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Firenze e l’Alchimia (prima parte) “O voi che avete gli intelletti sani/ mirate la dottrina che s’asconde/ dietro il velame delli versi strani”. (Inf. IX,61-63) Una frase abbastanza emblematica quella di Dante Alighieri, che ci introduce verso la riscoperta di un argomento forse oggi dimenticato o volutamente “oscurato”, ma che per secoli rappresentò il “mare magnum” del vero Sapere: l’Alchimia. Secondo il sommo Poeta ci vogliono intelletti “sani”, preparati e pronti dottrinalmente, per recepire un simile messaggio. Quei versi “strani” a cui si riferisce Dante venivano utilizzati per velare la segreta “scienza di Dio”, e così proteggerla dall’ignoranza, dalla dabbenaggine e dalla mala fede. Non dimentichiamo che un tempo arte, scienza, filosofia, astrologia, astronomia, magia ed alchimia, erano un unico Sapere e spettava al Re- Sacerdote, depositario di quell’antica conoscenza, utilizzare il linguaggio più “adatto” per tramandarla. Basti pensare ai tre Re Magi, sapienti perfettissimi, che dall’Oriente videro sorgere nel cielo una stella più splendente del Sole, la seguirono e si fecero condurre da quel chiarore nel luogo in cui stava per nascere Gesù, il Salvatore dell’Umanità. Il termine “Mag” identificava il Sacerdote medio o persiano e “Maghira” in caldaico voleva dire “scienza e arte dei Magi”: etimologie che ci fanno capire quanto un tempo il termine “Magia” rivestisse un alto significato sapienziale. E’ proprio dall’Oriente che ci arriva quest’antica conoscenza. Mesopotamia, Egitto, furono le culle della Tradizione arcaica, ma troviamo testi alchemici anche in Cina, India e nel mondo Arabo. 1
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Firenze e l'Alchimia - accademiasalute | · René Guénon, saggista ed ermetista francese, nel suo libro “L’esoterismo di Dante” così afferma: “All’epoca di Dante, l’ermetismo

Feb 16, 2019

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Page 1: Firenze e l'Alchimia - accademiasalute | · René Guénon, saggista ed ermetista francese, nel suo libro “L’esoterismo di Dante” così afferma: “All’epoca di Dante, l’ermetismo

! ! Firenze e l’Alchimia ! ! ! ! (prima parte)

“O voi che avete gli intelletti sani/ mirate la dottrina che s’asconde/ dietro il velame delli versi strani”. (Inf. IX,61-63)Una frase abbastanza emblematica quella di Dante Alighieri, che ci introduce verso la riscoperta di un argomento forse oggi dimenticato o volutamente “oscurato”, ma che per secoli rappresentò il “mare magnum” de l ve ro Sapere : l’Alchimia.Secondo il sommo Poeta ci vogliono intelletti “sani”, preparati e pronti dottrinalmente, per recepire un simile messaggio. Quei versi “strani” a cui si riferisce Dante venivano utilizzati per velare la segreta “scienza di Dio”, e così proteggerla dall’ignoranza, dalla dabbenaggine e dalla mala fede.Non dimentichiamo che un tempo arte, scienza, filosofia, astrologia, astronomia, magia ed alchimia, erano un unico Sapere e spettava al Re-Sacerdote, depositario di quell’antica conoscenza, utilizzare il linguaggio più “adatto” per tramandarla.

Basti pensare ai tre Re Magi, sapienti perfettissimi, che dall’Oriente videro sorgere nel cielo una stella più splendente del Sole, la seguirono e si fecero condurre da quel chiarore nel luogo in cui stava per nascere Gesù, il Salvatore dell’Umanità.Il termine “Mag” identificava il Sacerdote medio o persiano e “Maghira” in caldaico voleva dire “scienza e arte dei Magi”: etimologie che ci fanno capire quanto un tempo

il termine “Magia” rivestisse un alto significato sapienziale.E’ proprio dall’Oriente che ci arriva quest’antica conoscenza. Mesopotamia, Egitto, furono le culle della Tradizione arcaica, ma troviamo testi alchemici anche in Cina, India e nel mondo Arabo.

