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Free knowledge for a new Europe

Mar 13, 2016

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Le rivendicazioni della Rete della Conoscenza in vista delle Elezioni Europee 2014
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Indice1. Europee ed europei: ricostruire l’UE come spazio di cittadinanza

pag. 3

2. Costruire democrazia, liberare i dirittipag. 6

3. Saperi liberi vs. Economia della conoscenzapag. 9

4. Un'istruzione pubblica, gratuita, di qualità fino a 18 anni a livello europeo

pag. 13

5. Per uno spazio europeo del welfarepag. 17

6. Formazione tecnica e professionale tutelata e di qualitàpag. 21

7. Contro il numero chiuso, la valutazione e la didattica come stru-menti di selezione

pag. 25

8. Per la democrazia nei luoghi di formazionepag. 29

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1. Europee ed europei: ricostruire l’UE come spazio di cittadinanza

A Maggio si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Due novità rendono

questa tornata elettorale cruciale rispetto alla fase politica che stiamo attraversando. Innanzitutto que-

ste elezioni si collocano a conclusione di un ciclo di politiche di austerità che hanno peggiorato gli ef-

fetti sociali devastanti prodotti dalla crisi e non ne hanno intaccato invece le cause e i responsabili

L’austerità, in sintesi, non conviene né ai PIIGS né a tutti i cittadini europei colpiti e impoveriti dalla cri -

si. Nonostante ciò, non è stato né sarà un programma a breve termine: con l’introduzione del Fiscal

Compact e del Pareggio di Bilancio nelle Costituzioni, votati senza discussione dal Parlamento italia-

no, le misure di rigore sono diventate assi strutturali delle politiche economiche dei diversi

Paesi e puntano ad attaccare al cuore l’efficacia stessa della democrazia. A tutto ciò movimenti

sociali altalenanti ma presenti quasi ovunque nel Vecchio Continente si sono contrapposti con fermez-

za, rivendicando innanzitutto l’agibilità democratica dello spazio europeo e un’inversione di rotta radi-

cale rispetto alle politiche sociali e al modello di sviluppo del Continente.

Il secondo elemento di novità è di metodo, e consiste nel fatto che le coalizioni europee che si scon-

treranno nelle elezioni potranno esprimere una candidatura per il prossimo Commissario dell’Unione

Europea. Questo potrebbe rendere davvero continentali le prossime elezioni, portando a programmi

stilati su scala continentale e a campagne comunicative comuni, mentre, nelle passate elezioni

europee, ogni paese parlava di sé stesso e, per certi versi, a sé stesso.

Riteniamo che il tema, per chi ha attraversato i movimenti anti austerità, non sia quale sia il

candidato alla Commissione. Prioritario è affrontare invece la questione democratica che attraversa

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il continente così come i singoli Paesi. La sovranità popolare oggi è infatti totalmente esautorata nello

spazio nazionale e le istituzioni europee hanno agito in questi anni come mero braccio destro dei po-

teri finanziari. La soluzione prospettata finora, quella di mettere in salvo la rappresentanza democrati -

ca dalla sua crisi rafforzando l’impianto decisionista dello Stato nazionale o della governance euro-

pea, non solo è incapace di frenare le derive populiste e nazionaliste del continente ma soffocano le

esigenze sociali e di partecipazione delle popolazioni. Serve andare in tutt’altra direzione, serve com-

prendere che non c’è nessuna democrazia possibile senza giustizia sociale.

Dopo anni di mobilitazioni, dagli indignados agli studenti contro la Riforma Gelmini, dallo sciopero eu-

ropeo del 14 Novembre 2012 ai movimenti contro la Troika in Grecia, la politica partitica europea

innanzitutto non può esimersi dall’affrontare i temi e le parole d’ordine lanciati da queste piaz-

ze. Inoltre lo spazio politico sovranazionale, in una fase in cui le decisioni vengono assunte sempre

più direttamente da istituzioni non elettive, ci pone di fronte a due sfide: ridare senso alla democrazia

partecipativa nella sua totalità dall’altro ridefinire un ruolo dell’UE che sia vicino alle esigenze delle

persone e dei popoli

Oggi è evidente ad esempio che l’unione monetaria, lo strumento che più concretamente di tutti ha

permesso ai cittadini di configurarsi lo spazio europeo, favorisce la Germania e penalizza le eco-

nomie dei Paesi periferici. Se da un lato è del tutto irrealistico immaginarsi un immediato ritorno alla

moneta nazionale come scelta risolutiva delle miserie presenti,dall’altro lato è necessario non relegare

questo dibattito all’ambito strettamente economico e riconnetterlo invece alle prospettive politiche e

processuali che democraticamente si possono costruire in Europa.

La permanenza o l’uscita dell’Italia o dei Paesi Ue dall’Euro è un nodo che va infatti relazionato

alla necessità di costruire politiche espansiva e un rilancio fattivo dello Stato Sociale nel continente.

Oggi l’austerità ha fatto piazza pulita di sanità, trasporti e servizi in generale, restituire l’Europa ai po-

poli vuol dire innanzitutto ridare centralità al welfare di cittadinanza, disobbedendo ai vincoli imposti

alle amministrazioni locali ma anche e soprattutto immaginandosi delle forme e delle modalità tramite

cui questa battaglia possa diventare terreno di lotta per tutti i movimenti europei in questa primavera.

Lo scenario europeo che abbiamo davanti vede inoltre i saperi giocare un ruolo centrale. Mancano 6

anni da Europa 2020 e i processi messi in campo finora in Europa hanno privatizzato scuole ed uni-

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versità rendendo un lontano miraggio gli obiettivi della strategia (innalzamento numero di laureati, ri -

duzione abbandono scolastico, etc..). Venir meno a questi impegni sicuramente non comporterà san-

zioni da parte delle istituzioni europee. La knowledge society che la strategia di Lisbona prospetta,

una società di stampo capitalista capace di sfruttare e trarre profitto dal lavoro immateriale e

dai saperi, non è infatti messa a rischio dall’anomalia italiana e dai suoi scarsi investimenti in

istruzione.

E’ necessario pertanto ripartire e generalizzare la battaglia contro i processi di mercificazione

dei saperi e di selezione nell’accesso a scuole e università, rivendicare un cambiamento radicale ri-

spetto all’attuale modello di sviluppo proprio a partire dalla condizione di subalternità che si vive nei

luoghi dell’istruzione e dal potere innovativo che i saperi possono avere.

I tassi altissimi di disoccupazione giovanile, la precarietà e i NEET sono altre questioni che con urgen-

za dobbiamo saper imporre al dibattito europeo. E’ necessario infatti che la battaglia per l’istituzione

del reddito di cittadinanza in Italia sappia dialogare ed innescare processi conflittuali e radicati

nei territori, che impongano in Europa la priorità dei diritti e del futuro delle persone sui profitti e la

rendita di investitori e grandi capitali.

