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FARMACOLOGIA GENERALE
DEFINIZIONI GENERALI
Farmacologia: Scienza bio-medica che studia i farmaci e i meccanismi con i quali queste molecole agiscono
sugli organismi. Studia e definisce le giuste modalità di scelta e dosaggio di un farmaco: quando è possibile
descrivere una curva dose-effetto e la molecola specifica parliamo di farmaco (il farmaco “coincide” con i
principi attivi presenti in specifici cibi, piante, etc.). È l’analisi e definizione dei meccanismi generali che
sottendono l’azione dei farmaci.
La farmacologia permette di sapere qualunque cosa di un farmaco, sia gli aspetti positivi che negativi della
molecola sul paziente. Se la dose è eccessiva, si può andare incontro a tossicità e mortalità: i farmaci devono
essere usati all’interno della loro finestra terapeutica; al di sopra o al di sotto di questa finestra, non si esegue
alcuna terapia (al di sotto) oppure parliamo di tossicità (al di sopra). Il farmaco ha effetti simili, alla stessa
dose, nella maggior parte della popolazione mondiale: a questo sfuggono alcuni individui sulla base della
farmacogenetica.
Per una terapia, non basta scegliere il farmaco e la dose corretta, ma soprattutto la durata della terapia: ad
esempio, una terapia antibiotica può essere eseguita in maniera scorretta (una sola somministrazione non è
terapia antibiotica). Se il protocollo richiede dieci giorni, allora la terapia per essere corretta deve durare dieci
giorni. Di questo si occupa la farmacocinetica, che descrive gli effetti dell’organismo sul farmaco. Per
brevettare e mettere in commercio un farmaco, occorrono studi di farmacocinetica alla ricerca del miglior
dosaggio possibile; quando la farmacocinetica è corretta, significa che siamo riusciti a far arrivare a livello del
plasma una quantità corretta di farmaco, per il giusto tempo, che si distribuisce ai suoi recettori specifici.
Molecole per le quali non sono possibili queste descrizioni non sono considerabili farmaci. L’effetto del
farmaco sull’organismo, quindi il risultato della terapia, è descritto invece dalla farmacodinamica.
Compliance → adesione, accettazione della terapia da parte del paziente: assunzione della terapia nelle giuste
modalità e per il giusto periodo. Una terapia che prevede “fastidio” o “dolore” per il paziente determinerà una
scelta nel paziente di non seguire più quella terapia. Allo stesso modo, è possibile che il farmaco venga assunto,
ma non secondo le modalità o durata di somministrazione. Se questo succede, possiamo andare incontro a
inefficacia della terapia.
Farmaco-cinetica e -dinamica sono alla base di una serie di altre discipline:
- Tossicologia: studio sugli effetti negativi e sull’uso non terapeutico di un farmaco. Permette di
descrivere il potenziale pericolo per il paziente quando somministriamo un farmaco e permette di
studiare anche metodi per “curare” quando ciò avviene.
- Farmacologia clinica: permette di studiare gli effetti del farmaco su individui volontari sani, a chi
deve essere somministrato, in quali dosi è sicuro, etc. Permette la commercializzazione del farmaco
- Farmacogenetica: poiché ogni individuo è diverso dagli altri, grazie a mutazioni a livello genetico,
un determinato farmaco non avrà lo stesso effetto su tutta la popolazione generale. La farmacogenetica
(e la farmacogenomica) permettono di caratterizzare il singolo individuo e di come egli gestisce e
metabolizza il farmaco (sistema dei citocromi).
- Farmacovigilanza: controllo sulla sicurezza dei farmaci. È una vigilanza attiva, per cui qualsiasi
farmaco utilizzato è controllato, monitorando e acquisendo informazioni su reazioni avverse in
determinati pazienti, così da comprendere se il farmaco è pericoloso per la popolazione generale o se
ha effetti negativi solo su una porzione di essa (in questo caso, gli effetti collaterali e le popolazioni in
cui il farmaco è pericoloso sono segnati sul foglietto illustrativo). Chiunque può segnalare reazioni
avverse
- Farmacoepidemiologia e farmacoeconomia: rappresentano tutta la gestione “economica” e
“politica” del commercio dei farmaci. Se due farmaci hanno la stessa efficacia, verrà scelto quello che
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costa meno (nel senso che il costo di produzione è minore). Importante è la valutazione del rapporto
costo/beneficio.
Farmaco → Medicinale → principio attivo: è ciò che studieremo. Lo stesso principio attivo può essere presente
in due nomi commerciali differenti, così come un prodotto può contenere più principi attivi.
Si intende per medicinale una sostanza o associazione di sostanze che:
- Ha proprietà curative o profilattiche delle malattie umane
- Può essere usata dall’uomo o somministrata all’uomo per ripristinare, correggere o, in generale,
modificare una o più funzioni fisiologiche, esercitando una funzione farmacologica, immunologica o
metabolica, o di stabilire una diagnosi medica.
- Determina variazioni funzionali sempre quantificabili nell’organismo
Le molecole con attività farmacologiche possono essere:
- Endogene: sintetizzate dall’organismo (es. ormoni)
- Esogene (o xenobiotici): sostanze di sintesi o estratte da animali/piante
Il termine xenobiotico, in realtà, indica qualunque sostanza esterna al nostro organismo, quindi sia medicinali
e medicamenti, sia sostanze tossiche (sia di origine vegetale-animale – tossine – sia veleni inorganici – piombo,
arsenico, etc –). Tra le sostanze tossiche, molte sono considerabili borderline: un tipico esempio è l’arsenico,
il quale, se usato correttamente, permette di risolvere alcuni tipi di leucemia umana. Lo stesso alluminio, che
usato in quantità elevate è tossico, in realtà può essere usato, nelle giuste dosi, come enhancer nei vaccini, per
sviluppare la reazione immunitaria.
ORIGINE E SINTESI DEI FARMACI
Originariamente, i farmaci avevano origine naturale: derivavano da piante, animali, microrganismi o da
minerali presenti di per sé in natura; da questi elementi si estraevano i principi attivi, andando ad osservarne
l’effetto sul paziente. Ad oggi, tuttavia, siamo in grado di produrre direttamente i recettori, potendo quindi
produrre farmaci a partire dal recettore, per poi tornare al paziente stesso.
La stragrande maggioranza dei farmaci in uso clinico ad oggi è preparata per
- sintesi chimica: i farmaci sono preparati direttamente in laboratorio; molti farmaci derivano da
componenti del petrolio
- semisintesi: il farmaco derivato per sintesi naturale viene modificato leggermente per essere reso più
stabile, migliorandone la permanenza all’interno dell’organismo
- con l’utilizzo di biotecnologie: le molecole vengono prodotte facendo esprimere e codificare specifici
geni in linee cellulari in coltura (normalmente batteri o lieviti); la tecnica si basa sull’inserimento del
gene umano, in genere tramite vettore virale, nel genoma extracromosomico.
A queste categorie appartengono quindi i principali farmaci di oggi, come le small molecules (farmaci che
terminano in -inib), anticorpi (farmaci che terminano in -mab) ed ormoni ricombinanti (-rh, come
l’insulina).
CARATTERISTICHE GENERALI DEI FARMACI E FORMA FARMACEUTICA
Vengono definiti farmaci tutte quelle sostanze che:
- Interagiscono con recettori specifici
- Vengono somministrati solitamente in sedi distanti, dal punto di vista anatomico, dal sito d’azione
desiderato
- Hanno effetti dose-dipendenti
- Hanno un’azione che deve essere necessariamente determinabile sia qualitativamente che
quantitativamente
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- La terapia deve essere riproducibile nella stragrande maggioranza dei pazienti
- Devono essere il miglior compromesso tra attività medicamentosa e gli effetti tossici (occorre valutare
il rapporto beneficio/rischio, che deve essere accettabile)
Quando parliamo di farmaco, intendiamo una molecola in particolare, il principio attivo. Il principio attivo
(in genere uno o due, raramente più di due) è la molecola nel medicinale dalla quale dipende la sua attività
sull’organismo: è quindi il medicinale vero e proprio, con una formula e struttura chimica definita e
riproducibile. Quando si assume un farmaco, però, in realtà non assumiamo solo il principio attivo: molto
spesso, infatti, il principio attivo può essere instabile o è in quantità così piccole da non poter essere usato
efficacemente. Quello che si assume è la cosiddetta forma farmaceutica, insieme di principi attivi ed
eccipienti (molecole inattive, quindi prive di azione farmacologica a prescindere dalla quantità utilizzata; il
placebo consiste in soli eccipienti). Gli eccipienti non partecipano all’effetto farmacologico e spesso non
vengono assorbiti dall’organismo. Inoltre:
- Aiutano la compliance del paziente alla terapia
- Proteggono il principio attivo dagli agenti esterni che potrebbero danneggiarlo (caldo, freddo, umidità,
ma anche acidità gastrica); da notare che è importante segnalare come la forma farmaceutica deve
essere assunta dal paziente
- Aumentano il volume della forma farmaceutica, consentendo la preparazione di forme di dimensioni
accettabili e maneggiabili
- Rendono stabili soluzioni o sospensioni, evitando così la sedimentazione del principio attivo sul fondo
dei contenitori e impedendone l’ossidazione
- Facilitano o modificano il rilascio del principio attivo nell’organismo
- Modificano il sapore (e il colore) dei medicinali
- Permettono di essere sicuri della dose assunta di principio attivo e che tale dose assunta sia quella
corretta
PREPARAZIONE DEI FARMACI
I medicinali vengono distinti in due grandi categorie
- Medicinali preparati in farmacie autorizzate (galenici); questi, a loro volta, possono essere distinti in
o Galenici magistrali (e ospedalieri): vengono preparati in farmacia o in parafarmacia in base
ad una prescrizione medica destinata ad uno specifico paziente
o Galenici officinali, o multipli, o formula officinale: vengono preparati in autonomia in
farmacia, basandosi sulle indicazioni della Farmacopea Europea o della Farmacopea Ufficiale
della Repubblica Italiana; essi sono destinati ad essere forniti direttamente a più pazienti
serviti dalla farmacia. La preparazione deve seguire procedure ben definite, che escludano
possibilità di errore e che assicurino i necessari requisiti di garanzia e omogeneità.
- Medicinali di origine industriale (o galenici industriali)
Sulla base del principio attivo presente nella formulazione, i galenici officinali (ma anche quelli industriali)
possono essere dispensati:
- Senza ricetta medica: i cosiddetti OTC → over the counter (farmaci da banco). Sono farmaci
mediamente sicuri, che non richiedono ricetta medica e genericamente presentano un costo minore,
pur essendo ad ogni effetto farmaci: hanno una finestra terapeutica che deve essere rispettata in
maniera rigida, secondo le indicazioni terapeutiche da parte di un medico. Devono essere segnalati al
medico curante.
- Con ricetta medica (ripetibile, non ripetibile, speciale)
Le formule magistrali, che vengono prescritte dal medico e preparate dal farmacista con un dosaggio ed
eccipienti personalizzati per uno specifico paziente, possono presentarsi in:
- Forma liquida, sia fredda (colliri, emulsioni, soluzioni, sospensioni) sia calda (tisane, infusi, decotti)
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- Forma solida, sia senza eccipienti (cachet o compresse) che con eccipienti (pillole, compresse, granuli,
pomate, etc)
- Forma iniettabile
Per quanto riguarda le formule officinali, che vengono utilizzate da più pazienti (e quindi godono in una
composizione costante e un dosaggio fisso) possono essere ottenute per:
- Operazioni meccaniche (polveri, polpe)
- Soluzione (idroliti, alcoliti, etc)
- Soluzione seguita da evaporazione (estratti)
In questo caso possono usare come eccipienti-veicolo (vedi più avanti) zuccheri (sciroppi), miele (melliti,
ossimelliti), grassi, cere, resine (pomate), gelatina (capsule, perle), tessuto o carta (cerotti).
Le formule industriali, infine, sono medicinali ad uso umano, preparati industrialmente o nella cui produzione
interviene un processo industriale. Essi sono caratterizzati da una preparazione accurata, che garantisce la
giusta dose e la conservazione del principio attivo. Essi hanno una loro propria denominazione, consistente in:
- Nome commerciale (branded), ovvero un nome di fantasia (es. Tachipirina) non confondibile con il
nome del principio attivo; esso viene scelto, sostanzialmente, dall’azienda che per prima ha utilizzato
quell specifico principio attivo, dietro al quale è stata condotta un’accurata ricerca. L’azienda quindi
mantiene il brevetto per un certo periodo di tempo (diventa monovenditore per 25 anni), alla fine del
quale esso scade, potendo essere quindi utilizzato da chiunque (farmaco generico equivalente). I
farmaci branded costano in genere di più, perché oltre al principio attivo si paga anche il “nome”
- Denominazione comune internazionale (DCI) o scientifica del principio attivo (es. Paracetamolo)
I farmaci industriali, inoltre, riportano il nome e i dati del titolare dell’autorizzazione all’immissione in
commercio (AIC) e l’ATC (vedi più avanti).
Il termine farmaco equivalente (o generico equivalente) indica un medicinale che è bioequivalente (cioè con
pari attività terapeutica a parità di regime terapeutico) al medicinale branded con brevetto scaduto. I farmaci
equivalenti sono quindi sottoposti agli stessi controlli e procedure di registrazione e vigilanze dei farmaci
branded: essi presentano la stessa composizione quali-quantitativa, la stessa forma farmaceutica (possono
tuttavia variare leggermente gli eccipienti), la stessa via di somministrazione e le stesse indicazioni
terapeutiche. Essi vengono indicati solo con il nome del principio attivo, l’ATC e la casa farmaceutica dalla
quale viene prodotto. Il farmaco equivalente può essere messo in commercio solo se costa almeno il 20% in
meno del farmaco branded, riduzione che non grava sulla qualità di controllo e produzione, ma piuttosto sui
costi di markenting.
ENTI REGOLATORI
L’immissione in commercio di un farmaco industriale deve essere autorizzato da due enti regolatori:
- AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco)
- EMEA (Agenzia Europea per i Medicinali)
Queste agenzie servono a garantire, da un lato, una stretta farmacovigilanza (monitorando quindi gli eventuali
effetti collaterali) e, dall’altro, una regolazione della commercializzazione del farmaco (vengono acquisite
anche informazioni sulla sperimentazione, così da decidere se un farmaco può essere immesso in commercio
o deve esserne ritirato). Si occupano, inoltre, di stabilire il costo dei farmaci ed emettono periodicamente note
sui farmaci, in particolare su chi non deve usare il farmaco o eventuali interazioni negative con altre terapie.
Per ottenere un’AIC, il richiedente deve presentare una domanda alle autorità competenti, che può contenere:
- Il dossier completo degli studi effettuati (prima sugli animali, poi su volontari sani e infine su pazienti)
che dimostrano come il farmaco sia sicuro (non pericoloso, non tossico) ed efficace nel trattamento di
una specifica malattia; in questo caso, parleremo di farmaco di riferimento
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- Una documentazione ridotta (mancanza dei risultati delle prove precliniche e delle sperimentazioni
cliniche), in alcuni casi particolari (come ad esempio generici di medicinali di riferimento in uso da
almeno otto anni, o medicinali i cui principi attivi sono di impiego medico ben consolidato nella
Comunità europea da almeno dieci anni)
All’interno di ogni classe terapeutica è sempre presente un farmaco di riferimento: esso è il medicinale che ha
garantito per molti anni la maggior efficacia terapeutica. Qualunque nuovo farmaco, per poter essere messo in
commercio, deve garantire, rispetto a quello di riferimento, un’efficacia maggiore, o uguale ma con meno
effetti collaterali.
CLASSIFICAZIONE ATC
I diversi principi attivi sono suddivisi in 14 categorie, sulla base della classificazione ATC: Anatomica,
Terapeutica, Chimica. Questa classificazione, che identifica i diversi principi attivi con una determinata sigla,
permette di distinguerli sulla base della patologia per cui vengono usati, del dosaggio e della via di
somministrazione. Differenti forme farmaceutiche dello stesso principio attivo hanno differenti codici ATC,
in maniera da caratterizzare univocamente l’utilizzo della molecola.
La sigla ATC è data dalla combinazione di lettere e numeri che formano una sigla di 7 caratteri, suddivisibili
in V gruppi differenti. Ad esempio, la Fluoxetina ha come sigla ATC N06AB03. Nella sigla ATC:
- La prima lettera dell’alfabeto indica il gruppo anatomico principale
o A: Apparato gastrointestinale e Metabolismo
o B: Sangue e Organi emopoietici
o C: Sistema cardiovascolare
o D: Dermatologi
o G: Sistema genito-urinario e Ormoni Sessuali
o H: Preparati ormonali sistemici, esclusi gli ormoni sessuali
o J: Antimicrobici generali per uso sistemico
o L: Farmaci antineoplastici e immunomodulatori
o M: Sistema muscolo-scheletrico
o N: Sistema nervoso
o P: Farmaci antiparassitari, insetticidi e repellenti
o R: Sistema respiratorio
o S: Organi di Senso
o V: Vari
- Il numero di due cifre seguente indicano il gruppo terapeutico principale
- La successiva lettera dell’alfabeto indica il sottogruppo terapeutico
- La lettera dell’alfabeto che segue indica il sottogruppo chimico/terapeutico
- L’ultimo numero a due cifre indica il sottogruppo chimico: questo è univoco per ogni sostanza
chimica
All’interno della stessa classificazione ATC troviamo una sottoclassificazione, utile per indicare:
- La via di somministrazione
- La classe di rimborsabilità (che può variare negli anni); essa viene indicata con:
o C: il farmaco è a carico del paziente. Questo perché:
In commercio esiste un medicinale di riferimento più efficace ed economico
L’ambito terapeutico è così particolare che non viene riconosciuto tra le priorità del
SSN
o A: il farmaco è a carico del SSN.
La lettera H, inoltre, indica quei farmaci che, con una certa dose e via di somministrazione, dovrebbero
essere di uso esclusivo degli ospedali (in particolare DEA e Rianimazione).
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Esistono delle vere e proprie linee guida per i farmaci: sono norme internazionali (in vigore in USA, Europa,
Giappone e Cina) che regolano l’utilizzo dei farmaci per specifiche patologie. Esistono tuttavia casi off-label
(eccezioni al di fuori della normale indicazione terapeutica): quello specifico farmaco, usato per quella
specifica patologia, può prevedere un impiego al di fuori di quello definito in alcuni soggetti. L’uso off-label,
tuttavia, viene autorizzato dai comitati etici.
Dal punto di vista della pratica medica, esistono delle tabelle prescrittive per i farmaci: non tutti i medici
possono prescrivere tutti i farmaci; alcuni farmaci, infatti, possono essere prescritti, tramite particolari ricette,
da determinati specialisti. I farmaci regolati da queste tabelle sono molecole con potenziale tossico e che
possono indurre dipendenza (psicologica e fisica). Tra i farmaci in questione troviamo:
- Oppiacei, cocaina, adrenergini psicoattivi (anfetamine); pur essendo estremamente utili, possono
risultare anche estremamente pericolosi; tra gli effetti collaterali infatti, si rileva depressione a livello
centrale (con conseguente depressione respiratoria) e danno dipendenza a partire dalla seconda
somministrazione.
- Derivati della cannabis; l’uso della cannabis in modo cronico può portare a effetti a lungo termine
(come l’insorgenza precoce di Alzheimer). Inoltre, risulta essere immunodepressoria e spasmolitica.
Non è tuttavia prescivibile.
- Ipnotici barbiturici
- Barbiturici antiepilettici e Oppiacei deboli
- Codeina + Paracetamolo (30mg + 500mg)
- Codeina + Paracetamolo (10mg + 400 mg) e Preparati antitosse a base di codeina
- Oppiacei deboli, Ansiolitici, Ipnotici Barbiturici
CONFEZIONAMENTO
Come detto, lo scopo di una terapia farmacologica è far arrivare la giusta quantità di principio attivo al
bersaglio, indipendentemente dalla via di somministrazione (ad eccezione della terapia topica, in quanto questi
principi attivi non devono mai arrivare al plasma, in quanto risulterebbero tossici). A questo scopo, il
medicinale consiste in una specifica forma farmaceutica, consistenti in:
- Principio attivo in quantità nota (il range va dai pg ai mg, quindi dalle 10-7 a 10-4 moli)
- Eccipienti (solitamente mg o g)
- Eccipiente veicolare (o veicolo): eccipiente, somministrato in quantità nota con il principio attivo,
che serve a trasportarlo (es: acqua per un farmaco liofilizzato; olii usati nella somministrazione IM)
Gli eccipienti ed il veicolo non modificano la farmacodinamica ma possono modificare (apparentemente) in
modo significativo la farmacocinetica, rallentando l’assorbimento del farmaco: alcuni farmaci, infatti, possono
essere degradati velocemente se somministrati in forma pura; utilizzando particolari eccipienti, tuttavia,
possiamo fare in modo che essi vengano rilasciati in maniera graduale. Questi eccipienti sono utili per:
- Aumentare la compliance del paziente: meno medicinali deve assumere e più è sicuro che aderisca
alla terapia
- Ottenere una concentrazione plasmatica del farmaco costante: l’eccipiente, infatti, fa in modo che il
farmaco venga rilasciati gradualmente e in maniera costante nel tempo, permettendo la giusta
concentrazione plasmatica e per il giusto tempo.
La concentrazione del farmaco, in realtà, oscilla in un range di valori, attorno a un valore medio.
Come mai i medicinali assunti per via orale non vengono creati con eccipienti che permettano un rilascio del
principio attivo per più di 24h? Perché c’è il rischio che, oltre le 24h ore, il paziente espella la forma
farmaceutica. Utilizziamo quindi una forma farmaceutica che permette un rilascio più rapido ma che richiede
un numero maggiore di somministrazioni (due, perché il farmaco si esaurisce in un lasso di tempo minore): in
questo caso, la curva di oscillazione presenta una frequenza maggiore rispetto al rilascio lento.
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Differente è il caso della flebo: il numero di somministrazioni con una flebo diventa infinito (la flebo, infatti,
si utilizza quando la finestra terapeutica è ristretta e si vuole essere sicuri della dose). Le flebo possono durare
anche dalle 6 alle 24h, assicurando sterilità. Oltre le 24h occorre sostituire la flebo.
Esistono, inoltre, per la maggior parte delle forme farmaceutiche, formulazioni a cessione protratta (sustained
release forms retard). Infine, esistono:
- Minipompe osmotiche, ovvero pompe con le quali si può programmare la dose e la velocità di
somministrazione nell’unità di tempo
- Liposomi, vescicole multilamellari con fosfolipidi disposti come nelle membrane cellulari, e
nanoparticelle; se somministrati per via endovenosa, possono fornire il farmaco all’apparato
lisosomiale e trasportarlo direttamente all’organo bersaglio passando attraverso le membrane cellulari,
evitando quindi gli enzimi di degradazione.
Gli estratti vegetali, da organo o da liquidi corporei di animali (chiamati “droghe”, dall’inglese “drug”
indicante i farmaci) possono contenere diverse molecole attive; tra di esse, tuttavia, indichiamo come principio
attivo quello che manifesta l’effetto prevalente. Distinguiamo:
- Droghe organizzate, costituite da una struttura cellulari di un vegetale o di un animale
o Radice, corteccia, foglia, fiore, frutto, seme, sangue
- Droghe non organizzate, formate da un succo o secreto emesso spontaneamente od ottenuto attraverso
varie tecniche di prelievo
o Succhi, secrezioni, resine, lattici, oli, essenze, veleni
Dalla droga principale, quindi, estraiamo il principio attivo. Ad esempio, dalla corteccia del salice si estrae
l’acido salicilico. Importanti sono gli analoghi strutturali, ovvero molecole che hanno la stessa base
molecolare del principio attivo, ma con piccole modificazione che, normalmente, ne allungano l’emivita o ne
permettono una distribuzione maggiore nell’organismo. Nonostante queste modificazioni, la porzione di
farmaco legante il recettore non è cambiato (stesso farmacoforo).
Importante, inoltre, quando viene somministrato un farmaco, distinguere tra effetto collaterale e avverso:
- L’effetto collaterale è una reazione, conosciuta a priori, a cui il paziente potrebbe andare incontro in
seguito alla somministrazione di un determinato farmaco. È un evento non terapeutico; tutti gli
eventuali effetti collaterali sono indicati nel foglietto illustrativo: l’ordine con cui essi sono scritti
indica la probabilità dell’evento, in ordine decrescente. Essi, tuttavia, sono già “compresi” nella
terapia: è quindi sbagliato, sebbene succeda, sospendere la terapia quando si presentano.
- L’effetto avverso, al contrario, è una reazione che si manifesta a seguito della somministrazione, in
genere dovuta alla interferenza con altre terapie farmacologiche in atto. In caso di evento avverso,
occorre interrompere l’assunzione per sempre. L’effetto avverso non è dovuto tuttavia al farmaco,
quanto piuttosto al medico che, prescrivendolo, non ha tenuto conto della possibile interazione con
altri farmaci del paziente.
NOMENCLATURA DEI PRINCIPI ATTIVI
Nel nominare i principi attivi, si usano desinenza che descrivono natura e funzione del farmaco. Tra di esse,
ad esempio, troviamo:
-mAb: anticorpi monoclonali
-pAb: anticorpi policlonali
-tinib: inibitore di tirosina chinasi
-barb-: barbiturici
-prost: analoghi delle prostaglandine
-cillin: derivati dalla penicillina
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La stessa desinenza mAb (ma anche pAb) è preceduta da tutta una serie di ulteriori desinenze, usate per indicare
diverse informazioni sull’anticorpo stesso. In generale, la nomenclatura mAb/pAb si basa su tre regole:
1. Dopo il prefisso variabile, troviamo una (o due) sub-desinenze di due lettere che indicano l’utilizzo
terapeutico (target)
La -m-, eventuale, è eufonetica per evitare lo scontro tra vocali.
2. Una sub-sub-desinenza che indica l’origine dell’anticorpo
3. La desinenza finale -mab (e raramente -pab)
PRINCIPALI FORME FARMACEUTICHE
Preparati per via orale
Solidi: compresse, capsule, cachet, polveri e granulati in bustine,
compresse e capsule rivestite, compresse e capsule a cessione
controllata
Liquidi: gocce, sciroppi, flaconi soluzione monodose per os
Preparati per vie parenterali
Pronti per l'uso: fiale monodose, siringhe pre-riempite, flaconi
multidose, flaconi per infusione, preparati a lento rilascio
Da allestire al momento dell'uso: fiala con liofilizzato + fiala
solvente
Preparati particolari per vie
sistemiche diverse dalle
precedenti
Compresse sublinguali
Spray nasali
Cerotti transdermici
Clismi, microclismi, supposte
Preparati per uso topico
Dermatologici: creme, pomate, gel, tinture, soluzioni, polveri
Odontostomatologici: colluttori, gingivari, paste e dentrifici
medicati, stiletti alveolari, cementi canali medicati
Oftalmici: colliri, bagni oculari, pomate e dischi oftalmici
Otorinolaringoiatrico: gocce auricolari, gocce e spray nasali,
aerosol, spray per uso orofaringeo
Come già detto, ad oggi i principali principi attivi sono di origine sintetico o semisintetico: si cerca di evitare
i principi attivi di origine naturale perché presentano un maggiore rischio di shock anafilattico e risultano meno
efficaci. Le principali forme farmaceutiche in uso sono:
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- Polveri: sono miscele uniformi di farmaci solidi e secchi, con aggiunta di eccipienti, diluenti, etc.
- Compresse: vengono preparate per compressione delle polveri. Solitamente constano del solo
principio attivo, senza eccipienti: questo le rende facilmente disgregabili. Le compresse sono
facilmente solubili nell’organismo; possono anche essere effervescenti (per aggiunta di sodio
bicarbonato e acido citrico) o sublinguali.
Hanno forma di disco, in maniera tale che, se poggiate su una superficie piana, non rotolino e cadano;
inoltre, è possibile segnarci sopra un -, indice che la compressa è divisibile a meta, o un +, indice che
la compressa può essere divisa in 1/4, 2/4, 3/4 a seconda delle esigenze.
- Pillole: sono piccole compresse di forma sferica; contengono il principio attivo (in genere in
concentrazioni molto basse) insieme ad eccipienti. Non possono essere tagliate a causa della durezza
ma sono facilmente deglutibili anche senza acqua.
- Confetti: consistono in compresse lisce e lucide (per facilitarne la deglutizione) con un rivestimento
di strato spesso e duro che, da un lato, isola il principio attivo dall’ossigeno e, dall’altro, permette di
bypassare l’acidità gastrica permettendo al principio attivo di arrivare a livello intestinale, distretto in
cui deve essere assorbito.
Il confetto non deve essere masticato o spezzato.
- Capsule: sono forme farmaceutiche consistenti in un involucro di consistenza dura o molle, fatto di
due subunità, che all’interno racchiude polveri, liquidi o semisolidi. Il rivestimento mi assicura la
protezione del farmaco, la facilitazione alla deglutizione e la veicolazione del farmaco nella giusta
porzione dell’apparato gastro-intestinale. Possono essere sia solubili nello stomaco che gastro-
resistenti e, a differenza di compresse e confetti, hanno un breve tempo di disgregazione (praticamente
istantaneo) quando sono nel comparto in cui si devono sciogliere. Possono inoltre essere usate per via
sublinguale.
- Soluzioni: sono preparazioni liquide, consistenti in uno o più farmaci (sotto forma di polvere, quindi
in forma solida più stabile) che vengono sciolti in acqua o altri solventi. Possono essere:
o Soluzioni iniettabili: sono requisiti la sterilità, l’isosmolarità, il pH (compatibile con i fluidi
corporei), l’assenza di pirogeni
o Colliri: come sopra
o Sciroppi: soluzioni zuccherine in cui è necessaria la presenza di antifermentativi
o Tinture: sono estratte da droghe per percolazione e concentrazione. Le tinture contengono, in
100g, i principi attivi presenti in 10g di droga.
Una soluzione ha la stessa concentrazione di sostanza in qualunque suo punto; può capitare, tuttavia,
che il principio attivo si separi dal veicolo: questo può determinare la somministrazione del farmaco
tutto insieme (in quanto non più distribuito in maniera omogenea) oppure una sua non
somministrazione (perché non si è sciolto).
- Sospensioni: consistono in polveri finissime di farmaco preparate in un veicolo acquoso, con l’aiuto
di tensioattivi, sospendenti e viscosizzanti in maniera da rendere la forma farmaceutica più omogenea.
Il principio attivo viene diluito nel veicolo mediante agitazione e, a differenza della soluzione, può
precipitare se lasciato fermo. Anche in questo caso è fondamentale la sterilità.
- Emulsioni: sono forme farmaceutiche in cui un liquido (fase dispersa) è distribuito in piccolissime
gocce in un secondo liquido (fase disperdente) con il quale non è miscibile. Poiché molti farmaci sono
liposolubili, occorre avere un surfattante che si interfacci tra il farmaco e l’acqua dell’organismo.
Possono essere:
o Olio in acqua: la fase dispersa è un olio, la fase disperdente è acquosa e l’emulsione è
miscibile con l’acqua
o Acqua in oli: esattamente il contrario dell’olio in acqua
- Gel: sono forme semisolide, consistenti in una sospensione di finissime particelle inorganiche o
macromolecole organiche racchiudenti e interpenetrate di liquido. Vengono generalmente usate in
maniera topica o loco-regionale. Se la massa del gel consiste in fiocchi di piccole particelle si parla di
magma.
- Aerosol: sono forme di somministrazione pressurizzate (spray) dove il farmaco viene ceduto sotto
forma di nebbia (particelle liquide disperse in un gas) tramite una apposita valvola del contenitore,
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dove troviamo anche il gas propellente. Hanno in genere un uso topico o loco-regionale. Con il termine
puff indichiamo la singola particolare dose che viene ottenuta schiacciando lo spray; tuttavia, questa
forma farmaceutica non garantisce una dose sempre corretta, in quanto parte del farmaco può andare
persa.
- Suppositori: sono forme solide di peso e forma variabile che devono essere introdotte in cavità naturali
del corpo; sono capaci di fondersi, rammollirsi o sciogliersi lentamente alla temperatura corporea.
La forma farmaceutica non è caratteristica solo del farmaco in uso, ma anche del paziente a cui essa deve
essere somministrata; è quindi logico che per alcune categorie di pazienti (neonati, bambini, anziani, etc.)
occorrerà scegliere una precisa forma a discapito di altre sulla base delle condizioni del paziente stesso. Lo
scopo finale è sempre quello di ottenere la giusta concentrazione di farmaco nel plasma del paziente, e quindi
la giusta concentrazione dello stesso a livello dei recettori. Da notare che non sempre la dose somministrata
coincide con la dose a livello del sito di interazione; ciononostante, la dose somministrata è studiata per
ottenere il giusto numero di molecole sui recettori. Spesso, tra l’altro, i farmaci sono tempo-dipendenti: non
occorre tanto far arrivare la giusta dose al recettore subito, quanto mantenerla per il giusto periodo di tempo.
Tutti questi accorgimenti confluiscono nella farmacocinetica.
FARMACOCINETICA
PRINCIPI DI FARMACOCINETICA
Nella pratica terapeutica, il farmaco deve essere in grado di raggiungere il proprio recettore dopo essere stato
somministrato attraverso una via idonea. Nella maggior parte dei casi, la molecola farmacologicamente attiva
è sufficientemente liposolubile e stabile da essere somministrata come tale (nell’opportuna forma
farmaceutica); in altri casi, invece, è richiesta la somministrazione di precursori chimici facilmente assorbibili,
che verranno poi convertiti nel farmaco vero e proprio da processi metabolici dell’organismo: in questo caso
si parla di profarmaco.
In alcuni casi, è possibile applicare il farmaco direttamente al tessuto bersaglio sul quale svolge la sua funzione:
è il caso dei farmaci antiacidi, che neutralizzano l’acidità gastrica senza essere assorbiti, o degli anestetici
locali. In generale, tuttavia, il farmaco viene somministrato in un distretto dell’organismo, da cui deve spostarsi
per raggiungere il distretto in cui è presente il suo sito di azione. Ciò richiede che il farmaco vada incontro a
quattro processi (simultanei ma la cui entità varia in relazione al tempo trascorso dalla somministrazione) che
rientrano nella farmacocinetica: assorbimento, distribuzione, metabolismo (biotrasformazione) ed
eliminazione.
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Per raggiungere l’organo bersaglio, il farmaco utilizza il torrente circolatorio (e, se non viene immesso
direttamente, dovrà prima essere assorbito). Una volta raggiunto il sangue, il farmaco è in grado di raggiungere
il proprio organo bersaglio; in realtà, però, le molecole farmacologiche sono in grado di diffondere in tutto
l’organismo (distribuzione), sebbene in maniera non omogenea: il farmaco, infatti raggiunge i diversi distretti
dell’organismo con velocità diverse, in generale dovute al differente grado di irrorazione. Inoltre, una volta
raggiunto l’equilibrio, la concentrazione del farmaco nei diversi tessuti può essere diversa da quella ematica.
Tra gli organi a cui il farmaco si distribuisce troviamo anche rene e fegato; a livello di questi organi, il farmaco
va incontro ai processi di biotrasformazione ed eliminazione, che contribuiscono a ridurre la concentrazione
plasmatica del farmaco stesso e sono responsabili dell’esaurimento dell’effetto terapeutico con il passare del
tempo.
PASSAGGIO DEI FARMACI ATTRAVERSO LE MEMBRANE CELLULARI
La membrana cellulare è costituita da un doppio strato fosfolipidico, in cui le teste idrofile formano le
superficie interne ed esterne mentre le code idrofobe si uniscono al centro della membrana; il doppio strato
che si viene così a formare ha uno spessore di circa 4,5 nm. All’interno della membrana, inoltre, troviamo tutta
una serie di proteine, periferiche (disposte su una faccia della membrana) e integrali (penetrano ed attraversano
la membrana). I fattori fisico-chimici coinvolti nel passaggio dei farmaci attraverso le membrane sono
fondamentalmente:
- Il grado di ionizzazione del farmaco
- La prevalenza di un gruppo idro- o lipofilico
- La dimensione della molecola di farmaco
- L’affinità con substrati endogeni
I farmaci possono attraversare le barriere (sia tissutali che cellulari) attraverso tre meccanismi differenti, sia
passivi che richiedenti l’attiva partecipazione di componenti della membrana:
Diffusione passiva
Il meccanismo della diffusione passiva, per cui i farmaci attraversano le barriere con un meccanismo gradiente-
dipendente, è valida per due tipologie di passaggio:
Acquosa
La diffusione passiva acquosa avviene, come suggerisce il nome, tra compartimenti acquosi (un tipico esempio
sono gli spazi interstiziali, il citosol). Essa riguarda in genere molecole di piccole dimensioni, con un peso
molecolare compreso tra i 20 e i 30 kD; in presenza di giunzioni serrate (come può accadere tra la membrana
epiteliale e il rivestimento endoteliale), la diffusione richiede la presenza di specifici pori (diametro di 8 Å).
Non avviene mai, tuttavia, nei capillari del cervello e del testicolo.
Essa è essenzialmente regolata da:
- Gradiente di concentrazione
Le molecole passano le barriere solo perché sono più concentrati su un lato rispetto all’altro: si viene
a creare un flusso passivo di molecole secondo un gradiente di concentrazione.
La diffusione tra due compartimenti separati da una membrana è regolata dalla legge di Fick:
𝑭𝒍𝒖𝒔𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒎𝒐𝒍𝒆𝒄𝒐𝒍𝒆 (𝒏° 𝒎𝒐𝒍𝒆𝒄𝒐𝒍𝒆
𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐) = (𝑪𝟏 − 𝑪𝟐) ∙
𝑨 ∙ 𝑫
𝒅
In cui con flusso si intende la velocità del passaggio di un soluto dal compartimento 1 al compartimento
2: 𝐶1 𝑒 𝐶2 sono le concentrazioni del soluto ai due lati della membrana, 𝐴 rappresenta l’area di
membrana che separa i due compartimenti, 𝑑 è lo spessore della membrana mentre 𝐷 è il coefficiente
di permeabilità (rappresenta la mobilità della molecola nel mezzo e quindi dipende dalle caratteristiche
chimico-fisiche di solvente e soluto).
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Da questa formula si deduce che:
o Il flusso netto di farmaco attraverso una membrana è tanto maggiore quanto maggiore è la
differenza di concentrazione ai due lati della membrana; ciò implica che, nel tempo, il flusso
si riduca man mano che le concentrazioni si equilibrano. Nel momento in cui 𝐶1 = 𝐶2 il flusso
è pari a zero: per ogni molecola che passa dal compartimento 1 al compartimento 2 avrò una
molecola che si muove in senso contrario.
o Farmaci differenti hanno capacità di penetrazione differente a seconda del loro coefficiente di
diffusione o ripartizione (vedi più avanti).
o Il flusso è direttamente proporzionale all’estensione della membrana attraverso la quale il
farmaco deve diffondere: infatti, se l’area è molto piccola (𝐴 ≈ 0), il flusso tende a 0. Per
questo motivo, la maggior parte dei farmaci assunti per via orale vengono assorbiti a livello
intestinale (dove l’area assorbente è notevolmente aumentata). Questo fatto determina anche
che, in pazienti obesi (con BMI > 31) nei quali si osserva un elevato aumento del grasso
intraddominale, un farmaco liposolubile tenderà a essere sequestrato dall’adipe e non si otterrà
l’effetto terapeutico alla dose utilizzato nei soggetti con grasso intraddominale nella media.
o Il passaggio tra due compartimenti è tanto più efficiente quanto più sottile è la barriera da
superare. Infatti, se lo spessore è molto grande (𝑑 ≈ ∞), il flusso tende a zero. Per questo
motivo, un farmaco viene assorbito più lentamente a livello cutaneo che a livello mucosale.
- Quota libera e quota legata del farmaco
In ogni istante, infatti, il farmaco esiste in due quote differenti: farmaco libero, che rappresenta la
quota disponibile per passare la barriera, e la quota legata (in genere alle proteine plasmatiche), che,
al contrario, non è in grado di passare le barriere, nemmeno attraverso i pori che esse presentano.
- Carica del farmaco (se il farmaco è elettricamente carico, il suo flusso viene influenzato dai campi
elettrici generati dal potenziale di membrana)
- Entità dell’idrofilicità (solitamente i farmaci fortemente idrofilici non passano le membrane)
Lipidica
La diffusione lipidica è il più importante fattore che limita il passaggio dei farmaci, a causa del maggior numero
di barriere lipidiche che separano i compartimenti del corpo: i farmaci, oltre che diffondere nei compartimenti
acquosi, devono attraversare anche le membrane. Di conseguenza, in genere, poiché il citoplasma e gli spazi
extracellulare sono soluzioni acquose, è logico che i farmaci debbano possedere da un lato un certo grado di
idrofilia, sufficiente a tenerlo in soluzione, e dall’altro un certo grado di solubilità nei lipidi, per poter
attraversare il doppio strato fosfolipidico.
Anche in questo caso, l’entità del passaggio è regolato dalla concentrazione del farmaco ai due lati della
membrana ed avviene grazie alla forza di repulsione delle molecole di H2O: le molecole presenti nel
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compartimento a maggiore concentrazione spingono quelle inserite nella membrana (che presenta spazi di
circa 75 Å) che vengono spostate nel compartimento a minore concentrazione. Tuttavia, dipende anche da:
- Coefficiente di ripartizione olio/acqua
Possiamo misurare il grado di idro-lipofilia di un soluto andando ad osservare come esso si distribuisce in
un volume di acqua e olio: il rapporto tra le concentrazioni nella fase oleosa e acquosa è il
𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (CR). Quando 𝐶𝑅 > 1, il composto è tendenzialmente lipofilo, mentre se
𝐶𝑅 → 0 sarà tendenzialmente idrofilo.
Il CR dipende dalle caratteristiche chimico-fisiche delle sostanze: gruppi capaci di dare legami idrogeno
con l’acqua (es. carbossilici, alcolici, etc) conferiscono idrofilia. Molecole con CR basso avranno una
capacità molto bassa di penetrare e attraversare le membrane cellulari; al contrario, molecole con CR più
alto potranno attraversarle liberamente, potendo quindi essere completamente assorbite con
somministrazione orale o addirittura transcutanea. Infine, farmaci con CR elevato non diffonderanno
velocemente, in quanto tenderanno ad accumularsi nella matrice lipidica della membrana.
Il coefficiente di ripartizione di un farmaco, inoltre, può variare per effetto di processi di
biotrasformazione, in quanto tendono a portare alla formazione di composti più idrofili, con un CR minore
dell’originale (cosa che, tra l’altro, favorisce l’eliminazione renale).
- Grado di ionizzazione del farmaco
La maggior parte dei farmaci contengono gruppi acidi o basici e sono quindi assimilabili ad acidi e basi
deboli: di conseguenza, a seconda del pH della soluzione, i diversi farmaci potranno essere elettricamente
neutri (forma protonata dell’acido, forma non protonata della base) o carichi. In questi farmaci, il CR è
strettamente dipendente dal pH dell’ambiente, in quanto la quota ionizzata ha un CR virtualmente nullo
(in quanto vengono attratte molecole di acqua) e solo la quota non ionizzata può attraversare la fase lipidica
delle membrane. Le due quote dipendono strettamente dalla differenza tra pKA del farmaco e il pH della
soluzione e possono essere espresse dall’equazione di Henderson-Hasselback.
Quest’equazione mette in rapporto il pH del mezzo in cui si trova il farmaco e la costante acida di
dissociazione del farmaco stesso (pKa, rappresenta il valore di pH al quale la quota ionizzata equivale alla
quota non ionizzata) con il rapporto tra la quota di farmaco non protonato e la quota protonata. Quindi,
considerando un acido debole:
𝐻𝐴 ↔ 𝐴− + 𝐻+ → 𝐾𝑎 =[𝐴−][𝐻+]
[𝐻𝐴] → [𝐻+] = 𝐾𝑎
[𝐻𝐴]
[𝐴−]
− log[𝐻+] = − log 𝐾𝑎 − log[𝐻𝐴]
[𝐴−] → − log[𝐻+] + log 𝐾𝑎 = −(log[𝐻𝐴] − log[𝐴−])
𝑝𝐻 − 𝑝𝐾𝑎 = log[𝐴−] − log[𝐻𝐴] → 𝑝𝐻 − 𝑝𝐾𝑎 = log[𝐴−]
[𝐻𝐴]
[𝑨−]
[𝑯𝑨]= 𝟏𝟎𝒑𝑯−𝒑𝑲𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒖𝒏 𝒂𝒄𝒊𝒅𝒐 𝒅𝒆𝒃𝒐𝒍𝒆
Nel caso di una base debole (B + H+ ↔ BH+), invece, il rapporto tra quota ionizzata e non espresso da
Henderson-Hasselback coincide con:
[𝑩𝑯+]
[𝑩]= 𝟏𝟎𝒑𝑲𝒂−𝒑𝑯 𝒑𝒆𝒓 𝒖𝒏𝒂 𝒃𝒂𝒔𝒆 𝒅𝒆𝒃𝒐𝒍𝒆
Una marcata differenza di pH ai lati di una membrana può determinare concentrazioni totali di farmaco
molto diverse, in quanto solo la specie non ionizzata si equilibrerà ai due lati della membrana. Ad esempio,
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consideriamo la differenza di distribuzione di un acido debole come l’acido acetilsalicilico (pKa = 3,4) tra
il plasma (pH = 7,4) e lo stomaco (pH = 1,4).
𝑛𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑡𝑜𝑚𝑎𝑐𝑜: [𝐴−]
[𝐻𝐴]= 101,4−3,4 = 10−2 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎:
[𝐴−]
[𝐻𝐴]= 107,4−3,4 = 104
Da ciò, deriva un rapporto di 1 (molecola ionizzata) : 100 (molecole non ionizzate) nel lume gastrico, per
un totale di 101 molecole mentre troveremo un rapporto di 10000 (molecole ionizzate) : 1 (molecola non
ionizzata) nel plasma, per un totale di 10001 molecole. Di conseguenza, un acido debole verrà facilmente
assorbito a livello gastrico, per il gradiente globale di concentrazione del farmaco non ionizzato ai due lati
della barriera.
I farmaci, complessivamente, possono essere:
- Elettricamente neutri (il cui CR è costante)
- Acidi organici (acidi deboli, il cui CR varia in funzione del pH): se sono protonati, quindi in una
soluzione acquosa ricca di H+, diventano neutri quando il pH del mezzo scende al di sotto del punto di
pKa, potendo quindi passare le membrane più facilmente.
Intestino Stomaco
pH elevato = bassa [H+] pH basso = elevata [H+]
𝑅 − 𝐶𝑂𝑂− + 𝐻+ 𝑅 − 𝐶𝑂𝑂𝐻
Non protonato = ionizzato Protonato = non ionizzato
Caratterizzato da un basso CR: si ha
una bassa capacità di attraversare le
membrane lipidiche
Caratterizzato da un alto CR, con
una buona capacità di attraversare le
membrane lipidiche (alta
permeabilità)
- Amine organiche, terziarie o quaternarie (basi deboli, il cui CR varia in funzione del pH): se sono
protonate, quindi in una soluzione acquosa ricca di H+, diventano cariche quando il pH del mezzo
scende al di sotto del punto di pKa. Possono passare le membrane solo quando diventano neutre.
Intestino Stomaco
pH elevato = bassa [H+]
pH basso = elevata [H+]
Non protonato = non ionizzato Protonato = ionizzato
Caratterizzato da un alto CR: si ha
una alta capacità di attraversare le
membrane lipidiche
Caratterizzato da un basso CR, con
una scarsa capacità di attraversare le
membrane lipidiche (bassa
permeabilità)
Bisogna tenere conto di questo fattore perché, in presenza di alcune patologie, il pH di diversi
compartimenti dell’organismo può variare, potendo causare un accumulo del farmaco a quello specifico
livello (ad esempio, in presenza di meningite, si osserva una modificazione del pH e della permeabilità
della barriera emato-encefalica). Inoltre, occorre considerare anche la gravidanza: i farmaci, infatti,
possono distribuirsi sia nel latte materno sia a livello fetale.
R
N
R
R
N
H+
R
R
R
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La dipendenza del CR dal pH è estremamente importante anche nella modulazione della escrezione dei
farmaci. Il rene rappresenta il principale organo usato dal nostro organismo per espellere sia i farmaci che
i loro metaboliti. La maggior parte dei farmaci viene filtrata a livello glomerulare (ovviamente, solo i
farmaci liberi possono essere filtrati) ma la quota presente nella preurina può andare facilmente incontro
a riassorbimento tubulare, che avviene principalmente per diffusione passiva: di conseguenza, un farmaco
liposolubile verrà facilmente riassorbito e ritornerà nel plasma, mentre un farmaco idrofilico potrà essere
eliminato con le urine. Pertanto, affinché un farmaco possa essere effettivamente eliminato deve possedere
un certo grado di idrosolubilità. Il valore di pH della preurina è uno dei fattori principali che modulano
l’eliminazione renale dei farmaci: poiché, in condizioni fisiologiche, il pH urinario si aggira su valori di
5.5-6, sarà favorita l’eliminazione di farmaci debolmente basici, che, nel lume tubulare, si vengono a
trovare prevalentemente in uno stato ionizzato e quindi difficilmente diffondibile attraverso le membrane
lipidiche del tubulo. Modulando il pH urinario, possiamo andare a modificare la escrezione del farmaco
con le urine: l’acidificazione delle urine (ad esempio tramite somministrazione di cloruro di ammonio)
permette di velocizzare l’eliminazione di basi deboli (es. anfetamine); al contrario, una alcalinizzazione
(ottenuto somministrando ad esempio bicarbonato di sodio) del pH urinario permette di favorire
l’eliminazione di acidi deboli (come i barbiturici).
L’eliminazione dei farmaci può essere favorita anche aumentando la diuresi tramite specifici farmaci (ma
è più rischioso, in quanto si può andare incontro a problemi di volemia). Altri metodi efficaci sono antidoti
(quando presenti) e lavanda gastrica.
- Area di diffusione del farmaco
L’entità dell’assorbimento è ancora correlata all’estensione della superficie assorbente: l’intestino tenue
ha la maggiore estensione di superficie di contatto con il farmaco ed è quindi in genere la porzione dove
avviene il maggiore assorbimento. La grande superficie conta sia per le molecole cariche che per le
molecole neutre: l’assorbimento quindi sarà dato dalla sommatoria di tutti i fattori considerati fino ad ora;
inoltre, l’estensione della superficie intestinale compensa la scarsa propensione al passaggio di molecole
acide.
Modulando il riempimento e lo svuotamento gastrico, otterremo una diversa velocità di assorbimento:
rallentando lo svuotamento gastrico si riduce la velocità dell’assorbimento, soprattutto per le amine
terziarie (maggior parte dei farmaci.); al contrario, farmaci somministrati a digiuno con acqua passeranno
velocemente all’intestino, dove si avrà un assorbimento più rapido.
- Dimensioni del farmaco
A livello dell’intestino tenue è presente una barriera idrofilica (glicocalice) che protegge i villi; questa
barriera incorpora una grande quantità di acqua, di conseguenza l’assorbimento di molecole molto grandi
può essere limitato (peggio ancora se sono anche lipofiliche). Solo molecole di piccole dimensioni (vedi
sopra) passano senza problemi.
A livello gastrico e del colon, invece, la presenza di un glicocalice meno spesso permette di assorbire
molecole ben più grandi, con un cut-off maggiore di 1000 kD.
Trasporto attivo
È un tipo di trasporto che avviene contro gradiente di concentrazione, che consuma ATP (utilizzo di
trasportatori di membrana specifici e con un certo grado di sensibilità) e può essere saturabile. Alcuni farmaci
sfruttano questo sistema per attraversare le barriere tissutali: penicillina, L-DOPA, digitalici.
Pinocitosi e fagocitosi
Sono meccanismi molto dispendiosi per le cellule, che vengono usati solo per molecole molto grandi (> 900
kD): insulina, tossine (tetaniche e botuliniche), antigeni, farmaci legati a proteine di trasporto.
