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Letture umanistiche del Digesto lungo il XV secolo Da Valla a Poliziano GIOVANNI ROSSI Università di Verona 1. Il tema della rilettura del Digesto in età umanistica (nelle molteplici accezioni ricon- ducibili a tale nozione, compresa quella di una radicale riattribuzione di significato rispetto all’approccio medievale) è certamente troppo vasto per essere esaurito in un singolo saggio e sarà qui sviluppato per grandi linee, attraverso il rimando alle posi- zioni emblematiche di alcuni autori, privilegiando il lavoro compiuto intorno ad esso da quegli umanisti (cioè letterati) che più lucidamente ed efficacemente di altri hanno elaborato in merito posizioni culturali divenute poi in qualche misura esemplari e quasi paradigmatiche nel grande dibattito svoltosi tra XV e XVI secolo intorno al dirit- to romano, per un verso, ed alla scienza giuridica di ius commune, per l’altro. Si tratta infatti di ripercorrere in sintesi la storia della emersione di un modo nuovo e volutamente alternativo rispetto a quello medievale di volgersi allo studio del Digesto, posto che anche in età umanistica non si cessa d’interrogare tale fonte, riconoscendone il carattere di autorevole deposito di regole e principi giuridici; al contempo, tuttavia, si inizia a discuterne il valore, culturale e normativo, a partire dalla duplice natura – che segna il monumento creato da Triboniano sin dalla sua ideazione e dalla sua promulgazione, per volere esplicito di Giustiniano – di testi- monianza storica del diritto di epoche passate (l’età del principato) ed insieme di testo giuridico vigente e quindi vincolante nel presente. Ciò avviene mettendo pro- gressivamente a profitto altri strumenti e mirando ad altri fini rispetto ai paradigmi scientifici elaborati ed applicati dalla giurisprudenza medievale, anche se in realtà essi rimangono ancora presenti e vitali, ben addentro all’età moderna, nelle convin- zioni diffuse dei giuristi e negli scritti dei maestri del mos italicus, sostanziando la prassi dei tribunali e l’insegnamento universitario di buona parte del continente europeo e segnatamente della penisola italiana. 1 Intorno alle Pandette, dunque, si coagula un coacervo di questioni e di problemi che attengono a pieno titolo alla sto- 1 Si veda ora su tutto ciò il contributo di M.N. MILETTI, Il Digesto nella cultura giuridica italiana della prima età moderna, in questo volume, infra, 411-459, passim.
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Apr 05, 2023

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Alfredo Rizza
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Letture umanistiche del Digesto lungo il XV secoloDa Valla a Poliziano

GIOVANNI ROSSIUniversità di Verona

1. Il tema della rilettura del Digesto in età umanistica (nelle molteplici accezioni ricon-ducibili a tale nozione, compresa quella di una radicale riattribuzione di significatorispetto all’approccio medievale) è certamente troppo vasto per essere esaurito in unsingolo saggio e sarà qui sviluppato per grandi linee, attraverso il rimando alle posi-zioni emblematiche di alcuni autori, privilegiando il lavoro compiuto intorno ad essoda quegli umanisti (cioè letterati) che più lucidamente ed efficacemente di altri hannoelaborato in merito posizioni culturali divenute poi in qualche misura esemplari equasi paradigmatiche nel grande dibattito svoltosi tra XV e XVI secolo intorno al dirit-to romano, per un verso, ed alla scienza giuridica di ius commune, per l’altro.

Si tratta infatti di ripercorrere in sintesi la storia della emersione di un modonuovo e volutamente alternativo rispetto a quello medievale di volgersi allo studiodel Digesto, posto che anche in età umanistica non si cessa d’interrogare tale fonte,riconoscendone il carattere di autorevole deposito di regole e principi giuridici; alcontempo, tuttavia, si inizia a discuterne il valore, culturale e normativo, a partiredalla duplice natura – che segna il monumento creato da Triboniano sin dalla suaideazione e dalla sua promulgazione, per volere esplicito di Giustiniano – di testi-monianza storica del diritto di epoche passate (l’età del principato) ed insieme ditesto giuridico vigente e quindi vincolante nel presente. Ciò avviene mettendo pro-gressivamente a profitto altri strumenti e mirando ad altri fini rispetto ai paradigmiscientifici elaborati ed applicati dalla giurisprudenza medievale, anche se in realtàessi rimangono ancora presenti e vitali, ben addentro all’età moderna, nelle convin-zioni diffuse dei giuristi e negli scritti dei maestri del mos italicus, sostanziando laprassi dei tribunali e l’insegnamento universitario di buona parte del continenteeuropeo e segnatamente della penisola italiana.1 Intorno alle Pandette, dunque, sicoagula un coacervo di questioni e di problemi che attengono a pieno titolo alla sto-

1 Si veda ora su tutto ciò il contributo di M.N. MILETTI, Il Digesto nella cultura giuridica italiana della prima etàmoderna, in questo volume, infra, 411-459, passim.

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ria della cultura europea tout court, e non solo alla storia del diritto o della scienzagiuridica della prima modernità.

Nella lunga epoca che si snoda tra Umanesimo e Rinascimento, tra primo Quat-trocento e tardo Cinquecento, periodo cruciale per la formazione dell’Europa mo-derna sul piano politico, culturale ed anche giuridico, assistiamo alla lenta ma ineso-rabile affermazione, sull’onda della riflessione culturale umanistica che reimposta ilrapporto con la classicità, della centralità della questione relativa alla forza normati-va ed al valore scientifico ancora riconoscibili al Digesto (e più in generale all’interoCorpus iuris civilis). Sulla scorta della critica serrata alla impostazione tradizionale(medievale) condotta dagli umanisti lungo il Quattrocento, in avvio del XVI secolola parte intellettualmente più vivace e culturalmente aggiornata della giurisprudenzaeuropea, pur dovendo ancora fronteggiare resistenze e sordità diffuse tra i giuristisostenitori di quello che di lì a poco assumerà la denominazione di mos italicus,ammette infine l’esistenza del problema e ne imposta le possibili soluzioni. Si trattadi nodi di primario rilievo il cui scioglimento influenzerà profondamente l’evoluzio-ne del diritto europeo nella prima età moderna: di tale vicenda non è lecito dare per-tanto una lettura riduttiva, alla stregua di un’erudita versione della ‘disputa delle arti’tra letterati e legisti o di una appartata querelle teorica tra esperti di diritto alla stre-gua di un fisiologico ed in fondo marginale avvicendamento di scuole di pensiero, infunzione di un semplice aggiornamento ed affinamento del metodo di lavoro sui testigiurisprudenziali antichi.

La rinnovata attenzione degli intellettuali italiani ed europei verso le compilazioninormative di Giustiniano scaturisce da un interesse genuino per la Romanità che nonpuò prescindere dalla presa d’atto che il diritto ha rappresentato un pilastro fonda-mentale di quella civiltà, esprimendosi anzitutto nella forma peculiare ed originaledella riflessione giurisprudenziale.2 Per questo il monumento all’opera dei giurecon-sulti classici eretto per volere dell’imperatore bizantino assume una rilevanza centraleper la cultura umanistica e rinascimentale, ben oltre la cerchia degli esperti di diritto:di fatto, si voglia ascrivere il solerte lavoro selettivo di Triboniano a merito imperitu-ro o a colpa imperdonabile del quaestor sacri palatii, tutto ciò che resta dell’impegnointerpretativo plurisecolare dei giureconsulti romani si trova raccolto ed offerto allaposterità nei cinquanta libri delle Pandette, che assumono per i posteri il valore di unaimpareggiabile Wunderkammer che raccoglie e custodisce una delle più tipiche, origi-

2 Sull’evoluzione dell’ordinamento romano e sul ruolo centrale e del tutto originale in esso rivestito dalla giuri-sprudenza basti qui rimandare al profilo tratteggiato in A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente,Torino 2005.

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nali ed alte manifestazioni della cultura di Roma antica. In tale ottica, dotarsi dellachiave d’accesso che consenta di possedere realmente quei tesori di sapienza giuridicavalorizzandoli appieno nelle loro molteplici dimensioni (tecnico-giuridica ma anchelinguistica, storica, culturale in senso ampio) senza trascurarne alcuna, appare unimperativo irrinunciabile per gli studiosi del XV e del XVI secolo, avidi di recuperareogni possibile conoscenza che possa metterli in contatto diretto con il mondo antico,rimuovendo il diaframma fuorviante frapposto dalla civiltà medievale.

In effetti, a cominciare dal Quattrocento l’analisi dei frammenti raccolti nel Digestoconosce una profonda e rilevantissima svolta metodologica, che consente di mettere afrutto per la prima volta in modo consapevole e sistematico gli strumenti della storiae della filologia per la comprensione delle fonti romane ed apre le porte ad un piùgenerale ripensamento sul significato storico e giuridico del contenitore stesso di que-gli antichi testi, innescando un processo di verifica e di revisione critica del suo effet-tivo valore; esso sfocerà infine, nei tempi lunghi e nelle peculiari condizioni politico-istituzionali del regno di Francia della metà del Cinquecento, nella negazione della per-durante vigenza della compilazione di Giustiniano fuori dai territori imperiali (se nona seguito di un libero atto di recezione del sovrano), per scongiurare l’evidente impli-cazione di una subordinazione politica all’Impero veicolata e dimostrata dalla applica-zione del diritto romano giustinianeo quale diritto vigente.

Aperta dagli umanisti tale vistosa falla nella diga del dogma della ininterrotta vigen-za del Digesto, postulata senza eccezioni dai giuristi medievali e ridotta così in modosignificativo la valenza politica filoimperiale dello studio di esso, si potrà sottoporre adesplicito vaglio critico anche il contenuto delle singole norme, non più protette e reseformalmente intangibili dal fatto di essere formulate in testi legali appartenenti ad unordinamento tuttora in vigore, quindi obbligatori ed insindacabili, in ottemperanza alvolere solennemente proclamato da Giustiniano con la Constitutio Tanta e mai smen-tito espressamente nei secoli successivi.

Nella visione degli umanisti più coerenti (quali Lorenzo Valla in primis), ridotto ilDigesto ad un provvidenziale collettore di testi antichi ed autorevoli ma non più dota-ti di forza di legge, pare giunto finalmente nel XV secolo il momento propizio per ana-lizzare ed eventualmente criticare le dottrine degli antichi giureconsulti ivi tramanda-te, con la libertà che si addice alle operazioni conoscitive di natura squisitamentescientifica, senza incorrere per questo in divieti e sanzioni. Del resto, intesi quali testi-monianze preziose del passato, utili per approfondire la lingua, i costumi, le istituzio-ni di Roma antica, nella storicizzante concezione umanistica i frammenti confluitinella compilazione possono offrire preziosi lacerti di conoscenza della società romana,se valorizzati adeguatamente sotto il profilo linguistico e storico, non diversamente

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dalle narrazioni degli storiografi, dalle orazioni di Cicerone o dalle erudite discussio-ni antiquarie di Aulo Gellio.

Al contempo, però, tali premesse conducono necessariamente a prendere consape-volezza del fatto che l’immane castello di sofisticate interpretazioni tecniche elaboratodai giuristi medievali a partire dai passi giurisprudenziali raccolti nel Digesto, cheavvolge e soffoca le fonti classiche fino a farne talora dimenticare l’effettivo contenutoè tanto ingombrante quanto inaffidabile ed inservibile. Ciò in primo luogo perché quelcomplesso ed originale edificio teorico è costruito a partire da un testo corrotto, accol-to acriticamente come base di lavoro nel più totale disprezzo di qualsiasi cautela filo-logica, senza alcuna attenzione volta ad offrirne una ricostruzione il più vicina possi-bile al genuino dettato originario. Oltre a ciò, un altro elemento impedisce ai lettoriumanisti di giovarsi degli esiti della attività di interpretatio depositati nella Glossaaccursiana e nei posteriori commenti dei doctores medievali: il fatto che quegli inter-preti hanno svolto il loro lavoro senza essere realmente interessati a restituire il signifi-cato originale delle parole dei giuristi classici, bensì hanno mirato a rendere quelleriflessioni e le regole che ne scaturivano sensate e riutilizzabili nel presente, per risol-vere i problemi giuridici dei tempi nuovi (cioè dell’epoca medievale); questo è anche ilmotivo – oltre ad una oggettiva carenza di adeguati strumenti ermeneutici – per ilquale il problema della restituzione filologicamente affidabile dei passi confluiti nellePandette non appare ai Medievali così urgente e primario, né dal punto di vista teori-co né da quello pratico. Anche ammesso che il testo antico non sia quello che risultadalla Vulgata Bononiensis e che Triboniano per l’un verso e i copisti ed i lettori medie-vali per l’altro abbiano variamente modificato, integrato, alterato, corrotto, stravolto iltenore originale dei frammenti romani, il danno risulterebbe circoscritto e in fondotrascurabile; ciò perché per definizione i giuristi, a cominciare dal semileggendarioIrnerio – che ebbe l’ardire e la capacità di affrontare lo studio del Digesto così da poterdivenire primus illuminator scientiae nostrae, secondo le celebri parole di Odofredo –hanno fornito interpretazioni delle fonti all’occorrenza liberamente creative e nient’af-fatto pedisseque rispetto ai verba legum, capaci in tal modo di superare qualsiasi diffi-coltà testuale, solo apparentemente insormontabile.

All’opposto, fare della compilazione l’oggetto di uno studio filologicamente provve-duto ed inserirne i compositi materiali in una corretta cornice storica non può che pro-durre come effetto ultimo la sua tendenziale riduzione a puro oggetto di erudizione sto-riografica, quale prodotto di un’epoca lontana del passato (che, per di più, ha intesorecuperare testi ancora più antichi, nati in un contesto diverso e con altro valore). Apparecosì evidente che l’interpretatio dei giuristi medievali e lo studio storicizzante degli uma-nisti sono quanto di più lontano si possa immaginare, nei presupposti non meno che nei

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risultati attesi e che la sostituzione del secondo alla prima significa sottrarre allo iuscommune la base stessa su cui poggia la sua complessa costruzione teorico-pratica e pro-durre un terremoto destinato a far crollare quella costruzione per intero e per sempre.

2. Preliminarmente, può essere utile porre o ribadire alcuni punti fermi ricavabili dal-l’analisi delle fonti, che aiutino ad orientarsi in una vicenda di ampio respiro e parti-colarmente complessa, che ha rivestito di volta in volta (mutando i tempi e i luoghi esoprattutto cambiando i protagonisti del dibattito) caratteri e significato molto diver-si e che solo con grande cautela e qualche inevitabile approssimazione possiamo rap-presentare complessivamente in modo unitario nella sua evoluzione, ricondotta sottola comoda ma generica etichetta dell’affermazione dell’umanesimo giuridico.3

Anzitutto, ci sembra necessario richiamare l’utilità e la plausibilità ai nostri fini diuna scansione temporale che distingua nettamente tra XV e XVI secolo, corrispon-dente in sostanza al diverso ambito culturale nel quale il tema di un cambiamento diprospettiva nello studio del Digesto si afferma. Nella prima fase, infatti, della quale sol-tanto ci occuperemo in questa sede, il problema viene posto quasi esclusivamente daalcuni letterati italiani protagonisti di quella innovativa stagione culturale corrente-mente qualificata come umanistica; proprio a causa di tale genesi, paradossalmenteesso non varca la soglia delle aule delle facoltà giuridiche e tantomeno quella dei tri-bunali. In un secondo momento, invece, che coincide quasi perfettamente con l’avviodel Cinquecento, alcuni giuristi fanno finalmente propria la nuova sensibilità verso lefonti antiche e si fanno carico di una interpretazione rivista ed aggiornata delle Pan-dette, che metta a frutto le recenti acquisizioni filologiche e storiche. L’applicazione an-che nello studio del diritto romano giustinianeo del nuovo metodo di lavoro incen-trato sull’impiego della filologia e della storia apre orizzonti nuovi ed amplissimi,ponendo le condizioni in tal modo per l’affermazione del movimento che può pro-priamente denominarsi come umanesimo giuridico, corrente di respiro europeo ma,specie in un primo tempo, sviluppatasi soprattutto in Francia.

La scienza giuridica tradizionale, erede dello sforzo plurisecolare prodotto nel bassoMedioevo, volto anch’esso all’analisi ed alla interpretazione dei testi giustinianei ma subasi gnoseologiche e con intenti ben differenti, lungo tutto il Quattrocento rimane

3 Sarebbe velleitario in questa sede ogni tentativo di fornire una bibliografia ragionata sull’umanesimo giuridico neisuoi aspetti salienti (scansione temporale, figure ed indirizzi, dottrine); ci limitiamo qui a richiamare la ricognizioneofferta ormai mezzo secolo fa da D. MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1956, ancora utile come sin-tetico catalogo dei temi e degli autori di maggior rilievo in argomento, che in gran parte attendono tuttora appro-fondite ed aggiornate indagini, condotte in chiave storico-giuridica. Una buona sintesi più recente si legge in E.CORTESE, Il diritto nella storia medievale, II. Il basso Medioevo, Roma 1995, 461-484.

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fredda e quasi impassibile di fronte al nuovo approccio proposto dalla cultura umani-stica per lo studio delle fonti classiche, ivi comprese a pieno titolo le compilazioni rea-lizzate da Triboniano. I giuristi del maturo ius commune non paiono disposti ad abdi-care alla specificità di un metodo che ha dimostrato nel tempo una indubbia efficacia,per affidarsi agli strumenti dell’acribia filologica e della conoscenza storica, in vista diuna vera e propria rifondazione della loro scienza su basi nuove ed alternative a quelleben conosciute e sperimentate, genuino prodotto della cultura scolastica medievale.

I doctores legum quattrocenteschi sono ben consci di essere depositari di una sapien-za tecnica frutto della sedimentazione del lavoro di generazioni di giuristi, i qualihanno prima apposto glosse quasi ad ogni parola contenuta nei frammenti degli anti-chi giureconsulti e poi vergato ponderosi commenti per svelare appieno il significatodelle leges romane ed avviare quindi per mezzo di una ritrovata perizia tecnica la costru-zione di un edificio teorico-pratico originale e dai contenuti schiettamente medievali.Inoltre, gli esperti di diritto si trovano nel XV secolo – soprattutto in Italia – all’apicedel prestigio sociale, rispettati e ben remunerati per i loro servizi: professori ricercati econtesi dalle Università, consultori autorevoli nelle corti di giustizia, consiglieri ascol-tati del principe e come tali introdotti nelle stanze del potere. In tale cornice, paionodunque oggettivamente mancare i presupposti perché i giuristi siano indotti a metterein discussione il proprio sapere e a dubitare della sua fondatezza metodica; essi in effet-ti non comprendono le ragioni della condanna radicale delle loro opere, che ne negaogni scientificità, pronunciata dai letterati umanisti e respingono a scatola chiusa lacorrosiva analisi critica condotta da costoro contro quelle matrici gnoseologichemedievali che si sono rivelate nei secoli un efficacissimo supporto epistemologico perl’attività di interpretatio dei testi giuridici. Su tali basi, il contrasto si rivela pressochéinsanabile e produce una totale incomunicabilità tra gli alfieri del nuovo sapere retori-co-filosofico e gli epigoni di Bartolo, custodi intransigenti di una iurisprudentia chericerca entro di sé valori fondativi e regole epistemiche, fedele ad una tradizione didichiarata autonomia (se non di vera e propria autarchia) culturale che risale quanto-meno all’insegnamento del bolognese Azzone, in avvio del Duecento.4

La seconda precisazione riguarda l’ambito territoriale nel quale si sviluppa il dibat-tito qui ricostruito. Per un verso, la scuola del Commento – nonostante il ruolo impor-tante dei maestri dello Studium di Orléans – è stata avviata e consolidata in Italia nella

4 Su questi temi e sulle scelte operate nella scuola di Bologna con l’affermarsi della linea Giovanni Bassiano - Azzone -Accursio, circa la chiusura programmatica a saperi diversi da quello giuridico, si veda E. CORTESE, Il rinascimento giu-ridico medievale, Roma 19962, 39-42; cfr. anche G. ROSSI, ‘Duplex est ususfructus’. Ricerche sulla natura dell’usufruttonel diritto comune, I. Dai Glossatori a Bartolo, Padova 1996, 124-130.

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prima metà del Trecento da autori quali Cino e Bartolo, così come lungo tutto ilQuattrocento il primato nel campo degli studi giuridici è ancora saldamente mante-nuto dalle Università italiane (dopo Bologna, Alma Mater Studiorum, ricordiamo Pa-dova e poi ancora Perugia, Siena, Pisa, Pavia e via elencando: in Italia si sviluppa una re-te di centri universitari di prim’ordine che non ha paragoni Oltralpe; la qualità e ilnumero degli insegnamenti, uniti alla ingente presenza di studenti che affluiscono daogni parte d’Europa, sanciscono la superiorità degli Studia italiani sia sul piano quan-titativo che su quello qualitativo e li rendono privi di reali concorrenti almeno fino allafine del Medioevo); per altro verso, anche l’umanesimo – prima di diventare patrimo-nio comune della cultura europea – fiorisce e si sviluppa rigoglioso in terra d’Italia,sulle orme di Petrarca, a partire dal tardo Trecento. Il confronto conflittuale tra culto-ri di humanae litterae e giurisperiti che occupa gran parte del XV secolo si svolge dun-que quasi per intero nella Penisola e vede per protagonisti autori italiani, mentre solonel secolo successivo darà luogo ad una querelle diffusasi infine in tutta Europa.

Infine, appare senz’altro opportuno chiarire, in terzo luogo, che impostare lo studiodella nascita e dello sviluppo diacronico della scienza giuridica medievale e modernautilizzando come parametro privilegiato, se non addirittura unico, il rapporto instau-rato di volta in volta con le compilazioni giustinianee e segnatamente con il Digestosarebbe certamente – a nostro avviso – non solo riduttivo, ma francamente fuorvian-te. La corretta comprensione del tipo di lavoro compiuto dai giuristi rispetto alle fontigiuridiche e del ruolo centrale da costoro assunto nella vita del diritto dell’Europa neltardo Medioevo e poi in epoca moderna, in virtù della costitutiva vocazione del lorosapere a mettere in rapporto fatti e norme ed a trovare (all’occorrenza a coniare ex novo)la veste giuridica più adatta per le novità proposte dalla prassi, postula giocoforza laricostruzione di una dialettica complessa e variegata tra fonti romane e giurisprudenzatardomedievale e moderna, in definitiva sostanzialmente diversa da quella schematicaed unidirezionale fondata sulla pura recezione del diritto antico, in nome della suasuperiorità tecnica e della sua promanazione dall’autorità imperiale.

In estrema sintesi, il percorso che qui intendiamo seguire si snoda lungo un interosecolo e prevede di soffermarsi soprattutto su alcune figure, che si distinguono dal coroper la consapevolezza critica circa la messa a fuoco del problema dell’uso del Digesto eper l’originalità delle soluzioni proposte ovvero sperimentate: il riferimento va pertan-to ad autori quali Lorenzo Valla ed Angelo Poliziano.

Valla viene qui considerato perché è forse il primo ed il più coerente sostenitore, daposizioni umanistiche intransigenti, della rilevanza dello studio delle Pandette per ilrecupero di una piena conoscenza della civiltà romana, identificando nella lingua tec-nica degli antichi giureconsulti un patrimonio culturale di assoluta rilevanza da ricon-

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quistare al sapere umanistico; egli rompe in tal modo, già prima della metà del XVsecolo, il monopolio dell’interesse per l’opera di Triboniano spettante fino a quelmomento ai soli doctores legum, proponendo un metodo d’analisi alternativo e mani-festando al contempo un profondo disprezzo verso presupposti e risultati dell’interpre-tatio giuridica medievale, condotta anzitutto proprio su quei testi.

Poliziano, dal suo canto, incarna alla perfezione la figura del filologo che, forte dicompetenze inedite e soprattutto di una cultura più ampia e di una sensibilità nuova,si volge alla restituzione integrale del testo antico sfruttando l’opportunità di poteravere accesso alla littera Florentina; la sua morte prematura gli ha impedito di portarea termine il programma di lavoro previsto, ma non v’ha dubbio che, lontano da pole-miche strumentali e personalistiche verso i giuristi alle quali sovente i letterati indul-gono, la sua basilare ricognizione delle differenze tra il celebre manoscritto antico e laVulgata bolognese ha costituito la base per le moderne edizioni critiche ed ha rappre-sentato un elemento di novità ed uno stimolo a proseguire su quella strada per i giuri-sti della generazione successiva.

Personaggi esemplari, che hanno incarnato in anni e modi diversi – a ben vederenon propriamente contraddittori, bensì in qualche modo legati da una precisa lineaevolutiva – la tensione ad elaborare un approccio al Digesto aggiornato e più consape-vole, all’insegna dei canoni della cultura umanistica di cui sono tra i maggiori prota-gonisti, nella nuova epoca storica. Di tali autori analizzeremo sinteticamente i caratte-ri salienti delle opere nelle quali hanno espresso (ovvero concretamente messo in pra-tica) idee di particolare rilievo circa il significato da attribuire alle Pandette ed il modomigliore per studiarle e per cavarne contenuti (non soltanto giuridici) riutilizzabili peril presente, a distanza ormai di molti secoli dalla loro promulgazione come legge vigen-te, avvenuta in un contesto storico lontanissimo e del tutto alieno dalla situazione poli-tica e culturale, oltre che giuridica, esistente in Europa alla fine del Medioevo ed all’av-vio della modernità.5

3. Il primo nome che si affaccia alla mente di chi studia la novità delle posizioni uma-nistiche intorno al Digesto è senz’altro quello di Lorenzo Valla (Roma, 1405 o 1407-

5 La nostra disamina, dunque, arrestandosi alla fine del Quattrocento e concentrandosi sui contenuti del Digestopiuttosto che sul contenitore (fosse pure un manoscritto vetusto ed eccezionale come la Pisana, poi Florentina e pursapendo bene che la constitutio textus è preliminare all’interpretazione del testo stesso), non seguirà dettagliatamentefino alla sua conclusione – in pieno Cinquecento – la vicenda della messa a punto dell’edizione critica delle Pandette,avviatasi proprio con lo studio condotto dal Poliziano sulla littera Florentina. Tema importante, già studiato a fondosotto molteplici aspetti, ma che attende forse una riconsiderazione complessiva che sappia collegare in modo organi-co le nostre conoscenze intorno ad un capitolo non secondario della storia della cultura europea.

