umanità integrale.
2.2. Apollinare interpretava sarx secondo l’uso greco. L’uso di physis è anche equivoco, mettendo da
una parte in rilievo l’unità del soggetto, dall’altra il principio unico attivo nel Verbo incarnato, ma
senza l’anima razionale. Il concetto di sarx è dunque ridotto a corpo più anima vivificante ma non
razionale.
2.3. Gregorio di Nazianzo, e dopo Gregorio di Nissa, parlano, nella Xtologia, delle due physeis di
Xto. Per primo Gregorio Nisseno distingue physeis e il prosopon di Xto. Il vocabolario trinitario è
dunque assunto in Xtologia.
Solo a partire dal 431 si comincia ad applicare hypostasis a Xto.
3. Costantinopoli I: riafferma che il Figlio è homoousios al Padre (v. già Concilio di Nicea), contro gli
Anomei e quelli che negavano la divinità dello Spirito Santo. Essi non hanno però introdotto nel
nostro Credo l’aggettivo homoousios in riferimento allo Spirito. Vi fu anche un’anàtema
all’insegnamento di Apollinare, che negava l’umanità integrale di Xto, escludendo la presenza di
un’anima superiore. In conclusione: Nicea afferma che Gesù è veramente Dio; Costantinopoli I, che
Gesù è veramente uomo.
4. L’unità di Xto secondo i Cappadoci: come spiegare il mistero dell’unione in Xto della sua umanità
e divinità?
I Padri Cappadoci non sono stati di grande aiuto; essi cercavano di spiegare l’unità con termini presi
dalla filosofia stoica: si servono delle categorie materiali di krasis e synkrasis (mescolanza). Si
possono mescolare due metalli o altre sostanze, ma non si può parlare allo stesso modo circa
l’umanità e la divinità di Xto. Questa diventerà, un sec. dopo, l’eresia dei monofisiti.
5.1. La scuola antiochena (Logos/anthropos) e quella alessandrina (Logos/sarx): come spiegare
l’unione tra la vera divinità (contro l’eresia ariana) e l’umanità perfetta (contro l’eresia apollinarista)?
Ad Antiochia (Xtologia dal basso: dai Vangeli), e ad Alessandria (Xtologia dall’alto: da Gv) vi è
quella sorta di opposizione Logos anthropos - sarx: S.Giovanni Crisostomo (Antiochia) da una parte e
Cirillo d’Alessandria dall’altra.
Entrambe le scuole volevano opporsi ad Ario e ad Apollinare, mantenendo la vera divinità e umanità
di Xto, anche se seguivano vie differenti. Difatti gli Ariani erano abbastanza presenti, nonostante la
condanna di Nicea; gli apollinaristi invece non sparirono subito.
5.2. Nestorio (+451) dal 428 patriarca di Costantinopoli. Il suo problema era di tipo terminologico. Il
termine synapheia indicava per lui una sorta di unione morale delle due nature, in un prosopon di Xto.
Egli voleva difendere l’integrità delle due nature, ma il termine synapheia potrebbe anche voler
indicare due individui. La sua Xtologia era quindi criticabile, poiché poteva alludere non ad un unico
soggetto. Il termine prosopon, per Nestorio, non indicava una mera apparenza, ma una
manifestazione; ma il termine in questione potrebbe avere significato puramente funzionale: due figli,
quello di Maria e quello di Dio, uniti moralmente. Il termine prosopon, inoltre, era usato al plurale, il
ché indicava che in Xto ci sono due soggetti.
Cirillo d’Alessandria criticò prontamente questa posizione sbagliata di Nestorio.
5.3. Altro problema attorno al titolo mariano di Teotokos = Madre di Dio. Questo era già usato dalla
gente comune, e risale al Vangelo di Lc, quando Elisabetta chiama Maria “Madre del mio Signore
(Kyrios)” (cfr Lc 1,43). Quel titolo, sviluppato da Origene, e usato nel IV sec., era quindi alquanto
diffuso. Nestorio non poteva accettare tale titolo: sappiamo però che tale titolo è legittimo in virtù
della “communicatio idiomatum”. Nestorio, forse, non ha riflettuto abbastanza sul Credo, il quale
parla di un solo soggetto, Gesù Xto nostro Signore, FdD, con diversi attributi umani e divini.
IL CONCILIO DI EFESO (431)
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1.1. La problematica centrale è stata creata dall’insegnamento di Nicea I e da Costantinopoli I
(divinità e poi umanità del Xto). Nella lettera sinodale mandata da Papa Damaso (382) si dice “è
divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza”. Quel Sinodo è stato trascurato
perché avvenne subito dopo Cost.I, e ci dà l’interpretazione ufficiale del nostro Credo. L’enfasi è
messa sulla salvezza: il motivo soteriologico è centrale. I primi due concili (Nicea e Cost. I) volevano
dunque difendere l’integrità della divinità e l’umanità del Xto. Ma come interpretare l’unione tra le
due senza eliminare la diversità?