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PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLE BARRIERE CELLULARI
Tutti e quattro i meccanismi richiedono il passaggio del farmaco attraverso le membrane delle cellule che
costituiscono i diversi tessuti. Le barriere tissutali che il farmaco libero nel plasma deve superare sono
numerose e si distinguono tra di loro per:
- Collocazione anatomica
- Composizione lipidica e proteica
- Presenza di trasportatori specifici
- Composizione cellulare
Mucosa gastro-enterica
La mucosa dell’apparato gastro-intestinale è caratterizzata da un epitelio monostratificato, in cui le singole
cellule sono unite le une alle altre dalla presenza di giunzioni strette (serrate); questo determina che, affinchè
un farmaco possa essere assorbito, esso passi per forza all’interno delle singole cellule. Di conseguenza, il
farmaco, per poter essere assorbito, deve avere dimensioni adeguate ed essere capace di sciogliersi
(liposolubile) negli strati lipidici che costituiscono le membrane cellulari. Fattore estremamente importante è
anche il pH, che determina un diverso grado di ionizzazione nel farmaco: più è ionizzato e più acqua si porta
dietro, rendendo quindi difficile l’assorbimento.
Barriere epiteliali → pelle, cornea e vescica
- Consistono in barriere stratificate e corneificate: sono quindi impermeabili all’ambiente esterno
- Permettono il passaggio solo delle molecole liposolubili
- Non c’è il passaggio tra una cellula e l’altra
Barriere capillari
Sono costituite da endotelio e muscularis mucosae. Tuttavia, distinguiamo diversi tipi di capillari:
- Capillari con maculae: rappresentano la stragrande maggioranza dei capillari; la diffusione è
intercellulare (simil-canali che non sono selettivi per la solubilità). Se il peso eccede i 100 kD la
diffusione avviene per pinocitosi e vescicolazione.
- Capillari fenestrati: sono presenti negli organi escretori (glomerulo renale, tiroide, ipofisi, ghiandole
salivari, pancreas); non rappresentano in realtà una barriera efficace, in quanto bloccano solo le
molecole con peso maggiore di 45 kD
- Capillari occludenti: sono presenti solo a livello cerebrale, dove formano la barriera emato-encefalica;
non presentano spazi intercellulari o intracellulari o intracellulari e la diffusione avviene solo
attraverso le cellule, che lasciano passare poche molecole e solo se sono molto lipofile; possono
presentare trasportatori attivi. Le membrane infiammate, tuttavia, diventano molto più permeabili.
Rappresentano delle eccezioni l’ipofisi ed epifisi, l’area postrema (centro del vomito), l’eminenza
mediana e il plesso corioideo.
Barriere emato-liquorali
Rappresentano l’interfaccia presente tra il sangue e il liquor cefalo-rachidiano. Sono costituite da cellule
epiteliali che rivestono i ventricoli: non sono presenti fenestrature ma il passaggio intercellulare è facilitato.
Permettono un buon passaggio verso il liquor e le cellule cerebrali (specie amminoacidi e zuccheri, che hanno
una diffusione facilitata).
Barriera emato-encefalica
Pur non rappresentando un ostacolo assoluto al passaggio di sostanze nel sistema nervoso, alcuni fattori
anatomici e fisiologici della BEE contribuiscono a ridurne la permeabilità:
- L’endotelio dei capillari encefalici è caratterizzato da giunzioni serrate e dalla virtuale assenza di pori
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- Le cellule endoteliali stesse contengono un carrier proteico ATP-dipendente capace di estromettere
sostanze, pompandole quindi nel circolo sanguigno; allo stesso tempo, i capillari encefalici sono dotati
di scara attività eso-, endo- e trans-citotica
- Gli stessi capillari encefalici sono, in gran parte, avvolti dai processi delle cellule gliali: l’insieme
dell’endotelio non fenestrato e delle cellule gliali è quello che forma la barriera
Date queste caratteristiche abbiamo che:
- Molecole liposolubili presenti nel plasma riescono a diffondere nel SNC grazie sia alla vasta
vascolarizzazione sia alla capacità di passare le membrane cellulari; non solo, ma l’alta quantità di
lipidi dovuta all’abbondanza di membrane cellulari e guaina mielinica determina una tendenza, da
parte di farmaci lipofili, ad accumularsi nel tessuto nervoso
- Molecole idrofile (es. antibatterici) normalmente non riescono a passare nel SNC a causa della BEE
(a meno che non vengano immessi direttamente nel liquor); un’eccezione è rappresentata dal
pavimento del IV ventricolo vicino all’area postrema, localizzato al di fuori della barriera, dove quindi
i farmaci riescono a passare più facilmente
Da notare, tuttavia, che nel caso di meningite, encefalite ma anche nei bambini e negli anziani, l’impermeabilità
della BEE viene a ridursi, permettendo un maggior transito farmacologico.
Oltre a ciò, la penetrazione di un farmaco nel SNC viene influenzata da:
- Legame alle proteine plasmatiche
- Grado di ionizzazione
- Coefficiente di ripartizione
Barriera placentare
La placenta è caratterizzata dalla presenza di seni ematici materni nei quali si spingono i villi irrorati dalla
circolazione capillare fetale. Il sangue del feto è quindi separato da quello materno dall’interposizione del
sincizio placentare, dall’interstizio villare e dall’endotelio dei capillari villari. Da notare che lo spessore degli
strati interposti tra circolazione fetale e materna varia con la gestazione, riducendosi man mano che si avvicina
il momento del parto.
La placenta, più che una barriera anatomica come la BEE, si comporta da filtro: in essa sono attivi diversi
meccanismi di trasporto, tra cui la diffusione passiva, la diffusione facilitata, il trasporto attivo e l’endocitosi
mediata da recettore. Essa serve sostanzialmente a proteggere il feto da sostanze nocive presenti nel sangue
materno, permettendo allo stesso tempo il passaggio di sostanze nutritive e vitamine. A differenza della BEE,
nella placenta:
- Manca l’impermeabilità quasi assoluta: farmaci idrofili possono passare al circolo fetale, con velocità
inversamente proporzionale alla loro grandezza (più sono grossi e più lentamente diffondono)
- La circolazione materna avviene più lentamente: aumenta quindi il tempo disponibile perché il
farmaco possa raggiungere la circolazione fetale
È quindi importante tenere conto della gravidanza nel preparare un regime terapeutico, anche perché diversi
farmaci potrebbero risultare neurotossici di per sé, oppure potrebbero esserlo i loro metaboliti: la placenta,
infatti, ha una propria attività di biotrasformazione.
Barriera ematotesticolare
È localizzata tra il lume del capillare interstiziale e il lume del tubulo seminifero: è costituita da endotelio
capillare, lamina basale, endotelio linfatico, cellule mioidi, lamina basale del tubulo seminifero e cellule del
Sertoli.
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Peritoneo
Il peritoneo, al contrario, non è una efficiente barriera, in quanto i farmaci raggiungono facilmente il torrente
ematico; il loro passaggio, inoltre, non è direttamente dipendente dalla liposolubilità o dalla ionizzazione.
Barriera polmonare
A livello polmonare, al contrario, passano soprattutto molecole liposolubili; tuttavia, grazie alla sottigliezza
della barriera e alla presenza di fenestrature, passano anche molecole altamente idrofile. Sono inoltre presenti
meccanismi attivi di pinocitosi.
Da notare che i polmoni di prematuri presentano una funzionalità differente, mentre bambini e adulti hanno
una attività simile. Anche negli anziani si ha una attività simile agli adulti, in quanto la compromissione non è
elevata.
LEGAME ALLE PROTEINE PLASMATICHE
Nel momento in cui un farmaco raggiunge il plasma, esso è capace di legarsi a componenti presenti nel sangue,
sia di trasporto sia cellulari:
- Albumina
- Globuline
- Lipoproteine
- α1 glicoproteine acide
- componente glicoproteica dei globuli rossi
Importante è il fatto che il farmaco si metta in equilibrio reversibile (deriva da legami reversibili come forze
di van der Waals, legami ionici, legami a idrogeno, interazioni idrofobiche) con le proteine plasmatiche (che
sono deputate al trasporto di sostanze, tra cui anche i farmaci), tanto che la concentrazione plasmatica del
farmaco può essere espressa come la somma della quota libera e della quota legata alle proteine:
𝐹𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 = [𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑜] + [𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑜]
Solo la quota di farmaco libero (e quindi solubile nel plasma) è capace di legarsi ai recettori (dando quindi
l’effetto terapeutico della molecola) o essere eliminata. Di conseguenza, tutto ciò che riguarda la
farmacocinetica, in realtà, riguarda solo la porzione di farmaco non legato alle proteine plasmatiche; inoltre, il
plasma, in questo modo, rappresenta una riserva circolante di farmaco e permette di aumentare la durata
complessiva dell’azione terapeutica.
Il legame con le proteine plasmatiche rappresenta una costante farmacocinetica specifica del farmaco: essa
viene espressa come percentuale di farmaco legato alle proteine plasmatiche e, in quanto costante, non
dipende dalla dose somministrata, ma è specifica di ogni farmaco: tuttavia, se aumento la dose, è vero che la
percentuale di farmaco legato sarà costante, ma aumenterà la quota libera, da cui dipende direttamente l’effetto
terapeutico.
Poiché il legame farmaco-proteina è debole, si possono verificare fenomeni di competizione per il sito di
legame sulle proteine da parte, ad esempio, di altri farmaci. Mettiamo il caso che il farmaco A abbia una %
pari al 99%: il suo effetto terapeutico, quindi, sarà dato dall’1%, che rappresenta il farmaco libero. Nel
momento in cui, tuttavia, il paziente assume un secondo farmaco (B), questo competerà con il farmaco A per
le proteine plasmatiche: è possibile quindi che la % del primo farmaco scenda al 98%, determinando un
raddoppio della quota libera, con un conseguente aumento dell’attività. Esistono, in realtà, farmaci con una
alta affinità per le proteine plasmatiche e farmaci con una bassa affinità: questo è estremamente importante,
perché se occorre aggiungere un farmaco ad una terapia già multifarmacologica, si propenderà per un farmaco
che presenti una bassa affinità alle proteine plasmatiche, in maniera tale da ridurre il più possibile la
competizione tra le diverse molecole.
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Non solo i farmaci possono competere per le proteine plasmatiche: anche integratori alimentari, tisane,
componenti aromatiche (curcuma, aloe, ad esempio) e cosmetici cutanei possono competere con il farmaco.
Per questo diventa sempre più importante sapere ogni singola cosa che il paziente prende.
Esistono vere e proprie tabelle che riportano, per ogni singolo farmaco, la percentuale di molecole legate:
farmaci con una % pari all’80-90% sono quelli a rischio di interazione farmacocinetica, mentre farmaci con
una percentuale minore, pur non vedendosi intaccata la propria quota legata, possono rappresentare buoni
competitori.
La quota di farmaco legato alle proteine può anche essere influenzato dalla secrezione tubulare: in quanto
processo attivo, il farmaco viene estromesso dal plasma (quota libera) e immesso nelle urine. Poiché, tuttavia,
la concentrazione del farmaco libero viene a ridursi, le proteine plasmatiche rilasciano molecole per mantenere
costante la quota libera e legata di farmaco: si parla di estrazione.
La percentuale di farmaco legato è, come già detto, una costante farmacocinetica, che viene misurata nel
volontario sano. Tuttavia, esistono tutta una serie di fattori capaci di influenzare la qualità e la quantità di
proteine plasmatiche:
- Età: la composizione e la quantità di proteine plasmatiche variano, infatti, con l’età del soggetto; un
individuo prematuro, ma anche un neonato, è caratterizzato da una immaturità epatica e, di
conseguenza presenterà un’attività epatica differente. Man mano che l’individuo matura, matura anche
la sua capacità di sintesi proteica a livello epatico:
Neonato: dalla nascita fino ai 3 anni; Infante: tra i 4 e gli 8 anni; Bambino: tra gli 8 e i 10 anni; al di sopra
degli 11 anni, dal punto di vista farmacologico, è paragonabile a un adulto.
- Gravidanza: lo stato di gravidanza determina un aumento del volume plasmatico (che aumenta con il
progredire delle settimane); questo determina una riduzione del numero di proteine per litro di plasma
con un conseguente aumento della quota di farmaco libero: l’effetto di un farmaco, quindi, aumenterà
con il progredire della gravidanza.
- Insufficienza epatica: situazioni patologiche a carico del fegato (epatiti, steatosi, cirrosi) portano a
una drastica riduzione delle proteine plasmatiche, determinando un aumento della quota di farmaco
libero. Da notare che negli anziani si osserva un certo grado di insufficienza epatica (fisiologica).
Come ci accorgiamo che le proteine plasmatiche non sono quelle attese? Attraverso l’osservazione di
due effetti:
o Un aumento della quota libera di farmaco determina un aumento dell’effetto terapeutico
(tuttavia, l’aumento potrebbe non essere abbastanza consistente da essere notato)
o Un aumento della quota libera di farmaco determina anche un aumento dell’eliminazione del
farmaco (solo il farmaco libero può essere eliminato) a cui corrisponde una riduzione rapida
dell’efficacia del farmaco stesso
In un paziente di questo tipo, per compensare la riduzione dell’efficacia possiamo scegliere un farmaco
differente (ad esempio, un farmaco che si lega in percentuale minore alle proteine ma con la stessa
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efficacia ed eliminazione del primo farmaco in un paziente normale) oppure, in assenza di farmaci
alternativi, occorrerà adeguare la terapia al paziente.
- Insufficienza renale: questa condizione patologica, associata a un’infiammazione o danno al rene, si
caratterizza per la presenza di proteine nelle urine (proteinuria). Di conseguenza, in questa tipologia
di pazienti, osserveremo un’aumentata eliminazione del farmaco, in quanto perderanno una quota delle
proteine plasmatiche e, con esse, le molecole di farmaco legate.
- Enteropatie: una qualsiasi patologia a carico dell’apparato gastroenterico determina problemi
nell’assorbimento dei farmaci. Poiché la parete intestinale è dotata di attività metabolica a carico dei
farmaci, una riduzione o scomparsa di questa attività determina un aumento dell’assorbimento, con
aumento della quota libera di farmaco.
- Ustioni: in presenza di un’ustione, si osserva una fuoriuscita di siero verso i tessuti danneggiati, con
conseguente aumento della concentrazione delle proteine plasmatiche nel sangue.
VIE DI SOMMINISTRAZIONE
Le condizioni necessarie affinché un farmaco possa essere efficace (dare il determinato effetto per cui lo
somministriamo) sono:
- Raggiungere il sito d’azione - Raggiungere una concentrazione appropriata nel sito dazione - Mantenere per un tempo sufficiente la concentrazione adeguata
La concentrazione di un farmaco dipende strettamente dalla quantità di farmaco somministrato (quindi la
dose), ma viene anche influenzata da:
- Entità e velocità di assorbimento: ci viene detto quante molecole per unità di tempo passano dal sito
di somministrazione al plasma. È un parametro costante, tipico di ogni farmaco, che viene deciso
grazie all’uso degli eccipienti: eccipienti diversi determinano velocità di assorbimento diverse.
- Distribuzione del farmaco: indica il passaggio dal plasma ai tessuti in cui sono presenti i recettori. Più
un farmaco è capace di abbandonare il plasma e distribuirsi ai tessuti, più sarà in grado di raggiungere
distretti anatomici complessi. Importante è anche la biodisponibilità, ovvero la frazione di farmaco
attivo nella circolazione sistemica in seguito a somministrazione non endovenosa: il farmaco, infatti,
quando viene assorbito può andare incontro ad un effetto di primo passaggio, un fenomeno metabolico
per cui una parte del farmaco assorbito viene persa perché metabolizzata.
- Legame e permanenza nei compartimenti tissutali
- Biotrasformazione: nell’esatto momento in cui il farmaco viene immesso in circolo, esso viene anche
sottoposto a processi di modifica e trasformazione, il cui scopo è l’eliminazione del farmaco
dall’organismo
- Escrezione: parleremo di clearance, un altro parametro costante che rappresenta il volume di plasma
depurato, nell’unità di tempo, per chilogrammi di peso corporeo. Essa serve per comprendere il tempo
per il quale il farmaco persiste nell’organismo; essa prescinde da sesso e peso, in quanto viene misurata
al chilogrammo
Le diverse vie con cui un farmaco può essere somministrato possono essere sostanzialmente distinte in:
- Sistemiche: la somministrazione permette di ottenere livelli significativi di farmaco in tutto il torrente
circolatorio
- Topiche: la somministrazione permette di ottenere elevati livelli di farmaco esclusivamente nella zona
di somministrazione. In genere, un farmaco ad uso topico non deve mai raggiungere il plasma o avere
concentrazioni significative nel plasma (perché risulterebbe tossico)
- Regionali o loco-regionali: la somministrazione permette di avere concentrazione terapeutiche
localizzate in uno specifico tessuto o rogano, senza indurre rilevanti effetti sistemici in quanto la
concentrazione plasmatica, seppur presente, non è significativa
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Nel momento in cui somministro, si osserva l’instaurazione di un equilibrio: il farmaco presente nel plasma si
mette in equilibrio con il sito di interazione, dove il legame tra farmaco e recettore è biunivoco, ovvero il
farmaco si lega e abbandona il recettore.
Vie parenterali sistemiche iniettive
Sono vie che, come suggerisce il nome, richiedono l’utilizzo di dispositivi di iniezione (es. siringa) che
permettono di ottenere concentrazioni significative di farmaco a livello sistemico. Comprendono vie:
- Intravascolare
o Endovenosa
o Intracardiaca
o Intrarteriosa (che in realtà è più una somministrazione locoregionale)
- Intramuscolare
- Intraperitoneale
- Percutanea
o Sottocutanea
o Intradermica (può avere significato anche topico)
A seconda della via di somministrazione scelta, cambieranno sia la tecnica di somministrazione che l’ago da
utilizzare. In particolare, importante è la grandezza (calibro) dell’ago, che viene espresso in gauge (misura del
numero di aghi di quel diametro che stanno in un cm2): il diametro dell’ago è inversamente proporzionale al
suo gauge (più piccolo è il gauge, più grande è l’ago).
Via endovenosa
A) Mettere un laccio emostatico legato
con un noto che si possa sciogliere facilmente
circa 5-15 cm al di sopra del sito della
puntura.
B) Aspettare che le vene si dilatino
C) Palpare la vena per sentirne la
profondità e la direzione
D) Disinfettare la cute a partire dal sito
di iniezione e con movimenti circolari sempre
più ampi verso l’esterno.
E) Per il catetere copriago, tenere il
catetere con il pollice e l’indice a livello della
parte in cui affluisce il sangue ed inserire il
catetere con l’ago con un angolo di 10-30°
con la smussatura dell’ago rivolta verso l’alto.
F) Ritirare l’ago dal catetere, abbassare
leggermente l’angolo del catetere e farlo
procedere all’interno della vena.
G) Applicare una leggera pressione sulla
punta del catetere per evitare l’eccessivo
reflusso di sangue mentre si toglie l’ago dal
catetere e si attacca la fleboclisi
H) Fissare il collegamento tra il tubicino
della somministrazione endovenosa e il fulcro
del catetere.
La via endovenosa è una somministrazione sistemica in quanto indipendentemente da dove somministro il
farmaco, il primo organo raggiunto è il cuore, che ridistribuisce il sangue a tutto l’organismo: nel giro di due
minuti, il farmaco torna al punto iniziale.
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La somministrazione endovenosa può avvenire in due modi differenti:
- Iniezione rapida (a bolo)
- Infusione lento o prolungata
Indipendentemente dalla tipologia di IV scelta, essa:
- Permette di avere il farmaco immesso totalmente e direttamente nel torrente circolatorio (viene a
mancare la fase di assorbimento)
- Ha effetti dimostrabili in tempi rapidi (che, tuttavia, possono anche essere pericolosi)
- È la via preferibile in situazioni di emergenza e in quei casi in cui non è richiesta la collaborazione
attiva del paziente
- Non risentono dell’effetto di primo passaggio
- I livelli plasmatici di farmaco sono noti e decisi dall’operatore; inoltre hanno una cinetica prevedibile
Per definizione, una iniezione a bolo dura al massimo 6 minuti; essa ha sia vantaggi che svantaggi:
Vantaggi
- La concentrazione plasmatica aumenta in tempi molto rapidi e può raggiungere livelli molto elevati
- Viene usata preferibilmente nelle situazioni di emergenza
- Viene usata per somministrare farmaci con emivita lunga
Svantaggi
- Si raggiungono rapidamente dosaggi molto elevati
- Si può danneggiare una vena o il tessuto (se c’è extravaso)
- Non si possono usare veicoli oleosi, molecole che farebbero precipitare i costituenti del sangue o che
indurrebbero emolisi
- Bisogna operare in regime di sterilità assoluta
- La forma farmaceutica è costosa
- Una volta introdotto, il farmaco non è più recuperabile
È inoltre raccomandabile somministrare la dose endovena molto lentamente, in un periodo di tempo che sia
almeno pari al tempo di circolo (circa due minuti). Questo permette anche di rilevare eventuali effetti tossici
acuti nel paziente, così da sospendere la somministrazione prima di aver iniettato tutto il contenuto.
Dal punto di vista cinetico, la somministrazione a bolo può essere considerata come composta di tre fasi
successive:
a) Il farmaco viene iniettato e richiede un certo tempo per raggiungere il picco plasmatico (Cmax). È
in genere un tempo molto breve (secondi o minuti) coincidente con circa due minuti (per questo
motivo, la curva, che rappresenta la concentrazione plasmatica in funzione delle ore trascorse,
viene disegnata attaccata all’asse delle ordinate). Nel momento in cui viene raggiunto il picco,
iniziano la distribuzione del farmaco nell’organismo e la sua eliminazione e biotrasformazione.
b) Il farmaco viene distribuito, redistribuito ed eliminato, per cui la sua concentrazione plasmatica
inizia a scendere con una velocità variabile: in genere può essere molto rapida (minuti) oppure
richiedere parecchie ore.
c) Il farmaco scompare progressivamente dal plasma e la sua concentrazione si riduce
(asintoticamente).
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A parità di dose somministrata, due farmaci diversi presenteranno una Cmax diversa. Per calcolare la
concentrazione plasmatica, si utilizza la formula:
𝑪𝒑 =𝒅𝒐𝒔𝒆
𝒗𝒐𝒍𝒖𝒎𝒆 𝒅𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒓𝒊𝒃𝒖𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒂𝒑𝒑𝒂𝒓𝒆𝒏𝒕𝒆
Dove, per volume di distribuzione apparente, intendiamo un volume teorico in cui il farmaco deve distribuirsi
per avere quella concentrazione plasmatica (vedi pag. 38).
Più la discesa è ripida, più il farmaco è facilmente eliminabile. Questo permette anche di capire quando posso
eseguire una seconda somministrazione del farmaco: il farmaco con una pendenza maggiore richiederà la
somministrazione successiva prima del farmaco che viene eliminato più lentamente. Quello che differenzia i
due farmaci è rappresentato dall’emivita, ovvero il tempo che è necessario affinché la quantità di farmaco nel
plasma sia dimezzata.
Più l’emivita di un farmaco è ampia, più il singolo bolo del farmaco può essere sufficiente (farmaci con emivita
breve vengono in genere somministrati con infusione lenta, in quanto richiederebbero boli continui). Tuttavia,
nel momento in cui il paziente esce dalla finestra terapeutica, che dose devo dargli per farlo rientrare?
- Se il paziente non ha avuto somministrazioni, posso dare il
bolo completo
- Se il paziente ha già avuto un bolo ma la concentrazione
plasmatica è semplicemente ridotta (al di sotto del limite
inferiore della finestra), la dose successiva deve essere tale da
fargli raggiungere una Cp all’interno della finestra terapeutica.
Per fare ciò, sottrarrò alla dose iniziale la dose “inefficace”,
rappresentata dall’area sotto la curva fuori dalla finestra
terapeutica.
La seconda dose, aggiustata, permette di avere un innalzamento
della Cp che rientrerà ancora nella finestra terapeutica: si
ottiene un grafico definito a dente di sega. È importante tenere presente che la scomparsa dell’effetto
terapeutico non rappresenta quasi mai la scomparsa del farmaco dal plasma: quando bisogna somministrare un
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secondo farmaco, quindi, occorre tenere conto delle somministrazioni di altri farmaci e delle dosi che sono
state somministrate.
È stato calcolato statisticamente che Cp raggiunge lo 0 dopo 5 emivite. Di conseguenza, un farmaco la cui
emivita è pari a 10h, scomparirà dopo due giorni (50h) dal plasma. Esistono farmaci con emivite anche di 20
giorni.
Per definizione, invece, una infusione lenta prevede un tempo di somministrazione maggiore dei 6 minuti;
oltre i 20 viene definita lentissima. Anch’essa presenta vantaggi e svantaggi:
Vantaggi
- Permette di regolare la dose in base alla risposta, modificando la velocità di infusione; in questo modo
si mantengono livelli costanti e noti del farmaco nel plasma per molto tempo
- Non si evidenziano picchi plasmatici
- La concentrazione plasmatica varia molto gradualmente
- È adatta per somministrare grandi volumi (farmaco diluito per evitare la precipitazione) e per sostanze
irritanti (che risulterebbero dolorose per vie IM o SC)
- Permette una infusione continua a velocità controllata (fleboclisi o pompe) anche per molte ore o
giorni.
- Il farmaco può essere aggiunto a fleboclisi già in atto
- Si può interrompere velocemente la somministrazione
- Viene usata in genere per farmaci a emivita breve
Svantaggi
- Non può essere usata per somministrare sostanze oleose o insolubili (rischio di embolia)
- Possono insorgere eventi tossici improvvisi (dovuti a una somministrazione troppo rapida)
- Possono insorgere infezioni (da materiale e/o composti non sterili) da permanenza eccessiva in vena
- Si può avere rottura del vaso e, di conseguenza, extravaso di un volume molto elevato
- Ha un rischio associato di embolia
- Il farmaco può degradarsi nel veicolo se vi rimane per troppo tempo (ad esempio se esposto a luce o
calore)
- Si ha una scarsa compliance alla terapia da parte del paziente
- Può richiedere macchine appropriate e costose
Dal punto di vista cinetico, la curva dose-risposta viene riassunta in queste fasi:
A. Il farmaco viene somministrato e si osserva la distribuzione dello stesso; inizia anche la fase di
metabolizzazione ed eliminazione
B. Il farmaco si è distribuito e comincia ad essere eliminato in modo significativo
C. Inizia la fase dello stato stazionario (steady state): si raggiunge un equilibrio tra velocità di infusione
e di eliminazione; la concentrazione plasmatica del farmaco è costante e permette il raggiungimento
della concentrazione terapeutica a livello del bersaglio
D. Si interrompe la somministrazione
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E. Si osservano solo metabolizzazione ed eliminazione; la scomparsa del farmaco dal plasma dipende
dalle caratteristiche farmacocinetiche. Questa fase è identica a quella della somministrazione a bolo.
F. Scomparsa del farmaco dal plasma.
La concentrazione raggiunta con lo steady state CSS (che viene raggiunto anch’esso dopo 5 emivite) è la
concentrazione massima raggiungibile, da quel farmaco, con quella infusione lenta. La salita dell’infusione
lenta è diversa, però, da quella del bolo, nel quale si osserva il raggiungimento pressoché immediato di Cmax.
Questo perché, nella fase iniziale della curva, si può immaginare la somministrazione lenta come una serie
successiva e infinita di boli della stessa dose che, all’inizio, non vengono eliminati (perché non sono ancora
passate 5 emivite). Si osserva sostanzialmente un progressivo accumulo del farmaco, che fa salire la
concentrazione plasmatica finché per la prima molecola di farmaco immessa non sono passate cinque emivite:
a questo punto il farmaco inizia a essere anche eliminato ma la curva si mantiene costante perché per ogni bolo
eliminato ne ho uno somministrato (steady state). Nel momento in cui l’ultima molecola viene immessa, lo SS
si interrompe e inizia la discesa della CSS, che raggiungerà lo zero dopo cinque emivite.
Cosa succede se raddoppio la velocità di infusione al tempo t=0, mantenendo però la stessa dose? Ottengo una
curva più alta (ogni punto della seconda curva è il doppio della curva originale) perché ad ogni istante vengono
immesse il doppio delle molecole. Tuttavia, l’emivita del farmaco è sempre la stessa, di conseguenza lo steady
state verrà raggiunto sempre dopo cinque emivite e la CSS risulterà il doppio della originale. Tuttavia, esso
durerà di meno, in quanto la dose immessa è uguale per entrambe le somministrazioni.
E se la riduco della metà? Succederà l’esatto opposto: la curva sarà più bassa e lo steady state durerà più a
lungo. Le tre curve presentano la stessa identica area sotto la curva (che rappresenta la dose).
Inoltre, con l’infusione lenta, sappiamo sempre entro quanto tempo si dovrebbe manifestare l’effetto massimo
(dopo cinque emivite): se, trascorso quel tempo, non evidenziamo l’effetto, significa che abbiamo sbagliato la
velocità d’infusione. Come aggiustiamo questa inconvenienza? Non possiamo agire sulla dose, in quanto è la
stessa sacca di flebo, ma possiamo modificare la velocità di infusione, ad esempio aumentandola.
In questo caso, nel momento in cui aumento la velocità di infusione (ad esempio, raddoppiandola) osserverò
un nuovo innalzamento della curva, fino al raggiungimento di un secondo stato stazionario (raggiunto sempre
dopo cinque emivite). E se, in questo caso, raggiungessi una concentrazione al di sopra della finestra
terapeutica? Basta ridurre nuovamente la velocità di infusione: in questo caso osserveremo una iniziale
riduzione della concentrazione plasmatica (con andamento identico alla discesa della normale infusione lenta)
ma, trascorse cinque emivite, verrà raggiunto un nuovo stato stazionario. Conoscendo queste informazioni,
possiamo tenere lo SS per un tempo a piacere (continuando a somministrare la stessa dose alla stessa velocità)
e organizzare in maniera rigorosa la terapia.
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Via intra-arteriosa
La via intra-arteriosa viene in genere utilizzata quando si vuole assicurare una specifica dose di farmaco in un
singolo organo (ad esempio, nel caso di alcuni chemioterapici o in analisi angiografica): il farmaco, infatti,
raggiunge in massa l’organo immediatamente a valle dell’arteria. Si utilizza, occasionalmente, per trattamenti
loco-regionali. Per poter effettuare una somministrazione intra-arteriosa, occorre passare prima dalla vena in
quanto:
- La pressione venosa è minore rispetto a quella delle arterie (entrare in un vaso ad alta pressione
comporta un rischio di fuoriuscita veloce e improvvisa di sangue, con una maggiore difficoltà
nell’operazione)
- Danneggiare una vena non comporta rischi elevati, in quanto esiste tutta una serie i circoli collaterali;
al contrario, danneggiare la parete arteriosa comporta un rischio maggiore per il paziente (senza
considerare che la muscularis mucosae è molto dura e difficilmente penetrabile)
Vantaggi
- Si ottengono alte concentrazioni di farmaci solo in tessuti e organi specifici (a valle dell’arteria)
- Si osserva una riduzione degli effetti sistemici del farmaco a causa della diluizione nel torrente venoso
a valle dell’organo.
Svantaggi
- È una via di somministrazione complicata
- Il personale che la esegue deve essere altamente specializzato
- Necessita di accessi distanti, tramite l’utilizzo di sonde, ecografo, radiografo
- C’è il rischio di avere pericolose lacerazioni arteriose (si usano, infatti, sonde e cateteri venosi, di
solito)
Via intramuscolare
Il farmaco non viene immesso direttamente nel torrente circolatorio, ma in sede muscolare (muscolo striato).
Da qui, tuttavia, il farmaco viene assorbito e si immette ancora una volta nel plasma. Da notare, tuttavia, che
il tessuto muscolare è dotato della capacità di eliminare alcuni farmaci, a velocità differente; di conseguenza,
a differenza delle vie EV e intra-arteriosa, non tutte le molecole di farmaco somministrati IM raggiungeranno
il plasma (cambia la biodisponibilità). I muscoli di elezione per la IM sono il deltoide, il quadricipite femorale
(vasto laterale e retto femorale) e il gluteo (sito ventro- e dorsogluteale) ma la scelta della sede varia soprattutto
in base alla quantità di liquido da iniettare (minima nel deltoide, maggiore negli altri due muscoli). Occorre
sempre controllare, tramite la manovra di Lesser, che l’ago non sia inserito in un circolo sanguigno e, nel caso,
spostarlo.
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Vantaggi
- È adatta alla somministrazione di volumi moderati, veicoli oleosi e sostanze moderatamente irritanti
(in questo caso è presente anche un anestetico locale)
- Si può regolare la velocità di assorbimento della forma farmaceutica
o Permette un assorbimento rapido se la soluzione è acquosa e profonda (si completa in circa
10-30 minuti)
o Permette un assorbimento graduale se la soluzione è oleosa
o Permette un assorbimento molto lento, graduale e costante se si usano molecole che
precipitano, si usano vasocostrittori nella forma farmaceutica o preparazioni ritardo
- Si possono iniettare (gluteo) anche volumi importanti di farmaco (volumi maggiori di 5 ml, anche se
in genere non superano mai i 10 ml)
- Viene utilizzata anche per la somministrazione di volumi molto piccoli, come nel caso dei vaccini
Svantaggi
- Può causare dolore da distensione o irritazione del tessuto muscolare; inoltre, l’ago può determinare
lesioni muscoli o nervose
- Il pH del farmaco può determinare ascessi sterili
- Si può andare incontro ad ascessi o necrosi per iniezione di sostanze irritanti o per insufficiente
controllo delle condizioni di asepsi
- Nei bambini e negli anziani, a causa della ridotta massa muscolare, si possono causare lesioni al nervo
sciatico
- Negli sportivi, a causa dell’aumenta vascolarizzazione, del maggiore diametro capillare e della minore
quantità di grasso tra le fibre, la velocità di diffusione e quindi l’assorbimento possono risultare
aumentati
Importante: nella maggior parte dei casi, i farmaci per IM non possono essere somministrati EV. Inoltre,
durante la terapia con anticoagulanti, occorre evitare la somministrazione IM per non causare sanguinamenti
profondi. Esistono, poi, certe differenze tra uomini e donne, soprattutto nella distribuzione delle fibre muscolari
e del pannicolo adiposo che possono modificare leggermente l’assorbimento dello stesso farmaco IM.
Dal punto di vista cinetico, a seconda degli eccipienti utilizzati otterremo una cinetica di rilascio differente.
Inoltre, a differenza della iniezione a bolo, nella somministrazione IM non abbiamo un improvviso picco nella
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concentrazione plasmatica del farmaco, ma piuttosto una salita graduale (la cui pendenza dipende da quanto il
farmaco viene assorbito velocemente) che porta a una Cmax levigata (più bassa della Cmax del bolo); allo stesso
tempo, tuttavia, la IM determina elevati livelli di farmaco per un tempo maggiore. Sfruttando eccipienti che
trattengono il principio attivo o che ne determinano la precipitazione, possiamo ritardare nel tempo la cessione
del farmaco al compartimento plasmatico, in maniera da modificare anche l’effetto. Esempio tipico è
l’ossitocina:
- Se data EV, in bolo, determina un effetto ipertensivo importante e pericoloso
- Se data EV ma con infusione lenta si ottiene un effetto a livello uterino
- Se data IM, si ottiene un effetto veloce ma non letale
La somministrazione IM, quindi, permette di avere i vantaggi dell’infusione lenta senza dovervi ricorrere;
inoltre, è possibile associare più farmaci tra di loro, come un vasocostrittore o un anestetico locale per
bilanciare alcuni svantaggi.
Per i neonati, i prematuri e gli anziani non è considerata la migliore via di somministrazione; inoltre, è
sconsigliata negli atleti.
Via intraperitoneale
Vantaggi
- Ampia superficie di assorbimento
- Veloce assorbimento, in quanto la zona è riccamente perfusa
- È possibile somministrare volumi molto differenti
Svantaggi
- Danni vasali o intestinali
- Formazione di aderenze in caso di somministrazioni ripetute
- Dolorosa
- Rischio di infezione
Vie enterali sistemiche
Sono vie con effetti sistemici che sfruttano l’intero tratto gastro-intestinale, dalla cavità orale al retto. Sono
comprese le vie: orale, sublinguale e rettale.
Via sublinguale
La somministrazione sublinguale sfrutta il drenaggio venoso presente nel pavimento del cavo orale, che drena
direttamente a livello del cuore grazie alla vena cava superiore. L’assorbimento, per quanto rapido (il
pavimento della cavità orale è estremamente vascolarizzato), risulta essere scarso (in quanto occorre superare
una barriera di cellule epiteliali); allo stesso tempo, però, viene assicurato che tutto ciò che viene assorbito
viene immesso in circolo, in quanto non si ha passaggio attraverso il fegato: in questo modo, le molecole non
vengono sottoposte a processi di biotrasformazione.
Vantaggi
- Il farmaco, posto sotto la lingua, si scioglie più o meno lentamente
- L’assorbimento è rapido e importante; inoltre, anche la mucosa buccale partecipa all’assorbimento
- Il sangue venoso refluo giunge, tramite la cava superiore, direttamente al ventricolo destro, senza
passare per il fegato e senza subire l’attacco acido dello stomaco
- Viene usata per tutti quei farmaci che subiscono un effetto di primo passaggio epatico o intestinale
o È la via di elezione per la somministrazione di nitroglicerina: grazie all’alto grado di
vascolarizzazione e all’alto coefficiente di ripartizione del farmaco, si ottengono
concentrazioni efficaci del farmaco in breve tempo.
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Svantaggi
- Questa via può essere usata per un numero limitato di farmaci
- C’è il rischio di provocare lesioni alla mucosa orale
- I farmaci non possono essere irritanti o con un pH lontano dalla neutralità
- Le concentrazioni plasmatiche raggiunte dopo l’assorbimento sono imprevedibili
- Si può andare incontro all’ingestione della forma farmaceutica e quindi all’interruzione della
somministrazione
Via orale
La somministrazione per os è una delle vie di somministrazione più utili e più usate. A seconda del farmaco,
l’assorbimento può iniziare anche a livello orale, continuando nello stomaco; tuttavia, la maggior parte
dell’assorbimento avviene a livello intestinale, grazie all’enorme superficie disponibile: questo fattore, inoltre,
permette che la maggior parte dei farmaci possa essere assorbita, siano essi molecole polari e non, lipofile o
idrofile. In ogni caso, l’assorbimento dipende da una moltitudine di fattori diversi:
- pH gastrico: l’ambiente acido dello stomaco può rappresentare un problema per alcune forme
farmaceutiche (il pH può arrivare anche a valori di 1-2 durante la digestione). Alcune forme, tuttavia,
sono composte di eccipienti adatti a resistere all’acidità gastrica, proteggendo il principio attivo
- Riempimento gastrico: il grado di riempimento dello stomaco può infatti variare la velocità
dell’assorbimento
- Motilità intestinale
- Batteri: alcuni di essi sono dotati della capacità di metabolizzare i farmaci, per cui vengono consumati
ben prima di essere assorbiti, non arrivando neanche al circolo sistemico
- Solubilità della forma farmaceutica
- Contenuto gastrico e intestinale: alcuni alimenti sono in grado di interagire chimicamente con i principi
attivi, rallentandone od ostacolandone l’assorbimento (chelazione, formazione di compressi
macromolecolari, etc)
o Tetracicline: se ingeriamo Ca2+, esso forma composti chelati con l’antibiotico, che di
conseguenza non può essere assorbito.
o Alimenti grassi: possono comportarsi da solventi per farmaci lipofili, permettendo, da un lato,
un assorbimento più veloce e, dall’altro, una eliminazione altrettanto rapida
- Variabilità della mucosa intestinale: la mucosa dell’intestino non è uguale nei vari individui;
innanzitutto subisce variazioni fisiologiche durante la vita del soggetto e, in secondo luogo, diverse
malattie (specie infezioni) possono alterare la mucosa, modificando quindi la capacità di assorbimento
- Sulla mucosa sia gastrica che intestinale possono essere presenti enzimi che modificano le molecole
di principio attivo, degradandoli direttamente a livello del lume.
In generale, farmaci poco assorbiti nel corso dell’apparato gastro-intestinale dovranno essere somministrati
per via parenterale; farmaci non resistenti al pH gastrico dovranno essere somministrati per altra via o tramite
forme farmaceutiche adatte (gastroresistenti).
Vantaggi
- Presenta un basso costo
- È caratterizzata da una compliance elevata
- Può essere eseguita a casa, come automedicazione, senza richiedere personale specializzato
Svantaggi
- I pazienti devono partecipare attivamente alla terapia (sono quindi esclusi neonati e soggetti comatosi)
- È possibile l’effetto di prima passaggio (il farmaco può andare incontro a una estesa metabolizzazione
a livello intestinale ed epatico)
- Non è utile alle situazioni di emergenza
- In quanto automedicazione, si può andare incontro all’abuso
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Dal punto di vista cinetico:
A. Il farmaco viene prevalentemente assorbito, ma si osservano anche distribuzione, metabolizzazione ed
eliminazione.
B. L’assorbimento raggiunger una velocità simile alla metabolizzazione ed eliminazione.
C. È stato raggiunto uno steady state approssimativo, dato dall’equilibrio tra quanto farmaco viene
assorbito e quanto ne viene eliminata: questo equilibrio determina la concentrazione terapeutica più
rilevante.
D. Inizia a ridursi la quota di farmaco assorbito
E. L’assorbimento si riduce ulteriormente e si osserva un prevalere dell’eliminazione (renale e/o epatica)
F. Il farmaco scompare dal plasma.
Poiché, al tempo t=0 (quando avviene la somministrazione) osserviamo un immediato aumento della
concentrazione plasmatica, possiamo dedurre che per questo farmaco l’assorbimento inizi immediatamente:
normalmente, infatti, un farmaco per os richiede almeno 20-30 minuti prima che inizi l’assorbimento. Poiché
l’aumento della concentrazione plasmatico è immediato, possiamo dedurre che il farmaco non si trova sotto
forma di confetto o capsula, ma, piuttosto, di compressa o sciroppo. La curva è assimilabile alla EV con
infusione lenta; questo ci dice che l’assorbimento è lento e graduale, ma continuo: ci troviamo, probabilmente,
in uno stato di digiuno (stomaco vuoto). Infatti, a digiuno, il transito stomaco-intestino è libero e il farmaco
può immediatamente passare a livello intestinale per l’assorbimento. Lo stato stazionario, a differenza della
infusione lenta, non è lineare, ma è una sorta di cupola, con variazioni minime rispetto al valore medio.
L’assorbimento continua finché la forma farmaceutica non viene completamente consumata o espulsa:
- Nel caso in cui sia consumata, la porzione discendente del grafico coincide con quella qui
rappresentata: l’assorbimento continua, riducendosi gradualmente (senza considerare che un t= 6h è
relativamente poco perché la forma farmaceutica sia già stata espulsa). Più la curva risulta allungata
verso destra e più l’assorbimento risulterà essere lento.
- Nel caso in cui venga espulsa, la parte discendente del grafico assomiglierà più al grafico a bolo, con
riduzione maggiore dell’assorbimento e scomparsa rapida del farmaco
Nel caso dello stomaco pieno, invece, la curva sarebbe
rappresentata da una U rovesciata. Questo perché a stomaco pieno,
il farmaco verrebbe confinato nel lume gastrico per circa 2h e solo
dopo passerebbe all’intestino dove inizierebbe effettivamente
l’assorbimento (la curva sale). Anche in questo caso viene
raggiunta una sorta di stato stazionario, ma è di breve durata, in
quanto l’assorbimento avviene in maniera rapida nel lume
gastrico.
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In generale, la somministrazione di un farmaco per os lontana dai pasti determina un assorbimento più rapido
e completo, anche se ciò non è applicabili a quei farmaci che sono acidi deboli (ad esempio, i FANS):
l’assorbimento di questi risulta più rapido e completo assumendoli insieme a bocconi di cibo. La
somministrazione vicina ai pasti, inoltre, può limitare eventuali irritazioni alle mucose provocabili dal farmaco.
Normalmente, si intende:
- Somministrazione prima dei pasti: da 30 a 0 minuti prima del pasto
- Somministrazione dopo i pasti: entro 30 minuti dal pasto
- Somministrazione lontano dai pasti: 3-4 ore prima o dopo il pasto
30 minuti è il tempo necessario per il transito dallo stomaco a digiuno, se il farmaco viene assunto a stomaco
vuoto con un piccolo volume di acqua.
È importante tenere conto del riempimento gastrico anche a causa del pH, che può facilmente influenzare
l’assorbimento dei farmaci. Inoltre, usando specifiche forme farmaceutiche, si limita l’assorbimento nello
stomaco (forme gastroprotette) così che, anche a stomaco pieno, lo svuotamento gastrico richiede dalle 1.5 alle
3 ore e il farmaco non viene rilasciato finché non giunge a livello intestinale. È logico quindi che un farmaco
di questo genere, se preso a stomaco vuoto, potrà essere assorbimento nel giro di 30 minuti, mentre se preso a
stomaco pieno il suo effetto sarà ancora più ritardato.
Ricapitolando:
- A stomaco vuoto, l’assorbimento è in genere lento
- A stomaco pieno, l’assorbimento è in genere rapido
Possiamo, inoltre, giocare sugli eccipienti in maniera tale da ottenere forme farmaceutiche a rilascio rapido (in
caso di terapia acuta) o lento (in caso di terapia cronica).
Come raggiungiamo lo stato stazionario nella via orale? In genere, i farmaci per os vengono assunti più volte:
questo è assimilabile a una somministrazione multipla. Osserveremo quindi un progressivo aumento della
concentrazione fino al raggiungimento di una sorta di stato stazionario (dopo cinque emivite): in realtà lo stato
stazionario è una media dei valori di concentrazione, che oscilla all’interno di valori minimi e massimi
compresi nella finestra terapeutica. Otteniamo, quindi, un grafico con varie oscillazioni. Questo non
rappresenta un problema, in quanto tutti i valori delle oscillazioni sono appunto all’interno della finestra. È
possibile, tuttavia, uscire da questo range se si commettono errori nella frazionabilità del farmaco nelle 24 h
(ovvero ogni quanto viene preso il farmaco): se le dosi vengono prese a una distanza di tempo minore,
rischiamo di superare la finestra e ottenere effetti tossici, mentre se il farmaco viene assunto a distanza di
troppo tempo, rischiamo di non arrivare alla finestra.
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Via rettale
È una via particolarmente utile per la somministrazione di farmaci in tutti quei pazienti incapaci di deglutire
(neonati, lattanti, soggetti in coma) o che soffrono di vomito (ma senza diarrea).
La zona del sigma e del retto presentano una vascolarizzazione particolare: il sangue refluo dal plesso
emorroidario inferiore e, in parte, medio, viene drenato direttamente a livello del ventricolo destro,
permettendo quindi di immettere nel circolo sistemico il farmaco senza che questo subisca metabolizzazione
e/o eliminazione. In realtà, però, una quota di sangue comunque subisce effetto di primo passaggio (30-50%)
per transito attraverso il fegato. La biodisponibilità, quindi, della via rettale è altamente imprevedibile, senza
contare che ci sono importanti variazioni interindividuali.
Di solito, l’assorbimento rettale risulta più lento e prolungato, permettendo quindi un mantenimento di
concentrazioni efficaci di farmaci (in genere anti-infiammatori o broncodilatatori) durante le ore notturne. Allo
stesso tempo, rappresenta una via di emergenza nel paziente convulsivo.
Vie sistemiche
Via sottocutanea (ipodermica)
Il farmaco viene iniettato nel tessuto connettivale sottocutaneo; questa via può essere utilizzata solo per volumi
di farmaco non superiori ai 2 ml e viene generalmente eseguita nelle porzioni laterali della superficie
addominale e sulla faccia ventrale dell’avambraccio. Viene usata sia per forme liquide che per solide o
precipitanti. Non si può usare, al contrario, per sostanze irritanti, che rischiano di portare alla formazione di
cicatrici o determinare un aumento della perfusione.
Usando questa via di somministrazione, la velocità di assorbimento del farmaco dipende dal flusso ematico e
dall’estensione della superficie assorbente; poiché il flusso ematico è minore rispetto a quello muscolare,
l’assorbimento risulterà più lento della IM. Inoltre, l’assorbimento viene anche influenzato dalla solubilità del
farmaco nei liquidi interstiziali: i canali acquosi della membrana endoteliale fanno diffondere in maniera poco
selettiva molecole lipofile; anche molecole di grosse dimensioni diffondono lentamente. La velocità di
assorbimento, inoltre, varia all’interno dello stesso individuo.
L’aggiunta di minime quantità di adrenalina, con effetto vasocostrittore, può ridurre ulteriormente
l’assorbimento sistemico del farmaco, permettendo una maggiore efficacia dei farmaci anestetici locali, usati
per inibire la conduzione delle fibre sensitive nell’area circostante. La via sottocutanea viene usata anche per
applicazioni loco-regionali.
La via sottocutanea è inoltre adatta all’impianto di “pellet” solidi (terapia ormonali o terapie degli alcolisti –
disulfiram –): sono forme a lungo deposito di farmaci generalmente insolubili e inseriti in eccipienti semisolidi
che si sciolgono molto lentamente; variandone forma e dimensione possiamo modulare la velocità di
assorbimento. Inoltre, con la via sottocutanea è possibile somministrare farmaci liquidi che precipitano: tipico
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esempio è l’insulina-zinco, che forma microcristalli nel sottocute che si sciolgono a velocità costante e
relativamente bassa, permettendo una concentrazione plasmatica dell’insulina costante per diverse ore.
Possibili complicanze sono rappresentate dal dolore, da eventuali ascessi e necrosi.
Via intradermica
Viene normalmente utilizzata per la somministrazione di piccoli volumi (0,1-0,2 ml) nel tessuto connettivale
dermico, al di sotto dell’epidermide e lontano dai vasi. Viene normalmente usata per introdurre allergeni a
scopo diagnostico, permettendo un’esposizione limita e una risposta infiammatoria locale in caso di positività.
Nonostante sia basso, è comunque presente il rischio di andare incontro a shock.
Via transcutanea (percutanea)
Tramite questa via, è possibile somministrare direttamente il farmaco dall’esterno nei distretti di facile accesso,
per avere azioni locali o sistemiche. Il medicamento normalmente usato è il cerotto (o compressa medicata),
che può avere sia effetto loco-regionale (in generale analgesici e anestetici locali) oppure sistemico (come
antianginosi, anticinetosici, ormoni, nicotina, etc.). A livello cutaneo troviamo sostanzialmente tre siti di
assorbimento potenziali:
- Strato corneo (che può anche funzionare da deposito per alcuni farmaci)
- Ghiandole sudoripare
- Follicoli piliferi
In presenza di infiammazione cutanea, escoriazioni o ferite si osserva un aumento netto della velocità di
assorbimento e della quota di farmaco assorbita, con conseguenti picchi plasmatici e termine precoce del
trattamento stesso. Si osserva, inoltre, una variabilità individuale legata all’età, al sesso, al fenotipo. La stessa
cute integra presenta una permeabilità differente a seconda del sito in cui viene svolto il trattamento: è un
parametro fondamentale di cui tenere conto per dosare la quantità di farmaco da somministrare. Per questo
motivo, il punto di applicazione deve essere sempre lo stesso.
La velocità di assorbimento in funzione della seda di somministrazione viene descritta dalla legge di Fick:
𝑑𝑞
𝑑𝑡=
𝑅 ∙ 𝐷𝑠 ∙ 𝐴 ∙ 𝐶𝑣
ℎ
Dove Cv è la concentrazione del principio attivo nel veicolo, R il coefficiente di ripartizione del principio tra
veicolo e barriera, Ds il coefficiente di diffusione del principio attraverso l’epidermide, A la superficie
interessata dall’assorbimento e h lo spessore attraversato. Poiché il singolo medicamento coincide con una
singola dose, la durata dell’esposizione condiziona la dose totale.
