1 Francesco Lamendola TRAVAGLIO INTERIORE E VISIONE SALVIFICA NELLE CONFESSIONI DI S. AGOSTINO Le «Confessioni» di S. Agostino sono una delle opere di più sconcertante modernità che l'antichità ci abbia lasciato." "Esse sono innanzitutto l'analisi del travaglio interiore che dopo una giovinezza dissipata è sfociata nella conversione; il titolo stesso - «Confessiones», cioè confessione dei peccati e lode a Dio- sottolinea il carattere ambivalente di questa autobiografia: l'autore, nel ripercorrere il suo passato, si rivolge direttamente a Dio per glorificarne la misericordia, che ha avuto ragione della sua protervia nel peccare. "Agostino stese le «Confessioni»nei primi anni del suo episcopato, tra il 397 e il 398. Cioè molto dopo la conversione, che era avvenuta nel 386. Lo spunto gli venne dalla necessità di rispondere a quanti lo criticavano per il suo passato manicheo, ma la complessità dell'opera è tale che solo un motivo per più profondo può averla ispirata. Egli stava entrando nell'età di mezzo re da un anno era assorbito dai nuovi compiti richiesti dalla propria assunzione alla cattedra vescovile di Ippona. L'ottimismo iniziale della sua conversione era scomparso di fronte alla difficoltà dei compiti imposti dalla milizia cristiana. L'ideale ascetico di una vita da trascorrere nella meditazione era stato accantonato e Agostino era diventato, come egli stesso dichiara, un uomo «profondamente impaurito dal peso dei propri peccati». Le diverse prospettive che gli si affacciavano, nel quadro di questo intenso travaglio interiore, richiedevano perentoriamente un riesame di quella parte del proprio passato che era culminata nella conversione. Ecco quindi il tono di ansioso ripiegamento sui propri anni trascorsi e sulle possenti emozioni di allora, che le necessità del presente hanno allontanato ma non distrutto e che ancora traspaiono al di là dei nuovi sentimenti scaturiti dalla professione vescovile." B. Gentili- E. Pasoli- M. Simonetti «Storia della letteratura latina», Bari, 1979, p. 456
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Francesco Lamendola TRAVAGLIO INTERIORE E VISIONE … · 2018-01-29 · "Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto conoscere.
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Transcript
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Francesco Lamendola
TRAVAGLIO INTERIORE E VISIONE SALVIFICA
NELLE CONFESSIONI DI S. AGOSTINO
Le «Confessioni» di S. Agostino sono una delle opere di più sconcertante modernità
che l'antichità ci abbia lasciato."
"Esse sono innanzitutto l'analisi del travaglio interiore che dopo una giovinezza
dissipata è sfociata nella conversione; il titolo stesso - «Confessiones», cioè
confessione dei peccati e lode a Dio- sottolinea il carattere ambivalente di questa
autobiografia: l'autore, nel ripercorrere il suo passato, si rivolge direttamente a Dio
per glorificarne la misericordia, che ha avuto ragione della sua protervia nel
peccare.
"Agostino stese le «Confessioni»nei primi anni del suo episcopato, tra il 397 e il 398.
Cioè molto dopo la conversione, che era avvenuta nel 386. Lo spunto gli venne dalla
necessità di rispondere a quanti lo criticavano per il suo passato manicheo, ma la
complessità dell'opera è tale che solo un motivo per più profondo può averla
ispirata. Egli stava entrando nell'età di mezzo re da un anno era assorbito dai nuovi
compiti richiesti dalla propria assunzione alla cattedra vescovile di Ippona.
L'ottimismo iniziale della sua conversione era scomparso di fronte alla difficoltà dei
compiti imposti dalla milizia cristiana. L'ideale ascetico di una vita da trascorrere
nella meditazione era stato accantonato e Agostino era diventato, come egli stesso
dichiara, un uomo «profondamente impaurito dal peso dei propri peccati». Le
diverse prospettive che gli si affacciavano, nel quadro di questo intenso travaglio
interiore, richiedevano perentoriamente un riesame di quella parte del proprio
passato che era culminata nella conversione. Ecco quindi il tono di ansioso
ripiegamento sui propri anni trascorsi e sulle possenti emozioni di allora, che le
necessità del presente hanno allontanato ma non distrutto e che ancora traspaiono al
di là dei nuovi sentimenti scaturiti dalla professione vescovile."
B. Gentili- E. Pasoli- M. Simonetti
«Storia della letteratura latina», Bari, 1979, p. 456
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Dei tredici capitoli che formano le Confessiones, composte verso il 397-98, i primi ove
costituiscono l'autobiografia vera e propria, culminante nella conversione e, qualche tempo dopo,
nella morte dell'amatissima madre Monica, che venne sepolta ad Ostia. Gli ultimi quattro sono, in
effetti, libri di filosofia, nei quali S. Agostino tocca alcuni dei temi più ardui del pensiero umano,
dal mistero della memoria, al mistero del tempo, alla creazione dal nulla, alla bontà divina. Si tratta
di un'opera fortemente strutturata ma, al tempo stesso, originalissima: si può dire che Agostino
abbia creato un nuovo genere letterario, che non esisteva nelle culture antiche (né in quella greca né
nella latina); e in quel genere il suo libro è rimasto insuperato, perché né il Secretum di Petrarca, né
le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, né altre opere moderne dello stesso genere l'hanno
uguagliata in potenza e vigore drammatico. Inoltre, così come nessun autore prima di Agostino
aveva scandagliato il mistero della propria anima con una tale profondità e sistematicità, con una
tale assoluto sforzo di sincerità e di verità, così nessuno è stato capace di fondere armoniosamente il
racconto autobiografico, e sia pure prevalentemente di una biografia interiore, con pagine di
altissima meditazione filosofica e spirituale.
N: B: Ci serviamo, per la citazione dei passi di S. Agostino, della traduzione di carlo Vitali nell'ormai classica edizione
delle Confessioni a cura di una fra i massimi conoscitori di questo Autore e dell'età sua, Christine Mohrmann (Milano,
Rizzoli, 1958, 1975).
LIBRO PRIMO
La prima parte del primo libro (capitoli I-V) è una parte a sé: si apre con una lode ed invocazione a
Dio, fra le più solenni e commoventi che mai siano state scritte, e prosegue con una riflessione sul
mistero del rapporto fra l'anima e Dio. In effetti, per Agostino Dio è nell'anima e l'anima in Dio; ma
Dio è anche presente in tutto l'Universo, che pure non lo può contenere, poiché Egli è infinito:
sgomenta solo il fatto di parlarne, eppure, guai a quelli che non parlano di Lui! L'uomo non è altro
che un continuo anelito verso il suo Creatore: anelito che sarebbe vano, se non venisse soccorso
dalla Sua infinita misericordia.
"Grande sei, o Signore, degno di somma lode; grande è la tua potenza, senza limiti la tua sapienza.