Ripartiamo quindi dalle europee e dagli europei, ripartiamo cioè dalle cittadine e dai cittadini che in

questi anni hanno subito l’Europa identificandola in toto e giustamente con le politiche che questa ci

ha imposto.

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2. Costruire democrazia, liberare i diritti.

L’Unione Europea è nata lentamente con quello che è stato chiamato “processo di integrazione euro-

pea”. Prima riguardava solo il commercio del carbone e dell’acciaio (CECA) e poi, pian piano, si è

esteso sempre di più ai vari aspetti economici, sociali e politici. Nonostante questo processo si sia

spinto sempre più in là, l’aspetto economico è rimasto di gran lunga quello prevalente.

Con il Trattato di Maastricht si puntava alla creazione di una moneta unica obbligando i vari Paesi

aderenti a sottostare a rigide regole economiche:

● Rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%.

● Rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati).

● Tasso d'inflazione non superiore dell'1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.

● Tasso d'interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

Con il Trattato di Maastricht si andava configurando un’Unione Europea incentrata su tre pilastri: con-

vergenza nella Comunità Europea di CECA, CEE e CEEA, politica estera e sicurezza comuni e affari

interni e giustizia.

Dal 2003 venne tentato il passo successivo, quello della scrittura di una Costituzione Europea. Per

le forti criticità di questa Costituzione, fatta da dalla Convenzione Europea e non da un’assemblea Co-

stituente democraticamente eletta (come invece fece l’Italia nel 1946-48), questa Costituzione fu re-

spinta da Referendum svolti in Francia e Paesi Bassi nel 2009.

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Per ovviare a questa bocciatura è entrato il vigore il Trattato di Lisbona, che riprende gran parte del-

le questioni poste nella Costituzione. Il Trattato non è stato né scritto né approvato con il voto popola -

re, nonostante costituisca l’ossatura “costituzionale” de facto dell’Unione.

Esso dà un forte potere al Consiglio d’Europa in cui decidono e votano i vari Governi dei singoli Stati,

mentre il Parlamento Europeo (unico organo europeo eletto democraticamente a livello euro-

peo) continua ad avere un ruolo marginale nei destini dell’Unione.

Riteniamo che sia giunto il momento di rifondare l’Europa a partire dalla democrazia, dandole

un’architettura costituzionale decisa e discussa democraticamente e non figlia delle mediazioni tra go-

verni e che tenga conto dei maggiori punti di avanzamento contenuti nelle varie costituzioni dei singoli

stati: sarebbe un passo indietro se alcuni diritti garantiti in talune costituzioni fossero assenti in un

quadro europeo.

Inoltre come Rete della Conoscenza pensiamo che l’Europa debba perdere il ruolo di giudice che

punisce i Paesi “non virtuosi” e che diventi, invece, quell’aiuto necessario per livellare verso l’alto la

condizione economica, democratica e sociale dei diversi paesi. Oggi, infatti, se un Paese sfora i para-

metri di Maastricht o quelli contenuti nel Two Pack e Six Pack (rapporto deficit/pil, pareggio di bilancio,

riduzione del debio pubblico al 60%) gli stati vengono sanzionati dall’Unione Europea. Invece quando

uno stato non hanno raggiunto gli obiettivi della Strategia di Lisbona o di Europa 2020 (riduzione al

10% dell’abbandono scolastico, aumento al 3% del pil per la spesa in ricerca, aumento del numero di

laureati) l’Unione Europea non prevede interventi incisivi. Anzi, le politiche di austerità derivate da

Maastricht, Six Pack, Fiscal Compact e Two Pack, comportando massicce riduzioni della spesa

pubblica, hanno allontanato gli obiettivi di Europa 2020, rendendo impraticabili l'aumendo dell’oc-

cupazione, la garanzia piena del diritto allo studio, alla sanità, ecc.

Oggi è necessario, invece, che l’Unione Europea assuma come priorità assolute la democrazia e la

giustizia sociale. Le competenze dell'UE sul welfare, l'istruzione e su tutte le misure capaci di miglio-

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rare le condizioni sociali delle popolazioni devono diventare meno aleatorie: serve individuare demo-

craticamente azioni ad hoc per la redistribuzione della ricchezza, l'innalzamento del livello di alfabetiz-

zazione dell'Eurozona e la trasformazione del nosro modello produttivo, e prevedere incentivi fattivi

sia politici che economici per la messa in pratica di queste azioni in tutti gli stati membri. Dobbiamo

andare verso un’Europa dei diritti e lasciarci definitivamente alle spalle l’Europa dell’austerità.

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Le nostre priorità:

● Avvio di un vero processo costituente democratico che dia sempre più potere al

Parlamento e sempre meno ai Governi Nazionali (Consiglio d’Europa).

● L'abolizione dei sistemi di trattati che impongono le politiche di austerità a livello

continentale, sostituendoli con un nuovo patto sociale tra i cittadini dell'Unione

Europea

● Creazione di un’Unione Europea che livelli verso l’altro le condizioni sociali nei singoli

Paesi, con possibilità di incentivi concreti che permettano il raggiungimento degli

obiettivi contenuti nelle raccomandazioni

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3. Saperi liberi vs. Economia della conoscenza

Alla fine del secolo scorso l’Unione Europea ha ripetutamente proclamato di voler diventare 'l’econo-

mia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo'. La “knowledge society - so-

cietà della conoscenza” è stato l’obiettivo lanciato nel ‘97 dalla Commissione Europea e assunto in

maniera acritica da gran parte degli attori sia sovranazionale che nazionali. Dalla Strategia di Lisbo-

na, passando per la “Dichiarazione di Sorbona” che diede avvio al Bologna Process, fino ai program-

mi di “Education and Training 2010” e l’ultimo “Education and Training 2020”, l’ambiguità di tale

espressione non ha fatto che rafforzarsi: la conoscenza come fonte di profitto per investitori e

grandi capitali o volano per l’inclusione sociale, la coesione culturale europea, strumento per rivo-

luzionare in un’ottica ecologica ed equa il modello industriale e produttivo del continente?

Fare della conoscenza il fondamento dell’Europa può infatti voler dire molte cose diverse tra loro. Due

sono le strade principali che si sono con ambiguità sovrapposte in questi anni, nella dialettica tra pro-

gettualità politica e concreta azione dell’Ue così come nel dibattito accademico sui temi della società

della conoscenza e sul capitalismo cognitivo. Innanzitutto, a partire dalla presa d’atto di una massiccia

trasformazione del meccanismo di produzione fordista, basato – semplificando - sulla “catena di mon-

taggio” , quindi sul lavoro materiale con tempi e luoghi “di fabbrica” delimitati, una strada ha provato a

dirigere questa trasformazione dando centralità e mettendo a valore il lavoro immateriale o cognitivo.