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1457).6 La precocità, rispetto al coevo panorama culturale italiano, con cui egli impo-sta il problema del rapporto con la scienza giuridica nelle sue diverse manifestazioni ela intransigente lucidità con la quale formula le sue tesi, argomentandole con una vispolemica di rara efficacia e con la forza di una preparazione culturale di grande ed inu-suale spessore, ne fanno a buon titolo il capostipite della nutrita schiera di umanisticritici nei confronti della scientia iuris medievale7 e, per converso, uno dei più convin-ti assertori dell’altissima qualità formale e (quindi anche) contenutistica dei testiassemblati da Triboniano nel Digesto.

Ai nostri fini, infatti, i prodromi tardo-trecenteschi dell’umanesimo non offronospunti di qualche rilievo, nell’ottica di un rinnovamento dell’approccio alla compila-zione giustinianea. Ciò, in primis, con riguardo a Francesco Petrarca il quale, eternostudente di leggi per formale obbedienza ai voleri del padre, fa mostra di un radicaledisinteresse per il diritto e la scienza giuridica, sia antica (cioè romana) e sia moderna(cioè medievale), non trattandone mai per esteso nella sua pur amplissima produzioneletteraria e dedicando al tema solo sporadiche ed estemporanee considerazioni, palese-mente generiche ed estrinseche, anche se già espressive di una sensibilità umanistica inargomento. Questo il racconto dello stesso Petrarca:

[…] inde Bononiam, et ibi triennium expendi et totum iuris civilis corpus audivi: futurus magniprovectus adolescens, ut multi opinabantur, si cepto insisterem. Ego vero studium illud omnedestitui, mox ut me parentum cura destituit. Non quia legum michi non placeret autoritas, queabsque dubio magna est et romane antiquitatis plena, qua delector; sed quia earum usus nequitiahominum depravatur.8

Il riconoscimento dell’importanza della voce degli antichi giureconsulti ha il tonodell’omaggio formale e di circostanza e resta del tutto privo di contenuti, se non il rife-rimento generico alla antiquitas delle leggi romane, che le rende di per sé venerande,ed alla nequitia degli uomini che ne ha sviato l’applicazione; d’altra parte la critica aigiuristi contemporanei di Francesco si risolve nell’addebito topico di servirsi del pro-prio sapere per appagare una rapace e sfacciata venalità, tradizionalmente riservato giànell’Antichità ad avvocati e patroni. Più mirato ed anche più personale suona il rilie-vo critico circa il disinteresse manifestato dai Medievali per la storicizzazione dei testi

6 Una sintetica informazione sul pensiero del Valla in relazione al diritto si trova ora in G. ROSSI, Lorenzo Valla, inP. CAPPELLINI - P. COSTA - M. FIORAVANTI - B. SORDI (dir. scientifica di), Enciclopedia Italiana, Ottava appendice. Ilcontributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma 2012, 102-105.7 A buon titolo è stato correttamente definito «vero iniziatore della polemica contro gli interpreti medievali e del-l’antitribonianismo»: MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico cit. (nt. 3), 37.8 F. PETRARCA, Posteritati, in E. BIGI (a c. di), Opere di Francesco Petrarca, commento di G. PONTE, Milano 1979, 978.

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giuridici classici, che impedisce di mettere a frutto le loro opere per lo studio dellasocietà dell’antica Roma e che rende in sostanza inutile la scientia iuris medievale toutcourt, intenta unicamente a recuperare un sapere tecnico destinato a trasformarsi infonte di lauti guadagni. Il riferimento d’obbligo è al passo tratto dalla Familiare a Mar-co Portonario:

[…] pars magna legistarum nostri temporis de origine iuris et conditoribus legum nichil aut parumcurat, didicisse contenta quid de contractibus deque iudiciis ac testamentis iure sit cautum, ut questudii sui finem lucrum fecerit, cum tamen artium primordia et auctores nosse et delectationeanimi non vacet et ad eius de quo agitur notitiam intellectui opem ferat.9

Per parte sua, Coluccio Salutati (Stignano, 1331 - Firenze, 1406) non aggiungenulla di specifico in merito al ruolo delle Pandette per la formazione culturale delnuovo intellettuale versato nelle humanae litterae. La sua professione di notaio lo rendecerto ben consapevole dell’importanza del diritto, di cui tesse l’elogio nel celebre trat-tato De nobilitate legum et medicinae (1399)10 ma, d’altra parte, proprio l’impostazio-ne tutta rivolta alla prassi tipica della preparazione del notaio medievale connota il suoapproccio al problema del valore intrinseco del Digesto e la sua valutazione dell’inter-pretatio dei testi classici formulata da Glossatori e Commentatori. La sua attività dinotaio e di cancelliere della Repubblica fiorentina lo mette in effetti al riparo dalrischio di svalutare la molteplicità delle fonti tipica del Medioevo giuridico (come acca-drà invece per Valla, sordo a tutto ciò che non provenga dalla romanità) e di assolu-tizzare la rilevanza del diritto romano in confronto a quello degli ordinamenti parti-colari, ed insieme gli consente di apprezzare la giurisprudenza a lui contemporanea peril solido aggancio con la dimensione applicativa del diritto, in nome del quale i ‘tradi-menti’ del vero significato del dettato romano appaiono un peccato veniale certamen-te perdonabile. Tutto ciò impedisce al Salutati di adottare una prospettiva unilateraledi esaltazione della tradizione giurisprudenziale romana a scapito di quella medievale,che sfoci nell’attribuzione al Digesto della funzione di unico deposito di sapienza giu-ridica, come invece gli riconoscerà nella generazione successiva Lorenzo Valla, conatteggiamento decisamente manicheo, anche se fondato su precise e dichiarate opzio-ni culturali. Si veda il cap. IX del De nobilitate, dove con equanime atteggiamento siricordano tanto i giureconsulti antichi quanto quelli medievali,11 accomunandoli nel

9 Lettera Ad Marcum Ianuensem (Marco Portonario), nei Familiarium rerum libri, 20.4.21, in F. PETRARCA, Opere, Introd.di M. MARTELLI, Firenze 1975, 1060. Su tutto ciò cfr. M.Q. LUPINETTI, Francesco Petrarca e il diritto, Alessandria 1995.10 Si può leggere, con la traduzione a fronte di Eugenio Garin, in C. SALUTATI, De nobilitate legum et medicinae - Deverecundia, a c. di E. GARIN, Firenze 1947, 1-273.11 Op. cit., 62-64 e 72, cap. 9.

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plauso per aver sviluppato una riflessione scientifica di alto livello sul diritto. Per altroverso, l’opera di cernita del materiale giurisprudenziale classico e di rifusione in un cor-pus normativo onnicomprensivo ed in sostanza inedito quale il Digesto viene ascrittadal Salutati a merito storico indiscusso dell’«ottimo Giustiniano», entro un moto uni-tario di sviluppo e progresso delle leggi e della scienza legale che ha coinvolto nel suocomplesso tutta la storia romana giungendo poi fino al presente. In tal modo lePandette rappresentano agli occhi di Coluccio un unicum in positivo per la ricchezzae la qualità dei materiali ivi raccolti, per l’ambiziosa lucidità del disegno legislativo chele ha originate e per la sapiente perizia con cui sono state composte; al contempo, però,nella sua concezione esse vedono rimesso in discussione il loro carattere di unicità, poi-ché rappresentano la risposta all’esigenza che periodicamente riaffiora nella storia didare ordine al sovrabbondante materiale normativo, riducendone e compendiandonela mole ingestibile. In tal senso il Digesto per Salutati si inserisce in un moto costantee benefico teso alla razionalizzazione e riduzione dei testi legali:

Crevit deinde legum corpus prudentum interpretationibus et responsis, pretorum edictis, senatusconsultis, populis legibus et ipsis etiam plebis scitis, et demum constitutionibus principum quibusunius populi leges conflate sunt. Que siquidem rerum moles ad tantam magnitudinem creverat ut,temporibus optimi principis Flavii Iustiniani, qui romanas leges quas habemus reformavit etedidit, multitudo librorum veteris iuris esset ad duo milia, quibus tricies centena milia versuumcontinebantur. Non quod tot carminibus eam scientiam traditam fuisse credamus, sed quoniamtot responsa duobus milibus illis voluminibus comprehenderentur. Que omnia ad quinquagintalibrorum numerum et centum quinquaginta milia versuum miro compendio sunt redacta.12

Simile partecipe attenzione ai motivi di stesura del Digesto, «mirabile compendio»celebrato senza riserve, induce infine Salutati ad un rilievo critico sulla nuova fioritu-ra rigogliosa di testi di corredo e commento, di cui non è posta in discussione la qua-lità scientifica, ma che rischia di vanificare con la sua esagerata mole proprio la ragiond’essere della compilazione, frutto di un’operazione del tutto condivisibile e di capita-le importanza nell’ottica del giurista pratico, che abbisogna di soluzioni chiare e facil-mente reperibili e non di una sovrabbondante biblioteca non conoscibile neppure inuna vita intera di studio: Et iam tamen tot glose, tot summe, tot scripta, totque lecture, tottractatus, totque libelli facti sunt, ut impossibile nedum utriusque iuris, sed vel legum veldecretalium lectioni vitam hominis posse sufficere videatur.13

12 Op. cit., 80, cap. 11.13 Loc. cit. Salutati coglie e stigmatizza qui un dato oggettivo riferito alla scienza giuridica medievale nel suo com-plesso, come dimostra il richiamo anche al diritto canonico, che raddoppia l’entità del problema.

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Nell’Italia quattrocentesca il tema dell’attenzione dei cultori delle humanae litteraeper il diritto romano e quindi per il Digesto si sostanzia comunque di accenti e con-tenuti variegati; il folto coro dei nuovi intellettuali umanisti è infatti composto damille distinguibili voci, che si differenziano sovente anche per i diversi approcci aldiritto. Il dato giuridico risulta certamente estraneo alla sensibilità di molti letterati,che perciò lo ignorano, oppure non esitano a criticarlo sotto numerosi aspetti, anchequando si tratti di personaggi che svolgono attività politica e rivestono ruoli istituzio-nali non di rado di altissimo livello, ben consci quindi della rilevanza oggettiva deldiritto così come dello status socio-economico privilegiato di cui godono i giuristi(pensiamo a Leonardo Bruni o ad Enea Silvio Piccolomini).14 Altri (come Leon BattistaAlberti) percepiscono nitidamente l’indispensabile presenza e la benefica rilevanzadelle leggi per la vita sociale e non disdegnano di soffermarsi a riflettere sul ruolo ordi-nante assunto dalle norme giuridiche e sui caratteri che esse debbono possedere perassolvere la loro funzione, apprezzandole quali argini alla violenza ed alla sopraffazio-ne dei privati non meno che come freni all’arbitrio di chi detiene il potere.15

Ma il fulcro del problema dell’atteggiamento degli umanisti verso la sfera del dirit-to concerne il giudizio da questi fornito sulla iurisprudentia, nelle sue diverse mani-festazioni storiche: i rappresentanti della nuova cultura, che peraltro si richiamanoesplicitamente al modello classico, devono sciogliere il nodo della valutazione delmetodo – prima ancora che dei contenuti – proprio e peculiare della scienza giuridi-ca e, in subordine, valutare le differenze tra quello degli antichi giureconsulti, tra-mandato nel Digesto, e quello dei nuovi doctores legum, che si affermano continuato-

14 Leonardo Bruni, che pure come cancelliere della Repubblica fiorentina non può certo ignorarne o sottovalutarnel’importanza, appare sostanzialmente indifferente al diritto ed alla scienza giuridica e poco interessato ad approfon-dire i caratteri tipizzanti ed il ruolo di questa, sia nella società romana così come in quella del Quattrocento. Distantedalle problematiche legate al diritto ed ai suoi interpreti, a dispetto della formazione giuridica acquisita presso loStudium senese sotto la guida prestigiosa di Mariano Sozzini, si mostra anche Enea Silvio Piccolomini, che non esitaad esprimersi in modo assai critico verso la scienza giuridica dei suoi tempi (cfr. G. KISCH, Enea Silvio Piccolominiund die Jurisprudenz, Basel 1967, spec. 67-86; nonché ora G. ROSSI, Enea Silvio e la polemica umanistica contro lascienza del diritto, in L. SECCHI TARUGI (a c. di), Pio II nell’epistolografia del Rinascimento. Atti del XXV ConvegnoInternazionale. Chianciano Terme - Pienza, 18-20 luglio 2013, Firenze in corso di pubblicazione).15 Leon Battista Alberti si mostra conscio dell’importanza della funzione regolatrice della vita associata svolta dalleleggi ma resta del tutto estraneo all’universo concettuale dei giuristi medievali, tra i quali pure può essere formalmenteannoverato, per la laurea in diritto canonico conseguita a Bologna, probabilmente nel 1428; abbiamo approfonditoil tema in una serie di interventi leggibili in sequenza, tra cui si veda G. ROSSI, Un umanista di fronte al diritto: a pro-posito del ‘De iure’ di Leon Battista Alberti, in Rivista di Storia del diritto italiano 72 (1999) 77-154; ID., Intorno al ‘Deiure’ di Leon Battista Alberti, in Albertiana 3 (2000) 221-248; ID., Alberti e la scienza giuridica quattrocentesca: il ripu-dio di un paradigma culturale, in R. CARDINI - M. REGOLIOSI (a c. di), Alberti e la cultura del Quattrocento. Atti delConvegno internazionale. Firenze, 16-17-18 dicembre 2004, Firenze 2007, 59-121.

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ri dei primi ma che elaborano un sistema di sapere ed usano una lingua tipicamentemedievali. Anche sotto questo essenziale profilo non è possibile in realtà parlare di unpensiero umanistico unitario, se non a grandissime linee, ma risulta più corretto eproficuo indagare le diversificate posizioni assunte dai singoli personaggi, declinatesovente in modo originale.

4. Come già rilevato, la riflessione d’ambito umanistico certo più compiuta e consa-pevole – oltre che la più precoce – in merito alla scienza giuridica è formulata daLorenzo Valla, mentre altri importanti intellettuali coevi glissano sul punto ovvero nonmostrano altrettanta lucidità nel tenere ben distinte le due diverse manifestazioni sto-riche della giurisprudenza, sovrapponendo o sommando senza alcuna capacità discre-tiva la voce dei respondenti dell’antica Roma e quella dei doctores delle Universitàmedievali, Ulpiano e Bartolo, Paolo e Accursio, Papiniano e Baldo, accomunandoli divolta in volta nell’indifferenza o nella condanna.

In anni recenti le idee del Valla sul diritto sono state riconsiderate partitamente16 edè stata messa debitamente a fuoco la natura del tutto particolare e ben delimitata delsuo interesse per i testi giuridici e la conseguente ambivalenza del suo atteggiamento,di segno platealmente opposto, verso i giureconsulti classici e verso i loro epigoni me-dievali. In effetti, come dichiara l’autore stesso, con rara chiarezza concettuale, il suointeresse per il diritto si limita all’aspetto linguistico e propriamente lessicale; la suavisione di una cultura rifondata ab imis fundamentis, capace di riannodare le fila tron-cate bruscamente dal subentrare della civiltà medievale (costruita su basi germaniche,cioè barbare, alternative a quelle classiche), ruota per intero intorno alla riconquista diun latino degno di questo nome, depurato dalle incrostazioni medievali e dalle defor-mazioni gotiche e riportato alla purezza e precisione che si riscontra negli autori anti-chi. In questa identificazione del cuore pulsante ed ancora vivo e vitale della civiltàromana con la lingua latina,17 nella quale secondo l’umanista occorre vedere il prodot-

16 L’argomento resta comunque molto trascurato nel novero degli studi valliani, che pure hanno ricevuto impulso inquesti anni dalla ricorrenza centenaria della nascita dell’umanista e dall’avvio dell’edizione nazionale delle sue opere;tra le rare eccezioni si vedano: D. MANTOVANI, ‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis et in honorefuit lingua Romana’. L’elogio dei giuristi romani nel proemio al III libro delle Elegantiae di Lorenzo Valla, in E.NARDUCCI - S. AUDANO - L. FEZZI (a c. di), Aspetti della fortuna dell’Antico nella cultura europea. Atti della III gior-nata di studi. Sestri Levante, 24 marzo 2006, Pisa 2007, 99-148, nonché in Studi per Giovanni Nicosia V, Milano2007, 143-208; G. ROSSI, Valla e il diritto: l’ ‘Epistola contra Bartolum’ e le ‘Elegantiae’. Percorsi di ricerca e proposteinterpretative, in M. REGOLIOSI (a c. di), Pubblicare il Valla, Firenze 2008, 507-599.17 Ricordiamo in primo luogo quanto si legge nel «Proemio» al I libro delle Elegantiae: LAURENTII VALLENSIS De ele-gantia lingue latine proemium primum; su tale testo si veda la puntuale esplicazione di M. REGOLIOSI, Materiali per ilprimo proemio, in EAD., Nel cantiere del Valla. Elaborazione e montaggio delle ‘Elegantie’, Roma 1993, 63-115.

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to più originale e positivo e il lascito più duraturo della Romanità, e nella connessa con-vinzione che solo il ritorno al latino di Cicerone e Quintiliano possa chiudere il disgra-ziato periodo della barbarie medievale, determinando di per sé un rifiorire di tutte lediscipline, risiede il motivo per cui Valla dedica attenzione ai relitti delle opere dei giu-reconsulti romani e, quindi, anche al Digesto che li contiene. Se da un lato non esistealcuna possibilità di elaborare vera scienza che non si esprima attraverso la lingua lati-na, dall’altro lo sforzo – in tale prospettiva e con tali premesse necessario e doveroso –di recuperare per mezzo dello studio delle fonti classiche il miglior latino possibile nonpuò prescindere dalla messa a frutto dei testi giurisprudenziali confluiti nelle Pandette.

Non sono le soluzioni tecniche ai mille casi proposti dalla prassi tramandate nellacompilazione né le costruzioni dogmatiche elaborate a partire da esse a sollecitare lo stu-dio attento e pignolo di Valla, bensì la forma nella quale i giuristi si esprimono ed in par-ticolare il lessico impiegato. Se il giudizio ampiamente positivo si fonda non sui conte-nuti degli antichi responsa accolti nel Digesto, ma sulla lingua usata nei residui frammentidi quei testi giuridici, esso sarà radicalmente opposto – per gli stessi motivi – in meritoal valore dei doctores medievali: questi ultimi sono nient’altro che oche starnazzanti efastidiose, incomparabili ai magnifici cigni (ovvero i giureconsulti) dell’Antichità18 e leloro opere non sono degne di esser definite scientifiche, perché scritte nel latino imbar-barito e gotico dell’età di mezzo, inadatto per definizione ad esprimere con proprietà eprecisione terminologica e concettuale i contenuti propri di una evoluta scientia iuris.

La posizione di Valla è originale e potente nella sua schematicità manichea: non gliinteressa il diritto in sé, per metterne a fuoco la sua intrinseca e formidabile forza ordi-nante della società, così come non lo interessano i contenuti delle norme, né i modidella loro produzione, con i connessi quesiti inerenti natura e caratteri delle diversefonti. L’unica sua preoccupazione è quella di appropriarsi della lingua dei giuristi clas-sici, identificata come ottima per l’altissimo grado di precisione ed univocità raggiun-to nell’impiego dei termini tecnici. In questa ottica è chiaro che il Digesto è per defi-nizione il testo giuridico sul quale cimentarsi per riconquistarne appieno il significato,per carpire ai giureconsulti antichi i segreti della loro lingua ed anche, all’occorrenza,

L’edizione del proemio si trova a sua volta nella «Appendice» a tale volume, 119-125. Non meno significativa inmateria l’Orazione pronunciata quale prolusione dell’anno accademico 1455-1456 presso la Sapienza Romana: iltesto della Oratio clarissimi viri Laurentii Valle habita in principio studii die XVIII octobris MCCCCLV (con trad. afronte di M. CAMPANELLI) è ora edito in L. VALLA, Orazione per l’inaugurazione dell’anno accademico 1455-1456. Attidi un seminario di filologia umanistica, a c. di S. RIZZO, Roma 1994, 192-201. Sull’evoluzione del pensiero vallianoin argomento cfr. riassuntivamente le nostre notazioni in ROSSI, Valla e il diritto cit. (nt. 16), 518-521.18 Cfr. L. VALLA, Epistola contra Bartolum, 1.10-15, in M. REGOLIOSI, L’Epistola contra Bartolum del Valla, in V. FERA -G. FERRAÙ (a c. di), Filologia umanistica per Gianvito Resta II, Padova 1997, 1501-1571, spec. 1534-1536.

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per rilevare con onestà intellettuale – senza alcun senso d’inferiorità o di reverenza psi-cologica nei loro confronti – i punti nei quali costoro sono stati impari al compito diregistrare ovvero di forgiare parole di precisione assoluta, vagheggiando qualcosa di piùdi una acuminata Fachsprache, bensì una lingua che rasenti la perfezione per la suaindiscutibile ed ineguagliabile elegantia.

Ciò spiega l’attenzione pressoché esclusiva ai passi del Digesto e la valutazione incon-dizionatamente positiva di tale compilazione, che rende palesi gli altissimi risultati rag-giunti dalla giurisprudenza romana classica, nonostante lo scempio delle opere anticheche è stato perpetrato da Triboniano; anche ridotti in frammenti, i testi salvati dal nau-fragio del mondo antico sono più che probanti per dimostrare l’eccellenza della perizialinguistica dei loro autori e devono quindi indurre ad includere le Pandette tra le piùalte e preziose testimonianze della cultura e della civiltà romana tout court. In questosenso il diritto romano (inteso esclusivamente – e riduttivamente – come prodottodella scientia iuris, escludendo ogni altra fonte e trascurando ogni altra manifestazionenormativa) fornisce elementi preziosi e merita di essere studiato con grande attenzioneda chiunque voglia acquisire una cultura degna di questo nome (attraverso il recuperodel miglior latino): perciò al Digesto compete un posto di primo piano nel novero delleopere classiche e i giureconsulti da cui sono tratti i passi confluiti nella compilazioneassurgono per definizione ad auctoritates linguistiche indiscusse.

In tal modo diviene perfettamente giustificato e comprensibile quanto affermato nel«Proemio» al III libro delle Elegantiae, dove il pensiero valliano si esplicita distesa-mente,19 in diretta connessione con l’equivalenza teorizzata nel «Proemio» al I libro tracultura e lingua (latina);20 ciò spiega anzitutto l’interesse precoce e costante testimo-niato da Valla per le Pandette, che dichiara di aver letto più volte (Perlegi proxime quin-quaginta Digestorum libros ex plerisque iurisconsultorum voluminibus excerptos, et relegicum libenter tum vero quadam cum admiratione),21 provando sempre piacere ed ammi-razione verso quei testi nei quali non sa se apprezzare di più diligentia an gravitas, pru-

19 Un’analisi ravvicinata e puntuale del proemio, valorizzando in particolare le risonanze in esso degli autori classici,Cicerone su tutti, si legge in MANTOVANI, ‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis et in honore fuitlingua Romana’ cit. (nt. 16), 109-128.20 Non si deve trascurare il fatto che la stesura dei proemi è grosso modo coeva, risalendo a prima del 1441 (cfr.REGOLIOSI, Nel cantiere del Valla [cit.], 60-61) e quindi esprime un pensiero sostanzialmente unitario. Segnaliamoche manca a tutt’oggi una edizione critica delle Elegantiae; la lacuna però sta per essere colmata, poiché ad essa stalavorando un gruppo di studiosi sotto la guida di Mariangela Regoliosi, nell’ambito del progetto per la EdizioneNazionale delle Opere di Lorenzo Valla. Per ciò che qui interessa, l’edizione critica del III libro sarà curata daFrancesco Lo Monaco, mentre il VI libro è affidato alle cure di Clementina Marsico.21 L. VALLA, In tertium librum Elegantiarum Praefatio, in E. GARIN (a c. di), Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli 1952, 606-612, spec. 606.

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dentia an aequitas, scientia rerum an orationis dignitas.22 In realtà, il contenuto giuridi-co di quei frammenti non viene mai propriamente a formare l’oggetto dell’attenzionedell’umanista, privo di una formazione tecnico-giuridica di rango universitario23 edalieno dal collocare i singoli passi entro un più ampio contesto sistematico, necessarioper ricomporre la disciplina degli istituti giuridici e sottolinearne la completezza ovve-ro le eventuali carenze od incongruenze.

