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QUADERNO DI STORIA DEL TERRITORIO N. 1 5 Tra Età romana e Medioevo Appun per una storia del territorio datata, tutti gli spunti per proseguire la ricostruzione storica fino all’Età moder- na. I dati potranno essere agevolmente supportati dalla più recente edizione del catasto descrittivo quattrocentesco di Sestri Levante 2 . Altri hanno ben esplo- rato le vicende della società di ancient régime e hanno analizzato il Novecento fino al secondo conflitto mondiale e alla guerra di resistenza 3 . Le vicende più re- centi sono un campo aperto su cui lavo- rano pochi bravi studiosi di storia locale, non necessariamente professionisti. Segesta Tigulliorum: dal dibattito eru- dito all’analisi delle fonti A partire dalla Decriptio di Jacopo Bra- celli, da Leandro Alberti e dagli accu- rati indici del gesuita Agostino Oldoini si sono susseguiti numerosi tentativi 4 di dare una collocazione e precisi confini 2 CAROSI 1998. 3 Si confronti, ad esempio, la vasta produzione saggisti- ca di Sandro Antonini. 4 I tentativi di ricostruzione della topografia storica del territorio del Tigullio in età romana sono stati veramen- te numerosi ed hanno associato conoscenza, rigore filo- logico e, qualche volta, il libero esercizio della fantasia. Le ipotesi erudite sono correttamente e minuziosamen- te compendiate dal Roscelli, cui si rimanda per brevità (ROSCELLI 1976, pp.12-35). Fabrizio Benente I l contributo qui presentato non ha certamente l’ambizione di ri-scrive- re la storia di Sestri Levante nel Me- dioevo. Vi sono già stati diversi tentativi e mi sembra che pochi abbiano colto il segno in maniera soddisfacente. Il com- pito è indubbiamente arduo e comples- so, e anche il lavoro di progettazione culturale del Museo della Città - che ha coinvolto una nutrita équipe di ricerca- tori - ha soltanto iniziato a inquadrare la complessità della storia di questo territo- rio. Il sottotitolo del contributo specifica il contenuto e gli scopi di questo breve saggio. Si tratta della semplice proposta di indirizzi di approfondimento e spunti per ricerche future, ma supportati da un apparato critico, che sia di utile riferi- mento per il lettore, offrendogli la possi- bilità di verifica diretta delle fonti. Il lavoro è organizzato in brevi pa- ragrafi, dalla Segesta Tigulliorum delle fonti romane, alle vicende dell’Insula Sigestri, fino alla nascita della podeste- ria, agli inizi del XIII secolo. Il lettore più interessato, potrà trovare nell’opera di Françoise Robin 1 , ancorché un poco 1 Come ha pubblicamente riconosciuto l’Autrice nel corso della presentazione della traduzione italiana della sua pubblicazione, tenutasi a Sestri Levante nel 2012. Cfr. ROBIN 2012. : di
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F. Benente, Tra Età romana e Medioevo. Appunti per una storia del territorio, in MuSel. Quaderni di Storia del territorio, 1, a cura di F. Benente, Gammarò Editori, 2015, pp.5-27.

May 06, 2023

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Quaderno di storia del territorio n. 1 5

Tra Età romana e MedioevoAppunti per una storia del territorio

datata, tutti gli spunti per proseguire la ricostruzione storica fino all’Età moder-na. I dati potranno essere agevolmente supportati dalla più recente edizione del catasto descrittivo quattrocentesco di Sestri Levante2. Altri hanno ben esplo-rato le vicende della società di ancient régime e hanno analizzato il Novecento fino al secondo conflitto mondiale e alla guerra di resistenza3. Le vicende più re-centi sono un campo aperto su cui lavo-rano pochi bravi studiosi di storia locale, non necessariamente professionisti.

Segesta Tigulliorum: dal dibattito eru-dito all’analisi delle fonti

A partire dalla Decriptio di Jacopo Bra-celli, da Leandro Alberti e dagli accu-rati indici del gesuita Agostino Oldoini si sono susseguiti numerosi tentativi4 di dare una collocazione e precisi confini

2 Carosi 1998.3 Si confronti, ad esempio, la vasta produzione saggisti-ca di Sandro Antonini.4 I tentativi di ricostruzione della topografia storica del territorio del Tigullio in età romana sono stati veramen-te numerosi ed hanno associato conoscenza, rigore filo-logico e, qualche volta, il libero esercizio della fantasia. Le ipotesi erudite sono correttamente e minuziosamen-te compendiate dal Roscelli, cui si rimanda per brevità (rosCelli 1976, pp.12-35).

Fabrizio Benente

Il contributo qui presentato non ha certamente l’ambizione di ri-scrive-re la storia di Sestri Levante nel Me-

dioevo. Vi sono già stati diversi tentativi e mi sembra che pochi abbiano colto il segno in maniera soddisfacente. Il com-pito è indubbiamente arduo e comples-so, e anche il lavoro di progettazione culturale del Museo della Città - che ha coinvolto una nutrita équipe di ricerca-tori - ha soltanto iniziato a inquadrare la complessità della storia di questo territo-rio. Il sottotitolo del contributo specifica il contenuto e gli scopi di questo breve saggio. Si tratta della semplice proposta di indirizzi di approfondimento e spunti per ricerche future, ma supportati da un apparato critico, che sia di utile riferi-mento per il lettore, offrendogli la possi-bilità di verifica diretta delle fonti.

Il lavoro è organizzato in brevi pa-ragrafi, dalla Segesta Tigulliorum delle fonti romane, alle vicende dell’Insula Sigestri, fino alla nascita della podeste-ria, agli inizi del XIII secolo. Il lettore più interessato, potrà trovare nell’opera di Françoise Robin1, ancorché un poco

1 Come ha pubblicamente riconosciuto l’Autrice nel corso della presentazione della traduzione italiana della sua pubblicazione, tenutasi a Sestri Levante nel 2012. Cfr. robin 2012.

: di

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alla Tigullia e alla Segesta Tigulliorum, grazie a quei pochi riferimenti che si possono riscontrare nelle fonti classiche, peraltro non propriamente generose di informazioni5. L’etnico degli antichi abi-tanti di questo territorio - i Tigulli - appa-re nell’appellativo Segesta Tigulliorum ed è implicito in Tigulia, Tigoulliα, e nelle forme corrotte Tegulata e Tigti-la6. L’iscrizione di Sala Colonia (Chel-lah - Marocco) ci conferma che i Tigulli abitavano un territorio che - per i loro contemporanei - era chiaramente indi-viduabile e che prendeva nome dal loro etnico (vedi infra)7.

Se guardiamo alle fonti e agli itine-rari d’età romana, è un dato consolida-to che nella fascia costiera del territorio ligure compresa tra Genua e Luna non esistesse alcuna altra civitas autonoma, ma piuttosto una rete di vici e approdi costieri, come ad esempio Ricina (Rec-co), Portus Delphini (Portofino), Sola-ria (presso Zoagli), Segesta Tigulliorum (Sestri Levante), Monilia (Moneglia), Bodetia (il passo del Bracco o la vicina frazione) e Antium (Anzo di Framura), fondati soprattutto per soddisfare le esi-genze connesse alla viabilità, al com-mercio, agli scambi, a garantire i colle-gamenti via mare.

A questi insediamenti, per lo più ubicati lungo il litorale, potevano fare da corona fattorie e abitati rurali, legati ad un’economia agro-silvo-pastorale e omogeneamente distribuiti nel territo-rio collinare e montuoso della Liguria orientale. Studi recenti hanno suggerito

5 Ecco il censimento in breve: Plin.Nat.Hist. 5,48 (Tigul-lia intus; Segesta Tigulliorum); Mel. II 4,72 (Tigulia); Itin. Anton. 294 (Tegulata); Itin Mar. 501-502 (Sege-sta); Tab. Peut. (Tigtila); Ptol. Geogr.III 3 (Tigoulλìα).6 Mennella 2005, pp. 37-44.7 Mennella 1989, pp. 180-181.

che durante la romanizzazione della Li-guria costiera si siano sviluppate moda-lità di popolamento di natura bipolare. Nelle zone non direttamente soggette alla colonizzazione romana e ai trasferi-menti coatti della popolazione indigena sarebbe sopravissuto un certo conserva-torismo insediativo, almeno fino all’età augustea. È, quindi, ipotizzabile una permanenza delle popolazioni autoctone nelle aree sub-sommitali e di mezzaco-sta, adatte ad un’economia silvo-pasto-rale. Tali presenze si concentrano spes-so lungo le direttrici tradizionali, ossia quelle che sfruttano le vie naturali. Quel-lo che sembra emergere con chiarezza è che, tra Genua e Luna, in un territorio “senza città” è più opportuno investigare sulle scelte insediative e produttive dei Liguri romanizzati, piuttosto che cer-care faticosamente i markers materiali (insediamenti pianificati, accampamenti militari, strade, ville, utilizzo di model-li e tecniche murarie classiche) di una “colonizzazione” romana della Liguria orientale8.