L'uomo vuol Cantare le tue lodi, l'uomo, particella della tua creazione, che porta seco il peso della
sua natura mortale, del suo peccato, la certezza che Tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, particella
della tua creazione, vuol cantare le tue lodi. Tu lo sproni, affinché gusti la gioia del lodarti, poiché
ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te. Dammi grazia, o
Signore, di conoscere appieno se prima ti si debba invocare o lodare; se la conoscenza di Te debba
precedere l'invocazione.
"Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per
un'altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma «Come si invocherà colui in cui non si
crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?» «Loderanno il Signore
coloro che lo cercano». Cercandolo, infatti, lo troveranno, e, trovatolo, lo loderanno.
"Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto
conoscere. Te chiama la fede che mi desti, la fede che mi inspirasti per il tuo Figliuolo incarnato,
per il ministero del tuo banditore."(…)
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"Forse che il non amarti è piccola calamità? Ahimé! Per la tua misericordia, mio Signore e mio
Dio, dimmi che cosa sei per me. Dillo all'anima mia: «Io sono la tua salvezza». Così, così dillo, che
io intenda. L'orecchio del mio cuore è qui, davanti a Te: aprilo e ripeti alla mia anima: «Io sono la
tua salvezza». Verrò correndo dietro tal voce e ti raggiungerò. Non nascondermela la tua faccia!
Morirò pur dio vederla, affinché io non muoia! Angusta casa è l'anima mia perché ti possa
accogliere: e Tu amplificala. Cade in rovina, e Tu riparala: lo confesso, lo so. Ma chi altri
potrebbe mondarla? A chi altri se non a Te alzerò la mia voce: «Purificami, Signore, dai miei
peccati occulti, e tieni lontano il tuo servo dai peccati altrui»."
Inizia il racconto della vita di s. Agostino, con uno sforzo supremo per strappare il ricordo dei
primissimi mesi di vita, quando le tenebre dell'inconsapevolezza offuscano le facoltà e la memoria
retrospettiva. Ma subito, fin da questa prima pagina autobiografica, vi è una netta prevalenza della
riflessione sul mistero di Dio, creatore sapiente di ogni essere vivente. Poi una domanda
inquietante: prima di nasce fui qualcosa, fui qualcuno? Domanda troppo ardua, e destinata a
rimanere senza risposta. Non resta che rendere gloria a Dio, che nella sua infinita bontà contiene
ogni cosa e la conduce all'esistenza (cap. VI). Questo andamento meditativo, che intreccia e
sovrappone continuamente i due piani del ricordo personale e della riflessione filosofica e teologica,
sarà caratteristico dell'intera opera.
Fin dalla più tenera infanzia, Agostino non trova nel bambino - e quindi in sé stesso bambino - che
miserie, capricci e tendenza alla prevaricazione: lacrime per ottenere qualcosa, volontà di colpire
con violenza chiunque gli si opponga. E tuttavia il tono prevalente non è di condanna o disprezzo
per le debolezze della natura umana, ma di confidente e stupita ammirazione per la generosità del
soccorso divino, della divina sapienza che volge al bene ogni cosa. Infine Agostino rinuncia a
tentare di ricostruire gli anni della primissima infanzia: che rapporto vi è tra essi e il presente, se il
ricordo di essi è totalmente caduto dalla memoria? Uno psicanalista freudiano non sarebbe
certamente d'accordo con una tale affermazione; e, poiché la cultura contemporanea è largamente
permeata di freudismo, ecco che le Confessioni entrano subito in urto con un aspetto importante
della odierna concezione della vita. Eppure avevamo parlato di assoluta modernità di quest'opera di
S. Agostino. In realtà, non c'è contraddizione: un'opera non è "moderna" perché asseconda tutte le
tendenze (e magari le mode) della cultura dei nostri giorni, ma perché rispecchia le inquietudini e il
senso di sdoppiamento dell'io che caratterizzano la modernità: quel duplice io che vuole, allo stesso
tempo, cose contrastanti, e che si sente lacerato e infelice perché ha smarrito il senso della propria
unità originaria.
Alla prima infanzia segue la puerizia, caratterizzata dalla pronuncia delle prime parole (cap. VIII),
dal gioco e dai primi castighi corporali, inflitti dal maestro - all'uso romano - perché il piccolo
Agostino amava la palla più dei libri (cap. IX). Qui l'Autore svolge una breve riflessione sulle
incongruenze dell'educazione, incentrata sulla retorica che insegna l'arte del parlare ornato, ma
somministra agli alunni vuote storielle mitologiche (cap. X). Guarito da una grave malattia,
Agostino viene preparato a ricevere il battesimo che, però, viene differito. Qui ci vengono presentati
i genitori: la madre, credente e tutta rivolta all'educazione cristiana del bambino; e il padre che, pur
essendo ancora pagano, lascia fare: figura secondaria, mentre a giganteggiare è, sin da ora, Monica,
presentata come esempio perfetto di madre cristiana (cap. XI). Crescendo, l'amore di Agostino per
lo studio non aumenta: gli adulti ve lo costringono, e fanno bene; ma il suo cuore è ribelle (cap.
XII). È pur vero che i metodi educativi dell'epoca, e specialmente l'assiduo insegnamento dei poemi
classici, allontanano da ciò che importa nella vita, che è essenzialmente scoprire e amare Dio: ma
proprio a quelle cose il piccolo Agostino si appassiona. S'incanta e sogna davanti alle peregrinazioni
di Enea nel Mediterraneo, leggendo l'Eneide di Virgilio; mentre detesta con tutte le sue forze la
matematica (cap. XIII).
Segue una acuta osservazioni pedagogica. Da piccolo, Agostino adorava la lettura di Virgilio tanto
quanto aborriva quella di Omero; probabilmente, egli osserva, per i bambini sarà la stessa cosa,
quando vengono costretti a studiare il latino, come lui lo era a studiare il greco (cap. XIV).
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"La difficoltà, proprio la difficoltà di imparare a fondo una lingua straniera aspergeva per così
dire di fiele la greca soavità di quei racconti fantastici. Non intendevo nessuna di quelle parole e
mi si stava addosso senza pietà, con gravi minacce e castighi, affinché le imparassi. Anche del
latino, da bambino, non ne conoscevo punte, eppure le appresi con la sola attenzione, senza paura
delle battiture, anzi fra le carezze delle nutrici, gli scherzi del sorriso, l'allegria dei compagni di
giuoco. Le imparai senza essere gravato dall'incubo di castighi, stimolato invece dal mio intimo ad
esprimere i miei concetti: il che non avrei potuto fare se non avessi preso familiarità con alquante
parole, non dai maestri, ma da tutti quelli che parlavano; e nelle loro orecchie alla mia volta io
partorivo quello che era in me.