L’elogio riguarda complessivamente gli autori antichi, per l’impiego di un medesi-mo metodo e di una comune lingua e non sembra possibile distinguere tra costoro inbase al valore ed alla fisionomia scientifica dei singoli ovvero per la diversità delle lorotesi su specifici punti controversi relativi ai vari istituti, così come non assume rilievola distanza temporale tra i vari autori: Deinde, quod haec ipsa ita in unoquoque illorumomnia sunt egregia et perfecta, ut vehementer dubites quem cui praeferendum putes.24 Purtrattandosi di frammenti ricavati da opere diverse di autori diversi che hanno vissutoed operato in epoche diverse (cosa di cui Valla è perfettamente a conoscenza) ciò checonta è il risultato finale e complessivo della messa a punto di una levigatissima e pun-tualissima lingua, opera corale in cui i meriti e gli apporti dei singoli divengono mar-ginali (così come inutile, di conseguenza, sarebbe dedicarsi a ricerche prosopograficheper ricostruirne l’individualità). L’eccellenza dell’opera dei giureconsulti, su cui possia-mo dare un giudizio perché qualche lacerto si è fortunatamente conservato entro ilDigesto, è tale da rendere impensabile porvi mano per modificare qualcosa; ciò guar-dando anzitutto – più che all’eloquenza, per la quale la materia non offre molto spa-zio – alla elegantia della lingua latina, senza la quale ogni sapere è insufficiente ed inef-ficace, specialmente nel campo del diritto civile: His autem qui inter manus versantur,nihil est, mea sententia, quod addi adimive posse videatur, non tam eloquentiae, quamquidem materia illa non magnopere patitur, quam latinitatis, atque elegantiae; sine quacaeca omnis doctrina est et illiberalis, praesertim in iure civili.25

Valla ribadisce, dunque, l’idea che presupposto e condizione essenziale di ogni sape-re scientificamente fondato è l’impiego di una lingua adeguata, che consenta di espri-

22 Op. cit., 606-608.23 Non risulta che Lorenzo abbia seguito studi giuridici né, tantomeno, che si sia addottorato in diritto civile o cano-nico, anche se la sua famiglia annoverava giuristi di buon livello (cfr. ROSSI, Valla e il diritto cit. [nt. 16], 517 nt. 18).Sugli anni romani dell’infanzia e della gioventù si vedano G. MANCINI, Vita di Lorenzo Valla, Firenze 1891, 4-22; R.SABBADINI, Cronologia documentata della vita di Lorenzo della Valle, detto il Valla, in L. BAROZZI - R. SABBADINI, Studisul Panormita e sul Valla, Firenze 1891, 49-148, spec. 50-56, ora in riproduzione anastatica in L. VALLA, Opera omnia II,a c. di E. GARIN, Torino 1962, 355-454, spec. 356-362.24 VALLA, In tertium librum Elegantiarum Praefatio cit. (nt. 21), 608.25 Loc. cit.

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mere in modo chiaro, preciso ed univoco i contenuti e i concetti propri di ciascunadisciplina; allo stesso modo afferma senza dubbi di sorta che tale lingua s’identifica conil latino antico. Entro tale cornice, il diritto assume un ruolo speciale, poiché i giuristiromani si sono dotati di un arsenale lessicale mirabilmente efficace e pienamente cor-rispondente alla nozione di elegantia postulata dall’umanista: non a caso leggiamo laconnessione tra elegantia e ius civile in una postilla valliana ad un passo dell’Institutiooratoria di Quintiliano (inst. 9.2.98): «Eleganter» est «proprie», «vere» ac «recte», ut iniure civili adeo frequenter, ut pene sola hac voce in approbandis aliorum sententiis iuris-consulti utantur.26 La perizia linguistica e l’impiego di lemmi capaci di designare senzasbavature ed incertezze i relativi concetti consente alla giurisprudenza di assolvere lasua funzione risolvendo quesiti relativi alla esistenza ed alla titolarità dei diritti median-te la interpretatio verborum, secondo l’indicazione fornita da Quintiliano (inst. 12.3) erichiamata puntualmente da Valla, come dimostrano appunto le opere dei giurecon-sulti, che si dedicano anzitutto proprio a tale attività.27

La vera critica che può muoversi a Giustiniano è quella di aver di fatto impedito,ordinando la redazione del Digesto, che la biblioteca giuridica classica si conservasseper intero, mentre al contrario il suo divieto tassativo di interpretatio, solennemen-te contenuto nella Const. Tanta (C. 1.17.2.21) purtroppo non ha affatto fermato iMedievali dissuadendoli dal commentare i testi antichi ed elaborare opere di infimaqualità, per cercare di colmare i vuoti delle fonti romane.28 Tale la colpa inescusabiledel lontano imperatore, che ha determinato una perdita gravissima ed incolmabile nonsolo per la scienza giuridica, bensì per l’intera cultura occidentale, giustificando lo sde-gno e la reazione parossistica del Valla, che supera l’invettiva e giunge addirittura allamaledizione: Dii itaque tibi male faciant Iustiniane iniustissime.29

26 L. VALLA, Le postille all’‘Institutio oratoria’ di Quintiliano, edizione critica a c. di L. CESARINI MARTINELLI - A.PEROSA, Padova 1996, 191, ad Inst. 9.2.98. In verità, come attestato nella postilla, i termini elegantia, eleganter e simi-li ricorrono non di rado anche nel lessico dei giureconsulti romani (una accurata riconsiderazione del significato attri-buibile a tali lemmi, con ampi riferimenti bibliografici puntualmente discussi, si legge ora in M. MIGLIETTA, ‘Serviusrespondit’. Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana. Prolegomena I, Trento 2010, 150-156nt. 213, a partire dal passo di Paolo in D. 50.16.25.1). Mi sembra però che Valla sviluppi il concetto di elegantia (lin-guae latinae) in modo sostanzialmente autonomo e nuovo, conforme alla propria originale concezione della lingua.27 Loc. cit.: Ut enim Quintilianus inquit, omne ius aut in verborum interpretatione positum est, aut in aequi praviquediscrimine. Et quantum momenti in verborum interpretatione sit, ipsi iurisconsultorum libri maxime testantur, in hac repraecipue laborantes.28 Loc. cit.: Utinamque integri forent, aut certe isti non forent, qui in locum illorum, etiam Iustiniano vetante, successerunt!29 VALLA, Epistola contra Bartolum cit. (nt. 19), 1.7. L’imprecazione così estrema in fondo si comprende meglio con-siderando il contesto particolarmente acceso nel quale scaturisce: si tratta, infatti, della Epistola contra Bartolum, nellaquale l’umanista dà fondo a tutte le risorse retoriche per manifestare il suo disprezzo verso i giuristi medievali (e quin-

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Una puntuale attività di spiegazione e chiosa dei testi romani sarebbe certo utile, masolo a patto di partire dal consapevole recupero della pregnanza lessicale che li conno-ta, al fine appunto di renderla evidente e di trarne tutte le dovute conseguenze; al con-trario, l’enorme lavorio interpretativo cui si sono votati per interi secoli i doctores legummedievali è privo di qualsiasi valore, proprio perché costoro non hanno saputo coglie-re e valorizzare quella proprietà di linguaggio che costituisce l’elemento veramente pre-zioso, il formidabile valore aggiunto reperibile nel Digesto, forziere che custodisce itesori della scientia iuris romana e di cui solo un cultore delle humanae litterae puòconoscere la combinazione. Ripartire da zero, gettando al macero le risibili interpreta-zioni dei barbari medievali sarebbe un atto di rispetto verso le fonti antiche, a tardivorisarcimento per il pessimo trattamento ricevuto nei secoli di mezzo: Merentur enim,merentur summi illi viri nancisci aliquem qui eos vere riteque exponat, vel certe a maleinterpretantibus et gothice potius quam latine defendat. Di qui la provocazione dell’ideadi sostituire a quello accursiano un apparato di glosse tutto nuovo che lo stesso Vallapotrebbe facilmente redigere con molta maggior cognizione di causa dei presuntiesperti di diritto medievali:

Ego, mediocri ingenio et mediocri litteratura praeditus, profiteor me omnes qui ius civileinterpretantur ipsorum scientiam edocturum. Quod si Cicero ait,30 sibi homini vehementeroccupato, si stomachum moveant, triduo se iurisconsultum fore, nonne ipse audebo dicere, siiurisperiti, nolo dicere iurisimperiti, stomachum mihi moveant, aut etiam sine stomacho, meglossas in Digesta triennio conscripturum longe utiliores Accursianis? 31

Al di là della boutade spaccona ed in fondo ingenua che tradisce la spropositata auto-stima del Valla, la sfida di riscrivere in tempo record una nuova glossa ordinaria ditaglio e contenuti umanistici vuol richiamare l’attenzione sulla esigenza ormai indila-zionabile di una nuova lettura del Digesto, da compiere sulla scorta di una robusta pre-parazione storico-filologica e soprattutto abbandonando l’uso del latino medievale,gotico ed imbarbarito, che fa velo alla comprensione di concetti espressi nella vera lin-gua latina, quella classica. L’esoterico tecnicismo di matrice medievale, a causa di talevizio d’origine, appare quindi del tutto disutile e fuorviante e tutta la caricaturale eru-dizione elaborata nelle aule universitarie da generazioni di incolti professori non valela nitida percezione del corretto significato delle parole che premia invece chi si affidi

di la sua indignazione verso colui che oggettivamente ha consentito con la sua improvvida iniziativa compilatoria checostoro avessero campo per riempire il vuoto causato dal venir meno della gran parte della giurisprudenza romana).Sul punto cfr. anche R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 615.30 Cic. Mur. 28.31 VALLA, In tertium librum Elegantiarum Praefatio cit. (nt. 21), 608-610.

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alla loro ‘atecnica’ ma ben più avveduta lettura, che si giova della piena conoscenzadella letteratura latina così come delle vicende storiche romane.

5. La posta in gioco non è quella di affermare un’astratta superiorità del sapere lettera-rio-filosofico, bensì di giungere per l’ineludibile via degli studia humanitatis alla pienariappropriazione di una scienza giuridica degna di questo nome, che abbisogna comun-que di una base culturale solida: Neque vero hoc dico ut iuris studiosos carpam, immo utadhorter potius persuadeamque sine studiis humanitatis non posse quam cupiunt assequifacultatem, malintque iurisconsultorum quam leguleiorum similes esse.32 Guardando allevestigia del diritto romano, conservate nel Digesto, Valla non ha remore nel tesserel’elogio del diritto e della iurisprudentia, capace per tale via di conservarsi integrarispetto alle contaminazioni gotiche che hanno corrotto e sfigurato le altre disciplineche ambiscono ad uno statuto scientifico: Quae enim disciplina, scilicet quae publicelegitur, tam ornata atque, ut sic dicam, tam aurea, ut ius civile? […] Una superat iuriscivilis scientia adhuc inviolata et sancta, et quasi tarpeia arx urbe direpta.33

Ai cultori del diritto spetta la responsabilità di difendere la giurisprudenza e restau-rarne la vera essenza, in tal modo meritando il titolo di giureconsulti e distinguendosidai meri legulei.34 Il «Proemio» del III libro termina infine con un significativo rico-noscimento del ruolo ricoperto storicamente dal Digesto, percepito ed apprezzato dal-l’autore invero non tanto quale deposito di sapienza giuridica, alla quale non è vera-mente interessato, quanto come contenitore di passi scritti nella migliore lingua la-tina, la cui diffusissima lettura ha consentito la sopravvivenza di quella lingua e le hafornito la possibilità, ormai prossima per l’avvento di tempi più fausti, di una ritro-vata dignità e una rinnovata diffusione. Non diversamente dagli eroici difensori del

32 Op. cit., 610.33 Loc. cit. A conferma dell’interesse pressoché esclusivo nutrito dal Valla per il Digesto, appare degno di nota chetra le discipline prive di dignità scientifica sia elencato anche il diritto canonico. Esso, infatti, è composto di normeemanate soprattutto in epoca medievale, sulle quali è fiorita poi un’interpretatio anch’essa per intero ascrivibile alMedioevo; corretto, dunque, il rilievo per cui il diritto canonico ex maxima parte gothicum est e quindi scientifica-mente di nessun valore, date le premesse poste da Valla.34 Il ricorso al termine spregiativo leguleius rimanda alle posizioni espresse da Cicerone (de orat. 1.236) e riprese daQuintiliano (inst. 12.3.11), i quali usano tale appellativo per indicare l’esperto di diritto carente di educazione reto-rica e, quindi, in quanto privo di eloquenza, incolto ed impari al compito spettante al giureconsulto poiché titolaredi un sapere tecnico inferiore ed ancillare rispetto a quello dell’oratore; per Valla, tuttavia, nella formazione del verogiurista il posto della eloquenza è preso dalla grammatica e dalla filologia. Si noti inoltre che egli riserva in genere laqualifica di iurisconsulti ai soli giuristi romani e parla di scientia soltanto con riguardo allo studio dello ius civile, cioèdel diritto di Roma antica (identificato riduttivamente con quello di epoca classica e di matrice giurisprudenziale con-tenuto nei Digesta).

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Campidoglio, la compilazione voluta da Giustiniano ha rappresentato provvidenzial-mente l’ultimo baluardo contro la barbarie imperante e il primo presidio da cui parti-re per la riconquista di una vita culturale piena, che ha nella lingua giuridica un model-lo ed insieme uno strumento efficacissimo di espressione:

Quod si fecerint, ut spero et opto, non legulei, sed iurisconsulti evadent. Quod ad meum autem hocopus attinet, non fraudabo iuris conditores debita laude. Tantum igitur deberi puto huius facultatislibris quantum illis olim qui Capitolium ab armis Gallorum atque insidiis defenderunt; per quosfactum est ut non modo tota urbs non amitteretur, verum etiam ut tota restitui posset. Ita perquotidianam lectionem Digestorum et semper aliqua ex parte incolumis atque in honore fuitlingua romana, et brevi suam dignitatem atque amplitudinem recuperabit.35

Se questa è la visione energicamente propugnata sul piano teorico da Lorenzo Valla,destinata ad influenzare durevolmente l’idea che il movimento umanistico si forma delDigesto e, per converso e in negativo, dei giuristi medievali,36 nelle Elegantiae egli nonsi limita tuttavia ad asserzioni apodittiche ed astratte, certo già di per sé notevoli perlucidità e coerenza, ma scende poi nel dettaglio della concreta analisi lessicale, per dia-logare da pari a pari con i giureconsulti e segnalarne anche, all’occorrenza, imprecisio-ni e contraddizioni, con l’intento dichiarato di dare il proprio apporto all’affinamentodella lingua latina.37 La parte finale del VI libro dell’opera è dedicata quindi a richia-mare l’attenzione su una serie di lemmi per i quali Valla rileva e stigmatizza un impie-go non univoco o addirittura contraddittorio da parte delle fonti giurisprudenziali,38

35 VALLA, In tertium librum Elegantiarum Praefatio cit. (nt. 21), 612.36 Non ci soffermiamo qui sull’aspetto della critica alla scienza giuridica medievale, pur particolarmente significati-vo e rivelatore del pensiero valliano, perché esula dall’oggetto diretto di questo contributo; abbiamo del resto giàampiamente trattato dell’argomento in ROSSI, Valla e il diritto cit. (nt. 16), spec. 537-558, in particolare quanto allapolemica contro Bartolo.37 In merito cfr. art. cit., 528-537.38 Questo l’elenco dei lemmi considerati da Valla (le pagine si riferiscono alla edizione basileense del 1540: LAURENTII

VALLAE Elegantiarum libri VI, in EIUSD. Opera, nunc primo… in unum volumen collecta…, Basileae, apud HenricumPetrum 1540 [rist. anast. Torino 1962], 216-235). Come può subito rilevarsi, esclusi i primi due casi relativi al Codex,tutti gli altri sono ricavati dalle Pandette: Cap. 35. In Iustinianum de ‘noxae dedere’ (pp. 216-217); Cap. 36. InIustinianum de ‘testamentum’ (p. 217); Cap. 38. In iurisconsultos de ‘mulier’ (pp. 217-218); Cap. 39. In eosdem de‘munus’, et ‘donum’ (p. 218); Cap. 40. In eosdem de ‘peculium’ (pp. 218-219); Cap. 41. In eosdem de ‘fundus’, ‘ager’,‘villa’, ‘praedium’ (pp. 219-221); Cap. 42. In eosdem de ‘novalis’ (p. 221); Cap. 43. In eosdem de ‘liber’ et ‘volumen’(p. 222); Cap. 44. In eosdem de ‘probrum’, et ‘opprobrum’; ‘exprobrare’ et ‘improbrare’ (pp. 222-223); Cap. 45. In eosdemde ‘stuprum’ et ‘adulterium’ (p. 224); Cap. 46. In eosdem de ‘instratum’ et ‘stragula’ (p. 224); Cap. 47. In eosdem de ‘pul-satio’ et ‘verberatio’ (pp. 224-225); Cap. 48. In eosdem de ‘pellex’, et ‘pallace’ (p. 225); Cap. 49. In eosdem de ‘cavillatio’(pp. 225-226); Cap. 50. In eosdem de ‘praevaricator’, ‘tergiversator’, et ‘calumniator’ (pp. 226-227); Cap. 51. In eosdemde ‘ferri’, ‘portari’, ‘agi’ (p. 227); Cap. 52. In eosdem de ‘convitium’, et ‘maledictum’ (p. 228); Cap. 53. In eosdem de ‘versi-coloria’ (p. 229); Cap. 54. In eosdem de ‘penes’, et ‘apud’ (pp. 229-230); Cap. 55. In eosdem de ‘patres’, ‘maiores’, ‘posteri’,

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con il conseguente esito di una deleteria incertezza circa il significato tecnico delleparole ed il venir meno di quella perfetta corrispondenza tra lemma e concetto, trasignificante e significato, nella quale l’umanista scorge la vera superiorità del latino e lacifra più tipica della tendenziale perfezione che connota la lingua dei giuristi, frutto diun sapiente e consapevole lavorio interpretativo.

In questa ottica, i rilievi critici sollevati a carico dei vari autori sono nelle sue inten-zioni nient’altro che un contributo offerto in buona fede, in virtù di un libero dialo-go con i giuristi del passato che può instaurarsi soltanto tra personaggi di pari livelloculturale e di pari statura intellettuale: di fronte alle critiche dei suoi avversari, che tac-ciano Valla d’improntitudine e mancanza di umiltà per aver osato dar lezioni di lati-no ai grandi giureconsulti della classicità, egli risponde rivendicando il diritto dell’in-tellettuale di entrare in rapporto dialettico con gli autori studiati, senza trasformare ilrispetto e l’ammirazione verso di loro in apprezzamento incondizionato ed in supinaed aprioristica accettazione di tutto quanto provenga dagli Antichi. Si vedano le argo-mentazioni in tal senso contenute nel «Proemio» del VI libro ed il richiamo all’esem-pio del giureconsulto Servio Sulpicio,39 che non esitò a raccogliere in un apposito scrit-to i luoghi tratti dalle opere del grande maestro Quinto Mucio Scevola che a suo avvi-so contenevano errori.40 Come nel caso del giurista di età repubblicana, Valla è con-vinto della assoluta utilità di una ricognizione che individui e corregga gli errori altruie della necessità di rimuovere un malinteso principio d’autorità che non ha alcunsenso in ambito scientifico: Errores maximorum virorum deprehendere, id vero cum doc-tissimi hominis est, tum opus utilissimum et quo nullum dici possit utilius.41 In tal modoegli sa di adempiere un ufficio arduo ed alla portata di pochi ma certamente beneme-rito, cooperando al miglioramento della lingua latina, senza alcun intento emulativoo di autopromozione ma solo avendo di mira l’oggettivo progresso della scienza.42 Il

et ‘minores’ (p. 230); Cap. 56. In eosdem de ‘victus’ et ‘penus’ (p. 231); Cap. 57. In eosdem de ‘pignus’ et ‘hypotheca’ (p.231); Cap. 58. In eosdem de ‘ferrumino’ (p. 232); Cap. 59. In eosdem de ‘veterator’ et ‘novitius’ (p. 232); Cap. 60. Ineosdem de ‘in annos’, ‘quotannis’, ac similibus (pp. 232-233); Cap. 61. In eosdem de ‘turba’, et ‘rixa’ (p. 233); Cap. 62.In eosdem de ‘exautoro’ (pp. 233-234); Cap. 63. In eosdem de ‘depectus’ (p. 234); Cap. 64. In eosdem de ‘gemma’, et ‘lapil-lus’ (pp. 234-235).39 Si tratta di Servio Sulpicio Rufo, oratore forense e giurista rinomato della fine della Repubblica, console nel 51a.C., buon amico di Cicerone (di lui l’Arpinate parla con grande stima nel Brutus, 150-156 per la sua capacità di eccel-lere nel diritto come nell’oratoria, preferendolo per questo a Q. Mucio Scevola, oltre che nella IX Philippica, dedica-ta proprio all’elogio funebre dell’amico, nonché nella Pro Murena). Delle sue opere nulla è purtroppo rimasto, se noni titoli di alcune di esse, tra cui appunto i reprehensa Scaevolae capita (cfr. anche la testimonianza di Gell. 4.1.20).40 Cfr. L. VALLA, In sextum librum Elegantiarum Praefatio, in Prosatori latini del Quattrocento cit. (nt. 21), 626-628.41 Op. cit., 628.42 […] igitur ego et exemplis et rationibus adductus faciendum mihi putavi ut unum librum hunc de notis scriptorum

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concetto è ribadito con orgoglio anche in un passo dell’Antidotum in Facium, dovel’autore risponde specificamente all’accusa di aver mosso critiche ai giureconsulti rile-vandone inflessibilmente gli errori definitori e le discrepanze nell’impiego di parole acontenuto tecnico: non soltanto non gli si può addebitare alcunché di scorretto ma asuo avviso, anzi, si può configurare un vero e proprio dovere etico, al quale i magniviri non possono sottrarsi, che impone di far prevalere la verità sulla acritica reveren-za per le auctoritates:

«Nec a iurisconsultis abstinuisti». Elegantie mee testimonio sunt eos quantopere laudarim: in cuiusoperis calce, cum viderem inter hos quibusdam in verbis finiendis non convenire, aut eorumaliquem ab alio auctore discrepare, de hoc sententiam tuli. Magnorum enim virorum est, quiplurima viderunt et acriter examinarunt, de sui similibus atque adeo maioribus pronuntiare utnihil apud eos plus polleat quam veritas et officium.43

Una pur rapida considerazione degli addebiti mossi dal Valla ai giuristi antichi con-ferma la sua fedeltà in concreto a tale impostazione; egli si rivela infatti implacabile nelrilevare e contestare ogni oscillazione semantica ed ogni indebita sovrapposizione disignificato nel ricorso a termini che in sé non sono sempre necessariamente di parti-colare rilievo quanto al contenuto che esprimono ma che concorrono comunque allaformazione di una lingua tecnica che ha la sua ragion d’essere nella precisione,44 in baseal principio per cui una lingua è tanto più eccellente quanto più in essa ad ogni cosa ead ogni concetto corrisponde una parola ben individuata. Stabilire l’esatta portatasemantica di noxa, di testamentum o di mulier, così come distinguere senza possibilitàdi errore tra fundus, ager, villa e praedium, oppure tra liber e volumen, tra pulsatio e ver-beratio, o ancora tra pignus e hypotheca, ad evitare fraintendimenti comunque deleteri,

componerem non quo illos carperem, nam praeterquam quod haec inhumana voluptas foret, certe et alibi maior mihi haecfacultas daretur et de hac ipsa re paene infiniti libri conscriberentur, sed quo prodessem aliquid linguam latinam discerevolentibus non modo ex nostris praeceptis, sed ex aliorum quoque erratis, ubi et de nostro nonnihil ad rei testificationemadmiscebimus: VALLA, In sextum librum Elegantiarum Praefatio cit. (nt. 40), 628.43 LAURENTII VALLE Antidotum in Facium, edidit M. REGOLIOSI, Padova 1981, 391, 4.13.20.44 Si tratta di una impostazione che è stata ripresa e sviluppata in epoca moderna, da filologi sensibili all’importan-za delle Fachsprachen, con riguardo appunto al latino dei giurisperiti romani, intersecandosi peraltro con il problemadella caccia alle interpolazioni, che invece non è al centro degli interessi valliani; cfr. W. KALB, Das Juristenlatein.Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, Nürnberg 18882; ID., Wegweiser in die römische Rechtssprache,Leipzig 1912; ID., Die Jagd nach Interpolationen in den Digesten, Nürnberg 1897 (Neudr. in einem Band, Aalen1984); ID., Roms Juristen nach ihrer Sprache Dargestellt, Leipzig 18902 (unver. Neudr. Aalen 1975). Un interesse iqualche misura vivo ancor oggi: cfr. e.g. G. NOCERA, Il linguaggio del diritto in Roma, in AA.VV., Atti del III SeminarioRomanistico Gardesano. 22-25 ottobre 1985, Milano 1988, 525-546; S. SCHIPANI - N. SCIVOLETTO (a c. di), Il latinodel diritto. Atti del Convegno internazionale. Perugia, 8-10 ottobre 1992, Roma 1994 (specie i contributi offerti daPaolo Poccetti, Gualtiero Calboli, Loriano Zurli).

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non rappresenta un passatempo per grammatici pedanti e per eruditi troppo legati aiformalismi, ma realizza una necessaria verifica della buona messa a punto di quelli chesono i principali strumenti operativi non soltanto del giurista, ma anche del retore edel filosofo, cioè le parole, che concorrono a loro volta a dare senso alle espressioni ver-bali ed a formare il linguaggio. Gli stessi giureconsulti romani offrono in realtà un inse-gnamento che va nella direzione di attribuire grande rilevanza alla determinazione uni-voca del senso delle parole; dai loro testi risulta lo sforzo strenuo e costante di far cor-rispondere univocamente parole a cose e concetti, in modo da poter giungere a solu-zioni comprensibili e condivise, come si ricava anche dal fatto che Triboniano ha sen-tito il bisogno di inserire in chiusura del Digesto il lungo ed importante titolo de ver-borum significatione (D. 50.16).

