FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA Tesi di Dottorato in Diritto Processuale Civile EFFICACIA DEL PRINCIPIO DI DIRITTO E POTERI DEL GIUDICE DI RINVIO Tutor Dottoranda Prof. Roberto POLI Carmelita RIZZA Dottorato di ricerca in Diritto Processuale Civile XXIV CICLO Coordinatore Prof. Antonio CARRATTA
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FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
Tesi di Dottorato in Diritto Processuale Civile
EFFICACIA DEL PRINCIPIO DI DIRITTO
E POTERI DEL GIUDICE DI RINVIO
Tutor Dottoranda
Prof. Roberto POLI Carmelita RIZZA
Dottorato di ricerca in
Diritto Processuale Civile
XXIV CICLO
Coordinatore
Prof. Antonio CARRATTA
– 1 –
«La tigre dei nostri giorni deve essere tigre
come se non fosse mai esistita prima alcun’altra tigre;
non si giova delle esperienze millenarie
fatte dalle sue simili nel profondo fragore delle foreste.
Ogni tigre è una prima tigre;
deve cominciare dal principio la sua professione di tigre.
L’uomo di oggi al contrario non deve
cominciare ad essere uomo, ma eredita
i modi di esistere, le idee, le esperienze vitali dei suoi predecessori,
e parte quindi dal livello del passato umano
che è andato accumulandosi sotto i suoi piedi.
Davanti a un qualsiasi problema
l’uomo non si trova solo con la sua reazione personale,
con ciò che gli viene in mente senza pensarci su,
ma dispone di tutte o molte delle reazioni, idee,
invenzioni dei suoi antenati.
Per questo la sua vita è il risultato dell’accumulazione di altre vite;
per questo la sua vita è sostanzialmente progresso;
non discuteremo ora se progresso verso il meglio, verso il peggio
o verso il nulla».
José Ortega y Gasset, La missione del bibliotecario (1935)
Cfr. TARUFFO, Il vertice ambiguo - Saggi sulla Cassazione civile, Bologna 1991,
40. 35
Benché, indubbiamente, anche il modello della Revision germanica esercitasse una
certa attrattiva e fosse destinato a far sentire la sua influenza, nei tentativi di riforma che si
susseguirono dall’unificazione in poi e, più in generale, nella teoria e nella pratica della
Cassazione in Italia. Ma, più diffusamente sul punto, v. infra, par. 3.
– 25 –
enunciato nella pronuncia rescindente della Corte – rendeva le sezioni riunite
giudici di quel dissenso e autrici della regola del caso concreto36
.
Tale sistema venne battezzato come della c.d. «doppia conforme»:
espressione che allude alla circostanza che, per aversi un dictum vincolante
per il giudice di rinvio sul punto di diritto – o «articolo», come preferiva dire
l’art. 683 c.p.p. del 186537
– occorreva che la Suprema Corte lo affermasse
due volte, enunciandolo a sezioni semplici e ribadendolo a sezioni unite38
.
36
Le ragioni che giustificano questa scelta del legislatore del 1865 vengono
efficacemente esposte da MORTARA, Commentario, vol. II, cit., 64, che sostanzialmente le
riconduce ai due preconcetti posti a base della matrice francese: all’estraneità della
Cassazione al giudizio sul caso concreto, totalmente riservato al giudice del caso stesso, e al
contenuto puramente negativo, di mera invalidazione della sentenza impugnata, delle
pronunce di accoglimento della Suprema Corte. 37
Recita infatti l’art. 683 del c.p.p. 1865: «Allorquando, dopo la cassazione di una
prima sentenza pronunciata inappellabilmente, la seconda sentenza proferita nella medesima
causa, fra le stesse parti che agiscono nella medesima qualità, sarà impugnata per gli stessi
motivi proposti contro la prima, la Corte di Cassazione si pronunzierà a sezioni unite. Se la
seconda sentenza è annullata per gli stessi motivi proposti contro la prima, la Corte, il
Tribunale o il Pretore al quale è stata rimandata la causa, si uniformerà alla sentenza della
Corte di Cassazione sull’articolo di diritto da essa deciso»: la formulazione è ripresa da
BORSANI-CASORATI, Codice di procedura penale italiano commentato, vol. VI, Milano
1878. 38
V. FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 158. Per la verità, la locuzione,
per tradizione passata ad indicare lo schema dei rapporti tra Cassazione e giurisdizione di
rinvio inaugurato in Francia con la legge del 1837 nel senso sopra indicato, ha reso servizio a
molteplici varianti di significato, tutte orbitanti intorno al concetto per cui, nel processo
moderno nel quale, con la pluralità dei gradi di giurisdizione, domina il principio del
riesame, occorre la convergenza di opinione di due magistrature per dare irretrattabilità ad un
enunciato di diritto: si veda, a titolo esemplificativo, MATTIROLO, Trattato di diritto
giudiziario civile italiano, quinta edizione, vol. IV, Torino 1904, 1148-1149, che cita al
riguardo Piccaroli, riferendo la doppia conforme alla circostanza di avere «sullo stesso punto,
sulla medesima questione due pronunciati conformi, l’uno del giudice del merito, l’altro della
Cassazione» (corsivo nel testo; nello stesso senso si esprimerà CARNELUTTI, Lezioni di
diritto processuale civile, vol. IV, Padova 1930, 290-291). In BORSANI-CASORATI, Codice di
procedura penale italiano commentato, vol. VI, cit., 313, la locuzione viene utilizzata per
indicare un principio che inerirebbe, ad avviso degli AA., al sistema della terza istanza, il
principio per il quale «la cosa giudicata non si possa avere se non precedettero due sentenze
conformi; sicché sol quando le sentenze de’ primi giudici sieno discordanti, si apre la via al
terzo giudizio, affinché il magistrato di terza istanza, uniformandosi all’una od all’altra delle
due sentenze, ne faccia nascere due conformi». Questo stesso significato emerge dalle parole
di MORTARA, Commentario, vol. II, cit., 15-16: nell’ottica di una critica de iure condendo al
– 26 –
Secondo lo schema adottato dal legislatore del 1865, pressoché identico
nei due codici di rito, le sezioni unite della Cassazione potevano addivenire
ad una pronuncia in punto di diritto dotata di efficacia vincolante in quanto
conforme ad una precedente sentenza delle sezioni semplici qualora
ricorressero alcuni presupposti: i) che le due sentenze impugnate
successivamente con ricorso per cassazione fossero state pronunciate fra le
stesse parti agenti nella medesima qualità (presupposto, questo dell’identità
delle parti e delle qualità delle stesse, che ovviamente va inteso come identità
giuridica, non come medesimezza degli individui o permanenza nella stessa
condizione civile39
); ii) che la sentenza pronunciata dal giudice di rinvio
venisse impugnata per gli stessi motivi che erano stati fatti valere con il
ricorso per cassazione contro la precedente sentenza poi cassata:
implicitamente, con ciò si riconosceva che, per potersi dar luogo al giudizio
solenne delle sezioni riunite, il giudice di rinvio, nella traiettoria dei
ragionamenti in cui si snoda il giudizio, doveva aver affrontato e risolto una
questione di diritto nello stesso modo, ossia per gli stessi motivi, con cui
l’estensore della sentenza cassata aveva affrontato e risolto quella medesima
questione di diritto40
, ritenuta da entrambi passaggio obbligato per giungere
alla soluzione del caso e tale da determinare due dispositivi conformi41
.
sistema della terza istanza e al suo supporto ideologico, cioè il discutibile «concetto che in
tre successivi esami possa venire garantita, mediante la formazione di una maggioranza (due
sentenze conformi) la più sicura giustizia della decisione» (non si dimentichi che l’Autore si
manifesta a favore della soppressione dell’appello), egli sottolinea come il fatto di
«organizzare il sistema della terza istanza in base al principio della maggioranza collegiale,
ossia della doppia conforme» procuri semplicemente «il vantaggio esteriore di abbreviare la
durata di alcuni giudizi interdicendo il ricorso in terza istanza dopo due sentenze conformi di
primo e di secondo grado». 39
V. Cass. Torino 16 febbraio 1870. 40
Sia l’art. 547 che l’art. 683 dei codici di rito del 1865 non stabilivano un
collegamento specifico tra l’efficacia vincolante della pronuncia della Corte e la devoluzione
alla Corte della cognizione sul tipico error iuris in iudicando, cioè la violazione o falsa
applicazione della legge, come faceva l’art. 384 c.p.c. del codice del 1940 nella versione
vigente fino alla riforma del 2006. Infatti le suddette norme si limitavano a richiedere che il
dissidio tra la Corte di cassazione e il tribunale di rinvio cadesse su un principio di diritto, sul
– 27 –
quale soltanto poteva formarsi il vincolo nei confronti del giudice di secondo rinvio. Il nesso
tra la doglianza di un errore di giudizio di merito e la vincolatività della pronuncia in iure
della Corte, tuttavia, andava evidenziandosi, sia da parte della dottrina applicata al dibattito
sulla riforma, che da parte della giurisprudenza, anche se non sempre in modo consapevole:
in Cass. Roma 15 luglio 1902 si afferma che, poiché il conflitto tra la Cassazione e il giudice
di rinvio, per potersi far luogo al solenne procedimento davanti alle sezioni unite, deve
vertere sopra un principio di diritto, se l’annullamento viene pronunciato per difetto di
motivazione, e la sentenza di rinvio venga denunciata per lo stesso vizio, la competenza a
conoscere del nuovo ricorso non spetterà alle sezioni unite (della Cassazione territoriale,
stante ancora la pluralità di Corti nel regno), bensì alle sezioni semplici. 41
Si sta in sostanza dicendo che, ancorché in assenza di norme esplicite sul punto, al
sistema della cassazione fosse inerente il principio della causalità dell’errore, in virtù del
quale in tanto può aversi cassazione per errore di diritto in quanto quell’errore di diritto abbia
avuto influenza sul dispositivo. Si veda, in proposito, CALAMANDREI, La Cassazione civile,
vol. II, cit., 155 ss., il quale correla l’operatività del principio della causalità dell’errore di
diritto all’impugnazione di parte: ad avviso dell’a., nel caso in cui si scorga un errore
d’interpretazione nei motivi, che tuttavia non è in rapporto di causa ad effetto col dispositivo,
pur non mancando l’interesse dello Stato alla riprovazione dell’errore stesso, difetta
l’interesse della parte a far annullare la sentenza che resta sorretta da altri motivi corretti. Ne
consegue che non si può dubitare del fatto che nel sistema della cassazione italiana
inaugurato nel 1865 viga la regola, che il diritto processuale tedesco codificherà
esplicitamente per la Revision, per la quale non può pronunciarsi l’annullamento della
sentenza che contenga nella motivazione un errore di diritto, quando la sentenza sia,
ciononostante, giusta, perché l’errore non ha prodotto sul dispositivo quelle conseguenze
pratiche da cui solo il privato può risultare pregiudicato: dovendosi riconoscere che, se il
ricorso per cassazione si fonda su «una inscindibile cooperazione tra l’interesse pubblico
coll’interesse privato», venendo meno uno dei due coefficienti, viene a cessare la ragion
d’essere dell’istituto. In realtà, se nel suo contenuto minimo il principio della causalità
poteva apparire come una necessità intrinseca del giudizio di cassazione, la sua deduzione
per via esclusivamente sistematica era in grado di sollevare molti e spinosi problemi, come
evidenziato in maniera sintetica ed efficace da FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione,
cit., 19 ss. Elio Fazzalari osserva che, sotto la vigenza del codice di rito del 1865, la tendenza
della Corte ad utilizzare il criterio della causalità nell’esame della quaestio iuris ad essa
sottoposta per assolvere al «pur lodevole intento di non esercitare il proprio potere di
annullamento contro giudizi di merito che fossero conformi al diritto nella conclusione, pur
risultando erroneamente motivati», aveva spinto la Corte a varcare i confini assegnati dalla
legge alla sua cognizione in iudicando, e a slabbrare la regola basilare per cui la Corte
conosce solo delle questioni dedotte dal ricorrente quali coerenziate dai motivi di censura.
Perché, se è vero che risultava compatibile con i poteri della Corte sul sindacato degli errori
di giudizio andare a verificare se l’errore denunciato fosse reale o solo apparente, se, cioè, il
vizio sorpreso nei motivi fosse solo un difetto nella catena argomentativa del giudice
incapace di ripercuotersi in maniera decisiva sull’iter logico complessivo, il fatto invece di
controllare se, in presenza di un errore reale, altri profili giuridici confermassero l’esattezza
del dispositivo, significava già forzare l’ambito del devoluto, il quale è segnato non già
dall’ampiezza della questione dibattibile in sede di merito, ma piuttosto dagli specifici profili
– 28 –
di quella questione che il ricorrente ha individuato nel ricorso. Il potere di correggere i
motivi tenendo fermo il dispositivo esulava, poi, decisamente dalla cognizione della Corte
quando essa non si limitava ad allargare i confini della quaestio iuris dedotta, alla ricerca di
altri profili giuridici che fossero in grado di sorreggere il dispositivo, ma passava a valutare
una questione diversa da quella che le era stata deferita, «riconoscibile nella sua autonomia
per essere costituita non solo da un’altra componente di diritto, ma da un’altra componente di
fatto», sebbene risultante ex actis: come avveniva, ad esempio, quando la Corte passava
all’esame dei motivi concorrenti concernenti un’altra questione di diritto o anche dei motivi
decampati nella sentenza di merito, e che la Corte andava a riabilitare ritenendoli influenti e
idonei a sostenere il dispositivo; o, addirittura, quando essa procedeva al vaglio di nuove
questioni di diritto, neanche affrontate dal giudice di merito. Per un’agile analisi del
fenomeno di progressiva emersione normativa, in ambito penale, del principio della causalità
dell’errore e del potere correttivo della Corte, e del perfezionarsi del collegamento fra le
discipline relative all’accertamento della causalità e alla determinazione del vincolo del
giudice di rinvio al dictum della Corte, si veda SIRACUSANO, Il principio di diritto nel
giudizio penale di rinvio, in Studi in onore di F. Antolisei, vol. III, Milano 1965, 283 ss., ove
la regola del vincolo al dictum della Corte viene apprezzata come «il solo congegno» idoneo
a saggiare concretamente la possibilità, ritenuta in via d’ipotesi dalla Corte nell’annullare una
sentenza, che, se nella fase di merito l’errore non fosse stato commesso, il giudizio avrebbe
potuto essere diverso. Per una decisa opposizione alla prassi degli interventi correttivi della
Corte, di cui viene anche fornita un’ampia – e in qualche evenienza paradossale – casistica,
v. PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, cit., 15 ss., il quale considera con estremo sospetto la
sostituzione dei motivi della sentenza impugnata ad opera della Corte, sulla base del
semplice – e forse semplicistico – rilievo che «o l’errore è tale (anche per la sua necessaria
relazione col dispositivo), da giustificare la cassazione della sentenza (…) o l’errore non è
tale da determinare la cassazione, non rientrando nei casi indicati dalla legge, ed allora il
giudice di cassazione non può neppure interloquire perché non vi era neppure possibilità di
adirlo»: tertium non datur. Da questa premessa, dunque, deriverebbe la conseguenza della
negazione dell’efficacia vincolante alle pronunce di rettifica della Corte, in quanto afferenti
la parte meramente ragionativa della sentenza. Tale efficacia va esclusa, ad avviso dell’a.,
anche a voler ritenere decisiva la considerazione della funzione di tutela dell’esatta
applicazione del diritto che l’ordinamento assegna alla Corte. Infatti, se la manifestazione più
appariscente di questa funzione è rappresentata dal ricorso nell’interesse della legge, che non
ha effetti inter partes e che si risolve in una «platonica dichiarazione del diritto», analogo
trattamento deve essere riservato alle rettifiche che la Corte voglia apportare alle sentenze di
merito il cui dispositivo sia conforme al diritto: «l’efficacia della correzione dei motivi non è
diversa, in definitiva, da quella propria dell’auctoritas rerum similiter judicatarum». Questa
conclusione circa l’efficacia della correzione dei motivi sotto l’impero del codice Pisanelli è
del resto conforme a quella offerta da Calamandrei. Questi, come sappiamo, nel momento in
cui afferma l’inerenza al sistema della cassazione della necessaria verifica della causalità
dell’errore nell’ambito della cognizione dischiusa dalla censura per violazione o falsa
applicazione di legge, ritiene pienamente legittimo il potere della Corte di correggere i
motivi della sentenza di merito contestualmente al rigetto del ricorso contro la stessa, e di
esprimere così una parziale disapprovazione di quel giudicato. Quando però si sofferma sul
valore della correzione, già significativo è il fatto che la consideri come espressione di un
– 29 –
La disciplina dettata in tema di efficacia della pronuncia della
Cassazione in punto di diritto, trattando espressamente solo l’ipotesi di
ribellione manifesta – o resistenza, come da taluni si diceva – del giudice di
rinvio all’enunciato della Corte, per integrare la quale occorreva che
ricorresse il duplice presupposto del totale disconoscimento, da parte del
magistrato di rinvio, della soluzione offerta dalla Cassazione, da un lato, e
dell’integrale accoglimento della soluzione prospettata nella sentenza
annullata, dall’altro, lasciava aperti numerosi interrogativi circa la
proponibilità del secondo ricorso in una serie di ipotesi intermedie42
: i) il caso
in cui difettasse l’estremo del ripudio del dictum della Corte ad opera del
giudice di rinvio, per effetto di un ricollocamento della fattispecie concreta
fuori dall’area di sussunzione sotto la regola individuata dalla Suprema
Corte; ii) il caso in cui mancasse l’adesione alla tesi sostenuta dalla sentenza
di merito poi cassata, ad esempio quando il giudice di rinvio disattendesse
entrambe le soluzioni interpretative adottate dal giudice di merito precedente
e dalla Suprema Corte e ne scegliesse una terza; ed infine, iii) l’eventualità
più semplice, antitetica a quella disciplinata, in cui il giudice di primo rinvio
si attenesse alla dottrina contenuta nella sentenza rescindente delle sezioni
semplici.
«dissenso teorico» della Corte dall’argomentazione erronea del giudice di merito; poi,
postosi di fronte all’interrogativo se la correzione debba considerarsi suscettibile di sostituire
la motivazione errata con efficacia positiva e obbligatoria, se, in sostanza, il giudicato debba
coprire la sentenza di merito così come integrata dai rilievi rettificativi della Corte, l’a. non
esita a dare a tale quesito una perentoria risposta negativa, e a concludere che la rettifica
operata dalla Corte nel rigettare il ricorso altro non può avere che un’autorità di fatto. Contro
questa opinione, la presa di posizione più netta è quella espressa da CARNELUTTI,
Interpretazione autentica delle sentenze, in Riv. dir. proc. civ. 1933, II, 53 ss. e ivi 1934, I,
121 ss.: qui l’a. considera il potere di rettifica con contestuale rigetto del ricorso quale
particolare emanazione di un potere di interpretazione autentica delle sentenze di merito
spettante alla Corte Suprema, dal che trae la conclusione che la correzione apportata dalla
Cassazione alla sentenza erroneamente motivata è assistita da una vera e propria autorità
obbligatoria di diritto. 42
In tema, si veda la ricognizione effettuata da MATTIROLO, Trattato, cit., 1146 ss., a
cui si rimanda anche per la giurisprudenza in materia.
– 30 –
In particolare, poteva darsi il caso che, stante l’ammissibilità di nuove
prove e di nuove questioni nel giudizio di rinvio, al giudice di rinvio si
prospettasse una situazione tale da far risultare il dictum della Corte del tutto
inconferente. Per un’ipotesi del genere, in cui egli, risolvendo una questione
di fatto nuova con influenza sul dispositivo, lasciasse inapplicata la massima
di diritto enunciata dalla Cassazione, senza con ciò contraddirla, si era
consolidata la soluzione secondo cui le doglianze del soccombente non
trovavano aperto il varco per le sezioni unite, potendo piuttosto essere
ospitate da un nuovo ricorso alle sezioni semplici, che risultavano non essersi
ancora pronunciate sul punto43
.
Ad analoga conclusione la giurisprudenza perveniva per l’ipotesi in cui
il magistrato di rinvio, sempre senza disattendere la pronuncia della Corte,
giudicasse in modo conforme al giudice di merito la cui sentenza era stata
cassata, fondando, però, il dispositivo su motivi diversi rispetto a quella44
e
nel caso in cui il giudice di rinvio si discostasse sia dalla sentenza cassata che
da quella della Corte, scegliendo un’ulteriore soluzione interpretativa.