"Di qui appare chiaro che ha maggiore efficacia, nell'apprendere, una curiosità volontaria che
non una costruzione intimidatoria…"
Dopo aver rivolto un'ardente preghiera a Dio, perché quanto di buono ha appreso nell'infanzia sia
ora volto al suo servizio (cap. XV), Agostino si scaglia di nuovo contro i metodi d'insegnamento
basati sulle opere classiche: da essi il fanciullo impara a vedere nelle divinità (Giove, Giunone, ecc.)
continui esempi di passioni sfrenate e carnali, ciò che lo allontana irrimediabilmente da una retta
comprensione del divino (cap. XVI). Egli non se la prende, si badi,, contro il contenuto di verità di
quelle storie: già Cicerone, più di quattro secoli prima, le aveva messe in ridicolo, affermando che
solo le vecchiette superstiziose vi prestavano ancora fede; ma contro il pernicioso influsso che
quegli esempi compiaciuti di libidine e di violenza non potevano non esercitare nell'ambito, di per
sé tanto delicato (perché non sorretto dalla capacità di giudizio critico) della vita morale del
fanciullo. Vano è anche, sul piano strettamente pedagogico, un insegnamento basato quasi
interamente su vane esercitazioni letterarie, dove si acquista la padronanza delle parole ma non
delle cose (cap. XXVII); e inutile è lo sfoggio della retorica che, per di più, allontana dalla
contemplazione della verità, ossia del divino (cap. XVIII).
Contro la tesi di una innata innocenza infantile, poi, l'Autore evidenzia in modo addirittura
impietoso le colpe e i difetti propri dell'infanzia. Rievocando la sua infanzia, difatti, egli trova che
pur di vincere nei giochi, non esitava a ricorrere all'inganno; e, se veniva scoperto, passava alle
mani: proprio lui che era così sollecito nel denunciare il comportamento scorretto degli altri.
Inganno, falsità, violenza, egoismo: ecco emergere tutti i difetti che, nel bambino, si notano di meno
che nell'adulto solo perché, pensiamo noi, si esercitano in una sfera meno "seria" e perché
generalmente vengono scusati dal non raggiunto possesso della ragione (cap. XIX).
"Codesta dunque l'innocenza infantile? No, Signore, no, mio Dio, essa non esiste. Perché queste
frodi che si cominciano con pedagoghi e maestri, o per noci, palline e passerotti, coll'andar degli
anni sono proprio le stesse che si tendono ai governatori, ai re, e che hanno per oggetto oro,
poderi, schiavi: così come la sferza cede il posto a castighi più gravi"
Da ultimo Agostino leva un rendimento di grazie a Dio, Signore e Creatore dell'universo, che attira
tutti gli esseri verso la verità che in Lui risiede.
LIBRO SECONDO
Amaro è il ricordo dell'adolescenza, anche se mitigato e addolcito dalla consapevolezza della
infinita grazia divina (cap. I).
"Voglio ricordare le turpitudini del mio passato e la corruzione carnale della mia vita; non già che
le ami, ma per amar Te, o mio Dio. Per amor del tuo amore mi accingo a rievocare il mio cammino
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nelle vie del peccato, ricordo pieno di amarezza, affinché Tu mi colmi della tua dolcezza, dolcezza
non fallace, dolcezza felice e sicura…"
La forza degli istinti ribolle nell'animo di Agostino giovinetto, la sua natura di africano sensuale ed
eccitabile lo sospinge versi i piaceri materiali della vita. Egli ha ben sintetizzato l'elemento
fondamentale della sua indole con la sua famosa frase: «Una sola cosa mi sorrideva: amare ed
essere amato». All'età di sedici anni, Agostino cade nella lussuria, nell'indifferenza degli adulti,
preoccupati solo di fare di lui un oratore elegante e di successo (cap. II).
In quell'anno lascia Madaura, dove aveva iniziato gli studi e ritorna dai suoi nella natia Tagaste, per
prepararsi a un soggiorno di studio a Cartagine, "suggerito più dall'ambizione che non dalle
possibilità economiche di mio padre, modesto cittadino di Tagaste". Il periodo trascorso in famiglia
nell'ozio temporaneo rinfocola le inquietudini e le disordinate passioni del ragazzo; il padre se ne
accorge, ma invece di impensierirsene, se ne compiace, "quasi già rallegrandosi dei nipoti futuri".
Nemmeno la madre, cristiana ancora piuttosto tiepida, mostra di preoccuparsene, ad esempio
suggerendogli di avviarsi al matrimonio (cap. III). Segue il racconto del famoso furto notturno delle
pere. Può sembrare - e a molti è sembrato - eccessivo il tono di esecrazione con cui Agostino
rievoca quell'episodio della sua adolescenza; ma abbiamo già visto che, per lui, i vizi e i difetti dei
piccoli non sono che l'anticamera di quelli, ben più terribili (e tuttavia idealmente analoghi) che
caratterizzano il mondo degli adulti. Inoltre, Agostino indugia con particolare contrizione su quel
furto di pere, in apparenza di poco conto, perché ne vuole sottolineare il carattere di assoluta
gratuità, in quanto non motivato nemmeno dalla tentazione della gola: si trattò, dunque - egli
conclude - di un atto malvagio per eccellenza, in quanto originato unicamente dal piacere di
infrangere la legge morale (cap. IV).
"Dopo aver protratto il gioco, secondo la nostra pessima usanza, fino a tarda ora nelle piazze, nel
cuor della notte la trista combriccola di noi ragazzacci si recò a scuotere quell'albero e a
depredarlo: e ne portammo via un gran carico, non per mangiarne a sazietà, se pur ne
assaggiammo, ma per darne in pasto persino ai maiali: nostro unico piacere fu di fare ciò che non
era lecito, perché ciò ci piaceva.
"Eccolo, il mio cuore, o Dio, ecco il mio cuore, ecco quel mio cuore che ti ha mosso a pietà dal
fondo dell'abisso. Ti dica ora questo mio cuore che cosa lo movesse ad essere cattivo senza alcun
vantaggio, a non avere una ragione di malizia se non la malizia stessa. Torbida malizia: ed io la
amai; amai la mia rovina, amai la mia caduta; non ciò per cui cadevo, ma proprio la caduta; io,
anima malvagia che mi sradicavo dal tuo fermo sostegno per la mia rovina, non correndo dietro ad
alcunché con disonestà, ma alla disonestà per se stessa."
L'episodio delle pere serve ad Agostino anche per sviluppare una riflessione di tipo quasi socratico,
e cioè che, nel fare il male - ossia nel peccato - l'anima cerca un bene, ma lo cerca sregolatamente e
nelle cose di infimo livello, ossia quelle materiali, distogliendosi dai veri beni e in particolare da
Dio, il Bene supremo (cap. V). Nel capitolo seguente Agostino sviluppa e approfondisce il concetto:
le passioni degli uomini li portano verso i beni di grado inferiore, ma quegli stessi beni, elevati alla
massima perfezione, sono tutti presenti in Dio: è in Lui, e soltanto in lui, che l'anima può infine
trovare quello che oscuramente cerca fra le ombre dei vaneggiamenti terreni, spegnendo quella sete
che intimamente lo divora, e che invano cerca di spegnere nella ricerca affannosa e degradante dei
piaceri materiali (cap. VI).