In concreto, l’umanista dimostra una ottima conoscenza del Corpus iuris civilis: lamessa a nudo di contraddizioni interne ad esso, dovute evidentemente ad un insuffi-ciente lavoro di coordinamento dei materiali scelti ed inseriti dalla commissione impe-riale, postula infatti l’acquisizione di una grande familiarità con quei testi ed un con-sapevole sforzo di lettura sinottica dei diversi passi, anzitutto entro le singole compila-zioni e poi anche mettendo in connessione Digesto e Codice, con una sensibilità nonmeramente lessicale, bensì giocoforza in qualche misura attenta anche al contenutogiuridico dei lemmi impiegati. Individuare i passi paralleli o comunque collegati, met-tere a fuoco le tesi formulate dai giuristi, valutare discrasie e contraddizioni che even-tualmente ne risultino ed impostare la questione del corretto valore semantico di untermine presuppone in effetti una lunga consuetudine di studio e conferma lo spicca-to interesse del Valla per il lessico giuridico.45

Sarà utile, infine, proporre alcuni esempi dell’analisi critica condotta da Valla, tra imolti possibili, tratti dai capitoli dell’ultimo libro delle Elegantiae, per comprendereappieno il tipo di approccio adottato dal Nostro quando gli accade di rilevare una con-traddizione tra diversi passi del Digesto, nonché tra diversi tipi di fonti. Si veda ad es.la discussione intorno al significato di peculium, legata al dubbio se possa esserne tito-lare anche un libero e non solo un servus come parrebbe emergere da alcuni passi (cap.XL, pp. 218-219). I termini della questione vengono fissati dal confronto delle opi-nioni di Pomponio, Celso, Ulpiano, tenendo anche conto della previsione di diversespecie di peculio. Individuata la difficoltà, Valla procede ad un ulteriore scavo nelle

45 Esso risulta anche dagli usi lessicali presenti nella prosa valliana, come dimostra ad es. l’indagine minuziosa, chesegnala l’impiego frequente di lemmi e costrutti ricavati dalla lingua giuridica del Digesto, condotta da M. CAM-PANELLI, Lingua e stile dell’Oratio, in VALLA, Orazione per l’inaugurazione dell’anno accademico 1455-1456 cit. (nt. 17),87-107, spec. 93-97.

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fonti, stavolta non giuridiche, aggiungendo la pertinente citazione del commento diServio a Virgilio, Orazio, Cicerone, Quintiliano, alla ricerca dell’uso consolidato pres-so i migliori autori, anche in considerazione della etimologia della parola. Altrettantoilluminante la ricognizione della differenza tra stuprum ed adulterium (cap. XLV, p.224): per Modestino il primo termine pare designare un atto sessuale con una vedovaed il secondo con una donna sposata, ma altrove lo stesso giurista riferisce stuprumanche alla virgo (chiosa Valla che non ci si può stupire di eventuali discrepanze di opi-nioni tra giuristi diversi, quando v’è chi entra addirittura in contraddizione con sé stes-so); inoltre, complica il quadro il dato normativo della lex Iulia de adulteriis, che usa idue lemmi indifferentemente. Senza contare che l’uso attesta che si può parlare di stu-prum anche per la donna sposata, come si legge in Quintiliano. Alla luce di tali ele-menti, della più varia provenienza, Valla propone quindi che stuprum stia ad indicaregenericamente ogni rapporto sessuale vietato, fino a ricomprendervi anche i casi diincesto. Un altro esempio può ricavarsi dal confronto tra turba e rixa (cap. LXI, p.233), laddove Valla contesta la tesi per cui la differenza tra i due termini starebbe nelnumero dei partecipanti alla perturbatio, che nel primo caso riguarderebbe sempre unamultitudo: l’imprecisione nel tentativo di distinguere tra parole di significato analogoattira l’interesse dell’umanista, che cerca di fare chiarezza, ancora una volta ricorrendoall’etimologia e a fonti extragiuridiche (si cita l’Andria di Terenzio).

6. Nell’immediato l’esempio di Valla non è seguito dai più e la sue prese di posizionerimangono testimonianza isolata di un progetto rigoroso ed impervio, che postula peressere proseguito una confidenza assoluta con i testi confluiti nelle Pandette, qualenessun umanista ancora possiede, dalla quale scaturisca anche un reale ed incondizio-nato rispetto per quelle fonti, ed insieme un totale affrancamento rispetto alle disuti-li e risibili categorie concettuali elaborate dalla scienza giuridica medievale, quale nes-sun legista può vantare (né assennatamente auspicare in questo periodo, ragionandoin una prospettiva di breve termine). Le sporadiche eccezioni che pure talora si riscon-trano in realtà paiono piuttosto confermare l’assunto, come nel caso del lodigianoMaffeo Vegio (Lodi, 1407 - Roma, 1458),46 che non a caso si lega a Lorenzo con stret-ti rapporti personali di amicizia e di stima47 proprio negli anni pavesi sfociati nella

46 Su questo autore, con riguardo specifico al suo apporto alla prima stagione dell’umanesimo giuridico (trascurandola sua produzione poetica e letteraria), oltre ai cenni in MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico cit. (nt. 3), 41-42,64-65, si veda M. SPERONI, Il primo vocabolario giuridico umanistico: il De verborum significatione di Maffeo Vegio, inStudi Senesi 88 (1976) 7-43; cfr. ora anche MANTOVANI, ‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis etin honore fuit lingua Romana’ cit. (nt. 16), 111, 122-123; ROSSI, Valla e il diritto cit. (nt. 16), 568-583.47 Cfr. ora F. DELLA SCHIAVA, Alcune vicende di un sodalizio umanistico pavese: Lorenzo Valla e Maffeo Vegio, in L.C.

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disavventura dello scontro con la universitas iuristarum dello Studium ticinese. Giu-rista di formazione e di professione, egli entra a far parte a pieno titolo dei circoli uma-nistici lombardi ed è oggi ricordato essenzialmente per le sue opere di argomento let-terario (in specie rilevanti un XIII libro dell’Eneide a mo’ di supplementum dell’ope-ra virgiliana, un trattato De liberorum educatione, alcune agiografie), con l’eccezione si-gnificativa di un De verborum significatione (concluso nel 1433, stando alla datazionedella lettera dedicatoria all’arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra),48 che sembraaprire strade inedite ed assai promettenti in vista del disancoramento del diritto dallesecche della scienza giuridica tradizionale. Si tratta, infatti, di un ampio dizionariogiuridico composto di molte centinaia di lemmi49 ordinati alfabeticamente, nel qualel’autore compila le voci soprattutto mediante excerpta tratti dal Digesto ed opportu-namente rielaborati, entro trattazioni però di chiara impronta umanistica che tendo-no ad accantonare le elaborazioni medievali abbracciando invece i dettami della nuovacultura ispirata allo studio delle humaniores litterae. Tutto ciò presenta tuttavia unlimite intrinseco e comporta un costo non piccolo: da un lato, infatti, l’operazionetentata dal Vegio denota i limiti connaturati alla sua incapacità di mantenere connes-si ed interdipendenti l’aspetto teorico e la dimensione applicativa, per potersi rivolge-re ai giuristi proponendo loro un oggettivo arricchimento culturale che si coniughiperò con la proposta di strumenti esegetici effettivamente spendibili anche nella pras-si giuridica quotidiana; una scommessa che probabilmente non poteva essere vinta inun momento storico tanto precoce e che dovrà attendere le qualità eccezionali e lalucidità d’approccio e l’equilibrio di Andrea Alciato, quasi un secolo più tardi, peressere affrontata con successo. Dall’altro lato la strada intrapresa implica la rinuncia agran parte dell’arsenale dottrinale messo a punto nei tre secoli precedenti, che l’anali-si valliana svela come inevitabilmente inadeguato e privo di qualsiasi valore scientifi-co: un costo altissimo che nel secondo quarto del XV secolo (ed ancora a lungo finoalla fine del secolo ed oltre) nessun giurista è disposto a pagare per avere in cambio lamagra contropartita di un Digesto riscoperto nella sua storicità e spogliato della suaricca veste interpretativa medievale.

ROSSI (a c. di), Le strade di Ercole. Itinerari umanistici e altri percorsi. Seminario internazionale per i centenari diColuccio Salutati e Lorenzo Valla. Bergamo, 25-26 ottobre 2007, Firenze 2010, 299-341 (320-337 per una riconside-razione del De verborum significatione alla luce della storiografia recente).48 L’epistola di dedica è datata 15 marzo 1433, cioè pochi giorni dopo la fuga di Valla da Pavia per la diffusionedell’Epistola contra Bartolum; in tal modo, riprendendo fedelmente molti dei temi cari al Valla, Vegio testimoniaanche la sua solidarietà umana e culturale con l’amico in difficoltà.49 Speroni ne ha contati ben 850, riportandoli nell’Appendice II al suo saggio: SPERONI, Il primo vocabolario giuri-dico umanistico cit. (nt. 46), 32-43.

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Il prevedibile esito di un tentativo così ardito ma anche intempestivo per la sua pre-cocità e fors’anche realmente troppo debole sul piano dei contenuti è il fallimento del-l’esperimento: l’opera del Vegio non ha alcuna risonanza in ambito giuridico ed è con-dannata ad un rapido oblio, come testimoniano anche le sue vicende editoriali (si regi-stra infatti un’unica edizione a stampa, nel 1477, a Vicenza, di non larga diffusione).

Anche se l’esecuzione lascia a desiderare, giustificando la scarsa fortuna dell’opera(forse oggi sopravvalutata dalla storiografia, in virtù del legame stretto con le Elegantiaedel Valla), il disegno sottostante è chiaro e culturalmente rilevante, come si ricava dallalettura dell’epistola dedicatoria, nella quale Vegio enuncia i punti fermi della sua pro-posta di rilettura delle Pandette, che diviene giocoforza idea di riforma del sapere giu-ridico tout court :50 apprezzamento per i giureconsulti romani, riprovazione per Tribo-niano che ha impedito di conoscere più e meglio le loro opere ed ha in tal modo in-volontariamente lasciato campo libero all’attività interpretativa dei continuatori diIrnerio, ripudio delle dottrine scaturite dal lavorio esegetico svoltosi nelle Universitàmedievali e valorizzazione della lingua latina recuperabile mediante uno studio rinno-vato del Digesto. Si tratta, insomma, di posizioni dichiaratamente umanistiche ed’ispirazione schiettamente valliana,51 che non potevano far breccia nel panorama dellascienza giuridica coeva, pur se depurate della dirompente carica polemica tipica degliinterventi di Lorenzo, atti più a dividere e a sollevare reazioni comprensibilmente sde-gnate che a conquistare consensi ed adesioni nel campo dei giuristi.

Eloquente la trasfigurazione dei giureconsulti romani che risulta dalle parole diMaffeo, che vede in costoro dei sagaci conoscitori e manipolatori della lingua e, per ciòstesso, dei potenziali esperti di tutti gli aspetti dell’attività umana che tramite il lin-guaggio possono essere descritti, ma perdono ai suoi occhi quasi del tutto il loro effet-tivo connotato distintivo di esperti di diritto; privati della loro specificità culturale,possono essere messi a paragone senza difficoltà con i grammatici e gli eruditi antichi:

Ita factum est, ut qui antea auditu etiam leges abhorrerem, coeperim miro admodum amoreinflammari, degustata sapientissimorum legislatorum eruditione et elegantia. Inter poëtandumigitur transferebam me saepe numero ad lectionem Digestorum, quod et nunc facio curiosissime:non quo tamen verbosis tractatibus et commentariis animum intenderim, quibus totum passim juscivile obscuratum, confusumque est: sed quia pellectus summa vi dicendi, summo verborum ornatuet splendore, sententiarumque majestate, plurimarum etiam, maximarumque rerum traditione,persuasi mihi nihil tersius, nihil praeclarius, et sempiterna laude dignius inveniri posse. Verum

50 Per una lettura più distesa e puntuale si veda quanto abbiam detto in ROSSI, Valla e il diritto cit. (nt. 16), 572-577.51 Tanto da indurre a scorgere nell’opera del Vegio «una sorta di lavoro preparatorio delle Elegantiae»: MANTOVANI,‘Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis et in honore fuit lingua Romana’ cit. (nt. 16), 122.

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enim vero, ut propius rem adtingam, cuius gratia huc adcessi: fuit mihi, inter cetera, perbelleomnia a jureconsultis scripta, summo studio et voluptate pene incredibili lectitare, et admirarisignificationes verborum, quae tanta cum ratione, et ubertate sparsim in Digestis expositae legipossunt, ut nescio quis Nonius, quis Festus, aut Varro vel eruditior, vel elegantior evasisse videatur.52

La condanna dell’irresponsabile distruttivo intervento di Triboniano è una conse-guenza necessaria di tali premesse; in ogni caso l’attenzione di Vegio continua ad esse-re concentrata sull’aspetto linguistico: come il paragone con Festo o Varrone si risolvea favore dei giureconsulti sulla base dell’eruditio e della elegantia dei loro scritti, così ildanno compiuto con la redazione delle Pandette è a carico della lingua latina, non dellagiurisprudenza:

Sane non possum non dolere, et vehementer non excitari, pulcherrimam illam, et admirabilem totlibrorum suppellectilem, quot a sanctissimis legum conditoribus scripti erant, deperiisse manuTribuniani […]. Pergam igitur ad id, quod institui, ad Tribunianum scilicet, cuius opera tantumdamni, tantum infelicitatis adcepimus, quantum nescio ne unquam linguae Latinae contigerit.53

Da qui scaturisce il giudizio negativo a carico di Triboniano, poiché ha colpevol-mente depauperato il latino di una parte significativa delle sue potenzialità semanti-che, scomparse insieme ai testi giuridici che le esprimevano in modo certamente eccel-lente: Mille itaque huiuscemodi a jureconsultis eleganter diffinita, nobis nunc plana etaperta essent, quae Tribuniaco postea facto intercepta, demersaque penitus interierunt.54

Nulla di strano quindi che letterati come Guarino Veronese abbiano mostrato di ap-prezzare l’opera mentre i giuristi l’abbiano ignorata e ben presto dimenticata. Il Deverborum significatione del Vegio – che nulla ha in comune con le opere tradizional-mente dedicate al commento del titolo omonimo del Digesto (D. 50.16) – resta cosìun documento rivelatore, al di là del suo valore intrinseco oggettivamente limitato, diuna attenzione al Digesto precocemente manifestatasi dal versante umanistico e desti-nata a dare frutti solo a distanza di decenni.

Tornando a Valla, nonostante l’indubbia importanza del contributo ricavabile dallasua opera al cantiere umanistico che fissa lo statuto scientifico della moderna filologia,occorre notare che la concezione valliana della lingua ed il tipo di risposte che egli diconseguenza cerca e trova nella lettura del Digesto non lo inducono a mettere a fuoco

52 L’epistola si può leggere in J.A. SAXII … Historia literario-typographica Mediolanensis ab anno MCDLXV ad annumMD…, premessa a PH. ARGELATI Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, seu Acta, et elogia virorum omnigena erudi-tione illustrium, qui in metropoli Insubriae, oppidisque circumjacentibus orti sunt, Mediolani, in aedibus Palatinis 1745,coll. CCCCVI-CCCCVIII, spec. CCCCVI.53 Op. cit., coll. CCCCVI-CCCCVII.54 Op. cit., col. CCCCVIII.

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il problema della verifica della affidabilità del testo tràdito. In effetti, il tema dell’ap-prontamento di una edizione critica della compilazione non pare interessare il nostroautore, che pure dispone di tutti gli elementi per diffidare a buona ragione della genui-nità e correttezza dei passi attribuiti a quei giureconsulti da lui tanto apprezzati. Eglitrascura infatti, anzitutto, l’indicazione fornita dallo stesso imperatore bizantino nellacostituzione Deo auctore 55 – confermata poi ad opera ormai compiuta nella Const.Tanta (§ 10): multa et maxima sunt, quae propter utilitatem rerum transformata sunt –in virtù della quale Triboniano ha facoltà di rimaneggiare il tenore testuale dei fram-menti estratti dalle opere dei giureconsulti, al fine di creare un tessuto normativo coe-rente e privo di contraddizioni, anche in rapporto al contenuto dei titoli paralleli delCodex. L’instancabile caccia alle interpolazioni e la connessa individuazione degli em-blemata Triboniani, con il corredo di infinite ipotesi ricostruttive dei testi originali,tanto raffinate ed ingegnose quanto opinabili ed incerte, croce e delizia dei romanistifino al pieno Ventesimo secolo, traggono da qui la loro ragion d’essere e rispondono alreale problema, peraltro purtroppo quasi insolubile, di riconoscere con certezza erimuovere gli interventi del solerte Triboniano per tornare per quanto possibile al det-tato primitivo formulato dai giuristi classici.56

La preoccupazione giustinianea di promulgare un testo legale privo di discrasie edantinomie si spiega facilmente nell’ottica di assicurare la concreta applicabilità dinorme intese e promulgate come vigenti a tutti gli effetti, ma perde qualsiasi rilievo perchi guarda al frammento in quanto tale, più che come mattone della nuova costruzio-ne normativa giustinianea e considera quel testo come un reperto storico non più in

55 Primum nobis fuit studium a sacratissimis retro principibus initium sumere et eorum constitutiones emendare et viaedilucidae tradere, quatenus in unum codicem congregatae et omni supervacua similitudine et iniquissima discordia abso-lutae universis hominibus promptum suae sinceritatis praebeant praesidium (C. 1.17.1.1); e ancora: Sed et hoc studiosumvobis esse volumus, ut, si quid in veteribus non bene positum libris inveniatis vel aliquod superfluum vel minus perfectum,supervacua similitudine semota et quod imperfectum est repleatis et omne opus moderatum et quam pulcherrimum osten-datis. hoc etiam nihilo minus observando, ut, si aliquid in veteribus legibus vel constitutionibus, quas antiqui in suis librisposuerunt, non recte scriptum inveniatis, et hoc reformetis et ordini moderato tradatis: ut hoc videatur esse verum et opti-mum et quasi ab initio scriptum, quod a vobis electum et ibi positum fuerit, et nemo ex comparatione veteris voluminisquasi vitiosam scripturam arguere audeat (C. 1.17.1.7).56 Il tema riveste un indubbio rilievo e meriterebbe una riconsiderazione complessiva ed aggiornata. Punto di par-tenza utile sull’età umanistica, anche se parziale ed invecchiato, è lo studio di L. PALAZZINI FINETTI, Storia della ricer-ca delle interpolazioni nel Corpus Iuris giustinianeo, Milano 1953. Notiamo, en passant, che l’autore indica in Valla unodegli ispiratori della critica interpolazionistica, ma correttamente ne tratta appunto soltanto tra i suoi ‘precedenti sto-rici’. Rinata su basi scientifiche rinnovate a fine Ottocento (anzitutto con l’opera di O. GRADENWITZ, Interpolationenin der Pandekten, Berlin 1887), la dottrina romanistica non ha ancora cessato di scandagliare il Digesto a caccia diinterpolazioni (cfr. il recentissimo saggio di J.G. WOLF, Interpolationen in den Digesten, in Studia et documenta histo-riae et iuris 79 [2013] 3-80).

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vigore. In questa ottica diviene certo più interessante ricostruire il vero pensiero degliantichi autori che non limitarsi a prendere atto degli esiti della tarda rielaborazionebizantina, talora molto lontani dall’originale ed in tale ottica assai discutibili.

Una immediata conseguenza dell’approccio storicistico al Corpus iuris è dunque iltentativo di ripercorrere a ritroso il cammino compiuto dai compilatori, scomponen-do il mosaico nelle sue innumerevoli tessere e dedicando ad esse tutta l’attenzione, percercare – all’opposto – di risalire alle opere dei singoli giureconsulti da cui sono statetratte. Sotto tale aspetto Lorenzo Valla non pare muoversi in modo coerente con le pre-messe, poiché nega qualsiasi attenzione alle possibili interpolazioni di Triboniano, nonmeno che agli effetti deleteri della trasmissione manoscritta del Digesto nel lunghisecoli medievali; non può considerarsi casuale, d’altra parte, che in nessun punto del-l’opera valliana troviamo un significativo riferimento alla littera Florentina ed unapiena valorizzazione della sua importanza per la tradizione del Digesto, tantomeno untentativo di giovarsi della collazione del testo di quel celebre manoscritto con quellodella Vulgata Bononiensis, la versione messa punto dai Glossatori civilisti bolognesi eben presto divenuta testo di riferimento standard per la didattica universitaria, anchefuori dall’ateneo felsineo, di cui era ben nota la mendosità e la minore affidabilitàtestuale rispetto alla Florentina.

La vis polemica riversata a piene mani contro i giuristi medievali e la loro crassaignoranza del latino e (quindi anche) del diritto romano non induce Valla a verificarel’eventuale corruttela dei passi su cui lavorano Glossatori e Commentatori. Per con-trappasso, così come i Medievali non sono particolarmente motivati a ricostruire untesto per quanto possibile privo di mende e quindi trascurano di mettere a punto unadeguato strumentario filologico, poiché credono di poter superare tutte le difficoltàtestuali (ed anche contenutistiche) per via di una interpretatio intrinsecamente creati-va, Lorenzo Valla può dal suo canto relegare in secondo piano l’indagine filologica-mente rigorosa del testo perché non ne ha bisogno per condannare senza appello e intoto la scienza giuridica dell’età di mezzo, considerata a priori incapace di apprezzare efar proprie la precisione e la nitidezza linguistica e concettuale profuse dagli antichigiureconsulti e depositatesi infine nel Digesto, come pagliuzze d’oro nel letto del tor-rente, in attesa che qualcuno sappia scorgerne il barbaglio e comprenderne il valore.

L’acribia di cui Valla dà prova nell’analisi della (falsa) donazione di Costantino nonviene applicata ai frammenti degli autori classici, neanche per spiegare in tal modo lediscordanze e le imprecisioni che pure egli segnala e stigmatizza con puntiglio nel VIlibro delle Elegantiae. Probabilmente l’umanista evita di dare rilievo al problema delleinterpolazioni perché non ha interesse a porre l’accento sulla inaffidabilità congenitadel tenore dei passi raccolti e rielaborati da Triboniano: ciò farebbe vacillare la sua tesi

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di una evidente ed indiscutibile bontà del lavoro dei giureconsulti romani, mettendoin discussione la genuinità di quei testi senza poter indicare criteri sicuri per distin-guere i passi intatti da quelli rimaneggiati o corrotti. In secondo luogo, l’analisi vallia-na si dispiega normalmente su una pluralità di fonti, mettendo a confronto luoghidiversi di autori diversi ed interrogando pure con dovizia autorità extragiuridiche, cioèletterarie o storiografiche: in tal modo il rischio di fondare la propria ricognizione suluoghi interpolati riduce la sua rilevanza in misura sostanziale.

Tali notazioni sono necessarie per precisare i contorni dell’interesse del Valla per lePandette e per mettere a fuoco i limiti oggettivi della sua attività di rilettura da unpunto di vista umanistico di una fonte di così grande importanza per la storia giuridi-ca medievale e moderna. Ciò, nonostante sia indubbio che proprio Valla ha dato l’av-vio ad un modo nuovo di considerare i testi contenuti nel Digesto, aprendo la strada– pur senza averne una piena consapevolezza e mirando ad altri fini – ad una nuovafase della giurisprudenza europea.57

In tal modo possiamo rifuggire ogni antistorica semplificazione, evitando di ricon-durre alla sola figura di Lorenzo Valla, pur eccezionale, il ruolo di unica promotrice ditutti gli elementi di novità metodica legati allo studio critico della compilazione giu-stinianea. Occorre infatti sottolineare, al contrario, che il primo ideatore di un com-plessivo progetto di lavoro filologicamente fondato e volto al recupero del testo ori-ginario delle Pandette deve senz’altro considerarsi Angelo Poliziano (Montepulciano1454 - Firenze 1494), spostando così lo sguardo in avanti di alcuni decenni, verso lagenerazione successiva di umanisti, attiva negli ultimi anni del secolo XV. Intellettualedi punta dell’entourage mediceo ed autorevole professore nello Studium fiorentino, lasua qualità di uomo di fiducia di Lorenzo – tanto da essere accolto nella sua casa e davedersi affidata nel 1475 l’educazione del figlio Piero58 – lo poneva nella privilegiatacondizione di poter avere un accesso più facile del consueto al manoscritto della litteraFlorentina, solitamente custodito con rigore dalla Signoria e negato alle richieste deglistudiosi che ne chiedevano di tanto in tanto l’ostensione per procedere a puntuali veri-fiche testuali. L’Ambrogini, al contrario, poteva lavorare sul venerato manoscritto conlimitazioni molto più blande, fino ad ottenere dal principe libero accesso al codice, cosìda poter pianificare di procedere ad una ricognizione integrale del testo, per confron-

57 Come è stato giustamente affermato, «Non vi sarà giurista umanista, in tutto il sec. XVI, che non muoverà dalValla e che non si farà forte delle sue affermazioni polemiche»: ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto roma-no cit. (nt. 29), 607 nt. 47.58 Sulla biografia e le opere del Poliziano basti qui il rimando a E. BIGI, Ambrogini Angelo, detto il Poliziano, ‘voce’del Dizionario biografico degli italiani II, Roma 1960, 691-702.

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tarlo con quello tramandato dalla Vulgata adottata nello Studium bolognese e dipoimutuata dall’intero movimento scientifico universitario italiano e quindi europeo.