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Altro fattore che può influenzare l’assorbimento è la natura sia del principio attivo, sia del veicolo: potranno
attraversare lo strato corneo solo ed esclusivamente farmaci lipofili, ma non una velocità differente se in base
lipofila (velocità minore) o in base idrofila (velocità
maggiore).
Dal punto di vista cinetico, individueremo due possibili
grafici (a seconda del veicolo):
- Un farmaco lipofilo in veicolo lipofilo presenterà una
cinetica simile alla somministrazione orale a stomaco
vuoto
- Un farmaco lipofilo in un veicolo idrofilo presenterà
una cinetica simile alla somministrazione orale a stomaco
pieno
Vie sistemiche e/o topico-regionali
Via inalatoria o polmonare
La via inalatoria prevede la somministrazione dei farmaci (sotto forma di gas o aerosol) attraverso le vie aeree
e i polmoni: l’assorbimento a livello alveolare risulta essere estremamente rapido a causa della enorme
superficie assorbente (circa 200 m2) e della stretta vicinanza tra epitelio alveolare ed endotelio. La via
inalatoria può avere applicazioni sia topico-regionali (broncodilatatori) sia sistemiche (gas anestetici generali);
la differenza è basata sulla dose e sul tempo di esposizione.
I gas anestetici hanno un coefficiente di ripartizione molto elevato, cosa che gli permette di diffondere molto
rapidamente attraverso le cellule della parete alveolare e dell’endotelio capillare. I broncodilatatori (ma anche
cortisonici e antiallergici), invece, vengono somministrati per via inalatoria perché, da un lato, permettono di
ottenere elevate concentrazioni locali e, dall’altro, non hanno importanti effetti sistemici.
Via d’organo
o Intratecale: usata, in genere, per ottenere effetti rapidi a livello delle meningi e delle radici dei
nervi spinali (superando l’ostacolo della barriera emato-encefalica). Un tempo veniva usata
per somministrare antibiotici, mentre oggi ha applicazioni per lo più antitumorali e
diagnostiche (introduzione di MDC). La via intratecale comprende:
Via epidurale (o peridurale): i farmaci vengono somministrati tramite un catetere
posizionato nello spazio peridurale. Ha, associato, un rischio di infezione. Inoltre, se
il farmaco viene somministrato per lungo tempo, è possibile che il farmaco determini
un effetto sistemico (che, nel caso delle anestesie, può determinare il blocco di cuore
e polmoni.
Via subaracnoidea (o spinale): i farmaci vengono iniettati nello spazio subaracnoideo,
direttamente all’interno del liquor (eliminando un corrispondente volume di liquor
prima della somministrazione). I farmaci possono essere iniettati tramite puntura
lombare o nelle cavità ventricolari.
o Intrarticolare: usata per somministrare antinfiammatori, anestetici locali e antibiotici a livello
delle capsule articolari (anche se somministrazioni ripetute e frequenti possono avere effetti
lesivi.
Via intracavitaria (intraperitoneale ed intrapleurica)
Via transmucosale: somministrazione topica di farmaci sulle mucose nasali, congiuntivali, oro-
faringee, vaginali, uretrali; in queste regioni, per l’assenza dello strato corneo, l’assorbimento risulta
importante, potendo determinare effetti sistemici.
o Occhio: l’assorbimento avviene attraverso la congiuntiva (e in parte attraverso la mucosa
nasale dopo drenaggio dal dotto lacrimale). Attraverso la cornea, i farmaci possono arrivare a
livello dell’umor acqueo e vitreo: da qui, arrivano ai vasi retinici (es. traccianti fluorescenti
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per visualizzare i vasi retinici). La somministrazione si rivela anche utile per una terapia
antibiotica profilattica contro Gonorrea e Chlamydia.
A livello oculare, tuttavia, possono essere deposti solo 20 μl di farmaco (sterile, apirogeno,
isosmotico, non irritante e non alcoolico)
o Vagina: la somministrazione di prostaglandine E2 e F2α risulta utile per le emorragie post-
partum.
o Naso: per uso locale (vasocostrittori/decongestionanti nasali). Si possono somministrare anche
peptidi ed ormoni (come ossitocina, che esercita un effetto costrittivo a livello dei dotti
galattofori e permette l’eiezione del latte, e insulina) ma l’effetto è poco prevedibile.
BIODISPONIBILITÀ E AREA SOTTO LA CURVA
Si definisce biodisponibilità la frazione di farmaco non modificato che raggiunge la circolazione sistemica a
seguito di una qualsiasi somministrazione sistemica e che potenzialmente potrebbe raggiungere il sito d’azione.
La biodisponibilità viene indicata come una percentuale (o come valori compresi tra 0 e 1): in generale, la
somministrazione endovenosa presenta una biodisponibilità pari al 100%, in quanto il farmaco viene
direttamente immesso nella circolazione sistemica, senza dover essere assorbito e senza essere modificato dal
fegato. Al contrario, farmaci somministrati tramite altre vie presenteranno una biodisponibilità inferiore. Ad
esempio, un farmaco somministrato oralmente presenta una biodisponibilità del 70%, ovvero solo il 70% delle
molecole somministrate raggiungerà immodificato il plasma. Questo accade per due motivi:
- Si verifica un assorbimento incompleto a livello intestinale: questo può essere dovuto a caratteristiche
intrinseche del farmaco, come ad esempio una eccessiva liposolubilità (che impedisce
l’attraversamento degli strati acquosi adiacenti alla cellula) o idrofilicità (che impedisce il superamento
della membrana fosfolipidica). In altri casi, alcuni farmaci non vengono assorbiti perché aggrediti
dagli enzimi della digestione (ad esempio, l’insulina viene distrutta dagli enzimi proteolitici del
pancreas) oppure a causa della presenza di specifici trasportatori che estrudono le molecole di farmaco
dalle cellule, re-immettendoli nel lume intestinale e favorendone, quindi, l’eliminazione attraverso le
feci.
- Si verifica il cosiddetto effetto di primo passaggio a livello epatico. Infatti, in seguito
all’assorbimento a livello intestinale, il sangue portale trasporta il farmaco al fegato prima di
raggiungere il circolo sistemico: in ogni punto del suo passaggio dal lume intestinale al fegato, il
farmaco può essere metabolizzato: può essere trasformato a livello della parete intestinale o nel sangue
portale direttamente, anche se in genere è il fegato il maggiore responsabile. Tutti questi meccanismi
contribuiscono a ridurre la biodisponibilità del farmaco e, nel complesso, il fenomeno viene appunto
definito effetto di primo passaggio.
L’influenza dell’effetto di primo passaggio sulla biodisponibilità viene rappresentata dal rapporto di estrazione
ER:
𝑬𝑹 =𝑪𝒍 𝒅𝒆𝒍 𝒇𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐
𝒇𝒍𝒖𝒔𝒔𝒐 𝒆𝒎𝒂𝒕𝒊𝒄𝒐 𝒅𝒆𝒍 𝒇𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐
Più ER è vicino allo zero e più piccolo è l’effetto di primo passaggio (per cui la concentrazione del farmaco a
monte e a valle del fegato sono simili, se non identiche). La biodisponibilità sistemica di un farmaco, F, può
essere quindi stimata dall’entità dell’assorbimento (f) e dal rapporto di estrazione (ER):
𝑭 = 𝒇 × (𝟏 − 𝑬𝑹)
Un farmaco come la morfina viene completamente assorbito a livello intestinale e quindi la perdita a livello
intestinale è praticamente trascurabile. Al contrario, però, il rapporto di estrazione arriva a 0,67: a
biodisponibilità della morfina, somministrata oralmente, è pari quindi a 𝐹 = 1 ×(1 − 0,67) = 1 × 0,33 =
0,33. In genere, se la biodisponibilità è inferiore al 30% con una determinata via di somministrazione, si sceglie
un’altra via.
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Un parametro importante per comprendere la biodisponibilità è rappresentata dall’area sotto la curva, AUC.
Essa consiste, sostanzialmente, nell’integrale della funzione che descrive l’andamento della concentrazione
plasmatica del farmaco nel tempo e rappresenta, quindi, il numero di molecole entrate nell’organismo a seguito
della somministrazione, senza però tenere conto del fatto che non tutte sono responsabili della terapia: AUC
indica esclusivamente l’efficienza della via di somministrazione.
Nella somministrazione endovenosa rapida, AUC coincide con la dose somministrata, in quanto tutto il
farmaco raggiunge il plasma; nelle altre vie, invece, parte del farmaco viene persa prima di arrivare al plasma.
Un altro modo per calcolare la biodisponibilità, quindi, è confrontare le curve sotto le curve che si ottengono
dalla somministrazione endovenosa e non-endovenosa. Quindi:
𝑭 =𝑨𝑼𝑪 𝒐𝒔
𝑨𝑼𝑪 𝒊𝒗= 𝟎 ≤ 𝒗𝒂𝒍𝒐𝒓𝒆 ≤ 𝟏
𝐹 = 1 rappresenta il massimo dell’assorbimento, tanto che coinciderebbe con una somministrazione
endovenosa; 𝐹 = 0, invece, indica che il farmaco viene distrutto prima di raggiungere il plasma e la
circolazione sistemica e la via di somministrazione usata non è adatta al farmaco.
Un metodo per calcolare AUC senza ricorrere all’integrale è:
𝑨𝑼𝑪 (𝒎𝒈×𝒉
𝑳) =
𝒅𝒐𝒔𝒆 (𝒎𝒈𝒌𝒈
)
𝑪𝒍 (𝑳
𝒉×𝒌𝒈)
CINETICHE DI ASSORBIMENTO
Ad eccezione della via intravascolare, tutte le altre vie di somministrazione richiedono che il farmaco diffonda
dal compartimento di somministrazione al sangue, con una velocità dipendente dalle caratteristiche descritte
a pag. 11.
L’assorbimento di farmaci per via orale o parenterale generalmente seguono una cinetica definita di I ordine,
ovvero sono farmaci per i quali il flusso di assorbimento è proporzionale alla concentrazione: la quantità di
farmaco assorbita per unità di tempo è una percentuale costante della quantità di farmaco che rimane da
assorbire. Cinetiche di I ordine vengono descritte da una curva in un grafico lineare o da una retta in un grafico
semilogaritmico e sono definite da una costante di assorbimento ka (frazione assorbita per unità di tempo); un
utile parametro in questo caso è l’emivita (vedi pag. 50) ovvero il tempo necessario a dimezzare la
concentrazione nel compartimento assorbente, che risulta essere un intervallo di tempo fisso,
indipendentemente dalla concentrazione di partenza. Le cinetiche di primo ordine indicano che l’assorbimento
avviene per lo più attraverso meccanismi diffusionali o trasporti non saturati.
In alcuni casi, tuttavia, l’assorbimento può avvenire a velocità costante: parleremo in questo caso di cinetiche
di ordine 0 (flusso indipendente dalla concentrazione), che vengono descritte, al contrario, da una retta in un
grafico lineare e da una curva in un grafico semilogaritmico. Questo tipo di cinetica indica che il farmaco viene
assorbito attraverso sistemi di trasporto saturati, per cui la velocità di trasporto è strettamente legata al numero
di trasportatori disponibili).
Quando un farmaco viene somministrato a un paziente (con una cinetica di I ordine), la sua concentrazione
plasmatica sarà determinata da un equilibrio tra assorbimento ed eliminazione:
- All’inizio l’assorbimento è massimo e l’eliminazione è nulla
- L’assorbimento diminuisce man mano che il farmaco viene assorbito, perché la sua concentrazione
nella zona di somministrazione si riduce; contemporaneamente, l’eliminazione aumenta
Le variazioni nella concentrazione plasmatica, quindi, in ogni istante sono date dalla sommatoria dei due
processi: essa aumenterà quando 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑟𝑏𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 > 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, raggiungerà il picco massimo quando
𝑎𝑠𝑠𝑜𝑟𝑏𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 = 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 mentre si ridurrà quando sarà l’eliminazione a prevalere sull’assorbimento.
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Nella somministrazione endovenosa, possiamo usare la formula
𝑪 = 𝑪𝟎 × 𝒆−𝒌𝒆𝒍𝒕
Per calcolare, ad ogni istante, la concentrazione plasmatica del farmaco in funzione del tempo t, della costante
di eliminazione Kel (che coincide con la pendenza della retta ottenibile nel grafico semilogaritmico) e della
dose massima teorica C0
Per le altre somministrazioni, invece, possiamo usare la funzione di Bateman per calcolare, nelle cinetiche di
ordine I, la concentrazione plasmatica del farmaco in funzione del tempo trascorso, della via di
somministrazione e dei meccanismi di assorbimento e di eliminazione. Essa consiste in:
𝑪(𝒕) =𝑭×𝑫
𝑽𝑫 ×
𝑲𝒂
𝑲𝒆 − 𝑲𝒂×(𝒆−𝑲𝒂𝒕 − 𝒆−𝑲𝒆𝒕)
Dove:
- 𝐶(𝑡) è la concentrazione plasmatica al tempo t
- 𝐷 indica la dose
- 𝐹 rappresenta la biodisponibilità
- 𝐾𝑎 è la costante di assorbimento
- 𝐾𝑒 è la costante di eliminazione
DISTRIBUZIONE ED ELIMINAZIONE DI UN FARMACO
Nel momento in cui il farmaco entra nell’organismo, esso si distribuisce ai vari tessuti e viene eliminato tramite
i processi di metabolizzazione ed escrezione. In un qualsiasi grafico semilogaritmico, è possibile osservare
come la concentrazione plasmatica del farmaco decada con due velocità differenti: una fase iniziale rapida
seguita da una fase più lenta. Queste due fasi rappresentano i due processi a cui va incontro un qualsiasi
farmaco nel momento in cui entra nell’organismo:
- La caduta iniziale, rapida, della concentrazione del farmaco è dovuta al fatto che il farmaco abbandona
il letto vascolare per distribuirsi ai vari tessuti dell’organismo (compreso quello che rappresenta il
bersaglio terapeutico) finché le concentrazioni nel sangue e nei tessuti non si equilibrano
- La caduta successiva è legata, invece, all’eliminazione; la concentrazione del farmaco diminuisce in
quanto va incontro ai processi di metabolizzazione ed escrezione.
L’ampiezza della caduta durante la fase di distribuzione indica la capacità del farmaco di uscire dai vasi e qual
è il volume nel quale deve distribuirsi; la velocità con cui avviene la discesa nella fase di eliminazione, invece,
rappresenta quanto efficienti siano i processi di eliminazione dell’organismo. In realtà, però, i due processi
non sono separati ma avvengono contemporaneamente.
DISTRIBUZIONE
Qualsiasi liquido organico agisce come solvente e trasportatore per i farmaci. L’acqua corporea (che costituisce
circa il 60% del peso del nostro organismo) risulta suddivisa in due grandi compartimenti: l’acqua
intracellulare (40-44%) e l’acqua extracellulare (16-20%) separate del complesso delle membrane cellulari;
l’acqua extracellulare, a sua volta, risulta suddivisa dall’endotelio capillare in intravascolare (essenzialmente,
il plasma, 4%) e interstiziale (12-16%). In realtà, poi, alcune parti del liquido extra-cellulare non sono
facilmente raggiungibili (es. osso, cartilagine, tendine): di conseguenza, la quantità di acqua per ogni porzione
anatomica varia in funzione della composizione e dell’accessibilità. È utile quindi introdurre il concetto di
volume di distribuzione, distinguibile in reale e apparente.
In un individuo adulto magro (70 kg) troviamo circa 40 L di acqua: questo è il volume di distribuzione reale
(detto anche anatomico), che rappresenta il volume “massimo” in cui il farmaco potrebbe distribuirsi nel
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nostro corpo. Esso varia da 40 L nel caso di composti non polari ma solubili in acqua (e quindi diffusibile in
tutti i fluidi del corpo) a 12 L per una molecola elettricamente carica non diffusibile.
Il volume di distribuzione apparente, al contrario, è un valore teorico capace di esprimere quanto un farmaco
sia capace di attraversare le membrane, diffondere nei tessuti e quindi distribuirsi nell’organismo. Poiché la
concentrazione è definita dal rapporto dose su volume, il volume potrà di conseguenza essere calcolato come:
𝑽𝒅 =𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒕𝒂 (𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂𝒕𝒊𝒗𝒐 𝒕𝒐𝒕𝒂𝒍𝒆 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍′𝒐𝒓𝒈𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎𝒐)
𝑪𝟎
Dove 𝐶0 rappresenta la concentrazione teorica che il farmaco avrebbe al tempo 𝑡 = 0 (rappresenta la
distribuzione istantanea teorica: tanto più è piccola e tanto più facilmente il farmaco si distribuisce ai tessuti).
Essa può essere ricavata convertendo la funzione lineare della [farmaco] sul tempo in una funzione
semilogaritmica (asse delle y in logaritmo): poiché la funzione diventa una retta, 𝐶0 è data dall’intersezione
della retta con l’asse delle y e il coefficiente angolare della retta rappresenta la costante di eliminazione.
Poiché:
𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑎 =𝑚𝑔
70 𝑘𝑔 𝑒 𝐶0 =
𝑚𝑔
𝐿
Otteniamo che la unità di misura del 𝑉𝑑 è:
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𝑉𝑑 =
𝑚𝑔70 𝑘𝑔
𝑚𝑔𝐿
=𝐿
70 𝑘𝑔
Il volume di distribuzione apparente può anche superare il volume di distribuzione reale, in quanto esso
rappresenta il volume apparentemente necessario per contenere il quantitativo del farmaco presente
nell’organismo se questo si distribuisse con la stessa concentrazione che ha nel plasma.
Esempio pratico: somministriamo 500 µg di digossina (bolo) in un soggetto normale, di 70 kg di peso, il quale
dovrebbe avere quindi un volume di distribuzione (reale) di 42 kg). Di conseguenza, la concentrazione
plasmatica massima di questa dose dovrebbe essere:
𝐶𝑝 =𝑑𝑜𝑠𝑒
𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒=
500
42= 0,0119
µ𝑔
𝑚𝑙= 11,9
𝑛𝑔
𝑚𝑙
in realtà, la concentrazione plasmatica massima che si osserva è pari a 1,25 ng/ml. Da questo valore troviamo
che il volume apparente è pari a:
𝑉𝑑 =𝑑𝑜𝑠𝑒
𝐶0=
500 ∙ 10−6 𝑔
70 𝑘𝑔⁄
1,25 ∙ 10−6 𝑔𝐿⁄
= 400 𝐿
70 𝑘𝑔(= 5,7
𝐿
𝑘𝑔)
Ciò significa che il 𝑉𝑑 della digossina è maggiore del volume anatomico: la concentrazione massima
riscontrabile è inferiore al valore teorico perché il farmaco si distribuisce bene ai tessuti.
Conoscere la distribuzione del farmaco è importante: da un lato, mi permette di sapere se il farmaco viene
veicolato in tutto l’organismo (quindi indipendentemente da dove lo somministro, so che, sulla base della
selettività per un recettore, la molecola raggiungerà il bersaglio); dall’altro lato, indica la capacità di un
farmaco di abbandonare il plasma e andare nei tessuti e quanto “meglio sta” nei tessuti rispetto al plasma.
Infatti:
- 𝑉𝑑 molto piccoli (3-4 L/70kg) indicano che il farmaco rimane relegato al compartimento plasmatico
perché molto polare e quindi incapace di attraversare le barriere cellulari
- 𝑉𝑑 molto grandi (100-1000 L/70kg) indicano, al contrario, che il farmaco passa facilmente le
membrane in quanto poco polare, delle dimensioni giuste; potrà quindi distribuirsi bene nella maggior
parte dei tessuti e quindi scomparire velocemente dal plasma.
Ogni farmaco ha un proprio 𝑉𝑑, che è a tutti gli effetti una costante farmacocinetica; esso viene utilizzato per
calcolare la dose e di conseguenza la concentrazione plasmatica del farmaco, che deve essere sempre
all’interno della finestra terapeutica. Dare la stessa dose di farmaco a due pazienti diversi, uno obeso e uno
magro, determinerà una concentrazione plasmatica differente che, specie in presenza di una finestra terapeutica
ridotta, potrà avere effetti diversi, risultando inefficace nel paziente obeso (perché ha un volume maggiore e
quindi una concentrazione minore) e tossica nel paziente magro (in quanto al volume minore corrisponde una
concentrazione maggiore). Se la finestra terapeutica, quindi, è ristretta, occorrerà modulare la dose da
somministrare al peso del paziente o, addirittura, ai metri quadri di cute (se la finestra è molto ristretta e il
farmaco particolarmente pericoloso). Al contrario, in presenza di una finestra terapeutico ampia, non è richiesto
questo aggiustamento.
È importante considerare, poi, che in specifiche situazioni, il 𝑉𝑑 varia, come ad esempio in:
- Gravidanza: all’interno della madre, infatti, viene a crearsi un nuovo compartimento in cui il farmaco
(se capace di attraversare la barriera placentare) può distribuirsi ulteriormente, con un aumento del
volume di distribuzione
- Pubertà: con la pubertà cambia la composizione tissutale o, meglio, cambia la quantità e la
distribuzione di grasso nel soggetto; inoltre, i caratteri sessuali secondari rappresentano ulteriori
compartimenti in cui il farmaco può distribuirsi.
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- Vecchiaia: con la vecchiaia si osserva un’ulteriore cambio nella composizione dell’organismo, con
una riduzione del tessuto muscolare a favore di un aumento del tessuto adiposo; farmaci liposolubili,
quindi, potranno distribuirsi maggiormente nell’anziano, determinando concentrazioni plasmatiche
minori e richiedendo, così, un aggiustamento della dose.
Altri parametri che possono influenzare 𝑉𝑑 sono:
- pKa
- grado di legame con le proteine plasmatiche
- coefficiente di ripartizione olio/acqua
- grado di legame con i tessuti
- differenza nel flusso sanguigno localizzato
- patologie, infezioni, infiammazioni
Alcuni farmaci, poi, possono avere comportamenti anomali, ovvero presentano una distribuzione differente (e
quindi non omogenea come accade per la maggior parte dei farmaci) nei diversi tessuti dell’organismo:
- Site effect
Un farmaco liposolubile (e non legato alle proteine plasmatiche) diffonde rapidamente attraverso le
membrane cellulari raggiungendo in breve tempo una distribuzione proporzionale tra plasma e tessuti;
la velocità con cui viene raggiunta la sua concentrazione di equilibrio dipende esclusivamente dalla
quantità di sangue che arriva al tessuto: a parità di permeabilità, tessuti ben perfusi accumulano
farmaco molto più rapidamente di tessuti meno perfusi. Al contrario, un farmaco poco liposolubile
resterà confinato negli spazi extracellulari.
Sono organi ad elevata perfusione (e che quindi entrano rapidamente in equilibrio con il sangue) il
cuore, il cervello, i reni e il fegato (~ 4 L/min). Tessuti come il muscolo e la pelle, invece, presentano
una perfusione lenta (~ 1,3 L/min) mentre l’adipe è poco perfuso (~ 0,15 L/min). In un organo molto
vascolarizzato, il farmaco raggiunge in breve tempo valori di concentrazione simili a quelli del plasma,
esercitando dunque un effetto rapido e andando poi incontro al fenomeno di ridistribuzione, per cui il
farmaco torna al plasma velocemente e si distribuisce agli altri organi. La concentrazione negli organi
poco vascolarizzati, invece, aumenta più lentamente, determinando un deposito di farmaco che verrà
reintrodotto più lentamente nel sangue.
È per questo motivo che il tiopentale (un barbiturico usato come anestetico) esplica il suo effetto in un
breve lasso di tempo: esso è molto liposolubile e, di conseguenza, arriva molto rapidamente al cervello
sul quale esplica l’effetto narcotico; successivamente, la concentrazione a livello cerebrale diminuisce,
mentre aumenta la concentrazione nel tessuto adiposo sottocutaneo. Il site effect è quindi responsabile
dell’azione anestetica rapida ma di breve durata (10-15 min).
- Tropismo
È la capacità di un farmaco di legarsi a una specifica tipologia tissutale per la presenza di specifici
costituenti, come proteine, fosfolipidi, nucleoproteine e collagene. Si possono così avere dei siti di
deposito a livello di alcuni tessuti, indipendentemente dalla composizione del soggetto. Tipici esempi
sono:
o Tetraciclina, che tendono ad accumularsi al tessuto osseo. Questo rappresenta un problema in
gravidanza, in quanto farmaci che si legano all’osso del feto ne bloccano la crescita
o Tiopentale, che tende ad accumularsi nel tessuto adiposo
o Clorochina (antimalarico), che tende ad accumularsi nel fegato
o Amiodarone (antiaritmico), che tende ad accumularsi nella tiroide
MODELLI COMPARTIMENTALI
Fino ad ora, abbiamo trattato l’organismo umano come se tutti i tessuti facessero parte dello stesso unico
compartimento: abbiamo adottato un modello monocompartimentale, in cui la cinetica plasmatica viene
essenzialmente descritta dall’emivita. In questo modello, il farmaco si distribuisce molto rapidamente e in
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Dose (orale) Ka
Dose (ev)
Dose (orale) Ka
Kel
Kap
Kpc
maniera uniforme, raggiungendo la concentrazione Cc, ed è caratterizzato da un’unica costante di assorbimento
Ka (assente se il farmaco viene dato per via endovenosa) e un’unica costante di eliminazione kel.
Dose (ev) – priva di Ka
Kel
In realtà questo ragionamento non è applicabile a tutti i farmaci: alcune molecole, infatti, tendono a mettersi
in equilibrio con determinati tessuti a bassa velocità oppure possono accumularsi in maniera selettiva in certi
tessuti. In questo caso, quindi, non è possibile descrivere l’organismo come un tutt’uno, ma occorre
distinguerlo in due compartimenti, uno centrale e uno periferico. In questo modello, il farmaco raggiunge
inizialmente il compartimento centrale (consistente nel plasma e negli organi altamente perfusi come rene e
fegato), dove viene raggiunta una concentrazione Cc a seguita della somministrazione (sarà quindi presente o
meno una Ka, a seconda che la somministrazione richieda assorbimento o meno). Dal compartimento centrale,
il farmaco si mette in equilibrio con alcuni tessuti, costituiteti il compartimento periferico. Inoltre, una volta
raggiunta la concentrazione d’equilibrio Cp, il farmaco può ripassare nel compartimento centrale: questi
passaggi sono regolati, rispettivamente, dalle costanti Kap e Kpc. La costante di Kel è unica, e associata al
compartimento centrale, in quanto gli unici organi emuntori sono rappresentati dal fegato e dal rene, compresi
nel compartimento centrale.
I diversi aspetti del farmaco e del regime terapeutico in un modello bi- (ma anche tri-) compartimentale sono
definiti dai diversi compartimenti in gioco. È possibile distinguere, quindi:
- T½ α, che riguarda il compartimento centrale. Questa emivita contribuisce poco all’emivita effettiva
del farmaco: il compartimento centrale, infatti, è per lo più responsabile dell’effetto immediato e
principale del farmaco e da alfa dipende la Cmax.
- T½ β, che descrive il contributo del compartimento periferico all’emivita del farmaco, che è più
importante del contributo del compartimento centrale: fintanto che nel compartimento periferico è
Cc
Cc Cp
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presente farmaco, esso sarà rilasciato nel compartimento centrale, allungando l’emivita totale. La
concentrazione del farmaco, infatti, scenderà a 0 dopo 5 emivite beta (e non alfa).
Da notare che, nel momento in cui “inizia” l’emivita beta, il farmaco si è già distribuito e si trova in equilibrio
tra plasma e tessuti: troverò la stessa concentrazione tra plasma e tessuti. Questo determina che l’utilizzo di
una dose eccessiva di un farmaco che segue un modello bicompartimentale può determinare una
concentrazione eccessiva nel tessuto anche per lungo tempo, in quanto la concentrazione plasmatica (e quindi
tissutale) diminuisce secondo una emivita beta, maggiore dell’emivita alfa.
In alcuni casi, esisterà una terza emivita, che chiameremo gamma, che andrà anch’essa a incidere, esattamente
come beta, sulla emivita effettiva del farmaco: il farmaco scenderà a zero dopo 5 emivita beta e 5 emivita
gamma. Questo rappresenta un problema nel caso di una infusione lenta: l’infusione lenta abbiamo visto essere
caratterizzata dal raggiungimento, dopo 5 emivite, dello stato stazionario. Questo è vero per il modello
monocompartimentale. In un farmaco tricompartimentale (come gli oppiacei), invece, poiché l’emivita totale
è influenzata da t ½ γ, la concentrazione plasmatica continuerà ad aumentare lentamente e lo stato stazionario
verrà raggiunto anche dopo 50h; è possibile, inoltre, che, a causa del rilascio continuo di farmaco dai
compartimenti beta e gamma, si superi la finestra terapeutica.
La cinetica tricompartimentale risulta problematica anche in presenza di farmaci con una finestra terapeutica
ristretta. Somministrando questi farmaci, infatti, è difficile identificare l’esatto momento in cui la
somministrazione risulta essere terapeutica. Come possiamo fare, quindi?
Se somministrassimo un’infusione lenta, abbiamo visto che l’emivita complessiva del farmaco è determinata
dalla emivita gamma: se essa è piuttosto lunga, sappiamo che lo stato stazionario verrà raggiunto solo dopo
giorni. Non possiamo aumentare la velocità di infusione, in quanto lo stato stazionario viene sempre raggiunto
dopo cinque emivite e risulterà essere più alto e di durata minore. Risolviamo somministrando,
contemporaneamente all’infusione lenta, una somministrazione rapida. In questo modo, infatti, al tempo t=0
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otteniamo Cmax dettata dal bolo mentre il contributo da parte dell’infusione lenta è pressoché nullo. Con il
passare del tempo, si evidenzierà, da un lato, una riduzione del contributo del bolo e, dall’altro, un aumento
del contributo dell’infusione lenta finché le due curve non si incontrano: in quel punto la concentrazione
plasmatica sarà determinata per il 50% dal bolo e per il 50% dall’infusione lenta.
Le curve di infusione lenta e bolo si equivalgono: sono l’una l’opposto dell’altra. Il bolo che viene
somministrato all’inizio serve esclusivamente a coprire il lasso di tempo necessario all’infusione lenta a
raggiungere lo stato stazionario. La somministrazione del bolo velocizza l’entrata in finestra terapeutica e
quindi la comparsa dell’effetto terapeutico.
Per ottenere lo stato stazionario ad ogni istante, occorre calcolare sia la dose da dare a bolo, sia la
concentrazione dello stato stazionario durante l’infusione lenta. In particolare:
- La dose da dare con la somministrazione rapida sarà calcolabile ricorrendo alla formula a pagina 23:
conoscendo la Cp utile per la terapia e calcolando il Vd sarà possibile calcolare la dose;
- Per calcolare la concentrazione allo stato stazionario, sappiamo che lo SS si instaura nel momento in
cui le molecole assorbite equivalgono alle molecole eliminate, quindi abbiamo che la velocità di
somministrazione equivale alla velocità di eliminazione. Quest’ultima, inoltre, sappiamo essere pari a
𝑽𝒆𝒍 = 𝑽𝒎𝒂𝒙 × 𝑪𝒑
𝑲𝒆𝒍 + 𝑪𝒑
Quindi, risolvendo per Cp, possiamo trovare la velocità di eliminazione e giocare sulla velocità di
somministrazione.
Questo ragionamento viene sfruttato nelle anestesie generali: al paziente viene somministrata immediatamente
una certa dose per bolo, in maniera tale che si ottenga immediatamente l’effetto anestetico. Quindi, viene
somministrata un’infusione lenta affinché rimanga addormentato per tutto il tempo necessario.
Finché ci troviamo in regime ospedaliero, l’infusione lenta può essere utile. Una volta che il paziente viene
dimesso, però, dovrò cambiare la forma farmaceutica cercando, al contempo, di mantenere i vantaggi della
infusione lenta. Per questo motivo utilizziamo una particolare forma orale, basata su compresse a lento rilascio,
contenenti alte dosi di farmaco ma che ne rilasciano piccole quantità, permettendo un livello costante della
concentrazione.
Un fattore importante da tenere in considerazione è la distribuzione delle somministrazioni (vedi cinetica
somministrazione orale): è importante, quindi, dire in maniera precisa al paziente quando deve prendere il
farmaco. Mettiamo infatti di avere un farmaco, la cui singola dose corrisponde a 200 mg, e che sia possibile
somministrarlo in tre modi diversi:
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- Una volta al giorno: somministrando il farmaco in una singola dose al giorno, osservo il
raggiungimento di uno stato stazionario (sempre oscillante), la cui Cmax e Cmin fuoriescono entrambe
dalla finestra terapeutica; la terapia può risultare tossica o inefficace
- Due volte al giorno: somministrando il farmaco in due dose a distanza di 12h ore vado a ridurre il
rischio di superare la finestra terapeutica ma ancora una volta, ho sempre il rischio che la
somministrazione risulti inefficace
- Tre/quattro volte al giorno: riducendo ancora l’intervallo di tempo tra le somministrazioni,
prescrivendole tre o quattro, vado a raggiungere uno stato stazionario in cui il CSS medio si trova
all’interno del range terapeutico, senza rischio di superare o non raggiungere i limiti della finestra
terapeutica stessa.
Per calcolare la concentrazione plasmatica allo stato stazionario, possiamo usare la formula:
𝑪𝒔𝒔̅̅ ̅̅ ̅ =𝑭 × 𝑫
𝑪𝒍 × 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒔𝒊
Dalla formula si può notare come, se 𝐹 = 0, la concentrazione allo stato stazionario è pari a 0: le molecole
vengono distrutte prima di arrivare al plasma. In un paziente dimesso, occorrerà calcolare non solo la dose, ma
anche gli intervalli di tempo tra le somministrazioni, tenendo conto della clearance e della biodisponibilità di
quella via di somministrazione. Ovviamente adatteremo la terapia alle esigenze del paziente, scegliendo la via
di somministrazione migliore
ELIMINAZIONE
L’eliminazione di un farmaco avviene per escrezione e/o biotrasformazione. La principale via di escrezione
(per sostanze endogene ed esogene) è rappresentata da quella renale, a cui si aggiunge, per una quota
significativa di farmaci, la via epatico-biliare. In generale, i processi che portano alla eliminazione della
maggior parte dei farmaci seguono una cinetica di I ordine.
La Ke è un parametro costante di ogni farmaco e rappresenta, sostanzialmente, la frazione della quantità di
farmaco che viene eliminata nell’unità di tempo; tuttavia, non è uguale per tutti gli individui: sfuggono infatti,
bambini, prematuri, anziani e donne gravide (nelle quali non solo è presente un compartimento aggiuntivo ma
il latte materno rappresenta un’ulteriore via di eliminazione). Poiché, inoltre, un farmaco ha le proprie vie di
eliminazione, dovremo considerare una sommatoria di tutte le vie, dalle quali dipenderà la Ke stessa: se una
delle vie viene a mancare, si modificherà l’eliminazione del farmaco stesso.
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Oltre alle due vie principali, troviamo anche delle vie secondarie (che, per alcuni farmaci, possono diventare
anche primarie):
- Via inalatoria (polmonare): vengono sfruttati i polmoni per eliminare con gli atti respiratori il farmaco.
Tipico esempio è rappresentato dall’anestesia generale tramite mascherina: nel momento in cui
rimuovo la mascherina, il paziente elimina il farmaco dal plasma con la respirazione.
- Via cutanea
o Alcuni farmaci si legano alla cheratina, potendo quindi essere eliminati tramite la normale
esfoliazione della cute
o Altri farmaci, invece, vengono eliminati attraverso il meccanismo della sudorazione
- Via mammaria: è una via di eliminazione che compare solo con la gravidanza. Poiché il latte materno
risulta avere un pH acido e presenta una maggiore componente lipidica, in esso potranno trovarsi
farmaci tendenzialmente basici e lipofili. Questo rappresenta ovviamente un problema, in quanto
tramite il latte il farmaco verrebbe somministrato al bambino: per questo motivo alcuni farmaci sono
vietati in gravidanza e se la donna è costretta a prenderne alcuni non può allattare (antiepilettici,
antibiotici).
- Via placentare: nel momento in cui la placenta si forma, e soprattutto 3-4 mesi dopo il concepimento,
essa inizia a metabolizzare alcuni farmaci, riducendone la concentrazione plasmatica. Molti dei
metaboliti, tuttavia, può passare al feto ed esercitare effetti tossici.
- Via vaginale e seminale: alcuni farmaci possono localizzarsi nelle secrezioni vaginali o nel liquido
seminale. È il caso di alcuni antibiotici, che possono determinare la morte della flora batterica vaginale
e determinare la comparsa di candida. In altri casi, è possibile che causino, nel partner, una reazione
allergica.
- Via intestinale
- Via salivare
- Via lacrimale
Esistono sostanzialmente due modi in cui i farmaci possono essere eliminati:
- Immodificati: la molecola, così come è stata somministrata, viene ritrovata nelle urine o nelle feci
(tanto che potremmo estrarla e risomministrarla immediatamente, cosa che si faceva fino al secolo
scorso per alcuni farmaci di non facile produzione)
- Trasformati in metaboliti: è il meccanismo in genere più frequente ed è permesso dalla presenza di
specifici enzimi in grado di modificare anche minimamente la molecola. Poiché il principio attivo
originale viene convertito in un’altra molecola, esso è come se fosse scomparso.
Alcuni farmaci possono essere eliminati in entrambi i modi, oppure uno dei meccanismi è quello prevalente;
inoltre, ogni farmaco ha le proprie vie di eliminazione. Questo è estremamente importante: poiché, spesso, per
la stessa patologia esistono classi differenti di farmaco i cui componenti si distinguono anche per la via di
eliminazione, potremo scegliere il farmaco più adatto al singolo paziente. Così, in un paziente nefropatico
potremo scegliere un principio attivo che non sfrutta l’eliminazione renale.
Eliminazione renale
L’eliminazione renale è sicuramente il meccanismo più importante per la maggioranza dei farmaci. Essa è data
dalla sommatoria di tre meccanismi contemporanei:
- Filtrazione glomerulare: è un processo passivo, che dipende strettamente dalla frazione di farmaco
libero e dalle sue caratteristiche (se il farmaco è sufficientemente polare e delle dimensioni adatte può
passare nella pre-urina); inoltre non è selettiva e può essere bidirezionale. Nell’arco delle 24h, vengono
prodotti circa 200L di preurina, consistente in acqua distillata, pura. Essa si differenzia dalle urine per
il pH, che risulta meno acido (con variazioni di circa 0,5).
- Secrezione tubulare: è un processo attivo che sfrutta specifici trasportatori, sia per farmaci anionici e
che per farmaci coniugati. Essa avviene a livello del tubulo renale prossimale, permettendo la
secrezione di anioni e cationi. È poco selettiva e può essere bidirezionale. In questa categoria rientrano:
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o Via dell’acido urico (usata per eliminare penicilline e glucocorticoidi)
o Via della colina, istamina (usata per eliminare basi organiche)
- Riassorbimento tubulare: è in genere un processo attivo pr i composti endogeni, ma risulta passivo se
parliamo di farmaci. Esso avviene a livello sia del tubulo prossimale che distale e sfrutta il
riassorbimento dell’acqua: quando l’acqua viene assorbita, infatti, si osserva un aumento della
[farmaco] nella preurina, con conseguente fuoriuscita di farmaco. Il pH svolge un’importante ruolo
nella ionizzazione del farmaco, modificando la facilità con cui il farmaco passa o meno. Come
abbiamo visto, nelle intossicazioni posso sfruttare la dipendenza dal pH per bloccare il riassorbimento
e mantenere il farmaco ionizzato nella preurina (ad esempio, nella intossicazione da salicilato, tramite
un’infusione tampone si alcalinizza la preurina fino a pH = 8, con un aumento dell’escrezione fino a
6 volte. Se viene a ridursi o mancare il riassorbimento, l’emivita del farmaco si riduce.
Quando parliamo di eliminazione intendiamo processi passivi; l’escrezione, invece, è composta da processi
attivi. I processi sono differenti in quanto:
- L’escrezione, o secrezione attiva, presenta una cinetica di ordine 0, in quanto sfrutta trasportatori che
sono saturabili: la velocità di eliminazione, quindi, non dipende dalla dose, ma dal numero di
trasportatori presenti nell’organismo
- L’eliminazione, che coincide con la filtrazione glomerulare, invece, segue una cinetica di ordine
primo, dipendendo dalla dose: maggiore è la concentrazione nel plasma, maggiore è la quantità di
farmaco eliminato nell’unità di tempo.
Sommando i due processi, ottengo l’eliminazione complessiva, o Ke. In generale, i farmaci lipofilici tendono
ad essere escreti a concentrazioni simili a quelle del plasma: la loro concentrazione dipende per lo più dal
volume urinario. I farmaci polari, invece, tendono ad essere escreti con concentrazioni superiori rispetto al
plasma: la loro escrezione dipende più dal volume del filtrato glomerulare (velocità di flusso nell’unità di
tempo) piuttosto che dal volume delle urine. Molecole coniugate si comportano in maniera simile alle polari,
anche se possono essere soggette a meccanismi di secrezione attiva. Infine, i farmaci che si ionizzano
facilmente sono dipendenti dal pH p per l’escrezione.
Escrezione biliare
Un’altra via piuttosto importante è rappresentata dall’escrezione biliari: i farmaci possono essere accumulati
dal fegato e immessi all’interno della bile come immodificati o come metaboliti; l’eliminazione finale avviene
attraverso le feci. Una parte dei farmaci o dei loro metaboliti che si ritrovano nel lume intestinale, tuttavia,
possono essere riassorbiti e riportati al fegato: si parla di circolazione entero-epatica, con cui il farmaco
raggiunge il fegato, dal quale può essere ri-immesso nella bile oppure ritornare nella circolazione sanguigna.
Questo fenomeno (che riguarda diverse categorie di farmaci, come antibiotici – ampicillina, rifampicina –,
purganti - fenolftaleina –, estrogeni, vitamine, composti iodati) ha alcune importanti conseguenze:
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- Aumenta la vita media del farmaco nel plasma
- Prolunga l’effetto farmacologico
- Determina un’elevata concentrazione a livello biliare (utile, soprattutto, per antibiotici contro infezioni
biliari)
Alla fine, tuttavia, il farmaco verrà comunque eliminato in toto. La circolazione entero-epatica è una costante
farmacocinetica dei farmaci, che, tuttavia, può subire variazioni in caso di alcune malattie. Normalmente, un
farmaco caratterizzato da questo fenomeno, se somministrato a bolo, presenta la tipica cinetica, con una
determinata Cmax e una progressiva diminuzione della concentrazione plasmatica.
Tuttavia, in un paziente con patologie a carico dell’intestino, questa curva viene a modificarsi:
- Paziente con dissenteria: nel momento in cui il farmaco viene immesso nel lume intestinale per la
circolazione entero-epatica, poiché il transito per l’intestino è estremamente veloce (per la dissenteria)
il farmaco non riesce a essere riassorbito, ma al contrario viene subito espulso. Otterremo quindi una
curva più ripida, pur partendo da una Cmax identica alla precedente
- Paziente con morbo di Crohn: in questi pazienti, l’assorbimento intestinale è compromesso e quindi
ridotto; esattamente come nel caso della dissenteria, otterrò un grafico più ripido.
- Se somministro il farmaco a livello orale, otterrò invece la solita curva della cinetica orale, in quanto
il farmaco non viene immesso direttamente nel circolo sanguigno, ma deve prima essere assorbito.
In pazienti patologici, quindi, bisognerà anche tenere conto della patologia quando somministriamo farmaci,
scegliendo, nel caso di patologie enterali, farmaci non caratterizzati da circolazione entero-epatica.
CLEARANCE
La clearance è il parametro che permette di capire la capacità dell’organismo di depurarsi da un farmaco
nell’unità di tempo: essa rappresenta pertanto il volume di plasma depurato. Può quindi essere espressa come:
𝑪𝒍 = 𝑲𝒆𝒍 × 𝑽𝒅
Nel momento in cui si instaura lo steady state, sappiamo che la clearance è data dal rapporto tra la velocità di
somministrazione (che equivale, poiché siamo allo steady state, a quella di eliminazione) e la concentrazione
del farmaco allo SS:
𝑪𝒍 =𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 (= 𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆)
𝑪𝒐𝒏𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒐 𝑺𝑺
La cui unità di misura è:
𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑔𝑟/𝑜𝑟𝑎/𝑘𝑔 𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑔𝑟/𝐿
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𝐶𝑙 = 𝐿/ℎ /𝑘𝑔
Anche la clearance è una costante farmacocinetica, specifica per ogni farmaco; ciò significa che in pazienti
con peso diverso, la Cl è la stessa (se intendiamo quella misurata in litri per unità di peso); essa cambierà se
invece la riportiamo al peso del paziente (𝐶𝑙×𝑝𝑒𝑠𝑜). La clearance, tra l’altro, può essere definita rispetto ai
diversi compartimenti del corpo: avremo, quindi, una Cl renale, una Cl, epatica e così via. La clearance è dotata
di un carattere additivo, per cui la clearance totale dell’organismo sarà la risultante della sommatoria di tutte
le singole clearance.
𝑪𝒍𝒓𝒆𝒏𝒆 + 𝑪𝒍𝒇𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐 + 𝑪𝒍𝒂𝒍𝒕𝒓𝒊 𝒐𝒓𝒈𝒂𝒏𝒊 = 𝑪𝒍𝒔𝒊𝒔𝒕𝒆𝒎𝒊𝒄𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒍𝒆𝒔𝒔𝒊𝒗𝒂
Inoltre, la clearance totale dell’organismo può essere calcolata tramite la formula:
𝑪𝒍 =𝑭 × 𝑫
𝑨𝑼𝑪
Dove F rappresenta la biodisponibilità, D la dose e AUC è l’area sotto la curva.
Per quanto riguarda, invece, la clearance renale, essa può essere calcolata come
𝑪𝒍𝒓𝒆𝒏𝒂𝒍𝒆 =𝑼×𝑽
𝑷
Dove U rappresenta la concentrazione del farmaco nell’urina, V il volume urinario in un minuto e P la
concentrazione plasmatica del farmaco. Il prodotto UxV rappresenta la velocità di eliminazione (quindi
torniamo alla formula iniziale). Il confronto tra la Cl e il volume di plasma ultrafiltrato permette di capire cosa
succede a una sostanza a livello renale:
- Se 𝐶𝑙 = 0, significa che la sostanza viene completamente riassorbita (es. glucosio)
- Se 𝐶𝑙 = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑢𝑙𝑡𝑟𝑎𝑓𝑖𝑙𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜, la sostanza non è legata alle proteine plasmatiche, non
va incontro né a riassorbimento né a secrezione
- Se 𝐶𝑙 < 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑢𝑙𝑡𝑟𝑎𝑓𝑖𝑙𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜, la sostanza viene in parte riassorbita
- Se 𝐶𝑙 > 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑢𝑙𝑡𝑟𝑎𝑓𝑖𝑙𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜, la sostanza viene in parte secreta
- Se 𝐶𝑙 = 𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑟𝑒𝑛𝑎𝑙𝑒, tutto il plasma che attraversa i capillari, sia glomerulari che
tubulari, viene depurato, sia per filtrazione glomerulare che per secrezione
Dalla clearance dipende quindi quanto velocemente il farmaco viene eliminato dal nostro organismo; tuttavia,
importante è conoscere anche la distribuzione di questo farmaco: tanto più il farmaco si trova nei tessuti (e
quindi distribuito) e tanto meno arriverà a fegato e reni (e quindi eliminato). Mettendo in rapporto la clearance
con il volume di distribuzione otteniamo un altro parametro farmacocinetico importante, che è l’emivita.
- Se un farmaco è ben distribuito ma facilmente eliminato → emivita bassa: non appena il farmaco, dai
tessuti, torna nel plasma, viene immediatamente eliminato
- Se un farmaco è poco distribuito e difficilmente eliminato → emivita alta: pur trovandosi nel plasma,
viene eliminato lentamente dagli organi emuntori
In generale, più è efficiente la distribuzione, meno il farmaco sarà eliminato. A ciò va però anche aggiunta
l’efficienza degli emuntori: infatti, se rene e fegato eliminano molto facilmente il farmaco dal plasma, la 𝐶𝑝,
che si abbassa, determina un richiamo del farmaco dal tessuto, che potrà quindi essere ulteriormente eliminato.
La concentrazione plasmatica di un farmaco, quindi, cambia continuamente perché:
- In parte il farmaco viene eliminato → 𝐶𝑝 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑑𝑢𝑐𝑒
- In parte viene restituito dai tessuti nei quali si era distribuito → 𝐶𝑝 𝑎𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎
Sebbene la clearance sia un parametro costante, essa può modificarsi in condizioni fisiopatologiche:
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- Nell’anziano, osserviamo una riduzione della clearance, in quanto la funzionalità renale si riduce
fisiologicamente: avremo, di conseguenza, un’aumentata emivita dei farmaci
- In gravidanza, per la presenza della placenta (che ha funzione di biotrasformazione) e per il feto (che
ha organi emuntori, sebbene non completamente funzionali), la clearance aumenta → il problema è
rappresentato dai metaboliti dei farmaci che possono avere un effetto teratogeno
- Nel soggetto obeso, poiché aumenta il volume di distribuzione (e un volume più grande è più difficile
da depurare), l’emivita aumenta
- Nel soggetto nefropatico, la clearance aumenta perché il nefrone perde la sua struttura originaria,
lasciando passare un quantitativo maggiore di sostanze
- In presenza di una glomerulonefrite, la clearance risulta aumentata, in quanto i vasi renali diventano
più permeabili e quindi si ha una eliminazione maggiore del farmaco
- Nello shock cardiogeno (quindi dovuto a una depressione della funzione cardiaca), la clearance renale
è al minimo in quanto il flusso renale è scarsissimo → in questi pazienti, quindi, occorrerà ripristinare
il flusso renale o somministrare farmaci che non vengono eliminati dal rene
Non solo la clearance varia in presenza di queste situazioni, ma varia con l’età del soggetto:
- Nel prematuro, poiché il fegato e i reni sono immaturi, la clearance sarà compromessa → per questo i
prematuri hanno farmaci personalizzati
- Il prematuro alla 41a settimana può essere considerato al pari di un nato a termine, tuttavia osserviamo
ancora una certa immaturità metabolica e una ancora ridotta funzionalità renale
- Intorno ai 6-7 mesi, il rene è maturo, quindi il bambino è paragonabile, dal punto di vista della
funzionalità renale, a un adulto
- Con la pubertà, si raggiunge invece la maturità epatica → solo intorno ai 18 anni, l’individuo è
completamente assimilabile agli adulti per i calcoli farmacocinetici
- Con l’aumentare dell’età, inoltre, osserviamo una progressiva riduzione della clearance perché viene
a ridursi la velocità di filtrazione glomerulare
Poiché soggetti prematuri e anziani hanno una funzionalità epatica e renale differente da quella di un adulto,
come facciamo una terapia farmacologica?
- Possiamo scegliere farmaci con una finestra terapeutica ampia
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- Teniamo costantemente sotto controllo la 𝐶𝑝 del farmaco: al primo mese, eseguiamo diversi prelievi
di sangue, dai quali valutiamo la 𝐶𝑝; se essa si mantiene costante, significa che la dose somministrata
è corretta per la terapia. Nel caso di farmaci con finestra terapeutica limitata (es. Coumadin), occorre
controllare ogni mese la 𝐶𝑝, in maniera da tenere sotto controllo costantemente il farmaco e modificare
eventualmente il dosaggio e il regime terapeutico.
