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Helvétius e i costumi: natura e storia, morale e politica Francesco Toto ABSTRACT: The following article provides an analysis concerning the function of the concept of “custom” in Helvétius’ most important work, namely the De l’esprit. First, the article focuses on the conditions according to which customs can be regarded either as something internal to the domain of natural phenomena, or else external to it. A distinction between two different uses of the concept of “human nature” will be tracked in Helvetius’ work. This distinction is fundamental in order to understand, at the one and the same time, both the difference and the continuity between what depends on nature alone, and what depends on customs. Second, the article focuses on the twofold role played by customs, with respect to moral and political issues and to their relationship. This analysis will shed light on a tension between two different ways of interpreting customs in Helvétius: according to the first, customs are determined by automatic processes, independent from any kind of free will or awareness; conversely, according to the second, customs are the result of a creative, self-aware activity. The same tension is mirrored in the moral field, marking out two different ways of conceiving ethics – either as a normative science or else as a descriptive science – and in the political field, leading to two different ways of conceiving politics – as a result of autonomous social dynamics, or as the principle and bedrock of every social development. As a conclusion, a possible source of unification of these apparently incompatible positions will be found in the ideal of an enlightened political life: the capability of understanding social customs as they are in their autonomy would provide, in fact, the possibility to reform them and to revolutionise them, in order to enhance common virtue and well-being. I. Introduzione: modelli a confronto Prima di rivolgerci all’elaborazione delle nozioni di mœurs e coutumes offerta dall’opera più conosciuta di Helvétius, De l’esprit, mi è sembrato utile premettere alcuni cenni sui principali modelli con i quali il filosofo era chiamato a confrontarsi. La tradizione che conobbe maggiore fortuna nella riflessione moderna sul tema dei costumi è senza dubbio quella che possiamo definire
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francesco toto, Helvétius e i costumi: natura e storia, morale e politica, in "Historia philosophica", Vol. 13 (2015) [first draft]

May 04, 2023

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Page 1: francesco toto, Helvétius e i costumi: natura e storia, morale e politica, in "Historia philosophica",  Vol. 13 (2015) [first draft]

Helvétius e i costumi: natura e storia, morale e politica

Francesco Toto

ABSTRACT: The following article provides an analysis concerning the function of theconcept of “custom” in Helvétius’ most important work, namely the De l’esprit. First,the article focuses on the conditions according to which customs can be regarded eitheras something internal to the domain of natural phenomena, or else external to it. Adistinction between two different uses of the concept of “human nature” will be tracked inHelvetius’ work. This distinction is fundamental in order to understand, at the one and thesame time, both the difference and the continuity between what depends on nature alone,and what depends on customs. Second, the article focuses on the twofold role played bycustoms, with respect to moral and political issues and to their relationship. This analysiswill shed light on a tension between two different ways of interpreting customs inHelvétius: according to the first, customs are determined by automatic processes,independent from any kind of free will or awareness; conversely, according to the second,customs are the result of a creative, self-aware activity. The same tension is mirrored inthe moral field, marking out two different ways of conceiving ethics – either as anormative science or else as a descriptive science – and in the political field, leading to twodifferent ways of conceiving politics – as a result of autonomous social dynamics, or as theprinciple and bedrock of every social development. As a conclusion, a possible source ofunification of these apparently incompatible positions will be found in the ideal of anenlightened political life: the capability of understanding social customs as they are intheir autonomy would provide, in fact, the possibility to reform them and to revolutionisethem, in order to enhance common virtue and well-being.

I. Introduzione: modelli a confronto

Prima di rivolgerci all’elaborazione delle nozioni di mœurs e

coutumes offerta dall’opera più conosciuta di Helvétius, De l’esprit,

mi è sembrato utile premettere alcuni cenni sui principali modelli

con i quali il filosofo era chiamato a confrontarsi. La tradizione

che conobbe maggiore fortuna nella riflessione moderna sul tema

dei costumi è senza dubbio quella che possiamo definire

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“scettica”, caratterizzata da una netta separazione tra i costumi

da una parte e la natura o la ragione umane dall’altra. Questa

prima tradizione parte dalla constatazione della diversità dei

costumi e della loro estrema efficacia nella formazione dei modi

di pensare, sentire ed agire. Per Montaigne, ad esempio, « Il

n’est chose en quoi le monde soit si divers qu’en coutumes […].

Telle chose est ici abominable, qui apporte recommandation

ailleurs»1. Questa estrema variabilità non impedisce tuttavia alla

coutume di imporsi come una «une violente et traîtresse maîtresse

d’école», la cui autorità presenta un volto tanto più «furieux et

tyrannique» quanto più dolcemente e impercettibilmente riesce a

insinuarsi in ogni piega della vita umana, a imbrigliarne le

inclinazioni in una maniera da cui diventa sempre più difficile

prendere le distanze2. Questa tirannia produce una specie di mondo

capovolto, nel quale «ce qui est hors des gonds de la coutume, on

le croit hors des gonds de la raison», o «contre nature», e le

leggi che «naissent de la consuetude» sembrano invece «naître de

nature» e parlarci direttamente con la voce della coscienza3.

Questo sconvolgimento rende chiare le conseguenze scettiche della

diversità dei costumi e della loro efficacia. Dove il nostro

dovere non ha «notre devoir n’a autre règle que fortuite», e dove

viene dunque a mancare ogni principio naturale o razionale in

grado di contenere «la la naturelle instabilité de nos moeurs et

opinions», bisogna concludere che non solo ciascuno «les opinions

1 M. de Montaigne, Les Essais, par P. Villey sous la la diréction et avec unepréface de V.-L. Saulnier, augmentée en 2004 d’une préface et un supplément parM. Conche, Paris, PUF, 2004, p. 580.2 Montagine, Les Essais, cit., p. 109, ma vedi anche ivi, p. 115, dove si legge che«le principal effet de sa puissance [de la coutume], c’est de nous saisir etempiéter de telle sorte qu’à peine soit-il en nous de nous r’avoir de sa prise,et de rentrer en nous, pour discourir et raisonner de ses ordonnances».3 Montagine, Les Essais, cit., p. 116.

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et moeurs approuvées et reçues autour de lui» e «ne s’en peut

déprendre sans remords, ni s’y appliquer sans applaudissement», ma

sarebbe inoltre «folie» sottrarsi alla loro presa4. Il discorso di

Montaigne viene ripreso e portato alle sue estreme conseguenze da

Pascal. Mentre il primo riconosce ancora alla natura e alla

ragione un ruolo possibilmente positivo, l’«inconstante et bizarre

variété de mœurs et de créances» e la loro disseminazione da parte

della sola «témérité du hasard» viene mobilitata dal secondo per

revocare in dubbio la possibilità stessa di qualcosa come una

natura umana e di principi naturali della moralità o della

politica5. Il filosofo non si limita infatti ad affermare che «la

coutume est une seconde nature qui détruit la première», ma

insinua, prima in forma dubitativa e poi più perentoriamente

assertiva, che la natura non è essa stessa null’altro che «une

première costume»6: «nos principes naturels» non sono altro che

«nos principes accoutumés», e «une différente coutume donnera

d’autres principes naturels»7. È la costume che, prima ancora di

ogni riflessione o decisione, dispone quelle che saranno le nostre

emozioni, i nostri giudizi e le nostre scelte, e fissa gli

automatismi che determinano ciò che deve apparirci come vero, come

buono, come giusto8. L’«essence de la justice» si ritrova privata

di ogni rapporto con una «loi naturelle» inattingibile alla

ragione corrotta dell’uomo, e ridotta senza residui alla regola

che obbliga a «suivre les mœurs de son pays»: la costume trova il4 Montaigne, Les Essais, cit., pp. 578, 332, 115, e sulla follia p. 118, dove silegge che «toutes façons écartées et particulieres partent plustot de folie […]que de vraie raison».5 B. Pascal, Pensées, in Œuvres complètes, édition présentée, établie et annotée parM. Le Guern, Paris, Gallimard, 2000, pp. 705 e 560. 6 Pascal, Pensées, cit., pp. 578, 679, 7 Pascal, Pensées, cit., p. 577.8 Pascal, Pensées, cit., p. 774, sul mestiere, e pp. 818-9, sull’uomo comeautoma.

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«fondement mystique de son autorité» nel fatto stesso di essere

«reçue», e si confonde con la tirannia di un’opinione che «dispose

de tout»9.

Una seconda tradizione che vale la pena di ricordare è quella

razionalista, che accoglie l’idea scettica della varietà dei

costumi e della loro possibile difformità dalla natura o dalla

ragione, ma reintroduce al tempo stesso, nell’uomo e fuori di lui,

un’istanza capace di valutare criticamente il valore dei costumi,

e di opporsi alla loro tirannia. Anche in Descartes la diversità

dei costumi e delle opinioni introduce un momento scettico del

ragionamento, ma questo momento è solo una fase di un percorso il

cui fine non è quello di negare l’attingibilità del lume naturale,

ma proprio al contrario quello di permettere al soggetto impegnato

nella ricerca della verità di prendere criticamente le distanze

dalle opinioni comunemente accolte. I costumi e le opinioni che li

accompagnano possano riuscire a «offusquer notre lumière

naturelle, et nous rendre moins capables d'entendre raison», ma la

capacità di quel lume rischiarare le tenebre da cui è avvolto

rimane intatta10. Analogamente, la prima regola della «morale par

provision» che Descartes sostiene di aver imposto a sé stesso al

momento di prendere la rischiosa decisione di «se défaire de

toutes les opinions […] reçues» consiglia sì di seguire i costumi

9 Pascal Pensées, cit., pp. 560 e 577, 554.10 Cfr. R. Descartes, Discours de la méthode, in Œuvres de Descartes, publiées par Ch.Adam & P. Tannery, Paris, Vrin-CNRS, 12 voll, 1964-1974, vol. VI, p. 10.Altrove, Descartes parla di sé come determinato a regolare i proprio sentimenti«plutôt […] par la raison que par la coutume», e afferma di giudicare le cose più«en philosophe» che secondo il costume, ma di non essere però «si philosophe»da allontanarsi in tutto dal costume. Sostiene inoltre che proprio apprendendo anon credere «trop fermement» a ciò che gli era stato insegnato dal costume cheriesce a liberarsi poco a poco di molti errori. Cfr. Descartes, Œuvres, cit.,vol. I, pp. 605 e 615, vol. V, p. 557, vol. VI, p. 10.