Nel corso del I secolo una modifica delle forme del popolamento dei Ligu-ri può verosimilmente essere stata cau-sata dallo sviluppo di insediamenti di fondovalle e costieri, in aree più adatte all’agricoltura intensiva e al commercio. Questi agglomerati secondari, interpre-tabili come vici o stazioni stradali (man-siones, mutationes) erano collegati allo

8 Lucia Gervasini, parlando ad esempio della Val di Vara, ha ipotizzato una frequentazione legata preva-lentemente allo sfruttamento delle risorse naturali, “at-traverso nuclei di popolazione ligure romanizzata, che cura varie attività relative alla messa a coltura di terre-ni per uso agricolo (fundi) o allo sfruttamento di aree prevalentemente boschive o di pascolo (saltus praedia-que), con particolare riferimento al commercio del le-gname (CaMpana, Gervasini, rossi 2012, pp. 105-106).

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sviluppo della viabilità romana e alla rete strategica degli approdi. Gli inse-diamenti costieri della Liguria orientale potrebbero aver spontaneamente attratto una parte della popolazione indigena - nel nostro caso gli antichi Tigulli - of-frendo la possibilità di una progressiva integrazione, mediante l’adozione di modi di vivere, costumi e pratiche eco-nomiche “romanizzate”.

Le prime testimonianze documenta-rie di una Segesta Tigulliorum risalgono - come si è detto - al I secolo d.C. Il to-ponimo Segesta potrebbe derivare dalla radice indoeuropea *segh, con la valen-za di “essere saldo”, e quindi con il si-gnificato di luogo forte, munito, difeso. Questa poteva essere la natura originale dell’insediamento vicanico dei Tigulli “romanizzati”. Risulta arduo stabilire la posizione reciproca tra i centri di Segesta e Tigullia9. Forse è possibile attribuire al primo la natura di insediamento costiero legato alla presenza di un approdo (posi-tio) e collocare Tigullia verso l’interno, lungo l’asse viario, con funzioni di man-sio e/o di luogo di scambio e mercato.

Alcuni autori hanno identificato Se-gesta Tigulliorum e Tigullia come un unico centro, ipotizzando che il nucleo più continentale fosse ubicato presso il sito della pieve di Santo Stefano. Altri hanno formulato ipotesi su una diversa identificazione di Tegulata, proponendo di individuarla a Trigoso, o presso Lava-gna. Accettando il principio che le fonti documentarie d’età romana - per il loro scopo e per le motivazioni che le han-no prodotte - sono piuttosto laconiche, lasciando da parte il vasto campo delle ipotesi erudite (spesso soggettive), si

9 Mennella 1989, p. 185, nota 33, con bibliografia.

può concludere che la questione necessi-ta di verifiche di natura archeologica che possano dare voce alle fonti materiali e dirette.

In questi ultimi anni l’archeologia preventiva ha mosso i suoi primi passi a Sestri Levante10 e nel territorio11. I primi indizi raccolti suggeriscono di prestare grande attenzione al sito del Monte Ca-stellaro. Gli scavi condotti in Via Fascie in occasione della costruzione di due edifici hanno evidenziato la presenza - in giacitura secondaria - di materiale protostorico e ceramiche datate al II e I secolo a.C. Secondo gli archeologi, que-sti reperti provengono per caduta e sci-volamento dal rilievo posto a sud ovest del sito12. Sicuramente le modifiche morfologiche della piana di Sestri hanno un’importanza nodale, e le ricerche di Marco Del Soldato hanno messo alcuni punti fermi, anche in termini di crono-logia assoluta, sui cambiamenti morfo-logici che hanno interessato la piana di Sestri Levante (fig.1)13. Occorre anche guardare all’archeologia subacquea. Un ceppo d’ancora, oggi ospitato al Museo Archeologico e della Città, è stato rinve-nuto nel 2003 di fronte a Punta Manara14. Datato tra il I sec a.C. ed il I sec. d.C., è ascrivibile alla dotazione di una nave oneraria. Si tratta di una delle più recenti testimonianze relative alla frequentazio-ne delle acque tra Moneglia e Segesta Tigulliorum in età classica (fig.2)15.

10 Manfredi 2013; biaGini 2013; CaMpana, spadea, tor-re 2013. 11 CaMpana, Chella 2013; CaMpana, neGrino 2013.12 CaMpana, spadea, torre 2013, pp. 196-197.13 del soldato 2013, p.315, tav. XXIX.14 Ricerche condotte dal Nucleo Archeologia Subacquea della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Li-guria.15 Altri reperti provengono dalla baia di Levante e alcuni sono esposti nelle sale del MuSel.

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Nuovi dati potranno emergere in fu-turo, anche grazie a ricerche program-mate e accertamenti preventivi che po-tranno nascere dalla collaborazione tra il Museo Archeologico e della Città di Sestri, la Soprintendenza per i Beni Ar-cheologici della Liguria e l’Università di Genova. Credo che occorra rimette-re sotto la nostra lente di ingrandimen-to l’Isola (vedi infra), magari partendo da un’attenta ricognizione di superficie, cominciando a monitorare quelle tracce dell’insediamento medievale che sono sopravvissute alla costruzione degli edi-fici “in stile” fatti realizzare da Riccardo Gualino dopo il 1925. Allo stesso modo,

necessita di attenzione la sommità di Monte Castello, proprio in ragione del toponimo. Analogo interesse dovrebbe essere rivolto all’area dove si è sviluppa-ta la pieve di S. Stefano, indubbiamente legata ad una viabilità attiva in età me-dievale che, adattandosi alla morfologia originale e alla percorribilità della pia-na di Sestri, metteva in contatto la val-le del Petronio, quella del Gromolo e il transito delle Rocche di S. Anna, con le valli di Barassi e S. Giulia, in direzione di Lavagna16. Future indagini sul campo avranno il compito di chiarire una que-stione che rimane - ad oggi - aperta.

16 Chiappe 1999, pp. 108-110.

Fig.1 - La piana di Sestri Levante in Età romana. La ricostruzione si basa sui dati delle indagini geo archeologiche (da del soldato 2013, p.315).

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I Tigulli e l’epigrafe di Sala Colonia

La Segesta Tigulliorum contiene nel nome l’esplicito riferimento agli abitanti di questo territorio in età romana. Cosa sappiamo oggi degli antichi Tigulli e - più direttamente - quali sono le nostre cono-scenze su chi amministrava il territorio della Liguria orientale in Età romana? La prima domanda trova risposta grazie ai dati forniti dalla scoperta della necropoli di Chiavari: straordinaria testimonianza di uno stanziamento ligure dell’Età del Ferro, già inserito in una rete commercia-le e ben collegato con la costa tirrenica17.

17 Si vedano i contributi recentemente raccolti in benen-te, CaMpana 2014.

Le dune sabbiose già utilizzate nell’età del Bronzo come area di approdo e di-scarica di materiali ceramici sono state utilizzate, a partire dal VII secolo a.C., come luogo di sepoltura di un nucleo tri-bale insediato nel bacino del Rupinaro, in un’area abitativa ancora ignota. Gli scavi di Nino Lamboglia e le ricerche ininter-rotte sui reperti e sul contesto hanno for-nito cronologie, interpretazioni e hanno prodotto nuovi indirizzi di studio.

