Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” – DipLeFili Dottorato in Studi Interculturali Europei 2 marzo 2010 Dottorando: Fabio Pesaresi I grandi suq di Parigi: il viaggio tra sguardo e racconto “L‟uomo osserva per conoscere. La vista è un‟entità divina legata alla meraviglia: una relazione di conoscenza. La filosofia nasce dallo stupore scaturito dall‟osservazione dei fenomeni della natura.” (Venturi Ferriolo, p. 25) Eppure, gli occhi non sono mai del tutto innocenti: il nostro sguardo è selettivo e ciò che vediamo non è la realtà oggettiva, quanto una proiezione dei nostri orizzonti d‟attesa. Persino il paesaggio naturale, che promette un contatto con quanto di più primordiale, è in realtà percepito solo attraverso la mediazione della cultura. Il viaggio è uno dei campi d‟azione privilegiati dello sguardo, ma mentre il Settecento razionalista proponeva con convinzione il viaggio come esercizio di empirismo volto ad abbattere i pregiudizi, oggi avvertiamo sempre di più la necessità di indagare il modo in cui si costituisce la nostra percezione. Gli studi imagologici, in particolare, analizzano le modalità di elaborazione delle immagini nazionali per svelare i filtri che concorrono a definire l‟Altro e, simmetricamente, noi stessi. 1. Lo sguardo culturale Descrivendo la “Piccola isola di Iava”, cioè Sumatra, Marco Polo scrive: Egli hanno leonfanti assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti. E‟ sono di pelo di bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno male con quel corno, ma con la lingua, ché l‟hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi. Lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra; e istà molto volentieri tra li buoi (entre la bue et entre le fang): ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch‟ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contradio. (Polo, p. 377) Marco vede un rinoceronte ma invece di descriverlo come una sua nuova scoperta, riconosce in esso, con qualche correzione, quello che la sua enciclopedia di riferimento gli aveva già insegnato: l‟unicorno. La sua percezione “è orientata da un insieme di testi di riferimento: nonostante il suo empirismo, egli non può evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura” (Umberto Eco, citato in Capoferro, p. 23). Un‟esperienza analoga è vissuta da Cristoforo Colombo nel corso del terzo viaggio quando, raggiunto per la prima volta il continente americano, ne analizza con precisione tutti gli elementi naturali, misura la portata del fiume Orinoco, e giunge all‟unica conclusione possibile: il luogo a cui è arrivato deve certamente essere il paradiso terrestre di cui ha letto nei testi antichi (cfr. Bertone, p. 16). Chagall – Schizzo per l’angelo di Mozart
Travellers only see what education allows them to. Mountains did not exist before travel literature discovered them, and Paris can be experienced as a city of endless suqs. This paper analyses the way in which we can view things, countries, peoples, and discover how images of the other are elaborated.
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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” – DipLeFili Dottorato in Studi Interculturali Europei
2 marzo 2010 Dottorando: Fabio Pesaresi
I grandi suq di Parigi:
il viaggio tra sguardo e racconto
“L‟uomo osserva per conoscere. La vista è un‟entità divina
legata alla meraviglia: una relazione di conoscenza. La filosofia
nasce dallo stupore scaturito dall‟osservazione dei fenomeni
della natura.” (Venturi Ferriolo, p. 25) Eppure, gli occhi non
sono mai del tutto innocenti: il nostro sguardo è selettivo e ciò
che vediamo non è la realtà oggettiva, quanto una proiezione
dei nostri orizzonti d‟attesa. Persino il paesaggio naturale, che
promette un contatto con quanto di più primordiale, è in realtà
percepito solo attraverso la mediazione della cultura. Il viaggio
è uno dei campi d‟azione privilegiati dello sguardo, ma mentre
il Settecento razionalista proponeva con convinzione il viaggio
come esercizio di empirismo volto ad abbattere i pregiudizi,
oggi avvertiamo sempre di più la necessità di indagare il modo
in cui si costituisce la nostra percezione. Gli studi imagologici,
in particolare, analizzano le modalità di elaborazione delle
immagini nazionali per svelare i filtri che concorrono a definire
l‟Altro e, simmetricamente, noi stessi.