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del proprio paese11, ma questo precetto assume un significato

diverso da quello che aveva in Montaigne o Pascal. Non solo,

infatti, Descartes ritiene che una morale razionale sia possibile,

ma assume inoltre che i costumi possano essere più o meno utili

alla vita civile, più o meno coerenti con la ragione, e possano

dunque essere non solo rigettati, ma in qualche misura anche

accolti, da una ragione pervenuta alla certezza di sé stessa12.

Ancora vincolata a opinioni e abitudini irriflesse, la forza dei

costumi resta di per sé ancora al di qua di una razionalità

pienamente dispiegata, della certezza e dell’autonomia che essa

comporta. L’efficacia del cogito o della sua evidenza nella

ricostruzione dell’edificio dei saperi e delle pratiche non può

fare a meno di passare dalla liberazione del soggetto dai

pregiudizi che sin dall’infanzia si sono radicati nella sua mente

grazie alla forza delle abitudini. Questa liberazione, però,

consiste non tanto in un abbandono delle coutumes e delle opinioni,

quanto piuttosto in una sospensione del giudizio che lascia libero

il soggetto sia di ripudiarle che di accoglierle su più solide

basi. Similmente, Hobbes accoglie dagli scettici l’idea di una

profonda influenza dei costumi sulle passioni, i giudizi e le

condotte degli individui13. Riconoscendo la validità di leggi11 Descartes, Discours de la méthode, cit., vol VI, p. 22, vol IXa, p. 13.12 In un primo momento Descartes sostiene che la considerazione dei costumidegli uomini non gli aveva offerto motivi di rassicurazione, perché in moltigrandi popoli le cose che a noi sembrano stravaganti e ridicole sono accolte eapprovate. In un secondo momento, tuttavia, ricorda come i suoi viaggi gliavessero permesso di riconoscere che «tous ceux qui ont des sentiments fortcontraires aux nôtres, ne sont pas, pour cela, barbares ni sauvages, mais queplusieurs usent, autant ou plus que nous, de raison», e afferma che presso iPersi o i Cinesi non devono esserci meno uomini dotati di buon senso di quantice ne siano da noi. In questo modo, però, ammette che i costumi possano essereespressioni storicamente determinate di razionalità o buon senso. Cfr.Descartes, Discours de la méthode, cit., vol. VI, pp. 10, 16, 23. 13 T. Hobbes, Leviathan, in T. Hobbes, The English Works, edit. by William Molesworth,London, John Bohn, Longman Brown Green and Longman, 11 voll., 1839-1845, vol III,

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naturali razionali, radicate nella natura stessa nell’uomo e nel

suo sforzo di perseverare nell’essere, egli asserisce tuttavia che

«our lawyers account no customs law, but such as are reasonable,

and that evil customs are to be abolished: But the judgment of

what is reasonable, and of what is to be abolished, belongeth to

him that maketh the law, which is the sovereign»14. In questo modo

Hobbes nega che i costumi possano rappresentare il fondamento

dell’autorità politica, e li interpreta come i depositari di una

normatività alla quale lo Stato deve sottrarre ogni autonomia per

affermarsi quale unico custode della razionalità delle leggi

naturali. Nel farlo, tuttavia, ammette non solo la possibilità di

uno scarto tra la storicità dei costumi e l’eternità della legge

morale, ma anche una loro possibile convergenza. In breve, sia per

Descartes che per Hobbes la storicità dei costumi si presenta

innanzitutto nella forma di un rischio di irrazionalità, di un

divorzio tra ragione e storia, ma questo rischio apre la strada al

problema di una riconciliazione tra i due poli, di una

discriminazione etica dei buoni e dei cattivi costumi e di una

riforma politica dei secondi.

Questa nuova problematica rivelerà tutta la sua fecondità negli

autori del ’700, che però non si limitano esplicitare qualcosa di

implicito nei loro predecessori, ma riformulano i termini della

questione. La terza e ultima posizione alla quale volevo

accennare, in effetti, è quella che legge i costumi come

espressione di una razionalità immanente alla storia, e si

concentra soprattutto sul loro rapporto circolare con le

pp. 61 e 146.14 Hobbes, Leviathan, cit., p. 252.

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istituzioni15. Montesquieu ritorna ancora una volta sul’idea

scettica di una «infinie diversité de lois et de mœurs», ma lo fa

nell’intento di mostrare che nella loro adozione gli uomini

«n'étaient pas uniquement conduits par leurs fantaisies»: non solo

le leggi e costumi rappresentano delle espressioni particolari di

una razionalità che nella sua forma generale governa tutti i

popoli della terra, ma esistono inoltre dei principi di cui «les

histoires de toutes les nations» rappresentano delle semplici

«suites», o conseguenze16. In questa prospettiva Montesquieu

sottolinea sopratutto la necessità che obbliga le leggi ad

adeguarsi ai costumi. I costumi, che per un verso compaiono come

uno dei «principes» che si combinano a determinare le leggi di un

paese (fattori climatici, demografici, economici, religiosi),

tendono per altro verso quasi a confondersi, in ogni nazione, con

quell’«esprit général» che informa di sé tutti gli aspetti

particolari della vita civile, e nel quale le istituzioni che

regolano i rapporti tra i cittadini trovano le loro radici nelle

forme di vita che definiscono17. Accanto a questo primo tipo di

vincolo, che obbliga le istituzioni a conformasi ai costumi che le

sorreggono, Montesquieu non manca però di discutere anche il

vincolo inverso. Vengono così messe a tema non solo l’importanza

15 In epoca seicentesca questa posizione può essere fatta risalire a Spinoza, sulquale evito di tornare perché ne ho già parlato in F. Toto, Tra natura e storia: il casodei costumi nell’opera di B. Spinoza, in R. Colombo, N. Marcucci, G. Mormino, Spinoza e lastoria, Napoli, Ponte Vecchio, di prossima publicazione.16 Montesquieu, L’Esprit des lois, édition de Robert Derathé, Paris, ClassiquesGarnier, 2011, 2 vol., vol. I, pp. 5.17 Il titolo del Libro XIX, «Des lois dans le rapport qu'elles ont avec lesprincipes qui forment l'esprit général, les mœurs, les manières», affiancadirettamente lo spirito generale ai costumi. Affermando che «les lois sontétablies, les mœurs sont inspirées; celles-ci tiennent plus à l'esprit général,celles-là tiennent plus à une institution particulière», Montesquieustastabilisce inoltre un rapporto privilegiato tra mœurs ed esprit général. Cfr.Montesquieu, L’esprit des lois, cit., vol. I, p. 334.

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degli istituti deputati alla tutela di costumi già dati, come ad

esempio la censura nella repubblica romana, ma anche le forme

dirette o indirette, opportune o inopportune, in cui le leggi

possono esercitare la loro efficacia nella trasformazione di

questi costumi18. Questo doppio movimento si ripropone in Rousseau,

che prosegue l’opera di compenetrazione tra storicità e

razionalità concependo i costumi come i soli possibili mediatori

tra le volontà particolari che spettano agli uomini come individui

naturali e la volontà generale di cui sono depositari in quanto

cittadini partecipi della sovranità. Il Contratto sociale mette a fuoco

soprattutto uno dei lati della questione, sottolineando come

l’integrità dei costumi fondi la salute del corpo politico e

l’equilibrio tra i suoi diversi poteri. Accanto alle leggi

politiche, civili e penali, i costumi rappresentano una quarta

specie di legge, «la plus importante de toutes», la «clef de

voûte» dell’intera architettura istituzionale: una legge che fa

«la véritable constitution de l’Etat», e, «lorsque les autres lois

vieillissent ou s'éteignent, les ranime ou les supplée», e

«conserve un peuple dans l'esprit de son institution»: une «partie

inconnue à nos politiques, mais de laquelle dépend le succès de

toutes les autres»19. In quest’ottica si devono leggere i passi nei

quali i costumi sono indicati come il fattore che impedisce al

tribunato o all’eforato di degenerare in tirannia e alla dittatura

di abusare della propria autorità, e che come tale deve essere

protetto dalla censura20. La tesi secondo la quale «quoique la loi18 Sul pericolo di cambiare i costumi, soprattutto attraverso lo strumento delleleggi, e sul modo in cui i costumi possono ciò nondimeno seguire le leggi, cfr.Montesquieu, L’Esprit des lois, cit., vol. I, pp. 334-5, 345. 19 J.-J. Rousseau, Du contract social, texte établi et annoté par R. Derathé, inŒuvres complètes, édition publiée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, 5voll., Paris 1959-95, vol. III, p. 394.20 Rousseau, Du contract social, cit., pp. 448, 454, 456, 458 e sgg..

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ne règle pas les mœurs, c'est la législation qui les fait naître»

apre però a un discorso diverso, che nelle Considérations sur le

gouvernement de Pologne affiderà con maggiore nettezza il compito di

stabilire costumi adeguati alle istituzioni alla figura del

Legislatore: «ce sont les institutions nationales qui forment le

génie, le caractère, les goûts et les mœurs d'un peuple, qui le

font être lui et non pas un autre», e Rousseau non esitera a

consigliare i Polacchi di seguire l’esempio della legislazione

mosaica, prendendosi cura dei costumi che distinguono la loro

nazione da tutte le altre21.