"Le carezze dei voluttuosi vogliono amore: ma nulla è più affettuoso del tuo amore, nulla si ama
più salutarmente della tua verità, bella e luminosa quant'altre mai.
"La curiosità sprona in apparenza all'acquisto della scienza: Tu sai tutto, in sommo grado. Persino
la ignoranza e la stoltezza si velano con il nome di semplicità e di innocenza, perché nulla si può
trovare più semplice di Te, e nulla più innocente di Te, come che al malvagio è di danno il suo
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stesso malfare. L'ignavia vorrebbe tendere alla tranquillità: e quale sicurezza di tranquillità fuor
che nel Signore? Il lusso vuole esser chiamato sufficienza e abbondanza; Tu sei la pienezza e la
sorgente inesauribile di soavità che non conoscono corruzione.
"La prodigalità prende le apparenze della liberalità; ma Tu possiedi tutto. La gelosia briga per
eccellere: chi più eccelso di Te? L'ira cerca la vendetta: e chi esercita la vendetta più giustamente
di Te? Il timore si inquieta per ogni avvenimento insolito e improvviso che incombe sulle cose
amate, si preoccupa della sicurezza: che cosa è insolita, improvvisa per Te? E chi può dividere da
Te ciò che ami? Dove, se non in Te, una salda sicurezza? La cupidigia si rattrista e si consuma per
la perdita delle cose che le davano gioia, perché vorrebbe che nulla potesse essere tolto a sé, come
a Te.
"In tale modo va fornicando l'anima quando, allontanandosi da Te, cerca fuori di Te obietti che
trova puri e limpidi solo ritornando a Te. Coloro che si allontanano da Te, che si ergono contro Te
tutti ti imitano disordinatamente. Però anche con codesta forma di imitazione vengono a
riconoscere che sei il creatore di tutta la natura e che perciò non esiste luogo in cui l'uomo possa
considerarsi in tutto separato da Te."
La grazia divina, riversandosi nell'anima, ha tuttavia il potere di far ravvedere gli uomini,
riconducendoli all'Amore che, solo, può appagare ogni loro desiderio (cap. VII). Poi, tornando a
riflettere sulle motivazioni di quel lontano furto di pere, Agostino rivede la sua precedente
affermazioni: non l'amore del male in sé lo spinse ad agire, ma il piacere di condividere quell'atto
con i suoi compagni: da solo, infatti, non l'avrebbe commesso (cap. VIII). Esiste, dunque, una
facoltà dell'anima che si definisce come perversa solidarietà nel male: è l'agire in gruppo (in branco,
come si usa dire oggi nel gergo giornalistico) che fa scattare la molla di molte azioni malvagie e
apparentemente gratuite. Nel gruppo, infatti, viene abolito il principale freno che ci trattiene, di
norma, dal commettere cattive azioni: il sentimento della vergogna (cap. IX).
Il secondo libro delle Confessioni, il più breve di tutti, si conclude quindi con una citazione dal
Vangelo di Matteo (XXV, 21): «entra nel gaudio del tuo Signore», perché solo in Lui si trova
quella gioia piena e pura che invano inseguiamo nei beni terreni.
LIBRO TERZO
Trasferitosi a Cartagine, il giovane Agostino dà sfogo senza ritegno alla sua morbosa ricerca
dell'amore, non rendendosi conto di essere affamato, in realtà, di un cibo completamente diverso, un
cibo spirituale( cap. I).
"Perciò l'anima mia era inferma, piagata, si gettava al di fuori, miseramente avida di sfregarsi al
contatto delle creature sensibili. Ma anch0'esse non le avrei amate se non avessero avuto anima.
"La dolcezza di amare e di essere amato era per me molto maggiore se andava unita al possesso
del corpo dell'amante. Inquinavo così la vena dell'amicizia con le lordure della concupiscenza, ne
offuscavo il candore con l'alito diabolico della concupiscenza, e, ciò non ostante, sozzo e disonesto
qual ero,, nella mia immensa vanità volevo apparire fine e di belle maniere.
"Ed andai a precipizio verso quell'amore di cui bramavo la catena."
Anche un'altra passione afferra il giovane provinciale inurbato, quella per gli spettacoli e
specialmente per il teatro (cap. II). A Cartagine prosegue brillantemente i suoi studi di retorica,
mosso dall'ambizione di diventare un grande avvocato; intanto, però, è attratto e anche un po'
spaventato dalla sfrenata turbolenza degli altri studenti, ai quali si unisce più per non sfigurare che
per intima convinzione (cap. III). Si tratta di una turbolenza così sfrenata che qualche anno,
divenuto insegnante, lo stesso Agostino deciderà di lasciare Cartagine per Roma, alla ricerca di un
ambiente più calmo e ordinato. Intanto legge l'Ortensio, opera di Cicerone andata disgraziatamente
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perduta, nella quale il grande oratore romano difendeva lo studio della filosofia contro l'avvocato
suo grande avversario, Ortensio appunto. Quel libro opera uno straordinario influsso sull'animo del
giovane studente di Tagaste, influsso che viene descritto con poche, ma efficaci e commosse parole
(cap. IV).
"Ebbene, quel libro cambiò la mia mentalità, cambiò anche il tono delle mie preghiere a Te,
Signore, cambiò radicalmente le mie aspirazioni e i miei desideri. Di colpo ogni sorta di vane
speranze rinvilì; con incredibile ardore di cuore presi a desiderare la sapienza imperitura: e già
incominciavo ad alzarmi per far ritorno a Te.(…)
"Come ardevo, mio Dio, come ardevo di spiccare il mio volo dalle cose terrene a Te! Non sapevo
quale fosse la tua azione su me: poiché «in Te risiede la sapienza».
Per contro, la lettura della Bibbia non produce dapprima, nel giovane africano, un'impressione
altrettanto favorevole: la durezza dello stile, a paragone dell'eleganza ciceroniana, lo allontana (cap.
V). A quell'epoca, ardente di una religiosità ancora confusa, Agostino si avvicina alla religione dei
manichei, di cui subisce profondamente l'influenza (da cui, per certi aspetti, non li libererà forse mai
del tutto, anche se condurrà poi una durissima polemica contro di essi). Tuttavia, per adesso, non ci
dà molti particolari di quella fase della sua vita; si diffonde invece a compiangere lo smarrimento
della sua anima, paragonandola al Figliuol prodigo della parabola evangelica (cap. VI). Poi ricorda
che, se per i manichei il Male è un principio sostanziale che si contrappone al Bene, in realtà esso
non è che una ignoranza del vero Bene, e non ha una consistenza propria: dottrina che avrebbe
sviluppato compiutamente più tardi e che ha dato luogo a infinite discussioni e polemiche. È un
fatto che Agostino, qui, per reazione al dualismo manicheo sembra essere più vicino alla concezione
neoplatonica che a quella cristiana ortodossa, secondo la quale l'esistenza di un polo negativo e
demonico, anche se non originario (come volevano i manichei), è parte integrante di una compiuta
prospettiva dogmatico-teologica. Del resto, vi sono stati studiosi (come Prosper Alfaric, nella sua
monografia su S. Agostino del 1918) che hanno negato che egli si sia convertito al cristianesimo nel
386 quanto piuttosto al neoplatonismo; e che solo in seguito egli sia passato definitivamente al
cristianesimo, ma solo perché vi ritrovava gli elementi essenziali insegnati nelle Enneadi di Plotino,
filosofo che continuò ad ammirare per tutta la vita. Sia come sia, non è questa la sede per
approfondire una questione di tanto peso; ci accontentiamo di avervi accennato, rimandando il
lettore desideroso di approfondire la questione agli studi specifici di Becker, di Scheel, di Thimme,
di Alfaric e del celebre Alfred Loisy.