Pensiamo alle conoscenze che serve mettere a sistema nella costruzione di un prodotto culturale,

come un film o un cd, o pensiamo al mercato dell’informazione a quello costruitosi su internet e alle

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trasformazioni prodotte dai nuovi media in generale sulla struttura produttiva dei paesi. Questa è la

strada che è prevalsa e che tenta di trasformare il General Intellect in valore economico, in una

merce sfruttabile da cui trarre profitto. La strada opposta è una società capace di fare della co-

noscenza fattore di emancipazione sociale per tutti gli strati della popolazioni, capace quindi da un

lato di fondarsi sul libero accesso ai saperi e dall’altro di rendere l’aspetto cognitivo del lavoro un ele -

mento di riorganizzazione in chiave cooperativa e non competitiva del lavoro, un elemento di disarti-

colazione delle disuguaglianze e delle storture dell’attuale modello produttivo.

Lo scoppio della crisi economica e le politiche di definanziamento dell’istruzione e della ricerca che

hanno investito la maggior parte degli stati membri, specie quelli del Sud, sembrano aver messo tra

parentesi sia il dibattito progettuale sull’Europa della Conoscenza sia i suoi obiettivi strategici. Nella

lettera del 2011 di Trichet e Draghi al governo Berlusconi si parla di “privatizzazioni dei servizi” e

della necessità di “un uso sistematico di indicatori di performance nei settori dell’istruzione”, riferendo-

si cioè ad istituti come l’AVA e l’INVALSI che ad oggi non fanno altro che incentivare la competizione

tra scuole e atenei, determinano arbitrariamente la chiusura di corsi di laurea e in sostanza giustifica-

no la logica del definanziamento e dello smantellamento dell’istruzione pubblica. La crisi economica

ha quindi certamente ridotto, soprattutto in termini finanziari, il ruolo dell’istruzione tra le prio -

rità dell’UE, dall’altro lato è servita però ad affermare, fuor di ogni ambiguità, un’idea di società

della conoscenza tutta funzionale alle esigenze dell’attuale economia di mercato; un’economia

fondata sulla speculazione e sulla rendita finanziaria, che ha imposto le politiche di austerity, e quindi i

tagli al welfare e l’attacco ai diritti sociali, come via d’uscita alla crisi nonostante fosse essa stessa l’o-

rigine strutturale di questa crisi, avendo causato grosse diseguaglianze di reddito e l’esplodere della

bolla finanziaria del 2008.

Nel 2012 la strategia “Rethinking Education” varata dalla Commissione Europa ha voluto proprio

riaggiornare la strategia di Lisbona al contesto di crisi. “Non è solo questione di soldi” ha dichiarato

Vasillou, il commissario europeo per l’istruzione. Secondo Rethinking Education è necessario cioè

non puntare soltanto sui finanziamenti pubblici, europei e nazionali, gli unici in grado di garantire il ca-

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rattere libero e indipendente della cultura, ma l’apertura forte deve essere verso gli investimenti pri-

vati a scuole e università e ricerca. Una strada, quella dei finanziamenti privati, che dimostra i suoi

effetti negativi in tutti i Paesi che hanno incentivato il sistema ibrido pubblico-privato (Italia, Inghilterra,

per non parlare della situazione extraeuropea degli USA) e che avalla la falsa retorica del “non ci

sono soldi”, quando grossi sprechi di fondi pubblici vengono perpetrati dagli Stati in spese militari,

politiche razziste sull’immigrazione etc…

Il nodo della nuova strategia sta proprio nelle riforme strutturali che si richiedono ai sistemi d’istruzio-

ne, a questi si addossa infatti una parte di responsabilità della crescente disoccupazione giovanile in

Europa: la “filiera della conoscenza” è incapace di rispondere ai bisogni di quella occupaziona-

le e produttiva, non offre skills, ossia competenze, e figure professionali compatibili col mercato. E’

una visione distorta quella che Vasillou e RE offrono, un’impostazione del rapporto tra saperi-lavoro e

saperi-economia unidirezionale e tutta sbilanciata sulla fiducia ingenua e acritica nella capacità dei

mercati di autoregolarsi. Noi crediamo che la conoscenza non possa essere l’ancella di modelli

produttivi irrazionali e suicidi come quelli che vediamo oggi in campo in UE, modelli che consi-

derano barriere agli investimenti privati i salari dei lavoratori, i loro diritti, la salute dei cittadini e del

pianeta.

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Le nostre priorità:

● Investimenti in ricerca finalizzata all’innovazione tecnologica, al ripensamento del

modello produttivo e alla riconversione ecologica dell’economia

● Piano europeo per incrementare gli investimenti in ricerca e innovazione al 3% del

PIL e introduzione di meccanismi di aiuto per quei paesi con difficoltà economiche o con

ritardo strutturale nell’innovazione e nella ricerca

● Introduzione di meccanismi di controllo della ricerca dell’industria privata affinché

sia rivolta a fini socialmente ed ecologicamente compatibili

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4. Un'istruzione pubblica, gratuita e di qualità fino a 18 anni a livello

europeo

In questi anni mentre Belgio, Lettonia, Romania, Slovacchia, Svezia, Islanda e Austria hanno aumen-

tato la spesa in istruzione dall’1% al 5%, nei paesi ad elevato debito pubblico, i PIIGS (Portagallo, Ita-

lia, Irlanda, Grecia e Spagna), nei paesi dell’est e anche nel Regno Unito, il Patto di stabilità e crescita

ha imposto e incentivato tagli lineari ai servizi pubblici, scuole e università in primis. Un’Europa a due

velocità dunque, che da un lato vede i paesi dell’Europa centrale e del nord Europa agevolare l'ac-

cesso all'istruzione e puntare sulla competitività dei propri sistemi formativi, sperimentando la società

della conoscenza disegnata da Lisbona ed EU2020, dall'altro Paesi che hanno definanziato e dequali-

ficato l'istruzione pubblica, allontanando masse di studenti da scuole ed università dai costi inaccessi-

bili, congelando in ben 8 Paesi Ue gli stipendi degli insegnanti.