Quando si rivolge all’opera di Helvétius per comprendere la sua

posizione nella storia degli usi filosofici della nozione di

costume, il lettore si trova di fronte a diversi ostacoli. Per

Helvétius, in effetti, i costumi hanno a che vedere con i gesti e

con l’abbigliamento, con le mode e le maniere, con il gusto e il

genio, le inclinazioni e i caratteri, le opinioni e i pregiudizi,

le passioni e gli interessi, le virtù ed i vizi, i generi di vita

e le religioni, le pratiche culturali e quelle economiche, le

identità delle nazioni e dei popoli, le relazioni sociali e le

forme giuridiche e istituzionali. Essi possono essere buoni o

cattivi, puri o depravati, semplici o sofisticati, rigidi o

rilassati, barbari o civilizzati, e possono quindi essere

descritti o giudicati, stimati o disprezzati, addolciti o

corretti, riformati o rivoluzionati. La complessità di questa rete

concettuale, che pure testimonia l’interesse del tema dei costumi

nel pensiero di Helvétius, rischia di lasciare spaesati. In primo

21 Sul modo in cui la situazione della nazione polacca viene riletta attraversola lente dell’esempio mosaico cfr. J.-J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement dePologne, in Œuvres complètes, cit., vol. III, pp. 956-7, dal forte saporespinoziano, e ivi, p. 962.

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luogo, mœurs, coutumes e usages compaiono decine di volte nel corso

di De l’esprit, ma vengono molto di rado messi direttamente a tema. In

secondo luogo, la stessa ricchezza dei temi connessi a questi

concetti rischia di oscurare il nucleo teorico attorno al quale si

articola la varietà delle loro occorrenze. In terzo luogo,

l’originalità e il rigore di Helvétius è su questo punto

tutt’altro che immediatamente evidente: il filosofo sembra

talvolta limitarsi a ripetere dei luoghi comuni, e l’assenza di

una vera rielaborazione comporta oscillazioni che rendono spesso

difficile la ricostruzione di un quadro teorico coerente e

compatto. Queste difficoltà, tuttavia, non sono insormontabili.

Esistono infatti dei luoghi nei quali il riferimento alla

questione dei costumi occupa direttamente il centro della scena, e

che lasciano emerge un significato più personale e più

strutturato, e qui di seguito cercherò appunto di esplicitare la

problematica alla luce della quale diviene visibile la relativa

coerenza dei riferimenti ai costumi sparpagliati nel corso

dell’opera e la relativa originalità del discorso che attraverso

di essi si articola. A questo fine mi concentrerò su De l’esprit e sul

complesso rapporto che nella trattazione dei costumi viene a

stringere assieme natura e storia, morale e politica. In un primo

momento metterò in evidenza le condizioni alle quali i costumi,

con la loro efficacia sulle passioni da cui dipendono la

formazione delle identità personali e quella dei legami sociali,

possono essere a seconda dei punti di vista esclusi ed inclusi

nell’ambito dei fenomeni naturali. In questa direzione chiarirò

innanzitutto la distinzione tra un’accezione più stretta e una più

ampia del concetto di natura umana, per poi mostrare in che modo

questa distinzione consenta di pensare assieme la discontinuità e

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la continuità tra ciò che dipende dalla natura e ciò che dipende

dai costumi. In un secondo momento metterò a fuoco il ruolo

anfibio giocato dai costumi nella definizione della morale, della

politica e del loro rapporto. In questa prospettiva farò luce

sull’attrito che rischia di generarsi tra un’interpretazione dei

costumi come risultato di automatismi indipendenti dalla volontà e

dalla coscienza degli attori e una concezione dei costumi come

opera di un’attività demiurgicamente trasparente a sé stessa, e il

modo in cui questa duplicità si ripercuote su quella tra una

morale intesa come scienza descrittiva e una morale intesa come

scienza normativa, tra una politica pensata come riflesso di

dinamiche sociali autonome e una politica pensata invece come

principio e condizione di ogni formazione sociale. Per concludere,

indicherò la fonte della possibile unificazione tra queste

posizioni apparentemente eterogenee nell’idea di una politica

illuminata, in grado di realizzare la finalità morale di una

generalizzazione della virtù e della felicità proprio perché non

pretende di opporsi violentemente ai meccanismi di produzione dei

costumi, ma li comprende nella loro necessità e nel loro

radicamento nella natura affettiva dell’uomo.

II. I costumi tra natura e storia

Per comprendere la funzione teorica assegnata ai costumi occorre

partire dal concetto di natura umana, cercando di cogliere non

solo il suo significato più generale, ma anche la diversità delle

sfumature e degli usi di cui esso è suscettibile. Nel suo

significato più generale la natura umana può essere qualificata

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come «éternelle, inaltérable», «invariable», perché indica

l’insieme di proprietà «communes à tous les siècles et à tous les

pays», che appartengono a «tous les hommes en général» o più

semplicemente all’«homme en général»22. Le differenze che

distinguono gli individui non rappresentano un «puro dono della

natura», ma derivano dall’educazione, pensata in senso largo come

la totalità dei fattori sociali e istituzionali che contribuiscono

alla formazione delle identità personali23. «Les hommes», in questo

senso, «sont semblables à ces arbres de la même espèce, dont le

germe [est] indistructible et absolument le même», e non assume

«une infinité de formes différentes» se non perché non è mai «semé

exactement dans la même terre, ni précisément exposé aux mêmes

vents, au même soleil, aux mêmes pluies»24. Il rapporto tra natura

e storia deve allora essere pensato nel segno di una

divaricazione, come sembra richiedere l’opposizione tra

l’identità, l’universalità e l’eternità dei doni della natura e la

diversità, la particolarità e la contingenza dei prodotti storici,

oppure nel segno di una continuità tra il germe e i suoi frutti?

22 C.-A. Helvétius, De l’esprit, texte revu par J. Mouteaux, Paris, Fayard, 1988,pp. 178, 182. Sull’uomo in generale cfr. ad esempio pp. 104, 179, 450.23 A partire dalle reazioni immediate di Rousseau o Diderot e fino ai giorninostri, quella di educazione è stata una delle nozioni più discusse del pensierodi Helvétius. Per una ricostruzione complessiva vedi, recentemente ristampato,I. Cumming, Helvetius: his life and place in the history of educational thought, London, Routledge,2001.24 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 233. Su questo punto cfr. J.-C. Bourdin, Helvétius,l’idée d’une science de l’homme et la politique, in S. Audidière et al., Matérialistes françaises duXVIIIe siècle. La Mettrie, Helvétius, d’Holbach, Paris, Puf, 2006, pp. 167-192. Bourdinsottolinea il carattere ‘epistemologico’ della tesi dell’eguaglianza naturaletra gli uomini: le differenze ‘naturali’ tra gli uomini esistono, ma sonotrascurabili per una scienza dell’uomo che assume il proprio senso solo inrapporto alla scienza del governo, che ha bisogno di presupporre una egualeperfettibilità degli uomini. Questa lettura coglie bene il tipo di approcciotenuto nel terzo Discours. Il paragone tra gli uomini e gli alberi di una stessaspecie mi sembra tuttavia testimoniare l’impegno ‘ontologico’, e nonsemplicemente epistemologico, della tesi dell’identità della natura umana.

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Un aspetto importante del discorso helveziano è rappresentato

dal fatto che il significato più astratto della nozione di natura

umana riconosce almeno due accezioni più specifiche, che ricordano

da vicino la distinzione stabilita nel secondo Discours russoiano tra

nature originaire e nature actuelle25. Secondo la prima e più ristretta

accezione, la natura umana include unicamente quei «doni della

natura» che sono debitori della loro universalità al loro

carattere originario, e che sono quindi direttamente connessi alla

sensibilità fisica e all’organizzazione del corpo: le sensazioni

di piacere e di dolore connesse alla soddisfazione o alla

frustrazione dei bisogni fisici l’amore e l’odio per queste

sensazioni, il desiderio e l’avversione per le loro cause

esterne26. Questa prima accezione separa la natura umana dalla

storia: da una parte i fenomeni naturali come la fame, la sete,

l’aspetto fisico dell’amore, o ancora quella pigrizia che è

tutt’uno con il bisogno di riposo, dall’altra le inclinazioni

«fattizie» che dipendono dalla costituzione delle società. Una

seconda e più ampia accezione del concetto permette però di

riferire alla natura umana caratteristiche che altrove sono

esplicitamente indicate come fattizie. Amor proprio e orgoglio non

sono sentimenti originari, ma possono ciò nonostante essere

qualificati come «gravé[s] en nous par la nature» o «necessaire[s]

et inhérent[s] à la nature humaine» nella misura in cui l’orgoglio

è una modificazione dell’amor proprio occasionata da specifiche

25 Cfr. Disc., p. 123, dove ci si propone di distinguere «ce qu’il y ad’originaire et d’artificiel dans la Nature actuelle de l’homme». Distinguereall’interno della “natura attuale dell’uomo” ciò che è originario da ciò cheinvece non lo è significa respingere la riduzione del naturale all’originario. 26 A proposito del ruolo della sensibilità fisica come principio dei pensieri edelle azioni dell’uomo vedi J. O’Neal, Le principe feconde de la sensibilité physique selonHelvétius, in «Corpus», 14-15, 1990, 111-28, N. Maruyama, Helvétius: les causes et lesprincipes dans le projet d’une science morale, in «Corpus», 40, 2002, pp.215-44.