1. Lo sguardo culturale
Descrivendo la “Piccola isola di Iava”, cioè Sumatra, Marco Polo scrive:
Egli hanno leonfanti assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti. E‟ sono di pelo di
bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno
male con quel corno, ma con la lingua, ché l‟hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi. Lo capo hanno
come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra; e istà molto volentieri tra li buoi (entre la bue et
entre le fang): ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch‟ella si lasci prendere alla
pulcella, ma è il contradio. (Polo, p. 377)
Marco vede un rinoceronte ma invece di descriverlo come una sua nuova scoperta, riconosce in esso, con
qualche correzione, quello che la sua enciclopedia di riferimento gli aveva già insegnato: l‟unicorno. La sua
percezione “è orientata da un insieme di testi di riferimento: nonostante il suo empirismo, egli non può
evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura” (Umberto Eco, citato in Capoferro, p. 23).
Un‟esperienza analoga è vissuta da Cristoforo Colombo nel corso del terzo viaggio quando, raggiunto per la
prima volta il continente americano, ne analizza con precisione tutti gli elementi naturali, misura la portata
del fiume Orinoco, e giunge all‟unica conclusione possibile: il luogo a cui è arrivato deve certamente essere
il paradiso terrestre di cui ha letto nei testi antichi (cfr. Bertone, p. 16).
Chagall – Schizzo per l’angelo di Mozart
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Marco Polo e Cristoforo Colombo riescono a vedere quello che non esiste - almeno nel mondo dei sensi -
perché non viaggiano per scoprire, ma per confermare. Essi appartengono a quella che Lotman e Uspenskij
hanno definito una cultura del Libro, e non del Manuale:
Un connotato essenziale della caratterizzazione tipologica della cultura può considerarsi il modo in cui essa si
definisce da sé. Se è proprio di certe culture il rappresentarsi come un insieme di testi regolati (…), altre
culture modellizzano se stesse come un sistema di regole che determinano la creazione di testi. […] Questo o
quell‟orientamento di una cultura genera l‟ideale del Libro o del Manuale. (Lotman-Uspenskij, pp. 50-51).
Gli occhi, opportunamente istruiti, riescono dunque a vedere persino quello che in realtà non c‟è, ma è
altrettanto possibile che accada il contrario. Nel suo viaggio in Italia, Goethe è talmente desideroso di
ritrovare i paesaggi classici vagheggiati che riesce ad ignorare quasi tutto il resto:
ci sarebbe da scrivere un apposito saggio intorno alle sue preterizioni: stando alle quali, chi del diario di
Goethe facesse una guida per i propri itinerari italiani, sarebbe indotto a pensare che nel nostro paese un‟arte
medioevale non sia mai esistita. A Verona, Goethe non si accorge di San Zeno e delle sue porte; a Venezia,
non ha occhi che per il Palladio, ignora il Palazzo Ducale, e di San Marco non nomina che il campanile, per la
vista che da lassù gode nelle giornate in cui l‟aria è tersa. (Assunto, p. 207)
Goethe non è l‟unica vittima di questa proiezione di se stesso sul paese che visita. Lo sguardo è selettivo a tal
punto che l‟Italia vista dai viaggiatori del Grand Tour non è altro che
una menzogna culturale, un atto ideologico, una proiezione del desiderio che compie il viaggiatore stesso
mentre percorre le strade della penisola fra la fine del XVI e il XIX secolo, perché quel paesaggio urbano e
soprattutto la gente che lo abita sono in gran parte costruiti prima della partenza. (Brilli, p. 15)
Attilio Brilli ha studiato l‟immagine degli
italiani nei resoconti dei viaggiatori, ed ha
rilevato che non solo i luoghi, ma soprattutto i