I dati relativi al diritto allo studio tra il 2000 e il 2009, che parlano di un incremento delle risorse per il

sostegno finanziario degli studenti, soprattutto per gli studenti universitari, che è cresciuta percentual-

mente dal 13 % al 17,4 %, non devono trarre in inganno. Nei paesi del “sud” ci sono stati ingenti tagli

dei finanziamenti che hanno prodotto un decremento delle risorse disponibili per le borse di stu-

dio, una restrizione del numero dei beneficiari, un aumento dei costi dei trasporti e più in gene-

rale di tutti i servizi e le prestazioni erogati. Inoltre procedono a macchia di leopardo i programmi di

recupero e orientamento alla formazione per tutti i disoccupati o i giovani entrati in dispersione scola-

stica. Stessa cosa vale per l’apprendimento permanente, finanziato soltanto in alcuni Paesi attraverso

l’utilizzo dei FSE.

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L’Italia ad oggi investe il 4,2% del PIL in istruzione, la Danimarca il doppio. E' una disparità in-

sostenibile di cui l'Unione Europea dovrebbe farsi carico. L'Ue infatti, dal Trattato di Maastricht

svolge un ruolo sussidiario per quanto riguarda le politiche sull’istruzione e la formazione. Gli stati

membri continuano a svolgere un ruolo preminente sul settore, mentre l’UE si limita a fissare obiettivi

comuni e favorire lo scambio di buone pratiche. L’obiettivo, da Maastricht in poi, è sempre stato quello

di investire sull’istruzione per rendere più competitiva l’Europa nell’ambito di un contesto internaziona-

le in rapido mutamento, con una ristrutturazione capitalistica che ha dato sempre più ampia centralità

alla conoscenza e al lavoro cognitivo. Noi pensiamo che investire sia una priorità e che l'UE debba

giocare un ruolo centrale per incentivare e incrementare le risorse su scuole, università e ricerca. La

società della conoscenza deve essere costruita investendo però sulla qualità dei percorsi formativi e

garantendone l’accesso a tutti, non rendendoli sempre più elitari.

Rigettiamo l’ottica, finora perseguita, di investire sull’istruzione, anche con fondi privati, per

rendere i luoghi della formazione delle aziende produttrici di saperi parcellizzati, ridotti qualitati-

vamente a competenze e schiavi delle esigenze del mercato del lavoro. Per il prossimo decennio, ol -

tre gli obiettivi di Europa 2020, vi sono anche quelli del programma Education and Training 2020 citato

poco sopra. Tra questi spicca infatti quello dell’imprenditorialità, al fine di rendere l’Europa maggior-

mente competitiva. Ennesima conferma della tipologia e dell’indirizzo delle politiche sulla formazione

a livello europeo. Le alternative esistono, ma passano da un forte ruolo di indirizzo dell’Unione Euro-

pea sull’incentivazione degli investimenti di ogni stato membro e sulla ridefinizione degli obiettivi sull’i-

struzione, che non possono continuare ad essere subordinati alle logiche del mercato.

Le contraddizioni delle politiche UE in materia d’istruzione non riguardano solo i finanziamenti ma an-

che e soprattutto la struttura dei sistemi scolastici. Dagli anni ‘80 in poi la maggior parte dei paesi UE

ha infatti avviato dei percorsi di riforma per innalzare l’obbligo scolastico, riducendo i tassi di disper-

sione e abbandono e puntando ad ampliare l’acquisizione delle competenze di base. Questi percorsi

oggi vedono la scuola dell’obbligo ferma a soli 16 anni nella maggior parte dei Paesi UE e tanti

sistemi d’istruzione aggirare l’innalzamento effettivo dell’obbligo con formule ibride di scuola-

lavoro e divisioni nette tra i corsi professionalizzanti e quelli d’istruzione generale . Il sistema

italiano è emblematico da questo punto di vista: l’obbligo scolastico in Italia vale infatti per i ragazzi

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dai 6 ai 16 anni e può essere assolto non soltanto con il biennio delle superiori ma anche tramite i

contratti di apprendistato previsti con la Formazione Professionale a livello regionale, contratti che

quasi sempre si riducono a lavoro vero e proprio ma sottopagato, senza prevedere alcun percorso di

apprendimento.

L’obbligo scolastico si abbassa così de facto a 14 anni, un età in cui è impossibile o quanto-

meno pedagogicamente scorretto prendere scelte di vita così importanti. I ministri che hanno

promosso in questi anni in Italia la riduzione a 4 anni delle scuole superiori per equiparare il sistema

italiano a quelli europei da un lato misconoscono il fatto che le scorciatoie per l’uscita anticipata dai

canali dell’istruzione è oggi una strada ampiamente già promossa e praticata, le cui conseguenze ne-

gative non possono però più essere ignorate, dall’altro non colgono la necessità, oggi sempre più evi-

dente, di costruire una riforma dei cicli ampia che ponga in continuità i diversi segmenti dell’istruzione

senza incentivare l’espulsione degli studenti.

Il problema della canalizzazione precoce degli studenti riguarda quindi l’Italia in maniera paradig-

matica ma caratterizza in generale tutti i sistemi dei Paesi Ue che pongono una divisione netta tra

istruzione tecnica e generale (pensiamo al sistema tedesco a quello dei paesi del Nord Europa etc),

concependo la prima come fosse di serie B e gli studenti come potenziale manodopera pronta all’uso

per le aziende. Alla base di questa divisione gioca da un lato la falsa convinzione che esistano

persone adatte e altre inadatte allo studio dall’altro v’è la volontà di conservare i caratteri clas-

sisti dei sistemi d’istruzione del secolo scorso, mantenendo le barriere materiali e immateriali che

impediscono agli studenti di poter emanciparsi e autodeterminarsi tramite lo studio. Serve prendere

atto quindi in Italia e in Europa che l’obiettivo di EU2020 dell’innalzamento dell’obbligo a 18 anni non

può essere raggiunto se non convergendo nel contrasto totale alla canalizzazione precoce. Vogliamo

riprendere e rilanciare pertanto la proposta di un biennio unitario all’inizio delle scuole superiori,

obbligatorio per tutti gli studenti UE e capace di avviare fattivamente un percorso di innalzamento del-

l’obbligo scolastico. Un biennio che fornisca gli elementi per orientarsi nella scelta degli indirizzi di stu-

dio e che rimoduli l’impianto dei sistemi d’istruzione europea sulla base di una sempre maggiore inclu-

sione sociale.

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Le nostre priorità:

● Tutti i Paesi dell’Unione Europea devono raggiungere l’8% di spesa sul PIL in

Istruzione.

● Tutti i Paesi devono garantire un’istruzione pubblica completamente gratuita e di qualità

senza la possibilità di avere come partner soggetti privati.

● L’UE deve monitorare i programmi di ogni stato membro per il raggiungimento dell’8% e

prevedere il vincolo di fondi sociali europei ad hoc sull'istruzione per i Paesi che non

rispettano gli obiettivi.