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condizioni sociali, ma l’amor proprio deriva dall’amore per il

piacere e dall’odio per il dolore27. Come «il germe» dell’orgoglio

è racchiuso nell’amor proprio, così «il germe» dell’amor proprio è

racchiuso nella sensibilità fisica dell’uomo28. È dunque vero che

le passioni fattizie non sono dei «purs dons de la nature», e «ne

nous sont donc pas immédiatement données par la nature», perché

«leur existence […] suppose celle des sociétés»29. Questo però non

esclude, ma proprio al contrario implica, che esse rappresentino

dei «dons de la nature» e ci siano «données par la nature»

attraverso la mediazione della società, che costituisce il terreno

fertile nel quale i germi impliciti nella natura possono

attecchire e svilupparsi. Pur assumendo forme differenti a seconda

delle diverse pressioni ambientali, le passioni fattizie

rappresentano di per sé delle costanti psicologiche che non

contraddicono l’universalità della natura umana. Il fattizio non

si oppone qui all’originario, perché il seme contiene la

possibilità del fiore che ne rappresenta lo «sviluppo» e l’origine

non è separata da ciò che ne origina, ma continua a essere

presente e operante al suo interno30.27 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 45 et 92.28 Diversamente da quanto ritiene M. Duchet, Anthropologie et histoire au siècle des lumières.Buffon, Voltaire, Rousseau, Helvétius, Diderot, Marspero, 1971, pp. 379 e sgg., la metaforadel «germe» e del suo sviluppo non mi pare implicare un «progrès continu del’espèce», che da un «dégré zero des sociétés humaines» arriverebbe fino alle«société plus évoluées» passando per una serie di stadi che si ripetono sempreuguali in tutte le società. In questo senso concordo con S. Audidière, Naturehumaine et diversité: la facticité selon Helvétius, in «Cromhos», 10, 2005, pp. 1-10, secondola quale in Helvétius le differenze tra le società «ne sont pas pensables commedes répétitions plus ou moins achevées ou plus ou moins parfaites d’une uniquegenèse type» (ivi, p. 1). Nel suo articolo, S. Audidère nota l’oscillazione trala riduzione della natura umana alla sola sensibilità fisica e la proliferazionedei tratti fattizi indicati come ‘naturali’, ma si limita a qualificare questaoscillazione come «curieuse».29 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 289 et 418.30 Concordo con gli autori che interpretano il riferimento al germe e al suosviluppo come delle metafore morte, come testimonia tra l’altro anche la criticaalla nozione di facoltà. Cfr. J. Moutaux, Helvétius et l’idée de l’humanité, in «Corpus»,

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Questa oscillazione tra due diversi usi del concetto di natura

umana comporta precise conseguenze sul piano del rapporto tra

natura e storia. Nella sua accezione più ristretta, infatti, la

natura umana è unita alla storia da un rapporto di reciproca

esclusione, che spalanca un abisso tra l’eternità, l’universalità

o l’inalterabilità dell’una e la temporalità, la contingenza e le

alterazioni dell’altra, ma nella sua accezione più ampia si rivela

vincolata alla storia da un rapporto più complesso. La natura e le

sue invarianti non sono esterne alla storia, perché lavorano al

suo interno come il suo principio, la sua fonte, il suo

fondamento, e le formazioni storiche devono essere comprese nella

loro particolarità e contingenza come altrettante rimodulazioni

della loro necessità e della loro generalità. Neppure la storia,

però, è esterna alla natura, perché alcune caratteristiche

fattizie e storicamente determinate possono essere incluse

nell’ambito del naturale in quanto determinazioni o sviluppi delle

caratteristiche originarie e in ragione della loro sia pur

relativa costanza e universalità. Anche se non giunge mai a

mettere seriamente in discussione l’esistenza di una prima natura,

Helvétius può comunque citare Pascal per affermare che i costumi

possono fissarsi in una seconda natura31. Questo riferimento è

sintomatico, e invita a rivolgersi alla questione dei costumi. In

cosa consistono i costumi, qual è la loro funzione, e in che modo

la loro trattazione si innesta nella problematica del rapporto tra

7, 1988, pp. 31-54, e in particolare ivi, pp. 51-3; S. Audidière, L’épuisementmatérialiste de la philosophie des passions dans le gouvernement des positions: la philosophie d’Helvétius,in. Desjardins, L. Dumouchel (dir.), Penser les passions à l’âge classique, Paris,Hermann, 2012, pp. 87-105, e in particolare pp. 90 e 94. Su questo punto vedianche J. O’Neal, Le principe feconde de la sensibilité physique selon Helvétius, cit., p. 116.31 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 212 et 504.

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natura e storia, della naturalizzazione della storia e della

storicizzazione della natura?

L’aspetto decisivo dei costumi è senza dubbio la loro capacità

di tenere assieme la formazione delle identità personali e quella

dei vincoli sociali. Volendoli definire si potrebbe dire che per

Helvétius i costumi costituiscono innanzitutto un fattore di

selezione dei «piaceri dei sensi» e delle passioni che ne

derivano, in grado di favorire od ostacolare il «développement des

passions ou des sentiments»32 : di fomentare le passioni o metterle

in catene, di incanalarle verso mete coerenti o incoerenti con

l’interesse pubblico, determinarle a cedere il passo a passioni

meno violente o contribuire ad occultarle. I costumi possono ad

esempio consentire i rapporti omosessuali nella Grecia antica e

interdirli nell’Europa settecentesca, trasformare l’ambizione in

«désir des grandeurs» e «amour de la patrie» premiandone i

successi con la pubblica ammirazione o costringerla ad ardere come

«ces feux souterraines allumés dans les entrailles de la terre»33.

La loro interferenza sulle passioni che strutturano le

soggettività individuali, però, è strettamente intrecciata con la

loro efficacia nella determinazione dei rapporti intersoggettivi,

delle virtù richieste da questi rapporti, dei criteri di

valutazione che consentono di riconoscere e di ricompensare tali

virtù34. Si pensi in tal senso al modo in cui la diversità dei32 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 435.33 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 139 et sqq., 324, 435, 454.34 Mi sembra inadeguata una lettura marxista ortodossa come quella proposta inKh. Momdjian, La philosophie d’Helvétius, Moscow, Editions en langues étrangeres, 1959,pp. 222 e sgg., secondo la quale Helvétius giungerebbe a pensare l’uomo come unprodotto della natura, ma non della concretezza dei rapporti sociali, e riducela società a una composizione meccanica di individui essenzialmente biologici.Del resto, l’attenzione di Helvétius alla dimensione sociale della vita umanaera già stata notata in K. Marx, F. Engels La sacra famiglia, trad. it di A.Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 19722 p 171. Ugualmente inadeguata mi sembral’attribuzione a Helvétius di un rigoroso individualismo metodologico, presente

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costumi può incentivare o disincentivare i rapporti di amicizia. I

costumi della cavalleria univano i cavalieri tramite passioni

forti che derivavano da una «communauté de gloire et de danger», e

favorivano un’amicizia basata sulla lealtà e sul valore, che

poteva a giusto titolo essere venerata come una virtù35. I costumi

attuali sono invece meno favorevoli alle passioni forti,

ostacolano qualunque comunanza di interessi orientando i desideri

su ricchezze che diversamente dalla gloria non possono essere

condivise, e fanno in modo che abbiamo «moins besoin d’amis que de

protecteurs», e comunque «ne demandons plus les mêmes qualités à

nos amis»36. La valorizzazione delle qualità richieste

dall’amicizia rappresenta un caso particolare della più generale

capacità dei costumi di influenzare le valutazioni che gli uomini

danno gli uni degli altri, e di condizionarne la socializzazione.

Come in Montaigne e Rousseau, infatti, spetta ai costumi la

determinazione delle forme nelle quali la circolazione sociale

della stima e dell’ammirazione promuove la virtù o il vizio

premiando con la ricompensa simbolica del riconoscimento le

condotte congruenti con l’utilità pubblica o quelle indirizzate

esclusivamente all’utilità dei privati37.

in D. Wootton, Helvétius. From radical enlightenment to revolution, 28.3 (2000), pp. 307-36.Può infatti essere vero, come sostiene Wootton, che Helvétius «rigorouslyreduced questions about social behaviour to questions about the motives,experiences, and interests of individuals» (Ivi, p. 312), ma è anche vero che lacentralità delle passioni fattizie testimonia che questi motivi, questeesperienze, questi interessi sono inconcepibili nella loro concretezza al difuori delle condizioni sociali che li determinano: non esiste un individuoseparato dalle passioni, socialmente condizionate, che ne strutturanol’identità. 35 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 318.36 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 318-9.37 Costumi che onorano il denaro più della virtù producono avari che ricercano lericchezze con la stessa foga con la quale i romani si vergognavano dipossederne, e «il n’est point de crimes auxquels on ne prodigue des eloges»,quando per un popolo schiavo «la bassesse est devenue mœurs». Sulla posizione diHelvétius nella genealogia moderna del concetto di riconoscimento cfr. C.

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Si tratta allora di capire se il riorientamento impresso dai

costumi alla ricerca dei piaceri e alle formazioni soggettive o

intersoggettive sia concepito da Helvétius nei termini di una

opposizione, di una complicità, o ancora di un più complesso

rapporto tra natura e storia. In questo senso è possibile

concentrarsi sul problema della diversità dei costumi e dei

giudizi. Il punto di partenza di Helvétius è lo stesso di

Montaigne, e consiste in una vera e propria spettacolarizzazione

della diversità dei costumi e dei giudizi, che tanta parte occupa

nelle pagine di De l’esprit. Ci sono in effetti infiniti «peuples qui

n’ont pas la même idée que nous de cette […] corruption des

mœurs», e nei quali dei costumi che a noi sembrano corrotti sono

autorizzati dalla legge o consacrati dalla religione38.

Contrariamente al vero «usage du monde», «toujours fondé sur la

raison» e in grado di piacere universalmente proprio perché la

ragione è «indépendante […] des coutumes» e «n’est nulle part

étrangere et ridicule», «l’usage d’un pays, inconnu à un autre

pays, rend toujours l’observateur de cet usage d’autant plus

ridicule, qu’il y est plus exercé et s’y est rendu plus habile», e

spinge le nazioni a imitarsi l’un l’altra «dans le mépris

réciproque qu’elles ont pour leurs mœurs»39. Ogni uomo guarda «sa

Lazzeri, Esquisse d’une histoire des théories de l’estime sociale, in D. Antoine-Mahut, E.Renault, D. Toto, La reconnaissance avant la reconnaissance, Lyon, ENS Editions (diprossima pubblicazione). Cfr. Montaigne, Essays, cit., p., 580, dove si dice chei costumi determinano cosa viene giudicato abominevole e cosa conferisce stima,e Rousseau, Le contract social, cit., p. 458, dove si legge che «il est inutile dedistinguer les mœurs d'une nation des objets de son estime».38 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 140.39 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 106, 96. Si vede qui che nella sua universalitàla ragione non è in nessun luogo ridicola o straniera, mentre i costumi, nellaloro particolarità, sono ridicoli e stranieri in tutti i paesi diversi da quelloche li adotta. Si produce così un paradosso. Da un lato, la ragione e la suauniversalità sono soffocati dall’adozione di qualsivoglia costume, nella suaparticolarità idiosincratica: la ragione è senza costume, e il costume senzaragione. Dall’altro lato, l’uomo che adotta un costume non può fare a meno di

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société comme l’univers par excellence», suppone che i suoi usi

debbano «plaire universallement» anche se in realtà tendono a

«déplaire le plus généralement», e condanna le coutumes diverse

dalle sue come «bizarres», «ridicules», «cruelles», «odieuses»,

«folles», «barbares»40.