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“In Cina circa 300 dei 1500 scritti del Canone Taoista sono testi alchemici”, afferma l’architetto medievalista Gaetano Manara, mettendo in evidenza la portata di tale scienza. Le dinastie Quin e Han dal III al I secolo a.C. furono le più antiche; poi quella stessa conoscenza fu ripresa durante le dinastie Iin e Tang che risalivano rispettivamente al IV e VIII secolo d.C. Nel “Libro dei nove Elisir”, in quello degli “Elisir della Grande Purezza” ed infine nel “Libro dell’Elisir del Liquore d’oro” vi si ritrovano le formule per la preparazione dell’Elisir divino. Il piombo e il mercurio, sottoposti al calore del fuoco, liberavano le loro essenze e, dalla ripetuta distillazione di quei prodotti ottenuti, si otteneva l’Elisir ovvero l’Opera alchemica portata al suo stato di perfezione. Quelle sperimentazioni avvenivano in un contesto rituale ed i relativi insegnamenti erano caratterizzati da un linguaggio “oscuro” che si fondava sulla trasmissione di istruzioni orali intercorrenti tra maestro e discepolo: tra i due doveva instaurarsi una specie di patto di fiducia e di “alleanza”, senza il quale sarebbe stato impossibile procedere alla preparazione di quell’Essenza.Ad una realizzazione pratica, materiale, che comportava la trasformazione fisica dei metalli (alchimia esterna), si affiancava poi un altro tipo di realizzazione, interiore e segreta, che si basava sull’intima evoluzione spirituale personale (alchimia interna).

Nell’alchimia cinese il piombo rappresentava il principio femminile ed il mercurio quello maschile - lo Yin e lo Yang - i due principi fondamentali che generano l’unione dei due opposti: il Cielo e la Terra, il Sole e la Luna e tutte le relazioni che possono nascere da questa unione e contrapposizione.Un posto di preminenza spettava alla “donna” che nei testi alchemici veniva ricordata come Donna Misteriosa, Donna Pura e Donna Scelta, definizioni che poi

troveranno chiara analogia nel mondo Occidentale in quella figura femminile che verrà poi idealizzata dai Fedeli d’Amore. In India l’arte alchemica era chiamata Rasayana o “Arte della lunga vita”. Quest’arte ebbe inizio con l’uso di misture di erbe per poi privilegiare l’impiego di preparati a base di mercurio. Il termine “rasa” voleva dire “oro”: la meta spirituale finale che ogni vero alchimista si proponeva di raggiungere.

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In India venne data grande importanza alla proprietà “energizzante” delle piante ed alla loro capacità di interagire con i metalli. Così riporta Gaetano Manara in un suo articolo: “Infatti è fondamentale far reagire il metallo opportunamente trattato con una sostanza vegetale in modo da creare una reazione di tipo chimico-energetico, importante per la trasmissione dell’ ‘anima’ della pianta al metallo.”Fu il grande alchimista indiano Charaka ad indicare questo procedimento chiamandolo “processo di calcinazione dei metalli”. Il pezzo di metallo veniva ridotto in foglie sottili, poi scaldato al fuoco, sottoposto all’azione di agenti riducenti e lasciato per più di un anno in un vaso di terracotta fino a farlo diventare un composto ferroso. Il preparato poi veniva assunto con

miele e “ghee”, burro chiarificato indiano dalle proprietà antiossidanti. In antichi testi indiani si trova scritto che questo medicamento, assunto ogni mattina per un anno, avrebbe dato la vitalità di un elefante e avrebbe reso immune dalle malattie e dall’invecchiamento.Intorno al VII secolo l’Alchimia fece

la sua comparsa anche nel mondo Arabo fornendo un notevole contributo sia nel campo della medicina che in quello astronomico-astrologico. Gli alchimisti arabi coniugarono l’aspetto pratico e operativo con quello spirituale al fine di giungere, attraverso reiterate sperimentazioni, alla creazione dell’“oro filosofico”. L’Alchimia araba, ponendo le sue fondamenta nell’antica Dottrina Ermetica egiziana, non si limitò quindi a riproporre le pratiche “metallurgiche” indiane, ma al largò la sua ricerca nell ’arte di trasformazione dei metalli e delle sostanze, collegando queste operazioni ad intime esperienze di purificazione dell’anima. Per gli Arabi il vero alchimista era colui che si serviva delle conoscenze della Natura per giungere a Dio. La ricerca dell’Elixir o Pietra Filosofale era il suo scopo e ogni