● Rompere il Six Pack e il Fiscal Compact che impediscono gli investimenti pubblici e

impongono restrizione della spesa.

● Indirizzare ingenti risorse dei FES ed FESR sui sistemi formativi degli Stati che

presentano i dati peggiori sull’investimento, l’abbandono scolastico, l’alfabetizzazione, la

disoccupazione.

● Rispettare i vincoli imposti dalla strategia EU 2020 riguardo l’abbandono scolastico,

l’apprendimento permanente e l’alfabetizzazione.

● L’UE deve impegnarsi a imporre dei Livelli Minimi di Prestazione sul diritto allo studio a

tutti i Paesi membri.

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5. Per uno spazio europeo del welfare

Nonostante numerosi documenti UE affermino il contrario, i sistemi di welfare nazionali subiscono

processi di divergenza sempre più evidenti a livello continentale. Se i Paesi con maggiore 'pro-

duttività' del Nord Europa garantiscono sistemi complessi di protezione sociale, con forme capillari e

differenziate di reddito diretto e indiretto, i Paesi del Sud Europa che subiscono le misure di austerity

sono interessati da fenomeni di dismissione del patrimonio pubblico, privatizzazione dei servizi e in

generale da una progressiva ritirata dello Stato rispetto al terreno del riconoscimento dei diritti di citta-

dinanza.

Questi fenomeni interessano anche il campo del welfare studentesco: in Italia la situazione relativa

alla copertura nazionale delle borse di studio universitarie, così come ai sistemi regionali del welfare

studentesco, è ben lontana dagli standard europei e dalle “eccellenze” del Nord Europa. Ma anche nel

ristretto gruppo dei PIGS l'Italia riesce ad essere surclassata, con Portogallo e Spagna che spendono

comunque più di noi nell'istruzione. Per quanto riguarda l'università, i 57.000 idonei non beneficiari –

studenti che pur avendo diritto alla borsa di studio non la ricevono a causa della scarsità dei fondi ero-

gati – sono un'eccezione tutta italiana, ancora più grave considerando che i criteri per l'attribuzione

delle borse sono fra i più stringenti in Europa: è questa una delle ragioni più significative del netto calo

del numero di studenti universitari in Italia (-60.000 in 10 anni). Sul fronte della scuola va forse peggio,

visto che non è previsto alcun sistema nazionale di supporto al diritto allo studio, e il tasso di disper -

sione scolastico in alcune Regioni del Sud tocca quota 25%, mentre a livello nazionale presenta un

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dato comunque allarmante, 17,6% contro la media europea del 12,8%.

Per invertire la rotta è necessario che l'Unione Europea prenda in carico provvedimenti che inneschi-

no dinamiche di convergenza dei sistemi di welfare nel Continente. La misura più importante per il

settore del welfare studentesco sarebbe quella di estendere la logica dei Livelli essenziali di prestazio-

ne sul piano europeo e sull'intero ciclo formativo, introducendo parametri di base sull'ampio spettro

dei settori nei quali è possibile erogare finanziamenti nella forma del reddito indiretto (mobilità, allog-

gio, vitto, accesso a fonti culturali extracurricolari etc.), nonché una forma unitaria di reddito di forma-

zione, calibrato sul costo della vita dei singoli Paesi. Tale misura permetterebbe da un lato di garanti-

re l'emancipazione del soggetto in formazione dalle condizioni geografiche e socio-culturali di prove-

nienza – in particolare dalla spesso insufficiente rete di supporto familiare –, dall'altro di favorire un

accesso paritario ai saperi in tutti i Paesi europei, anche in quelli oggi più svantaggiati e quindi

meno competitivi in termini di produzione, trasmissione e condivisione di competenze e conoscenze,

che determinerebbe l'innesco di processi di convergenza non solo tra i sistemi di welfare in sé ma an-

che tra le economie, i modelli produttivi e la capacità di riproduzione del capitale sociale. In tal senso,

la previsione più generale del reddito di cittadinanza a livello continentale sanerebbe le enormi diffe-

renze tra i Paesi europei, garantendo una vita degna e la possibilità di scegliere autonomamente i

propri percorsi di formazione e di realizzazione lavorativa a centinaia di migliaia di espulsi dai cicli di

formazione e dal mercato del lavoro, ai lavoratori precari etc.

Per rendere operativi tali vincoli, tuttavia, è necessario fare in modo che siano realizzabili. Il blocco

alla spesa pubblica determinato da quel complesso sistema di accordi che parte dal Trattato di

Maastricht e arriva al Two Pack e al Six Pack, passando per il Fiscal Compact è un ostacolo

strutturale all’ottenimento di miglioramenti delle condizioni materiali e immateriali sul fronte del

welfare per i soggetti in formazione (e non solo). Parliamo di ostacolo piuttosto che di barriera perché

ci sembra una metafora più adatta per definire una situazione nella quale talvolta si riescono a produr-

re avanzamenti, ma solo su un piano residuale, dipendente dalla presunta “virtuosità” di alcuni Enti

Locali, o da scelte riallocative di bilanci comunque insufficienti a garantire la piena attuazione dei diritti

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di cittadinanza per tutte e tutti (dunque non solo per i soggetti in formazione).

La declinazione interna alla macchina statale italiana dei vincoli europei si chiama Patto di Stabilità: gli

Enti Locali devono contribuire al rispetto del vincolo del rapporto deficit-PIL al 3% bloccando un’enor-

me quantità di risorse altrimenti nelle dirette disponibilità delle amministrazioni stesse. L’entità di tali ri-

sorse è stabilita ogni anno all’interno della Legge di Stabilità (ex legge Finanziaria). Si tratta di 31,45

mld di € per il solo 2014, considerando i Comuni, le Province e le Regioni a Statuto Ordinario (esclu-

dendo dunque le Regioni e le Province Autonome) .

Come è stato ormai osservato da più parti , gli Enti Locali si trovano sempre di più a dover fare i conti

con una dicotomia che non ha nulla di tecnico ed economicistico, ma è tutta politica: si tratta infatti di

scegliere tra austerità e diritti, tra il rispetto del Patto di Stabilità e la fornitura di beni e servizi

e il mantenimento del patrimonio pubblico in grado di rendere sostanziali i diritti di cittadinanza.

Abolire il sistema del Patto di Stabilità e in generale i trattati europei forieri delle politiche di austerità,

e costruire un nuovo patto tra i cittadini dell'Unione Europea, basato non più sulla lingua della finanza

e del debito bensì su quella dei diritti di cittadinanza, è condizione necessaria per cambiare le nostre

vite.