Poiché per eliminazione si intende anche la biotrasformazione, importante è anche la valutazione della
clearance presistemica, che indica l’efficienza della via di somministrazione, ovvero quanto il farmaco viene
modificato (e quindi eliminato) prima di essere messo in circolo. La clearance presistemica è presente in tutte
le vie di somministrazione (iniettive e non) che non sono intravascolari ma è particolarmente importante per
la somministrazione orale: esistono, infatti, farmaci che se somministrati per via orale (es. insulina) hanno una
biodisponibilità pari a zero, in quanto stomaco, intestino e fegato, esercitano una notevole attività metabolica,
impedendo l’arrivo del farmaco a livello del recettore.
EMIVITA
Nel caso di una cinetica di primo ordine, abbiamo visto che il grafico logaritmico è rappresentato da una retta.
In questo caso, è facile ricavare l’intervallo di tempo che separa due punti in cui il valore di concentrazione è
uno la metà del primo: questo intervallo è sempre lo stesso (indipendente quindi dal valore di concentrazione
iniziale e dalla dose) e viene definito emivita (t½). L’emivita, quindi, è definita come il tempo richiesto per
ridurre la concentrazione plasmatica del farmaco del 50%, in un qualsiasi momento.
Se consideriamo un modello a singolo compartimento, la concentrazione plasmatica di un farmaco nel tempo
dipende dal suo volume di distribuzione e dalla sua clearance. Sappiamo che:
𝑉𝑑 =𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑜 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑎 (𝑑𝑜𝑠𝑒)
𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝐶𝑙 =
𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎
Se consideriamo una somministrazione a bolo, con la sua tipica curva, sappiamo che la concentrazione
plasmatica del farmaco diminuisce secondo un’equazione logaritmica:
𝐶 = 𝐶0 × 𝑒−𝑘𝑒𝑙𝑡
In cui C rappresenta la concentrazione del farmaco in qualsiasi punto della curva, C0 la concentrazione iniziale,
Kel la costante di eliminazione e t il tempo. Poiché, per definizione, l’emivita è il tempo necessario affinché la
concentrazione del farmaco si dimezzi, sappiamo che al tempo 𝑡 = 𝑡12⁄ , la concentrazione sarà 𝐶 =
𝐶0
2 e quindi
𝐶
𝐶0=
1
2. Di conseguenza, otteniamo che:
1
2= 𝑒
−𝑘𝑒𝑙𝑡12⁄
Che, trasformata in logaritmo naturale, diventa:
ln(1) − ln(2) = −𝑘𝑒𝑙𝑡12⁄ → ln(2) = 𝑘𝑒𝑙𝑡1
2⁄ → 𝑡12⁄ =
ln(2)
𝑘𝑒𝑙=
0,693
𝑘𝑒𝑙
Ricordando il rapporto tra Kel, Cl e Vd (vedi pag. 47), otteniamo che:
𝒕𝟏𝟐⁄ = 𝟎, 𝟔𝟗𝟑 ×
𝑽𝒅
𝑪𝒍
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CINETICHE DI ELIMINAZIONE
Esattamente come per l’assorbimento, anche per l’eliminazione è possibile avere due tipi diversi di cinetiche
di eliminazione:
- Cinetica di ordine 0
Un farmaco con una eliminazione di ordine zero (es. etanolo, penicillina) è un farmaco la cui cinetica di
eliminazione non è costante: essa non dipende dalla dose, ma solo dall’efficienza delle vie di eliminazione e
quindi dal numero di trasportatori/pompe che eliminano il farmaco. Questo significa che l’emivita, a sua volta,
non è costante e, anzi, diventa esponenzialmente più piccola: a grandi concentrazioni l’eliminazione è costante
e proporzionale al numero dei sistemi di eliminazione mentre quando 𝐶𝑝 < 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, la
curva scende molto più velocemente.
Con un farmaco di ordine 0, in realtà, non ci interessa l’emivita, ma piuttosto le singole concentrazioni
plasmatiche: poiché l’ordine 0 presenta una curva concentrazione-tempo rappresentata da una retta in un
grafico lineare, ci basteranno due dosaggi per disegnarla, ottenendo così immediatamente le intersezioni con
gli assi (Cmax e il tempo richiesto per la totale eliminazione del farmaco).
Come calcoliamo la frequenza di somministrazione per farmaci con cinetica di ordine 0? Nella cinetica 0,
sappiamo che il grafico lineare è rappresentato da una retta: di conseguenza, sapendo il range della finestra
terapeutica, siamo certi quando la concentrazione plasmatica scenda al di sotto, potendo quindi somministrare
la dose mancante per rientrare in finestra.
- Cinetica di ordine I
Nella cinetica di ordine I, invece, sappiamo che la velocità di eliminazione e quindi l’emivita sono costanti:
sappiamo che passate cinque emivite 𝐶𝑝 = 0. Il grafico lineare è rappresentato da una curva esponenziale, in
cui, all’inizio, 𝐶𝑝 sarà elevata e diminuirà velocemente, mentre con il progredire del tempo, si ridurrà sempre
più lentamente. Indipendentemente dalla dose (che influenza solo Cmax), sappiamo che dopo cinque emivite
𝐶𝑝 sarà a zero.
Se l’eliminazione, quindi, avviene secondo cinetiche di ordine I (vie non saturabili), la velocità di eliminazione
è proporzionale alla concentrazione plasmatica:
𝑽𝒆𝒍 =𝑽𝒎𝒂𝒙 × 𝑪𝒑
𝒌𝒆𝒍 + 𝑪𝒑
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Dove
- 𝑉𝑚𝑎𝑥 è la velocità massima di eliminazione
- 𝐶𝑝 è la concnetrazione plasmatica
- 𝐾𝑒𝑙 è la costante di eliminazione.
Da questa equazione, spostando Cp dal numeratore al denominatore del primo membro, otteniamo:
𝑉𝑒𝑙
𝐶𝑝=
𝑉𝑚𝑎𝑥
𝑘𝑒𝑙 + 𝐶𝑝 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖
𝑉𝑒𝑙
𝐶𝑝= 𝑐𝑙𝑒𝑎𝑟𝑎𝑛𝑐𝑒
Quando la velocità di eliminazione è pari al 50% di quella massima, otteniamo che la costante di eliminazione
equivale alla concentrazione plasmatica del farmaco. Infatti:
𝑉𝑒𝑙 =𝑉𝑚𝑎𝑥
2 →
𝑉𝑚𝑎𝑥
2=
𝑉𝑚𝑎𝑥 × 𝐶𝑝
𝑘𝑒𝑙 + 𝐶𝑝 → 𝑘𝑒𝑙 + 𝐶𝑝 = 2𝐶𝑝 → 𝑘𝑒𝑙 = 𝐶𝑝
Se nella cinetica di ordine 0 bastano due dosaggi per il disegno della curva e l’ottenimento dei principali
parametri, nella cinetica di ordine I ne servono almeno tre per il disegno della curva. Ottenuta la curva,
possiamo trasformarla in un grafico semilogaritmico (quindi una retta) la cui pendenza mi rappresenta 𝐾𝑒𝑙, l’intersezione con l’asse delle y mi dà la concentrazione teroica iniziale e l’intersezione con l’asse delle x il
tempo a cui 𝐶𝑝 = 0 (che, in realtà, non mi interessa, in quanto sappiamo che dopo cinque emivite il farmaco
è scomparso dal plasma).
Come calcoliamo la frequenza delle somministrazioni per farmaci con cinetica di ordine I? È più complicato,
in quanto il grafico non è una retta, ma una curva. Occorre calcolare la frazione residua ricorrendo alle formule
espresse a pagina 37.
PROGETTAZIONE E OTTIMIZZAZIONE DEI REGIMI POSOLOGICI
Un regime posologico razionale si basa sull’assunto dell’esistenza di una concentrazione-bersaglio (TC, target-
concentration) a livello della sede di azione capace di produrre il desiderato effetto terapeutico. Per raggiungere
questa dose bersaglio, occorre tenere conto di tutti i fattori farmacocinetici fino ad ora analizzati, scegliendo
quindi la migliore via di somministrazione, adeguando la dose al paziente e in relazione alla concentrazione
efficace del farmaco.
[Alcuni farmaci hanno, tra l’altro, farmacocinetiche particolari. Prendiamo, ad esempio, due farmaci
antiepilettici: uno immaginario, con una cinetica lineare, e la fenitoina, che invece è caratterizzata da una
cinetica saturante.
Nel grafico lineare, osserviamo il raggiungimento dello stato stazionario, indipendentemente dalla dose
somministrata (sebbene la dose più alta e la dose più bassa siano rispettivamente tossica e inefficace). Nel
grafico della cinetica di saturazione, invece, osserviamo come
- Nessuno stato stazionario viene raggiunto con le dosi più alte
- Un piccolo incremento della dose determina, dopo un certo tempo, un effetto sproporzionatamente
grande sulla concentrazione plasmatica. Più aumentiamo la dose e più la cinetica diventa non lineare,
variando nel tempo.
Questi farmaci, tuttavia, sono ormai poco e tendono a essere sostituiti da altri farmaci, in quanto i benefici
diventano progressivamente inferiori ai rischi.]
Nella maggior parte delle situazioni cliniche, i farmaci vengono somministrati in modo tale da mantenere uno
stato stazionario di farmaco nell’organismo, basato su oscillazioni nella concentrazione plasmatica che devono
mantenersi all’interno della finestra terapeutica: occorre tenere quindi sotto controllo non tanto la 𝐶𝑠𝑠̅̅ ̅̅ ̅, quanto
piuttosto 𝐶𝑠𝑠 𝑚𝑎𝑥 (la concentrazione massima durante un intervallo di dose all’equilibrio), che deve rimanere
al di sotto del limite superiore della finestra terapeutica, e la 𝐶𝑠𝑠 𝑚𝑖𝑛 (la concentrazione minima durante un
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intervallo di dose all’equilibrio), che deve rimanere al di sopra del limite inferiore della finestra terapeutica. In
caso di somministrazioni ripetute, tenendo presente la finestra terapeutica (e quindi 𝐶𝑠𝑠 max 𝑒 𝐶𝑠𝑠 𝑚𝑖𝑛,
ottenibili tramite dati statistici), per ottenere una terapia efficace possiamo:
- Individuare la dose utile per quello specifico paziente, basandomi su peso, sesso, età, etc
- Individuare un punto medio all’interno della finestra terapeutica, in cui ho il 50% di successo della
terapia per quel paziente, mantenendomi lontano dal limite massimo di tossicità
In genere, lo steady state viene raggiunto somministrando, a intervalli regolari, un quantitativo di farmaco pari
al farmaco eliminato dal momento dell’ultima somministrazione. Di conseguenza, importante è il calcolo della
dose di mantenimento. Nel caso di una somministrazione lenta, sappiamo che, allo SS, la velocità di
somministrazione del farmaco deve essere uguale alla velocità di eliminazione; poiché sappiamo che la
clearance è data dal rapporto tra velocità di eliminazione e concentrazione plasmatica, possiamo ricavare la
velocità di eliminazione, che sarà uguale a:
𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 = 𝑪𝒍 × 𝑻𝑪 = 𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆
In questo modo, se la TC è nota (è la concentrazione che ci serve per avere effetto terapeutico), sarà la clearance
a determinare la velocità di somministrazione. Nel caso di una somministrazione non endovenosa, la cui
biodisponibilità è inferiore al 100%, la formula deve essere aggiustata con F:
𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 =𝑪𝒍 × 𝑻𝑪
𝑭
Nel caso, infine, di somministrazioni ripetute, la dose di mantenimento sarà calcolabile come:
𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒕𝒆𝒏𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 =𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒊𝒕à 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 × 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒔𝒊
𝒃𝒊𝒐𝒅𝒊𝒔𝒑𝒐𝒏𝒊𝒃𝒊𝒍𝒊𝒕à
Esempio pratico
Per alleviare i sintomi di un’asma bronchiale acuta serve una TC di teofillina di 10 mg/L. Se il paziente non è
fumatore e non ha altre patologie, si può utilizzare la stima della clearance media pari a 2,8 L/ora/70 kg. Poiché
il farmaco viene somministrato ev, F=1. Calcoliamo la velocità di somministrazione:
𝑉. 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝐶𝑙 × 𝑇𝐶 =2,8
𝐿𝑜𝑟𝑎
70𝑘𝑔 ×10
𝑚𝑔
𝐿=
28𝑚𝑔𝑜𝑟𝑎
70𝑘𝑔
Se la crisi asmatica regredisce, il medico deve mantenere quel livello plasmatico di farmaco con
somministrazione orale, che potrà essere somministrato ogni 12h con una forma a rilascio prolungato. Poiché,
Forale=0,96 e l’intervallo deciso è di 12h, ogni dose dovrà essere di:
𝐷. 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑉. 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒×𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜
𝐹=
28𝑚𝑔𝑜𝑟𝑎0,96
×12𝑜𝑟𝑒 = 350𝑚𝑔
Verrà quindi prescritta una compressa contenente una quantità di principio attivo vicino a quello della dose
ideale di 350mg.
Tuttavia, se l’emivita del farmaco è molto lunga, per arrivare allo SS occorrerebbero troppi giorni, cosa che
rappresenta un problema nelle emergenze. Per risolverlo, si possono adottare due metodi:
- Dose di attacco (somministrazione bolo contemporanea all’infusione lenta – vedi pag. 43): unico
problema con questo metodo è che, se la dose iv è sbagliata, rischio di raggiungere e superare
facilmente la dose massima tollerabile e quindi causare un danno al paziente.
- Dose di carico: viene definita dose di carico una dose che permette di far salire rapidamente la
concentrazione plasmatica di un farmaco alla concentrazione-bersaglio. Poiché sappiamo che il
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volume di distribuzione è il fattore che lega la quantità totale di farmaco nell’organismo con la sua
concentrazione plasmatica (vedi pag. 38), possiamo definire la dose di carico come:
𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒐= 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂𝒕𝒊𝒗𝒐 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐 𝒑𝒓𝒆𝒔𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍′𝒐𝒓𝒈𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎𝒐 𝒊𝒎𝒎𝒆𝒅𝒊𝒂𝒕𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒐𝒑𝒐 𝒍𝒂 𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒐
= 𝑽𝒅 × 𝑻𝑪
Alla dose di carico seguono quindi le dosi di mantenimento. Se il farmaco viene somministrato in dosi ripetute,
la dose di carico calcolata precedentemente raggiungerà la concentrazione media dello SS ma non la
concentrazione picco. Perché ciò avvenga, la dose di carico deve essere calcolata come:
𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒐 = 𝒅𝒐𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒕𝒆𝒏𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 × 𝒇𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒂𝒄𝒄𝒖𝒎𝒖𝒍𝒐
Quando le somministrazioni di un farmaco sono ripetute e l’intervallo tra le somministrazioni è inferiore alle
cinque emivite, il farmaco tenderà ad accumularsi nell’organismo. Il fattore di accumulo tiene conto di quale
potrebbe diventare la concentrazione plasmatica quando non si tiene conto dell’emivita e permette di scegliere
una dose tale da ottenere una determinata concentrazione plasmatica. Il fattore di accumulo, in pratica, ci
permette di sapere quanto farmaco dobbiamo dare al paziente per rimpiazzare la quantità di farmaco persa e
produrre una concentrazione plasmatica all’interno della finestra terapeutica. In particolare:
𝒇𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒂𝒄𝒄𝒖𝒎𝒖𝒍𝒐 = 𝟏
𝒇𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐 𝒆𝒍𝒊𝒎𝒊𝒏𝒂𝒕𝒂 𝒊𝒏 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒔𝒊=
=𝟏
𝟏 − 𝒇𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒓𝒆𝒔𝒊𝒅𝒖𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝒇𝒂𝒓𝒎𝒂𝒄𝒐
Se la frequenza di somministrazione è pari all’emivita, sappiamo che dopo la prima somministrazione (terzo
grafico):
𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1
1 − 0,5= 2
Ad ogni somministrazione, la concentrazione plasmatica sarà doppia
rispetto a quella che si otterrebbe con una dose singola. Da ciò deriva
che:
𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 (𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)
2
Ciò significa che, dopo cinque emivite, otterrò una concentrazione
plasmatica pari al doppio della concentrazione ottenuta con la prima
dose.
Se somministriamo ogni due emivite, invece:
𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1
1 − 0,25= 1,33
Se si somministra ogni due emivite, la dose di mantenimento dovrà
essere maggiore, in quanto il fattore di accumulo è minore:
𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 (𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)
1,33
Dopo cinque emivite, la concentrazione finale sarà 1,33 volte
maggiore della dose iniziale.
Se somministriamo ogni tre emivite:
𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1
1 − 0,125= 1.14
La dose di mantenimento è ancora maggiore
𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 =𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜 (𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)
1.14
Dopo quattro emivite, il 94% del farmaco è stato eliminato, quindi:
𝑓. 𝑑𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 =1
1 − 0,06≈ 1
Non si verifica accumulo e
𝑑𝑜𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑏𝑒𝑟𝑠𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜
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Dopo cinque emivite, la concentrazione plasmatica è pari a zero; la nuova somministrazione mi determina il
raggiungimento della stessa concentrazione determinata dalla dose iniziale e ottengo un grafico a dente di sega
(primo e secondo grafico).
Esempio pratico
Al tempo t=0 somministriamo una dose 100 di farmaco, con una emivita di 3h. Ad ogni emivita,
somministriamo una nuova dose, pari anch’essa a 100.
Tempo Cp iniziale Cp totale (in seguito alle
somministrazioni ripetute)
0 h 100
3 h 50 + 100 = 150
6 h 75 + 100 = 175
9 h 87,5 + 100 = 187,5
12 h 93,75 + 100 = 193,75
15 h 96,875 + 100 = 196,87
Dopo cinque emivite, raggiungo una concentrazione totale che è pari al doppio della dose iniziale
somministrata.
Il fattore di accumulo si rivela anche utile per sapere, dopo n dosi, la concentrazione massima ottenibile dopo
n somministrazioni e la minima ottenuta prima di somministrare la dose successiva. Infatti:
𝑪𝐦𝐚𝐱 𝒏 = 𝑪𝐦𝐚𝐱 𝟏×(𝟏 − 𝒆−𝒏𝑲𝝉)
(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉) 𝑪𝐦𝐢𝐧 𝒏 = 𝑪𝐦𝐚𝐱 𝟏×
(𝟏 − 𝒆−𝒏𝑲𝝉)
(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉)× 𝒆−𝑲𝝉
Fattore di accumulo
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Dove:
- 𝐶max 𝑛 rappresenta la concentrazione massima ottenibile dopo la somministrazione
- 𝐶min 𝑛 rappresenta la concentrazione minima ottenuta appena prima della somministrazione
successiva (detta 𝐶𝑡𝑟𝑜𝑢𝑔ℎ)
- 𝐶max 1 rappresenta la concentrazione dopo la prima somministrazione (calcolabile con la formula 𝑋0
𝑉𝑑)
- 𝑛 è il numero di dosi
- 𝐾 è la costante di eliminazione
- 𝜏 è l’intervallo tra le dosi
Abbiamo visto come solo nella somministrazione endovenosa lenta, la concentrazione plasmatica si mantenga,
dopo cinque emivite, fissa su un valore; nelle altre somministrazioni, come la via orale, la concentrazione
plasmatica, instauratosi lo stato stazionario, continua ad oscillare tra un valore massimo (Cpeak) e un valore
minimo (Ctrough). Qualora il numero di somministrazioni superi 4-5 emivite, possiamo semplificare la
formula precedente per Cmax di picco allo stato stazionario nella formula:
𝑪𝐩𝐞𝐚𝐤 𝑺𝑺 = 𝑿𝟎
𝑽𝒅×
𝟏
(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉)
Allo stesso modo, Ctrough, che è il limite minimo al di sotto del quale non dobbiamo andare se vogliamo avere
l’effetto terapeutico, diventa:
𝑪𝒕𝒓𝒐𝒖𝒈𝒉 = 𝑿𝟎
𝑽𝒅×
𝟏
(𝟏 − 𝒆−𝑲𝝉)× 𝒆−𝑲𝝉
Ctrough è molto importante per tutta una serie di farmaci, come antibiotici e immunosoppressori.
Inoltre, se vogliamo sapere la concentrazione dopo un tempo t trascorso dal raggiungimento del picco:
𝑪(𝒕) = 𝑪𝐩𝐞𝐚𝐤 𝑺𝑺 × 𝒆−𝑲𝝉
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Nel grafico vengono confrontate diverse somministrazioni dello stesso farmaco (teofillina, la cui
concentrazione bersaglio è di 10 mg/L e ha una emivita di 8h):
- Linea nera: rappresenta l’infusione lenta in endovena; dopo cinque emivite viene raggiunto lo SS e la
concentrazione si mantiene fissa su uno stesso valore (10 mg/L) fino all’interruzione della
somministrazione.
- Linea arancione: somministrazione orale ogni 8h
- Linea blu: somministrazione orale ogni 24h
Le tre somministrazioni si differenziano per le oscillazioni, ma sono tutte caratterizzate dal raggiungimento di
una concentrazione media di 10 mg/L, che è quella utile per fare terapia. Se la finestra terapeutica è grande, la
grandezza dell’oscillazione non ci preoccupa, in quanto saremo comunque in finestra. Il problema si ha nelle
finestre terapeutiche limitate, in cui la concentrazione che oscilla può avvicinarsi al limite di tossicità: per
questi farmaci, la somministrazione endovenosa è preferita (per l’assenza delle oscillazioni).
ERRORI NEL PROTOCOLLO TERAPEUTICO: ASSUNZIONE IRREGOLARE
Cosa succede se il paziente dimentica di prendere una o due dosi di farmaco? La concentrazione plasmatica
media si riduce, uscendo dalla finestra terapeutica. Ed essa non si ristabilisce prendendo la dose singola ma
occorreranno dosi ripetute per ritornare allo stato stazionario.
Inoltre, se il paziente dimentica la dose giornaliera, è importante che non la raddoppi. Infatti, specie nei farmaci
con finestra terapeutica ristretta, una dose doppia rispetto alla normale potrebbe facilmente superare il limite
di tossicità e determinare un fenomeno di tossicità acuta nel paziente.
L’adesione al piano terapeutico è particolarmente importante per farmaci come gli antibiotici, o gli
immunosoppressori. Prendiamo il caso di una terapia antibiotica, in cui il paziente ha dimenticato, al 5 e 6
giorno, di prendere il farmaco.
Nel momento in cui ha saltato la dose, la concentrazione plasmatica del farmaco è diminuita al di sotto della
finestra terapeutica, perdendo quindi il suo effetto. Di conseguenza, la minore concentrazione del farmaco non
ha ucciso i batteri. Inoltre, nel momento in cui inizia a riprendere costantemente il farmaco, la concentrazione
plasmatica si mantiene al di sotto della finestra terapeutica per diversi giorni e i batteri sono esposti a dosi di
farmaco non sufficienti a ucciderli: possono determinare l’insorgenza di resistenza.
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NORMALIZZAZIONE DELLA DOSE SU ETÀ, PESO E SUPERFICIE
CORPOREA
Spesso, il dosaggio dei farmaci viene effettuato in base all’età e al peso corporeo, in maniera tale da considerare
le differenze tra i diversi parametri farmacocinetici dei diversi individui. Tuttavia, spesso, tale operazione tende
a sottostimare la dose effettivamente necessaria. Per questo motivo, è più corretto eseguire i calcoli sulla base
della superficie corporea.
A questo proposito, esistono i normogrammi: tabelle che permettono, sapendo l’altezza e il peso del paziente,
di stimare in maniera abbastanza corretta la superficie corporea del soggetto, adeguando quindi meglio la dose
di farmaco. Oltre a questo, ovviamente, bisogna tener conto della composizione corporea dell’individuo, che
cambia sia da bambino ad adulto, ma anche da persona in forma a persona sovrappeso.
REGIMI TERAPEUTICI PARTICOLARI
Fino ad ora, abbiamo trattato tutti i farmaci allo stesso modo: indipendentemente dal farmaco, l’obiettivo era
ottenere, con le somministrazioni ripetuto, una determinata concentrazione allo stato stazionario. A questo
ragionamento, tuttavia, sfuggono alcuni farmaci, tra cui anche gli antibiotici.
Ogni antibiotico richiede l’utilizzo e l’adesione ad uno specifico piano terapeutico, che permette di ottenere il
giusto effetto terapeutico e previene l’insorgenza delle resistenze. Esistono tre categorie differenti di
antibiotici:
- Tipo 1: sono antibiotici concentrazione-dipendenti e con effetti persistenti prolungati: in questo
tipo di terapia, l’obiettivo è ottenere una Cmax elevata, di molte volte superiore la MIC (minima
concentrazione inibitoria). Questa elevata concentrazione può essere tenuta per brevi periodi, in quanto
sono presenti effetti persistenti e prolungati. Con questi antibiotici, non serve uno stato stazionario.
- Tipo 2: sono antibiotici tempo-dipendenti, con effetti persistenti minimi. In questo caso, occorre
ottenere lo stato stazionario e la Css deve sempre mantenersi al di sopra della MIC, in quanto manca
l’effetto persistente del tipo I (“effetto memoria”).
- Tipo 3: sono antibiotici tempo-dipendenti, i cui effetti persistenti possono andare da moderati a
prolungati: in questo caso, occorre una concentrazione plasmatica elevata e di molto superiore alla
MIC; il tempo per cui teniamo attiva la terapia deve essere prolungato. In genere, essa dura dai 5 ai 6
giorni, dopo i quali la terapia viene sospesa per 4 giorni per poi essere ripresa (è presente l’effetto
memoria).
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Anche nel caso dei FANS possono essere adottati regimi terapeutici differenti:
- Se dobbiamo trattare un dolore acuto, somministreremo i FANS a stomaco pieno che permette un
rapido assorbimento e un rapido effetto
- Se dobbiamo trattare un dolore cronico, somministreremo i farmaci a stomaco vuoto, per rallentare
l’assorbimento.
Altri farmaci particolari sono rappresentati dagli anestetici, che appartengono al gruppo di farmaci definito
emivita contesto dipendente (ovvero, l’emivita può essere stimata solo se si conosce il contesto, la dose totale
e l’arco di tempo nel quale essa è stata somministrata). L’emivita dei farmaci appartenenti a questo gruppo
dipende dalla durata della terapia:
maggiore è il tempo e maggiore
diventa l’emivita. Ciò è dovuto al fatto
che questi farmaci si accumulano in
alcuni siti anatomici: più la terapia è
lunga, maggiore è l’accumulo; di
conseguenza, pur interrompendo la
terapia, l’effetto continua in quanto il
farmaco viene rilasciato dai siti di
accumulo. Questo è il motivo per cui,
più a lungo viene mantenuta
l’anestesia e maggiore è il rischio che
il paziente non si risvegli: il problema
viene risolto cominciando con
l’anestesia e mantenendole l’effetto
con farmaci differenti dall’anestetico.
CICLO DI ISTERESI E PROTERESI IN MANCANZA DI STEADY-STATE
Nella maggior parte dei farmaci, ad una specifica concentrazione plasmatica del farmaco corrisponde una
specifica intensità dell’effetto farmacologico e man mano che la concentrazione diminuisce, così diminuisce
anche l’effetto.
Esistono, tuttavia, alcuni casi particolari in cui l’effetto del farmaco risulta sfasato rispetto alla concentrazione
plasmatica:
- Cicli di isteresi: all’aumentare della concentrazione plasmatica non osserviamo un progressivo
aumento dell’effetto; anzi, l’effetto massimale lo si osserva quando la concentrazione inizia a
diminuire. Questo è dovuto a meccanismi fisico-chimici e recettoriali, come:
o Ritardo nell’equilibrazione tra il plasma e il sito recettoriale
o Presenta di metaboliti attivi: l’effetto comincia con il principio attivo somministrato, ma
continua e si amplifica con i metaboliti
o Up-regulation dei recettori
o Presenza di più compartimenti
- Cicli di proteresi: l’effetto massimale viene raggiunto prima di osservare la massima concentrazione
plasmatica. È dovuto a fenomeni di:
o Tolleranza: l’effetto si spegne nel tempo, con l’aumentare della concentrazione, perché
l’individuo diventa tollerante
o Tachilassi recettoriale: i recettori vanno progressivamente incontro a spegnimento
o Site-effect
Questi fenomeni, tuttavia, li vediamo solo in caso di somministrazioni singole: in caso di infusioni lente (o
somministrazione ripetute), sarà il medico a fissare la Css intorno al valore a cui si verifica l’effetto massimale.
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Occorre quindi tenerne conto nelle somministrazioni ripetute, specie quando abbiamo le oscillazioni attorno a
una css media.
METABOLISMO DEI FARMACI
L’escrezione renale svolge un ruolo primario nel porre termine all’attività biologica dei farmaci, in particolare
di quelli con un volume molecolare ridotto o dotati di gruppi polari. Spesso, tuttavia, i farmaci tendono a essere
fortemente lipofili, di dimensioni maggiori e apolari, caratteristiche che limitano la possibilità di essere
eliminati attraverso il rene.
Il metabolismo (o biotrasformazione) è il processo alternativo che può essere in grado di porre fine, o
modificare, l’attività biologica di una determinata molecola. Metabolismo significa anche eliminazione, in
quanto, grazie a specifici enzimi, il principio attivo viene modificato e, in quanto tale, è come se scomparisse
dal plasma. Esattamente come per la distribuzione e il legame al recettore, anche nel caso della
biotrasformazione solo la quota di farmaco libera può essere modificata dagli enzimi del metabolismo. La
biotrasformazione è un processo irreversibile, che porta alla formazione di un metabolita differente dal
principio attivo originale; essa avviene per una buona fetta di farmaci, ma non per tutti.
La costante farmacocinetica che misura il metabolismo è la clearance: le curve concentrazione-tempo viste
fino ad ora comprendevano già, nella discesa, il metabolismo, che, come l’escrezione renale, ha come scopo
la riduzione progressiva della concentrazione plasmatica del farmaco. In alcuni casi, questa costante pyò
variare:
- Processi di
o Induzione metabolica
o Inibizione metabolica
- Variazioni dovute a polimorfismi genetici
- Sesso
- Età
- Contaminanti ambientali
Una modifica alla clearance determina anche una modifica all’emivita plasmatica del farmaco.
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I processi di trasformazione metabolica possono avvenire in qualsiasi tessuto all’interno del quale il farmaco
può entrare: se sono presenti enzimi, allora può avvenire il metabolismo. Tessuti in cui può avvenire la
biotrasformazione, grazie ad enzimi microsomiali (responsabili di ossidazione e coniugazione) sono:
- Tratto gastrointestinale, soprattutto intestino tenue (dotato di citocromi che limitano e gestiscono il
traffico di sostanze dal lume al plasma)
- Parenchima polmonare
- Barriera emato-encefalica
- Barriera testicolare
- Barriera placentare
- Reni
- Cute
Tra tutti, però, il principale organo metabolizzante è rappresentato dal fegato, dotato di enzimi sia microsomiali
sia non-microsomiali (che si occupano di acetilazione, sulfazione, glucuronazione, reazioni redox, idrolisi,
deidrogenazione, etc.). Compito del fegato è selezionare, modificare, purificare e detossificare il nostro
organismo dagli xenobiotici.
Il fegato e il tratto gastrointestinale, in particolare, hanno un importante ruolo nel metabolizzare parte dei
farmaci assunti per via orale, limitandone di conseguenza la biodisponibilità: si parla di effetto di primo
passaggio intestinale (se la maggior parte della trasformazione avviene nell’intestino tenue) o epatico (se
avviene nel fegato). Effetto di primo passaggio, tuttavia, lo troviamo in una qualsiasi via di somministrazione
in cui sia presente la fase di assorbimento.
In generale, le reazioni che rientrano nel metabolismo vengono distinte in due grandi gruppi:
- Reazioni di fase I, o reazioni di funzionalizzazione: consistono in piccole modificazioni chimiche alla
molecola di farmaco, nella quale viene introdotta un gruppo funzionale idrofilo che cambia la natura
della molecola e di conseguenza la sua capacità di distribuirsi.
- Reazioni di fase II, o reazioni di coniugazione: consistono nella formazione di un legame chimico
irreversibile del farmaco con substrati endogeni che ne aumentano la polarità e la capacità di essere
eliminati del rene (o attraverso la bile, se troppo grossi)
Indipendentemente da quale reazione modifichi il principio attivo (che possono essere sottoposti a entrambi i
tipi di biotrasformazione, o a solo una di esse), la molecola finale risulta più idrofilica, quindi carica di H2O e
impossibilitata ad attraversare le barriere endogene: si ha in generale spegnimento dell’effetto farmacologico.
La maggior parte dei metaboliti che derivano dalla biotrasformazione sono inattivi, perché incapaci di
riconoscere il recettore del principio attivo; in alcuni casi, tuttavia:
- I metaboliti restano comunque attivi: essi quindi continuano a legare il recettore, esercitando lo stesso
effetto terapeutico del principio attivo, la cui farmacocinetica, però, si arresta; tipico esempio sono le
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benzodiazepine, che vengono convertite le une nelle altre, contribuendo in egual misura all’effetto
terapeutico (anche se il principio attivo, in sé, ha una emivita breve)
- I metaboliti sono più attivi del principio attivo (profarmaco), il quale ha scarsa attività terapeutica e
solo se trasformato può legare efficacemente il recettore. Molti farmaci in commercio sono profarmaci:
tipico esempio è l’acido acetilsalicilico, il quale viene somministrato come acido salicilico. Anche
molti antitumorali sono dei profarmaci.
I processi di biotrasformazione sono estremamente importanti in quanto:
- Possono condizionare la dose e la frequenza di somministrazione
- Possono condizionare la distribuzione
- Possono far variare la velocità di eliminazione
- Può rendere difficile la previsione del comportamento di nuovi farmaci da utilizzare in combinazione
Le alterazioni dei processi metabolici, quindi, possono risultare pericolose: per questo è importante sapere
quali farmaci prende e ha preso (fino a 3-4 mesi prima) il paziente, in quanto alcuni farmaci possono modificare
l’espressione degli enzimi coinvolti nel metabolismo.
REAZIONI DI FASE I E CITOCROMI
Il più importante sistema enzimatico ossidativo è rappresentato dalle mono-ossidasi a funzione mista, presenti
prevalentemente nei microsomi di fegato, rene, polmone e intestino. I citocromi CYP-450 NADPH dipendenti
sono i sistemi fondamentali usati nell’ossidazione dei farmaci: essi determinano idrossilazione delle molecole
tramite incorporazione diretta di ossigeno attivo.
Il sistema dei citocromi consiste in un gruppo di numerosi isoenzimi: sono proteine con funzione simile, ma
che vengono codificati da geni differenti. L’esistenza di enzimi differenti che svolgono la stessa funzione (e
che quindi possono lavorare sulle stesse molecole) è molto importante: se una molecola venisse modificata da
un solo enzima, una qualsiasi modifica all’enzima andrebbe a riflettersi sulla clearance della molecola stessa;
al contrario, la presenza di più isoenzimi assicura che la molecola venga metabolizzata.
I citocromi vengono distinti in:
- Famiglie: geni che presentano almeno un 40% di omologia di sequenza. Esistono almeno 74 famiglie
di CYPs differenti: nell’uomo, sono almeno 18.
- Sottofamiglie: appartengono alla stessa sottofamiglia citocromi con almeno il 55% di identità di
sequenza amminoacidica (almeno 42 nell’uomo)
- Geni individuali: almeno 57 nella specie umana.
Ogni citocromo viene indicato tramite una sigla: il primo numero indica la famiglia, la lettera indica la
sottofamiglia mentre il secondo numero indica il gene individuale.
I citocromi sono responsabili della maggior parte delle reazioni di fase I, quelle più semplici e rapide. Dal
punto di vista chimico, consistono in:
- Ossidazione
- Riduzione, idrolisi, idratazione
- Detioacetilazione e isomerizzazione
Pur avendo un elevato numero di CYPs, con diversi siti catalitici, il
90% dei farmaci viene catalizzato da solo 4-5 isoenzimi. Importanti
sono il CYP1A1/2, il CYP2C9, il CYP2D6 e il CYP3A4. In quanto
tale, se siamo in presenza di una poli-terapia, i farmaci verranno
metabolizzati tutti dagli stessi CYP e ci troviamo davanti un problema
di possibile interazione farmacocinetica, rischiando di modificare la
clearance (e quindi l’emivita) del farmaco stesso. Inoltre, alcuni
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farmaci (così come altre sostanze, tra cui componenti della dieta, contaminanti ambientali) possono modificare
l’espressione genica degli isoenzimi, tramite meccanismi di induzione e inibizione metabolica.
L’appartenenza di un farmaco a una specifica famiglia non ci dà un’idea del loro destino metabolico, in quanto
farmaci diversi della stessa famiglia vengono metabolizzati da CYPs diversi.
Tra l’altro, è possibile che da paziente a paziente sia presente una differenza dal punto di vista quantitativo:
sebbene il numero di famiglie CYP sia specie-specifico, è possibile che etnie differenti presentino un numero
di copie differente dello stesso citocromo. Questi polimorfismi possono essere responsabili di eventi di iper- o
ipo-sensibilità ai farmaci.
Poiché virtualmente tutti i tessuti sono in grado di
attività metabolica, ritroveremo CYPs diversi in
tessuti differenti.
Particolarmente importante è la placenta: poiché
è dotata di una importante attività metabolica,
essa può produrre una notevole quantità di
metaboliti che, in quanto tali, si concentrano a
livello fetale (hanno perso la capacità di
attraversare le barriere), esercitando effetti tossici
che magari non avevano nella madre. Per questo
motivo, in gravidanza, la terapia farmacologica
deve essere attentamente analizzata, proprio per
evitare farmaci i cui intermedi determinerebbero
malformazione o aborto fetale.
Oltre ai citocromi, altri importanti enzimi di fase I, che si occupano per lo più di reazioni di ossidoriduzione
sono:
- Alcool deidrogenasi (che può essere indotta dall’uso cronico di alcool)
- Aldeide deidrogenasi
- Xantine ossidasi (può essere un bersaglio farmacologico)
- Diamine ossidasi
- Monoammine ossidasi (può essere un bersaglio farmacologico: gli inibitori delle MAO sono
antidepressivi, in quanto allungano la vita della noradrenalina e della dopamina)
REAZIONI DI FASE II
Le reazioni di fase II possono avvenire indipendentemente dalla fase I oppure seguirla. Dal punto di vista
chimico, esse consistono in reazioni di coniugazione: alla molecola vengono aggiunti gruppi chimici grossi e
polari, tramite la formazione di legami chimici irreversibili, che aumentano l’idrosolubilità della molecola
facilitando ulteriormente l’escrezione attraverso il rene o il fegato. La molecola così modificata perde
completamente le caratteristiche farmacologiche e diventa inerte.
Tali reazioni consistono in:
- Glucuro-coniugazione
- Sulfatazione, metilazione, acetilazione
- Coniugazione con amminoacidi, glutatione o acidi grassi
La glucuro-coniugazione è sicuramente il meccanismo più usato nelle reazioni di fase II ed è anche quello
responsabile della circolazione entero-epatica di un gruppo molto ristretto di farmaci. Questo avviene perché
i batteri presenti nel lume intestinale e che compongono la flora batterica possono usare l’acido glucuronico
come fonte di energia, rompendo il legame tra il principio attivo e l’acido. Nel lume intestinale viene così a
ritrovarsi il principio attivo originale (se non è stato sottoposto a reazioni di fase I) che quindi potrà essere
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riassorbito: in parte, esso tornerà a svolgere il suo effetto farmacologico e, in parte, tornerà al fegato per essere
nuovamente glucuronato e quindi re-immesso nella bile. I farmaci con circolazione enteroepatica presentano
quindi una emivita più lunga, anche se la loro costante di eliminazione tiene già conto del fenomeno. Tuttavia,
si possono riscontrare problemi nel caso di patologie intestinali o epatiche, che possono interferire con la
normale farmacocinetica del farmaco (vedi pag. 47).
Come nelle reazioni di fase I avevamo i CYP che svolgevano la funzione più importante, anche per la fase II
troviamo che una classe enzimatica in particolare si occupa del maggior numero di reazioni: si tratta della
superfamiglia delle uridina-difosfato glucuronosil-transferasi (UGTs). Questi enzimi catalizzano l’aggiunta
dell’acido glucuronico alle molecole e si occupano del metabolismo di molte sostanze endogene (bilirubina,
ormoni steroidei e tiroidei, acidi biliari e vitamine liposolubili) e xenobiotici (farmaci, cancerogeni chimici,
inquinanti ambientali, componenti della dieta).
Oltre alle UGTs, troviamo anche:
- STs (sulfotransferasi): trasferiscono gruppi –SH, spegnendo il principio attivo
- GST (glutatione S transferasi)
- NAT (N-acetil transferasi acetilatori)
ONTOGENESI
Sia gli enzimi di fase I che di fase II non sono costanti per tutta la vita, ma si modificano con l’età: nel corso
dell’arco della vita, quindi, non abbiamo la stessa composizione enzimatica. Si parla di ontogenesi.
L’ontogenesi si verifica in quanto i diversi stadi della vita dell’essere umano hanno bisogni diversi: ad esempio,
il feto (o il prematuro lontano dal termine) non presentano il CYP3A4 (che metabolizza farmaci nella madre)
mentre esprime il CYP3A7 (che può produrre metaboliti tossici); ciò comporta che il feto ha un metabolismo
dei farmaci differente dalla madre ed è anche responsabile del fatto che alcuni farmaci sono tossici in
gravidanza.
È importante conoscere l’evoluzione nella composizione enzimatica in maniera tale da sapere quali farmaci
possiamo usare in specifici periodi non solo della gestazione ma anche della vita dell’individuo: grazie
all’ontogenesi, infatti, sappiamo che alcuni enzimi compaiono con la pubertà mentre altri scompaiono intorno
agli 80-90 anni. Sappiamo quindi quando un individuo è considerabile adulto dal punto di vista metabolico
(intorno ai 21 anni).
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INIBIZIONE METABOLICA
Un farmaco viene definito inibitore metabolico quando entra nel sito catalitico dell’enzima, bloccandone
l’attività. Questo determina una riduzione drastica della clearance (e un conseguente aumento dell’emivita)
per tutti gli altri farmaci che vengono metabolizzati da parte di quello specifico enzima. In altri casi, essa si
verifica per distruzione degli enzimi pre-esistenti o per inibizione della loro sintesi.
L’inibizione metabolica è un processo spesso determinato da farmaci ma non solo: qualunque sostanza capace
di bloccare l’enzima dopo essersi legato al sito attivo è considerabile un inibitore metabolico; rientrano in
questa categoria il succo di pompelmo, alcuni componenti di alcuni tipi di birra o profumo e componenti di
insetticidi e bevande. Questo è inoltre un processo molto rapido: interrompendo la somministrazione
dell’inibitore, il metabolismo riprende nel giro di poco tempo.
L’inibizione metabolica è pericolosa in acuto: con la somministrazione di un inibitore, il soggetto manifesta
velocemente effetti collaterali dovuti all’accumulo dei farmaci precedentemente in uso.
INDUZIONE METABOLICA
Una caratteristica importante degli enzimi di biotrasformazione è il fatto che la loro attività può aumentare in
seguito al metabolismo di sostanze estranee (come farmaci) soprattutto in presenza di assunzioni prolungate.
Si osserva quindi il fenomeno dell’induzione metabolica; nel soggetto aumenta progressivamente il numero di
copie dell’enzima, con una conseguente maggiore tolleranza metabolica (non recettoriale) del soggetto per la
sostanza: a parità di dose, l’effetto sarà sempre minore finché non si esaurisce. Se un CYP viene indotto, tutti
i farmaci catabolizzati da esso avranno un’emivita ridotta (dovuta a una maggiore velocità di eliminazione e
clearance).
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L’induzione metabolica è un fenomeno trascrizionale, per cui la cellula impara ad aumentare la sintesi proteica
degli enzimi coinvolti nella biotrasformazione. In quanto tale, è un processo che richiede tempo per instaurarsi
(dai 7 ai 20 giorni) e gli effetti risultano evidenti nel giro di 2-3 mesi. Questo comporta anche che la semplice
sospensione della terapia non determina un’immediata reversione del fenomeno, ma occorrono mesi (da 1 fino
a 6) affinché il soggetto torni a metabolizzare come faceva prima dell’induzione. La variazione trascrizionale
è importante e tale per cui, se sottoposte costantemente all’induzione, le cellule possono arrivare a replicarsi,
aumentando quindi di numero e determinando un’epatomegalia da farmaci. In presenza di induzione
metabolica, una momentanea soluzione potrebbe essere un aumento della dose: questo mi permette, nonostante
l’emivita ridotta, di vedere l’effetto terapeutico. Tuttavia, allo stesso tempo, espone il paziente a concentrazioni
maggiori (e quindi aumenta il rischio di raggiungere il limite di tossicità) e la maggiore dose stimola
ulteriormente l’induzione. La soluzione giusta è interrompere le terapie, aspettando circa 2-3 mesi prima di
riprendere.
I principali regolatori dei geni coinvolti nella metabolizzazione dei farmaci sono gli Orphan Nuclear Receptor
(PXR, CAR) che, una volta legato il proprio ligando, traslocano nel nucleo e inducono la trascrizione genica.
Sono definiti recettori orfani, in quanto la loro attività è conosciuta, possono legare un elevato numero di
molecole ma non sono noti ligandi naturali endogeni.
Da notare che il fenomeno dell’induzione può modificare anche il metabolismo di certi composti endogeni,
determinando, ad esempio, uno squilibrio nel quadro ormonale del paziente.
ALTERAZIONI DEL METABOLISMO
Polimorfismo
Se consideriamo una gaussiana per quanto riguarda la capacità di metabolizzare i farmaci, circa il 50% della
popolazione presenterà un andamento uguale. Tuttavia, esistono gruppi di individui, non rientranti nel centro
della gaussiana ma spostati ai lati, i quali presentano un andamento differente. All’interno di una popolazione,
infatti, possiamo trovare delle subpopolazioni su base genetica per cui esistono:
- Metabolizzatori normali: rappresentano il centro della campana e la maggior parte dei pazienti
- Metabolizzatori lenti: sono individui con un metabolismo più lento rispetto alla media, dovuto a un
minor numero di copie degli enzimi. In questi individui, l’emivita dei farmaci risulta aumentata e la
clearance ridotta: a parità di dose con i metabolizzatori normali, possono andare più facilmente
incontro a fenomeni tossici
- Metabolizzatori rapidi: sono individui con un metabolismo più veloce della media, a causa di un
maggior numero di copie dell’enzima. In questi soggetti, quindi, i farmaci hanno un’emivita più breve
e una clearance maggiore.
Questa differenza tra gli individui è spesso dovuta a una componente genetica legata all’espressione degli
alleli: si parla di polimorfismo genetico. Questo fenomeno è connesso anche all’etnia, che determina, fino a
un certo punto, un determinato corredo metabolico. Da questo punto di vista, la mescolanza etnica favorisce
un’uguaglianza metabolica mentre etnie isolate potrebbero presentare quadri metabolici molto differenti
rispetto alla media.
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Per capire come funziona il metabolismo del soggetto si possono usare sostanzialmente du metodi:
- Tipizzazione genetica, che tuttavia è costosa
- Utilizzo di un farmaco con una finestra terapeutica molto ampia: questo mi permette di vedere se il
paziente è un metabolizzatore lento (la concentrazione plasmatica è elevata e diminuisce lentamente),
normale o rapido (la concentrazione plasmatica è più bassa e scende rapidamente).
Possono essere soggetti a polimorfismo sia enzimi di fase I che di fase II. Sicuramente i CYP sono quelli più
facilmente polimorfici (in particolare 3A) ma anche enzimi come NAT e le COMT possono essere soggette a
polimorfismi.
Tra l’altro, il fenomeno del polimorfismo non intacca solo il metabolismo ma anche:
- Assorbimento: possono essere presenti enzimi polimorfici anche a livello del tratto gastrointestinale,
che quindi modificano la biodisponibilità dei farmaci
- Distribuzione: possono esserci polimorfismi e differenze nelle pompe e nei canali di trasporto delle
molecole
- Escrezione renale
- Recettori e canali ionici
- Sistema immunitario
Sesso
Pur essendo state individuate differenze legate al sesso, queste non sono così rilevanti dal punto di vista
terapeutico. Nella specie umana sono state riportate differenze tra uomo e donna nei parametri farmacocinetici
di alcuni farmaci, che sembrano essere dovute ad una differente metabolizzazione di ormoni sessuali con il
coinvolgimento di differenti CYP.
Patologie
Ovviamente patologie a carico del fegato, del parenchima polmonare o del rene possono modificare la quantità
degli enzimi metabolici e quindi determinare una farmacocinetica differente, con la richiesta, spesso, di
riduzione della dose. Nei soggetti con fegato trapiantato, invece, si osserva un aumentato metabolismo, dovuto
ai processi di rigenerazione epatica che comportano una funzionalità epatica massimale.
Età
Abbiamo visto esistere una differenza nella composizione qualitativa degli enzimi metabolizzanti da un punto
di vista degli anni di età. Bisogna ovviamente tenere conto non tanto dell’età anagrafica, quanto della maturità
degli organi.
Dieta
Per alcuni tipi di alimenti è stata descritta un’interazione farmacocinetica: ad esempio, il succo di pompelmo
può causare una inibizione metabolica, mentre il cavoletto di Bruxelles o i cibi cotti alla brace possono
determinare un’induzione metabolica. Ancora, la mancanza di minerali o di alcune vitamine possono ridurre
la velocità del metabolismo.
Fumo
Alcuni componenti del fumo (composti aromatici e alifatici) hanno azione di induttori metabolici, cosa che
aumenta il metabolismo di alcuni farmaci, anche a livello polmonare ed intestinale.
Ambiente
Inquinanti come il TCDD, solventi, benzene, DTT possono modulare l’attività metabolica, inducendo alcune
isoforme e inibendone altre.
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FARMACODINAMICA
Se la farmacocinetica rappresenta ciò che l’organismo fa al farmaco, la farmacodinamica descrive quello che
è l’effetto del farmaco sull’organismo.
PRINCIPI GENERALI DI FARMACODINAMICA
Un farmaco, perché possa funzionare ed esercitare un effetto terapeutico, deve poter legare un recettore
specifico, e nessun altro. Nella farmacocinetica abbiamo visto che il farmaco, una volta giunto nel plasma, si
distribuisce potenzialmente in tutto l’organismo e in tutti i suoi tessuti. Di conseguenza, se vogliamo avere un
effetto specifico, il farmaco dovrà obbligatoriamente riconoscere un solo tipo di recettore, la cui modifica della
funziona fisiologica risolve la patologia o alcuni suoi sintomi. Il legame della molecola farmacologica per il
recettore (che può trovarsi sulla superficie o all’interno delle cellule) è selettivo, specifico e presenta un’affinità
molto elevata. L’effetto che si ottiene dal legame farmaco-recettore è dose-dipendente, prevedibile e ripetibile.
In farmacologia, definiamo recettori tutta una serie di molecole diverse:
- I “classici” recettori, che legano la molecola e trasducono un segnale all’interno della cellula
- Enzimi
- Canali ionici
- Pompe
- Acidi nucleici: lo stesso DNA, svolto, può essere considerato un recettore (in realtà, però, andando a
usare il DNA come recettore, che è ubiquitario, abbiamo tutta una serie di effetti collaterali, ovunque
ci sia un minimo di sintesi proteica e quindi DNA svolto); esempio di farmaci che bersagliano il DNA
sono gli antitumorali
- Proteine strutturali
In realtà, una molecola di farmaco può legare anche molti recettori diversi, ma induce l’effetto biologico (e
quindi stimola la risposta) solo in uno di essi: parliamo di costanti di affinità del farmaco per il recettore.