L’atteggiamento helveziano di fronte a questa diversità dei

costumi e dei giudizi assume un duplice andamento, nel quale un

aspetto critico, teso a discriminare il naturale dallo storico, si

accompagna a un aspetto ricostruttivo, teso invece a una

riconciliazione dei due termini. A un primo livello, infatti,

l’autore riconduce a una follia derivante dall’«intérêt de leur

vanité» la tendenza delle nazioni a «mépriser les mœurs et les

usages différentes des leurs», e a «regarder comme un don de la

nature» le virtù legate a questi usi e costumi, sulle quali fa

leva il loro senso di superiorità41. L’interpretazione di queste

virtù come un dono della natura rappresenta dunque il riflesso

ideologico di uno specifico interesse, il risultato del meccanismo

di deformazione attraverso il quale la vanità spinge a

naturalizzare un risultato dei costumi e della loro efficacia

sull’affettività degli uomini, e a occultare in questo modo

l’unicità e l’uguaglianza della natura umana. Questa critica della

essenzializzazione delle differenze che distinguono gli individui

vedere quello che non lo adotta come straniero e ridicolo, ed è allora difficilecomprendere come la ragione e il suo portavoce possano non apparire stranieri eridicoli agli occhi degli uomini sottomessi ai costumi. Come può la ragioneevitare di essere interpretata come una particolarità tra le altre da coloro cherinunciano alla ragione nell’atto stesso di adottare un costume? Come nota J.Moutaux, Helvétius et l’idée de l’humanité, cit., pp. 42 e 45, il riferimentoall’universalità della ragione rende evidente che l’attenzione prestata allovarietà e alla storicità dei costumi non riduce il pensiero di Helvétius a «uneethnologie comparée, qui porrait éventuellement s’achever en un scepticismephilosophique».40 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 96, 194, 129, 130, 132, 158.41 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 198.

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o le nazioni presuppone una netta opposizione tra natura e storia,

tra l’identità e l’universalità dell’una e le diversità introdotte

dall’altra: ciò che appare come un «puro dono della natura»

costituisce in realtà il risultato di un processo storico, e non può,

come tale, appartenere alla natura dell’uomo. A un secondo

livello, però, la compatibilità tra natura e storia esclusa da

questo approccio demistificatorio mostra di essere implicita nel

riferimento all’interesse quale causa della rigorosa «necessità»

alla quale sono assoggettate la formazione, la dissoluzione e le

variazioni dei costumi dei popoli. «Les coutumes, même les plus

cruelles et les plus folles, ont toujours pris leur source dans

l’utilité […] du public»42. Non è dunque «sans motifs», ma solo in

quanto «éclairés par leurs intérêts», che i popoli contraggono

certi costumi piuttosto che altri43. Il costume apparentemente

bizzarro conformemente al quale gli spartani punivano unicamente i

furti maldestri è reso «très utile» dalla sua capacità di

promuovere la virtù del coraggio44. Il costume apparentemente

abominevole e atroce dei popoli che uccidono i vecchi divenuti

inadatti alla caccia è teso a risparmiare loro «la durée et la

violence des douleurs» e a sottrarli «aux horreurs d’une mort trop

cruelle et trop lente»45. Questi costumi ci appaiono irrazionali o

immorali solo nella misura in cui «nous ignorons les motifs de

leur établissement» e li percepiamo dunque come frutto di un

hasard, ma questa apparenza decade non appena li comprendiamo a

partire dalle loro cause, nel loro legame con l’interesse che li

determina e nella necessità dischiusa da questo legame46.

L’interesse, che per Helvétius è in ultima istanza sempre42 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 132.43 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 129.44 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 129.45 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 130.

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riconducibile all’amore per il piacere, è il principio naturale

dal quale dipende la variopinta molteplicità dei costumi, delle

passioni che essi incentivano, delle virtù che essi promuovono, la

forza unitaria e invariabilmente identica a sé stessa che opera

all’interno della varietà delle proprie espressioni storicamente

determinate.

Il discorso helveziano integra così il presupposto scettico

della variabilità dei costumi e della loro estrema efficacia nella

differenziazione delle opinioni delle nazioni con una critica di

chiaro stampo razionalista, testimoniata dal modo in cui viene

dichiarato folle non più, come in Montaigne, il tentativo di

sottrarsi alle regole imposte dai costumi, ma i giudizi che questi

costumi dispongono a formare, e dalla tendenza a interpretare

questi stessi giudizi come un’espressione ancora confusa della

razionalità di un interesse. Il doppio andamento di questo

discorso rende inoltre visibile la complicazione del rapporto tra

natura umana e storia introdotta dal discorso sui costumi. La

critica alla naturalizzazione delle qualità derivanti dai costumi

mobilita l’accezione più ristretta della natura umana, ed è

finalizzata a escludere il carattere originario di quelle

diseguaglianze che rappresentano in realtà dei risultati di un

processo storico. La spiegazione della varietà dei costumi e del

disprezzo che la accompagna a partire dal principio

dell’interesse, al contrario, chiama in causa l’accezione più

ampia della natura umana, ed è finalizzata a una fondamentale

naturalizzazione della storia e dei suoi prodotti, compresa

l’illusione ideologica che spinge i popoli a interpretare le virtù

46 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 130. Cfr. ivi, p. 422, dove l’hasard vienedefinito canonicamente come «enchaînement des effets dont nous ignorons lescauses».

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promosse dai costumi come dei «dons de la nature» e a disprezzare

gli uni i costumi degli altri47. Questa naturalizzazione della

storia non contraddice la precedente polemica contro la

naturalizzazione delle diseguaglianze e più in generale delle

qualità che singolarizzano i soggetti individuali e collettivi,

perché fa leva su una diversa accezione del concetto di natura e

non pretende di separare queste qualità dal divenire che le ha

originate, di farne qualcosa di originario, ma cerca di mettere in

luce la legalità nascosta che presiede alla loro produzione, gli

aspetti più universali e costanti dei processi storici. I costumi,

le forme dell’affettività che essi contribuiscono a plasmare, le

strutture ideologiche che accompagnano queste formazioni

affettive, non costituiscono la negazione della natura umana, ma

le sue espressioni, i suoi sviluppi, le forme diversificate in cui

i germi contenuti nella natura dell’uomo in generale giungono a

fiorire e le circostanze a stabilizzare una seconda natura

irriducibile ma non contraddittoria rispetto alla prima. Come in

Spinoza o Montesquieu, le variazioni dei costumi non rappresentano

il luogo in cui l’universalità di quella natura o della ragione si

occulta e diviene inefficacie, ma quello in cui si instanzia

secondo modalità di volta in volta differenziate, e, nondimeno,

costantemente conformi a una medesima legalità. Ad emergere, così,

è una concezione naturalistica della storia, che assegna

all’interesse lo stesso ruolo che la fisica assegna alle leggi del

moto nella ricostruzione del mondo fisico, e consente di cogliere47 L’illusione che spinge i popoli elevare «au rang des dons de la nature» levirtù promosse dai costumi e il disprezzo che essi nutrono l’uno verso i costumidell’altro possono essere a loro volta naturalizzati, perché rappresentano deglistrumenti attraverso i quali l’interesse contribuisce a consolidare i costumi incui si esprime, e dunque qualcosa di naturale nella seconda e più ampiaaccezione del termine, derivante da un seme naturale e comune proprio per questoa tutti i popoli.

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la legalità universale e invariante che caratterizza i mutamenti

che sconvolgono il mondo umano non meno di quelli del mondo del

mondo della materia.

Per concludere questa sezione del presente lavoro vale la pena

di osservare un rischio implicito nel pensiero di Helvétius. I

costumi di tutti i popoli manifestano a chiunque la sappia

cogliere una nascosta razionalità, perché i costumi hanno per

«fondement» l’utilità pubblica (reale o apparente), e questa

utilità rappresenta il «motif» che determina la loro adozione:

spinti dai loro costumi, i popoli hanno sempre inteso per virtù il

desiderio di una felicità generalizzata, e razionalmente

incentivato con la loro stima la razionalità di questa virtù48.

Ora, l’utilità pubblica rappresenta il principio della vera

morale, e da questo punto di vista non esiste costume, per quanto

bizzarro, che non abbia questo principio a proprio fondamento. I

popoli appaiono allora come soggetti collettivi che in maniera sia

pure solo oscuramente consapevole agiscono in maniera intenzionale

e in base a fini di per sé razionali. Helvétius sembra in questo

modo scivolare in una concezione strettamente metafisica e

teleologica della storia, che riduce la totalità delle mutazioni o

delle rivoluzioni che si consumano al suo interno ad altrettante

manifestazioni di un principio unitario e sempre identico a sé

medesimo, ad altrettante espressioni dell’interesse generale e

della moralità che attraverso i costumi orienta gli individui al

perseguimento di questo interesse49. Se da un lato «c’est dans le

plus grand nombre que réside essentiellement la force, et dans la

pratique des actions utiles au plus grand nombre que consiste la48 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 129. Cfr. N. Maruyama, Moral e a filosofia política deHelvétius: uma discussão com J.-J. Rousseau, São Paolo, Humanitas, 2005, pp. 245-6. 49 Questa interpretazione è presente ad es. in N. Maruyama, Helvétius: les causes et lesprincipes…, cit., pp. 243-4.