Un ruolo fondamentale in questa partita potrebbe essere svolto dai Fondi Sociali Europei (che rap-

presentano circa il 10% del bilancio dell'UE). Nel periodo 2007-2013 i fondi assegnati all'Italia am-

montavano a quasi 29 mld di €. Il nuovo ciclo di assegnazione 2014-2020 può diventare cruciale per

rafforzare l'infrastruttura sociale del Vecchio Continente. Le reti di welfare, l'infrastrutturazione imma-

teriale delle reti di comunicazione e condivisione dei saperi, un vasto programma di piccole opere di

messa in sicurezza dei territori dai rischi idrogeologici, del patrimonio edilizio pubblico, di riqualifica-

zione urbana, sono solo alcuni degli ambiti nei quali una gestione mirata e deliberata in maniera par-

tecipata dei FSE potrebbero contribuire in maniera decisiva all'innesco di quei processi di convergen-

za necessari per identificare il campo europeo come campo dei diritti di cittadinanza.

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Le nostre priorità:

● L'individuazione di Livelli Essenziali delle Prestazioni per il welfare studentesco a

livello continentale, comprendente tutti i cicli di formazione

● La realizzazione di un reddito di formazione europeo

● La realizzazione di un reddito di cittadinanza europeo

● La gestione partecipata e mirata all'infrastrutturazione sociale dei Fondi Sociali

Europei

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6. Formazione tecnica e professionale tutelata e di qualità

Negli ultimi anni in Europa si è rafforzata l’idea che l’istruzione debba essere sempre più legata al

mondo del lavoro. Da questa premessa condivisibile in via teorica ma praticabile in modi e strutture

molto diversi tra loro, si è fatto strada il modello duale tedesco, simile al nostro apprendistato, in cui

cioè si alterna metà del tempo passato in classe e metà passato in un luogo di lavoro.

Tale modello di Vocational Education and Trainig è promosso dalla recente raccomandazione euro-

pea Rethinking Education, finalizzata all’abbattimento della disoccupazione giovanile attraverso un ri-

pensamento dei percorsi di istruzione. Viene attribuita all’istruzione la responsabilità della differenza

percentuale di disoccupazione giovanile tra i paesi dell’Europa Mediterranea (Spagna e Italia special-

mente) e i modelli di riferimento tedeschi e scandinavi.

La soluzione sembra essere per la Commissione Europea la parcellizzazione delle competenze, raf-

forzando così la canalizzazione precoce a 14 anni ed esportando il modello duale in tutti gli Stati. La

formazione duale relega le conoscenze generali in un angolino, rende ancora più evidente il divario di

competenze tra licei e tecnici-professionali, rende le competenze dello studente frammentate e

slegate da conoscenze critiche e di base, spendibili si sul mercato del lavoro ma a basso costo

e senza diritti.

Il VET diventa per l’Europa uno strumento per potenziare il mercato in crisi, pienamente asservito alle

regole dello stesso, mettendo in secondo piano la valenza formativa dei percorsi.

Eppure in Europa ci sono altre esperienze, come per esempio gli stage, che potrebbero vedere un

potenziamento su scala continentale. Al contrario dell'apprendistato, lo stage dà la possibilità di stu-

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diare a tutto tondo ma anche di approfondire determinati aspetti del sapere e del saper fare,

non togliendo troppo tempo alla formazione generale.

E’ fondamentale, inoltre, eliminare ogni tipologia di blocco all’accesso. In molti stati Europei infatti

gli studenti che frequentano percorsi tecnici e professionali non possono accedere all’università o ad-

dirittura subiscono percorsi di canalizzazione anche per le scuole superiori.

Questo è un modello che toglie allo studente la possibilità di autodeterminarsi e si basa su una di-

stanza eccessiva tra la formazione teorica liceale e la formazione pratica. E’ necessario investire

nelle competenze di base e nella coscienza critica, rafforzando le ore di lezione ed i programmi dei

tecnici e dei professionali ed allo stesso tempo promuovendo percorsi volti al saper fare nei licei.

I percorsi di alternanza scuola-lavoro dovrebbero basarsi su attività che abbiano una rilevanza sociale

per la collettività, intersecando competenze pratiche e sociali, studi umanistici e innovazione tecnolo-

gica.

Detto ciò anche la conoscenza del mondo del lavoro che danno gli stage non è affatto completa.

Spesso essi sono deregolamentati e non sono legati al percorso di studi che uno studente o una stu-

dentessa ha compiuto sui banchi di scuola o all’università. Per questo serve che a livello europeo e

sui livelli nazionali si approvino statuti degli studenti in stage che garantiscano allo studente

nel luogo di lavoro gli stessi diritti che ha dentro la scuola o l’università , così da poter monitora-

re l’affinità dello stage al proprio percorso di studi e che lo stage non si trasformi in una forma di lavo -

ro non pagato, ma resti pur sempre un “metodo di formazione”.

Inoltre sarebbe importantissimo potenziare nell’Unione Europea programmi di stage internazio-

nali. E’ vero, infatti, che non tutti i Paesi o le regioni dell’Europa hanno gli stessi apparati produttivi, le

stesse tecnologie e le medesime competenze. Uno studente di una città italiana dovrebbe, quindi,

aver la possibilità di fare uno stage in Germania se lì si trovano attività economiche che offrano com-

petenze avanzate e sbocchi al proprio percorso di studio e viceversa per lo studente tedesco che vuo-

le venire in Italia.

Sullo stesso versante c’è l’aspetto legato all’orientamento al lavoro: in una fase in cui in Europa cre-

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sce la disoccupazione è necessario mettere in rete le diverse iniziative nazionali di orientamento e ri -

cerca di lavoro, ma soprattutto è importante far conoscere le best practices e le esperienze virtuose, i

posti di lavoro creati dalla creatività di giovani in giro per l’Europa, cosicché si possano riprodurre a li -

vello continentale idee e esperienze che guardano ad un diverso modello economico.

Per unire al meglio percorsi d’istruzione e mondo del lavoro, però, oggi è necessario riconoscere in

ogni singolo individuo la miriade di conoscenze apprese anche fuori dall’istruzione formale. Sempre

più studenti imparano o perfezionano lingue per conto proprio, spesso già le conoscono dalla nascita

perché immigrati, altri facendo volontariato acquisiscono competenze che dentro scuole e università

non si possono acquisire.

E’ necessario oggi costituire delle “anagrafi delle competenze”, che mettano i percorsi di vita e for-

mativi di ognuno al centro dello sviluppo lavorativo futuro dell’individuo. Oggi il titolo di studio non può

essere l’unico elemento di cui si tiene conto per costruire il profilo completo di una persona.