Il secondo quesito ha trovato parzia-le risposta grazie alle intuizioni di Gio-vanni Mennella18 e grazie alla rilettura di un’iscrizione trovata a Sala Colonia (odierna Chellah, in Marocco). L’epigra-

18 Mennella 1989; Mennella 2005.

Fig.2 - Recupero di un ceppo d'ancora dai fondali di Punta Manara (Archivio fotografico Soprintenden-za archeologica della Liguria e archivio documentazione MuSel Sestri)

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fe in questione documenta un L(ucius) Minicius M(arci) f(ilius) Gal(eria tribu) Pulchro (ossia Lucio Minicio Pulcro, figlio di Marco, della tribù Galeria), co-mandante di un’ala di cavalleria, forse la II Syrorum civium Romanorum. L’iscri-zione è databile attorno al 140 d.C. e de-finisce Lucio Minicio come proveniente domo Tigullis exs Liguria. Tuttavia i dati offerti non sono sufficienti a chiarire la condizione giuridica del territorio di pro-venienza. Poiché i cittadini di Genua era-no ascritti alla tribù Galeria, e Lucio Mi-nicio apparteneva a questa stessa tribù, sarebbe logico concludere che il territo-rio della Liguria orientale che oggi viene chiamato Tigullio appartenesse a Genua.

Se così fosse, il quadro si presente-rebbe assai chiaro. Tuttavia, Giovanni Mennella ha annotato che, oltre ai citta-dini di Genua, risultano ascritti alla tribù Galeria anche i cives di molte località, tra cui Luna e Veleia (oggi in Provincia di Piacenza)19. La questione apre nuovi e complessi quesiti relativi alla nascita del municipio genuense e all’avvio della di-pendenza amministrativa del Tigullio da Genua. Facendo uso della dovuta pru-denza ci accontenteremo di indicare che Lucio Minicio Pulcro, deceduto nel II secolo d.C. a Sala Colonia, era origina-rio di uno dei centri abitati del Tigullio,

19 Mennella 1989, p.182.

Fig. 3: Veduta della piana di Sestri Levante in un acquerello del 1722. Sono ben visibili le fortificazioni tardo medievali e la chiesa di San Nicolò (Archivio di Stato di Genova, B.03.344.0669-Sestri Levan-te-Finanze 1024).

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probabilmente tra Portus Dolphini, Se-gesta Tigulliorum e le valli interne, era un militare, un migrante a causa della sua professione, ed era a tutti gli effetti un cittadino romano.

L’Isola tra tarda romanità e altome-dioevo: dispute tra eruditi e ipotesi da verificare

La chiesa di San Nicolò, eretta intorno alla metà del XII secolo (vedi infra) con-serva un’epigrafe non più leggibile, ma sicuramente scritta in caratteri gotici, indizio di una ben precisa cronologia20. L’iscrizione su marmo bianco, molto corroso dagli agenti atmosferici (fig. 4), costituisce oggi l’architrave della porta nord della chiesa, ossia l’apertura po-sta sul fianco laterale che guarda verso le ville del conte Gualino, oggi Grand Hotel dei Castelli. Se ne sono occupati, con interesse e conclusioni assai diver-se Vincenzo Paoletti, Vincenzo Podestà, Marcello Remondini, Arturo Ferretto e tanti altri. Secondo alcuni autori, sulla base di una lettura difficile del testo e di un’integrazione altrettanto fantasiosa, la chiesa medievale sarebbe stata precedu-ta da un edificio di culto cristiano, dedi-cato a San Claro, databile all’inizio del V secolo, sorto - a sua volta - sui resti di un precedente tempio pagano.

Come si è formata questa tradizione erudita, e quali sono le sue basi docu-mentarie?

Molto nasce da un confronto poco noto tra eruditi locali del XIX secolo. Proviamo a ricostruire il percorso. Nel

20 Si tratta di una gotica epigrafica allungata, databile tra XIII e inizi XV secolo. Cfr. oriGone, varaldo 1983, pp. 17-21.

1856 Vincenzo Paoletti pubblica ad Asti le sue “Memorie storiche dell’antica Tigullia e della Segesta Tiguliorum, un lavoro giovanile in cui ipotizza la coin-cidenza della prima con Trigoso e della seconda con Sestri Levante, dando poi riscontro all’iscrizione di San Nicolò21.

Nel 1876, il sacerdote Vincenzo Po-destà nelle sue Memorie per la storia ec-clesiastica di Sestri Levante descrive la medesima iscrizione e ne cita - in appen-dice - il testo, distribuito su cinque righe, proponendone lo scioglimento, secondo la lezione de “l’Arbrosiani, nella sua Raccolta di antiche lapidi marmoree”22. Il testo di commento riportato dal sacer-dote Podestà è chiaramente tratto dal Paoletti, ma l’autore viene citato solo in una nota marginale23.

Vincenzo Paoletti, ormai anziano, torna sull’argomento nel 190324, riven-dicando la prima lettura dell’iscrizione di San Nicolò, accusando abbastanza esplicitamente il Podestà d’aver attinto alla sua opera, senza averne fatto men-zione in maniera corretta25. Il Paoletti, riportando lo scioglimento del testo del-

21 Il Paoletti riporta di essere stato allievo di Giacomo Carniglia, che fu professore di Retorica nelle Pubbliche scuole di Sestri Levante. Cfr. paoletti 1903, p. 5.22 Nel testo parla di “Una iscrizione che vuolsi del 408, esistente oggi ancora a sommo di una porta murata di questa chiesa sopra grossa lastra marmorea, che l’ala troppo edace del tempo ci ha rubato nelle sue parti so-stanziali..:” e in appendice ne riporta la trascrizione. Cfr. podestà 1876, pp.3-4; pp. 47-48.23 Questo il testo dell’iscrizione, nell’integrazione forni-ta dai due eruditi: d(e) m(an)d(a)to d(o)m(in)i n(ostri) A(ugusto) Co(gurni) / t(e)m(p)l(u)m (h)oc s(ac)rum (culto Dei) s(ancto) / Claro e(piscopo)o / id(ol)is s(u)p(ertitio)sis te(mpo)re rom(anorum) i(mperii) (in) Se-g(es)te / a(nno) s(alutis) CCCCVIII a(ugusti) V..24 paoletti 1903 pp.28.25 Paoletti scrive che il Podestà “non fu sempre inesatto in buona fede”. Sostiene anche che il sacerdote gli inviò una cartolina in cui riconosceva “con infinita cortesia d’essersi giovato per suo lavoro alquanto del mio”.

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la lapide, sostiene che la sua trascrizione trovava conferma in non meglio preci-sate “carte antiche” mostrategli a Sestri, “in via di eccezional favore”, da “Marco della famiglia Federici”26. Argomenta, inoltre, di aver riscontrato la medesima epigrafe (penso si riferisca al formulario o al contenuto testuale) in un archivio privato di Venezia (?) e di averla deci-frata utilizzando “l’espressione testuale corrispondente dell’Arbrosani”, che l’a-vrebbe commentata nella sua Raccolta

26 Per ragioni anagrafiche non può trattarsi del famoso giacobino spezzino Marco Antonio Federici (1746-1824).

di antiche lapidi marmoree”27. In una nota a piè di pagina, Paoletti ci informa che Giacomo Podestà, ufficiale sanitario marittimo di Sestri, possedeva una copia dell’iscrizione, identica a quella già mo-stratagli dal Federici. Quindi, conclude che “se la dizione sia proprio del tem-po, io non ho potuto approfondire, ma reputo accettabile la tradizione storica la quale sembrami abbia tutti i caratteri

27 Nonostante un’ampia ricerca sulle risorse bibliografi-che digitali disponibili, non mi è stato possibile reperire autore e titolo, così come enunciati dal Paoletti e dal Po-destà. Gli Arprosani sono una famiglia patrizia venezia-na, e Paoletti parla di un “archivio privato di Venezia”: questo l’unico riferimento che ho saputo trovare, ma nessuno dei componenti della famiglia risulta essersi dedicato a raccolte di lapidi e di antichità.

Fig.4: San Nicolò dell'Isola: iscrizione in caratteri gotici e, sopra, rilievo di VIII secolo d.C..

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della verità, per quello che può penetrare la nostra induzione”.

Ci troviamo di fronte ad un ginepraio, in cui il lettore si perde tra rimandi più o meno colti a misteriosi e privati archivi veneziani, ad autori ignoti o mal citati (Arbrosiani? Arbrosani?) e a eminen-ti cittadini (Marco Federici e Giacomo Podestà) che avrebbero custodito copie di memorie storiche sestresi e della iscri-zione. Il tutto suggerisce che il testo pro-posto dal Paoletti e dal Podestà sia frutto di invenzione, nemmeno troppo erudita, condita di una buona dose di fantasia. Il supposto testo latino, nella ricostruzio-ne proposta dai due autori, indica anche una certa ignoranza delle regole gram-maticali ed epigrafiche. Valgano come esempio l’uso della datazione “cristiana” in numeri romani28, con la data al 5 ago-sto, o il richiamo agli “idoli o simulacri pagani” che viene letto nella presenza dell’abbreviazione IDĪS IPSĪS, curiosa-mente sciolta in idolis supertitiosis.