7. Sul finire del secolo, del resto, l’attenzione per il diritto romano e per le Pandette chelo conservano e tramandano non emerge più come un dato sporadico, coinvolgendoumanisti di primo piano, di varia formazione e scuola. Mossi da interessi lessicali, lin-guistici, storici, pur se privi di una preparazione propriamente tecnico-giuridica, anchealtri importanti letterati si volgono alla lettura attenta del Digesto, sulle orme di LorenzoValla, inserendolo senza remore nel novero delle opere classiche da cui attingere per irro-bustire la propria cultura ed approfondire la conoscenza dell’Antichità. Forse con mino-re rigore ed intransigenza metodologica del Valla e con competenze filologiche menoprofonde ed innovative di quelle del Poliziano, ma comunque testimoniando un inte-resse genuino ed una conoscenza diretta tutt’altro che superficiale, si segnala in questosenso il caso di Filippo Beroaldo il Vecchio (Bologna, 1453-1505), apprezzato professo-re di retorica e filosofia presso lo Studium bolognese e figura di spicco nell’ambiente uma-nistico di fine Quattrocento della città emiliana, con una fama meritatamente diffusasiben oltre la cerchia delle mura cittadine ed assai presto giunta fino in Francia.59 Beroaldo,a conferma di un bagaglio culturale di prim’ordine e tendenzialmente enciclopedico, nondisdegna di compiere qualche sortita anche sul terreno d’elezione dei giuristi, cimentan-dosi con passi tratti dalle Pandette e fissando i risultati di tale impegno esegetico nei dottirilievi confluiti poi nelle sue Annotationes centum (pubblicate nel 1488).60 Si tratta inmassima parte di osservazioni di natura essenzialmente filologico-lessicale, conforme-mente ai prevalenti interessi beroaldiani, che testimoniano però una confidenza inusua-le con i testi giuridici conservati nelle Pandette, a conferma di una apertura di creditoverso il sapere legale che verrà apertamente dichiarata in età avanzata anche in un’ope-retta di tutt’altro argomento, quelle Annotationes in Galenum (1505) che ci mostrano

59 Nel 1476 Beroaldo ha soggiornato a Parigi, svolgendo anche attività d’insegnamento con buon successo. Del restoBeroaldo intratteneva buoni rapporti con Poliziano, di cui figura tra i corrispondenti nell’epistolario. Per notizie bio-bibliografiche su questo autore si veda P. MARÉCHAUX, Béroalde l’Ancien (Philippe) (1453-1505), in C. NATIVEL

(réun. par), Centuriae latinae. Cent une figures humanistes de la Renaissance aux Lumières offertes à Jacques Chomarat,Genève 1997, 109-121, anche per la bibliografia più risalente che annovera, tra gli altri (oltre alle ricche e sempreutili ‘voci’ di Mazzuchelli e Fantuzzi), interventi tuttora importanti di Ezio Raimondi ed Eugenio Garin.60 FILIPPO BEROALDO THE ELDER, Annotationes centum, edited with introduction and commentary by L.A. CIAP-PONI, Binghamton (N.Y.) 1995, 107, nn. 47.3; 142, nn. 81.3 e 5; 148, nn. 89.3-4; 160-161, nn. 102.1 e 4; 161,n. 103.1; 162-163, nn. 104.1 e 4. Non mancano del resto tracce di una conoscenza non superficiale anche del De-cretum grazianeo e della Glossa Magna, rispetto alla quale l’umanista non risparmia le critiche e i sarcasmi per lacultura antiquata e deficitaria messa in mostra da Accursio (per la polemica antiaccursiana, cfr. spec. p. 107, n. 47.3:In cuius loci interpretatione meras nugas blactit Accursius e soprattutto pp. 162-163, nn. 104.1 e 4, su cui infra).

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Beroaldo alla ricerca di quel respiro enciclopedico che arricchisce e connota l’opera deimigliori tra gli umanisti italiani. Entro uno scritto dedicato alla scienza medica, nel qualel’autore dà prova della sua profonda dottrina anche in quel campo, di solito non aratodai letterati, con un’immagine icastica ed efficacissima Beroaldo si raffigura come l’uo-mo di cultura che non vuole restare estraneo ad alcuna scienza, né privarsi della possibi-lità di integrare ed irrobustire le sue conoscenze attingendo ai diversi ambiti disciplinari;una metafora letterariamente pregevole esprime con evidente valore programmaticoun’idea della cultura aperta ad influssi ed arricchimenti molteplici, all’insegna di quellapolymathia perseguita egregiamente dall’umanista bolognese, autore di dotti commentiaccademici (ai quali, particolare non secondario, arrise un vastissimo successo editoriale)ad un numero davvero grande e vario di autori ed opere dell’Antichità:

[…] ut uno volumine prosim medicinae et iuris civilis scientiae studiosis: hoc enim mihi propeunum propositum est: hic scopos, hoc signum ut pro virili parte foveam, instituamque tirociniaadulescentulorum, ut in re litteraria titubantibus fulcimenta suppeditem, […] equidem ex castrisoratoriis, in medicorum et iurisconsultorum atque philosophorum castra subinde me confero, nontamen ut transfuga, sed ut explorator. Nolo quidem esse medicus ut Hipocrates, non tamen expersmedicinae, qua salus continetur. Nolo esse iurisconsultus ut Scaevola, non tamen penitus explosusa contubernio iurisconsultorum. Nolo esse philosophus ut Plato, non tamen omnino alienus a sectaphilosophorum et schola. Haec autem si penitus introspicere non licet, saltem a limine saluto, etut celeberrimi scriptores dixere: magnae rei quantuluncunque possederis fuisse participem: nonminima est gloria, et satius est plura studiorum genera novisse mediocriter: si non possis unumaliquid insigniter.61

La posizione del professore bolognese risulta limpida e ben delineata: senza chie-dergli di vestirsi abusivamente di panni altrui, egli formula per l’esperto di retorica unprogetto culturale ambizioso che comporta l’acquisizione di conoscenze di primamano anche nei domini alieni della medicina, del diritto e della filosofia, non al mododel transfuga che diserta cambiando casacca ed abdicando alla propria specifica fisio-nomia intellettuale ma come l’explorator che si reca presso gli accampamenti nei qualisono acquartierati i cultori delle altre scienze per ottenerne notizie che torneranno sen-z’altro utili intorno a realtà diverse ma comunque oggettivamente rilevanti.62 In questa

61 Si tratta del passo finale delle Annotationes in Galenum, in PHILIPPI BEROALDI Opusculum de terremotu et pestilen-tia cum annotamentis Galeni, impressum Bononiae, per Benedictum Bibliopolam Bononiensem 1505, n.n. in fine.L’Opusculum con le Annotationes annesse ebbe vasta circolazione, inserito nelle edizioni che raccoglievano orazioni escritti brevi vari del Beroaldo (e non soltanto): cfr. e.g. Orationes et Opuscula Philippi Beroaldi Bononiensis oratoris etpoetae disertissimi…, Basileae 1513 (come si ricava dall’explicit dell’opera), f. 162r.62 Ha opportunamente sottolineato la rilevanza programmatica del passo in questione I. MASTROROSA, Filippo Be-roaldo il Vecchio fra esegesi e imitazione dei classici (Cic. Tusc. 1,22; 2,35-37; Ps. Quint. Decl. 268), in Euphrosyne n.s.

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ottica, l’umanista-letterato deve porsi in un fecondo atteggiamento di apertura, chenon lo induca a disprezzare e rifiutare le tradizioni culturali diverse dalla sua bensì lodisponga a cogliere l’occasione di dotarsi di cognizioni ricavate da molteplici saperi,superando la specializzazione esasperata del modello formativo tipico del sistema uni-versitario medievale a vantaggio di una maggiore latitudine di conoscenze.63

Ciò spiega perché troviamo traccia nell’opera del Beroaldo di un interesse ricorren-te per il diritto, o meglio per i testi giuridici,64 che si sostanzia nelle Annotationes cen-tum in puntuali discussioni intorno a lemmi e passi tratti dal Digesto, per giungere val-lianamente alla migliore determinazione possibile del significato delle parole e potercosì disporre di un lessico totalmente affidabile. Ancora una volta, l’apprezzamento perl’affilata precisione dei giureconsulti antichi è incondizionato (richiamandosi esplicita-mente alla elegantia del loro latino: ut iurisconsulti […] concinniter et eleganter hoc usisint sic scribentes)65 e fa da pendant al disprezzo per le rozze e sovente ridicole operazio-ni ermeneutiche medievali, tramandate dalla Glossa accursiana: così (nella ann. 47) peril lemma permutatio (impiegato nella Const. Omnem 11), laddove è lo stessa normagiuridica a richiamare per analogia un passo omerico (quia vestris temporibus talis leguminventa est permutatio, qualem et apud Homerum patrem omnis virtutis Glaucus etDiomedes inter se faciunt dissimilia permutantes)66 che è appunto quello alla base deltesto della lettera pliniana (epist. 5.2.2) su sui si interroga l’umanista. Le fonti giuridi-che sono richiamate per la loro indiscutibile autorevolezza senza distinzione rispetto aquelle poetiche o storiografiche ed il problema nasce soltanto dalla patina di tecnici-smo che deve essere superata per acquisire appieno il vero significato delle parole,accantonando senza rimpianti le farneticazioni medievali. Ciò vale (ann. 81), parten-do dalla emendazione di un luogo gelliano (Gell. 4.2.11), per il lemma morbosus, con

33 (2005) 125-149, spec. 148-149. Cfr. anche il riferimento in G. ROSSI, Incunaboli della modernità. Scienza giuri-dica e cultura umanistica in André Tiraqueau (1488-1558), Torino 2007, 201-202.63 Un’idea della ricchezza e varietà delle fonti classiche da cui attinge Beroaldo si ricava da L.A. CIAPPONI, In-troduction, in BEROALDO THE ELDER, Annotationes centum cit. (nt. 60), 1-34 (utile, ivi, anche la ricca «Bibliog-raphy», 35-52).64 Pone l’accento sull’attenzione di Beroaldo per il diritto e sull’ampliamento dell’orizzonte culturale degli umanistifino a ricomprendere le reliquie della scientia iuris di Roma antica (mostrando però forse un eccessivo ottimismo sullareale diffusione di tale atteggiamento tra i letterati di fine Quattrocento) D.J. OSLER, Filippo Beroaldo e l’umanesimogiuridico, in Sapere e/è potere. Discipline, Dispute e Professioni nell’Università Medievale e Moderna. Il caso bolognese aconfronto. Atti del 4° Convegno, Bologna, 13-15 aprile 1989, I. Forme e oggetti della disputa delle arti, a c. di L.AVELLINI, Bologna 1990, 233-241.65 BEROALDO THE ELDER, Annotationes centum cit. (nt. 60), 107, n. 47.3.66 Beroaldo riporta il passo con alcune varianti rispetto alla Vulgata Bononiensis (non diversa sul punto dall’edizionedel Mommsen), recando nostris temporibus e tralasciando et dopo qualem (loc. cit.).

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riguardo al quale i passi giuridici sono decisivi al fine di stabilire se il myops (ovverolatinamente il luscitiosus) rientri nel novero di quanti sono affetti da malattie, e se ciòvalga anche per l’edentulus (colui al quale mancano uno o più denti).67

Talora invece il problema non concerne il significato oscuro di parole tecniche,ovvero il rilievo di oscillazioni semantiche, ma la necessaria correzione di mende intro-dotte nella grafia dei termini dalla tradizione manoscritta medievale e fedelmente con-servate dalla Vulgata Bononiensis, con esiti palesemente errati che non danno sensoalcuno; così (ann. 89), per delimitare il novero delle categorie colpite da infamia,Beroaldo ricorre ancora una volta ad Ulpiano (D. 3.2.4), che inserisce nell’elencoanche gli attori e gli atleti, ma le parole impiegate, di ascendenza greca ed evidente-mente di difficile decifrazione per il copista medievale, sono state malamente alteratee devono essere corrette.68 Analogamente, con riguardo ai soggetti colpevoli di venefi-cio (ann. 102), il passo di Marciano accolto nel Digesto (D. 48.8.3.3) fa riferimentoanche all’impiego di specie animali velenose, il cui nome ‘esotico’ – ancora una voltaun calco dalla lingua greca – è stato storpiato nella tradizione manoscritta, con conse-guente difficoltà di comprensione del significato del testo:

Apud iurisconsultos in titulo Ad Legem Corneliam de sicariis duae sunt iunctim dictiones depravataeet ex Latinis per incuriam librariorum ad barbaras dictiones traductae. Nam in omnibus codicibus«pyctuocarpas aut bobustrum» legimus cum legere debeamus «pytiocampas aut buprestin».69

Anche nel titolo de auro et argento legato ricorre, in un passo di Ulpiano (D.34.2.19.12), un problema dovuto alla errata trascrizione di una parola, apparente-mente minimo – si tratta della inserzione di un’unica lettera – ma sufficiente per ren-dere inintellegibile nei suoi esatti contorni la fattispecie evocata dal giureconsulto (ann.

67 Op. cit., 142, nn. 81.3 e 5. La risposta è positiva per chi soffre della patologia che i Greci chiamano nittalopia(buona capacità visiva in condizioni di scarsa luce e viceversa), secondo Ulpiano (D. 21.1.10.4), che però distinguequesto caso da quello del miope, pur ritenendolo assoggettabile alla stessa disciplina (D. 21.1.10.3), mentre Beroaldopare sovrapporre le due ipotesi; circa lo sdentato invece Paolo (D. 21.1.11) chiarisce che non è detto che chi è privodi denti sia affetto da patologie; del resto, alla nascita tutti sono privi di denti e non per questo sono malati, così comein tal caso nessun vecchio, immancabilmente senza denti, potrebbe considerarsi sano.68 Op. cit., 148, nn. 89.3-4. Qui Beroaldo, che giunge al passo del Digesto partendo dalla correzione di un passo diSvetonio della vita di Galba (Suet. Galb. 15.1), propone delle appropriate correzioni congetturali (theomelici corret-to in thymelici, che vale histriones; xesustici corretto in xystici, cioè athletes), che si ritrovano puntualmente adottatenell’edizione critica del Mommsen.69 Op. cit., 160, n. 102.1. Come spiega con dovizia di citazioni di fonti naturalistiche ed agronomiche, quali Plinioil Vecchio (ricordiamo che Beroaldo ha al suo attivo anche delle importanti Annotationes in Plinium, pubblicate nel1476, che recano già l’emendazione del testo nel senso indicato: nat. 29.95) e Columella, le pytiocampae sono bru-chi velenosi che nascono nei pini (pytis in greco vuol dire appunto pino), mentre il buprestis sarebbe simile ad ungrande scarabeo, assai velenoso, poco comune in Italia.

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103): […] vetus verbum et elegans depravatum est unius litterae adiectione quae menda,quamvis levis esse videatur, tamen significatum vocabuli corrumpit eloqutionemque deho-nestat.70 Smascherato l’errore che si annida subdolamente nella consonante aggiunta daun copista distratto o ignorante, resta da ripristinare l’originario e congruo senso dellaparola, che potrà essere individuato soltanto da chi ha confidenza profonda con le fontilatine classiche.71

L’ultima delle 104 annotationes beroaldiane concerne ancora una volta un termineche ricorre nel Digesto (D. 32.65 pr.), poiché cerca di stabilire il significato di servi[…] obsonatores; l’autore si scaglia stavolta in modo diretto contro Accursio, reo di averricondotto erroneamente quella locuzione agli schiavi che vegliano sul sonno del loropadrone, ovvero che suonano e cantano per il padrone intorno alla mensa. La censuradel glossatore non lascia spazio a giustificazioni e tocca i toni dissacratori del sarcasmocontro l’ingegnosa ignoranza del glossatore e la mal riposta fiducia nella sua scienza daparte dei suoi sprovveduti seguaci:

O interpretationem ex penitissimis doctrinarum sacrariis depromptam! O miseram et miserandamcondicionem mortalium qui Acursio ita addicti, ita mancipati sunt ut cum illo errare malintquam cum aliis vera sentire, cuius interpretationes, si quis ausus fuerit improbare, ille anathemasit! Sed quod cum bona venia dictum sit Acursii sectatorum, ubi, queso, legit, ubi didicit Acursiushanc obsonatoris significationem? Profecto nusquam; suum est inventum, ipse peperit, ipseexcogitavit, ipse cum suis hanc doctrinam tanquam filiolam exosculetur.72

Di fronte alle fantasiose ricostruzioni dei medievali, il professore bolognese ricorrealla propria ampia conoscenza delle fonti letterarie romane (cita infatti Plauto, Seneca,Marziale) per giungere alla corretta comprensione del testo: l’obsonator è dunque loschiavo incaricato di acquistare le provviste e i cibi per la cucina, e quindi risulta con-grua l’affermazione del giureconsulto per cui chi assolve tale compito non rientracomunque nel novero dei negotiatores.73 L’insipienza dimostrata dal glossatore induce

70 L’annotazione continua: Ita enim scriptum est: «Certe si cacabos argenteos habebat vel militarium argenteum dubita-ri poterit, an escario contineatur». Illud «militarium» littera una detracta corrigito «miliarium»: op. cit., 161, n. 103.1.71 Ecco dunque che l’erudito bolognese non si limita ad indicare il significato corretto, cioè quello di vaso per cuci-nare (come attestato in Catone e Palladio), ma sfoggia tutta la sua erudizione per indicare anche significati alternati-vi (e nello specifico inconferenti), sempre con l’allegazione della relativa fonte classica, con vezzo di professore: vuoiquello di colonna dorata posta nel foro a mo’ d’inizio delle grandi vie, vuoi quello di costruzione lunga un miglio(come il portico nella domus aurea di Nerone): op. cit., 161-162, nn. 103.2-4.72 Op. cit., 162, n. 104.1. Il passo è richiamato anche in OSLER, Filippo Beroaldo e l’umanesimo giuridico cit. (nt. 64),238-239.73 Si noti che la difficoltà di comprensione del termine obsonatores, a fronte delle ipotesi peregrine dei giuristi medie-vali, spingerà anche Andrea Alciato ad occuparsi del frammento di Marciano, dedicandogli un breve capitolo (il 14)

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però Beroaldo a riprendere la polemica contro le numerosissime74 pseudointerpretazio-ni dei legisti, utilizzando proprio le parole celebri di Celso, tramandate dal Digesto (D.1.3.17): Scire leges non hoc est verba earum tenere, sed vim ac potestatem; di fronte ai giu-reconsulti medievali che tradiscono smaccatamente il loro compito a causa di una cras-sa ignoranza, tocca paradossalmente all’umanista e al filologo, significativamente nonignaro dei testi giuridici classici, richiamare l’essenza stessa della interpretatio e chiede-re a gran voce che si superi una lettura sterilmente e malamente limitata all’aspetto este-riore dei verba per andare in profondità e cogliere medullas […] ac sanguinem legum,l’essenza vera della legge, cioè il reale valore e significato delle norme che essa detta.75

Si trova così puntualmente confermata la dichiarazione dell’epistola dedicatoria,secondo cui Beroaldo con le Annotationes intendeva […] partim loca apud Latinos scrip-tores obscura illustrare, partim mendosa emendare et in veram, hoc est suam, lectionemtransducere […]76 e si intende altresì il significato pregnante attribuito a tali operazioni,dove la restituzione filologica dei testi si trasforma inevitabilmente nella loro interpre-tazione, attenta non solo all’aspetto formale ma soprattutto a quello contenutistico.

8. Occorre dunque attendere quasi la fine del Quattrocento perché vi sia chi – segna-tamente il Poliziano, appunto – imposti un lavoro di ricognizione sistematica del testodelle Pandette sulla base dell’antico manoscritto conservato a Firenze, all’epoca erro-neamente considerato come l’archetipo o comunque come prodotto diretto della can-celleria di Giustiniano, in vista della correzione degli errori innumerevoli tramandatinella versione vulgata ed in ultima istanza dell’apprestamento di un’edizione critica.77

Tale progetto risulta chiaramente dalla lettura, nella Centuria secunda dei Miscellanea

del X libro dei Parerga (uscito a stampa a Basilea nel 1543), nel quale giunge a conclusioni analoghe a quelle delBeroaldo, sulla base anch’egli di una occorrenza plautina, senza conoscere (o almeno senza citare) l’annotatio 104 delprofessore bolognese; cfr. su ciò G. ROSSI, La lezione metodologica di Andrea Alciato: filologia, storia e diritto neiParerga, in A. ROLET - S. ROLET (éd.), André Alciat (1492-1550): un humaniste au confluent des savoirs dans l’Europede la Renaissance, Turnhout 2014, in corso di stampa.74 Il tono, più che di indignazione, appare di sincero scoramento: Sexcenta sunt id genus apud iurisconsultos ab Acursioperperam enarrata (BEROALDO THE ELDER, Annotationes centum cit. [nt. 60], 162, n. 104.4).75 Op. cit., 162-163, n. 104.4.76 Op. cit., Ad… Uldricum Rosensem Boemum… epistola, 54, n. 5.77 Sul lavoro avviato dal Poliziano sulla Florentina, argomento piuttosto trascurato dai moderni storici del diritto, siveda il quadro riassuntivo offerto da MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico cit. (nt. 3), 84-91; cfr. inoltre le rapi-de puntualizzazioni di M. ASCHERI, Poliziano filologo del diritto tra rinnovamento della giurisprudenza e della politica,in V. FERA - M. MARTELLI (a c. di), Agnolo Poliziano poeta scrittore filologo. Atti del Convegno internazionale di studi.Montepulciano, 3-6 novembre 1994, Firenze 1998, 323-331. Ancora in qualche misura utile, specie per la riprodu-zione in traduzione italiana delle fonti, pure il vecchio F. BUONAMICI, Il Poliziano giureconsulto o della letteratura neldiritto, Pisa 1863 (rist. Milano 1987), 19-30, 77-118.

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dell’umanista (databile al 1493-1494),78 del cap. 44, Iurisconsulti: in esso viene riporta-to l’elenco tratto dal manoscritto fiorentino degli autori da cui sono estrapolati i fram-menti del Digesto, con l’indicazione delle rispettive opere messe a frutto da Triboniano;inoltre Poliziano nella premessa esplicativa fa aperto riferimento, per un verso, al lavo-ro già dedicato in passato all’esame del famoso manoscritto ed alle vigiliae trascorse olimnello studio di quel testo e, per altro verso, alla promessa di fornire in futuro ulterioriinformazioni su quelle opere e quegli autori, progettando evidentemente di continua-re ad occuparsi delle vestigia della giurisprudenza classica tramandate nelle Pandette:79

Volo iurisconsultis nostris gustum pauxillulum dare vigiliarum nostrarum quas olim subivimus utPandectarum quinquaginta libros pro mediocritate nostra interpretaremur. Is erit brevissimusindex et, ut arbitror, studiosis non ingratus, in quo nomina comprehendantur auctorumlibrorumque quos auctores ei composuerunt, e quibus Digestorum libri seu Pandectae Iustinianiprincipis conflatae sint. Nec autem nunc aut ipsorum tempora referam aut qua quisque vel fortunavel auctoritate apud quenque imperatorem fuerit: explicabimus omnia haec, si Deus amaverit,aliaque item permulta commentariis ipsis persecuturi. Confecti igitur Digesti principis Iustinianiex horum libris iurisconsultorum sunt […].80

L’interesse dell’Ambrogini per il Digesto si era manifestato sporadicamente ma conevidenza già nella Centuria prima, pubblicata nel 1489,81 per poi sfociare nella colla-zione sistematica della Vulgata con il codex una volta Pisanus ed ormai Florentinus, ope-rata nell’estate del 1490 (conclusa il 29 agosto, come attestato da una nota autografadello stesso Angelo). Un lavoro di approfondimento dei contenuti delle Pandette non

78 Sulla datazione dell’opera e sui suoi caratteri rinviamo all’esauriente V. BRANCA, «Introduzione» a ANGELO

POLIZIANO, Miscellaneorum Centuria Secunda, per cura di V. BRANCA - M. PASTORE STOCCHI, Editio minor, Firenze1978, 1-68. La ricomparsa soltanto nel II dopoguerra del secolo scorso del manoscritto contenente l’opera (cfr. la«Nota al testo» nell’ed. suindicata, 71) e la sua conseguente edizione critica hanno permesso solo in anni recenti diavere a disposizione un testo importante per definire la fisionomia culturale dell’ultimo Poliziano, anche in relazio-ne al suo crescente interesse per il Digesto.79 Non mancano altre testimonianze circa il lavoro di ricognizione del testo delle Pandette fiorentine: cfr. ad es.POLIZIANO, Miscellaneorum Centuria Secunda cit. (nt. 78), 106-107, cap. 56. Antecessores, che rievoca con precisione:Postea vero quam Pandectas inspexi illas archetypas quae Florentiae asservantur […] (p. 107).80 POLIZIANO, Miscellaneorum Centuria Secunda cit. (nt. 78), 76, cap. 44. Iurisconsulti. Come notano in apparato glieditori moderni, «gli elenchi non sono una copia fedele di quelli delle Pandette fiorentine […]. Il P. ha tradotto inlatino parole greche e introdotto diverse modifiche formali […]» (p. 77). Corretta ed opportuna, inoltre, quasi a pre-venire domande o contestazioni di lettori poco esperti, l’informazione fornita da Poliziano in fine, circa la totaleassenza nel Digesto di frammenti ascrivibili a giuristi di poco anteriori, quali Servio Sulpicio, Capitone, Labeone,intorno alla cui scienza e sul cui prestigio siamo informati solo per via indiretta (p. 79).81 Anche sotto tale aspetto, oltre che per la vicinanza delle date di pubblicazione delle due opere e per l’approcciometodico paragonabile, è possibile accostare i Miscellanea di Poliziano e le Annotationes di Beroaldo, pur con le indub-bie peculiarità di tono e d’impostazione: cfr. in merito CIAPPONI, Introduction cit. (nt. 63), 15-28.