Nel caso, invece, dell’adesione completa del giudice di rinvio al
pronunciato della Corte, la questione che si poneva, nel silenzio della legge,
era di ammettere oppure no la possibilità di sottoporre al vaglio delle sezioni
unite della Cassazione la questione di diritto che era stata uniformemente
risolta dalla Corte e dal giudice di rinvio. Tale quesito riceveva
costantemente risposta negativa soprattutto da parte della Suprema Corte di
Torino, ma anche da parte delle Corti di Palermo, di Firenze e di Roma, alle
quali solo in un secondo momento si accodò la Cassazione di Napoli.
La motivazione generalmente addotta era che il testo legislativo,
preoccupandosi solo di subordinare l’efficacia vincolante della pronuncia
43
In questo senso, Cass. Roma 29 dicembre 1902; Cass. Torino 3 febbraio 1903. 44
Un’operazione, questa, speculare all’intervento correttivo della Corte sulla
sentenza, ampiamente inteso, che trovava spazio in sede di rinvio in quanto la Corte avesse
annullato la sentenza anziché correggerne i motivi.
– 31 –
della Corte a sezioni unite alla condizione che la sentenza di merito fosse
stata denunciata – e venisse quindi cassata – per gli stessi motivi per i quali
era stata impugnata e annullata una precedente sentenza, in maniera indiretta
riconosceva che il secondo ricorso era ammissibile in quanto esistesse una
divergenza tra il pronunciato della Corte Suprema e quello del giudice del
rinvio.
All’opinione contraria, infatti, che faceva leva sull’assenza di un
esplicito divieto sul punto45
, era facile opporre l’obiezione che, non potendo
dedursi per via d’interpretazione sistematica un potere rilevantissimo quale
quello di impugnativa, in mancanza di una specifica previsione che
espressamente accordasse alla parte la facoltà di impugnare, con nuovo
ricorso alle sezioni unite46
, la sentenza del giudice di rinvio che si fosse
uniformato alla decisione della Corte, tale facoltà era da escludersi47
.
§ 2. Dalla decisione sul punto di diritto alla enunciazione del
principio di diritto.
Il passaggio dai vari sistemi di ultima istanza, presenti al momento
dell’unificazione nelle diverse regioni della penisola, ed eterogenei sotto
molteplici profili, all’accoglimento di un ordinamento di cassazione unitario
45
Opinione prevalente nella dottrina e nella giurisprudenza francesi, e in Italia pur
autorevolmente rappresentata, tra gli altri, dall’On. De Falco: questi, fautore del progetto
ministeriale di riforma dell’ordinamento della Cassazione presentato al Senato il 1° febbraio
1872, era tra coloro che si dichiaravano, come si evince dalla relazione preliminare, propensi
ad ammettere il secondo ricorso nell’ipotesi di specie. Fu il Senato che, in occasione della
discussione del progetto, avvertì l’esigenza di inserire una disposizione che riconosceva
inammissibile, nel caso in cui la sentenza di rinvio fosse conforme alla decisione della
Cassazione, un ricorso per annullamento sul punto di diritto deciso. 46
Il MATTIROLO, Trattato, vol. IV, cit., 1150, evidenziava, semmai ce ne fosse
bisogno, che, esclusa la possibilità di proporre il nuovo ricorso alle sezioni unite, per
incompatibilità di una simile interpretazione con la lettera della legge, l’ammissibilità del
nuovo ricorso veniva in radice eliminata, ostando alla proposizione del medesimo alle
sezioni semplici l’aver queste già pronunciato sulla questione. 47
Cfr., in tal senso, MATTIROLO, Trattato, vol. IV, cit., 1150, e poi CHIOVENDA,
Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 1024-1025, 1028; e nella dottrina
processualpenalistica, BORSANI-CASORATI, Cod. proc. pen., cit., 457.
– 32 –
sagomato sullo schema della cassazione francese non fu del tutto indolore,
sebbene non fossero mancate esperienze preunitarie attinte, in modo più o
meno marcato e consapevole, a quel modello.
Fin dal 185948
, la riflessione sul problema dell’assetto definitivo da
dare all’organo di cassazione nel Regno, oltre che attardarsi sull’annosa
querelle intorno all’opportunità o meno del mantenimento delle Cassazioni
territoriali, la cui soluzione era di là da venire, dovette subire il confronto con
i fautori della terza istanza e con il crescente interesse per il modello della
Revision di tipo germanico.
Nel momento in cui, poco più di vent’anni dopo l’approvazione del
primo codice di rito civile dell’Impero prussiano, nel 1877, dall’infaticabile
laboratorio dei giuristi tedeschi vennero fuori, con rapidità invidiabile, le
leggi sull’ordinamento giudiziario e di riforma del codice di procedura
civile49
, il sistema della Revision ne risultò profondamente modificato quanto
alla cognizione sui vizi in procedendo, essendo stato reso, in questo campo,
più assimilabile allo schema della querela nullitatis che non a quello della
terza istanza50
; e, grazie ai suoi elementi di originalità, esso si impose di
prepotenza all’attenzione della dottrina processualcivilistica e dei
riformatori51
.
Da allora, il dibattito sulla riforma della Cassazione in Italia fu sempre
più inevitabilmente condizionato dal fronte di coloro che subivano la
fascinazione della Revision tedesca: forgiata com’era sulla cd. «freie
48
Anno della promulgazione del primo codice di procedura civile del Regno di
Sardegna, codice che, insieme con la parallela legge sull’ordinamento giudiziario,
considerava la Corte di cassazione come organo giudiziario supremo e unico nello Stato e
recava una disciplina organica del ricorso per cassazione: v. supra, nt. 24. 49
Le nuove leggi sull’ordinamento giudiziario e sulla procedura civile recano la data
di pubblicazione del 20 maggio 1898. 50
Infatti, mentre il codice originario attribuiva al giudice supremo il compito di
rilevare d’ufficio qualunque error in procedendo, la riforma era intervenuta nel senso di
circoscrivere la cognizione del giudice di revisione agli errores in procedendo rilevati dal
ricorrente. 51
V. MATTIROLO, Trattato, vol. IV, cit., 899, specie sub nt. 2, e ss.
– 33 –
Revisionspraxis», cioè la libertà della magistratura suprema di procedere
all’integrale riesame del giudizio in iure, con una cognizione dunque estesa
anche al di là degli errores in iudicando denunciati dal ricorrente52
, alla quale
faceva da pendant il potere di emanare una nuova pronuncia di merito,
sostitutiva della sentenza del giudice d’appello (salva la predisposizione del
rinvio, con enunciazione vincolante in punto di diritto, in presenza della
necessità di ulteriori accertamenti di fatto: § 565 ZPO), il modello della
Revision tedesca a molti appariva maggiormente in grado, rispetto a quello
della Cassazione francese, di rispondere alle istanze di giustizia.
Dopo l’approvazione e la pubblicazione del codice di rito del Pisanelli,
nel 1865, che riproduceva in Italia il sistema della «doppia conforme»,
numerosissimi si susseguirono i progetti53
, parlamentari ed extraparlamentari,
che, nel quadro di riforme più ampie del codice di procedura civile e, più in
generale, dell’ordinamento giudiziario, miravano a regolare i rapporti tra
giudizio di cassazione e giudizio di rinvio in modo difforme rispetto alla
previsione di cui all’art. 547 c.p.c.
Da parte di molti si propugnava l’idea di eliminare il rinvio nell’ipotesi
in cui la lite si presentasse matura per la decisione, quanto all’accertamento
del sostrato fattuale, e di affidare di conseguenza alla Corte il potere di
applicare essa stessa il punto di diritto alla controversia.
In particolare, in tale direzione si muoveva il disegno di legge
sull’ordinamento della Cassazione presentato dal ministro De Falco il 1°
febbraio 1872 al Senato, il quale da un lato manteneva la possibilità del
giudice di primo rinvio di discostarsi dall’enunciato in punto di diritto della
sentenza di annullamento pronunziata a sezioni semplici, dall’altro, però,
52
Tale principio veniva esplicitamente codificato dal § 559 ZPO, recante la
previsione per cui la Corte suprema avrebbe dovuto esaminare d’ufficio il giudizio di diritto
in tutta la sua ampiezza, anche nei punti non sollevati dalla parte ricorrente come motivi di
ricorso. 53
Per l’analisi dei quali si vedano CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. I, cit.,
742 ss.; MATTIROLO, Trattato, cit., 898 ss.; PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, cit., 117 ss.
– 34 –
prevedeva che, nel caso in cui venisse proposto un secondo ricorso per gli
stessi motivi dalle medesime parti avverso la sentenza del giudice di rinvio,
le sezioni unite della Corte potessero pronunciarsi nel merito, applicando al
fatto stabilito il punto di diritto deciso (artt. 21-22): approvato dal Senato, il
progetto non riuscì a pervenire alla discussione pubblica presso la Camera dei
Deputati54
.
Nello stesso ordine di idee si collocano il disegno di legge presentato
alla Camera dal ministro Vigliani il 15 aprile 187555
, finalizzato a una
riforma per l’unificazione delle diverse cassazioni territoriali mediante
l’istituzione di una Corte suprema del Regno con sede a Roma, e i successivi
disegni di legge promossi da Tajani56
: questi progetti, nell’aderire al sistema
prospettato dal disegno De Falco che riconosceva alla Corte il potere di
decidere nel merito quando la causa fosse matura, se ne emancipavano nella
misura in cui giungevano a prevedere che la Corte potesse decidere nel
merito sin dal giudizio sul primo ricorso57
.
Nel disegno promosso da Tajani, energico sostenitore della necessità di
sopprimere la libertà sul punto di diritto del giudice di primo rinvio,
presentato prima alla Camera e poi, a distanza di un anno, al Senato, nel
1886, si stabiliva espressamente che, pur quando occorresse il rinvio «per gli
ulteriori accertamenti di giustizia», il giudice di rinvio58
avrebbe dovuto
ritenere irrevocabilmente deciso il punto di diritto sul quale la Corte aveva
statuito. Sia il progetto di Vigliani che il progetto di Tajani del 1886 furono
accantonati. Il primo non venne neanche discusso al secondo ramo del
54
CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 748 s. 55
In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XII, Sess. 1874-1875, IV, Doc. 116. 56
In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXII, Sess. 1885, Docc. 348-39. 57
Un progetto redatto dal ministro Gianturco, redatto con la collaborazione di Carlo
Lessona, che recava innovazioni simili a quelle previste dal disegno Tajani affidando però
alle sezioni regionali il compito di provvedere sul rescissorio, non venne neanche presentato
al Parlamento. 58
Che si prevedeva dovesse essere una diversa sezione del tribunale che aveva
emanato la sentenza poi cassata, e comunque giudici-persone fisiche diversi di quella
medesima autorità.
– 35 –
Parlamento; quanto al progetto Tajani, non riuscirono a guadagnargli il
necessario consenso politico nemmeno i cospicui rimaneggiamenti apportati
dalla commissione senatoria presieduta dal De Ferraris, i quali, pur lasciando
illesa la regola dell’immediata insorgenza del vincolo al dictum in iure della
Corte in capo alla magistratura di rinvio, avevano provveduto ad espungere
dal testo la previsione che attribuiva alla Corte il potere di emanare pronunce
sostitutive di merito, ritenuto in contrasto con l’essenza e gli scopi
dell’organo.
Il 12 febbraio 1903 venne presentato alla Camera il disegno Zanardelli-
Cocco Ortu59
, come gli altri atteso dall’insuccesso: esso ribadiva la necessità
di mantenere il magistrato di cassazione come puro giudice di legittimità,
anche perché lo immaginava al di sopra di cinque corti di revisione che
avrebbero realizzato un terzo grado pieno di giurisdizione.
In ossequio a questa prospettiva, il progetto Zanardelli-Cocco Ortu non
solo non ammetteva la Corte a pronunciarsi sostitutivamente sul merito, ma
teneva ancora ferma la piena libertà del giudice di primo rinvio che il disegno
Tajani aveva inteso rimuovere, ritenendo con ciò di assicurare, come si legge
nella Relazione che accompagnava la presentazione del progetto, «il
benefizio derivante dall’attrito delle opinioni» tra le sezioni semplici della
Corte e il giudice del rinvio. È interessante notare che la Commissione
parlamentare che aveva posto allo studio questa riforma, credette di contro
opportuna l’introduzione del sistema che attribuiva efficacia vincolante per il
giudice di rinvio alla sentenza della Cassazione fin dal primo ricorso, e
dispose, così come era stato fatto dai progetti precedenti, che il rinvio
dovesse essere commesso alla stessa autorità che aveva emanato la sentenza
cassata, rappresentata però da altri giudici.
Evidentemente, l’idea di vincolare alla pronuncia in iure della Corte il
magistrato di merito fin dal primo rinvio andava via via procurandosi
59
In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXI, Sess. 1902-1904, Doc. 294.
– 36 –
argomenti sempre più convincenti, e ad essa aderì anche il successivo
progetto del ministro Orlando, avanzato una prima volta nel 1908, e una
seconda volta l’anno seguente60
, a distanza di tre anni dalla presentazione del
progetto Gallo61
, che invece manteneva ancora intatta la libertà del giudice di
primo rinvio di disattendere il dictum della Corte.
Lungo la stessa strada, anche il progetto licenziato nel 1918 dalla
Commissione per il dopoguerra62
, alla cui predisposizione attese il fondatore
della nostra dottrina processualcivilistica, Giuseppe Chiovenda, nel suo art.
196 accordava alla Cassazione già in sede di accoglimento del primo ricorso
il binomio di poteri già propugnato dal Tajani, ossia l’abbinamento del potere
di decidere la causa nel merito in assenza di esigenze istruttorie da soddisfare
e quello di emettere, in alternativa, una pronuncia immediatamente
vincolante in punto di diritto per il giudice di rinvio; peraltro, preoccupandosi
di specificare che tali poteri spettavano alla Corte quando questa fosse stata
adita a mezzo della censura della violazione o della falsa applicazione della
legge63
. Come ha osservato, tra gli altri, Calamandrei, e com’è del resto
60
In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXII, Sess. 1904-1908, Doc. 968 e in
Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXIII, Sess. 1909-1913, Doc. 147; v. anche
ORLANDO, Progetto di riforma del codice di procedura civile presentato alla camera dei
deputati il 24 maggio 1909, in Riv. dir. civ. 1909, 518 ss. Progetto, questo dell’Orlando, la
cui notorietà è legata soprattutto all’abbandono dell’idea di ridurre ad unità le cinque Corti di
cassazione in materia civile, e al tentativo di stabilizzare la pluralità attraverso un riordino
generale del sistema delle impugnazioni civili, nel quale il ricorso per cassazione assumesse
la natura di mezzo ordinario di impugnativa: v. CALAMANDREI, La Cassazione civile, vol. I,
cit., 754. 61
In Atti della Camera dei Deputati, Legisl. XXII, Sess. 1904-1908, Doc. 544. 62 Cfr. CHIOVENDA, La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione
per il dopo guerra. Relazione e testo annotato, Napoli 1920. 63
In ciò, il progetto Chiovenda riprendeva e perfezionava un’intuizione che, in forme
meno precise e consapevoli, aveva cominciato a circolare in progetti precedenti: quella, cioè,
che l’esplicito riconoscimento alla Corte del potere di vincolare il giudice di rinvio non si
giustificava razionalmente in tutti i casi in cui essa era chiamata a pronunciarsi, alla stregua
dell’art. 517 c.p.c. 1865. In particolare, il disegno De Falco, attraverso una ridefinizione dei
motivi di cassazione, che venivano ridotti alle ipotesi di omissione o violazione delle forme
di procedura prescritte a pena di nullità ovvero alla violazione o falsa applicazione della
legge (mentre le ipotesi residue dell’art. 517 venivano destinate alla revocazione), si limitava
– 37 –
evidente, il dotto estensore dell’art. 196 doveva conoscere molto bene il
sistema tedesco della Revision, e da questo doveva aver tratto ispirazione per
correggere le più evidenti imperfezioni del nostro sistema. L’analisi di quella
norma dimostra chiaramente il fatto che l’anticipazione della regola del
vincolo al pronunciato della Corte al primo giudizio di rinvio era concepita
come un momento decisivo della razionalizzazione del sistema dei rimedi
esperibili avverso la sentenza nella misura in cui, consentendo alla Corte di
resecare i dubbi intorno alle questioni de iure, permettesse una più sicura e
spedita risoluzione della controversia.
In questa prospettiva sembra doversi leggere la previsione in virtù della
quale, per il caso in cui la Corte non potesse statuire sul merito della causa
per la necessità di ulteriori accertamenti di fatto, non era ammesso
a circoscrivere le competenze della Corte, ma non attingeva ancora all’idea di differenziare
le pronunce della Corte, sotto il profilo della vincolatività, a seconda che accedessero alla
cognizione sull’errore di diritto o a quella sugli altri vizi; ma è interessante rilevare come già
in quel progetto compare all’art. 16 la previsione per la quale «il P.M. presso la Corte di
Cassazione, e la Corte stessa, possono, relativamente al capo impugnato della sentenza,
elevare, anche d’ufficio, le nullità che derivano da violazione o da falsa applicazione di
legge»: previsione, questa, evidentemente ispirata dall’esigenza di rendere più completa la
cognizione relativa agli errores in iudicando, seppure nei limiti della contestazione. Il
progetto Vigliani, dal canto suo, che, secondo la relazione stilata dal suo stesso promotore,
aveva l’obiettivo di istituire un’unica magistratura suprema dotata di una natura promiscua,
con caratteristiche in parte ritratte dal tradizionale organo di cassazione, come il divieto del
rifacimento del giudizio di fatto, in parte riconducibili al sistema della terza istanza, come il
potere di applicare al fatto il punto di diritto deciso, adottava le stesse disposizioni restrittive
dei motivi di cassazione del progetto De Falco, e si preoccupava all’art. 11 solamente di
specificare che il potere della Corte di decidere la causa nel merito esulava quando la Corte
pronunciasse l’annullamento per motivi attinenti alla competenza. La stessa limitazione,
contenuta nel progetto Tajani, veniva reputata insignificante dalla commissione senatoria
presieduta dal De Ferraris, la quale, modificando il progetto Tajani nel senso di restituire al
ricorso per cassazione alcuni motivi che già il progetto De Falco e il progetto Vigliani
avevano consegnato alla revocazione, e di escludere il potere della Corte di applicare essa
stessa il diritto al fatto, precisava che la Corte dovesse limitarsi ad annullare la sentenza e
disporre il rinvio della causa con una pronuncia che comunque avrebbe vincolato il giudice
di merito sul punto di diritto deciso nel caso in cui accogliesse un ricorso per violazione o
falsa applicazione di legge: qui, a differenza che negli altri progetti e come avverrà in modo
più consapevole nel progetto Chiovenda, appare distintamente istituita una relazione
peculiare tra la denuncia di un error in iudicando e la pronuncia vincolante della Corte in
punto di diritto.
– 38 –
l’assorbimento dei motivi che potessero risultare rilevanti per il giudizio di
rinvio: «la sentenza che rinvia deve pronunciare su tutti i motivi di ricorso, in
quanto ciò sia necessario per non lasciare questioni insolute nella
prosecuzione della causa».
Va inoltre osservato che, legando il potere della Corte di pronunciarsi
sostitutivamente sul merito della causa o di statuire in modo vincolante «sui
punti di diritto» – significativamente declinati al plurale – all’accoglimento di
un ricorso presentato sulla base del motivo della violazione o falsa
applicazione di legge, il progetto Chiovenda pareva aspirare alla creazione di
una valvola che mettesse il ricorrente nelle condizioni di eccitare la Corte ad
una revisio in iure della causa. E tuttavia, seguendo questo percorso, il
progetto si fermava un passo prima di trasformare la Cassazione italiana nel
suo corrispettivo tedesco: stante l’impossibilità, per la Corte, di procedere
d’ufficio all’integrale rifacimento del giudizio in diritto, in mancanza di una
norma corrispondente al § 559 ZPO, alla diligenza del ricorrente restava pur
sempre affidato il compito di far emergere dinanzi alla Corte le questioni in
iure da sottoporre a riesame, attraverso una puntuale indicazione delle
censure, così che non risultasse alterata la tradizionale fisionomia del ricorso
per cassazione italiano come impugnazione straordinaria a schema chiuso.
Che tale fosse la preoccupazione più avvertita è confermato dalla modifica
che la commissione che aveva posto allo studio il progetto Chiovenda ritenne
di dover fare all’art. 196, aggiungendo alla proposizione attributiva del potere
della Corte di decidere nel merito la causa «in base ai fatti accertati dalla
sentenza impugnata» l’inciso «ed entro i limiti della contestazione», a scanso
di equivoci che forse il sistema neanche poteva ambire ad autorizzare64
.