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Le nostre priorità:

● abolizione della formazione professionale come canale di assolvimento

dell’obbligo e posticipo delle esperienze di tirocinio e apprendistato dopo i 18 anni

● innalzamento fattivo dell’obbligo scolastico a 18 anni in tutti gli Stati membri

● introduzione di un primo biennio unitario alle superiori in tutti i sistemi d’istruzione,

con monte ore fisso per le materie di base e flessibile per quelle caratterizzanti

● Revisione totale della direttiva europea sull’istruzione professionale “Rethinking

Education”.

● Potenziare programmi e ore di studio nei tecnici e professionali

● Garantire a tutti gli studenti provenienti anche da percorsi tecnici o professionali

l’accesso alle scuole superiori ed all’università

● Sviluppo degli stage, garantendo diritti agli stagisti e la coerenza degli stage con i

percorsi formativi individuali.

● Programmi di stage internazionali per garantire la possibilità di tutti gli studenti e

studentesse di conoscere i diversi contesti produttivi a prescindere dalla provenienza

● Orientamento internazionale al lavoro perché l’Europa possa diventare realmente

una terra di opportunità, libera circolazione delle persone, delle idee e della creatività

● Unificare i sistemi nazionali di centri per l’impiego e collaborazione con le istituzioni

scolastiche e universitarie per costruire delle “anagrafi delle competenze” che

mettano in risalto sia la formazione formale che quella non formale appresa dagli

individui.1

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7. Contro il numero chiuso, la valutazione e la didattica come stru-

menti di selezione

Negli stessi anni in cui sull’istruzione superiore si muovevano questi passi, il Bologna Process e l’in-

troduzione coatta del numero chiuso si preparavano ad attraversare l’università. Con la legge Zec-

chino del ‘99 infatti viene introdotto il numero chiuso per le facoltà mediche, giustificando que-

sta scelta da un lato con la necessità di applicare direttive europee (ad esempio del 93/16/CEE o an-

cora la 78/686/CEE), che però non imponevano lo strumento del test ma solo la necessità di omoge-

nizzare la qualità professionale dei laureati in medicina, chirurgia, ecc…, dall’altro si poneva così una

soluzione tanto facile quanto miope all’incapacità delle strutture degli atenei di accogliere l’elevato nu-

mero di studenti che in quegli anni si iscrivevano.

La ratio su cui nasce il numero chiuso quindi innanzitutto contraddice gli obiettivi di Lisbona e

di EU 2020 sull’innalzamento del livello culturale dei Paesi : sbarrare l’accesso ai più alti livelli

di qualificazione vuol dire infatti incentivare gli studenti a intraprendere quanto prima percorsi

lavorativi, qualunque essi siano, precari, sottopagati o privi di diritti. Ad oggi con i tassi di disoccupa-

zione in continuo aumento ciò significa ingrossare le fila dei NEET e costruire un vero e proprio eser-

cito di riserva, senza speranze né garanzie per potersi immaginare un futuro dignitoso.

Oggi con il 57% dei corsi di laurea a numero programmato e con un crollo di quasi 58.000 im-

matricolazioni negli ultimi dieci anni è necessario riconoscere in Italia gli effetti devastanti che il nu-

mero chiuso e le politiche di disinvestimento sull’università, tagli sul Diritto allo Studio e aumento della

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contribuzione studentesca in primis, hanno prodotto. E’ questo il momento di tirare le somme degli

obiettivi e dei progetti sviluppatisi a livello europeo sull’istruzione: a 6 anni dalla scadenza di Eu

2020 e a più 10 dall’avvio del processo di Bologna, bisogna rendersi conto che la parcellizzazione del-

l’università, la frammentazione tra i diversi cicli d’istruzione nonché il dramma della bolla formativa

sono figli di questi processi.

Il sistema del 3+2 ad esempio nasce con l’obiettivo di spezzettare i livelli di qualificazione uni-

versitaria per facilitare l’occupabilità dei laureati: ad oggi questo sistema non soltanto ha pro-

dotto una dequalificazione della laurea in sé, poiché di fatto la triennale non dà accesso a nessuna

professione e la specialistica si riduce ad un 2^tempo privo di valore aggiunto, ma ha anche mancato

totalmente l’obiettivo di conciliare nella logica di domanda-offerta il mondo dell’università con quello

del lavoro. L’asse si è spostato tutto sulle qualificazioni di basso livello che il mercato del lavoro ad

oggi predilige, la qualità dell’università e l’orientamento della didattica ha perso intanto qualsiasi spinta

propulsiva nel determinare la domanda di lavoro e le scelte produttive del Paese limitandosi a rispon-

dere, e in malo modo, ai criteri imposti dalle aziende e degli investitori, cui non a caso le recenti rifor-

me della governance dell’università hanno lasciato tanto spazio.

Il sistema dei crediti, messo su per rendere compatibili e omogenei i differenti sistemi d’istruzione

europei, ha prodotto inoltre una frammentazione tutta negativa della didattica e dello studio, aprendo

la strada alla misurazione unicamente quantitativa delle conoscenze. Oggi, la larga diffusione che il si-

stema dei crediti ha anche per le scuole superiori e l’avanzare di sistemi di valutazione quali l’IN-

VALSI a livello nazionale e gli OCSE-PISA a livello internazionale ci impongono quindi una riflessio-

ne sulla credibilità e l’attendibilità della misurazione quantitativa nella definizione degli standard di

qualità di istituti e atenei.

Questi sistemi infatti tengono fuori non soltanto elementi decisivi nella valutazione dei livelli di alfabe-

tizzazione dei Paesi, quali i contesti socio-economici e una serie di conoscenze non assimilabili a

competenze tecniche né misurabili (la coscienza critica, le inclinazioni, le attitudini e le potenzialità

personali), ma sono finalizzate alla stesura di classifiche tra Paesi, atenei e scuole. La logica della

competizione è in profonda contraddizione con l’obiettivo politico che l’Unione europea dovrebbe as-

sumere, quello dell’innalzamento della qualità media dell’istruzione e della cultura del continente, in-

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tendendo per media proprio l’aver di mira la diffusione quanto più ampia possibile di saperi di qualità

piuttosto che la costruzione di pochi poli d’eccellenza.

L’obiettivo dell’innalzamento del numero di laureati è quindi fondamentale per l’Italia, che si attesta al

21% della popolazione contro una media europea al 34%, è d’altro canto necessario ripensare in tutta

Europa l’organizzazione della didattica e il ruolo e il valore delle conoscenze nel modello produttivo

del continente: perché non è possibile ridefinire un piano industriale mettendo in gioco le intelli-

genze che ancora popolano le nostre università? Chi può decretare che la non spendibilità attuale

sul mercato del lavoro delle conoscenze umanistiche sia un’inutilità tout court di quei saperi che pro-

prio contribuiscono a fondare l’identità e il patrimonio culturale dell’Europa unita?