loro abitanti vengono presentati con immagini
stereotipate che si mantengono immutate per
un tempo incredibilmente lungo:
Spesso il viaggiatore si prefigura, magari
leggendo altri viaggiatori, una propria Italia
immaginaria che pretende poi di trovare tale e
quale nel corso della visita. Con l‟enfasi dei suoi
monumenti e delle mirabili vedute, al paesaggio si
chiede di rispondere alle aspettative, se non di
superarle, creando in questo caso l‟occasione
dell‟evento mirabile e il piacere aggiuntivo della
sorpresa. […] Dalla gente si esige né più né meno
che di adattarsi ad un modello previsto: essere
folla costituita di figure di maniera corrispondenti ai canoni del bozzettismo e del pittoresco, e con essi ai
pregiudizi più vieti che sull‟Italia e sugli italiani circolano nei paesi di origine dei viaggiatori, il che significa
essere figure inconsistenti e inanimate, dei veri e propri manichini distinguibili tutt‟al più dai costumi e dagli
orpelli regionali. (Brilli, ibidem)
Durante il suo soggiorno in Provenza, Cézanne si rese conto che i contadini che lo circondavano non
avevano mai davvero “visto” il monte Sainte-Victoire nonostante lo avessero avuto davanti agli occhi per
Richard Wilson, Il ponte di Rimini
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tutta la vita: “ho fatto a volte delle passeggiate, ho accompagnato un fittavolo che andava a vendere le patate
al mercato. Egli non aveva mai visto la Sainte-Victoire” (riportato in Bertone, p. 11).
Cézanne non solo riuscì a vedere quello che nessuno, prima di lui, aveva visto, ma insegnò anche agli altri,
anche a noi, come vedere la montagna della Sainte-Victoire:
è precisamente al genio di Cézanne che dobbiamo il Sainte-
Victoire, la sua «ispirazione», la sua artializzazione da paese
a paesaggio. Sull‟autostrada A7, che attraversa il massiccio,
si invita con dei cartelli ad ammirare il Sainte-Victoire e i
«Paesaggi di Cézanne», si chiama il genio del luogo, come
se, senza questo riferimento, il paesaggio rischi di cadere
nell‟indifferenza – nullità del paese, luogo senza genio. Altro
segnale rivelatore: devastato da un incendio, il Sainte-
Victoire sarà restaurato «alla Cézanne», come un quadro, a
tal punto Cézanne lo ha alla fine cambiato. (Alain Roger, in
D‟Angelo, p. 186).
La capacità che distingue i pittori, gli artisti, è proprio quella di
rompere la patina che l‟abitudine ha posato sulle cose che
abbiamo davanti e che ci impedisce di vederle.
2. L‟educazione dell‟occhio
“There was no fog in London before Whistler painted it”, scrisse Ernst Gombrich in Art and Illusion
(Gombrich 1969, p. 324), sostenendo la tesi che per vedere qualcosa abbiamo bisogno di qualcuno che ce la
mostri, che ci insegni a vederla. Gombrich riprende un appunto di
Oscar Wilde nel quale lo scrittore inverte il luogo comune per cui
l‟arte è imitazione del vero:
“At present, people see fogs, not because there are fogs, but because poets
and painters have taught them the mysterious loveliness of such effects.
There may have been fogs for centuries in London. I dare say there were.
But no one saw them, and so we do not know anything about them. They did
not exist till art had invented them.” (Wilde, p. 793)
Mostrare quello che i nostri occhi non possono, o non sanno, vedere
era stato uno degli obiettivi della poesia e dell‟arte del
Romanticismo. Nel capitolo 14 di Biographia Literaria, Samuel T.
Coleridge descrive il modo in cui insieme a Wordsworth decisero di
scrivere le Lyrical Ballads in questi termini:
the characters and incidents were to be such as will be found in every village and its vicinity, where there is a
meditative and feeling mind to seek after them, or to notice them, when they present themselves.