Una recensione critica del libro di Vincenzo Podestà, pubblicata negli An-nunzi Bibliografici del Giornale Ligu-stico di Archeologia Storia e Belle Arti29 chiarì immediatamente la questione. Im-probabile la datazione cristiana all’anno 408, espressa in cifre romane (CCC-CVIII) e preceduta dall’abbreviazione Anno Salutis. Tali formule risultano non proponibili per il V secolo, quando anco-

28 I calcoli cronografici che stanno alla base del siste-ma di datazione cristiano furono sviluppati dal monaco Dionigi nel VI secolo ed entrarono lentamente in uso tra VII secolo ed età carolingia.29 Giornale Ligustico, 3, 1876, pp.386-388.

ra erano in uso le datazioni consolari30. Il recensore del libro del Podestà pro-pone di interpretare le iniziali A.C. non con Augusto Cogorno, ma con Antonio Cogorno, dell’ordine dei Predicatori, di-ventato vescovo di Brugnato nel 154831. La datazione viene letta MDXXXX-VIII a v(irginis partu), ossia rimanda a quel medesimo 1548 e al vescovo An-tonio Cogorno menzionato sopra. Oggi potremmo commentare che la critica avanzata era in ampie parti corretta e che l’ipotesi proposta dall’anonimo re-censore sarebbe ancora da verificare, se l’iscrizione fosse maggiormente leggi-bile. Rimane però un ineludibile dubbio sull’utilizzo così tardo di questo tipo di scrittura gotica.

Altri contemporanei del Paoletti e del Podestà si erano resi conto della dif-ficoltà di leggere il testo di San Nicolò. Il sacerdote ed epigrafista del XIX seco-lo Marcello Remondini, dopo aver pro-vato ad eseguirne il calco per ben due volte, rinunciò alla lettura del testo. Lo stesso Vincenzo Podestà, in un’opera successiva dedicata all’Isola, mostra di aver decisamente mutato opinione sul contenuto della lapide. Facendo uso di una disinvoltura veramente non comune, il sacerdote scrive di “un’iscrizione che si pretese anteriore al Mille”, e definisce il riferimento al vescovo Claro e agli idoli pagani come “volgari congetture”, ancorando il suo giudizio all’autorità di

30 Valga - quale esempio - la datazione dell’iscrizione funeraria (questa volta autentica) di Giovanni, conser-vata nella chiesa di San Michele a Ruta di Camogli. L’iscrizione cristiana è stata datata al 490 grazie alla menzione del console Fausto Iuniore. Mennella, CoC-Coluto 1995, pp.61-63.31 Sul vescovo Antonio Cogorno un’utile fonte è la cro-naca conventuale di S. Maria di Castello (utilizzata in viGna 1886). Tradizione storiografica locale su Antonio Cogorno ricostruita in spiazzi 1981, pp. 27-28.

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Marcello Remondini e al fallito tenta-tivo di interpretare le scarse tracce del testo epigrafico.

Il giudizio di Arturo Ferretto fu del tutto tranciante. Lo storico rapallese, che ha dedicato diversi scritti minori alla storia e alla topografia di Sestri32, parla di “un’epigrafe mal interpretata dal Podestà e dal Paoletti” e ribadisce il concetto di un’Isola compresa nelle pro-prietà fondiarie dell’abbazia di San Frut-tuoso di Capodimonte, sostanzialmente non abitata nell’altomedioevo.

Maria Rossignotti ha sottolineato correttamente la non corrispondenza tra il testo trascritto (e interpolato) e l’epi-grafe ancora oggi esistente, in quanto: “ci troveremmo di fronte ad un’iscri-zione aumentata e per numero di righe e per lettere con il passar degli anni”. La studiosa annota correttamente che l’epi-grafe, per quanto illeggibile, è scritta in caratteri gotici ed è databile tra fine XIII e inizi XIV secolo. Guardando ad autori e bibliografia più recente, trovo il testo dell’iscrizione di San Nicolò citato ed accolto senza eccessivo approccio critico da Luigi Gravina, Elena Breschi Scollo, Davide Roscelli, Gianni Trabucco e altri.

Quanto finora scritto sembrerebbe sufficiente per definire i termini della questione, ma possiamo riassumere po-che considerazioni di metodo. L’iscri-zione era già parzialmente illeggibile nel XIX secolo. Il testo latino ricostruito ed interpolato presenta errori e ha una struttura che rimandare chiaramente alle elaborazioni erudite del XVIII e XIX se-colo. Il formulario utilizzato è inconsue-to, soprattutto se riferito ad un contesto epigrafico antico. La datazione al 408,

32 ferretto 1928a, pp. 740.

così come ipotizzata dal Paoletti e dal Podestà, ossia con l’uso di Anno Salutis e delle cifre romane, non è accettabile. Guardando all’iscrizione del portale, le righe di testo riconoscibili sono sei e non cinque. La tipologia della scrittura e l’utilizzo di una gotica epigrafica, ancora riconoscibile nelle poche lettere attual-mente leggibili rimandano al XIII-XIV secolo. Non sembra percorribile l’ipotesi di una riproposizione medievale di un te-sto epigrafico più antico che, qualora esi-stente, sarebbe stato composto con for-mule di datazione, sintassi, abbreviazioni e vocaboli del tutto diversi. Resta da ag-giungere che il fenomeno dell’invenzio-ne erudita delle origini, spesso tramite il ritrovamento o la ricostruzione di un testo epigrafico, attraversa tutta la storia locale del XVIII e XIX secolo, ed è stato ben studiato da Massimo Angelini33.

L’ipotesi di una chiesa cristiana co-struita al di sopra, o sui resti, di una ara o di un tempio pagano è certamente sug-gestiva e si trova spesso come “mito del-le origini” che sta alla base della costru-zione di chiese medievali o di importanti santuari, ma in assenza di una prova do-cumentaria (testuale, epigrafica, monu-mentale o archeologica) rimane ciò che è: una semplice suggestione erudita. Il “qualcosa doveva esserci” non è pro-posizione scientificamente accettabile e non autorizza voli pindarici o ricostru-zioni fantasiose, soprattutto in assenza di dati e fonti. L’iscrizione medievale di San Nicolò conteneva altre informazio-ni, purtroppo perdute, come già avevano intuito Remondini e Ferretto.

Tuttavia, non è vero che l’Isola non conservi tracce di altomedioevo; il pro-

33 anGelini M. 1996, pp. 653-682.

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Tra Età romana e Medioevo

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blema è se siano o meno contestuali, e quali informazioni possiamo ricavarne. La chiesa di San Nicolò conserva un frammento di pluteo o di lastra perti-nente ad un arredo liturgico in marmo, databile all’VIII sec., murato al di sopra dell’architrave del portale laterale di cui si parlava in precedenza. Si tratta dell’u-nica testimonianza di arte figurativa al-tomedievale reperibile oggi nella parte orientale della provincia di Genova. Il rilievo in marmo bianco (0,42x0,47) è piuttosto consunto a causa dell’esposi-zione agli agenti atmosferici. Il campo decorativo è limitato in alto da archetti perlinati ed è formato da quattro cerchi. I due cerchi superiori contengono due cro-ci gigliate, mentre i due inferiori, meno leggibili, contengono una girandola (a sx) e una margherita ad otto petali (a dx). Al centro della lastra è presente una cro-ce a lati uguali e gli interstizi sono deco-rati da motivi floreali gigliati34.

Non ci sono elementi per appurare se sia di provenienza locale, o se sia stato semplicemente inserito nelle murature della chiesa al momento della costruzio-ne (o di una ristrutturazione) dell’edifi-cio, con provenienza da altro contesto35. Nel primo caso si tratterebbe della trac-cia archeologica di un edificio di culto altomedievale, di dedicazione non nota, presente sull’Isola o nel territorio di Se-stri. Nel secondo caso sarebbe un comu-ne esempio di reimpiego di un elemento di arredo liturgico di provenienza alloc-tona, magari genovese, adattato e sago-mato per essere inserito nello spazio esi-stente tra l’arco superiore e l’architrave con iscrizione.