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sforzo doveva essere puntato verso l’ottenimento di una perfezione spirituale interiore.I termini “alchimia”, “elisir”, “alambicco”, “atanor” e “azoth” sono di origine araba, come pure la tecnica di “distillazione” e l’ottenimento dell’“acqua regia”. Ma, come abbiamo già accennato, il nome “alchimia” ebbe le sue origini presso civiltà ancora più antiche. In Egitto il termine Al Kemi, trovò relazione con “kemi” la Terra Nera, per via del colore nero del limo che il fiume Nilo rilasciava durante le sue piene e

quindi intimamente legata all’idea di fertilità e di rigenerazione portata da quelle benefiche acque. In Grecia la parola Kymeia, “fondere”, faceva riferimento alla trasmutazione dei metalli e in Cina con il termine Kim-iya, s’intendeva il “succo per fare l’oro”. Infine arriviamo al mondo Arabo ed alla parola Al-Kimiyà, formata dall’articolo “al” e da “kimiyà” che derivava da “khemeia” (chimica) e si riferiva a tutte le operazioni utili per ottenere le leghe metalliche o i “succhi vegetali”.La politica espansionistica araba portò questo popolo ad entrare in contatto con il patrimonio culturale delle più antiche civiltà mesopotamiche, egiziane, greche, indiane e del Turkestan diventando il più valido intermediario tra il sapere antico e quello dell’evo moderno. Bagdad nell’VIII secolo divenne il centro di quelle arcaiche conoscenze sapienziali, che si diffusero ben presto in Spagna ed in tutto il bacino del Mediterraneo fino ai confini dell’Estremo Oriente.I più grandi pensatori e scienziati arabi quali Avicenna e Averroè, coltivarono discipl ine come la medicina, la matematica, la fisica, l’astronomia e l’astrologia. Le città arabe cominciarono ad abbellirsi di grandiosi monumenti decorati con motivi geometrici e la geometria fu utilizzata in ogni sua possibile applicazione, perché la cultura islamica identificò in questa “scienza ordinata” il riflesso della Creazione divina ed il punto di contatto tra la fisica e la metafisica, tra la realtà umana e la trascendenza Divina.

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Se da un lato l’Occidente venne ad arricchirsi di un notevole patrimonio scientifico, dall’altra l’avanzata islamica cominciò a costituire un serio pericolo per diversi Paesi del mondo.Nel 1118 l’Ordine Templare, vero baluardo posto a difesa del Santo Sepolcro, ebbe modo di entrare in contatto con la Santa Scienza dei patriarchi d’Oriente e con il mondo arabo. E’ importante ricordare che fra i Cavalieri del Tempio ed Cavalieri dell’Islam non intercorsero solo serrate battaglie e momenti di ostilità, ma anche importanti scambi intellettuali. Non dimentichiamo che furono proprio i Templari che, assimilate quelle antiche conoscenze ermetiche, si impegnarono a diffonderle nel mondo artistico e scientifico occidentale del XII e XIII secolo. Quando i Cavalieri del Tempio entrarono sulla scena del mondo, tutte le Arti cominciarono a rifiorire e la stessa cosa avvenne anche per l’Alchimia. La temibilità dei Templari risiedeva non solo nel potere politico e religioso che stavano sempre più acquisendo, ma anche nel vasto “sapere” di cui erano venuti a conoscenza. Il contatto con la civiltà araba li aveva avvicinati ad un movimento di pensiero che ricercava punti d’incontro tra le religioni e presagiva una futura convivenza tra i popoli nel nome di un Unico Dio: argomento non certo visto di buon occhio dalla supremazia imperiale e papale degli inizi del XIV secolo.L’ingiusta persecuzione subita dai Templari ed il loro preordinato

annientamento, non servirono tuttavia a soffocare il diffondersi di quelle stesse conoscenze alchemico-sapienziali. A Firenze furono i Fedeli d’Amore a perpetuare quella Sapienza, ma questa volta nascondendola sotto un linguaggio che poteva sfuggire all’Inquisizione papale, che già dall’inizio del XIII secolo aveva cominciato a fare le sue vittime.I Fedeli d’Amore, nati sulla scia della lirica provenzale trobadorica, parlavano di un “amore cortese” capace di affinare e nobilitare l’uomo e ravvisavano in quel sentimento il “fuoco celeste” o “Fuoco dei Filosofi”: una forza spirituale nuova, Divina, che trascendeva la condizione umana.