In ogni modo, ad Agostino appare chiaro che i criteri della giustizia divina divergono da quelli della
giustizia umana, e di ciò non si può evitare di tener conto quando si affronta il problema del Male
da un punto di vista teologico (cap. VII). Tuttavia, se il giudizio umano - fuorviato dalle apparenze -
può errare nel giudicare ciò che gli appare una cattiva azione, e magari non essere tale agli occhi di
Dio, da ciò non deriva alcun relativismo etico. Esistono comunque delle azioni che sono
intrinsecamente peccaminose, quali - ad esempio - le pratiche dei sodomiti, davanti alle quali
Agostino non esita ad affermare che «anche se tutto il genere umano le commettesse, tutto il genere
umano sarebbe reo di codesto crimine» (cap. VIII): e questo, almeno, è un parlare chiaro.
"Ma quando Iddio comanda qualche cosa contraria ad usi o istituzioni di chicchessia, anche se
essa in quel determinato luogo non sia mai stata fatta, si deve fare; se è andata in disuso si deve
rinnovare; se non è mai stata stabilita si deve stabilire (…) Come infatti nella distribuzione dei
poteri nella società umana il potere più elevato ha diritto all'obbedienza del subordinato, così Dio
a quella di tutti."
E questo è un passo che sarebbe piaciuto (e quasi certamente è piaciuto) a Sören Kierkegaard, in
particolare al Kierkegaard di Timore e tremore, tutto preso dal mistero che emana dall'ordine
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assurdo (umanamente parlando) che Dio rivolge ad Abramo di sacrificare il suo unico, amatissimo
figlio Isacco, sul Monte Moriah.
"Ciò vale anche per le colpe il cui movente è la deliberata volontà di fare il male agli altri o con
ingiustizia, o con violazione di diritti. E l'uno e l'altro può aver luogo sia per motivi di vendetta,
come fa l'avversario all'avversario, sia per cupidigia di un bene indebito, come il brigante con il
viaggiatore; sia per evitare un male, come si fa ad uno che ci è causa di timore; sia per invidia - il
misero verso il più fortunato o il bene arrivato verso colui che non vuole veder suo pari, oche si
contrista di veder tale, sia per il solo compiacimento del male altrui, come gli spettatori delle lotte
dei gladiatori, i motteggiatori, i mistificatori degli altri."
Vi sono poi dei peccati che sono tali solo in apparenza: Agostino ribadisce il concetto che il
giudizio umano è spesso inadeguato, ed erra sia quando condanna, sia quando loda, perché altro può
essere il giudizio di Dio, che sa vedere nel mistero dell'anima (cap. IX). Segue una ulteriore puntata
contro i manichei che, per la verità, ha più l'aria di un colpo basso: giocando un po' sul concetto
manicheo di "cibo spirituale" destinato a liberare la sostanza spirituale contenuta negli alimenti,
Agostino poco generosamente mette in caricatura questo aspetto delle loro credenze, deridendo ciò
in cui aveva creduto (cap. X).
Il terzo libro è chiuso da due episodi che creano un'atmosfera carica di attesa. Il primo è un sogno
della madre Monica che sembra chiaramente alludere a un cambiamento di vita da parte di suo
figlio, se non a una vera e propria conversione (cap. XI).
"Sognò infatti che se ne stava ritta in piedi su di un'assicella e che uno splendido giovane le veniva
incontro lieto e sorridente, mentre essa si consumava nella tristezza della desolazione. Egli le
chiese la cagione di quella sua mestizia e di quel suo piangere continuo; non che avesse bisogno di
sentirselo dire, ma come succede, per aver modo di dirle quanto voleva. Avendo ella risposto che
piangeva la mia rovina, egli volle che si riconfortasse, esortandola a ben notare ed a vedere che là
dove era ella mi trovavo anch'io. Ed ella riguardò e vide che io le stavo accanto sulla stessa
assicella."
Il secondo episodio riguarda la profezia di un vescovo, al quale Monica si era rivolta per
convincerlo ad avere un colloquio con Agostino nel quale confutare i suoi errori e allontanarlo, così,
dall'influenza dei manichei. Al che il sant'uomo rispose:«Lascia che se stia così; solo, prega il
Signore per lui; studiando, troverà da sé la natura e l'empietà di quegli errori». E aveva concluso
dicendole: «Vattene pure; così tu possa vivere a lungo, come è certo che il figlio di codeste lagrime
non può andar perduto».
LIBRO QUARTO
Il quarto libro si apre con l'inizio dell'insegnamento a Tagaste, ove Agostino è rientrato da
Cartagine. Continua a frequentare i manichei, anzi è divenuto "uditore": ora, quel periodo della sua
vita gli appare come una dolorosa serie di errori (cap. I).
"Per tutto il corso di quei nuove anni - dal diciannovesimo al ventottesimo - fui insieme sedotto e
seduttore, ingannato e ingannatore in ogni genere di passioni; pubblicamente con l'insegnamento
delle così dette scienze liberali, occultamente con la pratica di una falsa religione ;là superbo, qui
superstizioso, vano in entrambi i casi; da una parte correvo dietro al miraggio della gloria
popolare, fino agli applausi da palcoscenico;, fino alle gare poetiche, alle dispute per corone di
fieno ,alle insulsaggini di spettacoli, ad ogni sregolatezza di passioni; dall'altra, anelando di
purificarmi da quelle bassezze, ero tutto zelo nel portare ai così detti "Santi" ed "eletti" i cibi dai
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quali nell'officina del loro stomaco potessero fabbricarci angeli e dèi, mezzi della nostra
liberazione. E ci credevo, e compivo tali pratiche: io e gli amici con me o da me ingrulliti."