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episodico e sempre più convinto che non si limitava certo ad una ricognizione estrin-seca delle differenze tra presunto archetipo e testo corrente – pur se tale ricognizioneera decisiva perché certamente costituiva l’elemento essenziale su cui basarsi per poterimpostare il progetto di una edizione critica della compilazione – ma procedeva oltre,usando le verifiche testuali condotte sulla Florentina per risolvere problemi che soven-te non si esaurivano sul mero piano filologico-lessicale ma tendevano ad avere unrisvolto contenutistico ed a sfociare dunque sul piano della interpretazione di quei testi(ovvero dei testi di altre fonti classiche che potevano esserne illuminati).

In quella prima raccolta di miscellanea è particolarmente notevole il cap. 41.82 In essoil problema testuale d’avvio riguarda il necessario ripristino del termine diffisum (diem)al posto di diffusum, facendo riferimento ad una locuzione relativa all’ambito processuale(il rinvio del giorno nel quale era fissato lo svolgimento del giudizio a causa della malat-tia intervenuta ad impedire la presenza del giudice o di una delle parti)83 impiegata daUlpiano in un passo accolto nel titolo si quis cautionibus in iudicio sistendi causa factisnon obtemperaverit (D. 2.11.2.3);84 per dimostrare che i codici della Vulgata bologneserecano una lezione erronea, l’umanista richiama il diverso tenore del testo che ha riscon-trato nella littera Florentina e coglie così lo spunto per descrivere quel famoso codice edil trattamento degno di una santa reliquia85 che gli è riservato nella Firenze medicea:

Diffisum autem legendum non diffusum, quod omnes habent hi ferme libri qui sunt in manibus.Atqui volumen ipsum Iustiniani Digestorum seu Pandectarum dubio procul archetypum, in ipsacuria florentina a summo magistratu publice adservatur magnaque veneratione quamque raro idetiamque ad funalia ostenditur. Est autem liber haud quota spoliorum praedaeque pisanae portiosaepe a consultis citatus; maioribus characteribus nullisque intervallis dictionum nullis itemcompendiariis notis quibusdamque etiam saltem in praefatione velut ab auctore plane et a cogitanteatque generante potius quam a librario et exceptore inductis expunctis ac suprascriptis […]. Cuius

82 Quod in Digestis Iustiniani principis diem diffusum, male pro eo, quod est diffisum, legitur, ut et apud Gellium dif-fundi, et definitiones, pro illis diffindi, et diffisiones, atque inibi de Pandectis Florentinis nonnihil.83 In realtà Ulpiano sta richiamando una norma delle XII Tavole, sulla quale si sofferma anche Gellio per chiarire ilsignificato della locuzione morbus sonticus (Gell. 20.1).84 Poliziano incorre qui in un lapsus, indicando il I libro del Digesto al posto del II, dove effettivamente si trovanoil titolo e il frammento in questione.85 Rabelais (o chiunque si sia celato dietro il suo nome) non si lascerà sfuggire l’occasione di esercitare il suo corrosi-vo sarcasmo rievocando amplificato il racconto del Poliziano nella scena del Cinquiesme livre sull’isle de Cassade, conl’ostensione solenne del flasque du Sang gréal: «[…] ils le nous monstrèrent, mais ce fut avec plus de cerimonies e solen-nité troys fois qu’on ne monstre à Florence les Pandectes de Justinian, ne la Véronicque à Romme. Je ne viz oncquestant de scindeaulx, tant de flambeaux, de torches, de guymples, et agios» (come notato da E. NARDI, Rabelais e il dirit-to romano, Milano 1962, 223-224 e ripreso da S. CAPRIOLI, Visite alla Pisana, in AA.VV., Le Pandette di Giustiniano.Storia e fortuna di un codice illustre. Due giornate di studio. Firenze, 23-24 giugno 1983, Firenze 1986, 37-98, spec. 37).

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tamen voluminis legendi ac versandi per otium mihi est uni facta copia Laurenti Medicis operacausaque qui vir suae rei publicae princeps dum studiosis obsequatur etiam ad haec usque officiase demittit. Igitur in Pandectis his non iam pisanis ut quondam sed florentinis, in quibus pura suntverba, nec ut in ceteris plena maculis et scabie diffisum reperio, non diffusum.86

Il passo, ben noto, offre una serie di informazioni preziose: oltre a descrivere il codi-ce antico, cosa tutt’altro che superflua, posto che in pochi avevano avuto modo divederlo da vicino a causa delle restrizioni imposte dalla Signoria (scritto a grandi carat-teri, senza interruzioni e senza abbreviature, con solo alcune presenti nella prefazione,aggiunte e poi cancellate o scritte sopra, come se derivassero dalle incertezze di unautore che medita e crea piuttosto che da un copista o uno scrivano), Poliziano hamodo di affermare la sua convinzione che si tratti di un codice archetipo,87 recante untesto non mendoso, con parole non storpiate o travisate come negli altri codici. In-teressante anche la precisazione circa la provenienza da Pisa quale spoglia di guerra e ilriferimento alla solennità delle rare occasioni nelle quali il manoscritto veniva mostra-to in pubblico; infine rilevante l’esplicita attribuzione a Lorenzo de’ Medici, mecenateed amico degli uomini di lettere, del merito per aver consentito che Angelo potessedisporre per lavorare alla lettura ed alla traduzione di quel testo impegnativo con agionel tempo libero di una sua copia tratta direttamente dall’antico codice (elemento peròche, salvo errore, non emerge in altri luoghi).88

86 ANGELI POLITIANI Miscellaneorum centuriae primae, Florentiae 1489, cap. 41, n.n. Non diverso il testo che si leggein ANGELI POLITIANI Opera, quae quidem extitere hactenus, omnia, Basileae, apud Nicolaum Episcopium Iuniorem1553, 260-261 (edizione poi riprodotta in ANGELUS POLITIANUS, Opera omnia I, a c. di I. MAÏER, Torino 1971). Lanota polizianea prosegue poi citando anche un passo di Gellio dove ricorrono i lemmi diffisionibus e diffindi (Gell.14.2.1 e 11), così come risulta da un manoscritto ritenuto affidabile appartenente alla biblioteca medicea, mentrecomunemente i codici recano definitionibus e diffundi (notiamo di passaggio che nello stesso passo gelliano Angelopropone di emendare rerum con dierum: atque in rerum quidem diffisionibus […], congettura formulata ope ingeniiaccolta anche dai moderni editori).87 Archetipo qui vuol dire verosimilmente copia ufficiale uscita dalla cancelleria imperiale e da questa diffusa, comeaffermato apertamente nell’epistola al Breisac (vd. infra), che però è posteriore di vari anni e potrebbe testimoniareuna convinzione maturatasi nel tempo: cfr. S. RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1984, 308-317 sui varisignificati del termine e spec. 313 sulle Pandette fiorentine (nella nt. 2 le varie occorrenze in Poliziano); la nozionetorna spesso: ad es. nel cap. 77: libro ipso Iustiniani principis archetypo […], nonché nel cap. 78 ed anche altrove, quasiepiteto formulare. Riassume i motivi indicati dall’Ambrogini per credere che la Florentina fosse l’archetipo S. CA-PRIOLI, Visite alla Pisana cit. (nt. 85), 40 nt. 6. Non pare perspicuo in merito ricavare la natura di archetipo dalle pa-role del cap. 41 della Centuria prima, circa le tracce di interventi correttivi nella Const. Omnem né, soprattutto, a noisembra che lo proponga Poliziano: A. GRAFTON, On the Scholarship of Politian and Its Context, in Journal of theWarburg and Courtauld Institutes 40 (1977) 150-188, spec. 167-169.88 Angelo non pare in effetti aver copiato la Florentina, per poter poi con più agio procedere alla collazione con laVulgata, anche se talora v’è confusione in proposito, come risulta dal breve di Leone X del 16 giugno 1516, stilato e

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Ricorrono poi alcune note che segnalano gravi errori passati nel testo vulgato, indi-viduabili ed emendabili senza difficoltà facendo riferimento alle Pandette fiorentine:89

così il cap. 78 segnala che un passo di Paolo inserito nel titolo de officio proconsulis etlegati (D. 1.16.12) reca usualmente una negazione che in realtà manca nell’esemplareantico e che ribalta ovviamente il significato della norma, con la conseguenza cheAccursio è costretto a contorsioni penose per interpretare sensatamente quelle parole:

Paulus iurisconsultus libro secundo ad edictum ita scribit: Legatus mandata sibi iurisdictione iudicisdandi ius habet. Sed haec verba in primo digestorum volumine quo capite de officio proconsuliset legati tractatur addita perperam negatione in plerisque codicibus invenias. Sic videlicet. Legatusmandata sibi iurisdictione iudicis dandi ius non habet. Ceterum in Pandectis istis Florentinis, quasetiam archetypas opinamur negatio prorsus est nulla. Quo fit ut interpres legum FlorentinusAccursius mendosum et ipse nactus codicem pene dixerim miserabiliter se torqueat.90

Non meno problematico l’errore tramandato in D. 2.13.1.1, nel titolo de edendo,dove un frammento di Ulpiano viene privato di senso comune trasformando ad album(cioè l’albo pretorio) in ad alium, con l’inevitabile imbarazzo di Accursio nel darneun’interpretazione accettabile (si tratta del brevissimo cap. 82 dei Miscellanea).91

Nel cap. 84,92 invece, non si tratta di emendare un errore, bensì di spiegare con chia-rezza la condizione giuridica dei libertini dediticii (quei liberti che avevano ottenuto lamanomissione dal loro padrone ma che, in base alle legge Elia Senzia, si distingueva-no per una condizione deteriore, conseguenza della lunghezza del periodo trascorso inservitù, ovvero di una passata condanna ad una pena infamante, o per essersi dichia-rati rei confessi di un delitto) che implica il parallelo con i peregrini dediticii (coloroche si erano ribellati ai Romani, venendo poi vinti) e richiede di aver dimestichezzacon i diversi status personali in vigore nella Roma antica.93 Il riferimento normativo in

firmato da Pietro Bembo, che chiede in prestito ai Fiorentini «i libri che Angelo Poliziano ha trascritto dalle anti-chissime Pandette di Giustiniano» (cfr. E. SPAGNESI [a c. di], Le pandette di Giustiniano. Storia e fortuna della ‘LitteraFlorentina’. Mostra di codici e documenti, 24 giugno - 31 agosto 1983. Catalogo, Firenze 1983, 69-70, n. 80).89 I testi qui commentati sono stati anche diligentemente riportati da BUONAMICI, Il Poliziano giureconsulto cit. (nt.77), 77-84, in traduzione italiana, nonché da D. DAL RE, I precursori italiani di una nuova scuola di diritto romanonel secolo XV, Roma 1878, direttamente nell’originale in latino.90 POLITIANI Miscellaneorum centuriae primae cit. (nt. 86), cap. 78: Additam falso negationem primo Digestorum volu-mine, quo capite de officio proconsulis agitur, et legati (p. 287 dell’Opera omnia del 1553, cit. [nt. 86]).91 Op. cit., cap. 82: Quod in Digestis titulo de edendo legatur Ad alium, legi Ad album convenire (Opera omnia cit. [nt.86], 295).92 Op. cit., cap. 84: De libertinis, qui vocentur dedititii (Opera omnia cit. [nt. 86], 297).93 Che la materia apparisse intricata e degna di elucidazione è dimostrato dal fatto che anche Alciato vi ha dedicatoun capitolo dei suoi Parerga (1.16), in effetti molto più dettagliato, ricco di riferimenti a varie fonti, giuridiche e let-terarie (cfr. ancora ROSSI, La lezione metodologica di Andrea Alciato cit. [nt. 73]).

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questo caso sono le Istituzioni di Giustiniano (I. 1.5.3) e la conoscenza della litteraFlorentina non entra in gioco, poiché l’Ambrogini non cita alcun passo del Digesto, nédal titolo de statu hominum (D. 1.5) né dal titolo qui et a quibus manumissi liberi nonfiunt et ad legem Aeliam Sentiam (D. 40.9), che sono quelli più vicini, ratione materiae,al tema toccato.

Il cap. 93 riconduce Poliziano alla polemica contro la corruttela dei codici medie-vali, che determina la presenza nei libri legales di un numero sorprendentemente altodi norme incongrue e prive di senso e crea le condizioni per affermare la totale inaffi-dabilità delle compilazioni giustinianee e la loro inadeguatezza a rappresentare la basenormativa su cui fondare l’intera costruzione dello ius commune medievale. L’esempiodi cui si serve in questo caso l’umanista concerne, in fondo, un tema minore, riduci-bile ad una questione poco più che nominalistica, che non coinvolge la disciplina diistituti di rilievo, ma la dimostrazione della incertezza del tenore dei testi normativigiustinianei risulta efficacissima, unita alla insipiente incapacità dei doctores legum diporvi rimedio e persino di cogliere l’esistenza del problema, costretti loro malgrado arattoppare con interpretazioni altrettanto insensate e ridicole i guasti di una tradizio-ne testuale del tutto fuori controllo:

Pudet me saeculi nonnunquam istius in quo sum nactus indocti nimis et arrogantis versantemanimo identidem quae monstra rerum verborumque libros etiam ipsos legum quibus regimuroccupaverint. Sicuti quod nuper dubium ridens an stomachans adnotabam in epistola Iustinianiquae posita est ante Digestorum libros […].94

In concreto, il problema concerne la Const. Omnem, nella quale si procede ad unadescrizione precettiva degli studi legali anno per anno: i nomi attribuiti dalla legge aglistudenti di leggi dei diversi anni risultano nella Vulgata in buona parte mutati rispettoal (presunto) archetipo fiorentino,95 con l’esito paradossale della Glossa accursiana chesi affanna a giustificare quei nomi, frutto soltanto di stratificati errori ed incompren-sioni dei copisti (Sed quae tamen ab Accursio pro maxime idoneis enarrentur).

Non manca, infine, una esemplificazione delle lacune ricorrenti negli esemplarimedievali dei libri legales, relative ai passi in lingua greca: nel cap. 95 Poliziano notache Ulpiano riporta in un frammento tratto dal I libro sull’officio del proconsole (D.

94 Op. cit., cap. 93: Vindicata Iustiniani principis praefatio quaepiam a vitiis, mendisque aliquot (Opera omnia cit. [nt.86], 305).95 Al posto di lytas e prolytas (per gli studenti del quarto e quinto anno) la Vulgata riporta hircos e coloritas, mentre idupondii (studenti del primo anno) diventano dispondii. Il discorso sul significato di tali nomi (superato lo sconcer-to per le aberrazioni medievali) verrà ripreso ed approfondito nel cap. 58 della seconda centuria: POLIZIANO, Mi-scellaneorum Centuria Secunda cit. (nt. 78), 109-110.

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1.16.6.3) un detto greco citato in una epistola di Severo e Caracalla, in merito all’ar-gomento politicamente oltre che giuridicamente rilevante della liceità o meno di accet-tare donativi dagli amministrati:

quantum ad xenia pertinet, audi quid sentimus: graecum proverbium est: ou[te pavnta ou[tepavntote ou[te para; pavntwn. Nam valde inhumanum est a nemine accipere, sed passim vilissimumest et per omnia avarissimum.96

L’indicazione antoniniana consiglia una condotta ispirata ad un’avveduta modera-zione e si muove in effetti su un piano di opportunità politica ancor prima che su quel-lo della pretesa del rigido rispetto di norme penali; si tratta comunque di una indica-zione per un comportamento eticamente corretto che ha una sua oggettiva rilevanza,interamente perduta per i Medievali, privati dalla ignoranza del greco della possibilitàdi conoscere il cuore della prescrizione imperiale, ritenuta da Ulpiano degna di essereriprodotta alla lettera. Della medesima opinione è Poliziano, che vi vede un ammae-stramento ed un ammonimento preziosi per chi è destinato a governare, meritevole diessere riproposto ai giureconsulti dei suoi tempi (e tradotto in latino per quanti anco-ra non siano versati nella lingua greca): Verba sunt haec epistolae, quae quoniam elegan-tissima et plena bonae frugis, ediscenda iis censeo qui rempublicam gesturi […]. Porro grae-ca verba possis ad hunc interpretari modum: nec omnia, nec passim, nec ab omnibus.97

Anche nella Centuria secunda ricorrono gli approfondimenti lessicali e gli accerta-menti testuali sulla base della verifica autoptica del prezioso manoscritto conservatonel Palazzo della Signoria: Angelo si pone ad es. nel cap. 56, Antecessores, il problemadella esattezza del termine antecessores che compare nelle costituzioni di Giustinianocon cui l’imperatore ordina a Triboniano di avviare il Digesto e poi promulga l’operacompiuta;98 la verifica testuale gli conferma l’impiego del lemma, tratto evidente-mente dal lessico militare, con il quale si designa chi precede le truppe indicando lamigliore via da seguire e per esso l’umanista trova un riscontro puntuale nel De remilitari di Maurizio.99

96 Op. cit., cap. 95: Graecum elegans adagium super xeniis Digestorum exemplaribus restitutum (p. 306 dell’Operaomnia cit. [nt. 86]). I manoscritti recanti la Vulgata, così come le edizioni a stampa, superano il problema semplice-mente saltando le frasi in greco, tamquam non essent.97 Loc. cit.98 Poliziano cita la Const. Deo auctore, la Tanta, la Omnem, la Imperatoriam, distinguendone con precisione destina-tari e funzione: op. cit., 106-107, cap. 56.99 Cioè lo Strategicon, l’opera stesa o commissionata da Maurizio, che Poliziano dovrebbe aver visto nella bibliotecadel Medici (si tratterebbe del ms. Vat. gr. 1164, codice appunto contenente opere di argomento militare: E.B. FRYDE,Greek Manuscripts in the Private Library of the Medici, 1469-1510, Aberystwyth 1996, 63-64, 71-72).

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Significativa anche la notazione contenuta nel cap. 8, Orcini, indicativa di un meto-do di lavoro che ormai ha pienamente assunto le compilazioni di Giustiniano tra lefonti utili per ovviare a tradizioni testuali mendose ed inattendibili, anche in merito adautori non di ambito giuridico. In questo caso, partendo da un passo di Svetonio sullavita di Augusto (Suet. Aug. 35) recante il termine abortivos, insensato in quel contesto,Angelo rileva come egli abbia trovato in antichi esemplari (tra cui uno conservato aRoma nella Biblioteca Vaticana, incompleto, che non va oltre la vita di Tiberio),100 illemma orcivos; il secondo passaggio consiste nel proporre che, a suo avviso, anche talelezione è sbagliata e deve correggersi in orcinos; a questo punto possono essere richia-mate le numerose occorrenze della parola nei libri legales, per precisarne il significato.Sia nelle Istituzioni e sia soprattutto nelle Pandette ed anche nel Codice101 si trova unaserie di passi, per la maggior parte ulpianei, nei quali sono designati con la parola orci-ni i liberti che ottengono la libertà direttamente in virtù di una disposizione testa-mentaria. A questo punto l’ultimo e decisivo passaggio consiste nel controllo sullaFlorentina, che anche in questo caso è fruttuoso, perché conferma all’umanista che laforma corretta è quella da lui indicata, non ricorrendo mai la variante orcivi.102

Anche in casi meno significativi del precedente per la ricostruzione o la interpreta-zione di un testo, osserviamo la tendenza polizianea a prendere in considerazione accan-to alle altre fonti anche le occorrenze tratte dal Digesto. In tal senso ricordiamo che nellungo cap. 20, dedicato a mettere a fuoco il significato di paedagogia, non manca l’ap-propriata citazione di un passo di Ulpiano (D. 33.7.12.32) nel quale si afferma che illegato di un fundus instructus comprende anche il gruppo dei fanciulli usualmente addet-ti come coppieri al servizio del proprietario per somministrargli bevande e cibo presso iltriclinio, dato che in forza di tale consuetudine essi devono considerarsi annessi in formastabile e giuridicamente rilevante al fondo stesso, come chiosa correttamente Angelo:

Significat autem, si testator habere in fundo ministros aliquos ad cyathum consuevisset ut quotiensin fundum eum venisset illi ei ministrarent in triclinio, eos pueros contineri fundo instructo legato,quoniam scilicet qui ibi esse consuevissent iam dudum adscripti ipsi fundo viderentur.103

Allo stesso modo nella nota consegnata al cap. 28, Satyrae, dedicata a precisare idiversi tipi di satira in uso presso gli Antichi: da un lato, presso i Greci, v’era la fabu-

100 Si tratta del Vat. lat. 1904; già nel 1490-91 Poliziano aveva esaminato quel codice vaticano per preparare il corsosu Svetonio. In argomento si veda anche la lettera a Pandolfo Collenuccio, databile alla primavera-estate del 1494(ep. 7.35). Cfr. BRANCA, Introduzione cit. (nt. 78), 20-21.101 I. 2.24.2; D. 26.4.3.3; 33.4.1.10; 40.5.4.12; 40.5.30.12; 40.5.49; 40.7.2; 40.8.5; C. 7.2.10; 7.6.1.7.102 POLIZIANO, Miscellaneorum Centuria Secunda cit. (nt. 78), 17, cap. 8.4-7.103 Op. cit., 32, cap. 20.24.

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la satyrica, genere letterario intermedio tra commedia e tragedia e, dall’altro, presso iRomani, le satyrae Menippeae, componimenti giocosi adatti a mischiare gioco ed eru-dizione, filosofia e vita reale; un terzo tipo infine è quello inventato da Lucilio ed illu-strato da Flacco, Giovenale e Persio. In tale quadro, di per sé privo di qualsiasi riferi-mento o implicazione giuridica, si inserisce il puntuale richiamo alla Const. Omnem,dove Giustiniano per descrivere l’assoluta mancanza di ordine e metodo fin lì adotta-ta nella formazione giuridica dei giovani, ottenuta mischiando norme di vario conte-nuto e natura, comprese in misura preponderante quelle ormai obsolete ed inutili, fariferimento proprio al secondo tipo di satira qui elencato.104

9. Tutto ciò testimonia dunque, come è stato autorevolmente sottolineato,105 l’interes-se ormai non più sporadico e neanche puramente lessicale nutrito da Poliziano per ildiritto e per il Digesto in particolare negli ultimi anni della sua vita, tra la secondametà degli anni Ottanta e la morte.

Testimonianza di tale evoluzione si trova anche nella ben nota lettera del 1491106

all’amico ed allievo pratese Iacopo Modesti107 (ep. 5.9),108 che prefigura il più tardo cap.Iurisconsulti già qui analizzato, offrendo in sostanza le stesse informazioni ma sottoun’angolazione diversa.109 Accogliendo una richiesta di costui, Poliziano elenca nellalunga missiva i giuristi di cui è possibile leggere dei passi nel Digesto e le rispettiveopere. Diversamente dal testo inserito nella II Centuria, che pure ha palesemente lastessa fonte, derivando dalla lettura della Florentina e dagli appunti presi in tale occa-sione, in questo caso l’umanista sceglie come criterio espositivo quello cronologico,partendo dal giureconsulto più antico (quindi da Quinto Mucio Scevola) fino al più

104 Op. cit., 44, cap. 28.10: Atque hoc genus satyram, seu saturam, vel a lege vel a lance deducunt; ex quo Iustinianusprinceps in praefatione Digestorum: «Non secundum edicti perpetui ordinationem – inquit – sed passim et quasi per satu-ram collectum, et utile cum inutilibus mixtum, maxima autem parte inutilibus deputata». Sulla genesi di questo capito-lo, risalente ad una querelle col Merula, cfr. BRANCA, Introduzione cit. (nt. 78), 18-19.105 Ci riferiamo alle acute e condivisibili notazioni di V. BRANCA, I nuovi studi sulle ‘Pandette’, in AA.VV., La criticadel testo. Atti del II Congresso internazionale della Società italiana di storia del Diritto I, Firenze 1971, 89-101; nonchéID., Introduzione cit. (nt. 78), 14-18, entrambi ora in ID., Poliziano e l’umanesimo della parola, Torino 1983, risp.182-192 (col titolo Gli ultimi studi sulle Pandette), 193-296 (tuttavia rimaneggiato).106 Per la datazione (mancante sia nei manoscritti che nell’edizione a stampa), cfr. BRANCA, Gli ultimi studi sullePandette cit. (nt. 105), 190-191 nt. 9.107 Sul Modesti, la sua carriera e i suoi rapporti con Angelo cfr. op. cit., 183, 190 nt. 7; nonché V. ARRIGHI, Modesti,Iacopo, ‘voce’ del Dizionario biografico degli italiani LXXV, Roma 2011, 206-209.108 ANGELI POLITIANI Epistolarum libri duodecim, in EIUSD. Opera, quae quidem extitere hactenus, omnia, Basileae,apud Nicolaum Episcopium Iuniorem 1553, 69-72, ep. 5.9.109 Il confronto tra i due elenchi è condotto con cura in BRANCA, Gli ultimi studi sulle Pandette cit. (nt. 105), 183-186, che rileva il differente approccio dell’umanista ai dati elencati.

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recente (cioè Ermogeniano), insieme fornendo all’amico le notizie essenziali in meritoalle vicende biografiche di ciascun autore (omesse, come visto, nel capitolo citato deiMiscellanea). Di particolare rilievo la chiusa della lettera, sia per alcune ulteriori osser-vazioni sulle Pandette e sia per il programma di lavoro intorno alla compilazione giu-stinianea che viene adombrato.