64
L’idea di fondo del progetto di Chiovenda di assegnare alla Corte una corsia
differenziale relativamente alla cognizione sui vizi in iudicando si chiarisce meglio alla luce
della contestatissima teoria «dualistica» del ricorso per cassazione formulata dall’Autore, che
a sua volta quell’idea contribuisce a illuminare. Si tratta della teoria per la quale ai due tipi di
ricorso, per errores in procedendo (o vizi di attività, come egli preferisce definirli) e per
errores in iudicando, corrisponderebbero due diverse funzioni che la Cassazione è chiamata
– 39 –
a svolgere: rispettivamente, la funzione di annullamento, cui si riconnette l’effetto per il
quale «è tolta di mezzo la sentenza anche come atto giuridico, e può dirsi di essa che può
considerarsi come non avvenuta», con la conseguenza che si ha un fenomeno di reviviscenza
della sentenza di primo grado; e la funzione di cassazione semplice, in virtù della quale la
sentenza cassata «cessa d’avere valore come atto d’applicazione della legge, ma rimane
come atto giuridico in sé valido che si è sovrapposto alla sentenza di primo grado e le ha
tolto ogni valore potenziale di sentenza», ragion per cui quest’ultima non rivive (cfr.
CHIOVENDA, Principii, cit., 396-398; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II,
Napoli 1935, 623 ss.). Un simile postulato aveva l’indubbio pregio di valorizzare all’interno
della dinamica dei rimedi la differenza empiricamente incontestabile che intercorre tra una
sentenza difettosa nella sua costruzione processuale – nulla per vizi di forma – e una
sentenza processualmente ineccepibile ma ingiusta nel suo contenuto perché recante un
errore di diritto, e di correlare la diversa ampiezza dell’indagine da svolgersi nei due casi a
una diversità di effetti conseguenti al fruttuoso esperimento del rimedio: a questa stregua, è
agevole comprendere perché il progetto Chiovenda isolasse concettualmente la revisio in
iure della Corte dalle funzioni che alla stessa competono in materia di vizi di attività, e
attribuisse alla Corte medesima, quando investita del ricorso per violazione o falsa
applicazione della legge, poteri e compiti del tutto peculiari. Ma è proprio questa
diversificazione del rimedio che a molti contemporanei di Chiovenda, tra i quali pure
Calamandrei, appare, seppure affascinante in ipotesi, non rispondente alla realtà del sistema
di cassazione del codice Pisanelli, in quanto priva di appigli sia sulla disciplina positiva che
sulla storia dell’istituto. E invero, non poteva non essere, con il solito puntiglio storiografico,
lo stesso Calamandrei, op. cit., vol. II, 332, a ricordare che, ai primordi dell’istituto, la
cassabilità della sentenza ingiusta, concepita in origine come potere dell’autorità di togliere
vigore a sentenze che fossero contra ius constitutionis, in quanto offensive dell’autorità della
legge intesa come volontà dello Stato, venisse equiparata, al fine di sfruttare l’iniziativa
privata a fini di soddisfazione generale, all’annullabilità della sentenza viziata da difetti di
forma, la quale per contro rappresentava un vero e proprio diritto di impugnativa; e che da
allora «tra cassabilità e annullabilità non vi è stata, nel diritto francese e in quello su esso
modellati, nessuna differenza di effetti». Semmai, aggiunge l’a., la teoria chiovendiana si
attaglia bene ad un ordinamento come quello tedesco, nel quale ai vizi in procedendo viene
effettivamente riservato un trattamento diverso rispetto a quello dei vizi in iudicando, nella
misura in cui, concepito il ricorso presso la suprema Corte non come mezzo straordinario di
impugnazione ma come mezzo di gravame, seppure parziale perché circoscritto allo stadio
decisorio, con la riforma del 1898, con la quale viene soppressa la rilevabilità d’ufficio dei
vizi in procedendo, si accoglie l’idea di un terzo grado di cognizione in iure per l’automatica
devoluzione alla Corte del solo giudizio di diritto: un ordinamento del genere, in cui peraltro
talune nullità sopravvivono alla revisione, potendo essere fatte valere attraverso un’apposita
azione (costitutiva) di nullità anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da
esercitarsi entro certi termini o addirittura imprescrittibile quanto alle nullità insanabili, ha
realmente superato, per dirla con Kolher, quella «confusione» che il diritto romano faceva tra
nullità e ingiustizia della sentenza (la quale costituisce, insieme con l’istituzione, nel diritto
intermedio, della querela nullitatis, cioè di una specifica azione di impugnativa a carattere
costitutivo volta all’invalidazione delle sentenze, il germe del moderno concetto di
cassazione). In critica alla soluzione chiovendiana, si vedano le concise e puntualissime
– 40 –
Nonostante gli indiscutibili vantaggi che in termini pratici potevano
scaturire dall’introduzione dell’obbligo in capo al giudice di primo rinvio di
attenersi al pronunciato in iure della Corte, la tesi che considerava invece
opportuno il mantenimento dell’assetto della «doppia conforme», suffragata
dal duplice argomento della necessità di tutelare la libertà morale del giudice
di rinvio e dell’esigenza di dare la priorità alle istanze di giustizia sostanziale
piuttosto che a quelle di una più rapida definizione delle liti, continuava a
vantare autorevoli sostenitori: tra gli altri, Francesco Carnelutti, che nel
progetto di legge del 192665
redatto su incarico della Commissione reale per
la riforma dei codici presieduta da Mortara, riconfermava la libertà del
giudice di primo rinvio di disattendere il principio di diritto enunciato dalla
Corte e, contro coloro che caldeggiavano una riforma nella direzione del
rinvio «a processo chiuso», ribadiva – coerentemente, se l’ottica prescelta
considerazioni di SIRACUSANO, I rapporti tra «Cassazione» e «rinvio» nel processo penale,
Milano 1967, 102-103: «Premessa indefettibile dell’impostazione chiovendiana era che
l’annullamento in procedendo colpisse ‘sempre’ la sentenza nella sua interezza: ed invero,
doveva apparire ovvio che in tanto la sentenza poteva ‘togliersi di mezzo … come atto
giuridico’ in quanto la si invalidava ‘totalmente’. Orbene, la correttezza di questa premessa
sarebbe apparsa immediatamente contestabile solo che si fosse considerata la possibilità
dell’‘annullamento parziale’ in procedendo. A questo tipo di annullamento avrebbe potuto,
infatti pervenire la Corte sia nell’ipotesi in cui l’errore di attività fosse stato oggetto di una
‘questione’ risolta nel giudizio di merito e riproposta in sede di Cassazione (nei casi, cioè, di
rilevazione del c.d. errore complesso), sia nelle ipotesi in cui un’omissione formale avesse
invalidato un punto determinato della sentenza». Pur quindi generalmente sconfessata, sotto i
richiamati aspetti, la ricostruzione chiovendiana, a conclusione di questa sovrabbondante
digressione – e volendo tentare una pur miope Wirkungsgeschichte, una «storia degli effetti»,
del pensiero del maestro piemontese – si potrebbe dire, pur senza sottovalutare quelle
proposte di riforma che in oltre un settantennio si sono avvicendate e che in varia misura
avevano circoscritto l’operatività del vincolo del dictum in iure della Corte (v. supra, nt. 58),
che se il vincolo del principio di diritto viene correlato dal legislatore del 1940
all’accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quando il
codice del 1865 lo riconnetteva genericamente alla pronuncia in punto di diritto delle sezioni
unite senza indicare i motivi per i quali il ricorso fosse stato proposto e accolto, ciò è dovuto
probabilmente all’intrinseca forza persuasiva dell’idea chiovendiana di una necessaria
specificazione, all’interno del genus delle cassazioni, delle pronunce rescindenti per errori di
diritto. 65
CARNELUTTI, Progetto del codice di procedura civile presentato alla
Sottocommissione Reale per la riforma del Codice di procedura civile, Padova 1926.
– 41 –
doveva essere quella del più agevole perseguimento dei fini di giustizia
sostanziale – la possibilità per il giudice di rinvio di esaminare nuove prove e
nuove questioni (artt. 384, cpv., e 386 del progetto).
In ogni caso, se è vero che né il progetto Chiovenda né il progetto
Carnelutti riuscirono laddove avevano fallito i disegni di legge ottocenteschi
per la tanto agognata riforma del processo civile, un dato cominciava a
profilarsi in maniera piuttosto chiara, e cioè che la dottrina che ancora
strenuamente si adoperava a difesa della libertà del giudice di primo rinvio
era destinata a restare emarginata, come profetizzato dagli osservatori più
avveduti del tempo66
, perché in netta controtendenza rispetto alle scelte che il
legislatore andava operando: in primo luogo, nell’ambito del processo penale,
ma anche in alcuni settori disciplinati da leggi speciali.
Quanto a questi ultimi, a conferma della tendenza del legislatore a
superare il meccanismo della doppia conforme, vanno segnalati gli interventi
in materia di giurisdizione e di procedura del contenzioso sulle acque
pubbliche, in materia di disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro e
in materia di usi civici.
Nel primo caso, l’obiettivo di dare immediatamente efficacia vincolante
per la magistratura di rinvio al giudizio della Corte era perseguito attraverso
la previsione che prescriveva che i ricorsi contro le decisioni pronunziate in
grado d’appello dal tribunale superiore delle acque venissero portati
direttamente alle sezioni unite della Corte (art. 110 r.d. 9 ottobre 1919, n.
2161); nel contenzioso dei rapporti collettivi del lavoro e in quello per gli usi
civici, più semplicemente, si utilizzava l’espediente di attribuire alla sentenza
delle sezioni semplici della Cassazione la stessa efficacia delle sentenze
66
Cfr., tra gli altri, D’AMELIO, La sentenza della Corte di Cassazione (Sez. Civ.) e la
sua efficacia per il giudice di rinvio, in Monitore dei Tribunali 1931, e la rassegna ivi
contenuta dei casi previsti da leggi speciali in cui alla pronuncia della Corte era attribuito
immediato effetto vincolante per il giudice di rinvio, sui quali nel testo.
– 42 –
pronunciate a norma dell’art. 547 c.p.c. dalle sezioni unite (art. 91 r.d. 1°
luglio 1926, n. 1130 e art. 8, cpv., l. 10 luglio 1930, n. 1078).
Per quanto riguarda invece il processo penale, è appena il caso di
ricordare che, lungo la strada delle riforme del diritto processuale, il
legislatore penale si era mosso con maggiore risolutezza rispetto a quello
civile: al momento della riforma del rito civile, nel 1940, il processo penale
italiano si trovava già da un decennio a sperimentare il suo terzo codice (il
codice Rocco, dopo la breve vigenza del codice Finocchiaro-Aprile del
1913).
Nella prospettiva che qui rileva, occorre dire che sul versante del
perseguimento dello scopo di semplificare il raccordo tra la fase rescindente
dinnanzi alla Cassazione e la fase rescissoria presso la magistratura di rinvio,
il codice del 1913 non registrava delle novità, in quanto confermava la
possibilità in capo al giudice di primo rinvio di discostarsi dall’enunciato in
iure della Suprema Corte.
L’art. 532 c.p.p. 1913, infatti, prevedeva la decisione della Corte «a
sezioni unite quando, dopo l’annullamento, la sentenza del giudice di rinvio
sia impugnata per gli stessi motivi proposti col primo ricorso» e che solo la
pronuncia resa dalle Sezioni Unite in accoglimento del ricorso per
l’annullamento della sentenza di rinvio «per gli stessi motivi» per i quali era
stata cassata una precedente sentenza tra le stesse parti, era vincolante quanto
al «punto di diritto deciso». Si riproduceva, in tal modo, il sistema della
doppia conforme introdotto nel 1865; con l’unica rilevante differenza,
rispetto al vecchio art. 683, che ad esprimere la vincolatività della seconda
pronuncia della Corte rispetto alla magistratura di rinvio era preposta la
locuzione «autorità di giudicato irrevocabile»: con quali ripercussioni sulla
disputa intorno alla natura del vincolo del giudice di secondo rinvio,
polarizzatasi sull’antagonismo tra la concezione del giudicato, di Carnelutti, e
– 43 –
quella della preclusione, di Calamandrei67
, è facile immaginare, sebbene la
scarsa consapevolezza dei redattori del codice delle conseguenze sistematiche
che l’innovazione terminologica potenzialmente trascinava con sé venisse
addotta a sostegno della tesi dell’atecnicità della locuzione stessa68
.
Nel 1930, soggiungeva il codice Rocco a far cadere la riserva di libertà
nell’apprezzamento della quaestio iuris accordata al giudice del primo rinvio,
introducendo, all’art. 546, la secca dicitura che «il giudice di rinvio deve
uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne
ogni questione di diritto con essa decisa».
Veniva così emarginata l’opinione di coloro che persistevano ad
opporsi all’evidenza della maggiore praticità di questo meccanismo ormai
soprattutto con argomenti di carattere teorico, continuando a lodare il sistema
della doppia conforme come l’unico stratagemma atto ad evitare quello che si
presumeva essere l’inconveniente sistematicamente più inaccettabile
dell’obbligo della magistratura di merito di conformarsi alla premessa di
diritto formulata dalla Corte, ossia la coercizione della coscienza del giudice
di rinvio.
Tale opinione continuava infatti a radicarsi sull’assunto che solo nel
sistema della doppia conforme l’attitudine della Corte a sezioni unite ad
emettere pronunce vincolanti per superare il dissidio insorto tra sezioni
semplici e giudici di merito poteva trovare una giustificazione nella naturale
competenza della magistratura superiore a dirimere i conflitti tra gli organi
inferiori; mentre, per converso, l’anticipazione del vincolo del giudice di
rinvio alla prima pronuncia delle sezioni semplici, e dunque in assenza un
67
Su cui infra, capitolo secondo. 68
Di errore del legislatore parla al riguardo CALAMANDREI, La sentenza
soggettivamente complessa, in Riv. dir. proc. 1924, I, 240. La tesi della inattendibilità della
formula appare evidentemente indispensabile per continuare ad accreditare la nota teoria di
Arturo Rocco asserente la natura «ordinatoria», e non definitiva, della sentenza della Corte di
cassazione che accoglie il ricorso e dispone il rinvio: ROCCO, Concetto, specie e valore della
sentenza penale definitiva, Torino, 1905, 56 ss.
– 44 –
conflitto in atto, col consentire al magistrato supremo di imporre la propria
opinione al magistrato inferiore, avrebbe positivizzato un germe di
imposizione gerarchica, in spregio ad una delle più importanti conquiste
giuridiche della modernità, il principio dell’indipendenza del giudice
«soggetto solo alla legge»69
.
69
Echi di questa polemica si rintracciano, nel codice Rocco, nella regolamentazione,
contenuta all’art. 543, della competenza sul rescissorio: il rinvio, in sintesi, era demandato al
giudice a quo nel caso di annullamento delle ordinanze e ad un giudice diverso nel caso di
annullamento delle sentenze, sulla scorta, evidentemente, dell’idea che la correzione
vincolante ad opera della Corte dello stadio decisorio «a monte» non fosse in grado di
compromettere la libertà morale del magistrato nella risoluzione dell’ulteriore frazione di
giudizio quanto quella effettuata, per così dire, «a valle»: cfr. AUGENTI, Natura e limiti del
giudizio penale di rinvio, Padova 1934, 25 ss. Infatti, il n. 1 dell’art. 543 del codice di rito del
1930, recante la previsione per la quale la Corte Suprema doveva disporre la trasmissione
degli atti al giudice che aveva pronunciato l’ordinanza cassata, il quale si sarebbe di
conseguenza uniformato alla decisione della Corte medesima, venne fin da subito e
pressoché costantemente interpretato non nel senso minimo che sul rescissorio doveva
provvedere lo stesso ufficio giudiziario dal quale proveniva l’ordinanza cassata, ma nel senso
che giudice del rinvio potesse essere la stessa persona fisica che aveva pronunciata
l’ordinanza. Ciò hanno precisato, a titolo esemplificativo, Cass. 18 ottobre 1966 e, in
dottrina, ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, vol. III, Milano 1952, 533; G.
PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, vol. II, Milano, 1965, 331; e, da ultimo,
SPANGHER, Problemi di incompatibilità e precedente sentenza istruttoria, in Riv. it. dir. proc.
pen. 1981, 615. Nel codice di procedura penale del 1988, la circostanza che la lettera a
dell’art. 623, in tema di annullamento di un’ordinanza, riproduce anche nel tenore testuale
l’art. 543, n. 1 c.p.p. abrogato, non appare come un caso, e induce a riconfermare le
conclusioni cui erano pervenute la dottrina e la giurisprudenza sotto l’impero del codice
Rocco, le quali ravvisavano in questa differenziazione della competenza funzionale sul
rescissorio una deroga effettiva al principio tendenziale che informa la disciplina del giudizio
di rinvio secondo cui il giudice di rinvio deve essere diverso – perlomeno fisicamente
diverso – dal giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato (principio che in via
generale ispira anche la disciplina delle incompatibilità determinata da atti compiuti nel
procedimento contenuta nel nuovo art. 34). Cfr. CIANI, sub art. 623 c.p.p., in Commentario
Chiavario, vol. VI, Torino 1991, 297. La difficoltà a concepire e trattare come normale
l’ipotesi di una pronuncia vincolante della Suprema Corte serpeggia inoltre al fondo del
dibattito, che attraversa la vigenza di ben tre codici di rito, sul problema dell’individuazione
di un regime diversificato di impugnazione della sentenza del giudice di rinvio nel processo
penale a seconda che la pronuncia di annullamento venisse resa per il riscontro di un error in
procedendo o di un error in iudicando. Nei sistemi dei codici di rito penale del 1865 e del
1915 «le regole che imponevano il ricorso alle sezioni unite della Cassazione riguardavano
solo le ipotesi in cui il precedente annullamento fosse dipeso dall’accertamento di una legge
sostanziale»: così, SIRACUSANO, I rapporti fra «cassazione» e «rinvio» nel processo penale,
– 45 –
La riforma non mancò di suscitare aspre critiche anche perché andava a
modificare in maniera decisiva il modus operandi della Cassazione nel solo
campo penale, lasciando fuori l’altro grande settore d’intervento della
giurisdizione di legittimità.
A questa schizofrenia si rimedierà, finalmente, con la riforma del 1940,
con la quale il legislatore del processo civile si mette al passo con quello del
processo penale dettando, a disciplina del collegamento tra giudizio di
cit., 125-127. In tal modo, prosegue l’a., «a) il solo rimedio consentito contro le sentenza del
giudice di rinvio era considerato il ricorso sia nel caso in cui l’annullamento fosse stato
dichiarato per una violazione di legge sostanziale e la successiva sentenza del giudice di
rinvio fosse emanata in secondo grado, sia nel caso in cui l’annullamento fosse stato
dichiarato per una violazione di legge processuale e la successiva sentenza del giudice di
rinvio fosse stata emanata in primo grado»; ma: «b) giudice ad quem del ricorso sarebbe stata
la Cassazione a sezioni unite … nel caso in cui l’annullamento fosse stato dichiarato per una
violazione di legge sostanziale ed il giudice di rinvio (di primo o di secondo grado) si fosse
“ribellato” alla “dottrina espressa dalla Corte”», mentre «c) giudice ad quem del ricorso
sarebbe stata la Cassazione a sezione semplice sia nell’ipotesi in cui i motivi di
impugnazione proposti fossero stati “diversi” da quelli proposti contro la sentenza emessa
nel pregresso giudizio di merito, sia nell’ipotesi in cui l’annullamento fosse stato dichiarato
per una violazione di legge processuale». Nel primo caso, sarebbe stato possibile il ricorso in
via ordinaria per mancanza del «conflitto fra la dottrina espressa dalla Corte ed il giudice di
rinvio» da sottoporre alle sezioni unite. Nell’ipotesi di annullamento per violazione di legge
processuale, il ricorso ordinario alle sezioni semplici si sarebbe imposto in quanto «il giudice
di rinvio non avrebbe potuto avere per la sua decisione alcun termine di riferimento nella
sentenza della Corte di Cassazione e quindi nessun vincolo, nemmeno potenziale»: così, ID.,
op. cit., 126-127. Il codice Rocco del 1930 (v. subito dopo nel testo) eredita questo problema,
ma l’inserimento della norma che proclama la vincolatività della pronuncia della Corte di
cassazione già nei confronti del giudice di primo rinvio conduce gli interpreti ad una
soluzione diversa: «Abrogato, però, il congegno del “doppio rinvio” e riconosciuta alla
Cassazione la possibilità di controllare anche la sfera de facto (per il sindacato del vizio
logico) deve necessariamente pervenirsi a tutta una nuova sistemazione del problema relativo
all’impugnabilità della sentenza del giudice di rinvio». Pertanto, secondo Siracusano,
avrebbe dovuto ritenersi: «a) che nell’ipotesi in cui l’annullamento sia stato dichiarato per un
error in procedendo (attinente alla costituzione del rapporto processuale o commesso nel
corso del procedimento), la successiva sentenza del giudice di rinvio, se emessa in primo
grado, potrà anche essere impugnata con il rimedio dell’appello», poiché «in queste ipotesi,
infatti, il processo ritorna nella fase del giudizio di primo grado libero da ogni vincolo,
riprende il suo corso ex novo e la sentenza del giudice di rinvio sarà soggetta al naturale
ordine delle impugnazioni»; mentre «nelle ipotesi in cui l’annullamento sia stato dichiarato
per error in judicando (in jure o in facto), la successiva sentenza emessa nella fase di rinvio
potrà essere soltanto soggetta al ricorso per cassazione»: ID., op. cit., 130-131.