Inoltre, in quel periodo Agostino si lega con una donna, non maritalmente, tuttavia con costante
fedeltà e affetto, dalla quale avrà un figlio, Adeodato. Ricorda anche uno strano episodio, allorché
uno stregone gli offrì la vittoria in una gara di poesia da tenersi in una teatro, se avesse acconsentito
a praticare un rito di magia nera, nel quale sarebbero stati sacrificati degli esseri viventi. Egli aveva
rifiutato con orrore (cap. II); il fatto, ad ogni modo, ci dice quanto fossero diffuse le arti magiche
nel tardo Impero Romano, e quanto l'ambizione divorante di Agostino dove essere ben nota ai suoi
concittadini; altrimenti, quel personaggio non avrebbe osato rivolgersi a lui per offrirgli i suoi
sinistri servigi. Non rifiuta, invece, di affidarsi ai responsi degli astrologi, cui anzi ricorre volentieri;
solo più tardi l'autore delle Confessioni giungerà alla conclusione che il sapere dell'astrologia è vano
e fallace, poiché in contrasto con la libertà di scelta dell'uomo (cap. III). Notiamo di sfuggita che in
altro modo giudicherà l'astrologia il seguente millennio, durante il quale i massimi esponenti della
cultura, Dante compreso, crederanno fermamente all'influsso operato dagli astri sul cosiddetto
mondo sub-lunare; e tale sarà la convinzione prevalente fino a tutto il Rinascimento, non sentita in
contrasto con i dogmi del cristianesimo, ed insegnata presso diverse università europee.
Poi Agostino racconta il dolore provato per la perdita di un giovane, del quale ignoriamo anche il
nome, ma al quale si era legato di profonda (cap. IV); mentre per la morte del padre suo, Patrizio,
che alfine si era convertito alla religione della moglie, non dice una parola. Dopo aver riflettuto
sulla dolcezza che il pianto offre nei grandi dolori, ai quali offre un sollievo (cap. V), ricostruisce
quell'epoca della sua vita, osservando come lo avesse invaso un profondo smarrimento, mescolato a
un senso di estrema precarietà di ogni cosa umana, davanti alla cieca violenza della morte, nonché a
uno strano piacere nell'abbandonarsi alla disperazione.
"Ero infelice, ed infelice è sempre l'anima avviluppata dall'amore delle cose mortali; lacerata
quando le perde, sente la miseria da cui è affetta anche prima di perderle.. Tale ero io in quel
periodo di tempo; piangevo amarissimamente e nell'amarezza mi riconfortavo. Infelice, sì; eppure
quella misera mia vita mi era ancor più cara dell'amico; cambiarla, certo, avrei voluto, ma non
perdere lei piuttosto dell'amico, e non so se avrei acconsentito, anche per lui, a quello che si
racconta di Oreste e di Pilade, se pure è vero, che volevano morire l'uno per l'altro, insieme,
perché non vivere insieme per essi era peggio che morire. Ma non so quale sentimento in
opposizione di quello, era nato in me; un profondissimo tedio della vita e la paura della morte.
Quanto più lo amavo, tanto più lo odiavo e temevo come il più crudele nemico la morte che me lo
aveva rapito ,e mi pareva che essa dovesse portarsi via di colpo tutta l'umanità, posto che aveva
potuto portarsi via lui. Tale era il mio stato d'animo: e ben l'ho presente."
Per confortarsi di quella perdita, Agostino cerca l'amicizia di altri compagni (cap. VIII); indi scrive
una delle più alte pagine sul significato della vera amicizia, che consiste nell'amare l'altro non per se
stesso, ma in Dio (cap. IX). Ogni bene terreno, infatti, è caduco ed effimero: cercando le cose per se
stesse, anche le più belle, non si fa altro che inseguire il dolore; mentre è in Dio, creatore di ogni
bellezza terrena, che l'animo nostro può trovare ciò di cui veramente è assetato (cap. X). Dopo aver
rivolto una esortazione alla propria anima, perché rivolga tutta se stessa a Dio, sede della vera pace
e della perfetta letizia (cap. XI), Agostino afferma che l'amore dei bei corpi può rivolgerci dalla
bellezza materiale a quella spirituale e di lì, infine, alla Bellezza divina: un ragionamento di pretta
impronta platonica, e che certo sarebbe piaciuto - e forse piacque, se lo lesse - al S. Francesco del
Cantico delle creature. Con questa differenza, però, rispetto a Platone: che la bellezza materiale non
rimanda a un'Idea perfetta e totalmente separata dal mondo, ma che proprio nella bellezza delle cose
terrene noi possiamo percepire la presenza del divino, che non si ritrae da esse, ma vi permane in
tutto il suo fulgore. Il mondo, pertanto, non viene retrocesso a pallido e illusorio riflesso di una
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realtà trascendente, ma promosso al rango di luogo per eccellenza della ierofania, ossia della
rivelazione del sacro.
"Se ti piacciono i copri, trai motivo da essi per lodare Iddio, e riporta l'amore sul loro autore,
perché tu non gli dispiaccia negli esseri che piacciono a te. Se ti piacciono le anime, amale nel
Signore, perché anch'esse sono mutabili e solo fissandosi in lui acquistano stabilità; diversamente
sene andrebbero in rovina. Siano dunque amate in Lui, trascinane a Lui teco quante vuoi, e di'
loro: «Lui, lui amiamo: Egli ha fatto codeste creature, né è lontano perché, dopo averle fatte, non
si è ritirato da esse, ma, fatte da Lui, sono in Lui. Ecco dove egli sta: , ecco dove la verità si
insapora. È nel profondo del nostro cuore ma il cuore si è sbandato, lontano da lui. Ritornate al
cuore, prevaricatori; stringetevi a Lui che vi ha creati,. Tenetevi a Lui e avrete stabilità; riposate in
Lui e avrete riposo. Dove andate, dove andate per luoghi scoscesi? Il bene che voi amate viene da
Lui, e quanto si rapporta a Lui è buono, è dolce, ma può giustamente diventare amaro, se si
abbandona Lui e si ama disordinatamente quello che procede da Lui. Dove tende questo vostro
ostinato camminare per strade difficili e faticose? Non è là dove lo cercate il riposo. Cercate pure
quello che cercate; ma esso non è là dove lo cercate. Cercate la felicità della vita nelle regioni
della morte: non è là. Come potrebbe esservi vita felice dove non si trova nemmeno la vita?»."
Segue un passo stupendo sul mistero dell'Incarnazione, visto come l'evento salvifico che ha
riportato la vita nel regno della morte, ribadendo il carattere di trionfo della vita sulla morte che sta
al cuore del messaggio cristiano. Sono parole ispirate, che ricordano le pagine più potenti di san
paolo; e, infatti, culmina con una citazione dalla Prima lettera a Timoteo (I, 15).
"Egli, la vita nostra, è disceso quaggiù; si è preso la nostra morte, la uccise nella sovrabbondanza
della vita, e con voce di tuono ci gridò di ritornare di qui a Lui, in quel misterioso recesso da cui
prese le mosse per venire a noi nel grembo di una vergine, per la prima volta, dove si disposò con
Lui, la creatura umana, carne mortale ,destinata all'immortalità: e di là, «come sposo che esca dal
talamo, avanzò qual campione lieto di percorrere la sua via»."