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justice», e se dall’altro i costumi inclinano sempre gli individui

a questa pratica di queste azioni, si dovrebbe allora concludere

che «la justice est, par sa nature», non soltanto «toujours armée

du pouvoir nécessaire pour réprimer le vice et nécessiter les

hommes à la vertu»50, ma anche sempre realizzata: che la storia,

nascostamente orientata dalla natura e dai suoi fini, non è altro

che il teatro della costante, democratica realizzazione della

giustizia, e che questa realizzazione non ha nessun bisogno

dell’intervento di istituzioni in grado di indirizzare

dall’esterno le condotte degli individui, perché trova nei costumi

e nell’interesse che li anima la propria ragione sufficiente.

Cos’è che complica l’ontologia sociale apparentemente piatta

implicata dai passi che riducono i costumi all’espressione lineare

dell’interesse generale, e impedisce alla storicizzazione delle

morali di convertirsi in una moralizzazione della storia che rende

la dimensione politica impensabile? Questo interrogativo ci invita

ora a passare dalla considerazione dei costumi dal punto di vista

del rapporto tra natura e storia a quello del rapporto tra morale

e politica.

III. I costumi tra morale e politica

Quando ci si avvicina a De l’esprit non si può evitare l’impressione

di una certa equivocità, che sembra segnare i principi generali

della filosofia morale di Helvétius non meno delle loro

applicazioni concrete. Queste oscillazioni sono in larga misura

riconducibili alla tensione centrale che sembra accendersi tra due

accezioni della scienza morale. A un’accezione descrittiva, che

50 Cfr. Helvétius, De l’esprit, cit., p. 210.

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interpreta l’interesse come la causa delle condotte umane, e che

lavora nei passi in cui viene enunciata la necessità di

comprendere l’universo morale a partire da regolarità analoghe a

quelle che strutturano l’universo fisico51, si oppone infatti

un’accezione normativa, che assume invece la nozione di interesse

come un criterio di valutazione, e lavora nel riferimento al

compito morale di produrre quella convergenza tra interesse

particolare e interesse generale dalla quale «tous les hommes

seraient nécessités à la vertu»52. Questa apparente

indeterminazione concettuale costituisce il fulcro attorno al

quale si articolano una serie di ambiguità strettamente connesse

tra loro. Per mettere a fuoco queste ambiguità, e capire se esse

non nascondano una più profonda coerenza, bisogna rivolgersi al

legame che unisce l’oscillazione tra due accezioni della morale a

quella tra due possibili interpretazioni della causalità che

sorregge la formazione dei costumi e tra due possibili direzioni

del rapporto tra costumi e istituzioni politiche.

L’accezione descrittiva della morale interpreta i costumi come

il risultato di una causalità analoga a quella della natura, e51 La conformità della scienza morale al paradigma rappresentato dalla scienzafisica, enunciata nel testo programmatico della Préface, resta costante in tuttal’opera. Cfr. Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 59, 268, 290, 262. Sull’esposizionedi Helvétius al dibattito scientifico del suo tempo cfr. A. Postigliola, La cittàdella ragione. Per una storia filosofica del settecento francese, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 121-36.Sul ruolo di spartiacque di Helvétius nella storia del concetto di «interesse»cfr. A.O. Hirschman, Princeton, NJ, Princeton UP, trad. it. di S. Gorresio, Lepassioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano,Feltrinelli, 1979, pp. 37-8. L’opposizione tra passioni e interessi chestruttura tutto il libro di Hirschman non gli permette di coglierel’inseparabilità dei due concetti, che invece caratterizza tutto il discorso diHelvétius. 52 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 203. Su questa oscillazione tra un caratteredescrittivo e uno normativo cfr. Bourdin, Helvétius, l’idée d’une science de l’homme et lapolitique, cit., che parla di “fatti-norme”, e da J. Moutaux, Helvétius et l’idée del’humanité, cit., che distingue tra due usi, strettamente connessi, della nozionedi interesse: uno di tipo teorico o esplicativo e l’altro di tipo pratico onormativo.

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identifica lo scopo della morale con la comprensione di questa

causalità. Coerentemente con questa accezione, la mutazione dei

costumi può rappresentare la conseguenza involontaria di un

mutamento sociale come la diffusione del lusso, o di uno culturale

come il progresso delle scienze e il successo della «secte de

Carnéade»53. La causalità che regge questi processi è analoga a

quella naturale perché i costumi e le loro trasformazioni

rappresentano gli effetti collaterali di una causalità complessa e

irriflessa, il cui enchaînement inconnu si presenta innanzitutto nella

forma di un hasard, e sfugge alle previsioni e al controllo

dell’uomo54. Le mœurs costituiscono l’oggetto della «science de la

morale» nello stesso senso in cui le «lois d’un pays»

costituiscono l’oggetto della «science de la législation», nel

senso cioè in cui la «science de la morale» rappresenta una

scienza non meno positiva di quella della legislazione, che si

risolve nella contemplazione dello «spectacle des mœurs» e nel

paragone tra le loro «différences»55: nella conoscenza comparativa

della molteplicità delle morali incarnate dalla diversità dei

costumi, nella spiegazione avalutativa dei criteri di valutazione

fattualmente adottati, nella ricostruzione della interna

razionalità dei processi di produzione e decomposizione dei

sistemi normativi storicamente costituiti.

L’accezione normativa della morale interpreta invece i costumi

come tali da dover essere consapevolmente accolti o respinti da

una comunità a seconda della loro corrispondenza con la finalità53 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 30, 171, 20 n. Va osservato che gli stessifattori che in questi passaggi compaiono come cause della mutazione dei costumiricompaiono in altri passaggi come effetti o correlati di queste mutazioni.54 Cfr. N. Maruyama, Helvétius: les causes et les principes…, cit., p. 240. 55 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 163, 108, 536. Allo stesso modo, i progressidella storia nella comprensione dei costumi «sont à la fois effet et cause desprogrès de la morale».

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morale dell’interesse generale. Riferendosi alle «maximes simples,

vraies, et à la portée de tous les esprits» che possono essere

derivate dal principio dell’interesse generale, e che nella loro

connessione definiscono un vero e proprio «catéchisme de probité»,

Helvétius enuncia un canone che permette di concepire la virtù

come «invariable dans l’objet qu’elle se propose» e variabile

«dans les moyens propres à remplir cet objet», e di valutare le

mœurs in qualità di mezzi più o meno adatti a promuovere la

«conformité […] de l’intérêt des particuliers avec l’intérêt

général», e con essa «le bonheur […] public»56. Questa accezione

normativa della morale non può accennare ai costumi come mezzi più

o meno adeguati a promuovere la virtù senza interpretarli come

l’effetto di una causalità diversa da quella naturale, il prodotto

di un’intenzionalità collettiva e di una soggettività in grado di

orientare consapevolmente il naturale corso degli eventi. Questa

oscillazione tra un carattere descrittivo e uno normativo della

morale, e tra una concezione dei costumi come prodotti di una

causalità di tipo naturale e una concezione degli stessi come

prodotti di una causalità di tipo intenzionale, si riflette in una

doppia visione del rapporto tra morale e politica.

La prima configurazione del rapporto tra morale e politica,

senza dubbio più marginale nelle pagine di Helvétius ma non per

questo priva di effetti, è quella che sulle orme di Montesquieu

riconosce una certa autonomia ai costumi e alle morali

storicamente determinate, e alla sfera sociale che essi

contribuiscono a regolare un certo primato rispetto alla sfera

giuridica governata dalle istituzioni. Si pensi al fondatore

dell’impero Inca, che si annuncia ai peruviani come il figlio del

56 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 158, 145.

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Sole e li persuade che le sue leggi gli sono state dettate da suo

padre. Questa menzogna, qualificata come utile e virtuosa nella

misura in cui garantisce a una buona legislazione una sacralità

che è tutt’uno con rispetto e osservanza, viene tuttavia criticata

nella misura in cui la feticizzazione della legge rischia di

rendere impraticabile ogni riforma, e non tiene conto del fatto

che «l’intérêt des états est […] sujet à mille révolutions», «les

mêmes lois et les mêmes coutumes deviennent successivement utiles

et nuisibles au même peuple», e devono poter «être tour à tour

adoptées et rejetées»57. Ciò che si accetta o si rifiuta è qualcosa

di per sé indipendente dall’accettazione o dal rifiuto, ed

Helvétius non può dunque pensare i costumi come qualcosa che lo

Stato è chiamato ad accogliere o respingere senza riconoscere loro

una certa autonomia, una certa capacità di opporsi agli arbitrari

tentativi di manipolazione che la politica pretende di

infliggergli. A conferma di questa resistenza vanno ricordati i

contesti che trasferiscono sui costumi la stessa feticizzazione

religiosa che l’utile menzogna dell’imperatore Inca ha garantito

alle leggi. In questi contesti si parla ad esempio di costumi

«auxquelles la superstition attache le nom de sacrées»: costumi

che, «peut-être utiles de leur établissement, sont devenues depuis

si funestes à l’univers», e che, «consacrées par leur antiquité ou

par la superstition, ont, par la négligence ou la faiblesse des

gouvernements, subsisté longtemps après que les causes de leur

établissement avaient disparu»58 . La loro autonomia consegna ai

costumi una forza di fronte alla quale le istituzioni possono

57 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 132-3. L’uso del topos dell’utile menzognapresente in questo passo conferma la lettura proposta in D.W. Smith, The “UsefulLie” in Helvétius and Diderot, «Diderot Studies», 14, 1971, pp. 185-195, secondo la qualeper Helvétius la menzogna può essere utile sul breve, ma non sul lungo termine. 58 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 136, 158.