In this idea originated the plan of the LYRICAL BALLADS; in which (...) Mr. Wordsworth (...) was to
propose to himself as his object, to give the charm of novelty to things of every day, and to excite a feeling
analogous to the supernatural, by awakening the mind's attention to the lethargy of custom, and directing it to
the loveliness and the wonders of the world before us; an inexhaustible treasure, but for which, in consequence
J. A. M. Whistler, Nocturne: Blue and
Gold - Old Battersea Bridge
Paul Cézanne, Sainte-Victoire
(Cleveland)
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of the film of familiarity and selfish solicitude, we have eyes, yet see not, ears that hear not, and hearts that
neither feel nor understand.
Il mondo è davanti ai nostri occhi, ma non riesce a vederlo che una “meditative and feeling mind”, quella del
poeta, dell‟artista (cfr. Bonadei-Volli, p. 15) che ha la facoltà di esplorare, di penetrare, di trovare ciò che gli
altri non riescono neppure a percepire: è l‟artista, soprattutto l‟artista romantico, colui che possiede la
capacità di scendere “au fond de l‟inconnu per trouver du nouveau” (Baudelaire, Le voyage, VII), di
insegnare cosa vedere nella natura tanto che nessuno,
nemmeno i pittori stessi, può apprendere la natura se non
attraverso un vocabolario predisposto dai pittori che lo
hanno preceduto. (cfr. Gombrich 1973).
Sembra allora possibile tentare una definizione di
paesaggio come “natura percepita attraverso una cultura.
[…] Per vedere un paesaggio c‟è bisogno di qualcosa di
più di un occhio che lo scorga: ci vuole una riflessione che
lo costituisca nella sua diversità dal mero dato sensibile:
una teoria, appunto”. (D‟Angelo, p. 8).
Quando la natura è vista da chi la contempla con
sentimento, essa si rivela e diventa paesaggio, ma a
condizione che l‟uomo si rivolga ad essa senza uno scopo
pratico, intuendola e godendola liberamente per essere nella natura in quanto uomo (cfr. Ritter p. 47). Ritter
sostiene che l‟arte del paesaggio è una specie di compensazione di quanto l‟uomo ha perso a causa della sua
evoluzione tecnologica. Nel momento in cui si interrompe il suo contatto organico con la natura, nel
momento in cui l‟uomo diventa cittadino, sente la necessità di ricostruire un rapporto con essa e lo fa
attraverso l‟arte. Il paesaggio diventa tale solo quando è guardato con disinteresse: la contemplazione estetica
della natura è una compensazione, una sorta di risarcimento e sostituzione, di quello che è andato perduto
attraverso la matematizzazione della natura, frutto della scienza-tecnica moderna. Quando la natura come
totalità contemplabile esce dall‟orizzonte della scienza, essa trova rifugio nell‟estetica: il paesaggio è
appunto l‟erede moderno dell‟idea antica di una totalità contemplabile (theoria).
Tra Sei e Settecento si diffonde, soprattutto in Inghilterra, il desiderio di riscrivere la natura nelle forme
trasmesse dalla pittura. Lo sguardo degli aristocratici e dei ricchi borghesi che si era educato con i panorami
gustati nel corso del Grand Tour, cerca nel paesaggio inglese lo stesso godimento estetico. La campagna
inglese viene quindi trasformata ad uso e consumo dell‟osservatore, e i parchi inglesi diventano il luogo in
cui si inventa, e si insegna, un nuovo tipo di sguardo.