Poi Agostino ci informa che, all'età di ventisei o ventisette anni, aveva composto un'operetta,
intitolata De puchro ed apto, che purtroppo è andata perduta (cap. XIII); e d'averla dedicata a un
celebre oratore di origine siriana da lui non personalmente conosciuto, tale Jerio, che dopo aver
primeggiato nell'eloquenza greca, aveva riportato altrettanti trionfi nell'uso di quella latina (cap.
XIV). Quanto al contenuto, l'autore delle Confessioni compie una piena autocritica, poiché in quel
libretto non era ancor giunto a distaccarsi da una concezione immanentistica dell'estetica (cap. XV).
Più in generale, Agostino lamenta che, a quell'epoca, egli stava facendo un cattivo uso della sua
intelligenza. A soli vent'anni aveva già letto e studiato le Categorie di Aristotele; e inoltre sai era
formato, senza difficoltà, una vasta cultura che spaziava dalla retorica, alla dialettica, alla
geometria, alla musica e alla matematica (circa quest'ultima, evidentemente, aveva superato
l'antipatia della fanciullezza); ma vagava ancora lontano dalla verità più importante, quella delle
cose divine (cap. XVI).
LIBRO QUINTO
Il quinto libro si apre con un inno di lode a Dio (cap. I) e prosegue con la riflessione che Egli è
sempre vicino a noi, anche quando noi crediamo di allontanarcene (cap. II). Quindi Agostino si
lancia in un duro atto di accusa contro la superbia e la cecità di quelli che allora si chiamavano
filosofi naturali e che noi, oggi, chiamiamo scienziati. Non è la loro scienza che viene condannata,
anzi, il Nostro ha parole di ammirazione per i risultati raggiunti dal loro sapere; ma è condannata la
loro pretesa di fondare una scienza autosufficienze, chiusa in sé stessa e resa superba dalle sue
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conquiste, senza riconoscere il legame necessario esistente fra Dio e il mondo. Si tratta di un passo
di notevole attualità, che il lettore moderno dovrebbe meditare alla luce degli effetti che il
predominio dell'apparato tecno-scientifico esercita sulle nostre vite e sui nostri modi di pensare; un
passo (come quello dell'Ulisse dantesco lanciato nel suo "folle volo" verso l'ignoto) che non si deve
leggere in un'ottica oscurantistica ma, al contrario, nella sua straordinaria forza profetica, come un
monito e un necessario grido di avvertimento.
"I superbi non Ti trovano, anche se la loro perspicace curiosità è riuscita a contare le stelle e
l'arena, a misurare le plaghe del cielo, a seguire la via degli astri. Con la forza dell'intelligenza e
dell'intuizione che Tu donasti loro essi compiono tali ricerche; e fecero scoperte, e annunziarono
molti anni prima le eclissi del sole e della luna, indicandone il giorno, l'ora, se totali o parziali: i
loro calcoli non li hanno tratti in errore: avvenne proprio come avevano preannunciato. Misero in
iscritto le leggi trovate che si studiano anche oggi, e da esse si può fare il calcolo in quale anno, in
quale mese dell'anno, in quale giorno del mese, in quale ora del giorno e in quale misura
avverranno le eclissi della luna o del sole: e tutto si verificherà a puntino. Quelli che non hanno
simili cognizioni rimangono meravigliati, quasi instupiditi; i dotti ne gioiscono, si gonfiano
d'orgoglio; la stolta superbia li allontana ed eclissa loro la Tua gran luce: vedono in anticipo
l'oscuramento del sole e non vedono il loro ,proprio e presente, perché non si domandano
piamente donde venga l'intelligenza che li guida in codeste scoperte; e anche se arrivano a capire
che Tu sei il creatore, non si affidano a Te per la conservazione del tuo operato; non vogliono
sacrificare a Te il loro 'io', né annientare i loro infatuamenti svolazzanti a guisa d'uccelli, le loro
investigazioni che a guisa di pesci scendono nelle vie segrete degli abissi, né la loro lussuria che li
fa simili alle bestie irragionevoli: affinché Tu, fuoco divoratore, riduca in cenere le loro passioni di
morte per ricrearli ad una vita eterna."
Agostino trae la conclusione che la scienza umana è vana, se non è accompagnata da un giusto
rapporto fra l'uomo e Dio; insensato è colui che «sa misurare i cieli e contare le stelle e pesare gli
elementi, ma poi trascura Te che a tutto hai prestabilito misura, numero e peso» (cap. IV).
Dopo aver deplorato gli errori della dottrina di Mani nella scienza astronomica (cap. V), il Nostro
rievoca il suo incontro con il vescovo manicheo Fausto, che descrive come uomo garbato e ottimo
parlatore, ma non più profondo né più veridico quanto alla sostanza del suo insegnamento (cap. VI).
Agostino, peraltro, gli riconosce volentieri alcune buone qualità, prima fra tutte l'umiltà: infatti,
quando gli sottopone i suoi calcoli matematici che contrastavano con la dottrina manichea, Fausto
non vuole addentrarsi in tale materia, ammettendo la sua inadeguatezza a livello scientifico: non era
come quegli altri "venditori di fumo", ma un uomo retto, purtroppo invischiato nell'errore della sua
religione (cap. VII).
È a questo punto che Agostino, retore promettente e seguace già in crisi del manicheismo, decide di
partire da Cartagine per recarsi a Roma, spinto a un tale passo non dalla speranza di maggiori
guadagni o di una fama più vasta, ma dal desiderio di sottrarsi alla turbolenza degli studenti della
metropoli africana, per lavorare in un ambiente più calmo e sereno (cap. VIII). Siamo nel 383 e la
partenza avviene di nascosto dalla madre Monica; su di essa, crediamo, influisce anche la delusione
profonda riportata dall'incontro con Fausto, dal quale sperava di veder sciolti i suoi dubbi crescenti.
È come se, tagliandosi i ponti alle spalle e gettandosi a capofitto in una nuova vita, egli stia
cercando inconsciamente una nuova certezza cui aggrapparsi, qualche cosa in cui credere
fermamente dopo aver fatto il vuoto delle sue precedenti sicurezze.
Il viaggio non sembra compiersi sotto una buona stella: appena giunto a Roma, Agostino è colpito
da una grave malattia che lo spinge sull'orlo della morte; né si preoccupa, come invece aveva fatto,
in analoghe circostanze da bambino, di ricevere il battesimo. Ma Dio non vuole che giunga la sua
ora prima che lui sia riuscito a trovarLo, né che la povera Monica riceva una così dolorosa ferita,
prima di aver avuto la gioia di vedere il figlio tornare alla vera religione (cap. IX). Durante la
malattia, il Nostro si è consolato pensando, d'accordo con la dottrina manichea, che non l'uomo
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pecca con la sua libera volontà, ma un qualche cosa d'oscuro che si trova dentro di lui, e in qualche
modo da lui distinto; sicché, se morisse, la sua anima potrebbe affrontare il gran passo libera da
ogni peccato. Eppure la dottrina manichea, ormai, non era più in grado di soddisfarlo, e proprio per
il dualismo in essa esplicitamente affermato (cap. X).