1.2. Il problema può essere ricondotto alla comunicazione degli idiomi, la prassi che risale al NT: ad
es., S. Paolo dice che “il Signore della gloria fu crocifisso”. La comunicazione degli idiomi permette
di parlare dello stesso soggetto secondo gli attributi di una natura, e al tempo stesso di una seconda
natura posseduta dallo stesso soggetto. Ad es., “Il Figlio di Maria creò il mondo”, intendendo che
Gesù, nato da Maria, in quanto Dio, creò il mondo. Questa prassi risale dunque a S.Paolo e ai primi
Padri della Xsa, come Melitone di Sardi (“Dio fu crocifisso”); Tertulliano ugualmente adottò un
linguaggio simile. Anche i Padri cappadoci, come Gregorio di Nazianzo, che scrisse “il Figlio di Dio
nacque..”. La questione però si concretizzò attorno al titolo mariano di “theotokos”, che ha tuttavia
una portata Xtologica: Maria è detta Madre di Dio. Come possiamo affermare questo? Alcuni
pensavano fosse sufficiente dire che Maria è madre dell’uomo Gesù. Ma liturgicamente, anche
secondo l’usanza popolare, Maria è Madre di Dio. E’ un solo soggetto che giustifica quella
attribuzione: il Figlio dell’Eterno è anche Figlio di Maria.
1.3. Il problema, dalla fine del IV sec., era quello di cercare la soluzione a livello delle nature, invece
che al livello personale. Alcuni sostennero, secondo un’analogia maldestra, che l’unione tra le nature
del Xto è come l’unione tra l’anima ed il corpo (v. Cirillo...). Si tratta di un’analogia rifiutata ad es.,
da S.Tommaso. Difatti, anima e corpo non sono nature complete: la nostra anima e il nostro corpo
divengono una sostanza completa solo stando assieme. Nel caso del Xto si tratta dell’unione di due
nature complete.
Inoltre, l’umanità e la divinità rappresentano una dualità di nature, che di per sé non può giustificare
l’unità. Infatti, la soluzione del problema si trova a livello personale.
2. Nestorio voleva ad ogni costo mantenere la distinzione tra umanità e divinità di Xto, poiché solo
così, per lui, veniva mantenuta l’integrità di entrambe le nature. Egli afferma che bisogna distinguere
l’uomo Gesù e il FdD “... per non far scomparire le proprietà delle nature (ta ton physeon)
assorbendole nell’unica filiazione” (epistola a Cirillo). Il problema relativo a Nestorio, con il termine
“congiunzione” non indicava la kenosi dell’unione, ma di una separazione tra umanità e divinità.
Tutto sommato la terminologia di Nestorio introduceva due soggetti, il FdD e il Figlio di Maria uniti
moralmente tra loro.
3.1. Cirillo, senza saperlo ha adottato una frase di Apollinare: “mia physis tou (theou) logou
sesarkomenoe(ou)”; credeva infatti che la frase fosse di Atanasio. Cirillo voleva difendere l’umanità
integrale del Xto, ma in realtà la frase è alquanto equivoca. Con “Mia Physis”, Cirillo voleva riferirsi
ad un unico soggetto (concreto, esistente) in Xto. Ma all’epoca physis poteva anche indicare natura,
come principio di attività, sicché alcuni critici leggevano quella frase come se venisse mescolata
l’umanità e la divinità del Xto. Cirillo stesso si difese da quelle critiche dicendo che non voleva creare
quella confusione.
3.2. La seconda Epistola di Cirillo a Nestorio è un documento estremamente importante per lo
sviluppo della dottrina Xtologica, e preparò la strada al Concilio di Calcedonia. Ci sono almeno sette
punti centrali:
1) Cirillo si appella al Credo, considerandone il valore teologico: lì gli attributi umani e divini sono
riferiti allo stesso soggetto. Si confessa infatti “un solo Signore Gesù Xto, Dio vero da Dio vero,
della stessa sostanza del Padre,... si è fatto uomo...”, sicché il nostro credo esemplifica la
comunicazione degli idiomi.
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2) Nella stessa lettera Cirillo introduce l’espressione “kath’hypostasin”, che la grande eco anche a
Calcedonia, ossia unione ipostatica; ma non dobbiamo commettere un errore anacronistico: a volte
vuol dire ipostaticamente, ipostaticamente, ma quando Cirillo usa l’espressione vuol dire
“sostanzialmente”, e non è sempre del tutto chiara.
3) Parla anche di una carne animata da un’anima razionale (logikè), opponendosi chiaramente ad
Apollinare. Indubbiamente Cirillo non esplorava il significato teologico dell’anima razionale del
Xto, ma senza dubbio non è apollinarista.
4) Si parla inoltre di due nature, nonostante l’espressione “mia physis”, linguaggio che poi diventerà
ufficiale a Calcedonia.
5) Si parla anche della doppia generazione, idea che risale ad Ireneo.
6)La comunicazione degli idiomi, idea che risale ad Origene e che Cirillo rende più esplicita.