I farmaci, quindi devono avere due caratteristiche fondamentali:
- Elevata affinità per un recettore: il farmaco deve legarsi con forza a quel recettore
- Elevata selettività per un recettore: il farmaco deve legarsi solo a quel recettore
Esistono farmaci che hanno elevata affinità ma una bassa selettività, potendo quindi andare a legarsi a recettori
differenti (quindi causando effetti collaterali). Inoltre, lo stesso recettore o tipo di recettore può essere legato
da farmaci diversi. Ne sono un esempio:
- Recettore nicotinico muscolare
- Recettore GABA di tipo A, che viene legato da:
o Etanolo (è usato come farmaco antitumorale, in particolare a livello epatico)
o Barbiturici (usati per l’epilessia)
o Benzodiazepine (usati come ansiolitici ed ipnotici)
o Agonisti BZ (usati come ipnotici)
- Recettore glutammatergico, il quale viene legato da diversi tipi di antiepilettici, in quanto è
responsabile di neuroeccitazione (aumento della sensibilità delle fibre → aumento dei potenziali
d’azione) e neurotossicità (morte neuronale per mancato funzionamento del recettore)
La presenza del recettore permette di:
- Agire in maniera selettiva su un organo o su un tessuto
- Agire a concentrazioni molto basse (da 10-5 M a 10-10 M)
- Modulare una risposta biologica in maniera accurata e prevedibile
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Esiste, tuttavia, una serie di molecole che, pur avendo attività terapeutica, non lega alcun recettore per svolgere
la propria attività. Ne sono un esempio:
- Acqua ossigenata (H2O2): ha un effetto disinfettante, essendo capace di uccidere batteri e muffe; ha
tuttavia un effetto tossico anche sui nostri tessuti
- Antisettici generici
- Bicarbonato
- Alcuni lassativi osmotici
- Saponi e surfattanti
- Diuretici osmotici
Queste sostanze, però, non sono considerabili farmaci, ma, piuttosto, presidi medici: essi funzionano in
maniera non selettiva, e quindi non sono organi-specifici; inoltre, devono essere usati in dose molto elevate
perché agiscano (dell’ordine dei grammi) e, soprattutto, non vengono usati per via sistemica (ad eccezione dei
diuretici osmotici).
STEREOSELETTIVITÀ
I recettori specifici sono definiti stereoselettivi: essi sono infatti capaci di riconoscere entrambi gli isomeri di
una molecola, ma solo uno di essi è effettivamente in grado di indurre l’attività del recettore in maniera
significativa (100-1000 volte più efficace).
Isomero: molecola caratterizzata da un carbonio che lega quattro sostituenti differenti. Può avere attività Levo
(isomero L) o Destra (isomero D): in natura, solitamente, è l’isomero L quello attivo. In una forma
farmaceutica, tuttavia, sono presenti entrambi gli isomeri (si parla di miscela racemica).
C’è inoltre una differenza tra stereoselettività (ovvero preferenza per un isomero) e stereospecificità (tutta
l’attività risiede in un singolo isomero).
In generale i farmaci mimano i siti di legame delle molecole endogene per quello specifico recettore:
- L’insulina che somministriamo ai pazienti è prodotta con metodologia ricombinante è sostanzialmente
esogena, ma se somministrata al paziente riconosce il recettore per l’insulina come fosse endogena
- Altre molecole farmacologiche non hanno niente a che fare con il substrato endogeno ma hanno una
conformazione tale che possono legare comunque il recettore e mimarne l’effetto. Spesso, quindi, non
interessa tanto riprodurre il ligando endogeno quanto, piuttosto, produrre una molecola capace
comunque di legare il recettore
Il legame farmaco-recettore può essere:
- Reversibile (farmaci agonisti, antagonisti competitivi o non competitivi allosterici)
- Irreversibile (antagonisti non competitivi irreversibili): in questo caso, il farmaco si lega al recettore,
formando un complesso incapace di funzionare; per far funzionare di nuovo quella via, bisognerà
aspettare che si riformi il recettore (cosa che può richiedere ore o giorni)
Inoltre, possono coesistere, sullo stesso recettore, più siti di legame.
LEGAME FARMACO-RECETTORE
L’interazione farmaco-recettore reversibile può essere indicata dall’equazione chimica:
𝑅𝑒𝑐 + 𝑋𝑓𝑎𝑟𝑚 ⇄ 𝑅𝑋 ⇄ 𝑅𝑋∗
Come succede nella interazione enzima-substrato, nel momento in cui il farmaco si lega al recettore, il
complesso presenta una conformazione differente dal recettore originale, responsabile di produrre la risposta
biologica, consistente in un evento biochimico intracellulare che determina l’effetto finale.
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Il legame che si forma tra la molecola farmacologica e il recettore è mediato, in generale, da legami deboli:
legami ionici, forze di Van der Waals, ponti idrogeno e interazioni idrofobiche. Sono tutti legami facili da
rompere, che richiedono quindi, in condizioni fisiologiche, poca energia per romperli. Affinché farmaco e
recettore si leghino in maniera efficace occorre che le due molecole siano il più complementari possibile, così
da determinare la formazione di un alto numero di legami: più sono complementari e meno farmaco è
necessario per attivare il recettore. Ricordiamo che non basta solo avere la quantità giusta di farmaco nel
distretto del recettore, ma deve rimanerci anche per il giusto tempo.
Se i legami sono di tipo covalente, invece, siamo in presenza di un legame irreversibile: si comportano in
questo modo le tossine, i farmaci chiamati inibitori suicidi, alcuni contaminatori ambientali e gli anticorpi. In
condizioni fisiologiche, questo legame difficilmente si scinde o ciò accade comunque dopo molto tempo. Un
legame di questo tipo può determinare:
- Blocco del recettore (si parla di desensitizzazione); in questo caso, bisogna aspettare che la cellula re-
sintetizzi il recettore per rivedere l’effetto.
- Blocco della sintesi del recettore da parte della cellula (si parla di down-regulation)
- Attivazione continuativa del recettore.
Una situazione simile si può verificare anche quando una molecola, che si lega in maniera reversibile, è
presente in quantità elevate in prossimità del recettore: se la dose è troppo elevata si ha sovra-stimolazione e
soprattutto possibili effetti aspecifici dovuti all’interazione con altri sistemi recettoriali.
È possibile studiare l’interazione farmaco-recettore (associazione e dissociazione) tramite l’analisi di diverse
curve:
- Studio delle curve concentrazione-risposta (in vitro) o dose-risposta (in vivo); consiste in un grafico
della % dell’effetto in funzione della concentrazione (o della dose). Questo tipo di studio mi permette
di determinare:
o La specificità del farmaco per quel recettore
o La natura del farmaco (se agonista o antagonista – vedi più avanti –)
o La potenza (misura dell’affinità del farmaco con il recettore, per capire quali dosi dovranno
essere somministrate; viene definita come la concentrazione richiesta per provocare una
risposta di una certa intensità: più la risposta si ottiene a dosi basse, più il farmaco è potente e
quindi un buon farmaco)
o L’efficacia (misura dell’entità massima dell’effetto che un farmaco può indurre)
- Studio dell’interazione diretta farmaco-recettore (studio di legame); questo tipo di analisi, pur non
distinguendo tra agonisti e antagonisti e non valutando gli effetti biologici, permette di:
o Determinare l’affinità
o Determinare la distribuzione e localizzazione dei recettori
- Isolamento, purificazione o clonazione del recettore; questo tipo di studi permette di determinare la
biologia dell’interazione farmacologica, permettendo di capire:
o La struttura molecolare del recettore
o Le funzioni del recettore
L’interazione farmaco-recettore, come visto, può essere descritta dall’equazione chimica:
𝑅 + 𝑋 ⇄ 𝑅𝑋
Dall’equazione possiamo ricavare due costanti importanti, quella di associazione, o di affinità (Ka) e quella di
dissociazione (Kd). In particolare:
𝐾𝑎 =[𝑅𝑋]
[𝑅][𝑋] 𝐾𝑑 =
[𝑅][𝑋]
[𝑅𝑋]=
1
𝐾𝑎
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Un altro parametro importante è rappresentato da Bmax (o RT), che rappresenta il numero massimo di
molecole di ligando che si possono legare (che equivale a dire il numero dei siti di legame, ovvero il numero
di recettori totali). Esso può quindi essere espresso come:
𝑅𝑇 = [𝑅𝑋] + [𝑅]
Da qui, ricavando R dalla costante di dissociazione e sostituendola nell’equazione di RT, otteniamo che:
𝑅𝑇 = [𝑅𝑋] +𝐾𝑑[𝑅𝑋]
[𝑋] 𝑑𝑎 𝑐𝑢𝑖 𝑠𝑖 𝑜𝑡𝑡𝑖𝑒𝑛𝑒 [𝑅𝑋] =
[𝑋]𝑅𝑇
𝐾𝑑 + [𝑋] 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒 [𝐵] =
[𝑋]𝐵𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑 + [𝑋]
Quest’equazione rappresenta l’isoterma di legame e correla la concentrazione di farmaco alla concentrazione
del complesso farmaco-recettore.
Possiamo osservare dal grafico
(iperbole rettangolare) che,
all’aumentare della dose aumenta
anche la concentrazione del
complesso farmaco-recettore (e, di
conseguenza, aumenta l’effetto del
farmaco sull’organismo).
Quando leghiamo metà dei recettori,
abbiamo una rappresentazione
precisa della costante di
dissociazione (che rappresenta la
concentrazione del farmaco
necessaria a saturare il 50% dei siti
di legame disponibili), la quale ci dà
un’idea della qualità del farmaco e
del dosaggio a cui dovrà essere somministrato.
Nel momento in cui convertiamo la funzione lineare in una funzione semilogaritmica, il grafico che otteniamo
è una sigmoide: all’aumentare della concentrazione (𝐶𝑝 → + ∞) l’effetto che viene raggiunto è pari al 100%,
mentre al diminuire della concentrazione (𝐶𝑝 → − ∞) l’effetto scende progressivamente verso lo 0. Anche in
questo caso possiamo individuare Kd. Inoltre, per un buon tratto, la sigmoide dell’isoterma di legame è lineare
(secondo un’equazione 𝑦 = 𝑚𝑥 + 𝑞): in questo tratto, abbiamo variazioni lineari dell’effetto in rapporto alla
dose, cosa che rende il farmaco, in quel tratto, facilmente maneggiabile e quindi ci permette di aggiustare la
dose al singolo paziente. Inoltre, ci mostra come quasi tutti i farmaci funzionano tra due logaritmi, ovvero 10-
7 e 10-9: questo intervallo di dosi viene definito indice di maneggevolezza. Più la curva si appiattisce (curva
blu) e più potremo maneggiare facilmente il farmaco. Inoltre, se il farmaco determinasse una risposta “tutto o
nulla” (grafico rossa) diventerebbe difficile modulare il dosaggio.
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In un qualsiasi sistema biologico, è importante sapere quanti e quali recettori sono presenti: ci interessa quindi
sapere, da un lato, qual è il numero massimo di recettori a cui il farmaco può legarsi e, dall’altro, se esiste una
eterogeneità recettoriale (ovvero se il recettore esiste in un solo tipo o più). Queste informazioni sono ottenibili
tramite la linearizzazione di Schatchard. Partendo dall’isoterma di legame, otteniamo:
[𝑅𝑋] =[𝑋]𝐵𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑 + [𝑋] → [𝑅𝑋]𝐾𝑑 + [𝑋][𝑅𝑋] = [𝑋]𝐵𝑚𝑎𝑥 → 𝐵𝑚𝑎𝑥 =
[𝑅𝑋]𝐾𝑑 + [𝑋][𝑅𝑋]
[𝑋]=
[𝑅𝑋]𝐾𝑑
[𝑋]+ [𝑅𝑋]
Ma [RX] rappresenta il numero di recettori legati (B), per cui:
𝐵𝑚𝑎𝑥 =𝐵×𝐾𝑑
[𝑋]+ 𝐵 →
𝐵𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑=
𝐵
[𝑋]+
𝐵
𝐾𝑑 →
𝐵
[𝑋]=
𝐵𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑−
𝐵
𝐾𝑑
Con [X] che rappresenta il farmaco libero (F):
𝐵
𝐹= −
𝐵
𝐾𝑑+
𝐵𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑 𝑐ℎ𝑒 è 𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑎 𝑦 = 𝑚𝑥 + 𝑞
Con la linearizzazione del grafico, ottengo una retta che interseca entrambi gli assi: l’intersezione con l’asse
delle x mi dà Bmax, mentre quello con l’asse delle y 𝐵𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑. Inoltre, il coefficiente angolare della retta
rappresenta il reciproco negativo della costante di dissociazione, pari al negativo della costante di associazione.
Se dalla linearizzazione non otteniamo una retta, ma una curva, siamo davanti a un caso di eterogeineità
recettoriale: esistono quindi almeno due tipi differenti di recettore, in quanto la curva può essere descritta da
due coefficienti angolari. Troveremo quindi due possibili rette, con due diversi Bmax. La maggior parte dei
farmaci ha sottotipi recettoriali che devono essere individuati per creare farmaci sempre più selettivi.
TEORIA DELL’OCCUPAZIONE
Secondo la teoria dell’occupazione, la risposta (e quindi l’effetto di un farmaco) è direttamente proporzionale
all’occupazione recettoriale (e quindi alla concentrazione del complesso farmaco-recettore): più recettori sono
coinvolti e maggiore è la risposta osservabile. L’effetto è quantificabile dalla formula:
∆=[𝑋] × ∆𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑 + [𝑋] 𝑝𝑒𝑟 [𝑋] → ∞, 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎 ∆= ∆𝑚𝑎𝑥
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Il numero di recettori coinvolti e il tempo medio per il quale sono stimolati sono proporzionali alla
concentrazione del farmaco nel sito recettoriale (che, a sua volta, è proporzionale alla concentrazione
plasmatica e funzione del volume di distribuzione). L’occupazione recettoriale può essere descritta ancora una
volta dall’isoterma di legame (o di Langmuir) dalla quale possiamo dedurre che:
- Farmaci selettivi per lo stesso recettore hanno curve parallele in funzione della loro Kd
- La differenza tra le curve descrive la potenza del farmaco
- Più la pendenza del tratto centrale della sigmoide è piccola, più il farmaco è maneggevole
- Se la risposta avviene entro 1 logaritmo, la risposta è del tipo “tutto o nulla”: il farmaco è poco
maneggevole e difficilmente modulabile
Oltre all’indice di maneggevolezza, importante è anche la misurazione di due parametri:
- 𝑬𝑪𝟓𝟎 rappresenta la concentrazione alla quale si ottiene il 50% della risposta massimale.
- 𝑬𝑫𝟓𝟎 rappresenta la dose che, nel 50% della popolazione, mi determina effetto terapeutico.
Entrambe sono misurate in funzione di Kd: la costante di dissociazione, quindi, mi permette di sapere da quale
dose/concentrazione occorre partire per avere garanzia di stare eseguendo una terapia.
La teoria dell’occupazione, tuttavia, nella sua forma più semplice, non tiene conto di alcuni fenomeni:
1) La curva dose-effetto e la curva interazione farmaco-recettore non coincidono: in questo caso abbiamo
che ED50 (EC50) e Kd sono differenti tra di loro.
Questo fenomeno può accadere per diversi motivi:
- Presenza di recettori di riserva: in questo caso, si ottiene una buona risposta, quasi massimale,
occupando solo una parte dei recettori presenti (su 100 recettori, quelli veramente efficaci sono solo
20; gli altri 80 sono appunto definiti recettori di riserva, che serviranno in caso di bisogno: down-
regulation dei recettori già occupati, desensitizzazione dei recettori legati al farmaco – in genere dovuta
al grado di fosforilazione del recettore: dopo un tot di cicli, il recettore continua a legare il farmaco
ma smette di trasdurre il segnale –).
- Meccanismo a cascata: a dosi molto piccola corrispondo risposte molto grandi. Si hanno infatti
meccanismi a cascata che, col tempo, sviluppano una risposta importante.
- Soglia di occupazione: soglia oltra la quale non si vede un effetto; non basta occupare pochi recettori
per cominciare a vedere l’effetto, ma bisogna occuparne un certo numero oltre il quale è visibile la
risposta.
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2) Esistono farmaci che, pur occupando un determinato recettore, producono una risposta inferiore ad
altre molecole che occupano lo stesso recettore (vengono definiti agonisti parziali) oppure non
producono nessuna risposta (vengono definiti antagonisti).
EFFETTO FARMACOLOGICO NEL TEMPO E RISPOSTE AI FARMACI
Nel momento in cui somministriamo un farmaco, esiste un periodo di latenza prima che la concentrazione
plasmatica del farmaco ecceda quella che viene definita minima concentrazione efficace per ottenere l’effetto
terapeutico. Superata questo valore di “soglia”, l’intensità dell’effetto aumenta mentre il farmaco continua ad
essere assorbito e distribuito. Un altro valore importante è la massima efficacia terapeutica, ovvero la minima
concentrazione che determina una risposta indesiderata. Le concentrazioni di farmaco tra questi due valori
rappresentano i limiti della finestra terapeutica.
Le risposte farmacologiche possono essere classificate in:
1) Risposte graduali: sono misurabili in continuo, ovvero la risposta può assumere valori progressivi
all’aumentare della dose e tendendo asintoticamente ad un valore massimo. Un tipico esempio di
risposta graduali la si può osservare dall’analisi della funzione neuromuscolare in relazione alla
somministrazione di un rilassante.
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2) Risposte che si possono classificare con un voto (score) o con uno stadio (stage): tipico esempio sono
il dolore, o la formazione di ulcere.
3) Risposte quantali (“tutto o nulla”): esistono solo due possibili casi di risposta (es: morte o remissione
completa della malattia). In questo caso la relazione tra dose e risposta viene espressa indicando il
numero di individui in una popolazione (frequenza) per il quale si verifica quel determinato evento.
Osserviamo ad esempio cosa succede somministrando dosi crescenti di un barbiturico (fenobarbital): alle dosi
normali, l’effetto del farmaco è sostanzialmente narcotico, ma, aumentando le dosi, si può arrivare ad effetti
tossici, prima, e letali, poi. Dall’analisi di queste curve possiamo trovare parametri importanti per la terapia:
- DE1: è la dose a cui il primo dei pazienti trattati ha ottenuto un beneficio della terapia
- DE50: vedi su
- DE99: è la dose a cui so che il 99% dei pazienti ottiene l’effetto terapeutico, senza andare incontro ad
effetti collaterali o tossici o letali.
Aumentando progressivamente la dose, alla curva dell’effetto terapeutico si sostituisce la curva dell’effetto
tossico (o letale), dalla quale possiamo estrapolare: la dose tossica o letale 1 (DT1 o DL1), la dose tossica o
letale 50 e la dose tossica o letale 99.
Importante è la comprensione di indice terapeutico, il dosaggio terapeutico e margine di sicurezza:
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- L’indice terapeutico è rappresentato dal rapporto tra la dose efficace 50 e la dose tossica 50: 𝐼𝑇 =𝑇𝐷50
𝐸𝐷50. Esso non valuta un farmaco dal punto di vista della tollerabilità o dell’efficacia, ma indica
soltanto la vicinanza tra la dose tossica e la dose terapeutica.
- Il dosaggio terapeutico, invece, è il range di valori tra la dose efficace 1 e la dose tossica 1: rappresenta
sostanzialmente il range dei dosaggi che possiamo utilizzare senza danneggiare nessun paziente (ad
eccezione di TD1): più questi valori sono distanti e più il farmaco sarà sicuro. Tanto più i valori sono
distanti e tanto più la finestra terapeutica risulterà ampia: un tipico esempio sono gli anti-infiammatori;
il dosaggio di questi farmaci non viene aggiustato, in quanto hanno una finestra così ampia che,
comunque, nel plasma siamo sicuri di raggiungere una concentrazione plasmatica tale da avere, in tutti
i pazienti, lo stesso beneficio, più o meno.
- Il margine di sicurezza, invece, viene descritto dal rapporto tra la dose tossica 1 e la dose efficace
99: 𝑀𝑆 =𝑇𝐷1
𝐸𝐷99. Esso rappresenta il range di valori di dose entro i quali possiamo trattare in sicurezza
il paziente ottenendo il massimo beneficio possibile. Maggiore è il range di valori e più è sicuro
aumentare la dose oltre il DE99.
Risulta evidente che quanto più l’indice terapeutico di un farmaco è basso (quindi vicino all’unità) tanto più
sarà ristretto il mio margine di sicurezza nel dosaggio del farmaco. In questo tipo di grafici, come rappresento
lo stato stazionario, che è quello che raggiungo con le somministrazioni ripetute tipiche delle terapie
domiciliari? Poiché lo stato stazionario mi determina la comparsa di una concentrazione plasmatica costante
(se si segue correttamente il regime terapeutico), esso sarà rappresentato da un semplice punto, corrispondente
al livello di effetto ottenibile con quella concentrazione.
È possibile, in alcuni casi, che le due curve si sovrappongano:
In questo caso, notiamo come tutti i pazienti a sinistra di DE99 vengano trattati ottenendo un beneficio dal
punto di vista terapeutico ma, raggiunta la DE99, osserva che una piccola frazione dei pazienti andrà incontro
ad effetti tossici (o letali): di conseguenza DE99 non è già più un dosaggio accettabile e si trova al di fuori
della finestra terapeutica. Per i farmaci in cui la curva di tossicità si sovrappone in parte alla curva di efficacia
(ne sono un esempio l’insulina, o i digitalici) occorre eseguire quello che viene descritto come TDM, ovvero
il therapeutic dose monitoring: occorre eseguire a intervalli costanti di tempo dei prelievi e dosaggi ematici
per capire qual è effettivamente la concentrazione plasmatica del farmaco, aggiustando il dosaggio di volta in
volta.
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Un altro esempio di questo fenomeno è rappresentato dall’anticonvulsivante fenitoina. Sebbene alcuni pazienti
possano rispondere a concentrazioni minime di farmaco, nella maggior parte dei casi il dosaggio usato è
compreso tra 10 e 20 mg/L che dà un effetto terapeutico nella maggior parte dei pazienti ma presenza
un’incidenza aumentata (ma ancora accettabile) di reazioni avverse (come ad esempio nistagmo, atassia).
Esiste sempre una concentrazione plasmatica alla quale non ho alcun effetto collaterale, ma è anche una
concentrazione che ha una probabilità minore di determinare l’effetto terapeutico nel paziente. Di conseguenza,
in genere, si aumenta la dose: in questo modo, pur aumentando il rischio di subire effetti collaterali, aumenta
anche la probabilità che il paziente vada incontro a beneficio. Da notare che, come già detto, gli effetti avversi
(o collaterali) sono già insiti nella terapia, in quanto non c’è sicurezza che compaiano. Nel caso di reazione
tossica, invece, la terapia deve essere necessariamente sospesa. Se vogliamo introdurre un nuovo farmaco, esso
dovrà risultare più potente dei farmaci già presenti in commercio.
AGONISTI E ANTAGONISTI
Viene definita agonista una molecola capace di legarsi ad un recettore ed evocare una risposta biologica, la
cui attività dipende dal rapporto tra la costante di dissociazione e la sua concentrazione. I farmaci agonisti, a
loro volta, possono essere distinti in tre grandi gruppi:
- Agonisti mimetici (detti anche completi o pieni): sono farmaci agonisti che provocano la massima
risposta evocabile in un tessuto, in quanto riproducono in totale l’attività del legame endogeno. Essi
sono di origine sintetica, con una struttura identica al ligando endogeno, che gli permette di mimarne
esattamente la funzione. Hanno efficacia massima per quel sistema recettoriale (hanno una Kd molto
piccola e simile a quella del ligando endogeno. Gli agonisti mimetici, quindi, sono in grado di
ripristinare l’attività biologica. Ne è un esempio l’insulina ricombinante: pur non avendo la stessa
identica affinità dell’insulina endogena, ha la stessa efficacia ed è capace di riprodurre gli effetti
dell’insulina endogena che manca.
- Agonisti parziali: sono farmaci agonisti che provocano una risposta inferiore a quella massima
evocabile anche in seguito all’occupazione di tutti i recettori disponibili. Sono in genere farmaci che
legano bene il recettore, hanno una elevata affinità e potenza, ma la loro efficacia relativa non è del
100%. Questo accade perché:
o In parte, l’agonista parziale mima l’effetto del ligando endogeno, ed è quindi responsabile
della risposta biologica
o In parte, compete per il sito di legame sul recettore con lo stesso ligando: questo impedisce
quindi un eccessivo legame endogeno (vengono infatti anche chiamati agonisti-antagonisti)
Combinando le due azioni, un agonista parziale permette la normalizzazione di un’attività biologica
che, in assenza dello stesso, sarebbe eccessiva: l’attività del sistema recettoriale viene così settato su
un livello non più patologico.
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- Agonisti inversi: sono farmaci agonisti che riducono l’attività costitutiva recettoriale. La teoria
dell’esistenza di recettori attivati costitutivamente afferma che i recettori esistano, indipendentemente
dalla presenza di un ligando, in due stati conformazionali, uno attivo ed uno inattivo. Ciò deriva dallo
studio di alcuni recettori mutati accoppiati a proteine G per fattori di crescita: questi recettori potevano
indurre l’attività biologica indipendentemente dalla presenza di un ligando selettivo. Portando avanti
gli studi, si è notato come tutti i recettori, al di là dell’esistenza o meno di una mutazione, possono
esistere nelle due conformazione, anche se, in assenza di agonista puro o ligando endogeno,
l’equilibrio è spostato verso la conformazione inattiva. Possono avere attività intrinseca spontanea
alcuni recettori legati a proteine G oppure canali ionici: essi si aprono e funzionano spontaneamente.
Unico esempio di agonisti inversi è rappresentato dalle beta-caboline per il recettore GABA: esse sono
agonisti allosterici selettivi per il recettore, ma ne diminuiscono l’attività basale intrinseca (riducono
l’apertura del canale)
Viene invece definita antagonista una molecola capace di legarsi ad un recettore (possedendo una Kd simile
a quella dell’agonista o del ligando endogeno, quindi elevata affinità per il recettore) ma che non promuove
alcun effetto biologico (poiché non ha alcun effetto, il grafico dose-risposta del solo antagonista è vuoto). Lo
scopo di un farmaco antagonista (che, tra l’altro, rappresentano la maggior parte dei farmaci) è semplicemente
quella di occupare il recettore, modulando in negativo l’effetto biologico del ligando endogeno: un antagonista
ha efficacia massima quando abolisce completamente l’attività recettoriale. Gli antagonisti vengono distinti in
- Antagonisti competitivi: antagonisti che si legano allo stesso sito recettoriale dell’agonista con una
Kd simile, competendo con l’agonista o con il ligando endogeno per quel recettore. Vengono anche
definiti soverchiabili o sormontabili in quanto il loro legame con il recettore dipende strettamente
dalle concentrazioni sia dell’antagonista che dell’agonista/ligando endogeno: occorre quindi avere una
concentrazione plasmatica tale che permetta non solo all’antagonista di competere, ma anche vincere;
minore è l’affinità per il recettore e maggiore sarà la concentrazione necessaria per legarsi al recettore.
Un antagonista competitivo sposta la curva dose-risposta dell’agonista o del ligando endogeno verso
destra, senza modificarne la pendenza o l’effetto massimo raggiungibile: per ottenere lo stesso effetto
biologico, quindi, bisogna utilizzare una quantità maggiore di agonista. Più la concentrazione
dell’antagonista è grande, o più piccola è la sua Kd, e più la curva dose-risposta dell’agonista sarà
spostata verso destra. L’efficacia dell’agonista è però mantenuta: aumentandone la concentrazione,
l’antagonista viene soverchiato e si può comunque raggiungere l’effetto massimo originale. Per
mantenere l’effetto, l’antagonista deve raggiungere uno stato stazionario.
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Valutando la variazione del livello di attivazione recettoriale di un recettore attivo anche in assenza di ligando,
osserviamo grafici differenti in funzione:
- Della concentrazione del ligando: l’agonista determina un aumento dell’attività recettoriale, mentre
l’agonista inverso ne determina una riduzione. In entrambi i casi, in presenza di un antagonista
competitivo, le curve vengono spostate verso destra e, a parità di concentrazione, l’effetto raggiunto
sarà ridotto mentre l’effetto massimale sarà lo stesso.
- Della concentrazione dell’antagonista: in presenza del solo agonista, il livello di attivazione
recettoriale non viene alterato. In presenza di un agonista pieno o parziale, l’antagonista riporta il
sistema verso livelli costitutivi di attività.
- Antagonisti non competitivi (detti anche insormontabili): sono antagonisti che possono agire:
o Sullo stesso sito di legame per l’agonista o ligando endogeno
o Su siti differenti (allosteria)
L’effetto del legame con il recettore consiste nel blocco dell’attività del recettore, in quanto
l’antagonista o non si stacca più dal recettore (e quindi blocca in maniera costitutiva l’attività
recettoriale) oppure determina distruzione del recettore stesso. In presenza di un antagonismo non
competitivo, indipendentemente dalla concentrazione dell’agonista o del ligando endogeno, l’effetto
massimo raggiungibile risulta ridotto: la curva dose-risposta viene spostata verso destra in modo non
parallelo, con un abbassamento della stessa. In presenza di un antagonista non competitivo, non sarà
mai possibile raggiungere l’effetto massimo dell’agonista o del ligando endogeno: l’efficacia
dell’agonista viene ridotta.
Supponiamo di dare le stesse dosi di antagonisti non competitivi diversi. L’antagonista non competitivo
numero 3 è il più potente ed efficace in quanto determina una riduzione maggiore dell’effetto massimo (alta
efficacia) e, già a basse dosi, determina una riduzione dell’effetto dell’agonista rispetto agli altri antagonisti
(alta potenza).
Per capire la natura dell’antagonista, si può ricorrere al metodo del doppio reciproco (Lineweaver-Burk):
∆=[𝑋] × ∆𝑚𝑎𝑥
𝐾𝑑 + [𝑋] →
1
∆=
𝐾𝑑
∆𝑚𝑎𝑥×
1
[𝑋]+
1
∆𝑚𝑎𝑥
In questo moto, la curva viene convertita in una retta e, a seconda del comportamento della retta
dell’antagonista in confronto alla retta dell’agonista, possiamo capire se si tratta di un antagonista competitivo
o non. Infatti:
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- Se 1
∆𝑚𝑎𝑥 (che corrisponde all’intersezione con l’asse delle y) non varia rispetto all’agonista, il farmaco
è un antagonista competitivo, in quanto l’effetto massimo è comunque raggiungibile.
- Se 1
∆𝑚𝑎𝑥 varia, il farmaco è un antagonista competitivo: più l’intersezione con le y è alta e minore è
l’effetto massimo raggiungibile in presenza dell’antagonista (quindi il farmaco è più efficace).
RECETTORI
Definiamo recettore una molecola che si lega in maniera specifica, definita e con affinità specifica ad un
mediatore endogeno. Il legame tra il recettore e la molecola determina un cambio conformazionale alla base
dell’effetto biologico.
I recettori possono trovarsi:
- In membrana: il loro compito è legare mediatori idrofilici, neurotrasmettitori e amminoacidi
trasmettitori, fattori di crescita, citochine. Appartengono a questa categoria:
o Recettori canale (tipo I): essi sono esplicano la loro attività in maniera istantanea
(millisecondi): il loro compito e far passare ioni in entrata o in uscita sulla base del potenziale
di membrana. Appartengono a questo gruppo i recettori nicotinici dell’acetilcolina, il recettore
GABA3, NMDA e 5-HT3.
o Recettori accoppiati a proteine G (tipo II): essi esplicano la loro attività in secondi, in quanto
richiedono l’attivazione di proteine G e la conseguente attivazione di canali ionici o di
meccanismi di sintesi di secondi messaggeri. Appartengono a questa categoria i recettori
muscarinici per l’Ach, i recettori α- e β-adrenergici e i recettori per 5HT, per istamina,
dopamina e purine.
o Recettori accoppiati a TK o guanilato ciclasi (tipo III). Richiedono un tempo dell’ordine
delle ore per esplicare la loro funzione. Appartengono a questo gruppo i recettori per le
citochine.
- All’interno della cellulare (intracellulari): legano mediatori, molecole e vitamine lipofiliche, molecole
trasportate all’interno della cellula tramite trasportatori specifici. Appartengono a questa categoria i
recettori per gli ormoni steroidei e tiroidei (recettori di tipo IV)
Queste quattro tipologie di recettori sono i principali recettori dell’organismo, responsabili dell’influenza e
modulazione di tutti gli altri recettori (transmodulazione recettoriale).
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1) RECETTORI CANALE
I recettori canali consistono in veri e propri canali che si aprono in concomitanza con il legame del ligando
endogeno o dell’antagonista. Sono dei complessi macroproteici trans-membrana che formano un canale
acquoso (idrofilico). Quando aperti, i recettori canali fanno passare gli ioni, che si muovono seguendo un
gradiente di concentrazione di cariche: la conseguenza diretta del movimento ionico è una variazione di carica
della membrana che provoca depolarizzazione o iperpolarizzazione della cellula, variando anche il suo grado
di eccitabilità. Il potenziale di membrana condiziona l’entità (ovvero la conduttanza) e la direzione del flusso
ionico.
Tutti i recettori canali sono costituiti da 5 subunità proteiche, che possono essere anche molto differenti tra
loro: sono formate, in genere, da un singolo filamento amminoacidico. All’esterno del recettore vi è una forma
ad imbuto che serve prevalentemente a concentrare gli ioni in prossimità del canale stesso. Ciascuna delle
cinque catene attraversa quattro volte la membrana, descrivendo delle zone altamente idrofobiche (α-eliche
composte da 20-25 amminoacidi) definite M1-4. La porzione M2, in particolare, è formata da amminoacidi
elettricamente carichi posti in maniera tale da formare anelli di carica positiva o negativa all’interno del canale;
questi amminoacidi concentrano e selezionano gli ioni che devono passare:
- Gli amminoacidi saranno negativi se il canale è permeabile ai cationi (Na+, K+, Ca2+)
- Gli amminoacidi saranno positivi se il canale è permeabile agli anioni (Cl-)
Questi anelli che si vengono a formare hanno funzione differente:
- Il primo e l’ultimo hanno la funzione di concentrare solo gli ioni che devono passare, solitamente
monovalenti (ma spesso può passare anche il calcio, bivalente). Ovviamente i diversi sottotipi
recettoriali hanno diversa capacità di essere selettivi.
- L’anello centrale è il vero selettore dello ione che passerà.
Le diverse subunità determinano:
- La selettività per una specie ionica
- La conduttanza
- Il tempo di apertura del canale
- Il legando endogeno, l’agonista o l’antagonista che si legherà
Le subunità sono in realtà famiglie di molecole molto simili ma con piccole differenze amminoacidiche che
determinano caratteristiche diverse: per ogni subunità, esistono diversi sottotipi. Questo si traduce anche in
una differente composizione di subunità che descrive la funzione del recettore e recettori posti in siti anatomici
differenti avranno una diversa composizione in subunità. Ad esempio, il recettore nicotinico per Ach presenta
9 sottotipi di subunità alfa (α9) e quattro sottotipi di subunità beta (β4) e presenta una composizione differente
tra SNC e muscolo:
- Nel SNC, il recettore è un canale per il sodio, la cui composizione è α4 α4 β2 β2 β2
- Nel muscolo, invece, il recettore fa passare anche potassio e calcio e la sua composizione è α1 α1 β1 ε
δ oppure α7 α7 β2 ε δ.
Inoltre, nello stesso organismo, la composizione delle subunità per lo stesso recettore può variare in base all’età
evolutiva.
In generale, il sito di legame per il legando endogeno è extracitoplasmatico, quindi è situato all’esterno della
cellula, ed è rappresentato, solitamente, dalla subunità alfa o dalla subunità beta: su queste subunità, infatti, si
trovano delle zone complesse che riconoscono selettivamente il ligando; quasi sempre, sono due le subunità
che devono riconoscere e legare il ligando (dello stesso tipo, quindi o due subunità alfa o due subunità beta) e
occorrono quindi due molecole di ligando per aprire il recettore. Il legame extracitoplasmatico determina una
modificazione conformazionale che si traduce in un’attivazione del recettore indotta dalla modificazione di
siti transmembrana e intracitoplasmatici che non consumano ATP.
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Il flusso ionico può anche essere bidirezionale, a seconda del potenziale di membrana: il recettore
dell’acetilcolina, infatti, fa entrare sodio a -90 mV e fa uscire potassio a -30 mV.
L’attività del recettore può essere modulata grazie alla presenza di siti allosterici, sui quali si legano molecole
differenti dal ligando endogeno che determinano modifiche in:
- Legame con il ligando
- Cinetica di legame del recettore
- Cinetica di apertura e chiusura
- Passaggio allo stato di desensitizzazione.
Questi siti allosterici possono essere multipli sullo stesso recettore: ad esempio, il recettore del GABA di tipo
A può legare in siti allosterici differenti le benzodiazepine (che aumentano la frequenza di apertura del canale,
ma solo in presenza di GABA) e i barbiturici (che, invece, determinano l’apertura del recettore anche in assenza
di GABA).
L’attività del recettore viene anche modulata dal grado di fosforilazione, che viene operata a livello delle
sequenze amminoacidiche comprese tra le zone M3 ed M4; questo fenomeno riguarda tutti i recettori canale,
anche per quelli sensibili al potenziale di membrana. Le diverse subunità, inoltre, vengono fosforilate da
chinasi differenti: ad esempio, nel recettore nicotinico, le subunità delta ed epsilon vengono fosforilate da PKA
(in genere produce un aumento delle aperture spontanee), le subunità alfa1 e delta da PKC (aumenta la velocità
di desensitizzazione) mentre le subunità beta, epsilon e delta possono essere fosforilate da TK (che causano
una concentrazione dei recettori – clustering – ed aumenta la risposta in una porzione della cellula). Questo
determina anche che l’attività del recettore viene modulata in base al metabolismo della cellula, fino anche a
raggiungere uno stato di attivazione costitutivo. Inoltre, tutti i recettori che attivano fosforilasi sono in grado a
loro volta di modulare l’attività dei recettori canale: parliamo di modulazione trans-recettoriale.
Tra i meccanismi di protezione cellulare troviamo:
- Desensitizzazione: è un meccanismo di protezione cellulare tipico dei recettori con risposta veloce
(soprattutto i recettori canale, ma non solo). Sostanzialmente, il recettore desensitizzato lega l’agonista
ma non apre il canale. Questo meccanismo avviene in genere quando si ha un’attivazione continua o
prolungata del recettore, dovuta a concentrazioni troppo elevate di agonista o a un continuo rilascio di
neurotrasmettitore. La velocità di desensitizzazione coinvolge tutte le subunità che compongono il
recettore e dipende anche dal grado e dal tipo di fosforilazione delle subunità. In generale, esso avviene
per alte concentrazioni (Kd dell’ordine di 10-3 e 10-5)
- Up- e down-regulation: sono meccanismi che modificano la risposta in senso quantitativo,
modificando, attraverso meccanismi trascrizionali a livello nucleare, il numero di recettori presenti
sulla membrana.
2) RECETTORI ASSOCIATI A G-PROTEIN
Sono recettori che, una volta legato il ligando endogeno, trasducono un segnale che comporta l’attivazione di
una proteina G associata (famiglia eterogenea di molecole composte da tre subunità, alfa, beta e gamma). Lo
stesso recettore può legare diverse proteine G, anche con attività differenti. Questi recettori sonno responsabili
di una risposta più lenta rispetto ai recettori canale, che prevede l’attivazione di numerose vie metaboliche
intracellulari. Si verificano dei fenomeni a cascata, di amplificazione che si rivelano anche dopo minuti.
Questi recettori sono una superfamiglia genica, con una struttura molecolare comune, composta da un
monomero che attraversa la membrana cellulare sette volte; sono recettori metabotropi (agiscono attraverso
secondi messaggeri). Il sito di interazione con le proteine G è rappresentato da uno dei loop intracellulari (loop
III e porzione –COOH), che va incontro a modifica conformazionale nel momento in cui si verifica il legame
dell’agonista al recettore. Le differenze strutturali del dominio III e della porzione COOH determinano una
differente specificità per le differenti proteine G.
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Anche i recettori associati a proteine G presentano meccanismi di desensitizzazione e down-regulation, basati
sulla fosforilazione del recettore stesso. Un fenomeno che si può osservare in presenza di stimolazione
prolungata è il sequestro del recettore: la continua presenza dell’agonista induce la fosforilazione della
porzione COOH del recettore, con conseguente legame alla beta-arrestina e promozione dell’internalizzazione
del complesso recettore-agonista in un endosoma. Questo può alternativamente:
- Essere re-immesso in membrana, in seguito a dissociazione dell’agonista dal recettore, cosa che riduce
l’affinità per la beta-arrestina e promuove la defosforilazione, con conseguente re-immissione in
membrana
- Distruzione del recettore in un lisosoma
Le proteine G rappresentano il livello intermedio nella gerarchia organizzativa della comunicazione tra
recettori metabotropi ed enzimi effettori o canali ionici. Sono dotate della capacità di legare nucleotidi
guanilici, come GTP e GDP. Sono composte da tre subunità: beta e gamma sono altamente idrofobiche e
permettono il legame alla porzione intracitoplasmatica della membrana, con conseguente interazione con i
recettori; la subunità alfa, invece, lega i nucleotidi ed è dotata di attività GTPasica: quando legata a GTP, la
subunità alfa si stacca dal recettore per interagire con il suo bersaglio, del quale può promuovere o inibire
l’attività.
Esistono oltre 20 tipi differenti di proteine G, basate sulla diversa combinazione tra le numerose varianti delle
subunità (20 alfa, 4 beta e 7 gamma). L’associazione tra le diverse subunità fa variare la specificità per il
bersaglio da attivare e per il recettore. Uno stesso recettore può attivare più proteine G e una stessa proteine G
può attivare o modulare più effettori differenti. Due sono i principali effettori controllati dai recettori accoppiati
alle proteine G:
- Adenilato ciclasi e cAMP
- PLC, IP3 e DAG
Inoltre, le proteine G controllano anche:
- Fosfolipasi A2 (formazione di acido arachidonico e eicosanoidi)
- Canali ionici
3) RECETTORI PER FATTORI DI CRESCITA (ASSOCIATI A CHINASI)
I recettori per i fattori di crescita sono spesso associati a fenomeni di induzione della proliferazione cellulare.
Essi sono molecole di natura proteica transmembrana che, una volta legato il ligando endogeno o l’agonista,
mediano una cascata enzimatica che origina dall’attività di proteine chinasiche; il legame substrato-recettore
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determina innanzitutto autofosforilazione delle catene e cambio di conformazione strutturale, dalle quali deriva
l’attività del recettore, consistente in:
- Risposte immediate e transitorie
- Risposte ritardate e durevoli
I recettori sono il prodotto di proto-oncogeni che regolano i processi proliferativi cellulari. Essi presentano una
struttura molecolare simile, composta da:
- Catena proteica per i siti di legame
- Porzione N-terminale extracellulare
- Porzione transmembrana idrofobica di ancoraggio
- Dominio citoplasmatico con attività enzimatica
- Porzione iuxtamembrana con attività regolatoria
- Porzione C-termine intracitoplasmatica che lega i trasduttori
A livello extracellulare, è presente una elevata variabilità (possibilità di polimorfismo. Inoltre, possono andare
incontro a fenomeni di desensitizzazione.
Questo gruppo di recettori sono sfruttati in tutta una serie di terapie sostitutive: nella maggior parte dei casi, i
farmaci somministrati sono antagonisti competitivi, che vanno a interferire con l’effetto positivo di questi
recettori sulla proliferazione cellulare (saranno, quindi, prevalentemente degli antitumorali). Allo stesso
tempo, troviamo anche farmaci agonisti come l’insulina esogena.
I recettori più utilizzati in farmacologia sono:
- Recettori per l’insulina: somministriamo insulina esogena, ricombinante, per gestire l’alta glicemia
basale nel corso della giornata e il picco iperglicemico post-prandiale (non viene usata, invece, per la
sua attività proliferativa)
- Recettori per VEGF: questo fattore di crescita è coinvolto nella neoangiogenesi; farmaci antagonisti
vengono utilizzati per limitare l’apporto di sangue alla massa tumorale
- Recettori per PDGF, MCSF: usati per trattare casi di deficienza midollare, anche indotta da
chemioterapia.
4) RECETTORI INTRACELLULARI
Sono recettori per mediatori endogeni di natura lipofilica: a questa categoria appartengono i classici recettori
per gli ormoni. I recettori attivati interagiscono con tratti del genoma molto specifici. La loro funzione è quella
di far cambiare la composizione e la quantità di espressione di proteine specifiche, o di determinare la
replicazione delle cellule bersaglio. La distribuzione intracellulare è differente; possiamo avere recettori:
- Citoplasmatici: il ligando viene legato a livello citoplasmatico e, in seguito al legame, il recettore viene
veicolato nel nucleo
o Glucocorticoidi
o Mineralcorticoidi
- Nucleari: sono già a livello del nucleo, dove il ligando deve arrivare
o Estrogeni
o Progesterone
o Ormoni tiroidei
o Vitamina D
o Acido retinoico
L’organizzazione molecolare di questi recettori è particolare; appartengono ad un’unica a superfamiglia genica
(alta omologia di struttura) e presentano un dominio conservato (responsabile per il legame al DNA) legato a
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domini variabili (siti di legame per i ligandi e di controllo della trascrizione). Sono composti essenzialmente
da tre regioni strutturali:
- N-terminale
- Porzione centrale con residui di cisteina che formano zinc-fingers per il legame con il DNA. Le
variazioni che si osservano in questa zona sono specifiche per le diverse HRE (hormone responsive
elements, sequenze geniche presenti nel promotore del gene; il legame alle HRE determina attivazione
o inibizione della trascrizione del gene).
- C-terminale per il riconoscimento con l’agonista
Quando sono inattivi, questi recettori sono sempre legati a proteine inibitorie, che si legano tramite legami
deboli e determinano ingombro sterico a livello del sito accettore. L’attivazione del recettore è dovuta al
legame specifico con il ligando, che fa sganciare l’inibitore e legare il complesso che ha dimerizzato
direttamente sulle sequenze specifiche del DNA.
Lo stato fosforilativo dell’inibitore o del recettore stesso condiziona la sua attivabilità e la sua capacità di
dimerizzare. Inoltre, si può avere attivazione costitutiva del recettore indipendentemente dalla presenza di un
agonista, a causa dell’attività di specifiche chinasi come PKA e PKC, mediate a loro volta da recettori del tipo
II.
I recettori intracellulari sono caratterizzati da specificità d’azione, dovuta a:
- Tropismo differenziale dovuto alla differente espressione recettoriale, che è tessuto-specifica
- Metabolismo tessuto-specifico degli ormoni, dovuto a
o Differente concentrazione tissutale dell’ormone
o Differente produzione di ormoni attivi localmente a partire dai precursori presenti nel sangue
- Regolazione trascrizionale, con trascrizione differente nei vari tessuti
Il meccanismo principale di regolazione di questi recettori è la desensitizzazione, ma sono sfruttati anche
meccanismi di:
- Down-regulation, dovuta alla presenza di sequenza HRE anche sul promoter del gene del recettore
stesso: la stimolazione recettoriale ripetuta o prolungata spegne la trascrizione recettoriale.
- Trans-regolazione: l’attivazione di un recettore riduce la sintesi di un altro per un ormone differente,
causa della presenza di HRE nel promoter del secondo recettore. In alcuni casi, invece, l’attivazione
di un recettore promuove la sintesi di fattori inibitori sulla trascrizione.
La farmacologia di questi recettori è piuttosto complessa; in genere si può intervenire modificando:
- L’insorgenza del segnale endocrino (sintesi, immagazzinamento, secrezione)
- Modulazione della sintesi del recettore (down-regulation)
Questi due punti modulano le concentrazioni ormonali che saranno attive.
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- Modulazione della funzionalità del recettore (agonisti ed antagonisti): questo punto mima o abolisce
l’effetto ormonale. Gli antagonisti sono solitamente agonisti parziali o antagonisti allosterici che non
permettono più il riconoscimento del DNA.
MODULAZIONE DELLE RISPOSTE RECETTORIALI
Esistono fenomeni di adattamento recettoriale allo stimolo e al ligando; questi meccanismi possono essere di
adattamento fisiologico o farmacologico.
Adattamento fisiologico
Si ha quando esistono condizioni fisiologiche (o patologiche) che portano ad un riassetto sia della sensibilità
che del numero di recettori potenzialmente coinvolti.
- Modifica della sensibilità del recettore o del tessuto (tolleranza recettoriale): ne esistono diversi
esempi:
o Infarto o insufficienza cardiaca con attivazione prolungata del simpatico: si osserva un
aumento dei recettori beta-adrenergici e riduzione della capacità di trasdurre
o Ipersensibilità da denervazione della fibra muscolare: si osserva un aumento dei recettori
nicotinici di Ach
o I recettori del II tipo vanno incontro a un fenomeno di perdita di affinità per il ligando, di
ridotta attivazione delle proteine G o riduzione del numero di recettori.
o Tolleranza agli oppiodi: è dovuta a una differente capacità di trasdurre dei recettori delta e mu
del locus coeruleus e non dal loro numero. Si ha un disaccoppiamento funzionale del recettore
con la Gi. Si instaurano, contemporaneamente, meccanismi compensatori che determinano un
aumento del cAMP, con insorgenza di tolleranza e dipendenza. Se non si assumono oppioidi,
i livelli di cAMP diventano elevati.
La desensitizzazione può essere di due tipi: omologa (se è coinvolto un solo tipo recettoriale) o
eterologa (se vengono rese refrattarie anche altri vie recettoriali che utilizzano la stessa via di
trasduzione del segnale).
- Modulazione del numero (down-regulation): i meccanismi di down-regulation possono essere veloci
o lenti:
o Adattamento veloce dei recettori associati a G-protein: si ha una ridotta affinità per l’agonista
e disaccoppiamento più rapido con la subunità alfa. È un meccanismo trascrizionale che
prevede splicing alternativo del recettore
o Internalizzazione del recettore (veloce): il recettore va incontro a fosforilazione e
vacuolizzazione
o Blocco della trascrizione e sintesi del recettore (lento), dovuto a riassetto genomico.
Adattamento farmacologico
Si ha adattamento farmacologico quando l’agonista o l’antagonista porta al riassetto della sensibilità o del
numero dei recettori. Può anche essere dovuto ad alterazione persistente di una via endogena. Anche in questo
caso si osservano fenomeni di tolleranza recettoriale, oltre che tolleranza metabolica e tachifilassi:
- Tolleranza recettoriale: è dovuta all’adattamento dei sistemi recettoriali:
o Può manifestarsi in tempi lunghi o brevi
o È reversibile quando si termina la terapia
o Viene ridotta la capacità di trasduzione del segnale
o È poco soverchiabile aumentando la dose, in quanto porterebbe a down-regulation
Ha diversi rischi associati legati a:
o Dosi troppo alte di farmaco
o Possibile effetto rimbalzo alla sospensione della terapia (a causa di squilibri recettoriali)
o Possibile variazione della risposta a molecole endogene
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- Tolleranza metabolica: è dovuta a una variazione della capacità metabolica dell’organismo; in genere,
i sistemi enzimatici deputati alla clearance del farmaco aumentano, riducendo l’emivita del farmaco
stesso.
- Tachifilassi: è la scomparsa dell’effetto farmacologico dovuto a meccanismi differenti dal riassetto
recettoriale
o Si manifesta in tempi molto rapidi
o Può essere di tipo metabolico
o Può essere di tipo farmacocinetico
o Non è reversibile (il recettore è disattivato)
o Non è soverchiabile
o Può essere di tipo genetico
o Può essere farmacologica
POMPE E TRASPORTATORI
- Pompa Na+/K+ ATPasi: si occupa di mantenere in equilibrio elettrochimico il potassio e il sodio nelle
cellule. Permette quindi un controllo del volume cellulare, dell’eccitabilità della cellula ed è coinvolta
nella formazione di gradienti importanti per la vettorialità del trasporto. Essa è sostanzialmente un
antiporto, che consuma una molecola di ATP per ogni scambio (3 NA+ verso l’esterno, 2 K+ verso
l’interno). Sulla pompa agiscono farmaci come i digitalici, il cui effetto è il blocco della pompa, con
conseguente accumulo di sodio all’interno della cellula. Questo determina una riduzione della
funzionalità dello scambiatore Na+/Ca2+, con accumulo di calcio e aumento della forza di contrazione
della cellula muscolare. I digitalici, tuttavia, hanno una finestra terapeutica molto ridotta: le
concentrazioni terapeutiche bloccano solo circa il 20% delle pompe. Un blocco ulteriore determina
effetti tossici a livello cardiaco (con possibile blocco della funzionalità del cuore).