In Grecia quest’anno l’università Capodistriana di Atene ha sospeso tutte le attività dell’anno

accademico per carenza di fonti, per gli stessi motivi le università del Sud Italia rischiano di chiudere i

battenti nel giro di pochi anni. Il Bologna process così come Europa 2020 devono necessariamente ri-

vedere criticamente i propri criteri ed obiettivi: la società della conoscenza in un continente in cui

le università si svuotano o chiudono, in cui le scuole perdono sempre più studenti, rischia di

essere uno spot vago che maschera in realtà un modello culturale discriminante ed escludente, ap-

piattito sui criteri mercantilistici del libero mercato che hanno contribuito a produrre la crisi economica

in cui stagniamo.

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Le nostre priorità:

● revisione e chiarificazione delle norme europee sul numero chiuso, strutturando la

selezione in itinere e con modalità che contrastino la competizione sfrenata tra studenti

per le facoltà mediche e sanitarie, raccomandando l’eliminazione dello sbarramento per

i corsi invece regolamentati solo a livello nazionale

● l’eliminazione del blocco del turnover e un piano di assunzioni di docenti e

ricercatori che aumenti notevolmente la proporzione media europea tra docenti-

studenti, imponendone il raggiungimento ai Paesi quali l’Italia che ad oggi sono molto al

di sotto anche della proporzione attuale.

● istituzione di una commissione mista per la revisione democratica dei criteri

quantitativi e delle modalità di testing standardizzato utilizzati a livello nazionale e

internazionale dalle agenzie di valutazione: l’utilizzo della misurazione quantitativa può

avere solo fini statistici e bisogna contrastare la sua estensione alla valutazione

formativa nelle aule, l’indirizzo politico che danno le misurazioni deve essere vincolato

ad azioni precise discusse collegialmente con studenti e docenti

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10. Per la democrazia nei luoghi della formazione

Nell’epoca della crisi della partecipazione, sembra facile imputare la colpa alla fase sociale e storica

per l’allontanamento, specialmente dei giovani, dalla partecipazione politica. La verità, seppur più spi-

nosa è profonda, è che ai giovani non sono dati gli strumenti per incidere, non solo nella società

tutta, ma anche nei luoghi che vivono ogni giorno come scuole e università.

In tutta Europa vi sono strumenti differenti di partecipazione e democrazia interna ai luoghi della for-

mazione. In alcune nazioni le rappresentanze sono garantite e tutelate, in altre lo strumento della rap-

presentanza studentesca non è contemplato o ha un valore più accessorio che sostanziale.

Scuole e Università sono microsocietà in cui i giovani vivono la partecipazione attiva praticandola ogni

giorno. Oggi ogni nazione europea ha modelli di rappresentanza con composizione, organi e

compiti differenti. La democrazia partecipativa e la partecipazione ai processi decisionali deve di-

ventare paradigma edificante del nuovo mandato europeo, a partire dai luoghi della formazione e dal-

le rappresentanze studentesche. Per fare ciò rivendichiamo degli organi decisionali in cui la compo-

nente studentesca abbia davvero possibilità sostanziali di incidere e di essere garantita, inserendo la

clausola della pariteticità per Consigli Di Istituto scolastici, commissioni tematiche e Cda Universitari.

Gli organi decisionali, inoltre, non devono essere meri luoghi in cui ratificare decisioni prese altrove,

ma dotarsi del supporto di commissioni operative tematiche che diano agli studenti possibilità di inci-

dere e discutere di curricula, percorsi formativi, attività extrascolastiche, programmi.

La democrazia deve essere il motore decisionale dei luoghi della formazione, promuovendo per-

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corsi di autovalutazione delle strutture, delle decisioni e dei sistemi formativi.

Considerare gli studenti come cittadini di oggi e non solo retoricamente come cittadini del domani, si-

gnifica riconoscere la cittadinanza dei soggetti in formazione in termini non solo formali, ma

anche sostanziali.

Per tali ragioni, prendendo spunto dai processi costituenti promossi in alcune nazioni europee, deve

essere introdotto parere obbligatorio degli studenti per ogni iniziativa legislativa formulata a livello na-

zionale o internazionale. Ciò non deve avvenire richiedendo in maniera sterile parere ai National

School Council - dove presenti -, ma è necessario favorire processi di partecipazione che siano dal

basso verso l’alto, con la creazione di percorsi di ripensamento di scuole e università pubbliche interni

agli stessi luoghi di formazione, immaginando strumenti per la formulazione di proposte dirette da par-

te di ogni singola scuola e università e di discussione delle proposte nazionali e internazionali in

campo. Questo tipo di percorso, sperimentato ad esempio in Francia all’ultima riforma scolastica, è

l’unica modalità possibile per abbattere la distanza tra rappresentanti e rappresentati - oramai esisten-

te anche nei luoghi della formazione - e per creare veri e propri momenti di riflessione costituente ri-

spetto al futuro dei paesi e del continente, strettamente collegato a quello dei luoghi della formazione.

Dobbiamo dire basta, infatti, a riforme e raccomandazioni calate dall’alto, attraverso un riconosci-

mento formale delle rappresentanze e della cittadinanza studentesca, immaginando strumenti di colla-

borazione attiva e reciproca che diano alle rappresentanze studentesche strumenti di democrazia in-

terni ed esterni capaci di tutelare la necessità rappresentativa e partecipativa di tutti a livello sociale.

Anche i processi già esistenti, come quello del dialogo strutturato, dovrebbero porsi obiettivi più ambi-

zioni, dando maggiore possibilità decisionale all’interno del percorso alle rappresentanze studente-

sche organizzate e ponendosi come obiettivo l’istituzione di percorsi referendari che tentino di ragiun-

gere studenti e giovani esclusi dalle maglie della partecipazione politica in generale.

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Le nostre priorità:

● introduzione di organismi rappresentativi cogestiti e Commissioni paritetiche in

ogni luogo della formazione

● Istituzione del referendum studentesco per le scelte più importanti a livello nazionale e

internazionale.

● Riconoscimento formale in ogni stato membro delle rappresentanze studentesche e

della cittadinanza del soggetto in formazione

● Parere obbligatorio per le riforme di scuole e università da parte degli organi di

rappresentanza studenteschi locali.

● Percorsi di connessione bottom-up per la proposizione di iniziative legislative

inerenti i luoghi di formazione e la discussione pubblica e assembleare delle proposte in

campo

● Potenziamento del dialogo strutturato

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