34 dufour bozzo 1966, p.22-23.35 benente 2005 e bibliografia ivi citata.

Ma da quale atelier scultoreo altome-dievale proviene il rilievo di San Nicolò?

I motivi della doppia fila di maglie circolari intrecciate con una croce a brac-ci uguali profilati al centro e i gigli negli spazi intervallari si trovano, ad esempio, nella tomba ad arcosolio del battistero di Albenga e nel pluteo della cattedra-le di Ventimiglia, che mostra in effetti un impaginato molto simile a quello di Sestri. Si tratta di partiture e, soprattut-to, di scelte decorative (ad esempio la predilezione per il nastro perlato) ben attestati nell’ambito dell’VIII secolo in area ligure, ma anche in diversi contesti piemontesi, in particolare nel Piemonte meridionale36. Un riferimento recente e utile è quello di Alba, dove Alberto Cro-setto ha recentemente studiato la scultura lapidea altomedievale37. Altri confron-ti, in particolare per quanto concerne la struttura ornamentale a maglie circolari legate, campite da croci gigliate, si tro-vano a Borgo San Dalmazzo38 Un ultimo interessante riferimento (stessa partitura, stessa crocetta centrale, stesse croci, pre-senza del motivo ad archetti intrecciati di cornice) è fornito un pluteo di Novalesa, in passato accostato alla cosiddetta “bot-tega della Alpi marittime”39.

Un elemento che emerge con certez-za dalle fonti medievali (e che è stato trascurato dalla storiografia locale) è che, nel 1145, al momento della costru-zione del castello dell’Isola di Sestri, esisteva la pieve di Santo Stefano (ed era lontana), non esisteva in loco un edificio religioso, né vi erano resti da ristruttu-

36 Ringrazio la collega Eleonora De Stefanis (Università del Piemonte Orientale) per i dettagliati suggerimenti per l’inquadramento del rilievo.37 Crosetto 2013, pp. 187-195.38 Crosetto 1999, pp. 117-147.39 uGGé 2004, pp. 59-71.

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rare che fossero degni di menzione tra le controparti. Tutti i documenti si rife-riscono ad un edificio (la chiesa di San Nicolò) da costruirsi ex novo, a fronte di una precisa esigenza (fornire il castello e il nuovo borgo di un luogo di culto), sulla base di un accordo con i canonici della pieve di S. Stefano, poi non rispet-tato, probabilmente a causa della forte resistenza all’intenzione (genovese) di trasferire sull’isola le prerogative e i di-ritti dell’antica pieve di Sestri40.

Volendo cercare un altro argomento in merito a preesistenze rispetto all’in-sediamento del XII secolo, appare utile un richiamo al muro “antiquo et sicco” citato esplicitamente come presente sull’Isola nel 1145 (vedi infra). Chi ha redatto il documento ha utilizzato l’ag-gettivo “antiquus” e non “vetus” e, pro-babilmente, nell’ambito della cancelle-ria comunale genovese non si è trattato di una scelta lessicale casuale. Un muro “sicco” è una struttura muraria, o una recinzione costruita a secco, ossia senza uso di malta. Certamente sull’isola, al momento della costruzione del castello genovese, c’erano delle strutture di for-tificazione o recinzione delle proprietà monastiche, e queste erano già suddivise in lotti (terragia) soggetti al pagamento di un censo41.

Ma quanto “antiquus” era il muro di recinzione?

In mancanza di una verifica archeo-logica e di altri dati documentari si può solo affermare che l’Isola di Sestri nel XII secolo era soggetta all’abbazia di San Fruttuoso, vi erano possessi delle maggiori famiglie signorili della Liguria

40 benente 2014, pp. 215-216.41 benente 2015, p. 48.

orientale, era in parte suddivisa in lotti e forniva dei censi (terragia), era pre-sente una struttura muraria (non generici muri, ma un ben preciso muro “antiquo e sicco”), a cui oggi è difficile dare una precisa datazione e contestualizzazione.

La pieve millenaria di Sestri e il prato Sancti Stephani del 1012

La celebrazione dei millenari degli edifi-ci religiosi è un’insidia sdrucciolevole a cui spesso gli storici locali non riescono a sottrarsi. Nella copertina della pubbli-cazione celebrativa dei mille anni della pieve di S. Stefano del Ponte appare il fatidico riferimento 1012/2012, che do-vrebbe suggerire la ricorrenza della fon-dazione della chiesa, restando - come accade sempre in questi casi - ben cri-stallizzato nella memoria storica locale. In realtà, nei documenti dell’XI secolo si parla di terre e non di una chiesa, ed è una differenza non piccola. La pieve di Sestri è sicuramente “millenaria”, ma la questione suggerisce qualche doveroso approfondimento.

Nel censimento dei beni della curia arcivescovile genovese, fatto compilare da Siro II intorno al 1143, figura la plebs Sigestri, con la relativa suddivisione delle decime. Intorno alla metà del XII secolo, una quarta parte delle decime del piviere di Sestri spettava all’arciprete di S. Stefano e tali diritti erano ancora og-getto di richieste nel 1351. Documenti precedenti hanno fatto ipotizzare ad Ar-turo Ferretto la precoce presenza di una chiesa dedicata a S. Stefano, ma senza che sia mai citato esplicitamente l’edi-ficio di culto. Nel 1054 un gruppo di membri del consorzio dei signori di Na-

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scio (oggi frazione del Comune di Ne) ottiene la concessione di terre della chie-sa genovese ubicate in fine Segestrina, in loco Nascio, oltre a beni a Cassagna, a Statale e ad Arzeno. Nel documento sono menzionate due proprietà denomi-nate terra Sancti Stephani, una ubicata a Cassagna e una a Statale42. Le terre con-cesse dal vescovo sono ubicate in Val Graveglia, non si parla esplicitamente di un edificio di culto, né della pieve di Se-stri e il riferimento a Santo Stefano non può “implicitamente rimandare alla pre-senza di una chiesa intitolata al Santo”43.

Un’analoga distinzione deve essere fatta per un documento precedente, che risale al 1012 e che era già stato eviden-ziato e commentato dal Ferretto. Nell’at-to citato, Giovanni, vescovo di Genova, concede a Corrado terre ubicate nel lo-cus et fundus di Vennali, con il prato de benedicto Sancti Stephani, insieme alla cappella edificata in onore di San Mar-tino, in eodem loco Vennali constructa44.

La lettura del testo indica che il “pra-to” di Santo Stefano, concesso a Corra-do era chiaramente posizionato in Ven-nali. Arturo Ferretto e Romeo Pavoni hanno inquadrato l’ubicazione di Venna-li, in virtù della menzione della chiesa dedicata a San Martino, localizzandola tra Monte Domenico e Bargone, ossia le località del piviere di Sestri dove esiste-va già nel medioevo una chiesa con tale titolazione. Giuliana Algeri identifica, invece, Vennali, con “val di Caneve os-sia Venaggi” menzionato in documenti settecenteschi dell’archivio parrocchiale

42 Il registro della Curia Arcivescovile di Genova, pp. 295-296.43 alGeri 2012, p.16.44 Il Registro della Curia arcivescovile di Genova, pp. 294-295.

di Santo Stefano e lo ubica nell’attuale zona di via Val di Canepa. L’Autrice crea poi un collegamento con terreni denomi-nati in un altro documento “li prati della pieve, ossia volgarmente prato riondo” che renderebbe “del tutto plausibile” il collegamento della pieve con il prato de benedicto Sancti Stephani menzionato nel 101245.

Appare ovvio che tutti i possedimen-ti della pieve potevano essere generica-mente definiti terra (o pratum) Sancti Stephani, a prescindere dalla loro posi-zione nel territorio della pieve di Sestri. I due documenti del 1012 e del 1054 men-zionano terre ubicate in loco et fundo Sigestri e in fine Segestrina, una ubicata a Vennali (il pratum, che poi sarebbe un pascolo), una a Cassagna e una a Statale. Nessuno dei due documenti menziona, però, direttamente la pieve di Sestri, o l’ecclesia Sancti Stephani. Alla luce del-la documentazione disponibile, la ricor-renza millenaria sarebbe, quindi, da rife-rire unicamente alla menzione del prato Sancti Stephani, ossia alla citazione di un semplice appezzamento di terreno, non alla pieve di Sestri, non ad un edifi-cio, non ad una ecclesia Sancti Stephani che potrebbe anche essere più antica del 1012. Rimane encomiabile il buon sen-so dell’arciprete Vincenzo Lambruschi-ni che, nel 1795, scriveva “non si può assegnare l’epoca precisa della primaria erezione della chiesa; giacché ne man-cano le memorie, però monumenti sicuri accertano che fino al 1050 essa esisteva pievana”46.