Il „700 codifica la spettacolarizzazione dello spazio con una pratica dei luoghi che ne ridefinisce radicalmente
il loro „godimento‟. (…) E qualcosa di cruciale effettivamente avvenne quando un nuovo genere di osservatore
apparve sulla scena, distinguendo lo sguardo „pratico‟ da quello „estetico‟: il punto qui non è la divisione, ma il
fatto che quell‟osservatore provò il bisogno, e si trovò nella posizione, di „distinguere‟. Questa è la figura che
mancava - il beholder, l‟osservatore consapevole – l‟uomo qualunque che osserva ed è consapevole di farlo
come esperienza in sé, che ha predisposto modelli sociali e analogie per supportare e giustificare tale
esperienza: dire paesaggio non vuol perciò dire un certo tipo di natura ma un certo tipo di uomo, un modo di
vedere la natura. Dietro il „genio del luogo‟ sta un padrone del luogo, osservatore/artefice/spettatore, capace di
generare processi culturali complessi e godimenti nuovi a partire da uno sguardo. (Bonadei-Volli, p. 13)
Per trasformare un paese in paesaggio occorre la presenza di un osservatore distaccato, che possa
contemplare il panorama senza esservi coinvolto in modo esistenziale nel modo in cui lo erano i contadini di
Cézanne (cfr. Ogden). E‟ uno spettatore che insieme al piacere estetico suscitato dalla scena che si prospetta
John Davies, British Landscape
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dinnanzi a lui, gode contemporaneamente della sua posizione al riparo da ogni pericolo. Da questa posizione
è possibile riconoscere i valori estetici della natura più maestosa, che fino ad allora era stata invece subita
come ostile.
La posizione dell‟uomo del Settecento ricorda quella dello spettatore del naufragio descritto da Lucrezio nel
Secondo Libro del De Rerum Naturae e discusso da Blumenberg in Naufragio con Spettatore: lo spettatore è
affascinato dallo spettacolo che si svolge sul mare, sotto il suo sguardo, solo perché è al sicuro su un terreno
solido.
… Per questo motivo il teatro, secondo Galiani, è una
perfetta esemplificazione della natura umana. Solo dopo che
gli spettatori hanno avuto i loro posti sicuri può dispiegarsi,
di fronte a loro, lo spettacolo degli uomini in pericolo. “Più
lo spettatore è al sicuro e più grande è il pericolo che vede,
tanto più s‟interessa allo spettacolo. Questa è la chiave di
tutti i segreti dell‟arte tragica, comica, epica.” Cosicché
Lucrezio non avrebbe completamente torto. Sicurezza e
felicità sono le condizioni della curiosità, e questa è il loro
sintomo. Trasferito dal mare al teatro, lo spettatore di
Lucrezio viene sottratto alla dimensione morale, è diventato
spettatore “estetico”. (Blumenberg, p. 64-65)
Il paesaggio è a sua volta teatro, luogo riservato allo sguardo,
organizzato dallo sguardo e per lo sguardo. “Non c‟è paesaggio senza teatro” dichiara Venturi Ferriolo (p.
15), che in Percepire paesaggi sviluppa il rapporto tra il paesaggio, la visione (theoria) e la capacità di
conoscere:
la buona visibilità dell‟insieme … è un concetto fondamentale per la conoscenza dei luoghi nella loro
complessità. Come costruirla o ricostruirla? Come svelare l‟invisibile, vale a dire l‟opera palese o nascosta
dell‟uomo?
La risposta è il teatro con la buona organizzazione del visibile, accesso alla leggibilità di un paesaggio per
facilitare la comprensione delle sue trame peculiari: un universo con i suoi elementi particolari che concorrono
insieme di pari grado all‟unità della sua immagine univoca di realtà vivente in perpetua trasformazione.
(Venturi Ferriolo, p. 90)
3. Lo sguardo del viaggiatore
L‟artista non è però davvero l‟unico ad essere dotato di quella particolare sensibilità che gli permette di
vedere ciò che gli uomini normali non vedono. Nella situazione sospesa tra la partenza e l‟arrivo, il
viaggiatore prova una sensazione di spaesamento e si può permettere di indossare una identità temporanea
che gli permette di sfuggire al sonno dell‟abitudine.