– 46 –
cassazione e giudizio di rinvio, la regola contenuta dall’art. 384 c.p.c.; quella
regola dalla quale siamo partiti ricavandone un’impressione di “naturalezza”
che, alla luce di un pur sommario excursus storico, si è dimostrata essere,
sebbene ragionevole quanto alla sostanza delle cose70
, fallace o perlomeno
fuorviante, ai fini, invece, della comprensione delle modalità con cui essa ha
trovato sbocco in mezzo alle molteplici e irriducibili contraddizioni che
hanno contrassegnato la nascita e lo sviluppo dell’istituto della Cassazione.
In ogni caso, una volta abbattuto anche nel processo civile quel
«simulacro di libertà in ordine alla questio iuris»71
rappresentato dalla libertà,
in capo al giudice di primo rinvio, di discostarsi dal dictum della Suprema
Corte, e definitivamente archiviata la disputa intorno all’opportunità della
riforma a ciò diretta, l’attenzione degli studiosi poteva concentrarsi ancora
sul dibattito che si trasferiva, nei suoi tratti essenziali immutato, dalla
seconda alla prima pronuncia in iure della Corte, intorno alla natura e dunque
all’efficacia del vincolo in capo al giudice di rinvio.
Intanto, conviene sottolineare che la norma dell’art. 384 del nuovo
codice di rito recava una diversa costruzione sintattica e un’interessante
innovazione lessicale, rispetto al passato: mentre il codice abrogato, all’art.
547, parlava del dovere del giudice di (secondo) rinvio di conformarsi al
«punto di diritto deciso» dalle Sezioni Unite, qui il vincolo del giudice di
rinvio veniva correlato espressamente al «principio di diritto» enunciato dalla
Cassazione all’atto di accogliere il ricorso per violazione o falsa applicazione
di norme di diritto (locuzione, quest’ultima, che riproduceva alla lettera il n.
3 dell’art. 360, nel quale il legislatore aveva trasferito il n. 3 dell’art. 517 del
70
È, questo, il pensiero che SATTA, in Commentario al Codice di procedura civile,
vol. II, parte seconda, cit., 179, esprime con riferimento alla progenitrice francese della
nostra Cassazione: «Anche ammesso che la cassazione non potesse occuparsi du fond des
affaires, sarebbe stato naturale che la sua pronuncia sulla legge fosse vincolante per il
giudice di rinvio: e invece si assiste a ogni sforzo per escludere questo vincolo, e cercare
ogni complicato rimedio (il Référé al corpo legislativo era uno di questi) per giungere alla
definitiva fissazione della volontà della legge». 71
FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 28.
– 47 –
vecchio codice, sostituendo al più restrittivo riferimento alla «legge» del
vizio ivi previsto quello, più elastico, alle «norme di diritto», con una
variazione evidentemente preordinata a chiarire che «non la qualità della
fonte, ma la qualità del comando è rilevante ai fini della cassazione»72
).
L’antecedente della nuova disposizione si rintraccia nell’art. 402 del
progetto Solmi, il quale conteneva la previsione testuale secondo cui la Corte
avrebbe dovuto enunciare «la massima alla quale il giudice di rinvio è tenuto
a conformarsi».
Non è mancato chi, a caldo, guardasse con nostalgia alla precedente
dicitura e a quelle, più o meno equipollenti, utilizzate dal c.p.p. del 1930 e
dalle leggi speciali che, in merito all’anticipazione del vincolo al primo
giudizio di rinvio, avevano precorso i tempi rispetto al legislatore del
processo civile73
. Ma, per la verità, la dottrina applicata allo studio della
riforma non si è soffermata troppo a meditare sul passaggio semantico, molto
probabilmente nella consapevolezza che la nuova formulazione scontava in
precisione quello che guadagnava sotto il profilo della coerenza logica, se si è
d’accordo con Mazzarella74
nel ritenere che essa svelava quello che era
sempre stato il vero referente del giudice di rinvio: vale a dire, non la
decisione sul punto di diritto in sé e per sé, quanto la ratio decidendi in essa
72
CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, vol. II, Roma 1951,
185. 73
Cfr. RICCA BARBERIS, Preliminari e commento al codice di procedura civile, vol.
II, Torino, s.d., 153-154, ove si legge che tutte le espressioni che parlano di “questioni” o
“punti di diritto” decisi «indicano ciò che il giudice di rinvio non può toccare, più
chiaramente e sicuramente che non i termini generici di “massime” e di “principi”». Subito,
però, si aggiunge che «importa veder subito la ragione della disposizione. Essa fu vista in ciò
che il giudice di rinvio può sì, per effetto di nuovi accertamenti, dar una sentenza
sostanzialmente uguale a quella cassata; ma non può variare la massima della corte suprema,
dovuta a un giudice superiore. Sarà possibile, per mutate circostanze, non più applicarla, ma
mai modificarla: cosa tanto evidente che non sarebbe stato neppur più da dire se un
legislatore forse troppo rispettoso dell’individuo e troppo diffidente verso gli organi dello
Stato non avesse un tempo stabilito il contrario». 74
Cfr. MAZZARELLA, Appunti a proposito di «principio di diritto» e «cassazione
sostitutiva», cit., 1485 ss.
– 48 –
contenuta, posto che da tale ratio va irradiata e di tale ratio s’innerva
l’attività di rigoverno del giudizio ai fini dell’emanazione della pronuncia in
merito presso il giudice di rinvio.
L’abbandono della «metonimia»75
, tuttavia, non dice nulla, più di
questo, intorno alla portata del vincolo: ossia, se è vero che chiarisce la
necessità di adeguare il giudizio finale alla regula iuris che si trae dal
ragionamento complessivo effettuato dal giudice supremo nell’accertamento
dell’errore di diritto denunciato, non è, di per sé, probante ai fini
dell’asserzione della sua inidoneità ad essere un conchiuso nucleo, o
frammento, del giudizio vero e proprio. Ciò che è del resto dimostrato dalla
indefessa prosecuzione delle dispute circa la natura del vincolo e il modo
dello stesso di ripercuotersi sull’ulteriore frazione del processo presso la
magistratura di rinvio: dispute che riguarderanno sì l’oggetto “fondamentale”
del vincolo, ossia la questione di diritto sottoposta al vaglio della Corte, e il
modo di atteggiarsi della relativa decisione rispetto ad eventi in grado di
minarne la stabilità, ma anche (e, diremmo, soprattutto) il problema della
riesaminabilità del sostrato degli antecedenti di fatto su cui quel responso di
diritto è stato reso.
§ 3. L’incidenza dell’efficacia del principio di diritto sulla struttura
e sulla funzione del giudizio di cassazione e la sua strumentalità rispetto
alle diverse opzioni ricostruttive sulla Cassazione.
3.1. L’immediata efficacia vincolante del principio di diritto nel codice del
1940 come punto di emersione normativa di una tendenza del legislatore a
connotare il ricorso per cassazione come giudizio di impugnazione.
A nessuno sfugge la centralità che le questioni connesse
all’enunciazione del principio di diritto da parte dell’organo di cassazione
rivestono all’interno di un sistema di impugnazioni nel quale quell’organo
75
Così, MAZZARELLA, Appunti, cit., 1486.
– 49 –
sorge proprio come garante della corretta interpretazione ed applicazione del
diritto da parte dei giudici di merito, col suo sindacato di legittimità posto a
sutura del sistema dei rimedi ordinari esperibili avverso la sentenza; ed
altrettanto perspicuo è che le risposte che la legge dà a tali questioni sono in
grado di ripercuotersi in maniera determinante sulla fisionomia e sulla
funzione del giudizio di cassazione.
Guardando alla riforma del rito civile del 1940, certamente non si può
dubitare che l’attribuzione dell’efficacia vincolante agli enunciati in iure
della Suprema Corte, sancita dall’art. 384, obbediva sì ad esigenze pratiche,
ma soprattutto alla profonda vocazione giurisdizionale dell’organo di
cassazione; e se su questa elementare verità c’era – e non poteva non esserci
– un sostanziale accordo, è pur vero che la dottrina non ha attribuito la
medesima portata innovativa sull’assetto strutturale e funzionale della
Cassazione a questa modifica, che appare rivoluzionaria o semplicemente
nell’ordine delle cose a seconda dell’angolazione dalla quale la si guardi, se
quella della memoria dei travagli che l’hanno preceduta o quella
dell’esigenza di razionalizzazione del sistema delle impugnazioni che essa
tendeva a soddisfare.
In una prospettiva di lungo periodo, si può dire che a prevalere è stata
l’idea di chi, come Satta, intravedeva nel riconoscimento dell’efficacia
vincolante una conferma della debolezza della concezione tradizionale della
Cassazione come organo tutto imperniato sullo scopo politico di tutela del
diritto obiettivo: concezione che fino ad allora aveva egemonizzato non solo
le configurazioni dogmatiche dell’istituto, ma anche il suo sviluppo sul piano
normativo.
La regola del vincolo del giudice di rinvio al principio di diritto
affermato dalla Corte, che scaturiva logicamente dalla rinuncia del legislatore
ad organizzare il sistema della cassazione secondo l’astratta concezione del
vertice politico posto a presidio della legge, veniva correlata alla censura di
– 50 –
cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., vera e propria «norma istituzionale»76
che
fonda la cd. «giurisdizione d’interpretazione» della Corte di Cassazione e ne
scolpisce la fisionomia quale giudice di legittimità, traducendo sul piano
pratico il postulato programmatico dell’art. 65 della legge sull’ordinamento
giudiziario.
Questo dato suggeriva a Salvatore Satta che, nel quadro di un generale
riposizionamento della Corte nel segno di una ridimensionata preoccupazione
del legislatore per il contenimento della stessa entro i suoi limiti istituzionali,
un passo decisivo era stato compiuto proprio sul terreno del giudizio di
diritto, quello sul quale si gioca la partita della funzione politica della
Cassazione, di regolazione e uniformazione della giurisprudenza.
Paradigmaticamente, secondo Satta, la previsione del potere della
Suprema Corte di emettere pronunce censorie con immediata efficacia
vincolante per il giudice di rinvio nell’ipotesi di «violazione o falsa
applicazione delle norme di diritto» aveva finito col riscrivere una pagina
fondamentale della storia della Cassazione, assumendosi il compito di
decretarne, in definitiva, una più impavida immissione nel giudizio in qualità
di giudice dell’impugnazione77
.
Infatti, il diritto del ricorrente di denunciare l’error in iudicando per
ottenere la cassazione della sentenza ingiusta veniva completato con quello di
conseguire in via immediata anche la posizione di una premessa
condizionante la definizione del merito della controversia, quel principio di
diritto che ora è dotato di forza vincolante non appena la Corte lo enuclei. E
76
Così, SATTA, Commentario, vol. II, cit., 200. 77
La percezione che la vincolatività del giudizio in iure della Cassazione per il
giudice di rinvio costituisce uno degli indici più importanti di un’inesorabile tendenza
evolutiva dell’organo verso la precisazione del suo ruolo di giudice di impugnazione e la
consapevolezza che la regola in questione rappresenta una tappa fondamentale del necessario
adeguamento della struttura della Cassazione al progressivo affievolirsi dell’idea originaria
che l’aveva ispirata costituiscono il filo conduttore delle trattazioni di SATTA sul tema della
Cassazione: si vedano, dell’Autore, la voce Corte di cassazione, in Enc. dir., cit., 803 ss., il
Commentario, vol. II, cit., in più passaggi: a p. 182, a p. 268, e a p. 275, nonché l’articolo
Passato e avvenire della Cassazione, cit.
– 51 –
così, il giudice della legittimità, proprio laddove si trattava e si tratta di
estrinsecare il privilegio e la responsabilità della nomofilassi, della «garanzia
oggettiva» del diritto, veniva a vestire senza più tante ipocrisie i panni del
giudice che dà torto o ragione alla parte che lamenta essersi male interpretata
e applicata una norma in suo danno78
.
Invero, la regola del vincolo del giudice di rinvio al dictum della Corte
rappresenta, all’interno del nuovo codice, solo uno dei luoghi di emersione
normativa, certo tra i più eloquenti, dell’accentuazione, nella configurazione
dell’istituto della cassazione, dei caratteri propri dell’impugnazione, in
funzione della pressante esigenza di sfruttare la relativa istanza per un
sindacato più esteso e pregnante, in grado anche di venire incontro alla
richiesta di giustizia sostanziale in relazione al caso concreto. Ciò è evidente
già a livello della sistematica generale delle impugnazioni promanante dalla
nuova legge processuale, e della collocazione in seno ad essa del rimedio del
ricorso per cassazione.
Nel codice riformato, infatti, non veniva riprodotta la tradizionale
classificazione dei mezzi di impugnazione in ordinari e straordinari, che il
codice Pisanelli79
consacrava testualmente all’art. 465, ove il ricorso per
cassazione era inquadrato, accanto alla revocazione ex art. 494 nn. 4 e 5 e
78
Tra i principali interpreti dell’idea dell’evoluzione della Cassazione nel senso del
costante prevalere dell’elemento di impugnazione rispetto a quello di custodia della legge, il
maestro Satta non dubitava che, con la regola del vincolo del giudice di rinvio all’enunciato
della Corte, il giudizio di rinvio viene ridotto «ad una pura formalità, vuota di contenuto
proprio nei casi in cui si tratta di violazione della legge, cioè nell’ipotesi in cui il rinvio,
nell’astratta originaria concezione, doveva essere disposto e per la quale si era determinata
(…) la struttura stessa dell’istituto»: così, SATTA, voce Corte di cassazione, cit., 803, il quale
soggiunge al riguardo che tale considerazione prescinde dall’interpretazione “avveniristica”,
potremmo dire, che egli dà alla norma in questione, coordinandola con l’ultimo comma
dell’art. 382 c.p.c.: interpretazione secondo cui la Cassazione, adita sulla base del motivo di
cui al n. 3 dell’art. 360, doveva pronunciarsi nel merito della domanda, senza rinvio, a meno
che non fossero necessari ulteriori accertamenti di fatto (ID., op. loc. cit., 803, in nota). Ciò,
ovviamente, prima che l’art. 384 c.p.c. prevedesse espressamente questa eventualità della
non necessità di ulteriori accertamenti di fatto e su di essa instaurasse il potere della Corte di
decidere la causa nel merito. 79
Disposizione guardata con diffidenza già da MORTARA, Commentario, cit., 18.
– 52 –
all’opposizione del terzo, entro la categoria dei mezzi straordinari di
impugnazione80
. La circostanza, poi, che al giudice di cassazione fosse
negata la possibilità di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza
impugnata, possibilità che invece era riconosciuta in caso di revocazione e
opposizione del terzo, in pratica delineava la cassazione del sistema
processuale civile post-unitario come «la più straordinaria delle impugnazioni
straordinarie»81
.
Questa impostazione cede il passo, nel nuovo codice, al sistema
risultante dal combinato disposto degli artt. 323 e 324: da un lato, l’art. 323
esplicitamente qualifica il ricorso per cassazione come mezzo per impugnare
le sentenze, accanto all’appello, alla revocazione e all’opposizione di terzo;
dall’altro lato, l’articolo seguente, inserendo il ricorso per cassazione tra i
rimedi la cui attuale esperibilità impedisce il passaggio in giudicato della
sentenza, lo apparenta, nella determinazione della cosa giudicata formale,
oltre che al regolamento di competenza e alla revocazione per i motivi di cui
ai numeri 4 e 5 dell’art. 395, alla tipica impugnazione ordinaria, l’appello,
facendo così vacillare la radicale contrapposizione che aveva da sempre
80
Pur nella identità della terminologia utilizzata, c’è un «notevole scarto di
contenuto» nella contrapposizione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari di impugnazione
tra la dottrina formatasi sotto il vigore del codice Pisanelli e quella successiva, che ha
continuato ad utilizzare la dicotomia: la dottrina prevalente, sotto il Codice Pisanelli,
riconosceva come «momenti fisionomici del mezzo ordinario» i seguenti indici:
«illimitatezza della censura; identità della cognizione del giudice ad quem rispetto al giudice
a quo; effetto sospensivo sull’esecuzione della sentenza»; viceversa, per i mezzi straordinari,
vi erano indici totalmente opposti: «tassatività della censura; poteri di cognizione “limitati i
dalla natura delle indagini che il giudice può fare o dalla necessità di una indagine
preliminare per l’ammissione al rimedio”; inesistenza dell’effetto sospensivo»; l’essere la
loro ammissibilità «subordinata ad un deposito a titolo di multa che va perduto nel caso di
rigetto dell’impugnazione»: così, CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 38-39,
richiamando CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 502-503. Restava per lo più fuori dalla
contrapposizione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari il profilo del passaggio in giudicato
della sentenza, su cui adesso invece detta contrapposizione si fonda. 81
Così, CIPRIANI, Cassazione e revocazione nel sistema delle impugnazioni, in Foro
it. 2001, I, 591.
– 53 –
connotato le configurazioni dogmatiche dell’appello e del giudizio per
cassazione82
.
Ma i conditores del 1940 si erano trovati di fronte ad una vasta eredità
di principi in ordine al funzionamento del ricorso per cassazione che sotto
l’impero del codice post-unitario la Suprema Corte aveva via via formulato e
cristallizzato con l’obiettivo di allentare quei limiti istituzionali che le
impedivano di rispondere alle istanze di giustizia sostanziale; una serie di
«iura recepta»83
sul giudizio civile di cassazione che spesso risultavano in
contrasto con la fisionomia che il codice del 1865 aveva mutuato
dall’esperienza francese per imprimerla all’organo di cassazione del giovane
Stato italiano.
Il riferimento è, in particolare, al controllo della causalità dell’errore
correlato con un largo potere di correggere la motivazione lasciando in piedi
il dispositivo conforme al diritto; al sindacato sul vizio di illogicità manifesta
della decisione dovuta al travisamento del negozio (del contratto o del
testamento); all’ammissibilità del ricorso condizionato, con il quale, grazie ad
una raffinata elaborazione che coordinava la soccombenza non solo alla
domanda del bene della vita, bensì alle singole questioni sollevate nel corso
della causa, consentiva al resistente, vincitore nel giudizio di merito, di
prospettare alla Corte i vizi in cui il giudice di merito fosse incorso nella
soluzione di altre questioni di carattere pregiudiziale o preliminare decise in
82
Nell’attuale sistema viene dunque traslata la contrapposizione tra mezzi di
impugnazione ordinari e straordinari, con una taratura calibrata, però, proprio sull’assetto
instaurato dagli articoli in commento, così che il carattere ordinario o straordinario
dell’impugnazione viene correlato, rispettivamente, alla proponibilità dell’impugnazione
stessa solo avverso le sentenze non ancora passate in giudicato oppure anche contro le
sentenze divenute irrevocabili; ed è questa una novità, come abbiamo visto, rispetto alla
contrapposizione accolta sotto la vigenza del codice del 1865: cfr. CERINO CANOVA, op. cit.,
38-39; 68 s. 83
Così, FAZZALARI, in quella mirabile sintesi diacronica dei lineamenti della
Cassazione che è la sua introduzione alla monografia Il giudizio civile di cassazione, cit., 1.
– 54 –
senso a lui sfavorevole, subordinandone il vaglio all’acclarata fondatezza del
ricorso principale84
.
Senza volere – né potere – scendere ad un’analisi critica approfondita
di questi istituti così carichi di impatto sistematico e di capacità performante,
è opportuno perlomeno sottolineare che il dato che li accomuna si percepisce
sul piano funzionale: trattandosi, in sostanza, di contrappesi con cui le Corti
di cassazione italiane, sotto l’impero del codice di rito del 1865 e la Corte di
cassazione unica di Roma, dal 1923 in poi, cercavano di bilanciare le rigidità
e le inefficienze di un modello astratto di giudice di legittimità escluso dalla
giurisdizione.
È appunto questa eredità di iura recepta che ottanta anni di
giurisprudenza della Cassazione consegnano al legislatore del 1940; e questi
sostanzialmente l’accoglie, seppure, per così dire, con beneficio d’inventario.