Sul primo versante, infatti, l’Ambrogini pone l’accento, al termine del suo accuratoelenco, su due elementi: intanto sul fatto che nei codici recanti la Vulgata si contanotra i giureconsulti romani utilizzati da Triboniano anche alcuni che sono soltanto cita-ti, riprova dell’approssimazione e della sciatteria con cui quel testo così importante èstato trattato dai Medievali;110 si sofferma inoltre sul problema delle norme verosimil-mente dettate in origine in greco (si fa riferimento al titolo de excusationibus [D. 27.1],nel quale figurano una serie di passi dovuti al giurista Erennio Modestino che in effet-ti rientrano – com’è noto – nei c.d. Graeca Modestiniana) e poi tradotte malamente inlatino ed inserite nella compilazione (accenno ad un problema, quello della linguagreca e delle varie tecniche usate dai giuristi medievali per superare la difficoltà deri-vante dalla sua non conoscenza, a cominciare dalla pura e semplice omissione dei passiin greco, che diverrà presto centrale nel lavoro di recupero filologico delle Pandette adopera dei giuristi umanisti).111

Sul secondo versante, Poliziano si ripromette apertis verbis di continuare a lavoraresulle Pandette, sviluppando i temi appena segnalati, pur se rinvia al contempo taleimpegno ad un momento successivo, dichiarandosi momentaneamente tutto deditoalla filosofia: Sed et haec (ut opinor) et alia pleraque nostras aliquando vigilias desiderant,quas utique nos (modo vita suppetat, ac paululum quid otii contingat) nimium quamlibenter tribuemus, sed prius tamen philosophiae satisfaciendum, cui nunc totos (ut scis)penitusque nos tradidimus.112

Affermazioni che, sommate ad altre sparse nei suoi scritti dell’ultimo periodo,hanno fatto concludere giustamente per un riallineamento dei suoi interessi, menoorientati alla poesia ed alla erudizione, «nella direzione di distacco dalla letteratura‘pura’ per una cultura più articolata e arricchita di interessi diversi»,113 scorgendo ormai

110 POLITIANI Epistolarum libri duodecim cit. (nt. 108), 72, ep. 5.9: Nam caeteri non intexuntur, sed tantum citantur:quidam tamen in codicibus depravatis, quamvis omnino immunes, munificibus tamen adnumerantur.111 Loc. cit.: Tituli praeterea nonnulli, sicuti de excusationibus, pene integri graece sunt editi, quos indoctus aliquis (utapparet) in latinum transtulit. D’obbligo sul tema il rinvio a H.E. TROJE, Graeca leguntur. Die Aneignung des byzan-tinischen Rechts und die Entstehung eines humanistischen Corpus iuris civilis in der Jurisprudenz des 16. Jahrhunderts,Köln-Wien 1971, spec. 5-49, con riguardo al Digesto.112 POLITIANI Epistolarum libri duodecim cit. (nt. 108), 72, ep. 5.9, in fine.113 BRANCA, Gli ultimi studi sulle Pandette cit. (nt. 105), 182.

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anche nei testi giuridici classici un degno oggetto di studio, anche se mai giungendoad affrontare quesiti strettamente tecnici, con concreti risvolti applicativi.114 Tale evo-luzione appare tanto più rilevante, in quanto non consegnata soltanto a dichiarazioniprogrammatiche più o meno attendibili, ma realizzatasi poi, nonostante la morte pre-matura che ne ha troncato la prevedibile prosecuzione, in effettivi approfondimenti suparole (e le sottostanti res, cioè le questioni sostanziali espresse tramite i verba, con unanetta differenza in ciò rispetto all’atteggiamento del Valla) giuridicamente connotate(come risulta da vari capitoli dei Miscellanea), condotti di pari passo all’opera di colla-zione con la Florentina dei testi giuridici correnti.

Che i propositi del Nostro fossero seri si può ricavare anche dal finale riferimentoalla necessità di un aiuto per l’interpretazione dei passi più tecnici da richiedersi ad undoctor legum di chiara fama, quale il famoso giurista senese Bartolomeo Sozzini,115 reto-ricamente gratificato del titolo di altro Papiniano nel secolo XV: Erit opus omninoBarptolomaei Sozini Senensis doctoris excellentis, imo vere plane singularis, opera nobis etconsilio. Quem equidem et Papinianum alterum videor audacter posse appellare seculonostro.116 Sulla scelta del senese come consulente giuridico è facile pensare che abbiapesato la conoscenza diretta tra i due, dato che Sozzini era in quegli anni docente rino-mato nel risorto Studium di Pisa; del resto anche dal punto di vista istituzionale, comeprofessore dell’Università del dominio fiorentino, Bartolomeo doveva apparire il natu-rale referente giuridico per un lavoro del genere, ovviamente da compiere sotto l’egidae con l’avallo del Magnifico; Poliziano inoltre aveva avuto modo di acquisire in primapersona elementi di giudizio sulla caratura scientifica del legista, poiché si ha notiziaattendibile del fatto che Lorenzo de’ Medici, accompagnato dall’amico Angelo, assistèin un’occasione, nel gennaio del 1489, ad una disputa accademica tenutasi a Pisa cheebbe come protagonisti le due glorie del momento della Sapienza pisana: Giason delMaino e, appunto, il Sozzini.117 Naturale, infine, che l’indicazione compaia nella lette-

114 La corretta notazione, che integra e precisa quelle suindicate del Branca, si deve a E. BIGI, La cultura del Poliziano,in Belfagor 9 (1954) 633-653, poi in ID., La cultura del Poliziano e altri studi umanistici, Pisa 1967, 87-88.115 Su costui si veda R. BARGAGLI, Bartolomeo Sozzini giurista e politico (1436-1506), Milano 2000, spec. 229-232sui rapporti del Sozzini con Poliziano; condivisibili appaiono le equilibrate conclusioni dell’autrice, in merito alla cul-tura letteraria del legista senese e soprattutto ai caratteri della sua produzione giuridica, piuttosto tradizionali e certonon tali da permettere di arruolarlo tra i precursori dei giuristi culti.116 POLITIANI Epistolarum libri duodecim cit. (nt. 108), 72, in fine, ep. 5.9.117 La discussione sui punti controversi delle leggi che erano state pubblicamente commentate proseguì poi privata-mente addirittura a casa di Lorenzo, presente Angelo, dove il Sozzini si recò trattenendosi fino a tarda sera: cfr. A.F.VERDE O.P., Lo Studio fiorentino: 1473-1503. Ricerche e documenti, IV/2. La vita universitaria. Anni scolastici 1482/83 -1490/91, Firenze 1985, 791-792; nonché BARGAGLI, Bartolomeo Sozzini cit. (nt. 115), 155-156, dove l’episodio èinserito nel contesto della vita del risorto Studium pisano.

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ra al Modesti, visto che costui proprio in quel momento stava compiendo i suoi studidi diritto a Pisa ed era in grado di apprezzare appieno tale riferimento ad una dellevedettes della sua Università.

Tutto ciò lascia impregiudicata la questione sulle effettive conoscenze giuridichedell’Ambrogini; pur se figlio di un doctor legis, Angelo, rimasto orfano in tenera età perl’uccisione del padre in un cruento episodio di una faida familiare, ebbe una forma-zione tutta di matrice letteraria e filosofica,118 così come le sue prime prove di scritto-re e poeta dimostrano. Il Buonamici ha però documentato l’ottenimento del dottora-to in diritto canonico, avvenuto il 23 dicembre 1485 ed ha pubblicato per la primavolta il relativo diploma dottorale,119 conservato nell’Archivio di Stato di Firenze. Èchiaro però che il formale conseguimento del titolo, ricercato pensando forse alla suaspendibilità in vista di un possibile trasferimento a Roma e di un impiego presso lacuria pontificia, non cambia le cose e non trasforma di per sé il Poliziano in un giuri-sta nel pieno senso della parola, in assenza di una qualsiasi conseguente attività pro-fessionale. Del resto, quel titolo ottenuto in età già matura, prescindendo da una rego-lare frequenza dei corsi, non riguarda comunque il diritto civile e non comprendequindi una conoscenza tecnica approfondita delle Pandette; per altro verso è indubbioche chiunque avesse voluto addentrarsi nello studio anche superficiale del diritto dellaChiesa doveva in qualche modo prendere in considerazione anche il diritto romanogiustinianeo, che forniva le categorie scientifiche ed i concetti di base anche per lascienza dei canonisti: in tal modo Angelo non avrebbe potuto fare a meno di coglierel’enorme importanza attribuita entro il sistema di ius commune al Digesto e questo fat-tore potrebbe rappresentare una concausa dell’interesse manifestato negli anni succes-sivi per il venerando manoscritto che si riteneva contenere il testo originale di quellafonte così decisiva per la vita del diritto.

In ogni caso, occorre rilevare120 che l’accertamento degli errori di cui sono farcitigli esemplari correnti del Digesto e la rigorosa denuncia della inaffidabilità della Vul-gata Bononiensis non sfociano in Poliziano nella condanna dei legisti medievali, che asuo avviso non possono essere ritenuti responsabili per lo scarso livello culturale deitempi nei quali hanno avuto in sorte di vivere; di fronte all’atteggiamento di osten-

118 In argomento si veda I. DEL LUNGO, Florentia. Uomini e cose del Quattrocento, Montepulciano (SI) 2002 (ripr.facs. dell’ed. Firenze 1897), 13-28 per l’uccisione del padre, nel maggio del 1464; 93-132 sulla sua esperienza di sco-laro nello Studio fiorentino.119 Cfr. BUONAMICI, Il Poliziano giureconsulto cit. (nt. 77), 26-28, in nota; cfr. anche I. MAÏER, Ange Politien. La for-mation d’un poète humaniste (1469-1480), Genève 1966, 427.120 Cfr. in tal senso già MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico cit. (nt. 3), 45; ASCHERI, Poliziano filologo del dirit-to cit. (nt. 77), 324.

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tata superiorità assunto da Lorenzo Valla, che scaglia ogni tipo di vituperio controAccursio, Bartolo e l’intera genia dei giuristi che hanno osato profanare ed insudicia-re la lingua forgiata dalla giurisprudenza romana, spicca la moderazione dei toniimpiegati da Angelo, che vuole individuare ed eliminare gli innumerevoli guasti chesconciano la compilazione di Giustiniano ma che non cerca teste di turco da abbat-tere con fragore o imputati da mandare alla gogna. Ciò risulta chiaramente dalla let-tera indirizzata al Breisac nel febbraio del 1494 (1493 secondo il calendario fiorenti-no) (ep. 10.4), dove Accursio è gratificato dell’appellativo elogiativo di maximus iurisinterpres e i giuristi in genere sono indicati quali viri doctissimi, del tutto disposti – asuo dire – ad acclarare i punti oscuri della Vulgata ricorrendo al manoscritto vene-rando: quoties de synceritate lectionis ambigitur, literam Pisanam (sic enim ipsi vocant)quasi fidelissimum quoddam testimonium citant, mendumque esse omnino putant, quic-quid usquam aliter, quam in quo diximus volumine, reperiatur ;121 la loro colpa, in defi-nitiva, si riduce al fatto di essere vissuti in un periodo di barbarie e d’ignoranza, anchese questo ha prodotto l’effetto quanto mai deleterio dell’uso di una lingua latina goti-ca e della scomparsa di quella greca, per cui errori e sviste costellano i codici piùrecenti, che contengono la Vulgata, mentre le parole greche sono state eliminate o tra-dotte malissimo:

Deprehendi igitur multa novis in codicibus vitia, multa in interpretibus, quoniam videlicetinerudito nati seculo, cum latinitatis ipsius imperiti fuerunt, tum Graecam linguam penitusignoraverunt: multae vero sunt ibi leges Graecis editae verbis, quas aut omiserunt iuniores, aut inlatinum sermonem pessime converterunt.122

L’epistola in questione è nota però soprattutto perché descrive con cura il modo incui si presenta il testo nel codice della Florentina (riprendendo quanto già accennatonel cap. 41 della Centuria prima) ritenuto nient’altro che la copia autentica inviataufficialmente dall’imperatore alla città di Pisa123 e soprattutto le cerimonie solenni disapore quasi religioso con le quali a Firenze si usava ostendere il manoscritto:

121 POLITIANI Epistolarum libri duodecim cit. (nt. 108), 140-141, ep. 10.4.122 Op. cit., 141.123 Op. cit., 140: Principio igitur scire te illud opinor, imperatorem Iustinianum posteaquam ius civile perpurgavit, inordinemque redegit, cavisse illud in primis, ut in omnibus civitatibus, quae dignitate aliqua praecellerent, exemplarialegum quam emendatissima publice asservarentur […]. Cfr. quanto detto supra, nt. 87. È chiaro che questa ricostru-zione spazza il campo da ogni più o meno fantasiosa narrazione circa la provenienza del manoscritto da Amalfi, secon-do un’idea che purtuttavia trova qualche accoglienza nel pieno Cinquecento, avvalorata anche dal Torelli in apertu-ra della sua edizione e da storici quali Carlo Sigonio. I Glossatori Bolognesi non conoscevano questa versione eOdofredo parla esplicitamente di un invio diretto da Costantinopoli a Pisa.

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Ibi vero in ipsa curia loco celeberrimo monachorum quorundam, summique magistratus diligentiaet religione servaur. Tum quoties profertur (quod ipsum non sine gravi causa fieri solet) accensisfunalibus (ita enim mos traditus) monachi illi, quos dixi, summusque magistratus capite apertovenerabundi circunsistunt.124

Altrettanto importante la notizia precisa fornita circa la concessione ottenuta daLorenzo il Magnifico della possibilità di lavorare sulla preziosa reliquia, così da poterindividuare molti errori nei codici più recenti125 (rispetto a quello, ritenuto senza dub-bio coevo di Giustiniano, anzitutto per il suo aspetto palesemente molto antico) edanche nelle opere degli interpreti medievali (per i motivi suesposti):

Hoc ergo mihi inspicere per ocium licuit, rimarique omnia, et olfacere, quaeque vellem excerperediligenter, et cum vulgatis exemplaribus comparare. Tribuit enim hoc mihi uni Laurentius illeMedices, vir optimus, ac sapientissimus, fore illud aliquando arbitratus, ut opera, labore, indus-triaque nostra magna inde omnino utilitas eliceretur.126

Il riscontro degli errori incorporati nel testo vulgato è sfociato, dice Poliziano, nellastesura di veri commentarii nei quali fornire la lezione corretta al posto di quella cor-rotta ed accolta da tanto tempo, in modo da rendere esplicita ed esprimere al megliola forza e le potenzialità della lingua latina, che si trova tutta o quasi nelle leggi:Quapropter operae precium me facturum credidi, si commentarios aliquos evigilarem, qui-bus in integrum corrupta diu lectio restitueretur, et linguae latinae vis, quae tota pene inlegibus est, explicaretur.127

Non meno significativa la lettera di risposta a Ludovico Bolognini,128 per consentir-gli di sciogliere un dubbio relativo al § Cato (D. 45.1.4.1), in vulgatis exemplaribusincuria temporum depravatum; l’occasione è propizia per auspicare che finalmente igiuristi prendano atto della inadeguatezza dei testi su cui fondano la propria interpre-tatio e si dotino di strumenti affidabili, passando inevitabilmente per la debita valoriz-zazione della Florentina, che certamente nei propositi di Poliziano deve uscire dal

124 Op. cit., 141.125 Si tende a ritenere che Poliziano per le sue collazioni facesse uso indifferentemente di manoscritti e di edizioni astampa, considerando poi che gli incunaboli per definizione erano più diffusi e vulgati e quindi adattissimi alla biso-gna: cfr. RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti cit. (nt. 87), 73 (ove in nota cita anche l’opinione concorde diSebastiano Timpanaro); ricordiamo che anche per le Pandette furono assunti a pietra di paragone con la litteraFlorentina i volumi a stampa dell’edizione veneziana del 1486.126 POLITIANI Epistolarum libri duodecim cit. (nt. 108), 141, ep. 10.4.127 Loc. cit.128 Op. cit., 163, ep. 11.25: En igitur ea tibi ex ipso archetypo eius ipsius Laurentii Medicis iussu excerpta a nobissumma fide.

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tabernacolo in cui è stata improvvidamente relegata e tornare alla sua funzione origi-naria di esemplare ‘certificato’ della compilazione giustinianea, creato per rendereappunto certo e conosciuto il testo legale:

Vellem, Ludovice vir clarissime, caeteris quoque iureconsultis, quae tibi est corrigendis res-tituendisque legibus in veram atque eam ipsam lectionem, qua ab imperatore Iustiniano pu-blicatae sunt, et olim fuisset, et nunc esset diligentia. Non enim nos puderet multorum quae tum ri-dicule, tum perperam leguntur in legibus, sed emaculata omnia et vera haberentur.129

L’attenzione alla Florentina sicuramente non era diminuita negli anni successivi al-la collazione dell’estate 1490, come attestano anche le due lettere a Pandolfo Collenuc-cio (epp. 7.32 e 35);130 nella prima di esse, tra dotti riferimenti letterari ed accenni elo-giativi alla missione diplomatica di Pandolfo in Germania presso Massimilianod’Asburgo, trova posto anche lo scioglimento puntuale dei dubbi palesati dal corri-spondente intorno al reale tenore di due passi del Digesto, resi infidi nella Vulgata dalricorrere di termini o locuzioni greche, come al solito rese in modo inadeguato daicopisti medievali: si tratta in primis di un frammento di Paolo conservato nel titolo deverborum significatione (D. 50.16.205), dove ricorre il termine greco trwvximon richia-mato dal giureconsulto per designare l’uva da tavola non destinata alla vinificazione,131

nonché di un frammento di Scevola nel titolo de legatis III, dove ancora una volta siimpiega il greco, stavolta per esprimere le ultime volontà di Tizia a favore diCallimaco (D. 32.37.6). In entrambi i casi il riscontro sull’antichissimo manoscrittopermette ad Angelo di dare risposte ben fondate alle questioni postegli ma esse, para-dossalmente, paiono non convincere eruditi quidam i quali avanzano dubbi negandoattendibilità alle sue proposte di emendazione del testo: questo il tema della secondalettera, nella quale Poliziano ribatte punto su punto alle obiezioni riportategli dal-

129 Op. cit., 162. La vicenda (occorsa ad inizio 1490: la lettera di Ludovico è datata 5 gennaio e la risposta imme-diata di Angelo è del 6), della richiesta urgente avanzata dal professore bolognese al Magnifico per avere il confortodella lezione tramandata dalla littera Florentina sul passo palesemente corrotto del § Cato, nella l. Eadem dicemus deltitolo De verborum obligationibus del Digestum novum (D. 45.1.4.1) è nota e restituisce bene l’atmosfera di giustifi-cata attenzione ed attesa creatasi intorno al lavoro di collazione dell’Ambrogini sul manoscritto antico, almeno pres-so gli intellettuali più sensibili ed aperti alle novità metodiche dell’umanesimo e alle possibili ricadute pratiche nelmondo del diritto. L’episodio è ricostruito con cura da S. CAPRIOLI, Indagini sul Bolognini. Giurisprudenza e filologianel Quattrocento italiano, Milano 1969, 203-218.130 POLITIANI Epistolarum libri duodecim cit. (nt. 108), 98-99, 102-103, epp. 7.32 e 35. Le lettere sono risalenti alpieno 1494, in quanto già nella prima si fa riferimento alla missione in Germania del Collenuccio ed alla sua ora-zione tenuta di fronte a Massimiliano.131 Op. cit., 99: Quod vero scribis in exemplaribus Digestorum iuris vestri civilis, desiderari verbum, quo Graece nomi-netur edulis uva, quam tu vocari cibariam dicis a Plinio, simulque petis, ut scribam quo pacto denique res ea graece dica-tur, ut restitui suo loco possit. Scito non aliud esse omnino, quam trwvximon. Quae vox incolumis adhuc in archetypis Iustiniani.

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l’amico Pandolfo,132 confermando quanto già detto e trincerandosi dietro il riscontroautoptico compiuto sulla Florentina, suo specialissimo privilegio: nolo mihi, sed arche-typis credant ed enunciando più in generale il criterio per cui il ricorso a vetustissimaexemplaria recanti le opere dei vari autori (reperiti nelle biblioteca vaticana o in quelladei Medici) pone ragionevolmente al riparo da errori e deve essere accettato come cri-terio affidabile di genuinità delle lezioni ivi riscontrate. Le missive al Collenuccio quiconsiderate inducono infine a due considerazioni, solo in apparente contrasto; laprima concerne il tipo di utilizzo fatto dal Poliziano delle informazioni tratte dal testodelle Pandette: di volta in volta il lavoro di ricognizione dei termini corretti ovvero ilrecupero di parole o locuzioni in greco si arresta in sostanza al momento, fondamen-tale ma di per sé insufficiente della restituzione del testo (presuntivamente) originale,evitando l’Ambrogini di procedere oltre nella direzione della interpretazione del con-tenuto – anzitutto giuridico, com’è ovvio – dei passi restaurati, al massimo cimentan-dosi in una più completa messa a fuoco della valenza semantica dei lemmi col richia-mo di altre fonti antiche, non giuridiche.133 La seconda riguarda il background cultura-le dei personaggi con i quali queste informazioni vengono scambiate: non sembracasuale che, come nel caso del Modesti, anche Collenuccio sia un giurista per forma-zione e professione,134 che tuttavia si cimenta con convinzione e successo nello studiodelle humanae litterae, integrando e quasi sublimando le conoscenze tecniche entro unsapere più completo e più alto. Alla fine del secolo, insomma, non soltanto i miglioriumanisti hanno ormai incluso il Digesto nel proprio bagaglio di auctoritates (almeno)linguistiche ma, per altro verso, non sono pochi i doctores legum che accettano diaggiungere al proprio sapere iperspecialistico il recupero di un patrimonio culturaleretorico-letterario-filosofico che comincia ad essere considerato non più come alterna-tivo alla scientia iuris, bensì come l’orizzonte di significato entro cui quella può più cor-rettamente esplicarsi, per mezzo di un ritorno all’antico e previo il ripudio dei model-li scolastici medievali.

132 Le contestazioni sono le più varie e non riguardano soltanto i passi giuridici in questione, ma anche l’impiego dialcuni termini, quali cottidie per quotidie e culcita per culcitra; la risposta arriva, rigorosamente ancorata all’allegazio-ne di fonti classiche, tra le quali anche, immancabile, il Digesto (D. 33.10.3).133 Tale atteggiamento risalta ad es. nel caso succitato del passo del titolo de legatis III : l’ipotesi affrontata da Scevolaappare complessa e la soluzione sottile ma non scontata, poiché sancisce che il legato non può essere adempiutodall’erede perché le somme attribuite pro mercede a chi non può ricevere per testamento integrano un caso di lasci-to in fraudem legis. Angelo non mostra tuttavia alcun interesse per la fattispecie e non spende una parola per com-mentarla.134 Su costui e la sua complessa fisionomia di giurista-funzionario, diplomatico, letterato si veda E. MELFI, Collenuccio,Pandolfo, ‘voce’ del Dizionario biografico degli italiani XXVII, Roma 1982, 1-5.

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10. Programmi, dichiarazioni d’intenti, aperture disciplinari ed ancor prima emen-dazioni e restauri testuali scaturiscono ovviamente tutti da un prius, costituito dallapossibilità per il Poliziano, amico ed intellettuale di fiducia del Magnifico, di com-piere verifiche sul testo della littera Florentina con minori ostacoli dell’usuale,135 finoal permesso di lavorare nell’estate del 1490 alla collazione dell’intero manoscritto enon più procedendo per carotaggi più o meno estemporanei. Come abbiamo visto,l’Ambrogini richiama spesso tale esperienza, ben consapevole dell’unicità della suaposizione e dell’autorevolezza che gliene deriva, trovandosi nella condizione privilegia-ta di vantare pressoché il monopolio nell’accesso ad una delle fonti antiche più prezioseper la sua vetustas (ed anche a causa della convinzione di avere a che fare con un codi-ce coevo di Giustiniano ed ‘autentico’ in quanto prodotto ufficiale della cancelleriaimperiale) e più rilevanti sotto il profilo del contenuto, pilastro su cui si regge tutta lacostruzione dello ius commune bassomedievale. Come scrive in fine del Vetus usato perla collazione con la Pisana: […] mihi eius libri facta est legendi potestas, opera LaurentiMedicis Magni Viri: cum scilicet alioquin velut in sacrario servetur a magistrato summoFlorentino: nec nisi ad funalia perquam raro ostendatur.136

La tecnica adottata consiste nel riportare sui volumi di un’edizione a stampa delDigesto (ovviamente ripartito tra Vetus, Novum ed Infortiatum, come d’uso)137 tutte ledifferenze che il manoscritto strappato ai Pisani presenta rispetto alla Vulgata.138 Di talivolumi, complementi della Florentina ritenuti preziosi quasi al pari di essa, pur uffi-cialmente conservati con cura e concessi in visione solo eccezionalmente (abbiamo giàricordato la richiesta avanzata nel 1516 da papa Medici, Leone X), si persero ad uncerto punto le tracce, salvo poter salutare la loro ricomparsa più di due secoli dopo, nel1734, nella eredità Antella; fortunosamente riconosciuti per quello che erano, furono

135 La concessione del permesso di procedere all’esame diretto ovvero alla copia del testo non era affatto scontata,come verificò di persona Francesco Barbaro, che non ebbe risposta alla sua richiesta (rivolta a Niccolò Niccoli, conlettera del 13 settembre 1415) di ottenere la trascrizione dei passi greci delle Pandette: cfr. SPAGNESI (a c. di), Le pan-dette di Giustiniano cit. (nt. 88), 65-66, nn. 69-70.136 Poco sopra, nella prima riga dello stesso ultimo foglio dell’incunabolo, si legge: Contuleram cum pisana littera egoAngelus Politianus die XVIIII Iulij MCCCCLXXXX. hora ½ noctis. Si tratta della carta 317b dell’incunabolo ora inPlut. 91 inf. 15. La carta stessa recante l’autografo polizianeo è riprodotta nella tav. IV (con la relativa trascrizionesul retro) di F. CALASSO, Medio evo del diritto, I. Le fonti, Milano 1954.137 Gli incunaboli in questione: Digestum vetus, Venetiis, Andreas de Bonetis Papiensis 1486; Infortiatum, Venetiis,Johannes et Gregorius de Gregoriis 1485; Digestum novum, Venetiis, Bernardinus Rizus et Antonius de Stanchis 1485.138 Una descrizione accurata del contenuto di tali volumi è fornita dal Bandini: A.M. BANDINI, Ragionamento isto-rico sopra le collazioni delle fiorentine Pandette fatte da Angelo Poliziano, Livorno 1762, 22-34, 38-42; secondo il cano-nico, in concreto Angelo avrebbe verificato l’archetipo mentre Iacopo Modesti e Matteo Berti, suoi allievi ed aiutan-ti, avrebbero vergato le varianti sull’edizione incunabola (op. cit., 56).