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“Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,/che ‘l velo è ora ben sottile,/certo che ‘l trapassar dentro è leggero”, scriverà Dante Alighieri nell’ VIII Canto del Purgatorio (19,21), ribadendo il concetto di quali sottili conoscenze si possono celare sotto ad un linguaggio apparentemente ordinario.Del resto è Dante stesso a comunicare in una sua lettera scritta a Cangrande della Scala che il suo poema si può leggere non solo in senso letterale, allegorico e morale, ma anche in senso anagogico o spirituale: il più difficile ed importante da interpretare se non si conoscono i dettami della Dottrina Ermetica.Foscolo, Rossetti, Aroux, Pascoli, Valli e Guénon furono tra i primi ad intuire la complessità della Divina Commedia ed a notare che la triste vicenda dei Cavalieri del Tempio attraversa tutta il poema con cenni sparsi qua e là che però, se attentamente raccolti, danno un chiaro quadro di quanto Dante fosse legato a quell’Ordine.René Guénon, saggista ed ermetista francese, nel suo libro “L’esoterismo di Dante” così afferma: “All’epoca di Dante, l’ermetismo esisteva molto certamente nell’Ordine del Tempio, come pure la conoscenza di certe dottrine di origine sicuramente arabe che Dante stesso non sembra aver ignorato, e che gli furono senza dubbio trasmesse anche per questa via.”

La figura di San Bernardo da Chiaravalle, ispiratore dell’Ordine Templare, che appare al Poeta nel XXXI canto del Paradiso come guida per condurlo verso i piani più eccelsi dell’Empireo, non può che confermare quanto appena detto. Guénon oltre a mettere in evidenza infiniti esempi che forniscono la testimonianza del perché la Divina Commedia deve essere considerata un testo alchemico di grande valore, si sofferma anche sull’affiliazione del sommo Poeta all’Ordine del Tempio. Lo scrittore afferma che tra la fine del

XIII e l’inizio del XIV secolo, sia in Francia che in Italia, cominciò a mettersi in luce una tradizione ermetica che nel 1374 prese il nome di Fraternitas

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Rosae-Crucis. La storia dell’Ordine dei Rosa-Croce fu intimamente legata a quella dell’Ordine Templare e conservata da organizzazioni iniziatiche come quelle della Fede Santa e dei Fedeli d’Amore a cui Dante Alighieri appartenne.Nel museo di Vienna è infatti conservata una medaglia che porta sul rovescio le F.S.K.I.P.F.T, alle quali l’ Aroux, letterato ermetista francese, dette questo significato: “Frater Sacrae Kadosh, Imperialis Principatus, Frater Templarius”. Guénon preciserà che quelle prime tre lettere F.S.K vanno lette come “Fidei Sanctae Kadosh”, ovvero associazione della “Santa Fede”, un Terz’Ordine di affiliazione templare a cui appartenne Dante. Il termine ebraico Kadosh, che significa “santo” o “consacrato”, sembra dunque confermare non solo l’appartenenza a quell’Ordine, ma anche il suo ruolo di preminenza.Questo spiegherebbe come mai nella Divina Commedia appaiono chiare testimonianze allegoriche che riconducano all’alchimia, alla mitologia, al simbolismo, alla numerologia, all’astronomia, all’astrologia ed alla Kabbala ebraica: un’unità dottrinale che scaturisce da un’unica arcaica Sapienza tramandata nei secoli da un Ordine Iniziatico all’altro.Così scriveva Salomone nel capitolo VIII della Sapienza: “Questa ho amato e ricercato fin dalla mai giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza.” Quello stesso ideale accompagnerà anche i Fedeli d’Amore che riuscirono a