45 alGeri 2012, pp. 39-40.46 alGeri 2012, p. 16.

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Le decime di Vennalio e la cappella di San Martino in eodem loco constructa

Come abbiamo visto, nel 1012 il vesco-vo di Genova, concede a Corrado terre ubicate nel locus et fundus Vennali, in-sieme alla cappella edificata in onore di San Martino, in eodem loco Vennali constructa. Anche sull’ubicazione della chiesa di San Martino e del locus di Ven-nali si può avanzare qualche interessante considerazione di metodo. Se la località menzionata nel 1012 corrispondesse con la settecentesca località Venaggi, oggi zona di via Val di Canepa, dovremmo qui collocare la cappella edificata in ho-

nore Sancti Martini in eodem loco Ven-nali constructa. Ci troveremmo, quindi, in presenza della menzione di un edificio religioso documentato nell’XI secolo e scomparso assai precocemente nel Me-dioevo.

Dovremmo anche cercare di identi-ficare in questa zona la valle di S. Ma-ria, citata nel documento del 1012 come limite confinario. Se, invece la località Venalli è ubicata in prossimità di Monte Domenico o di Bargone (come ipotizza-to da Arturo Ferretto e Romeo Pavoni) non avremmo problemi ad identificare la chiesa di San Martino in eodem loco con-structa, in quanto chiese con questa in-

Fig. 5 - Matteo Vinzoni, Tipo di Sestri Levante e di Tregosa e del loro territorio (dettaglio dell'Isola). Il borgo e le fortificazioni dell'Isola, ancora conservate e ben leggibili in un rilievo del 1763. Sono state indicate le menzioni delle fortificazioni, sulla base delle recenti ricerche d'archivio di Renato Ridella.

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titolazione esistevano nel XIII secolo in entrambi i luoghi. Il termine confinario costituito dalla valle di Santa Maria sa-rebbe in questo caso un riferimento alla chiesa di Nascio o a quella ecclesia San-cte Marie che è documentata a Bargone nel 122347. Un altro termine citato nel documento del 1012 è la via da Ravinel-lo que pergit a Feletore usque ad litus maris. Feletore è toponimo scomparso, ma sappiamo che indicherebbe un posto di guardia e di controllo. Romeo Pavo-ni suggerisce di identificarlo con l’area tra Castiglione, Masso e Casarza, ma nessuno vieterebbe di ipotizzare il Mon-te Castello e il Monte Castellaro. Altro termine è il Ravinello. Uno sguardo al catasto quattrocentesco di Sestri ci con-ferma che gli uomini censiti del posse di Bargone possiedono spesso terre in Ravin48, ovviamente da non confondersi con il corso d’acqua del Ravino.

Nel XII secolo i figli di Rolando da Passano tengono un quarto delle deci-me della Pieve di Sestri in Vennali et in Ginesta et in Melsa49. Ginestra è chiara-mente riconoscibile, mentre il Belgrano identifica Melsa con Missano in Val Pe-tronio, lasciandoci qualche dubbio50.

È possibile che nel territorio ori-ginale del piviere di Sestri esistessero due località con nomi molto simili? E’ possibile che esistesse un terzo edificio dedicato a San Martino, di cui oggi non resta traccia?

Nel catasto quattrocentesco di Sestri Levante, i toponimi Vennali, Venalio e

47 ferretto 1907, pp. 748-749.48 Carosi 1998, p. 412. Voce d’indice: Ravino, Raven, Ravim.49 Il Registro della Curia arcivescovile di Genova, p.18.50 Nei documenti di XII secolo è, infatti, attestato come Miçanum. I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I.3, doc.593.

Venagio sono menzionati ben 24 volte51, quasi sempre per descrivere terre colti-vate a vigna e non un centro abitato. Il curatore dell’edizione del catasto, Carlo Carosi, evita di identificare precisamente il toponimo, eppure è solitamente assai accurato nelle verifiche catastali. Guar-dando alle particelle censite, si posso-no dedurre alcuni dati. Stefano Scarpa possiede, ad esempio, tre case e un orto sull’Isola, ma è anche proprietario di una vigna a Vennali, con tutta la tenuta de lo Castella (il Monte Castellaro) e ha pure una terra campiva in San Martino52. An-tonio de Tonso, del Posse di Ginestra ha terre quasi tutte ubicate in Zinestra e pos-siede una parte di tenuta in Vennalio53.

Gli eredi di Giacomo Rampone han-no uno plano ad Pontem, ad Sanctum Martinum54. Gabriele de Ferrari possie-de diverse case, tra cui una con vigna in San Martino55. Le sue proprietà sono ubicate tra l’Isola, il Bottone, Pietra Ca-lante, il Ponte, dove ha quattro case con osteria e orto e altre tre case allo stato di rudere. Infine Ugaccio di San Quilico possiede un pezzo di terreno ad Sanctum Martinum, penes Clusam56.

In sostanza, nel XV secolo, sulla base di alcuni documenti, la località Venna-lio/Venagio, dove non sono censite case, ma soprattutto vigneti, sembra proprio localizzabile tra Ginestra, Monte Castel-laro, il Bottone e il corso del Rio Ravi-no. Mentre il toponimo San Martino, che nelle descrizioni catastali non è associa-to ad un edificio di culto, è localizzato al Ponte e/o presso la Chiusa (di un mu-

51 Carosi 1998, p. 418.52 Carosi 1998, p. 9.53 Carosi 1998, p. 52.54 Carosi 1998, p. 21.55 Carosi 1998, p.27.56 Carosi 1998, p.48.

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lino). La ricerca ci ha portato lontano, ed invece di risolvere i problemi aperti, come accade spesso, ha proposto nuovi quesiti. Tuttavia, non sembra opportuno forzare le fonti testuali e non è corretto interpretarle con valore retroattivo.

Semplificare per comodità vuol dire essere superficiali. È indubbio che nel XV secolo e in età moderna, una loca-lità Venallio, Venagio era localizzata in corrispondenza dell’attuale via Val di Canepa. Tuttavia, l’ipotesi di una chie-sa di XI secolo dedicata a San Martino, ubicata tra il Ravino e il Ponte e scom-parsa precocemente, lasciando solo una traccia toponimica, mi sembra suggesti-va, ma non mi pare sostenibile. La ra-gionevolezza fa presumere che il luogo di Venalli e la cappella dedicata a San Martino menzionati nel 1012 fossero ubicati a Bargone o a Monte Domenico, come aveva indicato il Ferretto e come è anche desumibile dal Syndacatus Ec-clesiae Januensis del 131157. In questo caso, è preferibile attenersi all’analisi oggettiva dei dai disponibili, senza dare corso ad ipotesi che porterebbero ad in-serire valutazioni suggestive, soggettive e non verificabili.

L’Isola e la costruzione del castello ge-novese

Il primo censimento delle decime della pieve, nel quarto decennio del XII se-colo, è un ottimo indicatore della forte frammentazione dei diritti signorili sul territorio delle valli di Sestri. I figli di Conone di Vezzano, i figli di Rubaldo di Lavagna, Guglielmo di Lagneto, i figli di

57 reMondini 1879, pp.3-18.

Rolando da Passano e i figli di Gerardo conte di Lavagna tengono frazioni delle quattro parti in cui sono divise le deci-me della pieve. In questa suddivisione, dove i toponimi citati sono pochi (Can-diasco, Noano, Venali, Ginestra, Libiola, Melsa), l’Isola non è menzionata58. Altre conditiones del XII secolo ricordano la villa di Massasco (Mazasco), nuova-mente Venali e San Bernardo (de Sancto Quirico), diviso tra il Papa, l’abbazia di San Fruttuoso e Rubaldo di Nascio e i sui consortes59.