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recuperati dalla Signoria per l’interessamento del canonico Angelo Maria Bandini; illoro definitivo deposito presso la Biblioteca Laurenziana avvenne poi nel 1760,139 doverimasero anche successivamente, in deroga alla destinazione di tutti i volumi a stampapresso la Magliabechiana decisa nel 1783.

Vicende diverse hanno invece riguardato i manoscritti di lavoro sui quali Polizianoaveva parallelamente segnato le osservazioni riportate sugli incunaboli sopra menzio-nati: passati alla sua morte nella disponibilità del Crinito e poi in quella di Pier Vettori,sono infine giunti a Monaco di Baviera, presso l’attuale Bayerische Staatsbibliothek.140

In particolare il ms. 755 (quello nel quale con ogni verosimiglianza è confluito il qua-ternione consultato dal Budé, alle carte 114a-125a, su cui infra) contiene «tutte o quasile emendazioni del Poliziano desunte dall’archetipo pisano, così come si trovano nel-l’edizione di Venezia, 1486, che si conserva nella Biblioteca Laurenziana».141

Non è questa la sede per riprendere il discorso sulla perizia filologica del Polizianoe specificamente sul suo metodo di collazione, che sono stati già oggetto di analisisapienti e ripetute;142 basti dire qui che, anche se la sua tecnica non è stata ritenutasempre impeccabile e le sue annotazioni del tutto prive di mende,143 l’uso che pareattestato di riportare non soltanto la lezione ritenuta migliore e da adottare, ma tuttociò che figura sul manoscritto di riferimento offre buone garanzie circa la bontà deirisultati della collazione.

139 Gli incunaboli postillati da Poliziano si conservano dunque da allora nella Biblioteca medicea Laurenziana, Pluteo91 inf. 15-17. Cfr. A. PEROSA (a c. di), Mostra del Poliziano nella Biblioteca Medicea Laurenziana. Manoscritti, libri rari,autografi e documenti. Firenze, 23 settembre - 30 novembre 1954. Catalogo, Firenze 1954, 56-58, nn. 48-50; I. MAÏER,Les manuscrits d’Ange Politien. Catalogue descriptif. Avec dix-neuf documents inédits en appendice, Genève 1965, 341-342.140 Una loro descrizione è fornita da C. DI PIERRO, Zibaldoni autografi di Angelo Poliziano inediti e sconosciuti nellaR. Biblioteca di Monaco, in Giornale storico della letteratura italiana 55 (1910) 1-32. Si tratta dei codici miscellaneiClm 748, 754, 755, 756, 807: «[…] nel loro complesso essi presentano un ammasso quasi informe di note e di appun-ti di vario genere, dovuti alla mano del Poliziano […]. Insomma un tesoro di preziosi appunti (preziosi, quando si rie-sce a leggerli, il che è sempre difficile e qualche volta impossibile) che nella loro varietà danno un’idea chiara dellacomplessa erudizione del Poliziano» (art. cit., 3). Quelli interessanti per noi sono il 755 e l’807: nel primo sono nume-rose carte (cc. 59a-125) con gli esiti veri e propri della collazione, ovvero con tavole delle rubriche e dei paragrafi deivari libri; nel secondo estratti da Erennio Modestino e collazioni di alcune costituzioni di Giustiniano (De conceptio-ne digestorum e Omnem reipublicae) e dell’inizio del titolo de iustitia et iure (cc. 63b-66b e 95a-98b): op. cit., 7, 9-10.141 Op. cit., 24.142 Si vedano almeno R. RIBUOLI, La collazione polizianea del codice bembino di Terenzio; con le postille inedite delPoliziano e note su Pietro Bembo, Roma 1981; RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti cit. (nt. 87), spec. 245, 246-249 (in relazione al termine confero), 260-263 e 267 (per emendo), 271-273 (per corrigo).143 Cfr. G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Milano 1974 (Firenze 19521), 70, 74-78, 80: «[…] per-sino collazionatori che miravano a esattezza e a completezza, quali il Poliziano, non si sono fatti scrupolo di inserirein collazioni non tale e quale la lezione del ms. collazionato, ma congetture su essa costruite». Un giudizio comun-que positivo emerge da S. TIMPANARO, La genesi del metodo del Lachmann, Padova 1985, 4-9.

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In proposito vale la pena di riprendere quanto dice Pier Vettori, in fine delle sueCastigationes a Columella, descrivendo in modo perspicuo il metodo di collazione delPoliziano, specificamente applicato alle Pandette fiorentine, insieme al giudizio piùcomplessivo sulla sua statura di filologo e letterato:

Eruditissimi igitur viri labor magno me labore levavit, qui quidem, ut erat diligens et accuratus,hac librorum collatione mirifice delectabatur et ita posse bonos auctores multis maculis purgari vereexistimabat: quaecunque itaque in priscis exemplaribus inveniebat, in impressis seduloannotabat: quod si diutius ille vixisset et quae mente destinaverat perficere potuisset, operasedulitasque ipsius magnos studiosis literarum fructus attulisset, multosque qui postea huic munericorrigendorum librorum necessario incubuerunt, magna prorsus molestia liberasset; sed ea nuncomnia inchoata, imperfectaque iacent; raro enim ille quid sentiret ostendebat, sed veterem tantumscripturam cum fide in suos codices transferebat; commodius, ut opinor, tempus expectans, quoposset de his rebus mature dijudicare. Mors tamen eum praevenit, nec quae cogitaverat ad exitumperducere potuit; […].144

Notabile, inoltre, la conferma che si ricava anche da questa fonte sulla intenzionedell’Ambrogini di portare avanti il lavoro sul Digesto, rispetto al quale evidentementela collazione dell’estate del 1490 rappresentava soltanto una prima tappa di un disegnopiù ampio ed ambizioso:

Si quis autem propter acumen ingenii et varia latinorum graecorumque scriptorum lectionem hocpraeclare facere potuit, ille ut opinor fuit: nam, ut aiunt, libros etiam legum illustrare suo studioet industria cupiebat et fundamenta iam huius sui laboris iecerat.145

Non va trascurato, infine, un ulteriore aspetto che rende notevole il passo in que-stione: Pier Vettori in questa pagina attesta anzitutto, con il peso della propria autore-volezza di insigne rappresentante della tradizione umanistica fiorentina, la feconditàculturale dell’opera ricognitiva condotta da Poliziano sulla littera Florentina. Il ricordodi Angelo, infatti, è introdotto dall’ammissione del frequente rinvio nelle Castigationesal testo del Digesto, in relazione al quale il Vettori dichiara di aver voluto umanistica-mente ricostruire la lezione antica – e quindi quella affidabilmente originale – cioè lalezione contenuta nel pervetustus codice conservato publice a Firenze, il che però hasignificato di solito lavorare non direttamente sulla preziosa littera, ma giovarsi piutto-sto degli appunti vergati da Poliziano durante la collazione dell’estate del 1490 (di cuiVettori era entrato in possesso dopo la morte del Crinito). Morale: un testo impor-

144 PETRI VICTORII Explicationes suarum in Catonem, Varronem, Columellam Castigationum, Lugduni, apud Seb.Gryphium 1542, 143 (tondo nostro).145 Loc. cit.

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tantissimo per la storia della lingua e della cultura romana antiche, apparentemente aportata di mano ma in realtà quasi irraggiungibile per gli studiosi, era stato rimesso nelcircolo della cultura umanistica più viva dalle pazienti fatiche polizianee, inducendoanche chi non aveva formazione né interessi giuridici ad impiegarlo ed a farne teso-ro per la migliore comprensione del patrimonio classico (così il letterato Vettori se neera giovato per interpretare Catone, Varrone, Columella), continuando e rinnovandoquella tradizione di curiositas enciclopedica che già abbiamo riscontrato in Beroaldo eche ormai non era una novità in pieno XVI secolo:

Quia saepe in hoc commentariolo veteris scripturae, quae est in pervetusto libro Pandectarum,qui publice in hac urbe custoditur, mentionem feci, rectum esse censui semel, cuius iudicioantiquam veramque lectionem indagaverim, declarare: non enim exemplar ipsum semper consului,sed habui excusos formis libros, quos cum antiquis illis Angelus Politianus studiose olim contulerat,eosque quantum mihi commodum fuit, pertractavi: illi enim quoque publici sunt.146

11. Nonostante la morte prematura ed improvvisa del Poliziano e la dispersione equindi la rapida perdita dei suoi libri,147 la notizia del suo lavoro ha circolato diffusa-mente in Europa e la sua ricognizione della littera Florentina, messa a confronto conla Vulgata, ha dato frutti importanti negli anni successivi. L’amico Aldo Manuzio neha onorato la memoria divulgando gli ambiziosi progetti di edizione e commentodelle Pandette carezzati dal Poliziano nei primi anni Novanta (ad Aldo, nella praefatioall’Opera omnia del 1498, da lui curata e stampata, dobbiamo la più eloquente espres-sione di rimpianto per l’interruzione di un programma di lavoro già avviato e pro-mettentissimo: si annos suos vixisset et leges ex Pandectis quae olim pisanae fuerunt, inpristinam, quod coeperat facere, lectionem restituisset, commentariosque in illas, quodpraedicabat, non barbare, sed more romano et doctissime confecisset) e l’allievo PietroCrinito ha reso in concreto disponibili per gli studiosi le sue annotazioni (oltre a con-tinuare in proprio il lavoro avviato dal maestro con i Miscellanea, come risulta da alcu-ni luoghi del De honesta disciplina).148 In questo modo autori come Guillaume Budé

146 Op. cit., 142-143.147 Come narra con sintetica efficacia Pier Vettori: libri vero obitu ipsius dissipati sunt, paucique e magno numero inve-niuntur (loc. cit.). Si veda in merito V. BRANCA, Marginalia, IV. La morte e la dispersione dei libri, in ID., Poliziano el’umanesimo della parola cit. (nt. 105), 322-334. Sul passaggio dei libri di Angelo nella biblioteca dell’allievo PietroDel Riccio (Crinito) cfr. M. MARCHIARO, La biblioteca di Pietro Crinito. Manoscritti e libri a stampa della raccoltalibraria di un umanista fiorentino, Porto 2013, 33-37.148 Si veda il cap. 8 del libro XVII: Qui sint apud iureconsultos directarii et dirigere, ac restituta in Pandectis verior lec-tio, tum quid apud Graecos Tichobates intelligatur, in PIETRO CRINITO, De honesta disciplina, a c. di C. ANGELERI,Roma 1955, 344-345; il Crinito aveva però ben acquisito anche la lezione sulla lingua di Valla, circa la capacità diespressione della vis verborum intrinseca alla lingua dei giuristi: Verum profecto est, quod a viris eruditioribus affirmari

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hanno potuto ben presto raccogliere il testimone e proseguire nell’impegno per lamessa a punto di un testo del Digesto sempre più affidabile e sempre meno ‘medieva-le’, procedendo di pari passo tanto con il restauro filologico quanto con la rilettura edil commento in chiave storicistica e culturalmente aggiornata ed arricchita dell’anticodiritto romano. È lo stesso autore francese che dichiara e rivendica tale legame, nonsolo ideale e di metodo, rievocando ad es. l’episodio nel quale, durante un viaggio daVenezia a Roma, ha sostato a Firenze e con l’aiuto di Pietro Crinito ha potuto since-rarsi del testo conservato nella Florentina – a proposito della l. Fraus (D. 1.3.30) –verificando de visu sugli appunti del Poliziano.149 Budé, del resto, accoglie al contem-po la lezione del Valla facendola propria, cosicché nelle Annotationes in Pandectas espli-cita di buon grado il debito nei confronti dell’umanista italiano, dichiarando aperta-mente che il suo elogio della giurisprudenza classica nel «Proemio» del III libro delleElegantiae (di cui riporta un ampio stralcio) lo ha indotto ad intraprendere uno stu-dio del Digesto rinnovato nel metodo:

Hoc tamen Laurentii elogium me impulit ut diligentius Digestorum libros legerem, qua in lectionecum multis in locis volumina ipsa partim mutilata, partim mendosa deprehendi: tum vero (quodflagitiosius esse multo arbitratus sum) verba multa non trivialis sed antiquae ac probae monetae,in alienum usum ignorantia temporum translata esse animadverti. Ea indignitate permotus, ausussum pridem inconsultius iactare inter amicos, me aliquando facturum ut Pandectae emendatiusatque intelligentius legerentur; […].150

Guillaume Budé si pone dunque idealmente e praticamente come continuatore del-l’opera di recupero testuale e di rilettura intorno al Digesto avviata in Italia nel XVsecolo, al punto di confluenza tra il magistero linguistico di Valla e l’esempio di restau-ro filologico offerto da Poliziano.

solet: veteres quidem iureconsultos in cognoscendis examinandisque verborum viribus maxime praestitisse. De his nunc agimus,qui ante Ulpiani aetatem vixerunt, quoniam Romanorum tunc eruditio et quasi puritas deformari atque infici coepta est.Segue l’accertamento del significato di parentes e liberi sulla base dei testi delle Pandette (op. cit., 315-316, cap. 15.8).149 Cum aliquando apud Petrum Crinitum Florentinum essemus […] inter contrectandos nonnullos eius libros in qua-ternionem incidimus manu Politiani scriptum, in quo annotationes paucule erant, consulta (ut videbatur) obscuritate con-gestae, ut si forte interciderent a nullo legi possent. Sic enim erat ingenium hominis, pleraeque tamen frigidae scrupolosita-tis et contemnendae […]: ex l. Fraus et quod distat ver. ab intel. (D. 1.3.30), in Annotationes Guilielmi Budaei Parisiensis,secretarii regii in quatuor et viginti Pandectarum libros, Parisiis, ab Iodoco Badio Ascensio nuper impressae 1508, f.40v.; si trattava con ogni verosimiglianza del codice Monacense lat. 755, allora in possesso del Crinito, come dettosupra. Altrove, senza altri particolari: op. cit., f. 71r: In annotatiunculis Politiani manuscriptis hunc locum ita legi: ex l.Observare, de offic. procons. (D. 1.16.4). Al Budé era del resto riuscito di vedere dal vero soltanto di sfuggita il mano-scritto famoso: op. cit., f. 40r: Nos cum essemus Florentiae Pandectas Pisanas (quas archetypos esse putant) in palatio vidi-mus, sed raptim et quasi per transennam (ut dicitur) praetereuntes: ex lege tertia, tit. de legibus (D. 1.3.3).150 Op. cit., f. 8v: Ex lege prima, de iustitia et iure (D. 1.1.1).

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Intanto Ludovico Bolognini (Bologna, 1446 - Firenze 1508) continua ad interes-sarsi anch’egli della Florentina,151 praticamente fino alla morte. Il punto di partenza nelsuo caso sono preoccupazioni pratiche, relative alla effettiva spendibile comprensionedi passi che nell’ottica del giurista devono palesare un senso compiuto ed essere esentida contraddizioni per poter produrre soluzioni concretamente e proficuamente appli-cabili ai rapporti sociali; ma il fuoco dell’attenzione poi col passare degli anni sembraspostarsi gradualmente nella direzione della preminenza del recupero filologicamentesoddisfacente del testo originale. Per dare campo ai suoi interessi filologici Bologniniprofitta anche del fatto di essersi stabilito nel 1501 per un quinquennio a Firenze,impiegato quale legista in incarichi pubblici di un certo rilievo (tra l’altro podestà nel1503 ed uditore di Rota nel periodo 1503-1505). Nel 1501-1502 il giurista bologne-se può così avere a disposizione il manoscritto delle Pandette e procedere ad una pro-pria autonoma collazione, dalla quale scaturiscono le Castigationes inter Pandectas ori-ginales et communes codices, distinte in latine e greche e solo più tardi, nel 1506, avvia-te ad essere rifuse in una stesura unitaria. In connessione con tale impegno Ludovicoformula anche il progetto (nel 1506-1507), avviato ma mai portato a termine, di pub-blicare il nudo testo del Digesto, sulla base della collazione già compiuta: l’opera avreb-be dovuto intitolarsi, semplicemente, Pandectae originales.152 Un lavoro continuato neltempo, tutto teso alla conquista del textus originalis, restato in gran parte allo stadiopreparatorio di raccolta di materiali, di abbozzo non terminato, ma che aveva prodot-to l’accumulo di una non piccola mole di annotazioni ed appunti, conservati mano-scritti e passati per disposizione testamentaria, insieme agli altri libri del Bolognini, alla

151 Sul tema cfr. già L. SIGHINOLFI, Angelo Poliziano Lodovico Bolognini e le Pandette fiorentine, in Studi e memorie perla storia dell’Università di Bologna 6 (1921) 187-308, lavoro ricco d’informazioni e materiali ma che ha il torto di averimpostato il rapporto tra Bolognini e Poliziano in termini di precedenza temporale se non addirittura di primato del-l’uno sull’altro nel manifestare interesse per la Florentina (in verità anche CAPRIOLI, Visite alla Pisana cit. [nt. 85], 78-79, pare far nascere tutto, o quasi, dalla richiesta del Bolognini l’Epifania del 1490). Ha rivendicato invece, a nostrogiudizio correttamente, l’autonomia dell’umanista, che nel 1489 con la Centuria prima aveva già dato prova di averlavorato sul manoscritto del Digesto ed ha postulato al contrario la diretta dipendenza del giurista bolognese dal let-terato toscano C. DIONISOTTI, Filologia umanistica e testi giuridici fra Quattro e Cinquecento, in La critica del testo cit.(nt. 105), 189-204, spec. 196-204. Per una ricostruzione dell’opera bologniniana e del suo significato resta fonda-mentale CAPRIOLI, Indagini sul Bolognini cit. (nt. 129), spec. 261-413.152 L’attenzione per le discordantiae e le contrarietates tra Vulgata e littera Florentina lo aveva già indotto a stendere idue volumi di Interpretationes novae (1494-1495 e 1497), raccolta di singularia destinata a proporre nuove interpre-tazioni di passi del Digesto anche sulla base di riscontri testuali sulla Florentina (come quello relativo al § Cato, sin-golare e memorabile nei modi in cui era avvenuto ma non rimasto caso isolato): un riassunto della produzione delBolognini legata ai suoi interessi filologici (effettivamente portata a termine, ovvero avviata o anche soltanto pro-grammata) si può leggere in S. CAPRIOLI, Bolognini, Ludovico, ‘voce’ del Dizionario biografico degli italiani XI, Roma1969, 337-352, spec. 342-349.

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biblioteca dei domenicani.153 Materiali di oggettivo rilievo, non foss’altro perché servi-ranno poi alla preparazione dell’edizione dell’Haloander (la c.d. Norica, pubblicata aNorimberga nel 1529), ma che saranno oggetto di uno sferzante giudizio negativo for-mulato dall’Agustín,154 al quale faranno poi riferimento tutti gli studiosi e gli storiciposteriori, in una storia intessuta di vicende individuali, personali e scientifiche, ches’intersecano e si sovrappongono variamente almeno per buona parte del XVI secolo,entro una ristretta ma pugnace comunità di studiosi che torna nel tempo ad impatta-re con lo scoglio della mancanza di un testo affidabile del Digesto ed a misurarsi conle difficoltà di vario genere legate all’apprestamento di un’edizione critica.

Il lavoro che restava da fare era improbo e la strada da percorrere ancora lunga edaccidentata, ma in capo a circa sessant’anni gli sforzi sarebbero approdati finalmenteall’apprestamento dell’auspicata edizione critica delle Pandette, ad opera e per meritoanzitutto di Lelio Torelli (Fano, 1489 - Firenze 1576),155 notevole figura di giurista pra-tico ed insieme di convinto cultore del sapere umanistico, attivo ancora una volta inquella Firenze, tornata nuovamente medicea, che continuava giocoforza a rappresenta-re l’epicentro degli sforzi per la restituzione filologicamente attendibile del testo cardi-ne della scientia iuris occidentale. Le vicende cinquecentesche156 che sfoceranno nelrisultato a lungo atteso dalla comunità scientifica di tutta Europa (ma non, o assaipoco, dai doctores legum professanti il mos italicus, trincerati dietro le rassicuranti cer-

153 Si tratta dei codici manoscritti B.1415-1419 e B.1567 (contenenti le Castigationes, la Nova reformatio, l’abbozzodelle Pandectae originales: stadi diversi di un percorso comunque unitario, nella ricostruzione di Caprioli) custoditioggi presso la biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.154 Sulla posizione assunta da Agustín, coerente con una diffusa disistima dei giuristi della nuova scuola (Alciato eZasio per tutti) verso Bolognini, cfr. CAPRIOLI, Indagini sul Bolognini cit. (nt. 129), 33-54.155 Come si sia giunti nel 1553 in Firenze all’edizione critica della littera Florentina per i tipi di Lorenzo Torrentinostampatore ducale, per la cura del Torelli e del figlio Francesco è stato ricostruito con precisione e dovizia di infor-mazioni da G. GUALANDI, Per la storia della editio princeps delle Pandette fiorentine di Lelio Torelli, in Le Pandette diGiustiniano cit. (nt. 85), 143-198. Si veda anche J.-L. FERRARY (éd.), Correspondance de Lelio Torelli avec AntonioAgustín et Jean Matal (1542-1553), texte édité et commenté par J.-L. F., Como 1992, importante per la ricostruzio-ne dei rapporti amicali e di collaborazione scientifica del Torelli con lo spagnolo Antonio Agustín, dotto umanista –e laureato a Bologna dottore in utroque – autore dei quattro libri delle Emendationes et opiniones, che con l’amico JeanMatal si dedicò a Firenze tra fine 1541 ed inizio 1542 ad una nuova ed autonoma collazione dei testi del Digesto.156 Su di esse ancora importante la ricostruzione fornita ad inizio Settecento dell’olandese Brenkman: H. BRENC-MANNI Historia Pandectarum seu fatum exemplaris florentini. Accedit gemina dissertatio de Amalphi, Trajecti ad Rhe-num 1722. Sempre utile la TH. MOMMSENI Praefatio, premessa a Digesta Iustiniani Augusti (Editio maior) I, recogno-vit adsumpto in operis societatem Paulo Kruegero TH. MOMMSEN, Berolini 1870, I-LXXX (XV-XVI su Poliziano).Si veda ora la diligente complessiva ricapitolazione offerta in D. BALDI, Il ‘Codex Florentinus’ del ‘Digesto’ e il ‘FondoPandette’ della Biblioteca Laurenziana (con un’appendice di documenti inediti), in Segno e testo 8 (2010) 99-186 (con10 tavole fuori testo).

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tezze di una tradizione endogiurisprudenziale ripiegata su sé stessa e prigionieri di unaconcezione tutta praticistica della scienza legale) esulano dalla presente trattazione, macostituiscono certamente un capitolo di primaria importanza nell’evoluzione del dirit-to europeo della modernità.

Sotto altro aspetto, anche prescindendo dal lavoro di stretta pertinenza del filologomirante all’edizione del Digesto, gli insegnamenti e le sollecitazioni culturali degliumanisti italiani quattrocenteschi non sarebbero andati perduti, bensì ripresi e valo-rizzati, non solo entro il filone più spiccatamente culto ben incarnato dal Budé, maanche da autori più legati alla prassi giuridica quali Andrea Alciato, attenti insieme allarestituzione di un testo completo ed incorrotto ma anche alla sua migliore interpreta-zione, adeguata sia sul piano storico che su quello giuridico (meglio: corretta e quindida preferirsi sotto l’aspetto tecnico-giuridico proprio perché sostanziata di una com-piuta conoscenza storica dell’Antichità). Solo a quel punto e su tali basi si potrà rea-lizzare, almeno Oltralpe, entro la rigogliosa e feconda corrente del cultismo transalpi-no, una nuova forma di riconciliazione e riunificazione dei saperi artificiosamenteseparati lungo il Medioevo e si potrà ottenere che il Digesto, non più monumento allascientia iuris romana isolato dal suo contesto socio-culturale e quasi ‘inspiegabile’ nellasua apparente monolitica eccezionalità, parli ancora per secoli all’Europa moderna, fa-cendo sì che il diritto romano di matrice giurisprudenziale costituisca a tutti gli effettiun elemento fondativo ed identificativo del patrimonio culturale della società europea.