'Fare forward, you who think that you are voyaging;
You are not those who saw the harbour
Receding, or those who will disembark.‟
(T.S. Eliot, Four Quartets, The Dry Salvages, III)
In questa situazione, che Leed ha chiamato passage (Leed, p. 55), il viaggiatore si trova ad avere una
sensibilità acuita che lo rende “poroso” al mondo:
T. Gainsborough,
Mr and Mrs Andrews
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What gives value to travel is fear. It is the fact that, at a certain moment, when we are so far from our own
country ... we are seized by a vague fear, and the instinctive desire to go back to the protection of old habits.
This is the most obvious benefit of travel. At that moment we are feverish but also porous, so that the slightest
touch makes us quiver to the depths of our being. (Albert Camus, Carnets 1935-1942, in Leed, p. 1).
Il viaggio restituisce freschezza al nostro sguardo, e nel proporre le cose sotto una diversa luce, ce le fa
apparire come nuove: “This was the experience Goethe had continuously on his journey through Italy, as he
came upon „familiar objects in an unfamiliar world,‟ an
experience in which everything was new and fresh.” (Leed, p.
67). Lo stesso Goethe si rese conto che per poter avvicinare il
mondo in un nuovo modo, c‟era bisogno di elaborare un nuovo
sguardo:
Quelle che adesso mi importano sono solo le impressioni dei
sensi, che nessun libro, nessun quadro può dare. Il fatto è
che sto riprendendo interesse al mondo , sperimento il mio
spirito di osservazione e verifico la reale portata delle mie
scienze e delle mie cognizioni; mi accerto se il mio occhio è
chiaro, puro e lucido, se in questo passaggio veloce posso
arricchirmi di nuove nozioni, e se le rughe che mi si sono
formate e incise nell‟animo possono essere ancora cancellate
(Viaggio in Italia, Trento 11 settembre 1786).
Goethe fa propria un‟esigenza sentita da altri suoi contemporanei, come ad esempio William Hogarth, di
liberare lo sguardo da quello che De Bolla chiama il regime of picture, condizionato da ciò che uno sa e che
viene riconosciuto in ciò che si guarda, per scoprire un nuovo regime of the eye in cui lo sguardo è libero di
rispondere in modo autonomo agli stimoli che gli si offrono (cfr. De Bolla, p. 9). Mentre il regime of the
picture discrimina gli osservatori in base alla cultura, e quindi anche della storia personale, della situazione
socio-economica, il regime of the eye si propone in modo democratico, dato che chiunque ha la possibilità di
leggere e rispondere in modo emotivo a ciò che vede.
Questo processo di democratizzazione dello sguardo è connesso al nuovo quadro culturale che si era andato
formando sugli scritti dei filosofi dell‟empirismo, soprattutto di Francis Bacon, e sulle regole elaborate dalle
Accademie scientifiche, prima tra tutte la Royal Society di Londra. L‟empirismo modificava in modo
radicale il concetto di autorità: chiunque poteva condurre osservazioni, esperimenti, esplorazioni, e tutti i
risultati erano degni di attenzione purché fossero conformi ai precetti stabiliti e promossi dalla Royal
Society. Improvvisamente, ogni persona poteva avere una voce nel mondo della scienza: non più solo gli
esponenti della cultura accademica, ma persino un viaggiatore, un capitano, un marinaio. Anzi, secondo i
parametri fissati dalla Royal Society, l‟ideale linguistico diventava quello di artigiani e mercanti, preciso,
asciutto, senza tropi, mentre
i relatori dovevano essere più versati nelle attività pratiche che non in quelle teoretiche e dimostrarsi
osservatori sobri, diligenti e laboriosi: anziché portar con sé un gran bagaglio di conoscenze portano le proprie
mani, e hanno occhi e il cervello incontaminati da false immagini. (Capoferro, p. 54)
La nuova stagione culturale, affermatasi tra il Seicento e il Settecento, era destinata ad avere una influenza
determinante sul modo di viaggiare e di vedere i luoghi che si visitavano, nel momento in cui il viaggio
veniva per la prima volta non subìto come una necessità, ma vissuto come un‟occasione di piacere, senza
alcuno scopo se non quello di conoscere nuovi luoghi ed incontrare nuove persone.