- Pompa protonica H+/K+: questa pompa è presente sulla membrana apicale delle cellule parietali della
mucosa gastrica. Se la cellula non è stimolata, la pompa è inattiva, inserita in strutture endocellulari.
In presenza, invece, di stimoli adeguati (recettori per gastrina, acetilcolina o istamina), la pompa viene
espressa in membrana, dove estrude ioni idrogeno in cambio di ioni potassio. La farmacologia di questi
trasportatori si basa su farmaci diretti o indiretti:
o Diretti (o irreversibili): sono pro-farmaci (come l’omeprazolo) che bloccano la subunità alfa
della pompa e ne inibiscono l’attività.
o Indiretti: sono in genere antagonisti recettoriali dell’istamina.
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- Antiporto Cl-/HCO3-: dipende sostanzialmente dalla concentrazione e tensione superficiale di CO2.
A livello polmonare, HCO3- entra nell’eritrocita con espulsione di cloro. Da HCO3- si forma CO2 e
H20 che vengono poi eliminati.
- Antiporto Na+/H+: a livello renale, serve per estrudere idrogeno in scambio con sodio (sodio che viene
poi immesso nel sangue in scambio con potassio) e, nel tubulo distale, è responsabile
dell’acidificazione delle urine. A questo livello possono agire i diuretici risparmiatori di potassio:
bloccano l’ingresso di sodio e la conseguente iperpolarizzazione riduce l’estrusione di potassio dalle
cellule tubulari, con conseguente suo passaggio nel sangue.
- P-glicoproteina ATPasi: è una proteina di membrana ubiquitaria e inducibile, che ha funzione di
detossificare le cellule, soprattutto da molecole idrofobiche e di espellere xenobiotici e metaboliti.
Inoltre, limita l’ingresso indiscriminato ed eccessivo di molecole nella cellula. È alla base della
resistenza ad alcuni antitumorali.
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TRASMISSIONE SINAPTICA
La comunicazione tra più neuroni o tra un neurone e una cellula bersaglio (cellula muscolare, cellula
ghiandolare, avviene tramite il rilascio di molecole chiamate neurotrasmettitori. La neurotrasmissione è
importante in quanto esistono tutta una serie di farmaci che vanno a modulare l’attività dei neuroni non solo
nel compartimento periferico ma anche nel compartimento centrale (se capaci, però, di passare la barriera
emato-encefalica): l’azione sulle vie di trasmissione permette di gestire tutta una serie di patologie.
In generale, i neurotrasmettitori:
- Sono molecole di piccole dimensioni
- Possono essere sintetizzate lontano dal Golgi
- Sono sintetizzati in prossimità del sito di rilascio
- Sono contenuti in vescicole, dove sono immagazzinate
- Sono molecole riciclabili
- Sono rilasciate in modo quantitativo (in pacchetti prestabiliti, o quanti)
Esistono dei criteri ben precisi affinché una molecola possa essere identificata in quanto neurotrasmettitore.
Infatti:
- La distribuzione non è uniforme o casuale, ma tipica di solo alcuni gruppi di neuroni
- Nel tessuto in cui il neurotrasmettitore viene rilasciato, nel SNC e nel SNP devono esserci anche gli
enzimi deputati alla sintesi e alla inattivazione del neurotrasmettitore stesso
- La liberazione avviene in seguito a stimolazione elettrica, in maniera proporzionale alla frequenza e
intensità degli stimoli e dipendente dagli ioni calcio
- Devono esistere, nel SNC o nel SNP, i recettori specifici per il neurotrasmettitore
- Gli agonisti del recettore riproducono l’attività del neurotrasmettitore, mentre gli antagonisti la
inibiscono
Questi criteri sono rispettati dalla maggior parte dei neurotrasmettitori ad oggi conosciuti, con l’eccezione di
alcuni peptidergici oppioidi e dei neurotrasmettitori a richiesta (NO e PG). Indipendentemente dal
neurotrasmettitore utilizzato, tutte le vie di trasmissione hanno una caratteristica comune: è la sommatoria
degli stimoli positivi e negativi (si parla di gestione eterologa pre-sinaptica: le altre vie nervose formano sinapsi
a livello del bottone pre-sinaptico e, tramite l’attivazione di G-protein, inducono stimoli positivi o negativi
sulla genesi del potenziale d’azione) provenienti dalle altre vie nervosa sul soma neuronale a determinare la
formazione (o meno) di un potenziale d’azione e quindi l’eventuale rilascio del neurotrasmettitore. Inoltre, il
soma non decide quanto neurotrasmettitore rilasciare; esso dipende, invece, dal contesto sinaptico del singolo
bottone pre-sinaptico: è il livello di calcio intracellulare a determinare quante vescicole devono fondersi con
la membrana e rilasciare neurotrasmettitore nello spazio intersinaptico.
Le vescicole contenenti il neurotrasmettitore vengono prodotte, vuote, a livello del soma, hanno una
dimensione costante e vengono caricate a livello del bottone sinaptico concentrando il neurotrasmettitore al
loro interno contro gradiente di concentrazione: il trasporto si basa su gradiente elettrico e/o di pH, generati
sfruttando specifiche pompe ATPasiche. Poiché questo determinerebbe un gradiente osmotico all’interno della
vescicola, i neurotrasmettitori vengono anche complessati con altre molecole, come ATP, Calcio,
peptidoglicani o cromogranine. Le vescicole contengono un numero costante di molecole (i pacchetti) che è
un multiplo finito di un quanto, corrispondente alla quantità minima di neurotrasmettitore capace di evocare
un potenziale in miniatura. In funzione dei quanti rilasciati (e quindi delle vescicole coinvolte), si osserverà
una maggiore o minore ampiezza della risposta. Spesso, inoltre, i neurotrasmettitori sono accumulati assieme
a co-trasmettitori (es. ATP) che hanno la funzione di modulare l’ampiezza e la durata della risposta del
neurotrasmettitore, attraverso recettori specifici presenti a livello pre- o post-sinaptico. Esistono farmaci capaci
di bloccare lo spostamento vescicolare o il loro riempimento bloccando le pompe: un esempio è rappresentato
dalle anfetamine.
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La liberazione delle vescicole ha tre caratteristiche peculiari:
- È rapida: il potenziale d’azione che raggiunge il bottone pre-sinaptico, se sufficientemente intenso,
fa aprire canali voltaggio-dipendenti e determina afflusso di ioni calcio, i quali determinano la fusione
delle vescicole con la membrana nel giro di µsecondi.
- È precisa: il rilascio è determinato quantitativamente da tutta una serie di meccanismi pre-potenziale:
il potenziale d’azione ha solo capacità scatenante mentre è la produzione di secondi messaggeri e la
fosforilazione del canale del calcio a determinare quanto calcio entra e quante vescicole si fondono.
- È difficilmente esauribile, in quanto
o Non dipende dalla sintesi centrale
o Esiste un’elevata riserva di vescicole
o I neurotrasmettitori vengono prodotti in loco, nel citoplasma della fibra pre-sinaptica
o Sia le vescicole (con tutte le proteine e pompe che la compongono) che il neurotrasmettitore
possono essere recuperati
o La ricarica delle vescicole avviene anch’essa in loco (meccanismo rapido e poco dispendioso)
Le vescicole sono presenti, a livello del bottone pre-sinaptico, in due distinte popolazioni:
- Ancorate in prossimità della membrana presinaptica (pool liberabile): sono le vescicole
immediatamente rilasciabili
- Complessate con una serie di proteine del citoscheletro nel citosol (pool di riserva)
Il potenziale d’azione che raggiunge il bottone fa aprire il canale del calcio, il quale, una volta entrato, forma
dei complessi con le strutture di ancoraggio delle vescicole (sinaptotagmina), provocando la fusione con la
membrana e il rilascio del neurotrasmettitore: in realtà, però, la fusione non è mai completa ma esistono
strutture, definite pori di fusione, che mantengono i confini e permettono il riciclaggio dell’intera struttura e
delle proteine ad essa associate.
Come detto, il rilascio delle vescicole viene determinato dai livelli di calcio; il singolo neurone può infatti
operare un potenziamento a breve termine della risposta, con conseguente una depressione a lungo termine,
dovuta ad esaurimento del pool di riserva: un’alta concentrazione di calcio in prossimità del canale determina
il rilascio del pool liberabile mentre un’alta concentrazione in tutto il citoplasma (dovuta a una continua
apertura dei canali del calcio o al rilascio del calcio dalle riserve cellulari per produzione di secondi
messaggeri) determina anche il reclutamento del pool di riserva.
In ogni caso, il neurotrasmettitore che viene rilasciato agisce sia su recettori pre-sinaptici (presenti sulla stessa
fibra che lo ha rilasciato) sia su recettori post-sinaptici (su una fibra differente).
Un particolare caso di sintesi è rappresentata dalle prostaglandine e dal nitrossido: nel momento in cui abbiamo
ingresso costitutivo di calcio nella sinapsi, abbiamo anche l’attivazione della cascata dell’acido arachidonico
(con conseguente produzione di PG) o della nitrossido sintasi neuronale ( con conseguente produzione di NO).
Essi sono definiti neurotrasmettitori a richiesta, in quanto non sono immagazzinati nelle vescicole (cosa anche
complicata per il NO, che è un gas diffusibile) ma al contrario vengono prodotti da enzimi sensibili al Ca2+
citoplasmatico. Questi neurotrasmettitori vanno ad agire a livello pre-sinaptico, modulando il reclutamento
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vescicolare ed essendo particolarmente importanti nella plasticità del SN, essendo capaci di produrre nuove
sinapsi.
La caratteristica principale della neurotrasmissione è che deve avere un inizio ed una fine: il neurotrasmettitore
viene prodotto localmente grazie agli enzimi appositi presenti nel bottone sinaptico e, una volta rilasciato nello
spazio intersinaptico, il neurotrasmettitore libero (quindi non legato al recettore) è passibile di catabolizzazione
o meccanismi di reuptake. Lo spegnimento del segnale può avvenire attraverso diversi meccanismi:
- Degradazione enzimatica (es. colinesterasi o monoammine ossidasi): nello spazio intersinaptico
esistono specifici enzimi deputati alla degradazione dei neurotrasmettitori: in genere, una parte della
molecola degradata viene recuperata dal neurone pre-sinaptico tramite specifici trasportatori e
utilizzata come substrato per riformare il neurotrasmettitore
- Ricaptazione: il neurone presinaptico può presentare anche specifici trasportatori capaci di recuperare
direttamente il neurotrasmettitore, che viene immesso nel citoplasma, dove può essere accumulato
nuovamente nelle vescicole o, se in eccesso, degradato. Un meccanismo di ricaptazione, importante
per lo spegnimento del segnale da GABA, Glu e Gly, avviene anche a livello della glia.
- Diffusione extrasinaptica: è un meccanismo che permette di ridurre la concentrazione sinaptica
diluendo il neurotrasmettitore negli spazi circostanti la sinapsi. In seguito a diffusione, si possono
verificare meccanismi di interazione con recettori su altre fibre, di degradazione o di ricaptazione da
parte della glia. In generale, il meccanismo è importante per la coordinazione di aree neuronali: in
seguito a stimolazione iniziale e con la diffusione, bastano basse concentrazioni di neurotrasmettitori
regolano la funzionalità di molte fibre.
Un altro importante meccanismo è la gestione autologa presinaptica: a livello presinaptico, infatti, troviamo
recettori per il neurotrasmettitore che permettono alla fibra di sapere quanto neurotrasmettitore è stato rilasciato
e di modulare, grazie al reclutamento di proteine G, l’apertura del canale del calcio e il rilascio del
neurotrasmettitore stesso.
Dal punto di vista farmacologico, possiamo modulare la risposta neuronale, ottenendo come possibili effetti:
- Aumento del rilascio di neurotrasmettitore
- Spegnimento del segnale
- Aumento del tempo di trasmissione del segnale
I farmaci ad oggi possono agire su:
- Movimento delle vescicole: farmaci che interferiscono con la formazione dei microtubuli o che ne
bloccano l’attività, impediscono il reclutamento, rilascio e riciclo delle vescicole. Bloccano anche
l’arrivo di nuove vescicole dal Golgi
- Sintesi e metabolismo: andando a ridurre l’attività sintetica, otteniamo un effetto inibitorio sul
rilascio. Questo può essere ottenuto tramite:
o Inibizione enzimatica, quindi bloccando uno degli enzimi responsabili della via sintetica
o Uso di falsi substrati, ovvero molecole che vengono riconosciute come veri substrati,
determinando la produzione di molecole con bassa affinità e che riducono la sintesi del vero
neurotrasmettitore, occupando gli enzimi e consumando i metaboliti. Un esempio tipico è la
tiramina, presente nel latte, formaggi, lievito e altri cibi: normalmente viene metabolizzata
dalle MAO intestinali ma, in presenza di inibitori delle MAO (IMAO), il livello plasmatico
della molecola cresce e raggiunge le sinapsi, dove compete e riduce la produzione di
noradrenalina. Si parla di “cheese reaction”.
- Degradazione: vengono bloccati gli enzimi deputati al catabolismo del neurotrasmettitore. Ad
esempio:
o Colinesterasi: inibitori della degradazione della Ach ne aumentano l’emivita a livello
intersinaptico. Particolarmente utili nella miastenia grave e nel glaucoma.
o MAO: gli IMAO aumentano la concentrazione di noradrenalina, dopamina e serotonina a
livello del SNC
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o GABA-transaminasi gliale: il blocco dell’enzima determina una saturazione del citosol di
GABA, che impedisce il reuptake del GABA stesso
- Immagazzinamento vescicolare: esistono farmaci capaci di bloccare il passaggio citoplasma-
vescicola del neurotrasmettitore.
o Reserpina: è una molecola capace di bloccare il trasportatore vescicolare di catecolamine e
serotonina, determinando un mancato reclutamento vescicolare e uno spegnimento della
risposta prolungata.
- Rilascio e ricaptazione: le diverse proteine coinvolte in questi processi possono essere modificate da
diverse molecole, impedendo il normale traffico vescicolare.
o Tossina botulinica: agice a livello della placca neuromuscolare, bloccando il rilascio di Ach e
inducendo paralisi flaccida
o Tossina tetanica: agisce a livello del midollo spinale, sugli interneuroni inibitori, impedendo
il rilascio di GABA e Gly ed inducendo paralisi spastica.
o α-latrotossina (veleno della vedova nera) e molecole simili agiscono invece sui canali del
calcio, determinandone l’apertura non selettiva; si osserva quindi esocitosi continua e non
coordinata con blocco contemporaneo dell’endocitosi: si va incontro a depauperamento
vescicolare e paralisi spastica.
- Modulazione pre-sinaptica: l’attivazione dei recettori pre-sinaptici determina una modulazione del
rilascio di neurotrasmettitore da parte della sinapsi. Possono essere:
o Autorecettori (si parla di omotropia o regolazione autotropa): sono recettori che legano lo
stesso neurotrasmettitore rilasciato dalla sinapsi. Si possono osservare due tipi di meccanismi:
A) Loop inibitorio, che limita il rilascio del neurotrasmettitore (accade ad esempio con il
GABAB o con i recettori alfa2)
B) Effetto facilitatorio, con potenziamento del rilasciamento del neurotrasmettitore (es.
recettori beta2)
o Eterocettori (eterotropia): sono recettori che legano altri neurotrasmettitori; in genere sono
associati a proteine G che regolano, tramite fosforilazione, il reclutamento vescicolare, la
sensibilità e la durata di apertura del canale del calcio, etc.
- Ricaptazione: farmaci che inibiscono la ricaptazione prolungano il tempo di permanenza del
neurotrasmettitore nello spazio sinaptico, aumentando quindi la durata dell’effetto. L’effetto
secondario è una rapida desensitizzazione, seguita da una down-regulation del numero di recettori.
Esistono due tipi di reuptake:
o Tipo 1, a livello presinaptico; inibitori del reuptake 1 sono ad esempio molti antidepressivi
(ma anche la cocaina, che aumenta l’effetto dell’adrenalina)
o Tipo 2, a livello postsinaptico
Esistono poi farmaci ad azione indiretta, che provocano la fuoriuscita del neurotrasmettitore dalla vescicola al
citoplasma: si ha fuoriuscita del neurotrasmettitore dovuta al trasportatore che lavora al contrario.
Appartengono a questa categoria anche alcune droghe, come anfetamina ed efedrina.
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TRASMISSIONE COLINERGICA
L’acetilcolina (Ach) è, insieme all’istamina, un neurotrasmettitore molto antico dal punto di vista
evoluzionistico e molto conservato, potendo essere trovato in praticamente tutti gli esseri viventi. L’Ach
interviene in tutta una serie di funzioni fisiologiche e i suoi recettori sono presenti in diverse sedi
dell’organismo, cosa che rende complicata una terapia selettiva. Recettori per l’acetilcolina sono presenti sia
in centro (recettori centrali) sia in periferia (recettori periferici)
TRASMISSIONE COLINERGICA PERIFERICA
Il sistema colinergico periferico si basa sulla presenza di una serie di recettori differenti sia per funzione che
per localizzazione. Distinguiamo, quindi:
- AchR nicotinico muscolare (Nm), localizzato tra le terminazioni dei motoneuroni spinali e le cellule
muscolari striate (a livello quindi della placca neuromuscolare)
- AchR nicotinico gangliare (Ng), localizzato tra le fibre nervose del nervo splancnico che innervano
la ghiandola surrenale e le cellule della midollare del surrene (agendo sul rilascio di catecolamine) e a
livello delle giunzioni gangliari del simpatico e del parasimpatico: poiché, generalmente, simpatico e
parasimpatico esercitano un effetto opposto, sarà difficile ottenere un qualsiasi effetto agendo sul
AchR Ng, in quanto gli effetti determinati dai due sistemi si bilancerebbero e la risultante sarebbe
praticamente nulla.
Sia il nicotinico muscolare che il nicotinico gangliare sono recettori ionotropi, che si differenziano, oltre
che per la localizzazione anatomica, per le subunità differenti. In quanto recettori ionotropi, essi agiscono
variando il potenziale di membrana, modificando il trasnito di ioni Na+ e K+ in entrata e in uscita. Essi
determinano quindi la mobilizzazione di calcio all’interno della fibra muscolare in seguito a variazione del
potenziale (nicotinico muscolare) e lo scatenarsi di potenziali d’azione (e quindi l’attivazione) nella fibra
post-gangliare (nicotinico gangliare).
- AchR muscarinico (M1-M5), localizzato
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o Alla giunzione tra le fibre del parasimpatico postgangliare e le cellule effettrici (cellula
ghiandolari, muscolari lisce e pace-maker)
o Alla giunzione tra le fibre del simpatico postgangliare e le ghiandole sudoripare
o Alla giunzione ghiandolare del sistema neurovegetativo
È anche responsabile del rilascio di NO da parte delle cellule endoteliali, inducendo vasodilatazione
indiretta. Il recettore muscarinico, invece, è un recettore metabotropo, ovvero è accoppiato a proteine G
e si occupa della modulazione di sistemi (gestisce la funzione ghiandolare, muscolare – come la peristalsi
– e vascolare).
Dal punto di vista terapeutico, ciò che è possibile fare è differente tra i diversi tipi di recettori:
- Nicotinico gangliare: poiché i recettori di questo tipo sono condivisi tra simpatico e parasimpatico, sia
l’attivazione che l’inibizione del recettore non porterebbe ad alcun effetto, per gli eventi opposti che
nascono dal simpatico e dal parasimpatico che si bilancerebbero. È possibile una terapia mirata sul
nicotinico gangliare, ma trova applicazione solo nella pratica chirurgica e non è adatta alla terapia
domiciliare.
- Nicotinico muscolare: poiché presente in ogni placca neuromuscolare, una stimolazione diretta del
recettore o un aumento del rilascio del neurotrasmettitore porterebbero a una attivazione
contemporanea di tutte le placche, con conseguente sviluppo di tetanismo. Senza considerare che non
possiamo somministrare acetilcolinadirettamente, in quanto viene degradata prima di raggiungere il
sistema nervoso da acetilcolinesterasi plasmatiche. È possibile, tuttavia, andare ad agire su due livelli
differenti:
o Degradazione dell’Ach, tramite somministrazione di inibitori dell’acetilcolinesterasi, che
permettono una normalizzazione della contrazione muscolare volontaria.
o Blocco del recettore attraverso
A) Antagonisti competitivi dell’Ach (come il curaro)
B) Agonisti che sovrastimolano il recettore e ne determinano il blocco (questo presenta
comunque un pericolo, in quanto si può andare incontro al blocco del diaframma e
quindi blocco respiratorio)
- Muscarinico: possiamo somministrare antagonisti che vanno a rimediare a tutta una serie di patologie
in cui osserviamo attivazione del parasimpatico; sono ad esempio antagonisti del muscarinico:
o Antiasmatici
o Atropina (in genere somministrata loco-regionalmente, per evitare importanti effetti sistemici)
TRASMISSIONE COLINERGICA CENTRALE
Il sistema colinergico centrale origina da gruppi di neuroni colinergici localizzati in tre aree principali: nucleo
basale del setto, nuclei bulbari e nuclei del caudato. L’acetilcolina, a livello centrale, è mediatore di:
- Attivazione corticale e trasmissione talamo-corticale nel cervello anteriore; la degenerazione di questo
sistema porta a demenza senile, parkinsoniana, alcolica o traumatica.
- Regolazione dei movimenti attraverso la via extrapiramidale (nei nuclei del caudato e nel putamen);
la mancata regolazione negativa da parte di neuroni dopaminergici di questa via determina iperattività
dei neuroni colinergici, con conseguente rigidità e tremori (come nel Parkinson).
- Regolazione della secrezione dell’ormone della crescita (neuroni colinergici del nucleo arcuato)
In generale, la trasmissione colinergica è implicata nei processi fisiologici:
- Cognitivi (acquisizione, accumulo e richiamo di informazioni)
- Di regolazione cardiovascolare e della pressione arteriosa
- Di secrezione ormonale e gastrica
- Di movimenti volontari
- Del sonno
- Delle percezioni
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- Del tono, umore e affettività
Le afferenze del colinergico centrale, quindi, sono ubiquitarie; trattare quindi patologie in cui è coinvolta la
trasmissione colinergica centrale rappresenta un problema per il coinvolgimento di tutta una serie di funzioni
basali. Anche a livello centrale si identificano recettori nicotinici (differenti dai periferici, nella conformazione
(alfa7)5 o (alfa4)2(beta2)3, definiti nicotinici neuronali propriamente detti) e muscarinici.
SINTESI DELL’ACETILCOLINA
La base di partenza è rappresentata dalla colina presente nel plasma e nei liquidi extracellulari, a sua volta
derivante dalla fosfatidilcolina assunta attraverso la dieta. Esistono meccanismi omeostatici molto precisi il
cui scopo è mantenere la concentrazione plasmatica della colina a 10 µM: per l’esistenza di questo controllo,
è difficile aumentare la quota di colina circolante. Per produrre acetilcolina, occorre anche acetil-CoA, che è
necessario per il legame dell’acetato alla colina e viene prodotto a livello mitocondriale attraverso il
metabolismo del glucosio e del piruvato.
L’enzima responsabile di catalizzare la sintesi di Ach è la colina-acetiltransferasi (CAT), che produce Ach a
partire da colina e acetil-CoA a livello del citoplasma sinaptico, secondo la reazione:
𝑐𝑜𝑙𝑖𝑛𝑎 + 𝑎𝑐𝑒𝑡𝑖𝑙 − 𝐶𝑜𝐴 → 𝐴𝑐ℎ
La sintesi di questo enzima è controllata dagli ormoni tiroidei, dagli estrogeni e dal NGF; tutti e tre possono
aumentarne la sintesi. L’enzima è estremamente importante per riciclare la colina che raggiunge il neurone e
continuare a produrre Ach: esso rappresenterebbe un cattivo bersaglio farmacologico, in quanto bloccandone
l’attività porterei l’organismo a una completa e generalizzata deplezione di Ach.
All’interno delle vescicole, Ach è spesso associata all’ATP, la quale da un lato riduce la pressione osmotica
della vescicola e, dall’altro, funziona da co-trasmettitore dell’Ach, potenziando e prolungando l’attività
dell’Ach stessa legandosi a recettori post-sinaptici di prolungamento (può però anche legarsi a recettori pre-
sinaptici negativi).
SPEGNIMENTO DEL SEGNALE
Dopo il rilascio vescicolare, il segnale mediato dall’acetilcolina viene spento per degradazione enzimatica
mediata dall’enzima acetilcolinesterasi (AchE). Questo
enzima si trova legata alla membrana basale della sinapsi,
ma può anche essere presente in forma libera (solubile)
nello spazio intersinaptico: quest’ultima viene prodotta dai
neuroni stessi e rilasciata all’esterno. L’enzima permette,
da un lato, di mantenere sempre attiva la sintesi di Ach
(fornendo continuamente colina) e, dall’altro, ne regola la
concentrazione plasmatica.
L’enzima ha un’elevata processività e consiste in una serina
idrossilasi: la sua azione enzimatica funziona in due step,
grazie alla presenza di due tasche di legame: una in cui
viene legata la serina (sito catalitico) e una per il
glutammato (sito anionico). Nella prima tasca si lega anche
la colina (e l’eventuale antagonista) mentre la seconda lega
l’acetato (o la pralidossima, che è un “riattivatore”
dell’enzima).
Esistono altri enzimi in grado di idrolizzare il
neurotrasmettitore al di fuori della sinapsi e a livello
tissutale e plasmatico. In particolare, troviamo la butirrocolinesterasi (o butirrilcolinesterasi), conosciuta anche
come pseudocolinesterasi (BuChE): questo enzima ha una vasta distribuzione tissutale, essendo presente in
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fegato, cute, cervello, muscolatura liscia gastrointestinale; inoltre è presente, in forma solubile, nel plasma.
Questo enzima è il responsabile dell’impossibilità di somministrare direttamente Ach come farmaco anche se
è meno specifico dell’AchE, potendo metabolizzare anche altre molecole.
Gli enzimi che degradano l’acetilcolina sono alcuni dei bersagli farmacologici della trasmissione colinergica;
in genere vengono inibiti quando la trasmissione non è sufficiente perché non è sufficiente la quantità di Ach
oppure quando il numero di recettori è ridotto e occorre una stimolazione continua. Vi sono tre categorie di
farmaci anticolinesterasici, il cui effetto è aumentare l’emivita dell’Ach a livello dello spazio sinaptico,
prolungando e potenziando la stimolazione:
- Anticolinesterasici reversibili a breve durata d’azione: hanno in genere pochi utilizzi. L’edrofonio
è quello più utilizzato, soprattutto per la diagnosi di miastenia grave: si osserva un miglioramento della
contrattilità muscolare.
- Anticolinesterasici reversibili a media durata d’azione: esistono diverse molecole, con utilizzi
differenti, che rallentano l’attività enzimatico in maniera reversibile. In particolare:
o Neostigmina viene utilizzata dagli anestetici per antagonizzare il blocco neuromuscolare da
farmaci non depolarizzanti alla fine degli interventi chirurgici
o Fisostigmina viene usata per il trattamento locale del glaucoma
o Piridostigmina viene usata per il trattamento della miastenia grave
o Tacrina viene usata per il tattemtno della progressione dell’Alzheimer
- Anticolinesterasici a lunga durata o irreversibili (tossici): sono attivi sia su AchE che su BuChE.
Sono composti del fosforo pentavalente (organofosforici) che vennero inizialmente usati come gas
bellici o pesticidi. Formano legami irreversibili con l’enzima, ma solo dopo molto tempo (sono infatti
reversibili nelle prime 2-4 ore). Questi farmaci possono anche passare la barriera emato-encefalica
determinando importanti effetti anche a livello centrale. La pralidossima rappresenta l’antidoto contro
questi anticolinesterasici, in grado di scalzare queste molecole dall’enzima ma solo se usato entro
breve tempo: funziona inoltre solo se l’inibitore si è legato solo alla prima tasca e non alla seconda,
dove si lega la pralidossima stessa. Si viene a formare una molecola di coniugazione pralidossima-
organofosforico che si stacca e libera l’enzima. Se si aspetta troppo tempo dopo l’intossicazione,
l’inibitore si lega anche alla seconda tasca ed il legame diventa irreversibile.
Gli anticolinesterasici hanno effetto su:
- Sinapsi colinergiche autonome, determinando un aumento dell’attività colinergica nelle sinapsi post-
gangliari del parasimpatico. Osserviamo quindi:
o Secrezione ghiandolare
o Secrezione lacrimale
o Secrezione bronchiale
o Secrezione gastrointestinale
o Blocco dell’accomodazione della visione vicina
o Caduta della pressione intraoculare.
Dosi elevate determinano un aumento dell’Ach nel plasma, con conseguente bradicardia, ipotensione
e difficoltà respiratoria.
- Giunzione neuromuscolare, determinando un aumento dello stimolo contrattile: si ha un’attività
elettrica ripetitiva dovuta all’attività prolungata delle molecole di Ach che produce un treno di
potenziali d’azione. L’utilizzo di un anticolinesterasico in presenza di un antagonista competitivo del
recettore della placca (curarico) permette un maggior tempo di permanenza a livello sinaptico di Ach
che compete con il curarico, lo spiazza e ripristina la contrazione.
Dosi elevate causano una forte contrazione muscolare e paralisi: l’antidoto consiste nella trasfusione
di plasma con elevate quantità di AchE e BuChE.
- Sistema nervoso centrale, determinando confusione, convulsioni, depressione, incoscienza e
inibizione della respirazione. Questi effetti sono dovuti alla capacità degli organofosforici di passare
la barriera emato-encefalica e sono legati ai recettori muscarinici. A livello periferico, gli
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organifosforici possono determinare effetti tossici con demielinizzazione del nervo periferico (che
sembra, però, dovuta più all’inibizione di esterasi specifiche per la mielina piuttosto che al blocco di
AchE).
REGOLAZIONE FARMACOLOGICA DELLA TERMINAZIONE COLINERGICA
- Vesamicolo: inibisce il riempimento vescicolare di Ach, in quanto blocca il trasportatore che pompa
Ach nella vescicola stessa.
- Emocolinio: inibisce il trasportatore della colina, andando quindi a inibire il riciclo vescicolare
- Tossine botuliniche: delle tre tossine, la C è la più utile; le tossine botuliniche tagliano le proteine di
ancoraggio delle vescicole; la somministrazione sistemica determina blocco generalizzato dell’attività
colinergica mentre somministrandole loco-regionalmente possono trovare alcuni utilizzi terapeutici.
MODULAZIONE DELLA TRASMISSIONE COLINERGICA
Il rilascio di Ach viene modulato dall’esistenza di autorecettori ed eterorecettori presinaptici, presenti in gran
numero ma differenti a seconda del distretto anatomico; essi fanno parte di complesse reti interneuronali. Gli
autorecettori possono limitare (muscarinici) o rinforzare (nicotinici presinaptici) il segnale e quindi il rilascio
di Ach indotto da depolarizzazione, tramite meccanismi di feedback negativo o positivo. Per quanto riguarda
la regolazione eterotropa, individuiamo:
- Eterorecettori presinaptici negativi, che inibiscono i neuroni colinergici:
o 5-HT1 e 5-HT2
o GABAA
o Alfa2-adrenergico
o A1-adenosinico (P1): sono recettori che riconoscono l’adenosina derivata dalla degradazione
dell’ATP rilasciata assieme all’Ach
- Eterorecettori presinaptici positivi, che attivano i neuroni colinergici:
o D1
o NMDA
o Sostanza P
Inoltre, come già visto, il segnale dell’Ach viene potenziato dall’ATP, che si lega a recettori post-sinaptici P2.
RECETTORI NICOTINICI, AGONISTI E ANTAGONISTI
Sono recettori per l’Ach localizzati nelle giunzioni neuromuscolari, nei gangli, nelle cellule cromaffini e nel
SNC. Sono distinti in:
- Nm, nicotinico muscolare
È presente sulla membrana postsinaptica della placca neuromuscolare ed è un recettore canale. È costituito da
5 subunità: α, β, δ, ε (oppure γ) presenti in rapporto di 2:1:1:1. La subunità α riconosce il ligando, gli antagonisti
e gli agonisti.
Dal punto di vista farmacologico, sul nicotinico muscolare agiscono i miorilassanti, farmaci che determinano
blocco della contrazione; si distinguono due tipi di bloccanti neuromuscolari:
Depolarizzanti: sono farmaci agonisti (come la succinilcolina, o sussametonio) che stimolano il recettore;
essi, tuttavia, vengono metabolizzati più lentamente dell’Ach e restano legati al recettore, determinando
desensitizzazione e impedendo l’ulteriore legame di Ach. Il sussametonio, tuttavia, può provocare
bradicardia, aritmie cardiache legate al rilascio di K+, aumento della pressione endoculare e ipertermia
maligna.
Non depolarizzanti: sono farmaci antagonisti (curarici, come la tubocuranina) che competono con l’Ach
per il legame al recettore. I curarici possono tuttavia causare blocco gangliare, liberazione di istamina, con
conseguente ipotensione e broncocostrizione.
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Abbiamo inoltre farmaci colino-mimetici indiretti (vedi colinesterasici) e diretti (nicotina).
- N, neuronale centrale, e Ng, nicotinico gangliare.
Consistono anch’essi in pentameri, costituiti però da due subunità α e tre subunità β. I recettori neuronali
possono essere presenti nella forma α4β2 oppure α7 (recettore particolare, in quanto è un canale del calcio che
va a modulare in senso positivo il rilascio vescicolare), mentre i recettori gangliari sono presenti come α3 β4.
Sono recettori sia pre- che post-sinaptici.
A livello gangliare troviamo due categorie di farmaci differenti:
Stimolanti gangliari: essi comprendono la nicotina e il DMPP, che esercitano effetti positivi sia sui gangli
simpatici che parasimpatici, determinando effetti complessi quali: tachicardia e aumento della pressione
arteriosa, effetti variabili sulla motilità e secrezione gastrointestinale, aumento delle secrezioni bronchiali,
salivari e sudoripare. La nicotina esercita effetti anche sul SNC. Queste molecole, tuttavia, non trovano
applicazioni terapeutiche.
Bloccanti gangliari: comprendono l’esametonio, trimetafano, tubocurarina (e nicotina: dopo la
stimolazione gangliare infatti si può osservare blocco da depolarizzazione). Questi farmaci bloccano tutti
i gangli autonomi ed enterici, determinando: ipotensione e perdita dei riflessi cardiovascolari, inibizione
della secrezione, paralisi gastrointestinale e inibizione della minzione.
RECETTORI MUSCARINICI, AGONISTI E ANTAGONISTI
A differenza dei recettori nicotinici, che sono ionotropi, i recettori muscarinici sono metabotropi, quindi
accoppiati a proteine G. sono localizzati negli organi innervati dal parasimpatico (sono quindi gli effettori del
parasimpatico), nei gangli simpatici e nel SNC (aree corticali, corpo striato e aree antiche dell’encefalo come
ipotalamo e talamo). Sono i recettori più importanti dal punto di vista terapeutico. Esistono diversi sottotipi:
- M1, 3, 5 stimolano la fosfolipasi C mediante l’accoppiamento a una proteina Gq
- M2,4 inibiscono invece l’adenilato ciclasi mediante Gi. Possono anche aprire canali del K+ in maniera
indiretta attraverso G0: l’uscita di K+ nelle cellule pace-maker provoca depolarizzazione indotta da
corrente di ingresso del Na+ e diminuisce la conduttanza al Ca2+.
Si distinguono tra di loro per la localizzazione anatomica:
- M1: sono soprattutto a livello neuronale: li troviamo a livello della CTZ (chemioreceptor trigger zone,
connessa con i centri del vomito), in aree meso-limbiche e -corticali e in parte anche nella corteccia.
Inoltre li troviamo a livello gastrointestinale.
- M2: localizzati a livello atriale (soprattutto nodo SA) e associati al vago
- M3: localizzati a livello gastrointestinale e sono legati alla secrezione del muco e in parte di HCl. Sono
inoltre coinvolti nel coordinamento della peristalsi.
- M4: localizzati a livello polmonare
- M5: localizzati a livello del muscolo ciliare e dell’iride. Insieme a M1 e M3 gestisce la contrazione
dei muscoli oculari.
In realtà, però, i recettori muscarinici sono ubiquitari (anche se, in alcune zone, prevalgono alcuni sottotipi
piuttosto che altri).
A livello centrale, sono coinvolti con la gestione della memoria e attività basali (regolazione del simpatico,
secrezione attività metabolica); sono maggiormente coinvolti nella demenza senile e parkinsoniana.
Dal punto di vista farmacologico, le terapie si concentrano soprattutto a livello del polmone e del cuore:
- Livello polmonare: i recettori muscarinici (soprattutto M1 e M3) sono coinvolti nella
broncocostrizione, nella produzione di muco e nella formazione di edema. In questo frangente, agisce
un farmaco per la gestione dell’asma, l’ipratropio bromuro, che viene somministrato per via loco-
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regionale permettendo di ottenere rilassamento bronchiale e riduzione della produzione di muco. I
beta2 agonisti (come il Salbutolo) non hanno invece attività sulla secrezione bronchiale ma solo sulla
dilatazione.
- Livello cardiaco: possiamo usare farmaci che agiscono sui recettori M2, andando a modificare
l’attività soprattutto atriale con riduzione della frequenza e contrazione cardiaca.
Possiamo anche avere interventi a livello di:
- Vescica: con iniezioni di tossina tetanica possiamo gestire fenomeni contrattivi della vescica.
- Occhio: possiamo intervenire sulla contrazione pupillare a scopo diagnostico, chirurgico e per la
gestione del glaucoma (stimolando i recettori muscarinici, determiniamo un aumento del drenaggio
dell’umor acqueo e riduciamo anche la pressione endoculare).
In generale, abbiamo sia farmaci agonisti che antagonisti:
- Agonisti muscarinici: i più importanti sono l’acetilcolina, la muscarina e la pilocarpina. Differiscono
per la selettività recettoriale e per la sensibilità alla colinesterasi. Gli effetti principali consistono in:
bradicardia e vasodilatazione, contrazione della muscolatura liscia viscerale, stimolazione delle
secrezioni esocrine, costrizione pupillare e contrazione del muscolo ciliare.
- Antagonisti muscarinici: i più importanti sono atropina, scopolamina e ipratropio. Gli effetti principali
sono: inibizione delle secrezioni, tachicardia, midriasi e paralisi dell’accomodazione, rilasciamento
della muscolatura liscia, inibizione della secrezione acida gastrica. Hanno anche effetti centrali,
specialmente antiemetico e antiparkinsoniano.
TRASMISSIONE PURINERGICA
La trasmissione purinergica riguarda le purine e, in particolare, l’adenosina (A) e l’adenosina trifosfato (ATP):
entrambe le molecole presentano sia attività periferiche che attività centrali. A livello sinaptico, queste due
molecole hanno attività di neurotrasmettitore (in realtà è più un’attività di co-trasmettitore, associati spesso a
noradrenalina e Ach, ma anche DA, 5-HT, amminoacidi eccitatori e peptidi) e di neuromodulatori (sinapsi
differenti da quelle che li hanno rilasciati). La funzione di co-trasmettitore si può verificare sia a livello pre-
sia post-sinaptico:
- A livello pre-sinaptico, svolgono un controllo negativo sul rilascio vescicolare, inibendolo
- A livello post-sinaptico, invece, potenziano e prolungano la risposta del neurotrasmettitore a cui erano
associati: gestiscono in senso positivo la risposta
Anche i metaboliti dell’ATP (ADP e AMP) sono attivi sugli stessi recettori di A e ATP. La liberazione dei
neurotrasmettitori avviene sempre per depolarizzazione mentre lo spegnimento del segnale avviene sia per
degradazione enzimatica (presenza dell’enzima adesonisa deaminasi – ADA –) sia per ricaptazione (inibita dal
dipiridamolo).
ATP e adenosina non hanno però solo funzione a livello neuronale, ma vengono rilasciate anche da altre
cellule, che le rilasciano nel plasma:
- Cellule endoteliali
- Globuli rossi
- Piastrine (ADP media l’aggregazione)
- Cellule in carenza energetica o in ipossia/ischemia; le purine mediano i meccanismi di “salvataggio”
che permettono di riattivare la funzionalità cellulare e, a livello cardiaco, gestiscono il consumo di O2
(diventano quindi coinvolte nel danno da riperfusione, fornendo ossigeno al tessuto ischemico). In
particolare, l’interazione con i recettori A1 e A2A permette di gestire il consumo di O2 e la quantità
intracellulare di ATP in relazione alla condizione.
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Vengono anche rilasciate in risposta al danno o in seguito alla morte cellulare.
RECETTORI PURINERGICI
I recettori purinergici vengono indicati con la sigla P: ne esistono essenzialmente di due tipi, P1 e P2, che si
distinguono per la suscettibilità differente alle due purine.
- Recettori P1
Sono tipicamente recettori per l’adenosina e non riconoscono l’ATP. Ne esistono di due tipi principali, A1 e
A2 (ma sembra esistere anche il tipo A3).
I recettori A1 sono localizzati a livello:
Delle cellule del tronco respiratorio bronchiale
Del SNC
Renale
Gastrointestinale
Cardiovascolare
Del sistema immunitario (infatti, una deficienza di ADA, porta a immunodeficienza)
Questi recettori sono associati a Gi/G0 e inibiscono l’adenilato ciclasi; inoltre modulano l’attività della PLC e
i canali ionici per Ca2+ e K+. I principali farmaci che utilizziamo in questo ambito sono a livello respiratorio
e cardiovascolare.
I recettori A2, invece, sono molto diffusi a livello periferico; ne esistono di due sottotipi, A2A e A2B, entrambi
accoppiati a Gs. Essi sono coinvolti nella regolazione del flusso coronarico (2A), determinano vasodilatazione
dei vasi centrali (2B), sono responsabili di ipotensione e sono regolatori del rilascio di citochine.
L’attività dei recettori A3, invece, è legata all’associazione con Gi/Gq. Le loro funzione e localizzazione non
sono state ancora completamente chiarite, anche se sono presenti a livello polmonare e del SNC. Sembrano
coinvolti nella vasodilatazione coronarica, nella protezione dal danno ipossico e riperfusivo e attivano le
mastcellule.
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- Recettori P2
I recettori P2, invece, sono tipicamente recettori dell’ATP, potendo comunque riconoscere anche i derivati
(AMP, ADP) anche se con un riconoscimento parziale e solo in alcune specifiche aree. Esistono due sottotipi
differenti e la distinzione è basata sul meccanismo d’azione:
P2X1-8 (prima conosciuti come P2Z e P2X), che sono recettori canale. Sono permeabili a ioni Ca2+, Na+,
K+ e sono presenti sia a livello centrale che a livello periferico. P2X7 è permeabile agli ioni Na+ e presente
soprattutto a livello dei macrofagi e dei mastociti, sembrando essere coinvolto nella loro degranulazione
(coinvolto quindi in asma e infiammazione). Dal punto di vista farmacologico, tuttavia, non abbiamo
ancora farmaci.
P2Y1-14 (prima conosciuti come P2Y, P2U, P2T, P2D), che invece sono recettori metabotropi. Sono tutti
accoppiati a Gi e Gq e capaci di attivare la fosfolipasi A2 e C. sono presenti a livello del SNC, ma anche
di rene, piastrine, pancreas, fegato ed endotelio. In particolare, essi sono coinvolti nel rilascio di NO, il
quale media la vasodilatazione conseguente all’ischemia per riperfondere l’organo. Inoltre, mediano la
chemiotassi e la produzione di citochine. A questo livello, particolarmente importante è il recettore P2Y12,
presente sulle piastrine: in tempi recenti, infatti, sono stati scoperti due nuovi farmaci che andranno a
sostituire i cumarinici nella terapia antiaggregante. Questi farmaci sono il clopidrogel e la ticlopidina:
entrambi hanno una finestra terapeutica ampia e sono antagonisti irreversibili del P2Y12, impedendo
quindi alle piastrine di legare GP2b/3a e di aggregarsi. Questi due nuovi farmaci presentano importanti
vantaggi:
o Sono antagonisti non competitivi
o Hanno una finestra terapeutica ampia
o Hanno pochi effetti collaterali
o Hanno un meccanismo irreversibile alternativo all’aspirina (che blocca la COX1, impedendo la
produzione di trombossano) ma senza i suoi rischi; possono quindi essere usati in alternativa
all’aspirina quando il paziente si mostra resistente (per eventuali mutazioni della COX)
o Evitano che il paziente si sottoponga costantemente a dosaggi plasmatici (cosa che accade usando
i cumarinici come il Warfarin)
o Riducono l’insorgenza di emorragie spontanee.
FARMACOLOGIA DEI RECETTORI PURINERGICI
- A livello cardiaco
I recettori A1 mediano l’effetto inotropo, dromotropo e cronotropo negativo. L’adenosina può quindi essere
usata come farmaco per il trattamento delle aritmie sopra-ventricolari, anche in situazioni di urgenza.
L’adenosina ha anche effetto di:
Depressione dell’attività cardiaca, in quanto riduce l’attività dei seni atriali (e quindi la genesi
dell’impulso)
Inibizione della conduzione atrio-ventricolare (e quindi della conduttanza dell’impulso): in questo senso,
l’adenosina aumenta la sincronicità e ha quindi un effetto anti-aritmico, ma riduce anche la trasmissione
degli impulsi ectopici.
- A livello vascolare
I recettori purinergici hanno un effetto vasodilatatore diretto (A1) o indiretto (A2) tramite la liberazione di NO.
L’adenosina può favorire la perfusione vascolari in condizioni ischemiche. Inoltre, può essere usata per inibire
l’aggregazione piastrinica (recettori A2A) e migliorare di conseguenza il quadro ischemico del paziente.
- A livello nervoso centrale
Dal punto di vista farmacologico, l’adenosina non può essere usata direttamente, in quanto ha effetti di
inibizione pre-sinaptica, facilitazione post-sinaptica e neuroprotezione “rescue” (gestione del potenziale della
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fibra). Questi effetti, tuttavia, giustificano l’attività centrale di alcuni farmaci antagonisti dei recettori A1 e A3
(i quali hanno effetto sedativo-ipnotico, anticonvulsivante, ansiolitico, inibitorio del rilascio di DA a livello
striatale, cosa che peggiora il quadro parkinsoniano).
- A livello respiratorio
I recettori A1 hanno un’attività asmogena, in quanto inducono broncocostrizione e broncospasmo in seguito a
degranulazione dei mastociti (recettori A3). L’adenosina induce degranulazione e rilascio di istamina dai
mastociti e basofili (mediata anche da P2Z) e rilascio di Ach dalle terminazioni vagali (mediata anche da P2X)
determinando il quadro tipico dell’asma. Farmaci efficaci in questo senso sono le metilxantine (antagonisti
alcaloidi) come la caffeina, la teobromina e la teofilina: questi farmaci hanno effetti periferici e centrali
importanti, ma dose-dipendente (la caffeina ha effetti di neurostimolazione ma solo a grandi dosi). Hanno
un’emivita molto lunga e possono quindi indurre effetti duraturi e cumulativi.
La teofilina, in particolare, viene usata per la gestione dell’asma, ostacolando la degranulazione mastocitaria
ma agendo anche direttamente sulle miofibre bronchiali, inducendo broncodilazione. Può essere quindi usata
sia in emergenza che con somministrazioni croniche per ridurre la suscettibilità mastocitaria. La teofilina, e le
metilxantine in generale, gestiscono l’attività delle fosfodiesterasi (PDE) che degradano il cAMP in 5’–AMP:
il blocco delle PDE permette un prolungamento dell’attività della chinasi PKA, determinando quindi un effetto
di broncodilatazione. L’attività delle metilxantine è sinergica con i beta2agonisti.
TRASMISSIONE CATECOLAMINERGICA
La trasmissione catecolaminergica riguarda le catecolamine, in gruppo di molecole accomunate dallo stesso
anello catecolaminico. La presenza dello stesso anello determina che queste molecole (adrenalina,
noradrenalina e dopamina) sono caratterizzate da una via biosintetica e degradativa comuni.
DIFFERENZE ANATOMICHE TRA SIMPATICO E PARASIMPATICO
Esistono importanti differenze anatomiche tra simpatico e parasimpatico:
- Innanzitutto presentano un tipo di innervazione (e quindi di funzione) diverso:
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o Il simpatico ha un’attività di modulazione di sistemi piuttosto che di singoli organi; esso
modula quindi più funzioni contemporaneamente (es. la stimolazione del simpatico modula
l’attività cardiaca in toto, quindi frequenza, contrazione, conduttanza, etc)
o Il parasimpatico, invece ha un’attività diretta su un singolo tessuto: il ganglio parasimpatico,
infatti, si trova in prossimità del tessuto che deve controllare e la fibra post-gangliare è molto
breve. Il parasimpatico, quindi, non coordina sistemi ma singola funzioni.
Le funzioni che vengono modulate da simpatico e parasimpatico sono funzioni pre-esistenti: il sistema
nervoso autonomo, quindi, modula ad esempio la secrezione ghiandolare, ma non la produzione delle
molecole, così come modula l’attività già presente del cuore, senza indurla.
- Presentano anche un’organizzazione a livello cellulare differente:
o Nel simpatico, i corpi cellulari colinergici dei neuroni pregangliari sono localizzati a livello
della sostanza grigia intermedio-laterale del midollo spinale da T1 a L2. Questi neuroni
intervengono su funzioni cardio-vaso-motorie.
o Nel parasimpatico, i corpi cellulari dei nervi colinergici sono localizzati nella parte bassa del
tronco encefalico (mesencefalo e midollo allungato) e nella porzione sacrale del midollo, tra
S2 e S4. A questo si aggiungono i nervi oculomotori, facciali, glossofaringei e vaghi.
In generale, tutte le fibre pre-gangliari immagazzinano e rilasciano acetilcolina, sia se appartenenti al simpatico
sia se appartenenti al parasimpatico. Le fibre post-gangliari, invece, possono immagazzinare o acetilcolina o
noradrenalina o adrenali. Le fibre post-gangliari, quindi, sono colinergiche o adrenergiche.
- Sonno fibre colinergiche (oltre alle pre-gangliari dirette a tutti i gangli del SNA e alla midollare del
surrene)
o Fibre parasimpatiche post-gangliari agli organi effettori
o Fibre simpatiche post-gangliari dirette alle ghiandole sudoripare
o Fibre simpatiche dirette ai vasi di alcuni muscoli scheletrici
In tutti e tre i casi, troviamo sulla cellula effettrice recettori muscarinici.
- Sono fibre adrenergiche, invece, le fibre post-gangliari dirette agli organi effettori del simpatico
(recettori alfa- o beta-adrenergici). La noradrenalina viene rilasciata dal terminale sinaptico, mentre
l’adrenalina viene prodotta dal surrene e rilasciata in circolo (il surrene quindi può essere considerato
un ganglio simpatico secernente).
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Esiste, inoltre, una importante integrazione tra sistema simpatico e sistema parasimpatico: le fibre appartenenti
ai due sistemi, infatti, hanno afferente l’una contro l’altra. In questo modo l’iperattivazione di una via
determina automaticamente una iperattivazione dell’altra, con l’instaurazione di un antagonismo che porta a
una situazione di omeostasi. In alcuni tessuti, però, uno dei due sistemi può prevalere sull’altro, come capita
ad esempio a livello cardiaco, con una prevalenza del tono vagale.
Insieme ai neurotrasmettitori veri e propri, possiamo sempre trovare co-trasmettitori; il più rappresentato è in
genere l’ATP, ma troviamo anche NPY, VIP, somatostatina.
