PRIMA DOMENICA DI AVVENTO Anno A FOGLIO DI INFORMAZIONE INTERPARROCCHIALE PARROCCHIE DI MOGLIANO VENETO Collaborazione Pastorale di: Cuore Immacolato di Maria, Sacro Cuore, S. Antonio, S.Carlo, S. Elena Imperatrice, S. Marco, S. Maria Assunta, SS. Teonisto e Comp. Martiri A noi, che cominciamo questo tempo di Avvento, tu, Gesù, rivolgi un invito pressante. Ci metti in guardia dal rischio di trovarci del tutto impreparati al giorno dell’appuntamento: come viaggiatori distratti ignari della regione che attraversano, come esploratori privi di bussola e condannati a perdersi, come persone cariche di tanti affanni al punto di non riuscir più ad alzare il capo e a scrutare l’orizzonte. No, non possiamo rinunciare a decifrare il tempo in cui viviamo, a cogliere le tracce della tua presenza, gli indizi che lo Spirito dissemina sul nostro percorso quotidiano. Tu non vuoi che ci lasciamo condurre dalla corrente, in balìa degli umori del momento, delle reazioni della pancia, afferrati e comandati da modi di giudicare e di reagire che non hanno nulla in comune con la parola limpida del tuo Vangelo. È vero, Gesù, la nostra canoa, priva da troppo tempo di remi, prima o poi ci condurrà dentro rapide avvistate all’ultimo momento. Ecco perché è decisivo aprire bene gli occhi, rimanere svegli e pronti, e lasciarsi guidare da te. Roberto Laurita Il giorno dei figli e delle figlie Dopo averci annunciato una promessa di pace cosmica più grande della prima, Isaia ci fa tornare all’evento fondativo d’Israele: all’Egitto, all’attraversamento del mare, alla fine della schiavitù. Quella prima grande liberazione collettiva diventa il punto di osservazione del presente e del futuro del suo popolo e dell’umanità. L’uscita dall’Egitto non appartiene al passato, è caparra di futuro: se la liberazione è avvenuta una volta, allora può avvenire ancora. La prima parola del Decalogo è una memoria: «Io sono YHWH, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» Shema’ Israel: ascolta, quindi ricorda. Nella bibbia l’ascoltare è un ricordare. È un ascolto della voce dello spirito e dei profeti, che hanno per vocazione il compito di legare memoria e promessa. Lo stesso compito che hanno i carismi, che sono la continuazione della profezia biblica. È questa la visione della storia nella Bibbia. Noi l’abbiamo tradita, quando abbiamo deciso che solo il presente è reale e vero, che il passato è morto per sempre, e il futuro è una scommessa affidata alle previsioni degli analisti finanziari o agli oroscopi. La Bibbia è invece un continuo formidabile esercizio di una memoria viva capace di futuro. Come le piante, noi viviamo e restiamo vivi se teniamo assieme le radici e la luce del cielo, la memoria e la promessa, una bella storia dell’origine con una storia ancora più bella del destino. Possiamo allora comprendere qualcosa che tocca il cuore della profezia di Isaia. Si dice che il libro di Isaia sia il libro della fede. Lo sviluppo di questo rotolo ci sta aprendo anche la logica della speranza biblica. Una speranza che oggi noi non capiamo più, perché abbiamo perso contatto con lo spirito biblico e con il suo rapporto sapienziale con il tempo. Quella biblica è sempre una speranza storica, non rimandata a un eskaton dopo la storia. L’unico paradiso possibile è quello che riusciamo a costruire sulla terra, che è l’unico luogo dove YHWH vive e opera. Questa speranza si svolge allora attraverso le generazioni, passa da padre in figlio. Come la fede. L’uomo biblico può credere perché i suoi padri hanno creduto. La sua fede è tradizione. I nostri padri fondano la fede, ma la nostra speranza fonda l’avveramento della promessa nel giorno dei figli. Noi siamo nell’esilio, ma crediamo che i nostri figli avranno di nuovo una terra. Allora possiamo già lodare e ringraziare per una liberazione che non è per noi perché è più grande di noi: «In quel giorno tu dirai: “… io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore".» Da L. Bruni, In ascolto della vita, Avvenire 20 agosto 2016. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo». Inizia il tempo dell'Avvento, quando la ricerca di Dio si muta in attesa di Dio. Di un Dio che ha sempre da nascere, sempre incamminato e sempre straniero in un mondo e un cuore distratti. La distrazione, appunto, da cui deriva la superficialità «il vizio supremo della nostra epoca» (R. Panikkar). «Come ai giorni di Noè, quando non si accorsero di nulla; mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito e non si accorsero di nulla». È possibile vivere così, da utenti della vita e non da viventi, senza sogni e senza mistero. È possibile vivere "senza accorgersi di nulla", di chi ti sfiora nella tua casa, di chi ti rivolge la parola, di cento naufraghi a Lampedusa o del povero alla porta. Senza vedere questo pianeta avvelenato e umiliato e la casa comune depredata dai nostri stili di vita insostenibili. Si può vivere senza volti: volti di popoli in guerra; volti di donne violate, comprate, vendute; di anziani in cerca di una carezza e di considerazione; di lavoratori precari, derubati del loro futuro. Per accorgersi è necessario fermarsi, in questa corsa, in questa furia di vivere che ci ha preso tutti. E poi inginocchiarsi, ascoltare come bambini e guardare come innamorati: allora ti accorgi della sofferenza che preme, della mano tesa, degli occhi che ti cercano e delle lacrime silenziose che vi tremano. E dei mille doni che i giorni recano, delle forze di bontà e di bellezza all'opera in ogni essere. L'altro nome dell'Avvento è vivere con attenzione. Un termine che non indica uno stato d'animo ma un movimento, un "tendere-a", uscendo da sé stessi. Tempo di strade è l'avvento, quando il nome di Dio è "Colui-che-viene", che cammina a piedi, senza clamore, nella polvere delle nostre strade, sui passi dei poveri e dei migranti, camminatore dei secoli e dei giorni. E servono grandi occhi. «Due uomini saranno nel campo, due donne macineranno alla mola, uno sarà preso e uno lasciato»: non sono parole riferite alla fine del mondo, alla morte a caso, ma al senso ultimo delle cose, quello più profondo e definitivo. Sui campi della vita uno vive in modo adulto, uno infantile. Uno vive sull'orlo dell'infinito, un altro solo dentro il circuito breve della sua pelle e dei suoi bisogni. Uno vive per prendere e avere, uno invece è generoso con gli altri di pane e di amore. Tra questi due uno solo è pronto all'incontro con il Signore. Uno solo sta sulla soglia e veglia sui germogli che nascono in lui, attorno a lui, nella storia grande, nella piccola cronaca, mentre l'altro non si accorge di nulla. Uno solo sentirà le onde dell'infinito che vengono ad infrangersi sul promontorio della sua vita e una mano che bussa alla porta, come un appello a salpare. ( di Ermes Ronchi ) nr. 77 Domenica 27 novembre ( Matteo 24,37-44)