Così, il capoverso dell’art. 384 codifica lo ius corrigendi: con il quale,
il rifacimento ad opera della Corte, in sede di controllo della causalità
dell’errore denunciato, del ragionamento che ha messo capo alla decisione
impugnata85
, funzionale alla verifica della coincidenza o meno del risultato,
che è nel dispositivo, viene sfruttato anche come parametro per il rilievo di
eventuali discrepanze tra le argomentazioni giuridiche del giudice di merito e
quelle della Corte, e la conseguente rettifica dei profili erronei della
motivazione della sentenza pur corretta nel dispositivo.
Ora, del potere in esame si possono proporre e si sono proposte
interpretazioni opposte: l’una, estensiva, ispirata ad esigenze di economia
processuale e ad un’applicazione lata del principio iura novit curia, tale da
guidare la Corte finanche alla ricerca, fuori dall’ambito della questione
coerenziata dal mezzo di censura, di un fondamento in iure di ricambio
84
Su tali questioni, cfr. FAZZALARI, op. ult. cit., 9 ss. 85
Ciò, ovviamente, sulla base dei fatti insindacabilmente accertati nel giudizio di
merito e nei limiti della censura articolata dal ricorrente.
– 55 –
rispetto a quello scorretto e inidoneo a sorreggere il dispositivo86
; l’altra,
restrittiva, più orientata a interpretare lo ius corrigendi come espressione
della funzione nomofilattica ma soprattutto più fedele al principio
dispositivo, secondo la quale la correzione non deve esulare dalla specifica
questione interessata dal motivo di ricorso proposto, ma deve limitarsi ad una
rettifica o integrazione degli argomenti giuridici posti dal giudice di merito
alla base della soluzione della questione medesima87
. E indubbiamente, se è
86
È la tesi, questa, di FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 127 ss., nonché
ID., Sui ricorsi incidentali «condizionati», in Riv. trim. dir. proc. civ. 1961, 105 ss. Una tesi
che corre lungo un analogo ordine di idee, anche più spregiudicato, quella espressa dal
SATTA, in Commentario, vol. II, cit., 280 ss.: l’a. prende le mosse dalle «positive esplicazioni
dell’istituto» (quei casi, tutt’altro che infrequenti, in cui la Corte aveva fondato la decisione
su presupposti giuridici afferenti ad un fatto diverso da quello assunto come decisivo dal
giudice di merito, ma tali da condurre alle stesse conclusioni alle quali quel giudice era
pervenuto, onde il rigetto, anziché l’accoglimento del ricorso), per asserire, una volta di più,
che «è ormai assurdo e antistorico pensare che la Cassazione sia investita di una astratta
valutazione della legge: essa, attraverso il ricorso sulla singola statuizione, acquista una
pienezza di giudizio, che è limitata soltanto dall’accertamento dei fatti» (il corsivo è nostro).
E ancora, l’a. tiene a precisare che «è sommamente importante che questa dilatazione delle
sue funzioni si sia manifestata attraverso la pratica, al di fuori di ogni disposizione di legge,
quindi veramente ex necessitate (dev’essere evidentemente apparso inutile e umiliante
rinviare la causa per un giudizio già scontato in partenza): è a questo fatto, al timore
ancestrale dei limiti istituzionali, che si deve se la via per la quale la fatale dilatazione è
avvenuta è stata quella della correzione della motivazione». Invero, tra le parole dello stesso
Satta si scorge il vizio che si annida nella prassi – da lui avallata – della sostituzione del
fondamento giuridico della sentenza impugnata in sede di controllo della correttezza del
dispositivo, quando l’a. afferma che «di correzione, nel senso proprio della parola, non c’è
qui assolutamente nulla», e che si tratta in realtà di episodi di vera e propria cassazione
sostitutiva, in tutto analoga alla cassazione senza rinvio (con l’unica differenza della formula
finale della pronuncia, che è di rigetto, anziché di accoglimento del ricorso). Ma questo
allargamento della cognizione della Corte, com’è noto, nella prospettiva dell’a. è ben lungi
dall’essere «istituzionalmente» preoccupante. In ogni caso, nella dottrina coeva alla riforma
del codice, che la correzione dei motivi potesse aver luogo oltre i limiti della questione
sollevata con ricorso era ammesso da più voci: si vedano, tra gli altri, MICHELI, In tema di
correzione della motivazione da parte della Cassazione, in Giur. cass. civ. 1955, I, 464;
ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, vol. II, a cura di Corrado Vocino, Milano, 1962, 307. 87
Secondo una concezione lineare, che è proprio quella con la quale Satta polemizza
(SATTA, op. loc. ult. cit.), che risale al Chiovenda: per il quale la Cassazione, nell’esercizio
della potestas corrigendi, «può tener ferma la risoluzione in sé corretta della singola
questione giuridica rettificando il ragionamento del giudice, ma non tener ferma la sentenza
risolvendo una questione giuridica diversa da quella risolta dal giudice» (CHIOVENDA,
– 56 –
vero che è il primo orientamento a determinare un allargamento vistoso della
cognizione della Corte, è anche vero che, pure nell’ottica restrittiva88
, la
Principii, cit., 1025-1026). Concezione peraltro prevalente nella dottrina classica, anche se in
contesti dogmatici anche profondamente eterogenei: oltre alla posizione, ancora più
restrittiva di quella di Chiovenda, di Francesco Carnelutti, per il quale la Corte deve limitarsi
a interpretare la sentenza impugnata, procedendo alla correzione al solo fine di esplicitare e
armonizzare normativamente il pensiero del giudice inferiore (cfr. CARNELUTTI,
Interpretazione autentica della sentenza, cit., 53 ss.; ID., Potere di rettifica della Corte di
cassazione?, in Riv. dir. proc. civ., 1933, II, 121 ss.), si vedano, in proposito, CALAMANDREI,
La Cassazione civile, cit., vol. II, 160; BETTI, Diritto processuale civile italiano, Roma 1936,
695 (lo stesso A., confermerà tale posizione anche dopo la riforma, nell’articolo Sul potere di
correggere in diritto la decisione impugnata, in Foro it. 1947, 459 ss.); mentre Andrioli, che
in un primo tempo manifestava una posizione in linea col pensiero di Chiovenda (cfr.
ANDRIOLI, Rigetto del ricorso per cassazione a favore del ricorrente, in Riv. dir. proc. civ.,
1939, II, 159 ss.), muterà opinione a seguito della riforma (ID., Commento al codice di
procedura civile, vol. II, cit., 587-588, ove peraltro l’a. ribadisce che il potere di correzione
esula «nell’ipotesi in cui, per mantenere fermo il dispositivo, sia necessario procedere alla
sussunzione, nel ragionamento, di altri fatti che, pur risultando ex actis, non erano stati presi
in considerazione dal giudice di merito»). 88
L’ottica che è prevalentemente prescelta dall’orientamento giurisprudenziale più
recente e che, del resto, appare preferibile da un punto di vista sistematico. Ciò, in quanto
l’aderenza al principio dispositivo nelle fasi di impugnazione corrisponde, nella prospettiva
della formazione progressiva della cosa giudicata – cui la giurisprudenza ormai
costantemente si indirizza – al rispetto del giudicato interno a norma dell’art. 329, cpv.,
c.p.c.: cfr., anche per una rassegna delle divergenti posizioni della dottrina più recente sullo
ius corrigendi ed un resoconto delle applicazioni giurisprudenziali del capoverso dell’art.
384, c.p.c., POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, cit., 548 ss., nonché le
conclusioni cui giunge, dopo un’accuratissima indagine delle interpretazioni che della
potestas corrigendi sono state fornite in dottrina e giurisprudenza prima e dopo la sua
codificazione, Andrea PANZAROLA, in La Cassazione civile giudice del merito, vol. II,
Torino, 2005, 639 ss.: l’argomento secondo cui la ritenuta non operatività del principio iura
novit curia sarebbe aggirabile tramite un’iniziativa titolata di parte, tale per cui il vizio in
diritto che inficia una questione di merito avente carattere preliminare, risolta erroneamente
dal giudice inferiore, se non può essere rilevato d’ufficio dalla Corte, può essere invece
scrutinato dietro una specifica censura di parte (argomento col quale si dà all’istituto della
correzione la fisionomia di una «sostituzione provocata»), è da Panzarola respinto sulla base
dell’esegesi letterale del cpv. dell’art. 384, che non contempla affatto un intervento della
parte volto ad eccitare una reimpostazione in iure della sentenza. Pertanto, dice l’a., «ove si
correli, come sembra doveroso, lo ius corrigendi ad una iniziativa officiosa della Corte, non
potrà a tutt’oggi non derivare che esso sia da circoscrivere alla sola rettificazione delle
ragioni costituenti la motivazione in diritto della questione devoluta alla cognizione della
Cassazione dal ricorrente», e che alla Corte resti «inibito di rigettare il ricorso diversamente
risolvendo ex officio un’altra questione (di merito preliminare), erroneamente decisa in iure
dalla sentenza del giudice inferiore, che sia stata impugnata in cassazione». Ciò, anche se «al
– 57 –
previsione del potere correttivo della Corte non esaurisce completamente la
sua funzione sul piano della mera nomofilachia, in quanto la taratura della
motivazione che consegue all’esercizio del potere di rettifica, lungi infatti
lume del novellato art. 384, 1° comma, c.p.c., risulta (…) ridimensionato quell’argomento
più volte richiamato per ribadire l’inibizione a che la Corte di cassazione, al di là della
correttezza del controllo dell’altrui attività sussuntiva, mettesse capo, essa medesima, ad una
compiuta attività di applicazione del diritto al fatto»: l’argomento, in altri termini, secondo il
quale quelle attività sussuntive implicate nello scandagliamento del fond che vengono dal
giudice effettuate per pronunciarsi sul merito, se prima potevano considerarsi
istituzionalmente inibite alla Corte, oggi, a seguito della modifica dell’art. 384, non lo
sarebbero più. E si tratterebbe di quelle stesse attività sussuntive necessarie all’esplicazione
di una potestas corrigendi intesa in senso estensivo, ossia protesa alla ricerca di presupposti
di diritto in grado di sorreggere il dispositivo anche al di fuori della questione contestata,
quei motivi di «ricambio», di cui parlava il Fazzalari, la cui accertata mancanza solamente
potrebbe dire qualcosa della causalità dell’errore denunciato. E infatti non è mancato chi ha
ritenuto che la disposizione che attribuisce alla Corte il potere di decidere la causa nel merito
(da spendere in assenza della necessità di ulteriori accertamenti di fatto a seguito
dell’accertata violazione o falsa applicazione di norme di diritto) imponga una rilettura
complessiva dell’art. 384, compreso il suo capoverso, e che «in pratica, dopo la novella del
’90 non è escluso che possa essere rivalutata, almeno in parte, quell’interpretazione
dell’istituto della correzione della motivazione che isolatamente era stata in passato
prospettata da Fazzalari (…)»: così, BOVE, Sul potere della Corte di cassazione di decidere
nel merito la causa, in Riv. dir. proc. 1994, 712, in nota. In proposito, paiono dirimenti le
considerazioni di PANZAROLA, op. loc. ult. cit.: l’a. riconosce che la modifica operata sull’art.
384 dalla novella del ’90, introducendo la possibilità per la Corte di pronunciare
definitivamente sulla domanda, ha inserito il Supremo Collegio nella dinamica del giudizio,
laddove per esso «procedere all’applicazione della norma al fatto storico, in contemplazione
di un effetto giuridico» (la precisazione sembrerebbe rievocare il DENTI, I giudicati sulle
fattispecie, cit., 1326 ss. su cui infra, capitolo secondo), «è allora certo, se non
immancabilmente doveroso» (PANZAROLA, op. loc. ult. cit.); e ammette, altresì, che questa
innovazione ha segnato il superamento di un significativo diaframma fra il nostro sistema e
quello di revisione. Tuttavia, prosegue l’a. a scanso di equivoci, «come dalla positivizzata (ex
primo comma, art. 384, c.p.c., cit.) potestà di statuire au fond non si tarderebbe a ricavare il
superamento di un ostacolo sulla via dell’ammissione di una correzione officiosa della (…)
questione preliminare – distinta da quella dedotta con il ricorso principale – , così questo
stesso obiettivo, con non minor solerzia, deve ritenersi impedito in dipendenza di ciò: in
conseguenza, si vuol dire, della constatazione circa la (ancora sussistente) preclusione, per la
Corte nazionale, di condurre liberamente lo scrutinio della quaestio iuris; indubitalmente,
continua a non aver vigore per essa, ancora oggi, il principio iura novit curia». «Si crede, in
definitiva, che sia, questo che fa leva sulla cosiddetta freie Revisionpraxis (ammessa lì in
Germania …), uno degli aspetti più significativi su cui continuerà ad assidersi, nella
speculazione scientifica, l’idea di una correzione officiosa ristretta alla rettifica dei motivi in
diritto della questione indubbiata con l’impugnazione» (ID. op. cit., 640).
– 58 –
dall’essere totalmente irrilevante per le parti89
, ha perlomeno quel contenuto
minimo di efficacia che si svolge sul piano dell’interpretazione del
dispositivo, concorrendo ad identificare «storicamente» il comando
giurisdizionale, dunque a illuminarne la portata90
.
89
Come continua ad affermare Calamandrei: v. CALAMANDREI-FURNO, voce
Cassazione civile, cit., 1094, voce redatta dal primo dopo la riforma ed in seguito aggiornata
dal secondo; sul punto, cfr. SANTANGELI, L’interpretazione della sentenza civile, Milano
1996, passim. 90
In tal senso, FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, cit., 144; MICHELI, Corso
di diritto processuale civile, vol. II, Milano 1960, 311 (mentre SATTA, in Commentario, vol.
II, cit., 285, accenna all’«empirica distinzione tra motivazione e dispositivo»). Riguardo ai
rapporti tra il dispositivo e la motivazione, per l’opinione secondo cui il significato della
sentenza deve dedursi alla stregua di una lettura integrata del dispositivo in relazione con la
motivazione, cfr. LANCELLOTTI, voce Sentenza civile, in Noviss. digesto it., vol. XVI, Torino
1969, 1106 ss., ove la considerazione che interpretare la sentenza significa ricercare il senso
del provvedimento in una visione «unitaria» e «sintetica» del dispositivo e della motivazione.
Allo stato attuale, ampiamente recepita risulta comunque l’idea che l’esegesi della parte
motiva soccorra nella identificazione del contenuto effettivo del comando laddove questo sia
in apparenza incompleto o non inequivocamente espresso, e che alla lacunosità o
all’imprecisione delle espressioni del dispositivo si debba sopperire attraverso
un’interpretazione correttiva alla luce della motivazione: cfr. CHIZZINI, voce Sentenza nel
diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVIII, Torino 1998, 248 ss. Per
quanto riguarda la giurisprudenza, l’intima compenetrazione tra dispositivo e motivazione fa
da sfondo alle affermazioni del principio secondo il quale la portata precettiva di una
pronuncia giurisdizionale – di accertamento o di condanna – va individuata tenendo conto
non solo delle statuizioni formali contenute nel dispositivo ma anche delle enunciazioni
inserite nella motivazione: v. già Cass. 7 agosto 1979, n. 4571; Cass., sez. un., 20 maggio
1985, n. 3092 con riferimento al problema della valutazione della soccombenza; Cass. 16
maggio 1986, n. 3241; Cass., sez. un., 16 giugno 1993, n. 6706; e poi, Cass. 10 novembre
1993, n. 11104; Cass. 5 marzo 1995, n. 3030; Cass. 15 settembre 1997, n. 9157; Cass. 22
aprile 1999, n. 4026; Cass. 5 maggio 2000 n. 5666; Cass. 15 novembre 2000, n. 14788; Cass.
11 gennaio 2005, n. 360; Cass. 8 giugno 2007, n. 13441; quasi in funzione di contenimento
dell’espansione della regola suddetta, a correzione di un’indebita interpolazione del
dispositivo carente con la motivazione, Cass. 8 luglio 2010, n. 16152 ha precisato che «il
principio secondo il quale la portata precettiva di una pronunzia giurisdizionale va
individuata tenendo conto non soltanto del dispositivo, ma anche della motivazione, trova
applicazione soltanto quando il dispositivo contenga comunque una pronuncia di
accertamento o di condanna e, in quanto di contenuto precettivo indeterminato o incompleto,
si presti ad integrazione, ma non quando il dispositivo manchi del tutto, giacché in tal caso
ricorre un irrimediabile vizio di omessa pronuncia su una domanda o un capo di domanda
denunciabile ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., non potendo la relativa decisione, con il
conseguente giudicato, desumersi da affermazioni contenute nella sola parte motiva. (Nella
specie la S.C. ha ritenuto sussistente il vizio di omessa pronuncia della sentenza impugnata
– 59 –
in relazione alla domanda di restituzione delle spese processuali corrisposte al procuratore
distrattario in virtù della sentenza di primo grado, non essendovi alcuna statuizione sul punto
nel dispositivo, e risultando irrilevante a tale fine l’affermazione, contenuta in motivazione,
secondo la quale non si provvedeva al riguardo in mancanza di prova del relativo
pagamento)». Ovviamente, il fatto di chiamare in causa la c.d. motivazione nel meccanismo
interpretativo della sentenza non deve ingenerare equivoci sulla diversità di piano su cui si
collocano l’esegesi del dispositivo e l’estensione della portata precettiva della pronuncia. Al
riguardo, l’attenzione va focalizzata sull’individuazione, all’interno della sentenza intesa
come atto procedimentale, degli elementi che la strutturano: in primo luogo, le proposizioni
che, statuendo circa l’effetto giuridico conteso, integrano il dispositivo e sono dunque
suscettibili di acquisire efficacia extraprocessuale; in secundis, le entità decisorie su singole
questioni di fatto e di diritto che costituiscono le premesse della statuizione finale, le quali
rilevano perlomeno nell’ottica del giudicato endoprocessuale; infine, l’argomentazione
logico-giuridica del giudice o, per l’esattezza, il complesso delle ragioni logico-giuridiche
poste a fondamento delle singole decisioni. Onde, la necessità di riconoscere la separazione
concettuale e funzionale di una parte decisoria della sentenza che è al di fuori del dispositivo
ma che non va neanche confusa con la parte stricto sensu motiva, costituita dalle
argomentazioni: separazione che è il terreno su cui la dottrina esercita incessantemente la
verifica della validità delle sue tesi intorno al concetto tecnicamente rilevante di «parte di
sentenza». E da qui, dalla struttura della sentenza e dalla sua scomposizione in «parti»,
muove una problematica che riguarda non il piano della semplice interpretazione dei
contenuti precettivi, quanto piuttosto quello dell’individuazione dei contenuti precettivi
stessi, ovverosia dell’efficacia delle singole statuizioni della sentenza in una prospettiva
extraprocessuale. Senza cercare di avvicinarci ad una pur grezza sintesi degli estremi di tale
problematica, che attiene ai limiti oggettivi del giudicato, la cui estrema complessità è a tutti
nota, conviene solo limitarsi a ricordare che è tutt’altro che scontato che al rango di cosa
giudicata debba assurgere il solo dispositivo della sentenza, come verrebbe fatto di dire
seguendo, nella lettura della norma-chiave dell’art. 34 c.p.c., l’auctoritas patrum. Per la più
compiuta disamina del tema dei limiti oggettivi del giudicato, v. gli studi di MENCHINI, I
limiti oggettivi del giudicato civile, Milano 1987, passim, spec. 124 ss.; ID., voce
Accertamenti incidentali, in Enc. giur., vol. I, Roma 1995, 1 ss.; ID., voce Regiudicata civile,
in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVI, Torino 1997, 404 ss.; ID., Il giudicato civile, 2ª ed.,
Torino 2002. Per la tesi minoritaria in dottrina, che estende i limiti oggettivi del giudicato, e
secondo cui la cosa giudicata non è circoscritta all’effetto giuridico dedotto in giudizio come
petitum della domanda attorea, ma si estende anche alla decisione degli elementi
pregiudiziali che costituiscono il presupposto logico-necessario della statuizione finale, cfr.