"Mi pareva sconveniente in modo assoluto credere che Tu avessi l'aspetto di un corpo umano,
limitato e definito da contorni materiali come le nostre membra. E siccome quando volevo pensare
alla divinità non riuscivo che a fissarmi su masse corporee - a mio modo di vedere non esisteva
altro che non fosse tale -, ero tratto all'inevitabile errore da questa principalissima e quasi unica
ragione.
"Di qui la mia idea fissa che anche il male fosse una sostanza di quello stesso tipo, e avesse una
sua massa oscura e informe, in parte densa, ed era la terra, in parte tenue e sottile, come un corpo
aereo: a detta loro, uno spirito maligno che va strisciando su quella terra. E poiché il mio
sentimento religioso, di qualsiasi natura fosse, mi costringeva ad ammettere che un Dio buono non
poteva aver creato una natura cattiva, mettevo le due masse in opposizione tra loro, infinite
entrambe ma la cattiva in forma più angusta, la buona più ampia; pestilenziale premessa da cui
derivavano blasfeme conseguenze."
Certo, ricordando che una delle ragioni che spingono Agostino a scrivere le Confessioni sono
proprio le critiche malevole di quanti non sono disposti a perdonargli facilmente il suo passato di
manicheo militante, si può comprendere ora la sua insistenza nel prendere radicalmente le distanze
dalla loro dottrina; salvo poi, quando sarà nel pieno fervore della polemica contro l'ottimismo
antropologico propugnato dal pelagianesimo, ricadere in una visione assai cupa dell'umanità,
"massa dannata" che nulla potrebbe, con le sue sole forze, per innalzarsi verso la luce della grazia.
Comunque, egli descrive con sincerità questa fase di trapasso della sua vita, quando ondeggiava fra
le dottrine manichee, che sempre meno soddisfacevano le esigenze della sua anima, e quelle
cattoliche, verso le quali lo trattenevano ancora numerosi dubbi e pregiudizi (cap. XI).
La situazione del giovane insegnante, appena giunto nella vecchia capitale dell'Impero, non è delle
migliori; oltretutto, vive nel timore di essere truffato dai suoi discepoli, secondo le sregolate
consuetudini del tempo (cap. XII). Così, quando un anno dopo - nel384 - viene messo a concorso un
posto di docente di retorica a Milano, egli ricorre ai buoni uffici del praefectus Urbi, Simmaco - un
pagano convinto -, e lo ottiene; il viaggio nella nuova capitale, peraltro (Milano era la capitale
dell'Occidente dai tempi della tetrarchia dioclezianea), gli offre l'opportunità di avvicinare per la
prima volta la figura carismatica del vescovo cattolico di quella città, S. Ambrogio, energico
oppositore delle tendenze filo-ariane della corte occidentale. Agostino, peraltro, in un primo
momento è attratto dalla sua eloquenza, più che dai contenuti della sua predicazione; ma almeno è
inizio di avvicinamento al cristianesimo (cap. XIII). In quel momento, per una esigenza di onestà
intellettuale, egli decide di staccarsi dai manichei; non è ancora l'inizio della conversione, quanto un
temporaneo rifugio nello scetticismo allora prevalente nella scuola accademica, ove raccogliersi in
sé stesso, in attesa di ulteriori decisioni. (cap. XIV).
LIBRO SESTO
È ormai l'anno 385: Monica, rimasta vedova, raggiunge il figlio a Milano per stargli vicino e per
sostenerlo nel cammino verso la fede. (cap. I). La religiosità della madre è così pura e docile alla
guida spirituale di Ambrogio, che egli sene compiace più volte col figlio (cap. II). Agostino,
nonostante i cordiali rapporti instauratisi col vescovo di Milano, vorrebbe rivolgersi a lui per avere
chiarimenti dottrinali, ma ne è impedito dal pochissimo tempo che quegli ha a disposizione, preso
com'è dai mille impegni pratici relativi alla gestione della sua diocesi (cap. III). Lo trattiene anche
una sporta di orgoglio, poiché gli pesa dover ammettere di aver seguito per tanti anni le dottrine dei
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manichei, che ora giudica quantomeno incerte (cap. IV). In compenso si dedica con rinnovata
energia allo studio delle Sacre Scritture; e, se essa gli avevano fatto un tempo una cattiva
impressione per la loro oscurità, ora la lettura gli riesce molto più facile e persuasiva, tanto che
cadono in lui una serie di radicati pregiudizi (cap. V). Intanto continua a riflettere sulla patetica
ricerca della felicità, che gli uomini conducono inseguendo beni fallaci e, in particolare, il successo,
cui li spingono l'ambizione e il desiderio di onori. Infatti, poco dopo aver pronunciato il panegirico
in onore dell'imperatore Valentiniano II (allora quattordicenne, e per questo, probabilmente, "pieno
di falsità", come lo definisce ora, nelle Confessioni, il suo autore), Agostino osserva un mendicante
ubriaco che pare aver raggiunto quella pace dell'animo cui vanamente le persone sapienti aspirano
in tutto il corso della propria vita; episodio del tutto secondario, ma che lo lascia a lungo pensieroso
(cap. VI).
A Milano egli ha presso di sé due buoni amici, Nebridio e il giovane Alipio, un suo ex studente dei
tempi di Cartagine; e sappiamo quanto valore abbia per Agostino il sentimento dell'amicizia;
vorremmo dire che, nell'antichità latina, solo in Cicerone ne troviamo un senso altrettanto forte,
come di un nutrimento vitale dell'anima. Alipio rimane così impressionato da un discorso del suo
vecchio insegnante, che decide di rinunciare per sempre ad assistere agli spettacoli del circo, dei
quali era un grande appassionato (cap. VII): vivido esempio di quella riforma dei costumi, operata
dalla nuova morale d'ispirazione cristiana, che culminerà, ai primi del V secolo, con l'abolizione
definitiva dei ludi gladiatori per opera di un editto dell'imperatore Onorio. Uno scrittore
contemporaneo, l'americano Lewis Mumford, nel suo libro La condizione dell'uomo, ha scritto
pagine esemplari circa lo sfrenato sadismo, la morbosa eccitazione sessuale e la forte carica anti-
educativa cui gli spettacoli del circo avevano assuefatto le masse romane. Non è quindi cosa di poco
conto la dissuasione dal parteciparvi che la visione del mondo propria del cristianesimo ha operato
sulle plebi urbane della tarda romanità, raggiungendo quell'obiettivo che solo poche menti
illuminate, come Seneca, avevano vagheggiato a suo tempo: bonificare la palude delle passioni più
basse e violente, a favore di una concezione della persona umana basata sulla sua intrinseca dignità
e sul suo fine trascendente.
Famosa, e degna di un grande scrittore, è la pagina in cui Agostino descrive il meccanismo
psicologico mediante il quale una persona mite e di indole profondamente buona, come il giovane
Alipio, era stata presa e inconsapevolmente trascinata a una vera e propria forma di dipendenza dai