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ritrovarsi in una posizione di «faiblesse». Gli «usages anciens»

che sono oggetto di una «stupide vénération» sono senz’altro

quelli che i sovrani devono indebolire per poter «assurer le répos

des peuples» e «la durée des empires», e riformando i quali

potrebbero «purger la terre de la plupart des maux qui la

désolent», ma sono per ciò stesso anche in grado di sottrarre i

popoli alla loro quiete e revocare in causa la durata degli

imperi. La violenza che sono atti a scatenare li dota infatti di

una autorità in grado di sfidare quella del legislatore: capaci di

«allumer des guerres longues et cruelles» e di occasionare «de ces

séditions qui […] ne peuvent réellement être prévues et calmées

que par des hommes d’un caractère ferme et d’un esprit vaste», i

costumi dannosi «subsistent […] par la crainte où l’on est de ne

pouvoir les abolir sans soulever les peuples toujours accoutumés à

prendre la pratique de certaines actions pour la vertu même»59. Del

resto, la stessa autonomia che fa della corruzione dei costumi un

fattore in grado di determinare la caduta degli imperi sembra fare

della loro integrità la base morale alla quale le istituzioni sono

debitrici della loro solidità60. Il ritmo naturale dell’evoluzione59 Cfr. Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 158-9, 60 In questo senso può essere sufficiente ricordare due passi. Per il primo, «lesfondements de ces états ne sont plus assurés que dans ces moments» in cui «lesmœurs […] ne sont pas […] corrompues», «l’intérêt particulier n’est pointentièrement détaché de l’intérêt public»: il fondo dello Stato può allora esseretranquillo anche quando la superficie è squassata dalla tempesta (Helvétius, Del’esprit, cit., p. 363). Per il secondo, un fattore sociale come il lusso, con ladiseguaglianza che esso comporta, è in grado non solo di corrompere i costumidei cittadini, ma anche di generare un’«opposition […] entre leurs intérêts,leurs mœurs et leurs lois» nella quale un impero all’apice del fasto e dellagrandezza può trovare la ragione del proprio tramonto (Helvétius, De l’esprit, cit.,p. 159). Sul rapporto tra lusso e diseguaglianza cfr. G. Francioni, Gli illuministi elo Stato. Modelli politici fra utopia e riforma, Como-Pavia, Ibis, 2012, p. 106, dove siricorda come il problema, per Helvétius, non fosse il lusso in quanto tale, maquello del «costo, in termini politici e di rapporti sociali, di una situazionein cui il mercato spezzava l’interesse generale in interessi particolariconfliggenti». Vedi anche G. Imbruglia, Economia e politica nel De l'esprit di Helvétius, in«Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Napoli», 20,

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dei costumi trascina con sé le sorti delle istituzioni, e questa

naturalità comporta una concezione della storia come un processo

innanzitutto sociale, al quale la politica deve in qualche misura

adeguarsi: le istituzioni di un popolo, la sua storia politica,

sono radicate nei costumi che ne definiscono l’identità morale e

ne orientano la storia sociale.

La seconda configurazione del rapporto tra morale e politica –

quella sulla quale l’accento del discorso helveziano batte con più

forza e in maniera più esplicita, e che tornerà ad affacciarsi nei

lavori più maturi di Rousseau – pensa i costumi come degli

strumenti prodotti, impiegati e valutati dallo Stato, e priva la

sfera sociale regolata dai costumi di ogni autonomia dalla sfera

giuridica regolata dalle istituzioni. «Échauffé de la passion de

la vertu» e desideroso di fare di Sparta una repubblica di eroi,

Licurgo non procede per cambiamenti insensibili, ma sente che le

sue arringhe possono ispirare ai concittadini il medesimo

sentimento da cui è lui stesso infiammato, aprire la strada a un

mutamento consensuale dell’architettura costituzionale, e

imprimere ai costumi una rivoluzione che secondo la vie ordinarie

della prudenza avrebbe richiesto un periodo molto più lungo. La

figura di Licurgo acquista il proprio valore emblematico

nell’opposizione a quella del moralista61. Differentemente dal

legislatore spartano, il moralista non comprende che «la masse

d’une nation n’est jamais remuée que par la force des lois», i

costumi delle differenti nazioni costituiscono le «dépendances

1978, pp. 238-81.61 Sul ruolo della passione nell’oratoria politica e nella sua capacità disuscitare il movimento spontaneo delle masse cfr. P.-F. Moreau, La chevelure deSamson. Helvétius et la puissance des passions, in P.-F. Moreau, A. Thomson (dir.),Matérialisme et passions, Lyon, ENS Éditions, 2004, pp. 97-107, e in particolare pp.99-100.

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nécessaires de la différente forme de leur gouvernement», le

«conséquences» di cui le leggi costituiscono i «principes», e la

«reforme des mœurs» non può passare dalla declamazione contro i

vizi, ma solo dalla «reforme des lois»62. Il punto compreso da

Licurgo e perso di vista dal moralista è che «la science de la

morale n’est autre chose que la science même de la législation»:

ogni morale è vana, si riduce a una «science frivole» e inutile

alla loro virtù e alla felicità degli uomini, «si l’on ne la

confonde pas avec la politique et la législation», se non si arma

di istituzioni in grado di promuovere costumi adeguati alle sue

finalità63. «Ces principes une fois reçus», domanda retoricamente

Helvétius, «avec quelle facilité le législateur», illuminato dalla

conoscenza che deve avere dell’interesse pubblico, «supprimerait-

il les abus, réformerait-il les coutumes barbares»?64 Questa

seconda configurazione concepisce l’unità di morale e politica

come il risultato di un processo complesso. È senz’altro la morale

ad assegnare alla politica i suoi fini, ma la morale resta del

tutto impotente finché è separata dalla mediazione attraverso la

quale la politica riesce a incarnarla nei costumi, dalla

produzione di leggi e istituzioni atte a promuovere condotte

62 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 147, 150. Il rapporto causale che va dalleistituzioni ai costumi, pensati come mezzi in vista del bene pubblico, è statonotato da N. Maruyama, Moral e a filosofia política de Helvétius, cit., pp. 239 e 248-50, cheperò non scorge il rapporto inverso, che va dai costumi alle istituzioni. Ipassi che riducono i costumi a semplici conseguenze delle leggi e delle forme digoverno, e assegnano al legislatore una funzione demiurgica in rapporto aicostumi, sembrano confermare una lettura come quella presentata in I. Berlin,Freedom and its betrayal. Six enemies of human liberty, London, Chatto & Windus, 2002, pp.11-26, che interpreta il pensiero politico di Helvétius e il suo presunto idealetecnocratico come uno degli antecedenti dei ‘totalitarismi’ novecenteschi. Cometestimonia tra l’altro l’autonomia che abbiamo visto riconosciuta ai costumi,questa lettura si basa però su una semplificazione unilaterale del pensiero diHelvétius. 63 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 163, 152.64 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 158.

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conformi ai suoi fini. Diversamente dalla prima, dunque, questa

seconda configurazione del rapporto tra morale e politica assimila

la storia sociale a un riflesso di quella istituzionale, perché

riducendo i costumi a una specie argilla plasmata dalla potenza

demiurgica del legislatore riduce al contempo la sfera sociale da

essi regolata al sistema di relazioni solo apparentemente

spontanee nel quale la coercizione del diritto sedimenta in una

specie di seconda natura, e la nazione a una massa inerte e capace

di trovare il principio del proprio movimento solo fuori di sé,

nel motore della politica.

L’opera di Helvétius sembra lasciarci di fronte a un dilemma, e

invitarci a scegliere tra una visione descrittiva e una normativa

della morale; tra una ricostruzione della genesi dei costumi che

la fa dipendere da una causalità naturale e una che la fa

dipendere da una causalità intenzionale; tra una configurazione

del rapporto tra morale e politica nella quale l’integrità o la

corruzione dei costumi rappresentare il presupposto morale della

solidità o della fragilità delle istituzioni e una nella quale è

invece la politica stessa a dover stabilire dei costumi adeguati

alla vera morale. A mio avviso, però, questo aut-aut è solo

apparente, e si risolve quando si osserva la strategia complessiva

del discorso helveziano sulla morale, si inquadra il ruolo svolto

dalla conoscenza in questa strategia, e il modo in cui il primato

riconosciuto alla politica presuppone, e non nega, una relativa

autonomia dei costumi e delle logiche sociali. Come l’autore

stesso non manca di ricordare, Helvétius mira a superare due

posizioni contrapposte. La prima, che viene fatta risalire a

Platone, rappresenta una posizione di tipo razionalistico e

metafisico, che della virtù riesce a formare unicamente un’idea

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«purement abstraite et indépendante de la pratique»: il

disinteresse per la storia la conduce a misconoscere la diversità

della forme che la virtù può assumere in tempi e luoghi diversi, e

il disinteresse per la natura sensibile dell’uomo e per le

motivazioni reali che inevitabilmente ne orientano l’agire la

priva di ogni efficacia. La seconda posizione tiene conto della

storia, ma la considera solo superficialmente e senza scorgerne le

regolarità, e riesce dunque a concepire i criteri morali

storicamente determinati solo come il frutto del caso e del

capriccio. Il superamento dell’opposizione tra queste due

prospettive viene operato attraverso una connessione tra la

funzione esplicativa e funzione normativa dell’interesse, capace

di soddisfare la duplice esigenza di comprendere la storia a

partire dai principi che ne governano il corso, che abbiamo visto

risalire a Montesquieu, e di valutarne o riformarne i risultati

alla luce di un canone universale, i cui primi segni sono

rinvenibili in Hobbes e Descartes. Contro la tesi scettica secondo

la quale le morali sono esito del caso, e non esiste alcun

concetto universalmente valido di virtù, Helvétius sostiene che i

costumi possono essere scientificamente spiegati a partire

dall’interesse di cui sono espressione e moralmente valutati a

partire da un’idea universale di virtù come corrispondenza

all’interesse generale. Contro il razionalismo disincarnato che

oppone la virtù alle passioni, infatti, Helvétius segue la linea

tracciata da autori come Hobbes e Spinoza65, e sostiene che esiste65 Nonostante tutte le differenze tra i due autori, sia Hobbes che Spinozaradicano i precetti della ragione nella dimensione vitale del conatus. Cfr. inparticolare Hobbes, Leviathan, cit., p. 115, dove si identifica la legge di naturacon un precetto della ragione che vieta di fare qualunque ciò che è contrarioalla conservazione di sé, e B. Spinoza, Ethica, in Opera, im Auftrag derHeidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von Carl Gebhardt, 4 Bände,Heidelberg, Carl Winters Universitätsbuchhandlung, 1924, vol. II, pp. 222 e 225,

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sì una idea universale di virtù, ma la virtù che ognuno deve

perseguire non si oppone affatto all’aspirazione alla felicità

nella quale ognuno è naturalmente impegnato, della quale

rappresenta invece la forma più adeguata, e proprio per questo può

assumere forme storiche più o meno adeguate. La morale universale

prescrive la virtù come perseguimento dell’interesse generale nel

quale la felicità di ognuno diventa compatibile con la felicità di

tutti, e alla luce del quale le morali storicamente determinate

possono essere valutate a secondo della loro maggiore o minore

conformità rispetto all’interesse che ne rappresenta al tempo

stesso la causa ed il fine: l’adozione dei costumi è sempre

motivata dall’interesse generale, che però può essere più o meno

chiaramente compreso dagli attori. Questa strategia rende evidente

il carattere solo apparente dell’opposizione tra un’accezione

descrittiva della morale, e consente di superare le

indeterminazioni che sembrano strutturare il testo helveziano.