TERMINALE SINAPTICO DEL SIMPATICO
Non esiste una vera e propria sinapsi tra il sistema nervoso simpatico e l’organo bersaglio, quanto piuttosto il
nervo presenta una serie di varicosità, rigonfiamenti, ciascuna delle quali rappresenta una stazione a sé stante
rilasciante neurotrasmettitore. Ogni singolo terminale sinaptico è regolato localmente da ciò che ha attorno:
esso riceve una serie di stimoli positivi e negativi la cui sommatoria serve per determinare il rilascio o meno
del neurotrasmettitore ma il treno di potenziali raggiunge ogni singola stazione della fibra.
Questo determina l’esistenza di una differenza tra il sistema catecolaminergico centrale e periferico:
- Al centro, troviamo un singolo terminale sinaptico della via simpatica
- In periferia, invece, abbiamo più stazioni, una in seguito all’altra, che permettono una trasmissione
continua.
Dal punto di vista farmacologico, possiamo agire sia a livello pre-, che inter- che post-sinaptico.
- A livello post-sinaptico possiamo agire somministrando agonisti o antagonisti dei recettori, stimolando
o inibendone la risposta. Un esempio sono i betabloccanti, importanti antipertensivi che agiscono a
livello della fibra post-sinaptica.
- A livello intersinaptico possiamo modulare il re-uptake, ad esempio con degli inibitori. Questo è
particolarmente importante a livello centrale, dove gli inibitori del reuptake funzionano come
antidepressivi. L’intervento sul reuptake in periferia, invece, è differente a causa di un meccanismo di
diluizione del neurotrasmettitore
- A livello pre-sinaptico, è possibile sia una regolazione autologa che eterologa
o La regolazione autologa è basata sulla modulazione dell’attività di
A) Recettori alfa-2 inibitori
B) Recettori beta-2 facilitatori
C) MAO mitocondriali e citoplasmatici: l’utilizzo di IMAO aumenta la quantità di
neurotrasmettitore citoplasmatico e velocizzano il riempimento vescicolare.
Terapeuticamente parlando, quindi, possiamo agire su diversi punti:
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- A livello periferico, andremo a gestire attività
o Cardiaca
o Polmonare
o Gastrointestinale
o Renale
- A livello centrale, invece, gestiamo
o Depressione
o Problematiche psichiatriche
o Dipendenza
o Problematiche motorie
SISTEMA CATECOLAMINERGICO CENTRALE
A livello centrale abbiamo una distinzione delle vie che utilizzano i tre neurotrasmettitori; avremo quindi:
- Vie adrenergiche centrali (che usano adrenalina come neurotrasmettitore)
- Vie noradrenergichce centrali (che usano noradrenalina come neurotrasmettitore)
- Vie dopaminergiche centrali (che usano dopamina come neurotrasmettitore)
La differenza tra le singole vie è di tipo enzimatico (le vie dopaminergiche saranno dotate degli enzimi per la
sintesi di dopamina ma non per la sintesi degli altri due neurotrasmettitori e viceversa) e di distribuzione
anatomica e funzionale.
Vie adrenergiche centrali
Le vie adrenergiche centrali sono composte da piccoli neuroni, localizzati nella sostanza reticolare ascendente,
da cui partono proiezioni:
- Ascendenti, dirette al locus coeruleus, all’ipotalamo e al talamo. In questo modo, le vie adrenergiche
centrali esercitano un controllo sulle vie noradrenergiche centrali.
- Discendenti, che innervano la colonna laterale del simpatico nel midollo spinale e originano dai centri
cardioacceleratore e vasomotore del bulbo: esercitano quindi un controllo sull’attività cardio-vaso-
motoria. Farmaci che agiscono su queste vie, quindi, potranno avere effetto ipertensivo o
antipertensivo (es. clonidina, che è un agonista dei recettori alfa2-adrenergici pre-sinaptici del centro
vasomotore: il legame a questi recettori inibisce la produzione e il rilascio di noradrenalina, con
riduzione del tono simpatico e prevalenza dell’attività parasimpatica).
Vie noradrenergiche centrali
Le vie noradrenergiche centrali originano dal locus coeruleus e dal tegumento laterale, proiettandosi,
rispettivamente:
- Sul midollo spinale, sul cervelletto, sulla corteccia e sull’ippocampo
- Sull’ipotalamo, sul bulbo olfattivo, sull’amigdala e sul midollo
Queste vie sono:
- Responsabili del controllo centrale dell’attività del sistema nervoso vegetativo, attraverso fibre al
tronco encefalico e con fibre ascendenti verso l’ipotalamo
- Responsabili della gestione della pressione sanguigna attraverso i barocettori e chemocettori
- Coinvolte nella patogenesi della depressione (legata a un aumento di beta1 e una diminuzione di alfa2
a livello della corteccia frontale e del sistema limbico)
- Coinvolti nella regolazione dello stato di veglia (alfa1 nello stato di veglia, alfa2 nella sedazione)
- Coinvolti nel comportamento alimentare, insieme ad altri neurotrasmettitori (alfa2 ha effetto
facilitatore sulla porzione mediale dell’ipotalamo, mentre beta2 ha effetto inibitore sulla parte laterale
dell’ipotalamo)
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- Responsabili di effetti endocrini, in quanto hanno effetto, a livello di ipotalamo e ipofisi, sul rilascio
di diversi ormoni
o Rilascio di ACTH: stimolato da alfa1 e inibito da beta2
o Rilascio di GH: inibito da alfa1 e facilitato da alfa2A
o Rilascio di TSH: facilitato da alfa1 tramite liberazione di TRH
o Rilascio di FSH e LH: stimolati da alfa1, che stimola l’ipotalamo che a sua volta stimola
l’adenoipofisi tramite LHRH
Vie dopaminergiche centrali
Le tre vie principali relative alla trasmissione dopaminergica sono:
- Il circuito nigrostriatale
I neuroni dopaminergici nigrostriatali sono localizzati nella pars compacta della sostanza nigra e proiettano
su tutto il corpo striato (composta da caudato e putamen). Essi sono coinvolti nella regolazione del sistema
extrapiramidale, predisposto al coordinamento del movimento volontario e del tono muscolare. La via
nigrostriatale contiene circa il 75% della dopamina del cervello. Deplezione di questi neuroni
dopaminergici è alla base del morbo di Parkinson (di cui ancora non si è ben chiarita la patogenesi) e altre
patologie del movimento. In queste situazioni, possiamo agire
- Somministrando precursori della dopamina, per aumentare l’attività di questa via (es. L-DOPA)
- Agendo direttamente sui recettori raggiunti da queste vie, mimando con agonisti gli effetti
dopaminergici assenti
- Il circuito mesolimbico e mesocorticale (mesotalamico)
Questi circuiti sono implicati, tramite i recettori D2, in processi psichici, mnemonici ed emotivi, legate
soprattutto a piacere, personalità, ricompensa. Sono inoltre coinvolti:
- In tutte le patologie psichiatriche in cui è presente dipendenza
- Nella schizofrenia
- Il circuito tuberoinfundibolare e tuberoipofisario
Questi circuiti sono formati da proiezioni dirette all’ipotalamo e all’ipofisi e sono in grado di modulare la
secrezione neuroendocrina. Per questo motivo, quando trattiamo patologie legate alle vie dopaminergiche,
abbiamo anche effetti collaterali sulla secrezione endocrina (specie della prolattina). L’utilizzo di farmaci
neurolettici (psicofarmaci), dando disfunzione neuroendocrina, sono responsabili di:
- Impotenza e ginecomastia nell’uomo
- Amenorrea e galattorrea nella donna
Recettori dopaminergici sono anche coinvolti:
- Nei circuiti che regolano, a livello ipotalamico, l’appetito e la temperatura corporea
- Nella modulazione di alcuni sistemi endocrini (es. prolattina, tramite recettori D2)
- Nel controllo dela nausea e del vomito (recettori D2A nella CTZ)
- Nel controllo del tono vascolare a livello cerebrale (i recettori D1 regolano la vasodilatazione
cerebrale)
- Nella gestione presinaptica eterologa: i recettori D2B, infatti, sono recettori presinaptici inibitori che
inibiscono il rilascio di noradrenalina inibendo i canali per il calcio.
Un’ulteriore zona importante è la ventral tegumental area (VTA): a questo livello troviamo una serie di
integrazioni che riguardano le vie peptidergiche oppioidi e le vie GABAergiche centrali, fondamentali poiché
portano alla risposta corticale per la gestione della personalità.
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CONTROLLO DELL’EMESI
Una problematica importante compresa in alcune terapie è l’emesi. L’utilizzo, infatti, di alcuni farmaci (es. L-
DOPA, ma anche chemioterapici) porta a uno stimolo della CTZ con conseguente nausea e vomito. Il controllo
dell’emesi è quindi fondamentale per una buona compliance alla terapia. Si utilizzano, in genere, due tipi di
farmaci:
- Antidopaminergici (es. domperidone): a livello della CTZ, infatti, troviamo i recettori D2 ed usando
antagonisti dopaminergici andiamo a inibire l’attivazione del centro. Questi farmaci, tuttavia, in
quanto antagonisti della dopamina, non devono passare la barriera ematoencefalica o
determinerebbero un effetto negativo su tutte le vie dopaminergiche. La CTZ, seppur compresa nella
barriera, si trova in una zona in cui però la barriera ematoencefalica è meno rigida, permettendo il
passaggio di questi farmaci
- Antiserotoninergici: a livello della CTZ abbiamo anche recettori 5-HT3.
SINTESI DELLE CATECOLAMINE
La sintesi dei neurotrasmettitori usati nelle vie catecolaminergiche ha origine da componenti della dieta. I
precursori comuni a tutte e tre le vie sono costituiti da amminoacidi, quali la tirosina e la fenilalanina (che
viene convertita in tirosina dalla fenilalanina idrossilasi): sono quindi componenti facilmente reperibili,
riciclabili, praticamente inesauribili e facilmente convertibili gli uni negli altri.
Dalla tirosina otteniamo L-DOPA, che è il precursore comune a tutte e tre le vie. Per questo motivo L-DOPA
è un farmaco usato in tutte le patologie che coinvolgono le vie catecolaminergiche; questo, però, comporta
anche tutta una serie di effetti collaterali, sia a livello periferico che a livello centrale (anche se a livello
periferico abbiamo farmaci capaci di ridurre la produzione dei singoli neurotrasmettitori, cosa che invece è più
complicata centralmente).
Sebbene il precursore sia comune, le tre vie sono distinte per il patrimonio enzimatico alla base della sintesi:
- Se il terminale appartiene alla via dopaminergica, sarà dotato degli enzimi tirosina idrossilasi e dopa
decarbossilasi
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- Se il terminale appartiene alla via noradrenergica, oltre agli enzimi precedenti, presenterà anche la
dopamina-beta-idrossilasi
- Se il terminale appartiene alla via adrenergica, avremo anche la feniletanolamina-N-metiltrasferasi
La sintesi è sottoposta a meccanismi di controllo a feedback.
La regolazione della sintesi è effettuata a livello del primo step, quindi della tirosina idrossilasi: questo enzima,
presente a livello del reticolo endoplasmatico, viene inibito dal prodotto finale della sintesi (si parla di self
regulation). Inoltre, l’eccesso di sintesi di catecolamine viene regolato anche dall’attività delle MAO
mitocondriali, che possono catalizzare le molecole.
La dopa-decarbossilasi è presente nei neuroni ma anche a livello periferico: gli inibitori enzimatici che non
possono passare la barriera ematoencefalica vengono usati per evitare l’attività periferica della L-DOPA.
Le dopamina-beta-idrossilasi è presente all’interno della vescicola, soprattutto a livello del surrene, e viene
inibita dal disulfiram. All’interno delle vescicole, quindi, troviamo complessati noradrenalina, dopamina-beta-
idrossilasi, cromogranine acide, Ca2+, Mg2+ e ATP (con funzione di co-trasmettitore). Il trasportatore che si
occupa del riempimento vescicolare viene inibito dall’alcaloide reserpina, che determina deplezione dei
depositi di noradrenalina (e anche delle altre catecolamine).
L’arrivo di un impulso nervoso provoca il rilascio di noradrenalina, che è un processo Ca2+-dipendente.
Inoltre, il calcio presente nelle vescicole permette un’autoregolazione: il Ca2+ periplasmatico modula il Ca2+
intracellulare.
ANALOGHI SINTETICI
Le catecolamine hanno una struttura simile a tre analoghi sintetici: amfetamina, metamfetamina e
metilendiossiamfetamina (ecstasy). Tutte e tre le molecole sono nate come farmaci, ma hanno smesso di
trovare applicazione in campo terapeutico in quanto hanno:
- Importanti attività psicotrope, in quanto agiscono sulle aree mesolimbiche e mesocorticale, dando una
forte dipendenza
- Importanti effetti collaterali periferici, anche molto pericolosi, potendo portare alla desensitizzazione
recettoriale.
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La presenza, in questi analoghi, di gruppi metilenici aumenta la loro lipofilia, determinando una buona
distribuzione a livello del SNC, potendo passare facilmente la barriera ematoencefalica. Essi danno effetti a
livello della gestione dell’appetito e della perdita della personalità (tanto che vengono usati come droghe per
la loro azione di sospensione della realtà). Inoltre, potendo agire sui centri ipotalamici (circuito tubero-
infundibolare) possono portare a manifestazioni tossiche come ipertermia maligna, a causa di un mancato
controllo della temperatura corporea (rischio di shock termico).
SPEGNIMENTO DEL SEGNALE
Lo spegnimento della trasmissione catecolaminergica è rappresentato soprattutto dal meccanismo di reuptake
(particolarmente importante per noradrenalina e adrenalina). In particolare, circa l’80% dei neurotrasmettitori
vengono ricaptati: la maggior parte viene sottoposto a reuptake di tipo 1, attraverso un trasportatore ad alta
affinità ma è presente anche il reuptake di tipo 2, a bassa affinità. I trasportatori utilizzano come motore il
gradiente di Na+ generato dalla Na+/K+ ATPasi.
Il reuptake è quindi un importante bersaglio farmacologico. In particolare, su di esso agiscono:
- Antidepressivi triciclici: i farmaci di prima generazione (imipramina, nortriptilina) inibiscono
soprattutto la ricaptazione di noradrenalina (ma anche di serotonina). I farmaci di seconda generazione
hanno strutture differenti ma effetti pressoché simili. Ad oggi, tuttavia, esistono anche gli Inibitori
Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI), quali fluoxetina e paroxetina, che non
interferiscono con l’uptake di NA.
- Cocaina: a livello centrale, blocca i trasportatori soprattutto della dopamina (a livello mesolimbico-
corticale), determinando una liberazione non quantale con conseguente euforia, veglia, anoressia. A
livello periferico, invece, blocca il reuptake della noradrenalina, con effetti sul cuore dovuti a
vasocostrizione coronarica, ischemia coronarica e cerebrale.
Oltre al re-uptake, nella terminazione del segnale catecolaminergico sono coinvolti altri due meccanismi:
- Deaminazione mono-ossidativa: riguarda soprattutto adrenalina e noradrenalina, ma anche i diversi
prodotti della COMT. La reazione è dovuta alla presenza della MAO (mono-amine ossidasi) che, a
livello neuronale, sono localizzati nella membrana esterna dei mitocondri della singola terminazione
sinaptica e gestiscono la quantità corretta di neurotrasmettitore. Utilizzando inibitori di questo sistema
enzimatico (IMAO) andiamo ad aumentare il livello di neurotrasmettitore nella sinapsi e aumentiamo
il riempimento vescicolare. Sono esempi di IMAO la selegilina e la pargilina (inibitori competitivi).
L’assunzione di alimenti ricchi di tiramina (lievito, latticini, vino, etc.) insieme agli IMAO si può avere
la produzione nel neurone di octopamina, un falso neurotrasmettitore, che riempie le vescicole e viene
quindi rilasciato al posto della noradrenalina. Si va incontro a effetti collaterali dovuti a liberazione
non quantale, depauperamento delle vescicole e scarsa neurotrasmissione (con conseguenti crisi
ipertensive, anche pericolose).
- Orto-metilazione: è dovuta alla presenza, sia nel citoplasma della sinapsi, che nello spazio
intersinaptico, dell’enzima COMT (catecolo-ortometil-transferasi). È un enzima ubiquitario, attivato
da Mg2+ e Ca2+, che, insieme alle MAO, gestisce la catena catabolica delle catecolamine. Sono inoltre
responsabili dell’effetto di diluizione.
Inibitori delle COMT (es. entacapone) determinano un aumento della trasmissione sinaptica, a causa
dell’aumento della quantità di neurotrasmettitore a livello intersinaptico. A livello centrale mostrano
molti effetti collaterali e per questo motivo vengono in generale usati come inibitori delle COMT
periferiche. Sono in genere somministrati assieme alla L-DOPA per prolungarne l’effetto e
aumentarne la quantità.
RECETTORI PER LE CATECOLAMINE
I recettori per le catecolamine sono tutti recettori metabotropi, associati a proteine G. Sono suddivisi in due
grandi gruppi:
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- Recettori adrenergici, per adrenalina e noradrenalina
- Recettori dopaminergici, per dopamina
In realtà, le catecolamine riconoscono tutti i recettori: la dopamina, infatti, ad alte dosi, può legarsi anche ai
recettori adrenergici.
RECETTORI ADRENERGICI
La famiglia dei recettori adrenergici è composta dai recettori alfa e dai recettori beta. I recettori alfa, oltre a
essere distinti in alfa1 e alfa 2 presentano una suddivisione in sotto-sotto-tipi, almeno sei (forse 8): 1A, B, D e
2A, B, C (la differenza è basata praticamente sulla collocazione anatomica). Per quanto riguarda il recettore
beta, la classificazione si basa sulla distinzione di soli sotto-tipi (tre in tutto). Poiché il sistema simpatico è
ubiquitario sia in periferia che a livello centrale, la farmacologia è basata sulla distinzione in sotto- e sotto-
sotto-tipi, in maniera da colpire selettivamente il tipo recettoriale coinvolto e limitare gli effetti collaterali. I
recettori alfa e beta, pur riconoscendo entrambi adrenalina e noradrenalina, presentano una differente affinità
verso le due molecole. Questa affinità varia anche in base alla collocazione anatomica del recettore (in quanto,
cellule diverse determinano uno stato di fosforilazione diverso e quindi una costante di affinità diversa).
In generale, però:
- alfa: adrenalina > noradrenalina >> isoproterenolo (è un broncodilatatore, usato come anti-asma ma
anche per problematiche cardiache)
- beta: isoproterenolo > adrenalina > noradrenalina
Recettori alfa
Distinguiamo sostanzialmente i recettori alfa1 e alfa 2, differenziabili sulla diversa sensibilità per due agonisti,
la fenilefrina (alfa1) e la clonidina (alfa2) e per due antagonisti, la prazosina (alfa1) e la yoimbina (alfa2).
I recettori alfa1A,B,D sono recettori associati a PLC tramite proteina Gq/11: con la loro attivazione,
determinano un aumento dei livelli di IP3 e DAG con conseguente aumento del Ca2+ intracellulare e
attivazione della PKC. Sono recettori post-sinaptici presenti:
- A livello periferico: muscolatura liscia dei vasi (arterie e vene) di grosso calibro, muscolatura liscia
gastrointestinale e del tratto genitourinario, postata, utero e cuore. Hanno attività vasocostrittrice con
aumento della pressione arteriosa con bradicardia riflessa. Inoltre inducono glicogenolisi e
gluconeogenesi epatica.
- A livello centrale: aree noradrenergiche della corteccia, ippocampo, ipotalamo, bulbo olfattivo,
motoneuroni. Sono particolarmente importanti per tutte quelle patologie che portano a depressione.
Dei recettori alfa1, particolarmente importante è l’alfa1A, associato alle arterie e vene di grosso calibro, sulle
quali determina costrizione e conseguente aumento della pressione arteriosa (effetto ipertensivo). A questo
livello, possiamo usare:
- Agonisti (come noradrenalina e adrenalina, quest’ultima più efficace): hanno come scopo
aumentare la contrazione dei vasi e di conseguenza aumentare le resistenze periferiche. L’aumento
della pressione che ne deriva risulta essere utile in situazioni di edema o shock.
- Antagonisti competitivi (come prazosina): permettono di ridurre le resistenze in presenza di una
patologia ipertensiva; la conseguente riduzione della pressione permette anche di ridurre la fatica del
cuore (a causa della riduzione di pre- e post-carico).
I recettori alfa2A,B,C sono invece associati, all’adenilato ciclasi con Gi (riduzione del cAMP) e, tramite G0,
possono attivare canali del K+ o inibire canali del Ca2+. Sono sia recettore pre- (2A e 2C) che post-sinaptici
(2B), ma in entrambi i casi hanno un effetto inibitorio. Questi recettori sono presenti:
- Nelle terminazioni noradrenergiche a livello presinaptico, dove controllano ed inibiscono l’ulteriore
rilascio di noradrenalina
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- A livello dei gangli sinaptici, dove inibiscono a livello post-sinaptico l’azione di Ach e a livello pre-
sinaptico la liberazione di Ach.
- A livello centrale
I recettori 2A sono espressi, centralmente, nel tronco encefalico, nella corteccia cerebrale, nell’ippocampo, nel
cervelletto, nell’ipofisi e nel midollo spinale mentre, in periferia, nelle isole pancreatiche (cellule beta), dove
riducono la secrezione di insulina. Modulano, inoltre, la costrizione arteriosa. L’agonista clonidina viene
utilizzato come antipertensivo (legandosi agli A2 pre-sinaptici, riduce il rilascio di NA e quindi l’effetto
vasocostrittore).
I recettori 2B inibiscono anche in modo diretto l’attività dei canali del calcio voltaggio-dipendenti e inibiscono
a livello pre-sinaptico il rilascio di noradrenalina. Sono presenti anche a livello post-sinaptico nel diencefalo,
nella milza e nel rene. A livello centrale, esercitano effetti antipertensivi (la clonidina è un agonista parziale).
I recettori 2C sono presenti a livello del fegato, delle piastrine, dei vasi renali, della muscolatura liscia dei vasi
scheletrici e della muscolatura liscia bronchiale. Sono responsabili per la vasocostrizione venosa. A livello
centrale sono invece presenti nei gangli della base e nel cervelletto. Anch’essi inibiscono direttamente i
recettori VDCC e riducono il rilascio di noradrenalina.
Recettori beta
I recettori beta sono accoppiati ad una proteina Gs ed aumentano i valori di cAMP con modulazione del Ca2+.
Inoltre, beta1 è coinvolto nella fosforilazione, tramite attivazione di PKA, del canale VDCC, con conseguente
afflusso di Ca2+ nella cellula.
I recettori beta1 sono localizzati:
- Nel cuore, che è il sito anatomico più importante (sono a livello del nodo SA, nell’atrio, nel nodo AV,
nelle fibre di Purkinje e nel miocardio del ventricolo). A questo livello, in particolare, la stimolazione
dei beta1 ha effetti inotropo, cronotropo, batmotropo e dromotropo positivi. Dal punto di vista
farmacologico, molto usati sono gli antagonisti competitivi (beta-bloccanti), che possono essere
selettivi per beta1 o non selettivi, riconoscendo sia beta 1 che beta2.
- Nell’apparato iuxtaglomerulare del rene (dove stimolano il rilascio di renina)
- Nelle vie adrenergiche e noradrenergiche del SNC
- Nell’occhio (dove determinano secrezione di umor acqueo e midriasi): in caso di glaucoma, possiamo
somministrare antagonisti competitivi dei recettori a livello del muscolo ciliare, riducendo la sintesi di
umor acqueo e riducendo la pressione endoculare.
Sono ugualmente sensibili all’adrenalina e alla noradrenalina.
I recettori beta2 sono presenti:
- Nel cuore: sono sia pre-sinaptici (potenziano il rilascio di noradrenalina, con aumento della forza e
frequenza di contrazione) che post-sinaptici effettori (a livello delle valvole e dell’epicardio)
- Nella muscolatura liscia vasale delle arteriole (post-sinaptici, inducendo vasodilatazione coronarica,
dei vasi renali e gastrointestinali) e delle arterie muscolari (con effetto vasodilatatore)
- Nella muscolatura liscia di vari organi (inducono dilatazione a livello bronchiale, gastrico,
genitourinario)
- Nel fegato (post-sinaptici: stimolano la glicogenolisi)
- Nel pancreas (stimolano la secrezione di insulina)
- Nella muscolatura scheletrica (post-sinaptici: stimolano la glicogenolisi)
- Nell’utero (determinano rilassamento)
Sono molto sensibili all’adrenalina ma poco alla noradrenalina.
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I recettori beta3, invece, sono localizzati soprattutto nel tessuto adiposo, anche bruno, dove modulano la lipolisi
con rilascio di glicerolo. Sono inoltre presenti a livello della vescica, della colecisti e del retto (insieme agli
altri due tipi recettoriali).
RECETTORI DOPAMINERGICI
I recettori dopaminergici sono dividi in due gruppi:
- D1, detti anche D1-like family, che sono sensibili alla dopamina e all’apomorfina (è un agonista D1
che induce la salivazione e trova uso nell’impotenza); corrispondono ai recettori D1 e D5 secondo la
vecchia nomenclatura (ora D1A e D1B)
- D2, detti anche D2-like family, che sono sensibili alla dopamina, bromocriptina (è un agonista D2 che
viene usata per gestire problematiche psichiatriche e come antiemetico) e sono bloccati da sulpiride.
Essi corrispondono ai vecchi D2, D3, D4, ora conosciuti come D2A, D2B, D2C.
I recettori, a livello centrale ma anche periferico, sono ubiquitari, cosa che rende complicata una terapia
selettiva e determina una serie di effetti collaterali. A livello centrale, tra l’altro, sulla stessa cellula è possibile
trovare più tipi di recettori dopaminergici: si pensa che ciò dia dovuto al fatto che ciascun recettore può
modulare gli altri, con conseguente esistenza di un tono prevalente sugli altri.
I recettori D1-like sono collegati all’adenilato ciclasi tramite la proteina Gs, inducendo la fosforilazione di
DARRP-32 ed aumentando l’attività della fosfolipasi con mobilizzazione di Ca2+.
I recettori 1A sono periferici, prevalentemente presenti sui muscoli lisci degli organi effettori come cellule
endocrine, cuore, cellule muscolari lisce, mesenteriche. Sono presenti anche nel rene e nel surrene. Essi
mediano una risposta vasodilatatrice dei vasi sanguigni periferici, a livello renale, mesenterico, coronarico e
cerebrale. A dosi elevate di dopamina, inoltre, si ottiene un effetto inotropo positivo sul cuore.
I recettori 1B, invece, seppur presenti in periferia (importanti quelli a livello dell’arteria polmonare), sono
importante a livello centrale: sono presenti nella corteccia, nel talamo, nell’ipotalamo, nello striato, nel sistema
limbico, nell’ippocampo. Essi sono coinvolti nella gestione del movimento extrapiramidale e nelle dipendenze.
I recettori D2-like, invece, riducono l’attività dell’adenilato ciclasi mediante l’azione di Gi e inibiscono
l’afflusso di Ca2+. La riduzione dei livelli di cAMP determina l’apertura di canali del K+, chiusura di quelli
del Ca2+ e modulazione del metabolismo del fosfoinositolo.
I recettori 2A sono localizzati nello striato, nella sostanza nera (sono quelli coinvolti nelle problematiche
motorie del Parkinson), nell’ipofisi e nelle arterie renali. Insieme ai 2C, sono recettori post-sinaptici inibitori
che riducono il rilascio di noradrenalina.
I recettori 2B sono localizzati nel bulbo olfattivo, nello striato laterale, nell’ipotalamo e nei nuclei mammilari:
sono recettori pre-sinaptici auto- ed etero-inibitori che intervengono nella gestione della trasmissione
dopaminergica. A livello periferico, invece, sono responsabili di: vasodilatazione renale, coronarica, cerebrale
e mesenterica.
I recettori 2C sono invece nella corteccia frontale, nel bulbo, nel mesencefalo, nel cervelletto e a livello della
midollare del surrene. Essi sono coinvolti nella regolazione della respirazione, dell’omeostasi salina e del
sistema simpatico.
EFFFETTI CENTRALI E PERIFERICI DELLA DOPAMINA
La dopamina non può essere usata come farmaco a livello centrale, in quanto, per le sue caratteristiche chimico-
fisiche, non riesce a superare la barriera ematoencefalica (è una molecola grossa e polare): per questo motivo
somministriamo il precursore L-DOPA, che, al contrario, può passare la barriera. La dopamina trova però uso
farmacologico a livello periferico, dove determina:
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- Vasodilatazione nelle arterie renali (il conseguente aumento del flusso permette di migliorare la
funzionalità renale e di eliminare una quantità maggiore di acidi, ioni, etc)
- Aumento della performance cardiaca, grazie al legame ai recettori beta1-adrenergici (solo se data ad
alte dosi).
RUOLO DEGLI INTERNEUORNI NON-AMINERGICI
A livello centrale, al funzionamento della dopamina e di L-DOPA contribuiscono anche cellule dell’astroglia
(che sono in grado anch’esse di convertire L-DOPA in dopamina, aumentando di conseguenza la dopamina a
livello intersinaptico); queste cellule possono regolare la quantità di dopamina sia in senso positivo che in
senso negativo (sono dotate di MAO – tanto che gli IMAO funzionano più sull’astroglia che sui neuroni
dopaminergici veri e propri – e COMT). Senza l’attività gliale, l’effetto dei soli neuroni non sarebbe sufficiente
per la trasmissione dopaminergica. Oltre a ciò, sull’astroglia sono presenti recettori per la dopamina e
meccanismi di re-uptake. Sull’astroglia troviamo anche recettori glutammatergici metabotropi, che permettono
di gestire il metabolismo di diversi neurotrasmettitori.
RUOLO NELLA MALATTIA DI PARKINSON
La malattia di Parkinson deriva da una perdita di neuroni dopaminergici nella pars compact della substantia
nigra che proiettano al corpo striato (anche se i sintomi compaiono solo in seguito alla perdita del 70-80% dei
neuroni); da questa deplezione deriva uno sbilanciamento tra i livelli di acetilcolina e dopamina nei gangli
della base.
A livello dello striato troviamo contemporaneamente i recettori 2A e 1B, che presentano un’attività
antagonista: gli 1B stimolano il neurone colinergico, mentre i 2A lo inibiscono. La sommatoria dei diversi
segnali permette di gestire il neurone colinergico dello striato. Nella malattia di Parkinson, con la morte dei
neuroni della pars compacta, viene a mancare l’effetto inibitorio dei 2A, con conseguente ipertono colinergico,
con rigidità muscolare e incapacità di iniziare il movimento. Per migliorare il quadro, dal punto di vista
terapeutico ci sono due possibili interventi:
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- Somministrazione di L-DOPA, che viene usata dai neuroni rimanenti nella substantia nigra per
produrre dopamina, aumentando la stimolazione sui 2A (così, tuttavia, stimoliamo anche gli 1B, che
bilanciano l’effetto)
- Somministrazione di agonisti dei 2A
RUOLO NELLA DIPENDEZA, TOLLERANZA, ASTINENZA
I recettori dopaminergici sono coinvolti anche nello sviluppo della dipendenza, a causa dei recettori D1B
presenti a livello mesolimbico e mesocorticale. Molecole come la cocaina, gli oppioidi, etc. oltre a dare
dipendenza, se usati cronicamente, diventano responsabili di una modifica all’architettura neuronale che
mantiene lo stato di dipendenza. Ciò rende più difficile per il paziente disintossicarsi, perché anche il minimo
fattore scatenante può farlo ricadere nella dipendenza. Occorre, in genere, dare al paziente dosi scalari
decrescenti di un agonista (come i peptidergici) per migliorare gradualmente il quadro di dipendenza e far
tornare l’architettura cerebrale a quella originale.
Esistono alcune molecole che, al contrario, danno una forte dipendenza nel bambino (etanolo, caffeina,
morfina).
La dipendenza può essere di due tipi:
- Psicologica: è quella dipendente dalla via mesolimbica e mesocorticale (ed è quella più complicata da
rimuovere)
- Fisica: dovuta a una modificazione del metabolismo cellulare.
FARMACOLOGIA DEI RECETTORI CATECOLAMINERGICI
Recettori alfa1
Gli agonisti vengono definiti simpaticomimetici: aumentano le resistenze periferiche, vasocostringendo la
muscolatura liscia vascolare. Possono essere utilizzati loco-regionalmente per decongestionare gli occhi e la
mucosa nasale.
Gli antagonisti selettivi (prazosina) provocano al contrario vasodilatazione e diminuzione della pressione
arteriosa. Non hanno effetti, o comunque minimi in quanto selettivi, sugli alfa2: non bloccano quindi gli
autocettori inibitori presinaptici della noradrenalina, non modificando quindi la frequenza cardiaca.
Recettori alfa2
Gli agonisti hanno effetto dovuto alla diminuita capacità di rilascio della noradrenalina da parte dei terminali
ortosimpatici. L’utilizzo di clonidina sui recettori del tronco encefalico determina a una riduzione del tono
simpatico e a un aumento del tono parasimpatico. Si hanno effetti antipertensivi per diminuzione della
pressione arteriosa.
La stessa clonidina può essere usata nella preanestesia e nella neuroleptoanestesia che permette di ridurre le
dosi degli anestetici.
Agonisti degli alfa2A possono inibire i sintomi dell’astinenza da oppiacei, che provoca attivazione di neuroni
noradrenergici del locus coeruleus. Gli antagonisti sono poco utilizzabili.
Recettori beta
Gli agonisti non selettivi come l’isoproterenolo possono essere usati per il trattamento dell’arresto cardiaco (e
dell’asma). Gli agonisti selettivi per beta2, invece, come salbutamolo sono utili nel trattamento dell’asma
bronchiale (determinano broncodilatazione): devono però essere usati prevalentemente per via inalatoria per
evitare effetti cardiaci. Anche l’adrenalina è un farmaco agonista, utilizzato in situazioni di emergenza per via
IV o intracardiaca per trattare arresto e anafilassi.
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Gli antagonisti sono definiti beta-bloccanti. Quelli selettivi per beta1 sono utili nel trattamento
dell’ipertensione, cardiopatia, ischemia e aritmie, in quanto agiscono a livello cardiaco, diminuendo la forza
di contrazione, la gittata e la frequenza cardiaca.
Recettori dopaminergici
Gli agonisti (dopamina e dobutamina) possono essere utilizzati a basse dosi per stimolare i recettori 1A e 1B
a livello renale, splancnico e coronarico. Si osserva dilatazione delle arterie renali ed aumento del flusso
urinario. Sono utili nello shock cardiogeno dove si ha attivazione del simpatico (es. ipovolemia, infarto al
miocardio) e si ha vasocostrizione periferica e renale (con conseguente acidosi).
Per i 2C esistono agonisti parziali come la bromocriptina, che sono anche antagonisti D1 nel Parkinson.
Antagonisti D2 sono usati nel trattamento della schizofrenia: sono neurolettici o antipsicotici.
TRASMISSIONE SEROTONINERGICA
Il nome deriva dalla serotonina, una sostanza presente nel siero che è in grado di indurre vasocostrizione. In
realtà, la serotonina non ha solo effetti sul tono vascolare e questi stessi effetti dipendono dal sito anatomico.
Il nome più preciso è 5-idrossitriptamina (5-HT). Tra l’altro, la maggior parte della farmacologia che riguarda
la trasmissione serotoninergica si verifica a livello centrale (e quindi non legata all’attività vascolare
periferica).
I recettori per 5-HT esistono in 12 sottotipi differenti e la farmacologia attuale si concentra per lo più su 4-5 di
questi recettori. I recettori sono localizzati sia in periferia che in centro (dove si concentra la maggior parte
della farmacologia):
- In periferia
o A livello vascolare, con recettori differenti a seconda del lume del vaso e della collocazione
anatomica (i vasi della dura madre, ad esempio, hanno una composizione recettoriale diversa
da quella dei vasi periferici)
o Cellule cromaffini della mucosa intestinale: rilasciano serotonina in vescicole, che permette
di gestire la secrezione, la contrazione, l’assorbimento e l’aspetto vascolare delle attività
digestive (insieme ad acetilcolina e noradrenalina)
o Piastrine: immagazzinano serotonina presente nel plasma. Il recettore piastrinico 5HT-2A ha
attività pro-aggregante ed è coinvolto anche nei meccanismi di percezione del dolore e di
occlusione vascolare.
A livello centrale, i corpi dei neuroni serotoninergici sono localizzati soprattutto alla linea mediana del tronco
cerebrale a livello del bulbo, del ponte e del mesencefalo (nuclei del rafe). Qui troviamo recettori 5HT-1A a
livello del soma, che ne permettono una regolazione dell’attività elettrica (da cui dipende l’attività elettrica di
tutte le efferenze). Questo è importante in quanto inibitori del re-uptake della serotonina (SSRI) sono potenti
antidepressivi: determinano un aumento locale della serotonina con desensitizzazione (richiedono del tempo
per mostrare gli effetti) del recettore somatico, da cui dipende un aumento complessivo dell’attività delle vie
serotoninergiche (anche se non tutte le vie saranno aumentate, perché esistono recettori auto-inibitori a livello
delle singole terminazioni sinaptiche). Anche i triciclici (inibitori del reuptake di NA) agiscono parzialmente
sul reuptake della serotonina. Dai nuclei del rafe, le fibre proiettano a livello di:
- Corteccia frontale (è alla base degli effetti antidepressivi): regolano l’umore
- Corteccia visiva: a questo livello, alcune droghe agiscono sui recettori 5HT determinando
allucinazioni.
- Corteccia superiore
- Talamo
- Ippocampo
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- Midollo spinale
- Cervelletto
Tutte queste efferenze sono responsabili della gestione di:
- Dolore: la via discendente del dolore è una via serotoninergica ed è quella che permette di gestire la
tolleranza al dolore ( sono usate dalle vie inibitorie discendenti e di conseguenza possono gestire la
partenza o meno del potenziale dal midollo al talamo e corteccia)
- Tono vascolare (vasodilatazione e vasocostrizione): a questo livello troviamo tutta una serie di farmaci
che gestiscono l’attività vasomotrice, tra cui gli antiemicranici
- Alimentazione
- Tono dell’umore e percezione dall’esterno: è dovuta alle fibre che proiettano a livello di ippocampo e
aree limbiche
- Compulsione (inteso come sensazione di dover fare qualcosa a prescindere dalle conseguenze)
La 5HT è importante anche a livello della CTZ (recettori 5HT-3): questo ha permesso di sviluppare potenti
antiemetici utilizzati in associazione ai cicli di chemioterapia.
SINTESI
La base di partenza per la serotonina è l’amminoacido L-triptofano che deriva dalla dieta (le diete ricche di
carboidrati favoriscono l’uptake di triptofano). Gli enzimi coinvolti nella sintesi sono due:
- Triptofano idrossilasi (catalizza la conversione del triptofano a 5-idrossitriptofano)
- Decarbossilasi (catalizza la formazione della 5HT)
La biosintesi può essere modificata sulla base della disponibilità di triptofano. Il catabolismo all’interno del
terminale presinaptico avviene grazie alla presenza di due enzimi, una sulfo-trasferasi e le MAO di tipo A a
livello mitocondriale.
Lo spegnimento del segnale dopo il rilascio avviene invece tramite meccanismi di
- Reuptake (di tipo 1): la serotonina è una molecola piccola e quindi facilmente ricaptabile tramite
meccanismi simili a quelli delle catecolamine (tanto che inibitori del reuptake catecolaminico possono
agire anche sulla serotonina)
- Diluizione: quella che non va incontro a reuptake (10%), va incontro a diluizione, che permette di
ottenere effetti a livello dei vasi, dei muscoli lisci e delle ghiandole circostanti e inibisce il rilascio di
noradrenalina sull’ortosimpatico.
RECETTORI SEROTONINERGICI
Ad oggi, sono stati identificati 7 tipi di recettori per la serotonina (con altri 5-6 attualmente in studio), ciascuno
dei quali ha specifici sottotipi recettoriali. In generale, sono recettori associati a proteine G che permettono la
regolazione di canali ionici, ad eccezione del 5-HT3 che è in realtà lui stesso un recettore canale per il Na+
(che entra) e per il K+ (che esce) e determina quindi depolarizzazione.
Recettori 5HT-1, di cui distinguiamo cinque sottotipi recettoriali:
- 1A, localizzati a livello somatico nei neuroni del nucleo del rafe e poco rappresentati in altri distretti
anatomici
- 1B, localizzati soprattutto a livello del SNC
- 1D, sono recettori presinaptici sia auto- che eterologhi; in particolare, gli eterologhi sono localizzati
sulle sinapsi del simpatico, dove riducono la liberazione di noradrenalina
- 1E e 1F, sono recettori postsinaptici presenti in diverse aree centrali (per i quali ad oggi non siamo
capaci di produrre farmaci selettivi per la collocazione anatomica). La stimolazione di questi recettori
determina produzione di NO (vasodilatazione di vasi arteriosi e venosi cerebrali)
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I recettori di tipo 1 sono quelli su cui si concentra la maggior parte della farmacologia attuale (antidepressivi,
antiemicranici, ansiolitici, gestione dell’umore e dell’aggressività, gestione di sindromi maniacali): in
particolare, i recettori più interessati sono gli 1A e gli 1D.
Recettori 5HT-2, di cui distinguiamo tre sottotipi:
- 2A, è il più importante. È localizzato nel SNC, nella corteccia visiva (su cui agiscono alcune droghe e
agonisti parziali, con effetti allucinogeni), sulle piastrine (che rilasciano serotonina e sostanza P in
caso di insulto endoteliale) e a livello vascolare (con effetto vasocostrittivo)
- 2B
- 2C
I recettori 5HT-3 sono gli unici recettori per la serotonina ad essere canali ionici; sono costituiti da cinque
subunità (A, B, C, D, E) che possono essere tutte uguali tra di loro oppure in combinazioni diverse. Questi
recettori sono localizzati a livello di:
- CTZ, dove esercitano una stimolazione sulla CTZ e conseguente nausea e vomito. Importanti farmaci
antagonisti di 5HT3 sono potenti antiemetici, il cui sviluppo ha permesso di risolvere le problematiche
legate alla nausea a cui andavano incontro i pazienti sottoposti a chemioterapici molto aggressivi
- Gastrointestinale, dove gestiscono la peristalsi intestinale e possono indurre nausea e vomito per
stimolazione della muscolatura gastrica.
- Corteccia e circuito mesolimbico, dove intervengono nella gestione dell’umore
Altri recettori conosciuti, abbastanza importanti a livello centrale, sono gli 5HT-4, 5, 7 (ma esiste anche il tipo
6): sembrano essere coinvolti nelle sindromi maniaco-depressive, psicotiche, aggressive, etc.
ATTIVITÀ PERIFERICA DELLA SEROTONINA
A livello periferico, la serotonina agisce su due importanti distretti:
- Tratto gastrointestinale, dove controlla la peristalsi e le attività motorie, condiziona il rilascio di
neuropeptidi (VIP, SP) e neurotrasmettitori intramurali (Ach, DA e NA). A questo livello gestiscono
anche le attività immunitarie del tratto gastrointestinale. Infine, modulano, attraverso modulazione del
simpatico, l’attività spontanea delle cellule pacemaker del Cajal (eccitazione tramite Ach e SP,
inibizione con A, VIP, NO e ATP). La serotonina aumenta infatti la frequenza delle onde lente e
l’ampiezza delle attività elettromotrici del piccolo intestino.
- Distretto cardiovascolare, dove determina:
o Vasodilatazione coronarica (vasi terminali)
o Vasodilatazione a livello dei vasi del SNC
o Vasocostrizione nelle arteriole di calibro maggiore
Gli effetti sul tono vascolare dipendono strettamente dalla sede e dal calibro dei vasi.
o Ipotensione dovuta a
A) Ipertono vagale
B) Inibizione del rilascio di NA
C) Induzione della sintesi di NO nel microcircolo, a sua volta dovuta alla stimolazione
del vago, che rilasciando Ach su recettori M3 determina attivazione della sintesi di
NO, o a stimolazione diretta della serotonina su recettori 1F e 1D
o Ipertensione, dovuta ai recettori 2A che determinano vasocostrizione e favoriscono
l’aggregazione piastrinica (amplificano il processo se è in corso, ma non sono capaci di
causarla direttamente)
In base al calibro dei vasi e alla collocazione anatomica, la serotonina può quindi avere un effetto di dilatazione
o costrizione. Tenendo a mente che, sulla base della collocazione, avremo una differente prevalenza del tono
simpatico e ortosimpatico, sappiamo che la serotonina inibisce il rilascio di NA (riduce il tono simpatico) e
contemporaneamente induce la produzione di NO: la sommatoria dei due eventi determina che, sulle arterie di
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piccolo calibro e arteriole (dove il tono simpatico è piccolo) osserviamo vasodilatazione. Sulle arterie più
grandi, dove il tono simpatico è più importante, invece, non abbiamo un grande effetto. Inoltre, la serotonina
induce costrizione a livello venulare. L’insieme dei due eventi determina un aumento della pressione a livello
capillare, a cui segue un’aumentata permeabilità ai liquidi vascolari e quindi perfusione tessutale (che permette
anche il passaggio di cellule del sistema immunitario).
La serotonina agisce anche sul sistema endocrino:
- Aumenta la secrezione steroidea
- Riduce la secrezione di prolattina e ACTH
Il dosaggio dei livelli di steroidi e prolattina permettono di valutare l’attività dei farmaci serotoninergici.
ATTIVITÀ CENTRALE DELLA SEROTONINA
A livello centrale, la serotonina è coinvolta in:
- Processi psichici
o Umore (recettori 1A, 2A, 2C, 4, 3)
o Inibizione, ovvero la capacità di capire quando non si deve fare qualcosa (recettori 2A, 1D);
questi recettori, localizzati a livello frontale, mesocorticale e mesolimbico gestiscono la
personalità del soggetto e la percezione della realtà
o Controllo comportamentale (1A, 2A, 4, 6)
o Dolore (2A, 1A, 1B, 1D)
o Appetito (3, 2A, 1E)
- Processi psicologici
o Percezione sensoriale ( 1B, 2B, 6)
o Comportamento sessuale (legato al rilascio di ormoni) (2B, 5B, 7)
o Temperatura corporea (1A, 2B, 4)
o Controllo del vomito (3)
o Sonno-veglia (7, 4, 1F, 2A, 1A)
FARMACOLOGIA DELLA TRASMISSIONE SEROTONINERGICA
- Ergotamina: è un agonista parziale/antagonista che normalizza la funzione della serotonina,
riducendone l’attività. È attivo a livello vascolare (effetto vasocostrittore) e viene utilizzato come
antiemicranico: l’emicrania è legata, infatti, a spasmi vascolari a livello delle meningi, da cui deriva
neuroinfiammazione e dolore secondario.
- Ergometrina: è un potente vasocostrittore, agonista parziale come la ergotamina. Viene in genere usata
in gravidanza sia per indurre il travaglio sia per favorire l’occlusione dei vasi post-partum.
- Buspirone: è anch’esso un agonista parziale, che stimola i recettori 1A determinando desensitizzazione
parziale dei recettori; hanno così un effetto ansiolitico (più che antidepressivo)
- Triptani: sono antiemicranici agonisti parziali dei recettori 1A e 1D che riducono l’attività della
serotonina sui vasi meningei
- Ketanserina: è un agonista parziale del recettore 2A a livello centrale, usato per patologie psichiatriche.
TRASMISSIONE AMINOACIDERGICA
La trasmissione aminergica comprende tutte quelle vie che utilizzano come neurotrasmettitori degli
amminoacidi. Distinguiamo due tipi principali di amminoacidi d’interesse farmacologico, sulla base dei gruppi
che si ionizzano:
- Amminoacidi neutri: GABA e glicina. Sono neurotrasmettitori inibitori, in quanto determinano
iperpolarizzazione tramite l’entrata di ioni cloro nella fibra, che diventa refrattaria (il suo potenziale
di membrana è lontano dal potenziale soglia, impedendo ai normali potenziali d’azione di insorgere).
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Sono neurotrasmettitori eterorecettoriali (hanno recettori su ogni fibra sia centrale che periferica) e
possono essere pre- o post-sinaptici.
- Amminoacidi acidi: glutammato e aspartato. Sono neurotrasmettitori eccitatori, che avvicinano il
potenziale di membrana, modulando il K+ e facilitando l’insorgenza di potenziali d’azione.
AMMINOACIDI NEUTRI
Gli amminoacidi neutri hanno attività inibitoria: essi aumentano la permeabilità della membrana cellulare agli
ioni cloro (che entrano), determinando una riduzione dell’eccitabilità della fibra. Questi neurotrasmettitori
sono in genere rilasciati da interneuroni, che, quindi, eserciteranno un’azione inibitoria a valle. Il loro scopo è
regolarizzare l’attività neuronale e sono in genere presenti a livello corticale, pontino e midollare.
Trasmissione glicinergica
La trasmissione glicinergica è dotata di due funzioni principali:
- La glicina è localizzata a livello della sostanza grigia del midollo spinale. Viene rilasciata da piccoli
interneuroni facenti parte dei circuiti locali inibitori coinvolti nell’inibizione post-sinaptica (circuiti
automatici e del controllo fine). Il neurotrasmettitore è rilasciato anche dai neuroni spinali del tronco
encefalico.
- La glicina agisce come co-trasmettitore con l’acido glutammico: il neurone glicinergico rilascia Gly
in vicinanza di un recettore glutammatergico (NMDA, recettore eccitatorio). Se non fosse presente la
glicina, il recettore NMDA, anche in presenza di glutammato, non potrebbe aprirsi. C’è una stretta
coordinazione tra le fibre eccitatorie e le fibre inibitorie, tanto che in presenza di un eccesso di
eccitazione (attivazione di NMDA) osserviamo di pari passi un’inibizione del rilascio di glicina (che
va a ridurre l’attivazione del recettore per il glutammmato); viceversa, in presenza di un’eccessiva
inibizione dovuta a rilascio di glicina, questa stimola l’eccitazione permettendo all’NMDA di aprirsi
in presenza d glutammato.
Il recettore per la glicina è un canale per il cloro, costituito da cinque subunità, tre alfa (di cui esistono almeno
quattro isoforme) e due beta; la composizione, tuttavia, varia in base all’evoluzione del soggetto (distinguiamo
infatti un recettore embrionale – 5 alfa1 – e quello adulto).
Dal punto di vista farmacologico:
- Sono agonisti la taurina e la beta-alanina; si comportano inoltre come modulatori allosterici positivi
alcuni anestetici generali e gli idrocarburi alogenati volatili, come l’etere e l’etanolo. Questi agonisti
determinano una riduzione del movimento fine e mancanza di coordinamento: vengono usati, in
genere, in tutte quelle patologie caratterizzate da spasmi muscolari.
- Sono antagonisti la stricnica, che provoca convulsioni midollari, e la tossina tetanica, che impedisce il
rilascio di glicina dagli interneuroni inibitori spinali, provocando ipereccitabilità e spasmi muscolari.
Trasmissione GABAergica
La trasmissione GABAergica è strettamente connessa a quella glutammatergica, in quanto le due vie si
compensano a vicenda: dove c’è un terminale GABAergico troviamo quasi sempre un terminale
glutammatergico, per cui osserviamo eccitazione ed inibizione assieme.
Più che i somi, che in realtà sono anche distanti tra di loro, sono i bottoni sinaptici che vengono a trovarsi
vicini e sono intermezzati dall’astroglia. Gli astrociti hanno un’importante funzione di terminazione del
segnale, sia GABA- che glutammatergico: si verificano, infatti, meccanismi di diluizione e di re-uptake di tipo
2, in cui l’astrocita degrada sia glutammato che GABA in glutammina, che è il precursore comune ad entrambi
i neurotrasmettitori, che verrà quindi rilasciata dall’astrocita ai neuroni GABA e glutammatergici.