7) Cirillo difende anche il linguaggio che risale ad Ireneo: un solo soggetto in Xto, opponendosi
all’idea dei “due Figli”, e di usare il termine “prosopon” al plurale. Difende inoltre il titolo
mariano di “theotokos”.
4.1. Concilio di Efeso (giugno 431): Cirillo si dimostrava un po’ prepotente, in quanto aprì il Concilio
senza aspettare i Vescovi provenienti da Antiochia, il Patriarca e i tre delegati del Papa. Il Concilio
essenzialmente riconobbe la seconda lettera di Cirillo come conforme alla fede di Nicea I: in quella
lettera Maria è detta “theotokos”, sicché quel titolo venne approvato come valido. Scomunicò
Nestorio, che fu quindi deposto.
4.2. L’importanza del Concilio sta nel fatto che si oppone a qualsiasi separazione tra l’umanità e la
divinità di Xto: Efeso mette quindi in rilievo l’unione tra umanità e divinità. Ma se l’umanità e la
divinità non sono separate, come si illumina la loro distinzione? Efeso non intendeva negare la
distinzione tra umanità e divinità, anche se non l’ha spiegarta. Inoltre, cosa succede alla nuova
umanità creata di Gesù nell’incarnazione, quando il Logos la assume? Efeso non ha chiarito questi
punti. Altro problema riguarda la terminologia, che per diversi anni è rimasta alquanto fluida. I
termini chiave sono hypostasis, prosopon e physis. Cirillo, ad es., grande protagonista del Concilio,
usa indifferentemente sia “mia physis” che “due nature”. Anche per quanto riguarda hypostasis, Nicea
lo usava come sinonimo di ousia (essenza, sostanza), e Cirillo stesso usava hypostasis e prosopon
come sinonimi.
5.1. I vescovi antiocheni (esclusi dal concilio da Cirillo) composero la cosiddetta “formula di unione”,
accettata da Cirillo, e adottata da Calcedonia. In quella formula (agosto 431) gli antiocheni accettano
il titolo mariano di theotokos, e quindi implicitamente accettano la comunicazione degli idiomi
(abbandonando Nestorio). In secondo luogo parlano di “perfetto Dio e di perfetto uomo”: le due
nature, umana e divina, sono perfette in Xto. Accettarono la doppia generazione, eterna e temporale, e
la doppia consostanzialità: Xto è consostanziale al Padre nella sua divinità, e agli uomini nella sua
umanità. Abbandonarono il termine “congiunzione” di Nestorio, e adottarono il termini “henosis” =
unione, usato da Cirillo e “duo physeon” = due nature, inconfuse. In questo modo prepararono la
strada per il concilio di Calcedonia.
5.2. Cirillo, nell’epistola 39 cita parola per parola la formula di unione, volendo evitare qualsiasi
malinteso, accettando l’espressione delle due nature, ecc.. Però parla della “differenza delle nature
dalle quali c’è l’unione”, aprendo la porta, non volendo, all’eresia di Eutiche: l’idea delle due nature
prima dell’incarnazione, confuse nell’incarnazione.
IL CONCILIO DI CALCEDONIA (451)
Le scuole di Antiochia e Alessandria ebbero un influsso notevole ai Concili di Efeso e Calcedonia:
esse difendevano l’umanità e la divinità di Xto, e si opponevano, quindi, ad Ario e ad Apollinare. La
differenza è che Antiochia proponeva una Xtologia dal basso, preferendo i Vangeli sinottici
(Giovanni Crisostomo fece un ampio commento al Vangelo di Matteo), mentre la scuola di
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Alessandria proponeva una Xtologia dall’alto. Essa metteva in rilievo l’unione in Xto, mentre
Antiochia metteva in risalto la distinzione tra l’umanità e la divinità di Xto. Si tratta ovviamente delle
tendenze tipiche delle due scuole.
Dopo Efeso (431), la formula di unione mise pace tra Antiochia ed Alessandria: Nestorio fu deposto e
mandato in esilio. Dopo la morte di Cirillo d’Alessandria (444), ci fu una polemica suscitata da:
1.1. Eutiche, che affermava che dopo l’incarnazione, la natura umana del Xto è stata assorbita da
quella divina. Nonostante la sua veneranda età e la sua confusionarietà, ebbe un grande influsso,
spingendo all’eccesso l’insegnamento di Cirillo. Aprì la strada al monofisismo (una sola natura in
Xto), ma tutto sta nel come si interpreta il termine physis.
I “Difisiti”, che difendevano le due nature nel Xto, potrebbero essere ortodossi o eterodossi a seconda
della definizione che essi adottano di physis.
Tornando a Eutiche e alla sua teoria, dopo l’incarnazione ci sarebbe una sola physis in Gesù, quella
divina. Egli propone una sorta di mescolanza: la natura umana sta a quella divina come una goccia di
miele nel mare, cioè sparisce. Eutiche fece appello alla formula controversa di Cirillo: “mia physis tou