Pochi anni dopo, l’Insula diven-ta centrale rispetto alle strategie dell’ espansione genovese nella Liguria orientale. Nel 1145, infatti, Genova co-struisce il castello di Sestri Levante, ri-ceve da Bonavita, abate di San Fruttuo-so, il terreno sul quale è stato edificato il castrum60, impone delle conditiones ai conti di Lavagna, ai domini di Lagneto e Passano61. L’incastellamento del poggio dell’insula di Sestri avviene dopo che Genova è entrata in possesso del castello di Rivarola (1132), e la cessione da parte di San Fruttuoso viene a sancire de iure il controllo militare genovese di Sestri e del suo porto. Il percorso è chiaro: il castello viene costruito manu militari, in seguito, con una serie di accordi, sacra-menta e pattuizioni, si acquisisce il ter-reno da coloro che ne detenevano i diritti e si cerca di ristabilire un equilibrio tra le parti in causa62.

58 l Registro della Curia arcivescovile di Genova, pp.17-18.59 Il Registro della Curia arcivescovile di Genova, pp. 382-383.60 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 85.61 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I.1, nn. 78-80.62 “Ad Sigestri, quando exercitus ibi castrum insule edi-ficavit” (I Libri Iurium della Repubblica di Genova I,1, doc. n.78-80).

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Quaderno di storia del territorio n. 1 21

Nel 1145, Genova entra in possesso di un parte dell’insula Sigestri ben defi-nita, caratterizzata da un’area compresa tra una serie di terragia, probabilmente terre monastiche dell’abbazia soggette a prelievo fiscale63, più che strutture di-fensive in legno e terra64. A prescindere dall’interpretazione che si vuole dare ai terragia, sembra comunque possibile ipotizzare che l’abate di San Fruttuoso abbia ceduto una terra già in preceden-za chiusa e delimitata da muri. Un pri-mo gruppo di terragia è ubicato extra murum siccum, versum castrum, mentre i terragia del secondo gruppo risultano propinquiores muro antiquo et sicco. La cessione prevede, in questo modo, che il castello sia ab illis terragiis circum-datur. L’atto di quello stesso anno con cui i conti di Lavagna si impegnano ad osservare le conditiones imposte dai Genovesi menziona la cessione di tutti i diritti detenuti ab terragiis superius, con la possibilità di conservare terra per costruire abitazioni ab terragiis insule inferius. Tuttavia, quanto eccederà lo stretto necessario pro habitatione, potrà essere richiesto da Genova, in cambio del prezzo correttamente stimato65.

Terminata la costruzione del ca-strum, con una modalità che vedremo ri-petuta in seguito per Chiavari, Genova si appropria di una parte consistente della penisola di Sestri, ottenendo la fedeltà o la rinuncia da parte di quanti detenevano privilegi sul territorio e predisponendo una lottizzazione del terreno, suddiviso in lotti (tabulae). Il monastero di San

63 Secondo il Du Cange il terragium è un diritto su terre, o una terra soggetta a prelievo signorile.64 Cfr. settia 1984, p. 368, p. 374. Avevo suggerito questa interpretazione in benente 1997, e con maggior cautela in benente 2000b, p.70.65 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 78.

Fruttuoso, come controparte della ces-sione, deve ricevere da Genova una cen-so annuo di una libbra d’incenso, mentre da parte di quanti venerunt ad habitan-dum insulam, in ordinatione consulum comunis Ianue, percepirà una pensio annua di due denari per ogni tavola di terra su cui verranno costruiti edifici e di un denaro per ogni tavola di terreno vignato o coltivato. La suddivisione per unità base delle dimensioni di una tavo-la potrebbe indicare le unità minime di assegnazione dei lotti di terreno. In tal caso andrebbe correlata ad una tenden-za tipica alla parcellizzazione delle forti lottizzazioni, già espressa nella docu-mentazione dell’XI secolo66.

In quello stesso anno 1145, un co-spicuo gruppo di uomini appartenenti ai consorzi dei Nascio, dei Cogorno e dei Vezzano giura fedeltà a Genova, in qualità di futuri habitatores dell’Insu-la67. La fedeltà a Genova è materializ-zata da riferimenti espliciti al castello, al borgo e al castellano: tre elementi chiave delle modalità di espansione che Genova sta sperimentando. Le case del borgo cominciano ad apparire negli anni seguenti. Nel 1147, gli eredi di Cona di Vezzano si riservano il possesso di cinque case68. Da un altro atto, appren-diamo che anche Alinero dei signori di Passano possiede una domus sul poggio dell’isola69. Nell’atto del 1145, l’abate di San Fruttuoso si riserva diverse tabulae di terra, e nel marzo del 1191 concede ad Oberto da Poma una tavola e mezzo di terreno in cui lo stesso Oberto ha la

66 settia 1984, p. 211.67 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 99. 68 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 100.69 Il registro della Curia arcivescovile di Genova, n. 227; pavoni 1989, p. 458.

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Quaderno di storia del territorio n. 122

casa (edificium in quo habitat) e un’altra tavola in cui coltiva l’orto70.

Come era già accaduto per i Lavagna, la pressione di Genova costringe presto gli antichi titolari di diritti e di terre a ce-derli, mantenendo soltanto la proprietà di alcune case. Nell’aprile del 1147, quattro degli eredi di Cona di Vezzano, già presenti al precedente giuramento, cedono al Comune tutti i beni immobili posseduti nell’Isola di Sestri, ad ecce-zione di 1/6 dei terreni e di cinque case, Genova si rapporta agli eredi di Cona di Vezzano quasi al massimo livello diplo-matico, facendosi rappresentare in que-sta occasione dallo stesso Caffaro71.

70 Guglielmo Cassinese, n.276, 8 marzo 1191.71 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 100.

La particolare concentrazione dei diritti signorili sull’Isola di Sestri costi-tuisce un altro elemento che andrebbe approfondito72. Nella sequenza degli atti che portano alla progressiva definizione di uno “spazio” fortificato genovese, tro-viamo impegnati l’abate di San Fruttuo-so di Capodimonte, i Lavagna, i Cogor-no, i Vezzano, i Nascio e Leccalosso di Levaggi. La costruzione del castello de-stabilizzò sicuramente il quadro del pote-re locale, portando ad una reazione quasi compulsiva, che si esplicitò con una fitta serie di relazioni diplomatiche e di ac-cordi. Ai signori era ormai evidente che Genova stava ampliando con decisione

72 petti balbi 1982, pp.16-17; pavoni 1989, pp. 451-484.

Fig.6 - Catasto napoleonico (1805). Le strutture difensive dell'Isola risultano ancora com-pletamente integre.

Fig.7 - Il fronte delle fortificazioni dell'Isola in una foto Alinari di primo Novecento.

Risultano ancora ben visibili la chiesa di San Nicolò e l'oratorio di Santa Caterina.

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Tra Età romana e Medioevo

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la sua sfera di influenza nel territorio tra l’antico confine di Rovereto di Zoagli e la nuova frontiera di Pietra Colice, l’at-tuale Pietra di Vasca/Monte San Nicolao.

Alla metà del XII secolo, il territo-rio della pieve di Sestri, con l’Isola e il porto, menzionato nel 114773, erano di-ventati punti nodali per un controllo che doveva garantire importanti flussi com-merciali. Non è un caso che nel trattato con i Lucchesi, stipulato nel 1153, i Ge-novesi possono impegnarsi a garantirne la sicurezza nel triangolo compreso tra Savona, Voltaggio e – appunto – Sestri Levante74. Alla stessa maniera, costrin-gono i Lavagna, i Passano e i Lagneto a garantire la sicurezza dei Pontremolesi lungo la via que vadit in Macram e lun-go la via de Pontremulo, usque ad In-sulam, potendo controllare direttamente l’itinerario da Sestri e Genova75.

A prescindere dagli elementi più me-ramente politici, la serie dei documenti qui illustrati esplicita le modalità inse-diative che Genova importa a Sestri: un castello con funzioni di controllo militare, presidiato da un castellano ed un borgo, ossia un insediamento accen-trato e difeso dove attrarre popolazione rurale sottraendola progressivamente ai legami con i signori locali. La possibilità di acquistare o affittare tabulae di terra da coltivare contribuisce ulteriormente al processo di emancipazione dei futuri burgenses. A completare il quadro, man-ca ancora un elemento: l’edificio di cul-to, con funzioni di cura d’anime.