velare l’amore per la Sapienza Divina e per la Vergine Maria, sotto le spoglie di una Donna bellissima da loro perdutamente amata ed incessantemente ricercata.Dante, nella “Vita Nuova”, nomina per ben sette volte i Fedeli d’Amore. Il sette fu il numero sacro per eccellenza, al quale nella Bibbia e nell’Apocalisse si fanno continui riferimenti. Il sette è il numero dell’Uomo Nuovo, perfettamente realizzato che è riuscito a fondere la sua perfezione morale con le tre Virtù teologali. Anche Beatrice appare per la prima volta nella Vita Nuova. Beatrice rappresenta l’elemento femminile segreto, misterioso,

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talmente amato secondo i canoni dell’ “amor cortese”, da suscitare in Dante un “mistico risveglio”. Anche il simbolismo che si cela dietro ai colori delle vesti di Beatrice è di taglio alchemico: la sua veste è rossa quando Dante la incontra per la prima volta, poi sarà di “colore bianchissimo” quando la rivedrà dopo nove anni ed infine il suo mantello sarà “di vel cinta d’oliva”, quando la incontrerà nuovamente nel XXX Canto del Purgatorio, per guidarlo verso il Paradiso.I colori rosso, bianco e verde rappresentano tre importanti fasi alchemiche che riconducono ad un intimo lavoro di introspezione e di crescita spirituale che il Sommo Poeta stava portando a compimento.Il modello è la Vergine Maria, simbolo di Sophia, il principio femminile divino a cui Templari, Rosacruciani e Fedeli d’Amore fecero sempre riferimento.Quindi non stupisce se nella piccola chiesa di San Francesco di Paola, situata nell’Oltrarno a Firenze, appare un dipinto di Taddeo Gaddi, pittore del XIV secolo, che riproduce Maria con quegli stessi colori: la tunica rossa, il velo

bianco e le finiture del velo verdi.Taddeo Gaddi, della bottega di Giotto, originariamente dipinse la “Madonna del parto” per la chiesa di San Pier Maggiore che si trovava affacciata sulla piazza omonima. Nel 1784, prima che la chiesa venisse definitivamente abbattuta, l’affresco venne staccato e trasferito nella chiesa di San Francesco di Paola, dove tutt’ora si trova.Maria, vestita di quei tre colori, con il ventre prominente e nella mano sinistra il libro chiuso, trova una sua relazione con l’icona bizantina della Madre di Dio “orante”, raffigurata in piedi, con le mani sollevate in preghiera ed al centro del petto un nimbo che contiene l’immagine del Bambino

benedicente. Quei tre colori sembrano riproporre il mistero profondo dell’Annunciazione: il rosso rammenta l’Amore Divino; il bianco ricorda il puro candore della sua anima ed il verde, il verde virgulto, Gesù Cristo, il germoglio di Davide, che darà alla luce.

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Maria rappresenta dunque la Mater Archetipica, il mare della vita universale, la “materia prima” o “materia vergine” dei Filosofi, la Potenza Generativa che darà vita al Figlio e quel libro chiuso che tiene in mano, la Sapienza che ancora deve manifestarsi. L’Alchimia, come sappiamo, è sperimentazione pratica della Dottrina Ermetica ed anche comunicazione di un “sapere” al quale si poteva accedere attraverso lo studio e la ricezione di un messaggio che passava direttamente da “bocca a orecchio” cioè da Maestro a discepolo, in modo da perpetuare nei secoli quella conoscenza.La conoscenza sapienziale dei Templari sopravvisse dunque nei Fedeli d’Amore che in quel periodo storico riunì scrittori come Francesco da Barberino, Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, Cino da Pistoia, Cecco d’Ascoli e tanti altri grandi nomi della cultura di quel tempo che coltivarono dentro di loro la fiamma d’amore sia per la Vergine Maria che per la Sapienza Santa.Giovanni Villani, storico e cronista di quegli anni, così ricorda nel suo libro “I primi secoli della storia di Firenze”: “Firenze fu il centro di una così grande cultura perché fu la sede delle maggiori libertà che erano allora possibili”.Quando il Villani accennò alle “libertà” che si esercitavano a Firenze, si