PUGLIESE, voce Giudicato civile (diritto vigente), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano 1969, 866
ss.; TARUFFO, «Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, II, in Riv. dir. proc. 1972,
272 ss., spec. 268 ss. (per la prima parte, stessa Rivista 1971, 651 ss.), il quale richiama
anche le ragioni storiche dell’orientamento tradizionale, riconducibili alla specificità del
contesto in cui vide la luce la tesi estensiva di Savigny sulla nozione romanistica di
giudicato, ossia un ordinamento in cui il diritto comune si richiamava alle fonti romane. La
tesi di Savigny, infatti, che affermava, in contrasto con la dottrina precedente, l’estensione
del giudicato romanistico dal dispositivo ai «motivi oggettivi» della pronuncia giudiziale
(SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale , trad. it. di Vittorio Scialoja, vol. VI, Torino
– 60 –
Quanto alla dogmatica sulla cd. soccombenza «teorica» o «virtuale»,
sotto la vigenza del codice post-unitario la giurisprudenza, sulla scorta
dell’identificazione del capo di sentenza con la decisione sulla singola
questione, riteneva necessaria la proposizione del ricorso condizionato da
parte del resistente, totalmente vittorioso nel merito, che volesse sottoporre al
vaglio della Corte, subordinatamente all’accoglimento del ricorso principale,
quelle questioni presupposte alla decisione finale che è nel dispositivo, sulle
quali il giudice di merito gli avesse dato torto91
, salvo poi risolvere la
controversia in suo favore, accogliendo la domanda da lui proposta o
respingendo la domanda della controparte; mentre la dottrina era piuttosto
incerta e oscillante, sul punto92
.
1896, 379 ss.) – tesi che rimase recessiva e fu comunque scalzata, quanto alla sua persistente
efficacia normativa, dalla successiva legislazione processuale – si ritenne non potesse essere
esportata in ordinamenti, quale quello italiano, in cui le fonti romane non costituivano
«diritto vigente»: TARUFFO, «Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, II, cit., 280, nt.
173; ancora, per l’adesione alla tesi estensiva, COMOGLIO, Il principio di economia
processuale, vol. II, Padova 1982, 119 ss. Per riferimenti dottrinari e giurisprudenziali sulla
problematica in oggetto, v. anche DALFINO, Questioni di diritto e giudicato – Contributo allo
studio dell’accertamento delle fattispecie preliminari, Torino 2008, 120 ss. 91
La prassi del ricorso condizionato, di cui si trova traccia già nel primo decennio di
vigenza del codice Pisanelli (cfr. Cass. Napoli, 28 marzo 1871, citata come pioniera del
corso giurisprudenziale in esame da COSTA, Contributo al concetto di «capo» di sentenza nel
processo civile, in Studi sassaresi, fascicolo 1°, Sassari, 1932, 106, in nota), si consoliderà in
maniera decisiva successivamente: cfr., nel senso di ritenere il ricorso condizionato
indispensabile al fine di impedire che nel giudizio di rinvio restassero precluse le questioni
risolte dalla sentenza cassata a sfavore del vincitore nel merito, Cass. 11 dicembre 1928;
Cass. 11 marzo 1931; Cass. 18 aprile 1931; Cass. 22 marzo 1932; Cass. 7 agosto 1934; e, da
ultimo, le sentenze citate da ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., 585: Cass. 22 febbraio 1943,
n. 418; Cass. 28 maggio 1943, n. 1333. 92
In dottrina, per l’opinione che la proposizione del ricorso condizionato fosse
indispensabile per conservare integre le difese già proposte nel giudizio di appello e respinte
dalla sentenza impugnata per cassazione dalla parte avversa, cfr. MORTARA, Commentario,
vol. IV, cit., 608; CARNELUTTI, Lezioni, cit., 334. Di diverso avviso CHIOVENDA, Principii…,
cit., 1040, che considerava lo strumento de quo come una «semplice cautela»; ma v’erano
molti che ne ritenevano la proposizione sostanzialmente inutile: tra questi, D’ONOFRIO,
Osservazioni intorno al c.d. «ricorso condizionato» in cassazione, in Riv. dir. proc. civ.,
1930, I, 326 ss., e già SCIALOJA, Gli effetti della cassazione della sentenza relativamente alle
eccezioni o difese proposte in appello dalla parte vincitrice in merito e respinte dalla
sentenza cassata, in Foro it. 1900, col. 1245; nonché, COBIANCHI, Questioni sull’ambito del
– 61 –
Il codice del 1940, introducendo una disciplina specifica del ricorso
incidentale in Cassazione all’art. 371, non interveniva in maniera decisiva93
;
giudizio di rinvio, in Foro it. 1927, I, col. 216. Una posizione a sé è assunta da COSTA, op.
loc. ult. cit., il quale, coerentemente con la concezione bivalente di capo di sentenza che
abbraccia (concezione che diversifica il contenuto del capo di sentenza a seconda che esso
rilevi in appello – ove è commisurato al capo di domanda, nucleo di accertamento autonomo
di un petitum divisibile – ovvero in cassazione – in cui invece può rilevare una più ristretta
base di giudizio, costituita da ogni assieme di questioni integrante la cd. «questione
complessa»), asserisce la necessità della proposizione del ricorso condizionato per
l’emersione in Cassazione del capo-questione complessa sul quale il vincitore nel merito sia
risultato soccombente, onde evitare che tale “ganglio” decisionale resti integralmente
precluso anche in sede di rinvio. Mentre, per le questioni semplici all’interno di ciascun capo
impugnato, l’a. riconosce che esse rivivono da sé, in cassazione, senza bisogno di ricorso
condizionato, e in sede di rinvio il giudice avrà il potere di conoscerle liberamente, nel solo
limite del normale rispetto del principio dispositivo. Avversa decisamente la tesi della
necessità della proposizione del ricorso condizionato da parte del soccombente virtuale al
fine di evitare preclusioni in sede di rinvio SEGRÈ, Cassazione parziale e limiti del giudizio
di rinvio, in Riv. dir. proc. civ., 1935, II, 4 ss. Per questo A., l’assenza, nella disciplina della
cassazione, di un istituto analogo a quello dell’appello per incidente, è eloquente di una
opzione del legislatore nel senso di ammettere che «la cassazione di una parte giovi
normalmente all’altra parte» (ID., op. cit., 20), per cui, cassato il capo di sentenza impugnato
in via principale, in sede di rinvio non si verificano preclusioni di sorta per entrambe le parti.
Se lo strumento del ricorso condizionato è stato concepito per consentire al resistente di
mettere in discussione i punti della decisione a lui sfavorevoli, ed evitare che il ricorrente
principale sia avvantaggiato dal fatto di poter tentare la strada del ricorso restando comunque
garantito contro un peggioramento della sua situazione, il negare l’operatività di tale
strumento, in aderenza al dato positivo che non lo contempla, lascia integra l’esigenza che vi
è alla base, cioè garantire la parità delle armi tra le parti. Tuttavia, osserva Segrè,
controbilanciare la carenza di potestà impugnatoria correlata alla cd. soccombenza teorica,
asserendo, come avviene nell’ordine di idee di Chiovenda e di Scialoja, l’assenza di
preclusioni in sede di rinvio per il solo resistente in cassazione, al fine di tutelarlo da un
trattamento deteriore rispetto al ricorrente principale, finisce col rovesciare la
discriminazione a danno di quest’ultimo. Dunque, per Segré, non residua che la possibilità di
estendere l’assenza di preclusioni in sede di rinvio anche al ricorrente in cassazione, e di
leggere, tra le pieghe delle norme scritte e di quelle mancanti, il riconoscimento positivo
della libera disputabilità, in sede di rinvio, tanto per l’una quanto per l’altra parte, dei
presupposti di fatto e di diritto della decisione travolta dalla censura. 93
Cfr. ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., 585: «Sulla questione [della necessità di
proporre il ricorso condizionato ai fini che abbiamo riferito, n.d.r.] non incide l’introduzione
del ricorso incidentale, che, se consente di procrastinare l’impugnazione, non incide sulla
necessità di sperimentarla». D’altronde, la previsione del ricorso incidentale, isolatamente
considerata, è di per sé anodina, poiché si sostanzia in un regime formale cui il legislatore
assoggetta tutte le impugnazioni successive a quella principale (che è la prima impugnazione
– 62 –
ma le perplessità manifestatesi inizialmente in seno a un’autorevole dottrina
circa l’utilità o la necessità della proposizione del ricorso condizionato per
consentire al resistente di sottoporre al suo vaglio le questioni sulle quali egli
fosse risultato «virtualmente» soccombente nel giudizio di merito94
, non
proposta) e dunque in un contenitore polifunzionale in cui confluiscono iniziative processuali
delle parti con presupposti e scopi eterogenei. 94
Della quale dottrina testimonianza estremistica è la tesi sostenuta dal FAZZALARI,
Sui ricorsi incidentali «condizionati», cit., 99 ss. L’A. parte dalla premessa per cui il
vincitore resistente che solleva una questione (pregiudiziale o preliminare) già risolta a suo
svantaggio tende a dimostrare che, se il giudice di merito avesse risolto correttamente quella
questione, la sua decisione gli sarebbe stata comunque favorevole e che, qualora la Corte
dovesse riconoscere l’errore denunciato dal ricorrente, dovrebbe altresì avvedersi del fatto
che quell’errore non ha provocato l’ingiustizia della sentenza, ma ha semmai riequilibrato gli
effetti dell’errore precedente commesso in suo svantaggio. Con il ricorso condizionato il
resistente, dunque, aspira ad una conferma della sentenza ex art. 384, cpv.; se così è, egli non
fa che invocare l’esercizio del controllo di causalità del vizio denunciato col ricorso
principale che in realtà la Cassazione deve compiere sempre, ex officio: il che rende il ricorso
de quo avverso il capo di sentenza già impugnato dal soccombente un espediente
sostanzialmente ridondante, e pertanto inammissibile. La tesi di Fazzalari si esponeva
inevitabilmente al rilievo di non essere generalizzabile, rilievo opposto anche da parte di chi,
come Ricci, ne accreditava gli assunti preliminari. Dice infatti E.F. RICCI, Il giudizio civile di
rinvio, Milano, 1967, 131 ss., che il discorso del Fazzalari sulla funzione pleonastica che il
ricorso incidentale condizionato contro il capo di sentenza impugnato dal soccombente
avrebbe in un sistema ove è riconosciuto alla Corte il potere di rettificare la sentenza il cui
dispositivo sia corretto è un discorso «la cui validità dipende da ben precise premesse.
Innanzitutto è necessario che le questioni risolte a sfavore del vincitore non siano tali, da non
poter condurre a quella conferma per la loro stessa natura» (ed alla cassazione senza rinvio,
non alla conferma ex art. 384 c.p.c., secondo l’a., tenderebbe il controllo che il resistente può
aver interesse chiedere sulla sussistenza di un impedimento processuale, rinnovando alla
Corte l’antica domanda di absolutio ab istantia già risolta in suo danno dall’organo
inferiore). In secondo luogo, aggiunge Ricci, «è indispensabile che la Corte, nell’esercizio
dei propri poteri, sia in grado di giungere al giudizio risolutivo della questione de qua»: il
che non avviene in tutta quella vasta zona di casi in cui la questione di diritto, su cui il
vincitore resistente si fosse visto dar torto dal giudice di merito, costituisce uno snodo
normativo a partire dal quale si rende necessaria la formulazione di giudizi storici che la
Corte non può compiere, sicché «il ragionamento che dovrebbe condurre alla soluzione della
questione rimane a metà strada, né si può dir niente sulla giustizia o ingiustizia del
dispositivo ai sensi dell’art. 384, 2° comma, cod. proc. civ.». Ma la tesi di Fazzalari cade
ancora più a monte, insieme con la sua premessa, qualora si aderisca ad un’interpretazione
restrittiva dello ius corrigendi, la quale neghi che la Corte, in sede di verifica della
correttezza del dispositivo, abbia il potere di esaminare d’ufficio questioni che esorbitano da
quelle sollevate espressamente col mezzo di censura, asserendo, di contro, che la correzione
è tendenzialmente circoscritta ai profili giuridici della questione coerenziata dal motivo
– 63 –
hanno resistito alla critica di chi giudicava decisiva, al riguardo, la chiamata
in causa dell’art. 346 c.p.c., la norma che impone la riproposizione espressa
delle domande e delle eccezioni non accolte nel giudizio d’appello. Difatti,
per negare la necessità di introdurre dinnanzi alla Suprema Corte a mezzo di
ricorso incidentale le questioni pregiudiziali risolte a sfavore della parte
vittoriosa, dovendosi in compenso asseverandone la libera riesaminabilità ex
officio, in sede di giudizio di cassazione, giungendo al paradosso di attribuire
al giudice di legittimità «un potere che, come risulta dall’art. 346 c.p.c., il
legislatore non ha concesso al giudice d’appello con riguardo alla situazione
analoga in cui l’appellato vittorioso ha visto risolte a suo sfavore uno o più
questioni di quel tipo da parte del giudice di primo grado»95
.
dedotto, salva la limitata operatività del principio iura novit curia in sede di ricorso per
cassazione. 95
CHIARLONI, L’impugnazione incidentale nel processo civile, Milano 1969, 100.
L’autore inserisce questa riflessione in un più ampio discorso sulla ragguagliabilità dell’art.
342 e dell’art. 346 c.p.c. dal punto di vista del potere devolutivo dell’appellante. In
particolare, secondo CHIARLONI, op. cit., 151 ss.; 205 ss., l’art. 342 c.p.c., nel richiedere la
redazione di motivi specifici di impugnazione, esige semplicemente che l’appellante,
principale od incidentale, individui le singole questioni per le quali vuole sollecitare i poteri
decisori del giudice di secondo grado; in quest’ottica, l’art. 346 c.p.c., ex latere appellantis,
costituirebbe una riproduzione dell’art. 342 c.p.c. che, imponendo all’appellante di investire
le statuizioni a lui sfavorevoli con motivi specifici, anticipa all’atto di appello l’onere di
articolare tutte le censure a cui è interessato. In tal modo, l’appello e la riproposizione delle
richieste «non accolte», malgrado la vittoria nel merito, rappresentano espressioni analoghe
del medesimo potere di devoluzione; naturalmente, presupposto di questa ricostruzione è che
l’art. 346 c.p.c., nel discorrere di domande ed eccezioni «non accolte» si riferisca non solo
alle richieste assorbite, ma anche a quelle decise sfavorevolemente. Nel medesimo ordine di
idee, circa la portata della locuzione «non accolte» di cui all’art. 346 c.p.c., si pongono in
generale coloro che non ritengono evidentemente necessario l’appello incidentale per
consentire alla parte vittoriosa nel merito, soccombente su questioni pregiudiziali e
preliminari, di coltivare dette questioni (v. nota seguente); v’è inoltre anche chi, come
Di questa tendenza condivisibile, si trova traccia, in nuce, anche nel
pensiero di uno degli autori che patrocinano la tesi più restrittiva riguardo alla
possibilità di riconoscere alle pronunce rese in forma di «sentenza»
l’attitudine al giudicato ex art. 2909 c.c., ovvero Luigi Montesano. Questi, in
uno scritto del 1952 143
, nel respingere sia la tesi del giudicato che quella
della preclusione con riferimento al principio di diritto, giudica quest’ultima
ancora «più lontana dal vero di quelle che si riferiscono ad un giudicato di
merito – sia pure sui generis – sull’enunciazione del principio di diritto».
Infatti, secondo l’autore, «l’efficacia di tale enunciazione va
considerata come un momento del procedimento di formazione dell’autorità
del giudicato: giacché si ha qui uno dei tanti casi di formazione progressiva
del comando»144
. Affermazione, questa, che va combinata con l’altra,
secondo la quale ciò che si rischia di non considerare a sufficienza, seguendo
Chiovenda e la sua scuola nel pur corretto tentativo di respingere le vecchie
teorie sulla natura logica della res iudicata e l’estensione del giudicato ai
motivi «oggettivi» della decisione145
, è che «se la funzione del giudicato non
consiste nella soluzione di questioni logiche, ma nell’attribuzione di un bene
della vita (o, secondo la terminologia di Carnelutti, nella composizione di una
lite), il mezzo per realizzare tale funzione non può essere che la preclusione
delle questioni relative all’attribuzione di quel bene (o alla composizione di
quella lite)»146
.
143
MONTESANO, La cosa giudicata, in Riv. dir. proc. 1952, II, 117 ss. 144
MONTESANO, op. cit., 119. 145
Sorte lungo la scia dell’insegnamento del SAVIGNY, Sistema del diritto romano
attuale, cit., 379 ss. 146
MONTESANO, op. cit., 118.
– 181 –
La compenetrazione tra «cognizione logica» o «lavoro logico» ed
accertamento, che è alla base della teorica dell’efficacia «interna» del
giudizio147
, sta tutta in questa constatazione, per vero non ignota allo stesso
Chiovenda148
.
147
Così, CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 139. 148
V. retro, in questo capitolo, nota n. 16; Chiovenda, come noto, è tra i principali
assertori della tesi secondo cui l’effetto di accertamento s’identifica con l’autorità di cosa
giudicata, e perciò ci realizza solo con l’immutabilità della sentenza. Per una valorizzazione
del concetto di «accertamento di fattispecie preliminare» ai fini della ricostruzione del
vincolo, DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, cit., 226 ss., sviluppando le intuizioni
svolte da SASSANI, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova 1989, 54 ss. 107
ss. in sede di analisi dell’efficacia della sentenza di annullamento di atti di esercizio della
potestà amministrativa: in particolare, l’idea per cui la sentenza di annullamento esprime
anche un fenomeno di accertamento, che produce ben di più del semplice effetto
condizionante o preclusivo, e si pone come fonte di obblighi positivi nei confronti
dell’amministrazione.
– 182 –
CAPITOLO TERZO
IL PRINCIPIO DI DIRITTO E GLI AMBITI DECISORI DEL GIUDIZIO DI RINVIO
§ 1. Il principio di diritto in rapporto al sistema delle impugnazioni.
1.1. Le preclusioni nel giudizio di rinvio: premessa.
Nell’attuale formulazione dell’art. 384 del codice di rito, la pronuncia
del principio di diritto è correlata alla semplice decisione del ricorso al opera
della Suprema Corte1; ma un problema di individuazione della portata del
«vincolo» del giudice della causa al principio di diritto sussiste
evidentemente solo in quanto, coincidendo la pronuncia del principio di
diritto con l’accoglimento del ricorso ad opera della Suprema Corte – e non
sussistendo i presupposti affinché questa provveda direttamente alla
decisione nel merito della causa – attraverso la cassazione della sentenza sia
aperta la strada alla recezione del principio stesso da parte del diverso giudice
chiamato a definire la controversia nel merito2.
1 Benché, l’art. 384 c.p.c., nella versione risultante dalla novella del 2006, per ragioni
di nomofilassi, preveda l’enunciazione del principio di diritto in relazione alla «decisione»
del ricorso e non necessariamente al suo accoglimento (come invece testualmente prevedeva
la vecchia formulazione della norma, in cui l’enunciazione del principio era peraltro correlata
all’accoglimento del solo motivo di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.), si può continuare,
nell’analisi che ci occupa, a pretermettere l’ipotesi dell’enunciazione del principio in caso di
rigetto del ricorso, ove il dictum della Corte non presenta, rispetto alla vicenda processuale
su cui interviene, un’efficacia particolare e diversa da quella della formale esplicitazione
della ratio decidendi ad opera della motivazione in diritto di una pronuncia, ad es., del
giudice d’appello: la formalità dell’enunciazione del principio giuridico sotteso al rigetto
dell’impugnazione servendo solo all’estrapolazione della ratio decidendi delle pronunce
emesse dal vertice della giustizia ordinaria onde favorire l’elaborazione delle massime e la
circolazione dell’interpretazione del diritto elaborata dalla Corte di cassazione, in funzione
evidentemente nomofilattica. Per il dubbio che il riformatore della novella del 2006 abbia
confuso i concetti di principio di diritto e massima giurisprudenziale, v. TARUFFO, Una
riforma del ricorso per cassazione …, cit., 771 ss. 2 L’idea che la rimessione della causa al giudice di rinvio costituisca l’ipotesi
residuale, a seguito dell’accoglimento del ricorso per cassazione, rispetto alla possibilità
– 183 –
Negli studi che si sono occupati del tema, il problema della recezione
del principio di diritto è stato non tanto riferito al procedimento logico che
deve essere seguito dal giudice del rescissorio o dal giudice del processo
riproposto nell’applicazione del principio di diritto, quanto piuttosto
identificato – quasi istintivamente, per così dire – con il problema della
definizione dei confini della libertà che al giudice competente a definire la
causa residuano in ordine alla riesaminabilità degli antecedenti su cui è
intervenuto il principio di diritto proclamato dalla Suprema Corte.