La relativa autonomia dei costumi e la loro dipendenza da una

causalità differente da quella istituzionale devono senz’altro

essere tenute ferme, perché gli interessi di cui i primi sono

espressione possono essere eterogenei rispetto a quelli che

sorreggono le istituzioni, e portatori di una forza in grado di

opporsi a quella dello Stato. I costumi «nuisibles», quelli che

possono «soulever les peuples» e mettere a repentaglio la «durée

des empires», sono in effetti costumi «consacrées par […] la

superstition» e oggetto di una «stupide vénération». Questi

costumi sono quelli custoditi da un clero originariamente

istituito dal legislatore a protezione della sacralità delle

dove si legge che la ragione non richiede nulla contro la natura, e lo sforzo diconservarsi è il fondamento della virtù.

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leggi, che in seguito giunge a formare una «société

particulière»66, a sottomettere le menti trattenendole

nell’ignoranza, a esercitare grazie alla credulità un potere in

grado di terrorizzare persino i sovrani e di sottomettere l’intero

corpo politico ai suoi interessi particolari. I costumi che si

oppongono al potere statuale sono tenuti in vita da una violenza

eterogenea rispetto a quella di cui la sovranità è supposta

detenere il monopolio, dall’egemonia di un interesse particolare

che riesce a farsi passare per generale. La concezione della

storia disegnata in De l’esprit non si lascia ridurre a una concezione

metafisica e teleologica, che renderebbe superflua ogni politica:

i popoli adottano certi costumi piuttosto che altri in base a

quello che appare loro come il loro interesse, ma questa apparenza

è socialmente, politicamente determinata da rapporti di potere.

Questo legame tra i costumi di una nazione e il potere di un certo

gruppo sociale conferma la necessità di intendere la «scienza

della morale» innanzitutto come scienza descrittiva, scienza della

causalità complessa e irriflessa che sotto la pressione degli

interessi e dei loro conflitti regola la produzione e la

dissoluzione delle morali incarnate nei costumi. Questa causalità,

che può essere detta “politica” nel senso non settecentesco in cui

noi pensiamo come politico qualunque conflitto tra gruppi sociali

e tra gli interessi e le visioni del mondo di cui essi sono

portatori, rappresenta una causalità naturale, relativamente

indipendente dalla coscienza degli attori e dall’intervento delle

istituzioni. La produzione, la conservazione e la trasformazione

dei costumi rappresentano il risultato di automatismi ciechi, dei

rapporti di forza che determinano l’interesse che di volta in

66 Sul concetto di società particolare cfr. Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 77-80.

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volta deve apparire come generale, le formazioni ideologiche tese

a confermare questa apparenza, le azioni che per via della loro

conformità a questo interesse e a questa ideologia possono essere

giudicate virtuose e incontrare la ricompensa della pubblica

stima, le soggettività e i vincoli sociali che questa economia

della stima contribuisce a strutturare e regolare, le istituzioni

chiamate a consolidare questa fitta trama.

Questa autonomia dei costumi, tuttavia, non esclude una politica

capace di dare senso all’accezione normativa della morale e corpo

a una causalità intenzionale, di creare istituzioni in grado di

riformare o rivoluzionare i costumi, favorire lo sviluppo di nuove

forme di vita, produrre i presupposti affettivi, pratici e

cognitivi di nuove forme di convivenza civile. «L’objet que se

proposent la politique et la législation est la grandeur et la

félicité temporelle des peuples», ed è indistinguibile dalla

finalità della morale67. «Le chef d’œuvre que doit se proposer la

morale», vale a dire favorire quell’incontro tra interessi

particolari e interesse generale dal quale gli uomini sono

«nécessités à la vertu», è al tempo stesso un capolavoro politico,

perché è lo stesso che «change les hommes en citoyens», e produce

le basi morali delle istituzioni e la cornice istituzionale della

moralità68. La politica, però, può adempiere alla propria missione

morale solo intervenendo nei naturali meccanismi di produzione e

di trasformazione dei costumi69: non pretendendo di sospenderne il67 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 149.68 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 203, 363. A questo proposito cfr. J. Domenech,L’éthique des lumières. Fondements de la morale dans la philosophie fançaise du XVIII e siècle, Paris,Vrin, 1989, p. 100, che parla di «indispendables prolongements politiques etlégislatifs de toute bonne morale».69 Questi meccanismi sono radicati nella natura stessa dell’uomo. La virtù è «ledésir du bonheur général», «la force de la vertu» è «toujours proportionnée audegré de plaisir» che l’individuo può attendersi come ricompensa del suoesercizio. Lo scopo politico e morale della promozione della virtù non si oppone

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corso in nome di un astratto dover-essere, ma comprendendoli nella

loro necessità e riuscendo sulla scorta di questa comprensione a

curvarli secondo la temporalità continua della riforma o quella

discontinua della rivoluzione, ma in ogni caso senza ricorso a una

violenza che non può fare a meno di suscitare resistenze. La

«scienza della morale», come scienza normativa che non si

distingue da una «science de la législation», scienza dei mezzi

giuridici o politici adeguati alla promozione della virtù,

presuppone la morale come scienza descrittiva, conoscenza,

radicata nella scienza dell’uomo, della causalità complessa che

presiede alla formazione dei costumi. «Des voyages faits chez les

nations voisines et dans lesquels ils compareraient les

différences dans […] les mœurs des peuples, seroient peut-être

plus propres à former des hommes d’état, que leur éducation

actuelle», e questo perché solo la loro comprensione permette ai

grands politiques o ai semplici hommes en place di convertire i processi

automatici di formazione dei costumi in processi coscientemente

orientati verso una moralità diffusa e la felicità pubblica, e la

storia come conflitto e dominio nella storia come cooperazione

verso una finalità condivisa70. Questa compenetrazione di verità e

politica trova una conferma, a contrario, nella figura del

dispotismo. «Mœurs corrompues» rappresentano l’espressione e il

supporto di tutti i poteri dispotici, tirannici, o arbitrari:

ovunque l’«intérêt du plus puissant» si distingua e si opponga

allo scopo della natura, perché «l’homme vertueux n’est point celui qui sacrifieses plaisirs […] et ses plus fortes passions à l’intérêt public, puisqu’un telhomme est impossible ; mais celui dont la plus forte passion est tellementconforme à l’intérêt général, qu’il est presque toujours nécessité à la vertu».Il capolavoro della morale e della politica non è dunque quello di unimpossibile sacrificio di sé, perché l’unica morale o politica efficiaci sonoquelle «en harmonie avec la nature de l’homme». Cfr. Helvétius, De l’esprit, cit.,pp. 128, 326, 335 e J. Domenech, L’éthique des lumières, cit., p. 37.70 Helvétius, De l’esprit, cit., p. 536.

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all’«intérêt publique», «on n’a nul intérêt d’estimer les grands

hommes», né dunque «à le devenir», perché la legge «met […] à la

chaine la justice et la vertu», e i costumi, di conseguenza, «y

attachent […] la rouille du ridicule»71. «Le sceptre» di cui questi

poteri «se servent pour commander aux peuples abruti» non a «pour

fondement que l’ignorance et l’imbecillité» dei dominati: è solo

il silenzio che viene loro imposto, con il conseguente

l’occultamento dei loro «véritables intérêts» e di «tous leurs

droits», che trattiene i membri di una nazione nella «léthargie»

richiesta dal dispostimo, li induce a sopportare «les plus

cruelles operations», impedisce che le loro forze siano riunite e

«armées contre l’injustice»72. Una politica della verità è una

politica che, smascherando i «protecteurs de l’ignorance» e «de la

stupidité» come «les plus cruels ennemis de l’humanité» e

favorendo il progresso della scienza della morale, non può fare a

meno di trovare nell’adesione della nazione e nella «réunion de

ses forces» la capacità di porre essa stessa i propri presupposti,

quella combinazione di buone istituzioni e buoni costumi grazie

alla quale l’interesse generale e la virtù possono affermarsi non

solo contro, ma anche mediante gli interessi particolari, le loro

differenze, i loro conflitti73. Il sociale è politico, la sua

apparenza di compattezza è il risultato di una rimozione dei

conflitti, e questa politicità del sociale esige l’intervento

dello Stato quale attore in grado di mobilitare le competenze e le

71 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 204, 185, 210, 219.72 Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 218, 205, 184, 367. Sulla concezione helvezianadi dispotismo, sui suoi debiti verso Montesquieu, sulle sue basi antropologicheo psicologiche, sulla sua dimensione critica, vedi V. Recchia, Dispotismo, virtù elusso in C.-A. Helvétius, in D. Felice (a cura di), Dispotismo: genesi e sviluppi di un concettofilosofico-politico, Napoli, Liguori, 2002, pp. 281-307.73 Cfr. Helvétius, De l’esprit, cit., pp. 209, 218, 210. Cfr. Ivi, p. 363

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forze necessarie a spezzare i rapporti di forza precostituiti, e a

organizzare l’interesse dei molti contro l’interesse dei pochi.