riferiva sia alle sette Arti Liberali - Trivio e Quatrivio - che alle sette Arti Maggiori, corporazioni di arti e mestieri capaci di organizzare tutte le attività economiche cittadine. Alle sette Arti Maggiori, nate tra la metà del XII e XIII secolo, poi si affiancarono le quattordici Arti Minori che comprendevano maestri d’opera

ed artigiani.Dante, per partecipare alla vita politica di Firenze, si iscrisse all’arte dei Medici e Speziali, corporazione nata intorno al 1313 che si basava sulla conoscenza delle virtù curative delle erbe officinali che venivano vendute, insieme alle polveri minerali, alle essenze vegetali e alle droghe alimentari, nelle botteghe che esercitavano questa scienza.

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I medici di allora erano profondi cultori delle sette Arti Liberali e quindi anche della Filosofia e di tutte le Scienze, compresa l’Astrologia. La malattia era vista come perdita dell’armonia fisica ed i medicamenti adottati dai medici e speziali si basavano su antiche formule che tendevano a curare il malato non per il singolo problema, ma nell’interezza della sua persona.Erano gli speziali che, grazie alle loro conoscenze, erano in grado di preparare le medicine prescritte e molti furono i medici che cominciarono ad interessarsi all’Alchimia.Tra il XIV ed il XV secolo, oltre all’antico “Ricettario Fiorentino”, vero compendio di tutte le conoscenze farmacologiche di quell’epoca, vennero pubblicati anche testi alchemici che riportavano preparazioni per ottenere l’“Elixir”, antico medicamento capace di guarire le malattie del corpo e dell’anima.Nella Biblioteca Laurenziana ancora oggi viene conservato uno splendido documento (“Testamentum”) attribuito a Raimondo Lullo alchimista terziario dell’ordine francescano, che riportò le tecniche utilizzate per l’ottenimento di quella misteriosa “essenza” così ricercata dagli Alchimisti. Il prezioso manoscritto fu dipinto dal miniaturista Gerardo da Cremona che in quegli anni lavorava assiduamente anche a Firenze. In ogni capolettera iniziale venne rappresentato un frate francescano che

compiva un’operazione alchemica differente: nella prima miniatura appare in atteggiamento di invocazione e preghiera, invece nelle altre viene raffigurato mentre ara, semina, tinge, cuoce e distilla la materia fino a sublimarla in una “quintessenza”.Quella prima miniatura, che ritrae il frate inginocchiato e in atto di preghiera, faceva intuire quanto l’Alchimia fosse stata strettamente legata all’ordine religioso dei Francescani. Le operazioni

illustrate volevano dare la certezza che solo un paziente cammino fatto di disciplina interiore, sarebbe stato in grado di condurre l’uomo e la donna verso la realizzazione di intime esperienze spirituali.

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Sembra che il primo insediamento francescano a Firenze sia avvenuto intorno alla prima metà del XIII secolo, quando i Cavalieri Templari cedettero la loro Magione di Santa Croce al Tempio ai frati minori di quell’ordine, per spostarsi in “San Jacopo delle Vigne”.Quindi dal XII al XIV secolo non solo medici, letterati ed artisti si avvicinarono all’Alchimia, ma anche personaggi del mondo religioso quali San Bonaventura, San Francesco, frate Elia, Raimondo Lullo, Ruggero Bacone, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Ci accorgeremo che lo stesso interesse alchemico che pervaderà Firenze anche nei secoli successivi, vedrà la città risplendere di un grande fulgore.Sarà la Famiglia de’ Medici, con il suo intelligente mecenatismo, a fare di Firenze un centro di irradiamento artistico e culturale che pochissime altre città del mondo seppero raggiungere.Dante Alighieri nella “Vita Nuova” auspicava per se stesso e per l’Umanità una “vita nuova”, “rinnovata” da un Amore che non aveva niente a che vedere con quello di tipo ordinario.“...Amore era quelli che così m'avea governato”- scriverà il Poeta nella sua opera - accennando velatamente ad un tipo di sentimento che per secoli, come un sottile “filo aureo”, è stato capace di trascendere l’umana natura per condurre verso la Sapienza Divina.!

! ! “Dante e la Divina Commedia” di Domenico Michelino " " " Santa Maria del Fiore

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