Ciò, in quanto è evidente che a seconda che si ammetta o meno un tale
potere in capo al giudice di merito varia sensibilmente la possibilità che il
principio di diritto venga attuato oppure no; così come, per altro verso, ad
incidere sull’eventualità che nella fase successiva alla cassazione il dictum
enunciato dalla Corte risulti inconferente è la possibilità che in quella sede sia
rimessa in moto la ricostruzione dei fatti rilevanti di causa: ciò a cui allude
Francesco Paolo Luiso, quando dichiara che «ciò che rende vincolante il
principio di diritto in sede di rinvio è l’intangibilità dell’accertamento dei
fatti storici, così come effettuato dalla sentenza cassata»3.
della decisione nel merito della causa ad opera della Suprema Corte, già autorevolmente
sostenuta, anche prima della riforma del 2006, su tutti, da CIPRIANI, Contro la cassazione
con rinvio, in Foro it. 2002, I, 2524 ss., e da BOVE, Sul potere della Corte di Cassazione di
decidere nel merito la causa, cit., 713 ss. (per la consolidazione dell’opinione a seguito della
riforma, v. ID., La decisione nel merito della Corte di cassazione dopo la riforma, in Giusto
proc. civ. 2007, 773 ss.) è da ultimo rilanciata da GAMBINERI, Giudizio di rinvio e
preclusione di questioni, cit., 3-4 (ove, alla nt. 1, riferimenti di dottrina in merito all’opinione
tradizionale secondo cui il rinvio è l’ipotesi generale rispetto al fenomeno della cassazione
della sentenza) sulla base di un argomento letterale. In proposito, Gambineri osserva che la
norma di riferimento del cassazione con rinvio, ossia l’art. 383 c.p.c., adotta la tecnica della
residualità rispetto al precedente art. 382 («La Corte, quando accoglie il ricorso per motivi
diversi da quelli richiamati nell’articolo precedente, rinvia la causa ad altro giudice …»), per
cui la rimessione al giudice di rinvio è subordinata alla circostanza che non si sia verificata
un’ipotesi di cassazione senza rinvio oppure che non si sia statuito sulla giurisdizione o sulla
competenza. Secondo l’a., «il quadro, ora è completato dall’art. 384 cod. proc. civ. per cui il
rinvio è escluso anche quando la Corte di Cassazione, accolto il ricorso, “decide la causa nel
merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”». (ID., op. loc. ult. cit.). 3 LUISO, Diritto processuale civile, vol. II, Milano 2011, 486.
– 184 –
Scriveva Edoardo Ricci, nell’opera monografica dedicata al giudizio di
rinvio, datata 1967, che «l’enunciato vincolante, per il fatto di riguardare il
punto investito dall’errore, si pone (…) come elemento separatore tra due
gruppi di valutazioni effettuate dal giudice d’appello (o di primo grado). Da
un lato, devono essere collocate le valutazioni anteriori, rimaste esenti da
censura; dall’altro devono essere collocate le valutazioni successive, colpite
mediatamente dalla critica rivolta contro il loro antecedente logico: e non si
può imporre in concreto al giudice di rinvio di recepire il “principio di
diritto”, se non si fa in modo di conservare, così com’è, la porzione di iter
logico anteriore al punto a cui ci si riferisce»4.
Questa constatazione, dall’apparenza ineludibile, è in realtà il frutto di
una precisa presa di posizione a favore dell’inerenza all’organizzazione del
«sistema cassazione» di un regime di preclusioni correlate alla permanenza
degli apprezzamenti del giudice della sentenza censurata che risultino indenni
dalla critica operata dalla Cassazione: il che equivale, in primo luogo, a
riconoscere che l’annullamento della sentenza da parte della Suprema Corte
non azzera l’operato dell’organo inferiore; in secondo luogo, ad ammettere
l’esistenza e ad individuare il funzionamento di un meccanismo che consente
la consolidazione della sentenza cassata nelle sue porzioni illese, o perché la
parte non ha provveduto a rimetterle in discussione dinanzi al Supremo
Collegio o perché questo le abbia omologate, respingendo le censure ovvero
omettendo di rilevare quei vizi che fossero ancora rilevabili d’ufficio in sede
di giudizio di cassazione5.
4 E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 152-153; sul tema, v., di recente,
GAMBINERI, Giudizio di rinvio e preclusione di questioni, cit., 116 ss; 139 ss. 5 «Posto che si tratta di questioni non investite né in modo diretto né in modo indiretto
dalla censura della Corte» dice E.F. RICCI, op. cit., 101, il considerarle precluse non può
significare se non una conservazione dei relativi giudizi risolutori rivelati per implicito o per
esplicito con la sentenza cassata», proseguendo poi in nota a sottolineare come «gli eventi
dai quali la dottrina trae le preclusioni siano sempre la mancata critica dell’interessato verso
gli apprezzamenti dell’organo inferiore, o il giudizio adesivo della Corte su quei medesimi
apprezzamenti: ed escludere il dibattito su certi antecedenti della statuizione finale non può
– 185 –
Invero, sempre lo stesso autore ci avverte che, storicamente, la
convinzione che i motivi di ricorso per cassazione fossero stati concepiti solo
come mezzi necessari a provocare l’annullamento è stata a lungo ritenuta
inconciliabile con l’idea che dinanzi alla Cassazione si potessero suturare le
decisioni sui punti pregiudiziali rispetto alle questioni sollevate; con l’idea
che, insomma, in sede di ricorso per cassazione si potesse «consumare»
l’azione: il che era del resto giustificato anche dalla matrice ideologica da cui
era scaturito l’istituto della Cassazione, quale organo paralegislativo e non
giurisdizionale, i cui apprezzamenti sarebbero per principio dovuti restare
rigorosamente fuori dall’iter formativo della decisione sul bene della vita
conteso nel giudizio di merito.
Sotto il vecchio codice, tra l’altro, non solo l’eventualità della
disapplicazione del pronunciato in iure della Cassazione era contemplata
come ipotesi normale, stante l’assenza di vincolatività del dictum per il
giudice di primo rinvio, ma la normativa non impediva del tutto, neanche in
sede di secondo rinvio, l’elusione del dictum vincolante delle sezioni unite,
mancando una specifica disposizione che prevedesse per il rinvio
un’istruttoria «chiusa», come quella delineata dall’attuale art. 394 c.p.c. Tale
circostanza rendeva persuasiva l’idea che, a seguito della cassazione, la causa
tornasse nello stato in cui si trovava prima dell’emanazione della sentenza
cassata, con la conseguenza della radicale caducazione degli apprezzamenti
del giudice anteriore e della riemersione di tutti i quesiti di causa in sede di
rinvio: idea decisamente maggioritaria nella tradizione francese e anche nella
più risalente dottrina italiana6.
non voler dire, nel nostro caso, se non conservare le antiche statuizioni poi accettate dalla
parte o condivise dalla Corte». 6 Cfr., a titolo esemplificativo, gli autori menzionati da E.F. RICCI, Il giudizio civile di
rinvio, cit., 102, nt. 5: GARGIULO, Il codice di procedura civile del Regno d’Italia, ristampa
alla 2a
edizione, vol. III, Napoli 1887, 820; CUZZERI, Il codice italiano di procedura civile
però – ciò che è confermato dall’adozione della terminologia chiovendiana – ad un fenomeno
di giudicato parziale esterno della sentenza resa su molteplici domande (o capi di domanda,
come si legge talora); si vedano anche le riflessioni e le conclusioni scettiche in tema di
giudicato implicito di A.A. ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui
presupposti processuali, cit.: «secondo lo schema “omessa impugnazione della decisione
implicita-passaggio in giudicato autonomo della stessa”, il giudicato processuale implicito è
categoria dogmatica illegittima perché priva di riscontro positivo (cioè normativamente
impossibile); secondo lo schema “formazione del giudicato sul merito-passaggio in giudicato
dell’implicita affermazione sulla proponibilità dell’azione”, il giudicato processuale implicito
è modo di descrizione di un effetto preclusivo, forse normativamente possibile ma talora
fuorviante, che nulla aggiunge a quanto già discende dalla coerente applicazione degli effetti
positivi del giudicato sostanziale, e rispetto al quale mal non pare attagliarsi il noto monito
ockhamiano per cui entia non sunt multiplicanda». V. anche TURRONI, La sentenza civile sul
processo, cit., 144 ss. Per la rassegna della richiamata giurisprudenza sull’art. 37 c.p.c. e la
ricostruzione dei diversi orientamenti in materia di giudicato interno sulla questione di
giurisdizione, cfr. LAMORGESE, Dall’art. 37 c.p.c. alla sentenza delle Sezioni Unite n. 24883
del 2008, cit., § 1.
– 247 –
Per le Sezioni Unite, infatti, anche quando la questione di giurisdizione
non è stata mai esplicitamente risolta dal giudice di merito, «non per questo si
può ritenere che la questione non sia stata affrontata e decisa. Qualsiasi
decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi;
tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione sollevata d’ufficio,
avviene comunque de plano (implicitamente)»96
: ciò, in quanto, «il giudice
che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere»97
(salvo poi
96
A giustificare l’interpretazione «in senso restrittivo e residuale» dell’art. 37 c.p.c.
rispetto a quanto consente la lettera della norma (resterebbe forse uno spazio applicativo al
rilievo officioso del difetto di giurisdizione nei gradi di impugnazione quando la sentenza di
primo grado, ad es., si sia pronunciata nel senso dell’improponibilità della domanda,
statuizione, questa, che potrebbe non presupporre l’implicita decisione nel senso della
sussistenza della potestas iudicandi), stanno i principi di ragionevole durata del processo e di
effettività della tutela, con i quali, secondo Cass. 9 ottobre 2008, n. 24883, collide una
disciplina che può comportare la regressione del processo allo stato iniziale dopo la
vanificazione di due gradi di giudizio e «l’allontanamento sine die di una valida pronuncia
sul merito». 97
È l’affermazione con cui si accoglie l’idea che ogni pronuncia sul merito comporta
una decisione tacita sulla sussistenza del presupposto processuale della giurisdizione,
decisione che deve essere impugnata specificamente onde evitare la formazione del giudicato
implicito, non essendo a tal uopo sufficiente l’impugnazione di tutte le statuizioni di merito e
il fatto che non si formi un giudicato parziale su un singolo capo di domanda (dove
rileverebbe, per vero, come abbiamo visto supra, alla nt. 92, non la nozione di giudicato
implicito bensì il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, in virtù del
quale la statuizione sul bene della vita contenuta nella pronuncia irretrattabile non può essere
rimessa in discussione facendo valere mezzi ed eccezioni che potevano essere spesi
nell’ambito del giudizio che con quella pronuncia è stato definito: CARRATTA, Rilevabilità
d’ufficio del difetto di giurisdizione e uso improprio del «giudicato implicito», in Giur. it.
2009, 1464 ss., richiamando l’autorità di ALLORIO, Critica della teoria del giudicato
implicito, in Riv. dir. proc. civ. 1938, II, 245; nonché BETTI, Se il passaggio in giudicato di
una sentenza interlocutoria precluda al contumace l’eccezione di incompetenza territoriale,
in Riv. dir. proc. civ. 1927, II, 21. Per questa considerazione della preclusione al rilievo del
difetto di giurisdizione, in presenza del passaggio in giudicato di una statuizione sul merito,
come rientrante negli effetti di indiscutibilità propri del giudicato di merito e sulla limitata
«utilità normologica del giudicato implicito scaturente dal passaggio in giudicato della
decisione sostanziale esplicita – almeno con riguardo ai presupposti processuali –», A.A.
ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, cit.,
1292 ss., in base all’argomento classico secondo cui la preclusione della conoscibilità del
presupposto processuale non avviene in ragione del passaggio in giudicato della decisione
implicita, quanto in virtù del passaggio in giudicato della pronuncia sulla situazione
sostanziale, che assorbe tutti i problemi relativi alla regolare instaurazione del rapporto
– 248 –
intendersi su quale sia la decisione di «merito» che implica questa
presupposta decisione del giudice di poter decidere98
).
Vero è che tale ragionamento si prestava ad essere spostato anche su
altri tipi di vizio per cui la legge prevede il regime di rilevabilità in ogni stato
processuale. Invero, all’analisi del fenomeno da parte di questo autore fa da sfondo costante
la preoccupazione di tenere distinti due piani di indagine che spesso vengono sovrapposti,
ossia l’efficiacia di giudicato interno e quella di giudicato esterno; l’a. infatti abbina un
concetto tecnicamente rilevante di giudicato implicito sull’esistenza dei presupposti
processuali e comunque sulla regolarità dell’instaurazione del contraddittorio alla ricorrenza
di un effettivo onere di impugnazione specifica della pronuncia inespressa, escludendo
l’autonomia concettuale e la chiarezza ed utilità scientifica del ricorso alla nozione di
giudicato implicito in tutti i casi in cui la preclusione al riesame della questione della
sussistenza del presupposto processuale si determina in via endoprocessuale in forza di
precise indicazioni legislative, come nel caso della competenza e del relativo difetto.
Esaminando le varie ipotesi di vizio, egli individua uno spazio per una effettiva preclusione
pro iudicato implicito (ossia un «onere di gravame contro una pronuncia inespressa»), ad es.,
nel caso in cui ricorre un vizio afferente alla distribuzione delle controversie tra l’organo
monocratico ed il collegio ex art. 50 bis c.p.c.: «dal combinato disposto degli artt. 281 octies
(da cui risulta con sicurezza la rilevabilità officiosa dell’error fino alla fase decisoria) e 50
quater (che ne esclude l’inerenza alla costituzione del giudice e rimanda alla … regola di
conversione della nullità in motivo di gravame) emerge proprio un onere di impugnazione
della statuizione implicita. Si consideri a titolo esemplificativo il caso del tribunale che abbia
deciso in composizione erroneamente monocratica il merito di taluna delle liti coperte dalla
riserva di collegialità: non è dubbio che il giudice abbia – sbagliando – implicitamente
affermato il proprio potere di decidere, ma non è neppure dubbio che tale inespressa
statuizione possa essere conosciuta e riformata in appello solo ove sia fatta oggetto di uno
specifico motivo di gravame; in difetto di impugnazione, la questione rimane invece
preclusa»: ID., op. ult cit., 13. Lo stesso a. ammette però che si tratta di un’ipotesi residuale,
e non significativa. 98
Resta forse uno spazio applicativo per la rilevabilità del difetto di giurisdizione,
anche in assenza di censura, oltre la pronuncia del giudice di merito nell’ipotesi ad es.
contemplata da Cass., sez. un., 15 novembre 2002, n. 16161, la cui massima ripete che il
giudicato sulla giurisdizione può formarsi, oltre che a seguito della statuizione emessa dalle
Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione o
di ricorso ordinario per motivi attinenti alla giurisdizione, solo per effetto del passaggio in
giudicato di una statuizione in proposito contenuta in una sentenza di merito, e prevede come
fattispecie inidonea ad essere equiparata a tale sentenza «presupponente la giurisdizione» la
decisione che, senza contenere alcun accertamento sui punti di fatto o di diritto comportanti
un sia pure implicito riconoscimento della giurisdizione del giudice adito, abbia
semplicemente statuito sulla improcedibilità della domanda ad es. in ragione della nullità del
ricorso introduttivo della lite.
– 249 –
e grado, come per il caso del difetto di giurisdizione99
. Ma, quando le Sezioni
Unite, poco dopo l’intervento appena segnalato, tornano sul tema, con la
sentenza 30 ottobre 2008, n. 26019, specificano che «il potere di controllo
delle nullità (non sanabili o non sanate), esercitabile in sede di legittimità,
mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero
mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione, va ritenuto
compatibile con il sistema delineato dall’art. 111 della Costituzione, allorché
si tratti di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio100
(…) ovvero
di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di potestas iudicandi – come il
difetto di legitimatio ad causam o dei presupposti dell’azione, la decadenza
sostanziale dall’azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la
carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto
di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza
sociale (per il quale la legge prevede la declaratoria di improcedibilità in ogni
stato e grado del procedimento); in tutte queste ipotesi, infatti, si prescinde da
un vizio di individuazione del giudice, poiché si tratta non già di
provvedimenti emanati da un giudice privo di competenza giurisdizionale,
bensì di atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare101
, difettando i
presupposti o le condizioni per il giudizio. Tale compatibilità al principio
99
Non è così per il giudizio amministrativo. Il legislatore del 2010, infatti, nel
formulare l’articolato del codice del processo amministrativo, ha previsto che «il difetto di
giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è
rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in
modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione»: art. 9 d.lgs. n. 104/2010. Il diritto
vivente delle pronunce del 2008 si è così tradotto nella previsione di un regime di rilevabilità
del difetto di giurisdizione più conforme al canone di economia processuale; d’altro canto,
tale intervento si è reso necessario anche per contrastare la tendenza del Consiglio di Stato a
riesaminare d’ufficio la questione di giurisdizione, anche laddove, seguendo i canoni
dell’orientamento della Cassazione sul punto, potesse ritenersi formato il giudicato. 100
«In quanto tale ammissibilità consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il
giudicato, attraverso la successiva proposizione dell’actio nullitatis o del rimedio
impugnatorio straordinario ex art. 404 c.p.c. da parte del litisconsorte pretermesso». 101
Per l’osservazione che avrebbe dovuto essere presa in considerazione la
prospettiva generale dell’art. 37 c.p.c., ove è contemplato, oltre al difetto relativo, il difetto
assoluto di giurisdizione, v. DELLE DONNE, op. cit., nt. 14.
– 250 –
costituzionale della durata ragionevole del processo va, invece, esclusa in
tutte quelle ipotesi in cui la nullità sia connessa al difetto di giurisdizione del
giudice ordinario e sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto
della pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al
riguardo, dinanzi al giudice di appello».
Col che, in altri termini, la Corte distingue tra nullità che possono
permanere nel processo senza essere rilevate e sanate e slatentizzarsi in
Cassazione, con il rilievo officioso (e sono nullità, che, nella prospettiva della
sentenza soprarichiamata, presidiano il principio del contraddittorio e la
necessaria presenza dei presupposti e delle condizioni per il giudizio) e
nullità che, sebbene dichiarate rilevabili in ogni stato e grado del giudizio,
non pervengono praticamente mai impregiudicate in Cassazione, perché,
malgrado su di esse non ci sia mai stata questione né statuizione espressa, si
considerano comunque decise per implicito ad opera del primo giudice di
merito dinnanzi al quale esse avrebbero dovuto esser fatte valere.
Al primo regime, per esempio, soggiace il difetto di legittimazione ad
agire, la cui ricorrenza può essere in qualunque momento rilevata fino in
Cassazione (e lo ha di recente ribadito Cass. civ., sez. un., 9 febbraio 2012,
n. 1912, in CED Cassazione 2012102
); mentre il secondo regime sembra ad
102
Con cui la Suprema Corte ha rilevato d’ufficio il difetto di legittimazione attiva
della Provincia di Oristano che aveva proposto alcune domande a tutela delle competenze di
due Consorzi, dinanzi al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, agendo quale
proprietario terriero consorziato e nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali Nella
motivazione della sentenza si legge che il difetto di legittimazione non era stato rilevato dal
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, ma che esso è rilevabile d’ufficio in sede di
legittimità, «‘alla stregua della regola dettata dall’art. 81 cod. proc. civ., fuori dai casi
espressamente previsti dalla legge di sostituzione processuale o di rappresentanza, nessuno
può far valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio (...). L’istituto della legittimazione
ad agire o a contraddire in giudizio (legittimazione attiva o passiva) – invero – si ricollega al
principio dettato dall’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui nessuno può far valere nel processo
un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta
– trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza
inutiliter data – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla
questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale
– 251 –
es. assegnato da Cass., Sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23035 al difetto di
rappresentanza processuale103
.
La distinzione così accolta dal recente orientamento della Cassazione è
stata in dottrina criticata in quanto apodittica, non essendo chiara la ratio per
cui il regime della insanabilità/rilevabilità in ogni stato e grado, salvo il limite
del giudicato esplicito interno e del giudicato parziale di merito, si debba far
valere in relazione ai vizi concernenti, ad es., la legittimazione e non in
relazione a quelli riguardanti altri presupposti processuali, se è vero che, in
ogni caso, tutti questi vizi costituiscono nullità assolute e colpiscono il
rapporto giuridico processuale nel suo complesso: si è infatti osservato che la
diversificazione di regime, sotto il profilo della perdurante rilevanza e
decisività dell’uno o dell’altro vizio, anche quando ed anzi proprio in quanto
dettata da ragioni di opportunità, non è rimessa all’opzione dell’interprete ma
è prerogativa esclusiva del legislatore104
.
pronuncia di rigetto della domanda per difetto di una condizione dell’azione), circa la
coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il
rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (Cass. n.
11190 del 1995; Cass. n. 6160 del 2000; Cass. n. 11284 del 2010)». Da tale accertamento,
conclude la Corte, «discende la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi
dell’art. 382 c.p.c., comma 3, atteso che la causa non poteva essere proposta … (Cass. n.