Nel 1148, Genova attua un infruttuo-so tentativo di spostamento dell’antica pieve di S. Stefano verso una nuova chie-

73 Il registro della Curia arcivescovile di Genova, n. 227.74 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 162.75 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 161,

sa da costruirsi sull’Isola (vedi infra)76. Il modello risulterà, infatti, completo, se accanto al castello e nell’ambito del bur-gus si riuscirà a definire uno spazio del sacro, fondamentale punto di riferimen-to per la nuova collettività di burgenses. Dieci anni dopo, nel 1158, la comunità di Sestri è rappresentata dai suoi consoli, a cui i corrispettivi genovesi impongono il mantenimento dei diritti e dei privilegi spettanti all’arcivescovo genovese77.

Tra la seconda metà del XII e i primi decenni del XIII secolo, il borgo “geno-vese” dell’Isola si sviluppa, e comincia l’occupazione edilizia della zona pros-sima alla spiaggia, lungo l’attuale asse viario di Via alla Penisola, Via XXV Aprile. Lo spazio di terreno sabbioso lasciato dalla regressione marina è de-finito nei documenti arena, o in arena. Come accade a Chiavari nello stesso periodo, la spiaggia è considerata terra di proprietà pubblica, ossia genovese78. A quell’altezza cronologica i diritti spet-tano per metà alla cattedrale di Genova. Nel 1191, i canonici di San Lorenzo vendono tre tavole di terra edificabile in arena de Segestro, vicino alla via pub-blica. In arena si amministra la giusti-zia, vicino al pozzo e all’olmo. Anche il palazzo del Podestà viene costruito in arena, ed è documentato nell’agosto del 122379. Persistono ancora zone paludose e una località chiamata padu è menzio-nata nel 119180.

Nella piana di Sestri l’archeologia ci informa che in questo periodo si la-vorava alla bonifica e all’acquisizione

76 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I,1, n. 54.77 Il registro della Curia arcivescovile di Genova, p. 383.78 benente 2014, pp. 206-207.79 ferretto 1928b, pp. 11-12.80 ferretto 1928b, p. 12.

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di terreni utilizzabili a fini agricoli. Lo scavo realizzato dalla Soprintendenza in Via Fascie nel 2010 ha posto in luce un canale artificiale, in uso tra XI e XII secolo, delimitato da piante di salice e di pioppo81. I corsi d’acqua vennero, quindi, incanalati e negli atti notarili del XII e XIII secolo compaiono importan-ti indizi topografici dello sfruttamento delle risorse idriche: la chiusa, il mulino della pieve (menzionato nel 1180 e nel 1224)82, quello di proprietà dell’abbazia di San Fruttuoso (1211)83, il mulino are-ne Sigestri84, che probabilmente coin-cide con quello documentato nel 1222 iuxta fucem de Sigestro, versus partem de Petra Calantia, cui coheret inferius litus maris85.

La costruzione della chiesa di San Nicolò e il tentativo di trasferimento della pieve

Dopo l’occupazione militare della som-mità dell’Isola di Sestri e la costruzione del castello, Genova ottiene terre dall’a-bate di San Fruttuoso e dai suoi vassalli. Nell’atto di cessione del 1145, i consoli riservano all’abate trenta tavole di terra pro facienda ecclesia et domibus, espli-citando immediatamente l’associazione case + chiesa che dovrebbe stare alla base della buona riuscita del nuovo bor-go. Nel gennaio del 1147, il poggio che è

81 CaMpana, spadea, torre 2013, pp.196-197. Analisi radiocarboniche di uno dei resti di pioppo hanno fornito datazione 1040-1260 a.D. 82 Il Secondo registro della Curia arcivescovile di Ge-nova, p.193.83 Giovanni di Guiberto, II, doc. 2049.84 ferretto 1928b, p. 15.85 Liber Magistri Salmonis, doc. CCXLVI, del 7 maggio 1222.

in Insula Siestri, super portum, ex parte orientis, ossia sopra alla baia di Levan-te, è donato all’arcivescovo di Genova, per edificarvi ecclesiam et curiam et sibi necessaria86. Sappiamo, indirettamente, che nel 1148, i consoli genovesi addi-vengono ad un accordo con i canonici della pieve di Sestri, assegnando un lotto di terra, affinché plebem mutare et reedi-ficare in Insulam87.

Nel 1151, i consoli del Comune an-nullano la precedente donazione, in quanto i sacerdoti della pieve di S. Ste-fano non hanno mantenuto l’impegno e non si mostrano disponibili a farlo in futuro88. Si ordina, anche, che l’edifi-cio che nel frattempo è stato costruito sull’Isola venga demolito. A seguito de-gli accordi, è stata, infatti, costruita una chiesa, ma il tentativo di “trasferire” la pieve è fallito, probabilmente perché si è scontrato con la resistenza del clero, con quella dei fedeli, oltre che con gli intensi rapporti di gestione delle decime e dei terreni che legavano una pieve dal ter-ritorio molto esteso ad un ampio ceto di domini, legati non solo alla discendenza di Cona di Vezzano, ma anche ai Lava-gna, ai Lagneto, ai Passano, all’abbazia di San Fruttuoso e ai signori di Nascio89.

La chiesa menzionata nel 1145 (fa-cienda) e nel 1148, data come già esi-stente nel 1151 e destinata alla distru-zione, era stata eretta super portus ex parte orientis, in prossimità del castello e nell’ambito del borgo. Si tratta, sen-

86 Il registro della Curia arcivescovile di Genova, pp. 79-80.87 GuGlielMotti 2005, p.50, nota 36 e bibliografia ivi citata.88 I Libri Iurium della Repubblica di Genova, I.1 n. 54, pp. 90-91.89 Il registro della Curia arcivescovile di Genova, pp. 9, 17, 109, 114, 294, 295, 465.

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za dubbio, della chiesa di San Nicolò90, oggi detta dell’Isola, ma censita ancora nel Syndacatus del 1311 come chiesa del borgo91. Un piccolo corredo di iscrizio-ni, databili tra fine XIII e XIV secolo, te-stimonia ancora oggi l’utilizzo funerario della chiesa da parte dei maggiorenti del borgo medievale92.

Verso nuove ricerche

La storia di Sestri Levante - non solo quella medievale - è ricca di documen-tazione che può essere riletta ed inter-pretata, senza il bisogno di fare ricorso a letture suggestive e soggettive. Non ritengo che seguire la tradizione storio-grafica locale sia un obbligo, e non penso che proporre nuove letture sia un “oltrag-gio” nei confronti di quanti, in tempi più o meno recenti, si sono impegnati nella ricostruzione della storia di Sestri. Molte delle fonti di XI e XIII secolo sono edi-te, e possono essere ben utilizzate. L’ar-chivio storico comunale, se valorizzato, può costituire un territorio di ricerca tut-to da esplorare. La nascita recente di un Museo della Città segue quest’indirizzo, guardando ad una storiografia dinamica e a ricerche future che avranno lo scopo di integrare, migliorare (e anche riscrivere)

90 La dedicazione a San Nicolò, risulta perfettamente contestuale al XII secolo, al periodo in cui, dopo la traslazione delle reliquie da Mira a Bari (nel 1087) si diffuse, in Italia e in Europa, il culto di San Nicola, strettamente connesso ai percorsi dei pellegrini.91 reMondini 1879, pp.3-18.92 Si tratta delle lapidi sepolcrali del notaio Tommaso Porcello (1299) e dei suoi eredi, di Percivalle Bottone (1315) e dei suoi eredi, di Paolo e Carlo Costa (1372). Le prime due sono murate nel paramento esterno dell’e-dificio. La terza iscrizione, ora non reperibile, fu sco-perta nel corso dei restauri realizzati nel 1951 dalla Soprintendenza ai Monumenti della Liguria. Cfr. rossi-Gnotti 1952, pp. 51-59.

quanto oggi sappiamo della genesi e del-lo sviluppo di Sestri e del suo territorio tra età romana e medioevo. ●

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L'accurato studio di Françoise Robin "offre un'immagine completa e vivace di uno di quei distretti della Riviera ancora poco conosciuti. Il lettore può misurare i risultati di una colonizzazione del suolo perse-guita per secoli e appena conclusa: più di venti Ville, villaggi abbarbi-cati sui pendii delle montagne, un'economia dove l'arboricoltura s'im-pone in modo deciso, la rete molto densa dei fossati per l'irrigazione e lo stupefacente intrico di coltivazioni sullo stesso appezzamento di terreno: un paesaggio profondamente marcato dagli sforzi dell'uomo; una terra che risponde alla richiesta di prodotti di pregio, alla ricerca di elevati rendimenti. Una nuova economia che ben si adatta, pare, a strutture sociali rimaste arcaiche. [...]

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