In questo modo, osserviamo che l’attivazione di una via comporta necessariamente l’attivazione dell’altra via
e entrambe le trasmissioni sono pressocché inesauribili.
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Lo spegnimento del segnale mediato da GABA è indotto dai recettori metabotrobi del glutammato, gli NMDA:
è quindi il glutammato che decide quanto GABA deve restare nello spazio intersinaptico e quanto, invece,
deve essere ricaptato dall’astroglia e degradato ad opera dell’enzima GABA-T.
Neuroni GABAergici sono presenti praticamente ovunque nel sistema nervoso, ma sono particolarmente
rappresentati a livello della sostanza nera. Troviamo GABA anche nei neuroni del globo pallido,
dell’ipotalamo, del cervelletto, dell’ippocampo e della corteccia cerebrale). Le principali vei GABAergiche
sono rappresentate dalla via nigro-striatale, nigro-collicolare, nigro-talamica e nigro-tegmentale: è quindi
coinvolta nel movimento, nella regolazione neuroendocrina, nella respirazione e nella gestione di aspetti
cognitivi.
Inoltre, le vie GABAergiche hanno un ruolo anche nel morbo di Parkinson, che deriva dalla mancanza di
dopamina e neuroni dopaminergici. Questi neuroni controllano l’attività di neuroni colinergici, i quali,
normalmente, stimolerebbero un neurone GABAergico (recettori M3) che a sua volta controlla un secondo
neurone GABAergico. Questo, a sua volta, ha efferenze sul neurone dopaminergico. Quando viene a mancare
la trasmissione dopaminergica osserviamo da un lato un ipertono colinergico e, contemporaneamente, perdita
di tono GABAergico del secondo neurone dovuto a ipertono del primo neurone. Per questo motivo, nel morbo
di Parkinson, possiamo:
- Ripristinare la stimolazione dei recettori D2 (somministrando ad esempio L-DOPA) per ottenere una
riduzione dell’ipertono colinergico
- Utilizzare antagonisti M3 per ridurre l’ipertono GABAergico del primo neurone.
RECETTORI DEL GABA
I recettori sono tutti collegati all’attività di canali ionici, sia direttamente che indirettamente. Possono essere
sia presinaptici che postsinaptici e, a livello post-sinaptico, mediano l’inibizione del potenziale e quindi
dell’eccitabilità neuronale in maniera rapida (GABAA) e lenta (GABAB). Sono suddivisi in due categorie:
- GABAA
È un recettore ionotropo, consistente in un canale per il cloro (quindi manifesta i suoi effetti rapidamente). Di
recettori GABAA ne conosciamo tre tipi differenti:
- GABAA (formato da diverse subunità, le cui combinazioni danno origine a 8 sottotipi differenti)
- GABAC
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- GABAD
I recettori GABAA sono composti da cinque subunità, ciascuna delle quali presenta diversi sottotipi differenti,
sebbene presentino tutte una struttura simili con quattro domini transmembrana. Ogni recettore,
indipendentemente dalla combinazione delle subunità, è costituito da due subunità beta, responsabili per il
legame con l’agonista. Ad esse si uniscono normalmente le subunità alfa e gamma, che sono le più
rappresentate nell’organismo, ma sono possibili anche delta, epsilon, rho (è ben rappresentata a livello della
retina) e theta. La combinazione di tutte le varie subunità conferisce collocazione anatomica diversa ai recettori
e diversa affinità per agonisti e antagonisti. Il recettore del GABAA, inoltre, è dotato di attività costitutiva,
potendo aprirsi autonomamente per normalizzare l’attività elettrica: in eccesso di depolarizzazione, il canale
si apre per far entrare cloro.
Sulle subunità, inoltre, sono presenti numerosi siti allosterici, sui quali si basa la farmacologia del GABA.
La subunità alfa presenta siti di riconoscimento per le benzodiazepine e per benzodiazepine-mimetici (che
sono agonisti non del GABA ma agonisti del recettore GABAA). Sono dei veri e propri siti di riconoscimento,
indicati come BZ1, BZ2 e BZ3. A questo livello agiscono ipnoinducenti (es. triazolam) e gli agonisti
imidazopiridinici (farmaci per l’insonnia). Il legame di queste molecole ai siti per le benzodiazepine determina
solamente una modulazione del legame del recettore con il GABA, in quanto in assenza di GABA, comunque,
il recettore non si apre: essi aumentano la frequenza di apertura del canale, potenziando così l’ampiezza e la
durata dell’effetto inibitorio.
All’interno del canale, inoltre, troviamo ulteriori siti di regolazione allosterici:
- Siti per i barbiturici (che quindi sono agonisti allosterici intracanale)
- Siti per gli steroidi (quindi variazioni nei livelli ormonali possono variare l’attività elettrica cerebrale)
- Siti per l’etanolo
- Siti per derivati organofosforici
Questi siti sono in grado di modulare l’apertura del canale, aumentando o diminuendo il tempo e la frequenza
di apertura. In particolare:
- Le benzodiazepine (es. diazepam) potenziano l’attività del GABA, in quanto aumentano l’apertura del
canale, lasciandolo aperto, ma solo in presenza del neurotrasmettitore.
- I barbiturici, invece, legano il recettore all’interno del canale, determinandone l’apertura (e lasciandolo
aperto) indipendentemente dalla presenza del GABA. Questo giustifica la finestra terapeutica più ristretta
dei barbiturici (che possono facilmente deprimere l’attività elettrica cerebrale).
Attualmente si stanno studiando nuovi farmaci ipno-inducenti, definiti Z-drugs (es. zolpidem), che andranno
a sostituire le benzodiazepine, in quanto non presentano gli stessi svantaggi di BZ e barbiturici; questi nuovi
farmaci, infatti:
- Non sono induttori metabolici (a differenza dei barbiturici e BZ, che richiedevano un progressivo aumento
della dose, con il rischio di superare la finestra terapeutica)
- Non alterano la fase REM, che ha la funzione di fissare la memoria (BZ e barbiturici inducono un sonno
artificiale)
- Non danno dipendenza finisca e psicologica
- GABAB
Questo recettore è accoppiato a proteine G inibitorie ed è costituito da due subunità unite, GABAB1a e
GABAB2a. ne esistono almeno 7-8 sottotipi. Essi possono essere recettori presinaptici auto- ed etero-inibitori,
oppure possono trovarsi a livello dell’astroglia per la gestione del metabolismo di GABA e glutammato.
I GABAB sono localizzati:
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- A livello centrale:
o Sull’astroglia
o Sui terminali pre-sinaptici GABAergici
o Sui terminali pre- e post-sinaptici di altre vie nervose
- A livello periferico:
o Sull’utero (dove gestiscono la dinamica spastica dell’utero e la secrezione di PGE, che a loro
volta regolano l’attività delle miocellule e delle fibre nocicettive
o Sul fegato (dove gestiscono il flusso vascolare epatico)
o Sulle fibre muscolari lisce
Il recettore si occupa della regolazione di:
- Canali per il Ca2+ (se il recettore è presinaptico): la riduzione dell’cAMP sembra essere associata alla
fosforilazione del canale VDCC o all’ingresso di correnti ioniche; il risultato finale è il blocco
dell’ingresso di calcio con conseguente blocco dell’esocitosi vescicolare.
- Canali per il K+ (se il recettore è post-sinaptico): l’uscita di potassio iperpolarizza la cellulare,
riducendo la trasmissione del segnale.
Questo tipo di recettori è coinvolto in:
- Rilassamento muscolare mediato a livello centrale
- Anti-nocicettivo
- Confusione
- Epilettogenesi
- Ipotensione
- Riduzione del desiderio di cocaina ed eroina
- Termogenesi
- Rilassamento polmonare e vescicale
- Secrezione di prolattina
Dal punto di vista terapeutico, i GABAB presentano un minor numero di farmaci, sia perché sono stati scoperti
più recentemente dei GABAA, sia perchè, trovandosi a livello pre- e post-sinaptico, hanno sostanzialmente
effetti opposti:
- A livello pre-sinaptico, abbiamo inibizione dell’ulteriore rilascio di GABA. A questo livello agiscono
farmaci antiepilettici e antiansiogeni
- A livello post-sinaptico, invece, abbiamo o continuazione dell’azione del GABA o riduzione della
secrezione di vescicole di altri neurotrasmettitori.
I principali farmaci sono rappresentati da:
- Bacoflen (agonista): inibisce la liberazione di glutammato nel midollo (interagendo con un recettore
GABAergico presinaptico eterologo inibitorio) e blocca gli spasmi indotti dal glutammato. Regola
inoltre la trasmissione glicinergica a livello midollare.
- Saclofen (antagonista)
AMMINOACIDI ACIDI
Sia L-glutammato che L-aspartato sono presenti in concentrazioni elevate nel SNC, con effetto eccitatorio su
molti neuroni. Tra di essi, quello più importante è rappresentato del glutammato, intervenendo in tutta una
serie di funzioni, quali:
- Percezione delle sensazioni
- Dolore
- Memoria
- Coordinamento dei movimenti
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Pur essendo associati ai neuroni GABAergici a livello dei bottoni sinaptici, i neuroni glutammatergici hanno i
propri somi localizzati a livello pontino. Da essi partono le vie:
- Cortico-corticali
- Cortico-talamiche
- Extrapiramidali
- Ippocampali
Abbiamo poi anche proiezioni tra la corteccia, la sostanza nera, il nucleo subtalamico e il globus pallidus.
Inoltre, i recettori glutammatergici sono presenti su tutte le vie di trasmissione (soprattutto colinergiche, ma
anche dopaminergiche e serotoninergiche) con funzione di gestione presinaptica eterologa: questo meccanismo
è particolarmente importante, in quanto una sovrastimolazione glutammatergica porta a degenerazione dei
neuroni colinergici, alla base del morbo di Alzheimer.
Oltre alle funzioni di coordinamento, il glutammato svolge un importante ruolo della regolazione del
metabolismo dell’astroglia (dove stimola il reuptake del GABA). Lo stesso glutammato, una volta rilasciato,
viene sottoposto a meccanismi di reuptake, trasportato all’interno delle cellule della glia o delle cellule
presinaptiche glutammatergiche. È inoltre sottoposto a un meccanismo di diluizione, che gli permette di andare
ad agire sui recettori glutammatergici circostanti (tra cui quelli dell’astroglia).
RECETTORI DEL GLUTAMMATO
Ne esistono sostanzialmente di due tipi:
- Ionotropi: sono i recettori AMPA (o GluA), NMDA (GluN) e Kainato (GluK)
- Metabotropi (MGlu): possono essere presinaptici (inibitori autologhi), postsinaptici (eccitatori
autologhi) e presenti sull’astroglia (responsabili del reuptake). Sono diffusi soprattutto a livello
corticale.
In generale, i recettori AMPA sono sempre associati a recettori NMDA, mentre non è necessariamente vero il
contrario. I due recettori determinano una trasmissione differente: una rapida, legata al coinvolgimento di Na+
e K+, e una prolungata, legata al Ca2+.
I recettori AMPA determinano un’eccitazione post-sinaptica rapida, dovuta all’ingresso di Na+ e all’uscita di
K+, con conseguente depolarizzazione della membrana che permette l’apertura del recettore NMDA.
Quest’ultimo, una volta aperto, rimane aperto e determina un enorme afflusso di Ca+ nel neurone, attivando
tutta una serie di meccanismi, tra cui quelli dei neurotrasmettitori a richiesta (in particolare, attivazione della
NOS neuronale), del reclutamento vescicolare e di attivazione enzimatica (con possibile produzione di ROS).
Quando funziona in modo normale, NMDA permette la formazione di nuove sinapsi ed è coinvolto quindi
nello sviluppo dell’intelligenza. Al contrario, se sregolato, è causa di neuroeccitotossicità (dovuta a
un’eccessiva produzione di NO che può dare origine a radicali dell’ossigeno e dell’azoto). Essendo così
delicato, il recettore NMDA presenta diversi livelli di regolazione:
- All’interno del canale presenta un sito di legame per il Mg2+, che tiene chiuso il canale stesso
- Presenta un sito di legame per la glicina: in assenza di glicina, il recettore non può aprirsi anche se è
presente glutammato
- Se presenti i recettori AMPA, occorre prima la depolarizzazione indotta dalla loro apertura (che
permette l’uscita del Mg2+ dal canale)
Il segnale viene spento dallo stesso NO prodotto, che va a legarsi agli NMDA (NMDA è quindi anche un
recettore per NO) e ne determina una chiusura lenta e graduale. Inoltre, NO stimola l’ulteriore rilascio di
glutammato a livello presinaptico, evocando fenomeni di desensitizzazione. Se questi meccanismi di
spegnimento del segnale non funzionano e non sono attivi i meccanismi di catalisi del monossido, la cellula
va incontro a morte.
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Il recettore GluK è invece un recettore presinaptico, che inibisce il rilascio di glutammato. Agonisti di questo
recettore tuttavia sembrano non spegnere completamente la risposta.
Dal punto di vista farmacologico, i principali gruppi di farmaci che intervengono nella trasmissione
glutammatergiche sono antiepilettici e antidepressivi (ketamina-simili, hanno effetti immediati in quanto non
devono portare a un rimodellamento della via). Gli antiepilettici sono antagonisti NMDA, che riducono
l’eccitabilità della fibra e la propagazione della scarica elettrica: si ha formazione del potenziale transiente
dovuto agli AMPA ma non abbiamo il perpetuarsi della scarica da parte degli NMDA. Nel soggetto epilettico
è importante evitare le scariche anomale, che rischierebbero di portare a morte i neuroni (causando quindi
demenza).
NITROSSIDO
Il nitrossido è una molecola con caratteristiche di radicale libero dell’azoto, in grado di avere effetti sia
riducenti che ossidanti: in quanto radicale, è dotato della capacità di spostare elettroni e produrre altre molecole
radicaliche, tra cui radicali dell’ossigeno. È anche un potente mediatore dell’infiammazione. Dal punto di vista
della trasmissione sinaptica, NO è un neurotrasmettitore a richiesta (quindi la sua produzione è strettamente
legata all’attivazione calcio-dipendente di enzimi) ed è connesso ad altre vie nervose (a livello cardiovascolare,
viene prodotto in seguito all’attivazione dei recettori M3 ed è connesso con i recettori beta-adrenergici).
Poiché è una molecola radicalica, NO deve interagire con una serie di molecole, formando prodotti attivi dal
punto di vista biologico e più stabili: il principale gruppo con cui interagisce NO è il gruppo eme e i principali
recettori di NO presentano proprio questo gruppo. Tra i principali recettori, troviamo la guanilato ciclasi (sia
centralmente che in periferia) con produzione del secondo messaggero cGMP responsabile degli effetti a valle
della via nitrossidergica. I recettori con attività guanilato ciclasica sono recettori con una struttura semplice,
formata da un’unica catena transmembrana, con un dominio extracellulare per i ligandi e uno intracellulari con
attività enzimatica. Come i recettori con attività TK, anche questi recettori vanno incontro a dimerizzazione,
che determina l’attivazione dell’effettore guanilato-ciclasi ad opera della subunità alfas-GTP, con produzione
di cGMP i cui livelli attivano la PKG. La fosforilazione operata dalla chinasi porta alla fosforilazione di canali
ionici del calcio, con aumento dell’afflusso di calcio nella cellula. Il recettore, oltre che a essere sensibile alla
NO, riconosce anche l’ANP e la tossina termostabile dell’E. Coli.
In generale NO, oltre a interagire con enzimi dotati di gruppo eme, interagisce anche con:
- Amine (con formazione di prodotti antibiotici)
- Composti solforati
- Ossiemoglobina
- Ozono
- Ossigeno
- Ione superossido
NO ha un’emivita molto breve: esso viene prodotto localmente e può agire dove viene prodotto. Le variazioni
di calcio che portano alla produzione di NO possono essere sia transienti che persistenti. A livello endoteliale,
le variazioni di calcio sono indotte dallo shear stress mentre la degenerazione endoteliale (come nel diabete) o
danno endoteliale riducono la produzione di NO, portando a problematiche vascolari quali
- Indurimento del vaso
- Ispessimento del vaso
- Riduzione e mancanza della capacità vasodilatatoria.
Dal punto di vista farmacologico, NO è interessante in quanto è coinvolto:
- Nel danno da riperfusione post-ischemica
- Nel danno da neurotossicità a livello centrale
I principali effetti del nitrossido si esplicano:
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- A livello centrale: l’enzima nNOS è presente sia a livello pre- che post-sinaptico, soprattutto nelle aree
del cervelletto, del bulbo olfattivo e dell’ippocampo (zona più importante). A livello centrale, NO:
o È un co-trasmettitore: il cGMP che viene liberato in seguito all’attivazione della guanilato
ciclasi porta a un potenziamento a lungo termine del segnale
o È un neurotrasmettitore a richiesta, coinvolto in:
A) Plasticità neuronale, che porta alla formazione di nuove sinapsi e memoria ed è
coinvolto nel controllo dell’appetito e della nocicezione
B) Visione
C) Controllo del movimento
D) Udito
E) Citoprotezione
F) Eccitotossicità (mediata dai recettori NMDA)
- A livello periferico: troviamo NO soprattutto a livello gastrico, dove è coinvolto nello svuotamento
gastrico e nella vasodilatazione gastrica. Inoltre è responsabile, tramite vasodilatazione, dell’erezione
del pene.
- A livello cardiovascolare: NO è coinvolto nel
o Controllo del flusso ematico loco-regionale; viene rilasciato sia sulle cellule muscolari lisce
dei vasi sia nel flusso ematico e, insieme all’istamina, controlla il flusso vascolare per gestire
l’esigenza locale di ossigeno e nutrienti
o Abbassamento della pressione sanguigna grazie al suo effetto vasodilatatorio
o Funziona da co-trasmettitore della noradrenalina sui recettori alfa2 adrenergici presinaptici
- A livello piastrinico: NO inibisce l’adesione e l’aggregazione piastrinica. Da questo punto di vista,
tuttavia, non usiamo farmaci non tanto perché non esistano ma perché abbiamo farmaci migliori
(FANS, etc.) capaci di agire sulla COX e sulla trombina.
SINTESI DEL NO
NO viene prodotto a partire dall’amminoacido L-arginina, su cui operano una classe di enzimi definiti NOS
(NO Sintasi), convertendolo in citrullina e monossido d’azoto. L’enzima è presente in tre differenti isoforme,
che hanno la stessa azione ma che si differenziano per collocazione anatomica, la eventuale dipendenza dal
calcio e il meccanismo di induzione. I glucocorticoidi sono in grado di inibire tutte e tre le isoforme (soprattutto
la forma inducibile, che è coinvolta nell’azione di difesa del sistema immunitario – e infatti i glucocorticoidi
sono immunodepressori –). La NOS forma complessi di attivazione con NADPH, FAD, FMN e Ca+2-
calmodulina.
Le tre isoforme sono:
- nNOS o NOS neuronale (tipo I). Insieme alla eNOS è un enzima costitutivo, già presente all’interno
delle cellule, legati alla porzione interna della membrana. Esse sono calcio-dipendenti (la loro
attivazione è legata ai livelli di calcio intracellulare): qualunque meccanismo porti a variazioni di
Ca2+, varia anche l’attività delle NOS. Il grado di fosforilazione dell’enzima è importante per la
processività dell’enzima stesso: la fosforilazione inibisce nNOS, mentre la defosforilazione lo attiva.
Attualmente, si stanno studiando certe molecole capaci di agire su nNOS ed evitare i danni da
perossidazione a livello neuronale. I meccanismi di eccitotossicità sono particolarmente legati ai
recettori NMDA, che, facendo entrare grosse quantità di Ca2+ determina un’enorme produzione di
NO. In condizioni fisiologiche, NO è coinvolto nella plasticità neuronale e capace di inibire NMDA
stesso, ma in presenza di squilibri è responsabile di morte neuronale (NB: anche lo stesso eccesso di
Ca2+ è tossico per le cellule, a prescindere da NO). Inoltre, a livello pre-sinaptico (è un mediatore
retrogrado), NO potenzia il rilascio di glutammato.
Il calcio in entrata lega la calmodulina, che a sua volta lega nNOS e ne permette la traslocazione nel
citoplasma: qui, nNOS viene defosforilata da parte della calcineurina.
- eNOS o NOS endoteliale (tipo III). Come la nNOS, è un enzima costitutivo. I recettori M3 attivano
la PLC, con conseguente aumento del calcio citoplasmatico che attiva la calmodulina; il complesso
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Ca-Calmodulina attiva la eNOS (che può restare in membrana o essere liberata nel citoplasma). NO
che viene prodotto dalla eNOS può essere rilasciato nel sangue oppure andare ad agire sulle fibre
muscolari lisce vascolari, dove porta a fosforilazione della catena leggera della miosina (quindi
miorilassamento e vasodilatazione).
A questo livello importanti farmaci sono i nitroderivati come la nitroglicerina: queste molecole sono
nitrodonatori, ovvero molecole capaci di rilasciare gruppi NO (o per via enzimatica o in maniera
diretta) mimando quindi l’effetto fisiologico del NO. Questi farmaci sono particolarmente attivi a
livello venoso e del microcircolo periferico, funzionando particolarmente bene in caso di sichemia
cardiaca. Il rilascio di No, infatti, causando vasodilatazione, determina:
o aumento della perfusione delle zone ischemiche, impedendo la morte del tessuto. In
particolare, NO vasodilata le coronarie, migliorando la perfusione e l’apporto di ossigeno al
cuore. I nitroderivati vengono usati anche in caso di angina, dolore toracico dovuto a ridotto
apporto di ossigeno al cuore per riduzione del lume coronarico: somministrando nitroderivati
per via sublinguale o transdermica, induciamo vasodilatazione molto velocemente, risolvendo
la situazione (ma non la patologia, per la quale il paziente dovrà essere tenuto sotto contrario).
o Riduzione del ritorno venoso, riducendo così il pre-carico del cuore e il lavoro che il miocardio
deve svolgere, cosa che va a ridurre la richiesta di ossigeno e migliorare la performance
cardiaca.
Tutte le patologie a carico dell’endotelio portano a una riduzione della sintesi di NO per riduzione
delle eNOS (una volta che l’endotelio è danneggiato non può essere recuperato). In caso di
degenerazione endoteliali (come si osserva nel diabetico), l’endotelio non riesce nemmeno a convertire
i nitroderivati in NO: quindi i nitroderirivati non sono utilizzabili in queste condizioni. Il cGMP che
viene prodotto a seguito dell’attivazione della guanilato ciclasi va ad agire su:
o Chinasi
o Fosfodiesterasi (inibitori delle fosfodiesterasi come le metilxantine possono prolungare
l’effetto di NO)
o Canali ionici
L’effetto finale che si ottiene è la vasodilatazione: NO è implicato non solo a livello coronarico, ma
anche celebrale e polmonare (NO inalato può servire da broncodilatatore e, attualmente, si stanno
studiando nuovi usi del viagra, per risolvere l’ipertensione polmonare).
- iNOS o NOS inducibile (tipo II): ogni qualvolta ci tagliamo o feriamo, le cellule del sistema
immunitario vanno incontro a una notevole produzione di NO (che, seppur disinfetta, ha anche effetto
vasodilatatore, aggravando la situazione in caso di sepsi, perché porta a ipotensione e riduzione della
funzionalità renale): quest’evento è dovuto a un meccanismo trascrizionale calcio-indipendente per
cui le cellule esprimono la iNOS (che quindi viene indotta) per produrre NO ed esercitare una funzione
disinfettante. Una volta trascritta, tuttavia, iNOS non può essere disattivata se non dalla perossidazione
indotta da NO che determina morte cellulare generalizzata a livello della ferita.
iNOS può essere indotta da una serie di citochine: tra le citochine troviamo anche IFN, che, legandosi
al suo recettore, attiva le chinasi Jak con fosforilazione e dimerizzazione di STAT, che nel nucleo
stimolano anche la trascrizione del gene iNOS.
FARMACOLOGIA DEL NITROSSIDO
I principali farmaci che possono agire sulla trasmissione nitrossidergica sono:
- Nitrodonatori (nitroglicerina, nitroprussiato): hanno effetto vasodilatatore. Un sovradosaggio, tuttavia,
porta a emicrania da vasodilatazione dei vasi cerebrali.
- Precursori (L-arginina)
- Inibitori della sintesi di NO (L-NAME): NO è infatti anche associato ai danni da riperfusione post-
ischemica; se riduco la sintesi di NO (e di conseguenza la vasodilatazione che porta a un aumento del
flusso di ossigeno ai tessuti ischemici) vado a limitare i danni. Inibendo la sintesi, tuttavia, aumentiamo
la suscettibilità a infezioni
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- Inibitori della fosfodiesterasi (PD5): inibendo l’enzima che lo degrada, aumentiamo l’emivita del
cGMP prolungandone l’effetto. Questi farmaci, tuttavia, funzionano solo se la produzione di cGMP è
partita.
FARMACOLOGIA DELL’INFIAMMAZIONE
Un’altra importante molecola che ha anche funzione di neurotrasmettitore a richiesta è rappresentata dalle
prostaglandine: a livello sinaptico, la loro sintesi è attivata da livelli prolungati di calcio intracitoplasmatico,
che attivano la cascata dell’acido arachidonico attraverso una serie di chinasi che attivano la PLA2, con
liberazione di acido arachidonico dalla membrana plasmatica. L’acido arachidonico, quindi, viene sottoposta
all’azione enzimatica delle COX per essere convertito in PG. Dal momento che le PG vengono prodotte anche
a livello nervoso, esisteranno anche specifici recettori, dei quali, tuttavia, non è stata ancora chiarita
completamente la funzione.
A livello periferico, tutti gli organi sono in grado di produrre localmente molecole su richiesta: oltre alle PG,
possono essere prodotti anche trombossano, leucotrieni, prostacicline. Cosa viene prodotto è determinato dal
patrimonio genetico (e quindi enzimatico) della singola cellula:
- Le piastrine presentano l’enzima per produrre trombossano a valle della COX
- Altri tessuti possono avere le prostaglandino-sintasi
- Altri ancora le lipossigenasi per la produzione dei leucotrieni
GLUCOCORTICOIDI
Poiché ogni tessuto può produrre i derivati dell’acido arachidonico, l’utilizzo di antagonisti come i
glucocorticoidi, che inibiscono la sintesi di molti mediatori dell’infiammazione, determina la comparsa di tutta
una serie di effetti collaterali. I glucocorticoidi sono farmaci molto potenti, in quanto:
- Inibiscono la sintesi di
o COX (in questo modo, viene bloccata la sintesi di qualsiasi molecola a valle delle COX, con
effetto immunosopressore)
o Fosfolipasi
o iNOS
o Citochine e recettori infiammatori (es. IL2 e IL2R, coinvolte nella comparsa di reazioni
autoimmuni e rigetto del trapianto)
- Inducono la produzione di annessina-1/lipocortina-1 che inibisce la fosfolipasi A2, bloccando la
liberazione di acido arachidonico e tutta la cascata da esso legata: hanno quindi una potente azione
immunosoppressiva.
I glucocorticoidi (ma anche i FANS in generale) presentano una serie di effetti collaterali tempo-dipendenti:
più usiamo i glucocorticoidi e più effetti collaterali abbiamo. I glucocorticoidi svolgono la loro azione tramite
una modificazione dell’espressione genica: nel momento in cui la molecola si lega al suo recettore, il
complesso dimerizza, traslocando quindi nel nucleo dove si lega a specifiche sequenze HRE nel DNA,
modulando la trascrizione. Inoltre, i glucocorticoidi sembrano avere una serie di effetti rapidi non genomici,
che tuttavia sono poco chiari.
I glucocorticoidi hanno sia effetti positivi che negativi:
- Effetti positivi
o Inducono vasocostrizione, in quanto bloccano la produzione di prostacicline, che invece
vasodilatano; questo permette di ridurre l’edema. In caso di asma, inoltre, i glucocorticoidi
permettono un ripristino dalla funzionalità respiratoria grazie al riassorbimento dell’essudato
o Riducono il danno bronchiale, in quanto inibiscono la produzione di citochine pro-
infiammatorie. Inoltre, è possibile somministrare a scopo profilattico basse dosi di
glucocorticoidi per evitare il danno all’epitelio bronchiale
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o Riducono la secrezione di muco (e quindi riducono la costrizione bronchiale)
- Effetti negativi
o Determinano una riduzione nel numero di eosinofili, linfociti T, mastociti, macrofagi e cellule
dendritiche: questo può rappresentare sia un vantaggio (in quanto blocco reazioni
autoimmuni) sia svantaggio (in quanto riduco la risposta nei confronti di patogeni)
I glucocorticoidi, inoltre, poiché sono anche dotati di effetti mineralcorticoidi, possono portare allo sviluppo
della sindrome di Cushing iatrogena, caratterizzata da fragilità capillare, accumulo di grasso, modificazioni a
livello del muscolo scheletrico e pancia grossa dovuta ad accumulo di liquidi e grassi a livello mesenterico.
INDUZIONE DELLA CASCATA DELL’ACIDO ARACHIDONICO
La cascata dell’acido arachidonico può essere indotta da stimoli:
- Fisiologici, quali:
o Liberazione di istamina; questa svolge un’importante funzione a livello vascolare (induce
vasodilatazione) e a livello gastrico (dove lega i recettori H2); a livello gastrico, in particolare,
determina:
A) Riduzione della secrezione acida
B) Induzione della produzione di PG agendo sul recettore gastrico EP3; le prostaglandine
contribuiscono a spegnere la secrezione acida e inducono la produzione di muco e
bicarbonati. Per questo motivo, l’uso prolungato di FANS può portare a
problematiche gastrointestinali
o Liberazione di bradichinina
o Liberazione di vasopressina
o Liberazione di angiotensina 2
o Produzione di IL1
o Produzione di leucotrieni
o Produzione di fattori di crescita
o Produzione di proteasi: in fase acuta di malattia, nel plasma circolano proteasi che hanno come
scopo quello di tagliare agenti esterni pericolosi per l’organismo in maniera totalmente
aspecifica.
- Fisici, quali:
o Ischemia: in caso di ischemia vengono prodotte PG (in quanto il tessuto è in sofferenza e
induce infiammazione); trattando il paziente subito (es. somministrazione di aspirina)
possiamo ridurre il peggioramento del paziente, sia perché blocchiamo la produzione di PG
sia perché ostacoliamo l’aggregazione piastrinica
o Shear stress
o Danno tissutale
- Farmacologici, quali
o Somministrazione di noradrenalina
o Forbolo miristato acetato
Insieme all’acido arachidonico, dalla membrana si distacca PAF, che, avendo molte funzioni, non ha ancora
una precisa applicazione terapeutica.
I mediatori dell’acido arachidonico, in generale, quindi, modulano:
- Vasocostrizione
- Broncocostrizione
- Aumento della permeabilità vascolare
- A livello nervoso gestiscono la produzione di nuove sinapsi (PG sono neurotrasmettitori a richiesta,
che agiscono soprattutto a livello presinaptico, potendo essere inibitori o facilitatori a seconda della
collocazione anatomica.
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FARMACI ANTINFIAMMATORI
Distinguiamo tra farmaci antifiammatori steroidei (i glucocorticoidi) e non steroidei (detti FANS). I FANS
sono farmaci che determinano il blocco della sola attività della COX, per cui non bloccano la produzione di
leucotrieni ed epossidi, mentre bloccano prostaglandine, prostacicline e trombossani.
Tipico esempio di FANS è rappresentato dall’acido acetilsalicilico (o aspirina): è l’unico FANS che è un
antagonista non competitivo. L’aspirina si comporta da inibitore sucida, bloccando la COX1 delle piastrine:
poiché le piastrine sono prive di DNA, esse non possono ripristinare le proprie riserve di COX. Questo, oltre
a comportare blocco della sintesi di trombossano, determina anche il fatto che, finché nuove piastrine non
vengono prodotte, quelle presenti saranno anche impossibilitate ad aggregare per effetto dell’aspirina.
Non tutti i pazienti, tuttavia, possono essere trattati con aspirina. Questo perché esiste un polimorfismo a livello
delle COX, che determina l’esistenza di varianti enzimatiche sensibili o meno all’aspirina. Inoltre, l’aspirina
presenta tutta una serie di effetti collaterali che limitano il range di pazienti du cui può essere usata.
Un altro esempio di FANS è rappresentato dal paracetamolo che, come tutti i FANS, è un antagonista
competitivo.
L’esistenza di un gran numero di FANS è dovuto al fatto che non tutti riconoscono generalmente le COX, ma
esistono molecole più selettive per un tipo o per un altro di COX: COX1 è la forma costitutiva, mentre COX2
è la forma inducibile in presenza di un’infiammazione cronica.
RECETORI DEI PROSTANOIDI
Il termine prostanoidi comprende sia i trombossani (TX) che le prostaglandine (PG).
Il recettore per il trombossano, TP, è presente a livello:
- Endoteliale, dove induce l’aggregazione piastrinica (dovuta all’esposizione di integrine) e la
contrazione dell’endotelio
- Piastrinico, dove amplifica l’aggregazione piastrinica
Per quanto riguarda le prostaglandine, occorre distinguere tra le diverse molecole:
- PG-I2 (prostaciclina): agisce sul recettore IP, collocato a livello dei vasi, dove induce vasodilatazione,
e allivello piastrinico, dove inibisce l’aggregazione piastrinica (anche se non riusciamo ad agire
farmacologicamente su questo recettore).
- PG-E2: è ubiquitaria nel SNC, trovandola soprattutto a livello presinaptico, dove può esercitare sia
funzione facilitatoria che inibitoria (più frequente). Le PG-E2 sono mediatori della febbre, a livello
ipotalamico (insieme a IL1, che stimola la sintesi di PGE2). Possono agire su tre tipi differenti di
recettore:
o EP1: determina contrazione della muscolatura liscia bronchiale e gastrointestinale
o EP2: determina rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale, vascolare e gastrointestinale
(l’effetto opposto di EP1 ed EP2 è dovuto alla diversa collocazione anatomica)
o EP3: è il recettore più importante, localizzato:
A) Nella mucosa gastrica, dove inibisce la secrezione di HCl e induce la secrezione di
bicarbonato e muco
B) Nella muscolatura liscia (sulla quale inducono contrazione) di utero (sia gravido che
non gravido: agonisti di EP3 inducono parto pretermine e possono essere usati per
indurre aborto e vengono usati in sostituzione dell’ossitocina, la quale funziona solo
al termine della gravidanza) e del tratto gastrointestinale
C) A livello del simpatico e parasimpatico, dove inibisce il rilascio di neurotrasmettitori
periferici
D) A livello renale, dove induce vasodilatazione
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- PG-F2alfa: interagisce con i recettori FP di muscolatura liscia e corpo luteo, inducendo contrazione
dell’utero. Inoltre, esistono una serie di farmaci che agiscono su questo recettore usati in campo
oftalmico.
- PG-D2: deriva soprattutto dai mastociti e agisce su recettori DP, inducendo vasodilatazione e inibendo
l’aggregazione piastrinica. Può inoltre interagire con il recettore PGD2-GPR44, coinvolto
nell’alopecia androgenetica.
Sia PG, che trombossano e prostacicline hanno un’emivita troppo breve per poter essere usati come farmaci.
Al loro posto, vengono usati analoghi strutturali più stabili.
LEUCOTRIENI
Anche le leucotrieni derivano dall’acido arachidonico e vengono prevalentemente prodotti dai
polimorfonucleati e a livello polmonare. Queste molecole hanno attività di:
- Vasocostrizione coronarica
- Contrazione delle vie aeree di piccolo calibro
- Stimolazione della secrezione tracheale
- Aumento della permeabilità delle pareti vascolari
Per questo motivo, un possibile effetto collaterale dell’aspirina è rappresentato dall’asma: inibendo le COX e
quindi la produzione di prostanoidi, l’acido arachidonico in eccesso viene dirottato verso la sintesi di
leucotrieni, che determinano costrizione delle piccole vie aeree. SI va incontro a un’asma di origine non
allergica.
I leucotrieni sono anche coinvolti in vere e proprie reazioni allergiche, con sempre contrazione delle vie aeree:
esistono farmaci antileucotrienici per gestire questa problematica. L’unico modo per bloccare la sintesi di
leucotrieni, però, è l’utilizzo di glucocorticoidi; al contrario, la somministrazione di FANS può rappresentare
un pericolo, perché riducendo la sintesi di PG aumentiamo quella dei leucotrieni, con un possibile
peggioramento del quadro asmatico.
ISTAMINA
L’istamina è una molecola ampiamente diffusa nel regno animale e, nell’organismo umano, ha una
distribuzione piuttosto varia. È concentrata però principalmente a livello cutaneo, nella mucosa
gastrointestinale e a livello polmonare. Insieme ai peptidi endogeni, alle PG e ai leucotrieni viene definita
autacoide, o ormone locale. Le cellule che più contengono istamina sono rappresentate da:
- Mastociti, nei quali la troviamo in granuli preformati
- Cellule enterocromaffini, presenti a livello gastrointestinale, dove l’istamina interviene nella
regolazione della secrezione acida, di bicarbonato e di muco.
- Neuroni istaminergici, presenti per lo più a livello dell’ipotalamo posteriore, ma anche corteccia, bulbo
olfattivo, talamo, ippocampo e sostanza nera. Qui l’istamina ha funzione di neurotrasmettitore e
modulatore, venendo rilasciata per depolarizzazione calcio-dipendente; il segnale viene invece spento
per degradazione enzimatica operata dalle istidina-metil-transferasi (prima) e dalle MAO di tipo B
(poi). I neuroni istaminergici hanno funzioni prevalentemente modulatorie e sono coinvolti:
o Omeostasi ipotalamico (sonno-veglia)
o Emozioni e memoria
o Temperatura corporea
o Sistema simpatico
o Sistema neuroendocrino
o Emesi
o Effetto anoressizzante
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L’istamina viene prodotta partendo dall’amminoacido L-istidina, che viene sottoposta a decarbossilazione
dall’enzima HDC (istidino-decarbossilasi), presente sono nelle cellule che devono produrre e immagazzinare
l’istamina. Richiede, inoltre, il piridossale fosfato come cofattore.
L’istamina è presente sotto forma di granuli, all’interno dei quali è complessata assieme ad eparina, eparano,
proteoglicani, con funzioni differenti sulla base del distretto anatomico.
RECETTORI
Esistono almeno quattro tipi di recettori per l’istamina: H1, H2, H3 e H4. Sono tutti recettori metabotropi,
identici tra periferia e centro e dei quali non sono ancora stati identificati eventuali sotto-tipi. H1, H2 e H4
sono recettori post-sinaptici, mentre H3 è prevalentemente pre-sinaptico.
Recettori H1
I recettori H1 sono associati a Gq e prevalentemente localizzati a livello di
- Ipotalamo
- CTZ
- Muscolatura liscia vasale (recettore ad alta affinità: induce una risposta rapida ma breve di
vasodilatazione, legata alla sintesi di NO)
- Miocardio di atri e ventricoli (dove induce aumento della contrattilità, aumento del cronotropismo sul
nodo SA e riduzione della conduzione AV)
- Miometrio
- Fibre pregangliari del simpatico nella colonna vertebrale
- Muscolatura liscia bronchiale
Sono quindi implicati in:
- Stimolazione della sintesi di NO
- Contrazione
- Aumento della permeabilità vascolare (i recettori H1 sull’endotelio delle venule postcapillari induce
allargamento delle giunzioni, aumento della permeabilità e passaggio di liquido, proteine e cellule
infiammatorie)
- Rilascio di catecolamine e fosforilazione di enzimi biosintetici
- Comportamento alimentare
- Inotropismo (effetto negativo)
- Depolarizzazione (per blocco delle correnti di potassio)
- Attivazione trascrizionale
- Regolazione del movimento (bilanciamento tra effetti positivi di H1 e H2 e negativi di H3)
Recettori H2
I recettori H2 sono associati a Gs e sono localizzati soprattutto a livello di
- Stomaco (cellule parietali gastriche, dove inducono l’esposizione della pompa H+/K+ per la
produzione di HCl)
- SNC (caudato e putamen, corteccia, formazione ippocampale, nucleo dentato del cervelletto)
- Miocardio (di atri e ventricoli)
- Ipotalamo
- Coclea
- Mastociti, dendriti e linfociti
- Muscolatura liscia vasale (recettore a bassa affinità: induce una risposta lenta ma prolungata di
vasodilatazione, legata all’induzione della sintesi di cGMP)
Sono quindi implicati in:
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- Stimolazione della sintesi gastrica
- Rilassamento muscolare liscio non-endotelio dipendente
- Cronotropismo e inotropismo (effetto positivo)
- Diminuzione del firing neuronale (capacità di rilascio di altre molecole)
- Aumento dell’attività delle proiezioni inibitorie della pars reticulata della sostanza nera (riduzione
della frequenza di firing)
- Inibizione dell’attivazione dei neutrofili, della chemiotassi e della proliferazione dei linfociti T
Recettori H3
I recettori H3 sono associati a Gi e sono soprattutto recettori presinaptici, localizzati a livello di:
- SNC (corteccia, talamo, ippocampo, gangli della base, sostanza nera, striato, nucleo accumbens,
amigdala, ipotalamo e cervelletto)
- Cuore
- Stomaco
- Intestino
- Pelle
- Timo
La distribuzione, tra l’altro, varia tra embrione e adulto.
Sono implicati in:
- Inibizione eterologa del rilascio di neurotrasmettitori (istamina, Ach, 5HT e dopamina a livello
centrale; NA e Ach a livello periferico)
- Aumento delle correnti al calcio del muscolo liscio
- Riduzione delle correnti al calcio nei neuroni mienterici
- Inibizione dell’attività delle proiezioni inibitorie della pars reticulata della sostanza nera (aumento
della frequenza di firing) e inibizione del rilascio di serotonina
- Condizionamento della paura
- Vasocostrizione
- Regolazione dell’appetito, della sazietà e del peso corporeo
- Inibizione della nocicezione meccanica e chimica a livello spinale
Recettori H4
Sono associati a Gi/0 e spesso agli H1. Sono coinvolti nell’immunomodulazione e nell’infiammazione e, forse,
hanno un ruolo nella proliferazione delle cellule neoplastiche epiteliali e nella cronicizzazione delle risposte
allergiche. Questi recettori fanno parte soprattutto del sistema immunitario.
EFFETTI PERIFERICI
- Mastociti: liberano istamina quando i componenti del complemento o IgE interagiscono con i recettori
cellulari. I mastociti sono presenti nella glia e a livello vascolare nel SNC e a livello perivascolare dei
piccoli vasi e delle biforcazioni.
- Prurito e dolore: l’istamina può stimolare le terminazioni sensoriali (recettori H1) e sembra implicata
nella nocicezione dell’emicrania
- Cuore: dosi medio-alte di H determina effetti cronotropi e inotropi positivi (H2), con aumento della
frequenza atriale.
- Vasi periferici: l’istamina riduce la pressione sistemica, a causa della riduzione delle resistenze
periferiche. Inoltre aumenta la permeabilità vascolare dovuta alla contrazione di actina e miosina
calcio-dipendente nelle cellule endoteliali dei capillari.
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È inoltre responsabile di eritema, edema locale e iperemia (triplice risposta di Lewis). Regola inoltre
le funzioni del muscolo liscio del microcircolo, dell’epitelio capillare e delle terminazioni nervose
sensitive.
Se iniettata sistematicamente, l’istamina determina ipotensione sistemica, aumento della frequenza
cardiaca e della contrattilità e aumento del flusso coronarico.
- Sistema esocrino: l’istamina determina produzione di muco nasale e bronchiale
- Bronchi: l’istamina determina broncocostrizione (ASMOGENO)
- Stomaco: stimola la secrezione acida
- Intestino: l’istamina induce crampi e diarrea
- Utero: induce rilassamento della muscolatura liscia
- Midollare del surrene: la stimolazione delle cellule cromaffini causa il rilascio di adrenalina
FARMACOLOGIA DEI RECETTORI H1
Gli antagonisti H1 sono utili nel trattamento delle reazioni allergiche, soprattutto a scopo preventivo. Più
antagonisti, tuttavia, sembrano essere degli agonisti inversi, che ridurrebbero il rilascio di istamina (visto che
il recettore H1 è spesso attivo a prescindere dalla presenza di H). Questi farmaci sembrano stabilizzare i
mastociti, inibendo il rilascio di prodotti mastocitari e anche di mediatori basofili. Inoltre inibiscono l’aderenza
e la migrazione degli eosinofili. La prima generazione di antistaminici, tuttavia, presentava un problema di
sedazione e aritmogenicità (specie in associazione con alcuni antibiotici) e di cardiotossicità, che sono stati
ridotti nella seconda (cetirizina) e terza generazione. Inoltre, fanno aumentare il peso e l’appetito e hanno una
lunga durata d’azione.
I farmaci di prima generazione, inoltre, presentavano una selettività per H1 non molto elevata, potendo
riconoscere con minore affinità i recettori adrenergici, muscarinici e serotoninergici.
A livello polmonare, gli antistaminici permettono di rilassare la muscolatura liscia a livello bronchiale.
FARMACOLOGIA DEI RECETTORI H2
Gli antagonisti H2 sono utili nella terapia dell’ulcera peptica e come coadiuvanti nel trattamento delle ulcere
da stress o iatrogene. La ranitidina e la cimetidina sono anche utili nel trattamento dell’ipersecrezione acide in
presenza di tumori secernenti gastrina. Sono in genere usati in associazione con gli inibitori di pompa per
controllare la secrezione acida nelle ore notturne.
MEDIATORI PEPTIDICI
I neurotrasmettitori di natura peptidica hanno caratteristiche comuni:
- Molti peptidi attivi possono originare da una singola proteine precursore
- Sono generalmente costituiti da una catena lineare di 5-40 amminoacidi
- Il terminale carbossilico è soggetto ad amidazione, glicosilazione, acetilazione, carbossilazione,
sulfatazione e fosforilazione
- Spesso contengono legami intramolecolari disolfurici che gli conferiscono una conformazione
parzialmente ciclica
La neurotrasmissione peptidergica è simile ma non uguale a quella mediata dai neurotrasmettitori classici: essa
prevede un accumulo prevalentemente vescicolare, la liberazione del NT è calcio-dipendente, i recettori
possono essere pre- e post-sinaptici e sono in genere associati a proteine G e alla produzione di secondi
messaggeri. Tuttavia, esistono alcune differenze importanti:
- Non vengono sintetizzati nel citoplasma sinaptico, ma nell’apparato del Golgi (quindi a livello
somatico)
- Possono essere liberati anche dal soma e dai dendriti
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- Non vengono riciclati (quindi posso andare incontro ad esaurimento) e non ci sono enzimi che li
degradano (possono essere degradati, lentamente, da proteasi aspecifiche)
- Spasso vengono liberati come precursori che devono andare incontro localmente a maturazione
differenziale (sulla base degli enzimi presenti)
- Lo spegnimento è in genere lento e avviene per diluizione (ma anche per cambio di sensibilità del
recettore)
Troviamo tre importanti famiglie di peptidi trasmettitori:
- Gli oppioidi: sono quelli più importanti
- Le tachichinine
- La colecistochinina
OPPIODI
La famiglia degli oppioidi è formata da almeno tre differenti prodotti di tre geni distinti:
- Pre-pro-opiomelanocortina (POMC)
- Pre-pro-encefalina A (pro ENK)
- Pre-pro-dinorfina (Pro DYN)
Da questi precursori originano diversi prodotti per digestione enzimatica endopeptidasica; quelli che ci
interessano di più sono rappresentati dalle beta-endorfine (derivati dalla POMC), le encefaline (da proENK) e
le dinorfine (da proDYN).
Le beta endorfine sono localizzate in neuroni che proiettano dall’ipotalamo al talamo e in neuroni del midollo
allungato (nucleo arcuato e nucleo del tratto solitario) che proiettano al sistema limbico e al midollo spinale.
Questi peptidi sono coinvolti nella gestione centrale del dolore (insieme alle encefaline, presenti nei neuroni
delle lamine midollari I e II). A livello midollare, esiste tuttavia il controllo discendente esercitato dalla
trasmissione serotoninergica, il cui compito è decidere se trasmette lo stimolo proveniente dalla periferia (e
quindi abbiamo percezione del dolore) o meno.
I recettori a cui si legano questi peptidi sono però presenti anche a livello periferico (polmone, intestino) e
allivello meso-limbico e meso-corticale: quindi farmaci che interagiscono con questi recettori, per la
modulazione del dolore, comportano una serie di effetti collaterali.
I recettori hanno un’affinità variabile per i peptidi ma, pur esistendo sotto-tipi recettoriali, li riconoscono tutti
senza alcuna discriminazione. Il nostro scopo, dal punto di vista terapeutico, è inibire la nocicezione periferica:
andremo quindi ad agire prevalentemente a livello midollare, inducendo ipopolarizzazione della fibra, ma sarà
anche possibile agire a livello talamico. Nelle vie nocicettive sono coinvolti anche molecole come
bradichinina, prostaglandine, etc: per questo motivo i FANS svolgono anche una azione analgesica (bloccano
la produzione di PG e quindi bloccano l’insorgenza dello stimolo doloroso).
La trasmissione peptidergica oppioide è costituita, però, da diversi tipi di molecole:
- Con il termine oppioide, intendiamo un peptide endogeno
- Con il termine di oppiacei, indichiamo invece droghe, principi attivi e derivati sintetici
- Con il termine di narcotici, indichiamo oppiacei e altri farmaci inducendo sonno e rilassamento (per
estensione, indichiamo tutte le sostanze che creano dipendenza)
Le azioni dei peptidi oppioidi, così come degli oppiacei sono mediate da almeno tre tipologie di recettori:
- Mu (che presenta i sottotipi Mu-1 e Mu-2): Mu-1 è responsabile di analgesia sovraspinale ed euforia,
mentre Mu-2 è responsabile dello sviluppo di dipendenza fisica e psicologica
- Delta ( con i sottotipi delta-1 e delta-2): sono responsabili di analgesia spinale
- Kappa (con i sottotipi kappa-1 e kappa-2): sono responsabili di analgesia spinale, sedazione e miosi
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Esistono poi altri recettori che non sono specifici per gli oppiacei ma li riconoscono come agonisti (recettori
epsilon e NOP). Essi sono implicati in:
- Risposta nocicettiva al dolore e allo stress
- Elaborazione delle esperienze e comportamenti gratificanti
- Omeostasi adattativa al consumo di cibo e acqua, regolazione della temperatura corporea, frequenza e
volume respiratori, tosse e vomito, motilità intestinale (es. Imodium)
Sono tutti recettori accoppiati a proteine Gi e controllano l’attività di alcuni canali ionici: Mu e Delta
aumentano la conduttanza dei canali per il K+, mentre Kappa inibisce alcuni tipi di canali per il calcio,
impedendo la liberazione di neurotrasmettitori. L’accoppiamento con le proteine Gi determina blocco della
produzione di cAMP ma l’uso cronico determina nella cellula un aumento della sintesi di adenilato ciclasi.
L’interruzione di questi farmaci determina un aumento immediato e consistente dei livelli di cAMP, alla base
del fenomeno di astinenza: se l’interruzione è brusca o somministriamo antagonisti, l’enorme aumento di
cAMP può portare il paziente anche incontro a morte. Ecco perché, in caso di dipendenza da farmaci
oppioidi/oppiacei tendiamo ad utilizzare molecole che aumentano gradualmente il cAMP: un tipico esempio è
il metadone, che ha un’emivita molto lunga e viene assunto per via orale con dosi scalari che permettono alle
cellule di perdere progressivamente la dipendenza fisica. L’utilizzo di antagonisti, invece, sebbene possa
portare a morte il paziente, vengono usati in caso di sovradosaggio e overdose, così da spiazzare i recettori e
permette di riprendere le funzioni fisiologiche (es. naloxone).
Gli agonisti principali sono rappresentati dalla morfina (Mu), dalla pentazocina (Kappa) e dalla buprenorfina
(tutti e tre i tipi recettoriali).