2517 del 2000)»: così, Cass. 1912/2012, cit. 103
Secondo quanto emerge dalla massima: «il limite della rilevanza del difetto di
valida rappresentanza processuale è costituito dal formarsi del giudicato, il quale impedisce il
riesame non solo delle ragioni o questioni giuridiche che sono state proposte e fatte valere in
giudizio, ma anche di quelle che, seppure non espressamente dedotte o rilevate, costituiscono
il necessario presupposto, anche di ordine processuale, della pronuncia di merito (c.d.
giudicato implicito); conseguentemente, è inammissibile nel giudizio di legittimità il motivo
di ricorso con il quale si deduce il vizio di rappresentanza di un ente collettivo nei precedenti
gradi del giudizio, quando lo stesso non sia stato mai dedotto nel corso dei medesimi»: Cass.
n. 23035/2009, cit. Per l’analitico esame delle varie sottoipotesi che si possono profilare con
riferimento ai vizi attinenti al presupposto della capacità processuale e, in generale, del
regime di rilevabilità delle «diverse forme di deficienza in punto di legitimatio ad
processum», cfr. A.A. ROMANO, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui
presupposti processuali, cit., § 14, (discorso tarato ovviamente in parte sulla versione
dell’art. 182 c.p.c. anteriore alla novella del 2009). 104
Che a tale diversificazione ha provveduto, ad es., dettando una disciplina peculiare
del vizio di incompetenza: MENCHINI, op. loc. ult. cit.
– 252 –
In ogni caso, con riguardo alle questioni relative ai presupposti
processuali ed alle nullità cosiddette insanabili ovvero alle nullità
tempestivamente eccepite che si siano verificate nei gradi di merito fino alla
proposizione del ricorso per cassazione, vale essenzialmente, ai fini della
definizione dell’oggetto del giudizio di rinvio, la regola della loro non
riesaminabilità in sede di rinvio.
Nessuna nullità, occorsa nella fase precedente alla Cassazione, infatti,
passa indenne dalla pronuncia della Cassazione che rimette la causa al
giudice del rinvio sì da poter essere valutata in quella sede.
In primo luogo, se la nullità è stata oggetto della censura accolta dalla
Corte, la prosecuzione del giudizio dopo l’emendamento dell’error
costituisce la ragione stessa del rinvio, ed il suo indefettibile presupposto:
dunque di quella nullità non si potrà più discutere successivamente, servendo
lo stesso rinvio quale sede di restitutio in integrum.
Invero, un problema di persistenza o meno della questione di nullità
dedotta in sede di ricorso potrebbe sussistere allorquando la Corte assorba,
per effetto dell’accoglimento di un motivo attinente al merito, un motivo fatto
valere ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.
Tale eventualità dovrebbe essere evitata, nel senso che il dovere
decisorio della Corte dovrebbe essere espletato con riguardo a tutti i motivi di
ricorso; resta salvo l’assorbimento in senso tecnico dei motivi, ovviamente
non collegato a quel contenuto minimo della pronuncia della Suprema Corte
che ha l’effetto di evitare il giudicato formale esterno della sentenza
impugnata105
(ché, a tale scopo, è sufficiente l’accoglimento anche di un solo
motivo), bensì riconnesso alla prospettiva della decisione definitiva della lite
in sede di rinvio.
105
Come se la devoluzione oggettiva nei confronti della Suprema Corte fosse
rapportata ad una concezione del ricorso per cassazione come rimedio per ottenere, per un
motivo qualunque, l’annullamento della sentenza; alla maniera, per intenderci, di PAVANINI,
op. cit., passim.
– 253 –
Detto assorbimento appare corretto ove sia stato il ricorrente a porre un
nesso di subordinazione tra la verifica e l’accoglimento dell’una censura
rispetto alla verifica ed all’accoglimento dell’altra, perché riconosce che
l’accoglimento della prima censura è incompatibile con l’applicazione del
principio di diritto favorevole (o con la rilevanza della correzione sostitutiva
del vizio in procedendo) conseguibile per il tramite dell’accoglimento della
seconda: per esemplificare, si può dare l’ipotesi in cui il ricorrente ritenga, a
ragione, di non sottoporre comunque al vaglio della Suprema Corte la
censura alla pronuncia in punto di decadenza dalla prova dell’accordo
simulatorio qualora venga accolta la censura alla sentenza impugnata sotto il
profilo del mancato rilievo della nullità della vendita per contrarietà alle
norme imperative dettate in tema di esercizio della prelazione (ma in questo
caso, però, sarebbe forse del tutto superfluo il rinvio).
Laddove, peraltro, il ricorrente abbia omesso di inserire la
subordinazione in un caso del genere (di incompatibilità di applicazione di
due statuizioni rescindenti a favore dello stesso ricorrente), non è escluso che
l’assorbimento del motivo posteriore, ad opera della Corte, è comunque
legittimo.
Maggiori perplessità desta l’ipotesi in cui la rilevanza di una delle
censure esposte nel ricorso scivoli, dal punto di vista logico, dietro una
valutazione di competenza del giudice di rinvio in conseguenza
dell’accoglimento, ad opera della Suprema Corte, di un’altra censura avente
ad oggetto una questione pregiudiziale. Un’ipotesi, questa, che può essere
esemplificata immaginando il caso in cui la Suprema Corte, in accoglimento
di un motivo con cui il ricorrente Tizio abbia contestato la sentenza
impugnata circa l’accertamento della propria corresponsabilità nell’illecito
aquiliano commesso da Caio ai danni di Sempronio, annulli detta sentenza
con esigenza di rinvio per accertamenti di fatto, e ci sia un altro motivo del
ricorso di Tizio avente ad oggetto la questione, logicamente successiva
rispetto a quella della corresponsabilità, della violazione del contraddittorio
– 254 –
nell’espletamento delle operazioni peritali svolte in un grado di merito per la
quantificazione dei danni occorsi a Sempronio (violazione lamentata dallo
stesso Tizio e non da Caio).
In un caso del genere è dubbio che la Corte debba decidere nel merito
della censura o, per contro, possa pretermetterne l’esame (pur ammettendosi,
in tale seconda ipotesi, il potere dell’interessato di reiterare la questione
assorbita dinnanzi al giudice di rinvio). Probabilmente, fattispecie come
queste giustificano il fatto che la Corte di cassazione munisca il giudizio di
rinvio di un principio di diritto «preventivo», per così dire, (questo sì
ipotetico), la cui enunciazione appare opportuna in quanto ispirata al canone
di economia processuale106
, se non doverosa per il principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il quale non sembra venir meno in
presenza della perdurante rilevanza della questione107
.
In ogni caso, tralasciando l’ipotesi dell’assorbimento delle censure
relative a vizi in procedendo, in sede di Cassazione, è in generale da
106
Sembra ad es. rinvenibile un’applicazione del principio cautelativo di completezza
della pronuncia della Suprema Corte, in Cass. civ., sez. I , 25 febbraio 2009, n. 4587, nella
cui motivazione si legge che «l’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale rende
virtualmente assorbito l’esame degli ulteriori motivi del ricorso principale e dell’unico
mezzo del ricorso incidentale, essendo tutti relativi a profili – i criteri di determinazione del
danno subito dagli investitori (…) e di aggiornamento o di adeguamento monetario della
somma liquidata dal giudice – in ordine logico successivi rispetto al momento dell’an della
responsabilità dei commissari ed esperti, sul quale il giudice del rinvio dovrà nuovamente a
pronunciare. Tuttavia, poiché la vicenda giudiziaria de qua pende ormai da numerosi anni e
poiché le censure con tali motivi sollevate investono anche questioni di interpretazione della
legge, sulle quali il giudice di legittimità è chiamato, secondo le attribuzioni che ad esso sono
proprie, ad esercitare la propria funzione nomofilattica, il Collegio ritiene che ragioni di
cautela acceleratoria, intimamente legate al rispetto del principio di ragionevole durata del
processo e di buon andamento dell’amministrazione del servizio giustizia, impongano uno
scrutinio di essi, onde evitare che le parti del giudizio – ove in esito al giudizio di rinvio sia
confermata, in tutto o in parte, la responsabilità dei commissari e degli esperti della Consob –
siano costrette a rivolgersi ancora una volta a questa Corte per prospettare doglianze, sulla
misura del danno e sulla sua natura, che già oggi sono all’attenzione del giudice di
legittimità»: insomma, ci sembra che la Corte stia per dettare un principio di diritto
«preventivo», condizionato all’esito degli accertamenti di fatto demandati al giudice di
rinvio. 107
V., però, supra, in una prospettiva di diritto positivo, capitolo primo, par. 3.3., nt.
– 255 –
escludersi che nel giudizio di rinvio possano rilevare nullità le cui cause siano
da ricondursi al segmento di giudizio anteriore alla pronuncia della
Cassazione.
L’impedimento al loro rilievo può essersi prodotto per effetto di
giudicato interno implicito nei gradi di merito o nel passaggio da questi alla
Cassazione, ovvero nell’ambito dello stesso giudizio di cassazione ove
ancora ivi rilevabili, ma è comunque da ritenersi escluso che questioni di rito
– ed anche quelle che concernono la carenza originaria dei presupposti
processuali – occorse nel segmento di giudizio anteriore alla pronuncia della
Cassazione possano rifluire nel giudizio di rinvio ed impedire l’applicazione
del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.
Il fatto di ritrovare in sede di rinvio questi sbarramenti, dopo la
pronuncia di annullamento, ad opera della Suprema Corte, non costituisce un
effetto della stessa pronuncia della Cassazione, perché le cause del fenomeno
preclusivo risalgono al giudicato interno prodottosi prima del giudizio di
cassazione ovvero in coincidenza dell’acquiescenza prestata dalle parti in
sede di introduzione del giudizio di cassazione stesso.
Naturalmente, poi, non è concepibile che eventuali forme di
inosservanza di regole processuali che riguardano il giudizio di cassazione
(sanzionate dal codice come forme di inammissibilità ed improcedibilità), in
quanto rilevabili solo dalla Cassazione, possano incidere sul giudizio di
rinvio. La loro assoluta irrilevanza discende dall’applicazione di un un
principio di carattere generale, e cioè quello per cui se il giudizio si chiude la
pronuncia di merito (per essa intendendosi qualunque pronuncia sul merito
delle censure mosse dal ricorrente, anche su questioni di rito), non può darsi
il fenomeno di assorbimento in senso tecnico delle questioni di nullità, perché
queste devono ritenersi risolte negativamente, anche per implicito108
: solo che
queste statuizioni implicite della Cassazione, proprio poiché svolte dalla
108
POLI, I limiti oggettivi, cit., 383.
– 256 –
Cassazione non sono impugnabili109
(salvo i casi di cui agli artt. 391 bis e ter
c.p.c.): dalla combinazione tra il principio di presunzione di implicita
pronuncia di rigetto relativamente a tali questioni di nullità e la regola
dell’assorbimento delle nullità nei motivi di gravame, si ricava – per via della
inimpugnabilità della pronuncia di annullamento – la definitiva preclusione al
loro rilievo.
Analoga giustificazione trova la non riesaminabilità delle questioni di
nullità precedenti al giudizio di cassazione ma rilevabili anche d’ufficio per la
prima volta innanzi ad essa.
Nell’uno come nell’altro caso, la pronuncia del principio di diritto
implica un giudicato implicito non impugnabile circa l’inesistenza di vizi di
nullità rilevabili direttamente dalla Suprema Corte d’ufficio.
In altri termini, il principio di diritto pronunciato dalla Corte in
occasione dell’annullamento della sentenza impugnata con una censura
attinente al merito della causa funge – come decisione implicitamente
negativa – da sanatoria delle nullità occorse fino alla sua pronuncia, e dunque
con efficacia sanante anche rispetto ai vizi c.d. insanabili rilevabili d’ufficio
(ad es., anche violazione di giudicato interno)110
, verificatisi nelle pregresse
fasi che, se rilevati in sede di rinvio, travolgerebbero l’utilizzabilità del
principio di diritto ed in particolare, di vizi determinati alla carenza,
originaria o sopravvenuta, di presupposti processuali, sui quali non si sia
formato un giudicato interno implicito; sia come sanatoria dei vizi occorsi
nell’ambito del giudizio stesso di cassazione (ad es. in caso di mancato
rilievo di un vizio attinente alla procura speciale per la promozione del
ricorso).
109
Per via della posizione apicale della Cassazione, se si vuole usare l’argomento
pubblicistico, e comunque in ragione dell’assenza di rimedi ordinari ulteriori da spendere
contro di essa, la statuizione implicita che si sia prodotta in Cassazione su di una questione di
nullità non è altrimenti impugnabile e passa in giudicato formale. 110
Cass., sez. lav., 15 dicembre 2009, 26241.
– 257 –
c) Giudicato implicito nei rapporti di pregiudizialità-dipendenza.
Nell’ambito dei capi di merito, occorre dire che il discorso sviluppato
dal recente orientamento giurisprudenziale che ha valorizzato la nozione di
giudicato implicito per restringere la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e
grado del difetto di giurisdizione111
riguarda, come abbiamo visto, le
questioni di rito viene da queste esteso, ai fini dell’individuazione
dell’ambito del giudicato implicito, anche alle questioni preliminari di merito
che, per quanto non esaminate nella sentenza, si ritengono coperte dal
giudicato implicito quando rappresentano il presupposto logico necessario
della sentenza che decide il merito.
La ratio è infatti la stessa. Sebbene si ritenga che le questioni
preliminari di merito rilevabili per la prima volta in sede di legittimità
incontrino il limite del giudicato interno esplicito112
, non quello del giudicato
implicito, tali questioni non potranno sicuramente valere, nell’ambito del
giudizio di rinvio, a rimettere in discussione il princpio di diritto enunciato
dalla Suprema Corte: anche in questo caso, la matrice della preclusione è la
pronuncia di accoglimento della censura con enunciazione del principio di
diritto.
Nel gruppo di ipotesi appena sopra esaminate delle questioni di nullità
rilevabili in ogni stato e grado coperte da giudicato interno in forza
dell’acquiescenza impropria se c’era una statuizione espressa che non è stata
impugnata, oppure perché respinte, oppure coperte da giudicato implicito in
quanto non rilevate in Cassazione rientra anche l’ipotesi di cui a Cass., sez.
111
Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, cit.; Cass., sez. un., 18 dicembre 2008, n.
29523, cit.; seguite poi da Cass., sez. un., 12 ottobre 2011, n. 20932. 112
Cfr. Cass. civ., Sez. V, 30 novembre 2011, n. 25500, da cui è tratta la seguente
massima: «In tema di contenzioso tributario, è rilevabile di ufficio ex art. 2969 cod. civ., per
la prima volta anche in sede di legittimità la questione preliminare di merito, sottratta alla
libera disponibilità delle parti, relativa alla decadenza sostanziale del contribuente dal diritto
ad ottenere il rimborso IVA, che sia stata solo implicitamente affrontata e risolta nei
precedenti gradi di giudizio con la decisione sul merito della fondatezza del diritto e,
pertanto, non incontra il limite del giudicato interno, che richiede, a fini preclusivi,
l’adozione di una pronuncia esplicita proprio su detta questione preliminare».
– 258 –
V, 29 aprile 2009, n. 10027, dove si individua una fattispecie che non è
idonea a determinare giudicato implicito fino in Cassazione: la massima dice
che il giudicato implicito, formandosi sulle questioni e sugli accertamenti che
costituiscono il presupposto logico indispensabile di una questione o di un
accertamento sul quale si sia formato un giudicato esplicito, non è
configurabile in relazione alle questioni pregiudiziali all’esame del merito
ovvero a quelle concernenti la proponibilità dell’azione113
quando,
intervenuta la decisione sul merito della domanda, la parte soccombente
abbia proposto impugnazione relativamente alla sola (o a tutte le) statuizioni
di merito in essa contenute; (…) dunque, quando il giudice decida
esplicitamente su una questione, risolvendone implicitamente un’altra,
rispetto alla quale la prima si ponga in rapporto di dipendenza e la decisione
venga impugnata sulla questione risolta esplicitamente, non è configurabile
un giudicato implicito sulla questione risolta implicitamente, essendo lo
stesso precluso dall’impugnazione sulla questione dipendente, e la ragione sta
in ciò, che il giudicato implicito presuppone il passaggio in giudicato della
decisione sulla questione dipendente decisa espressamente, in quanto il
principio giurisprudenziale del giudicato implicito sulla questione di
giurisdizione, di cui all’art. 37 cod. proc. civ., non è estensibile al di fuori dei
casi relativi all’eccezione ed al rilievo del difetto di giurisdizione114
.
In applicazione di tale principio, nella specie, la Suprema Corte ha
escluso la formazione del giudicato implicito sulla questione di ammissibilità
di un ricorso in materia tributaria, proposto tardivamente contro una cartella
113
Dal canto suo, poi, la relazione tra proponibilità dell’azione e condizioni
dell’azione non è tale per cui il giudicato formale sulla improponibilità dell’azione comporta
giudicato implicito sulle condizioni dell’azione, ed in particolare sulla legittimazione ad
agire, quando la questione relativa non abbia formato oggetto di contestazione specifica o
espressa trattazione: in tal senso, App. Roma, 18 ottobre 1993, in Riv. Arb. 1995, 83 ss. con
nota di VACCARELLA, con riferimento al caso in cui l’improponibilità dell’azione era stata
affermata a motivo della esistenza di clausola compromissoria per arbitrato irrituale. 114
Si tratta di un leitmotiv di molte pronunce recenti sul tema del giudicato implicito:
solo la questione di giurisdizione darebbe luogo a quel fenomeno per cui il giudicato
implicito si forma anche a prescindere dal passaggio in giudicato di un capo di merito.
– 259 –
di pagamento, sebbene il ricorso fosse stato respinto nel merito e la
statuizione impugnata in appello solo nel merito.
Questa è un’altra ipotesi in cui, nella fase ascendente del giudizio fino
in Cassazione, viene negata la formazione del giudicato implicito in relazione
alle questioni pregiudiziali all’esame del merito ovvero a quelle concernenti
la proponibilità dell’azione, quando non sia passato in giudicato un capo di
merito; e costituisce invece proprio uno dei settori in cui funziona la
preclusione degli antecedenti logici necessari del principio di diritto,
esplicitamente o implicitamente presupposti rispetto allo stesso. Pronunciato
il principio di diritto, pertanto, non potranno essere venire in in discussione
questioni concernenti la proponibilità dell’azione o le condizioni dell’azione,
in contrasto al principio di intangibilità del principio stesso115
.
L’affermazione, contenuta nella massima soprariportatata, secondo cui,
qualora il giudice decida esplicitamente su una questione, risolvendone in
modo implicito un’altra, rispetto alla quale la prima si ponga in rapporto di
dipendenza, e la decisione venga impugnata sulla questione risolta
espressamente (quella dipendente, per intenderci), non è possibile sostenere
che sulla questione risolta implicitamente si sia formato un giudicato
implicito, si rintraccia anche in altre pronunce, dove l’esigenza di negare il
giudicato implicito emerge in casi in cui viene in evidenza una relazione di
tipo sostanziale tra i punti-questioni, ai fini della decisione della causa.
Nei repertori di giurisprudenza si rinviene, a questo proposito,
l’affermazione per cui il giudicato implicito fra la questione decisa e quella
che si vuole tacitamente risolta sussista un «rapporto di dipendenza
indissolubile», che determini l’assoluta inutilità di decidere la seconda
questione, con la conseguenza che il giudicato implicito non si configura
115
V., supra, nt. 73 dove si tratta di un’ipotesi in cui la Corte ha affermato
l’indeclinabilità del proprio principio di diritto rispetto ad un’ulteriore verifica, da parte del
giudice di rinvio, della condizione dell’interesse ad agire (sub specie di verifica della natura
non solo endoprocedimentale dell’atto di concessione provvisoria di un diritto di derivazione
di acque impugnato, già riconosciuta dalla Corte).
– 260 –
quando la questione da decidere abbia una propria autonomia ed individualità
per la diversità dei presupposti di fatto e di diritto: così, ad es., Cass. 7
maggio 1984, n. 2761 ha escluso la formazione del giudicato implicito sulla
questione relativa alla ubicazione di un fabbricato nel vecchio o nel nuovo
centro abitato di un comune, avendo accertato che il giudice del merito, nel
decidere sulle distanze fra fabbricati costruiti nelle zone sismiche, non aveva
tenuto conto di tale ubicazione limitandosi ad affermare l’obbligo di una
determinata distanza a prescindere dalla ubicazione degli immobili. Ma le
ipotesi in cui viene chiamato in causa il «rapporto di dipendenza
indissolubile» per comprendere se si sia o meno formato il giudicato
implicito sono le più svariate: ad es., in relazione a più domande, anche
Cass., sez. lav., 6 aprile 2012, n. 5581, ammette, in principio, la formazione
del giudicato implicito quando «tra la questione decisa in modo espresso e
quella che si vuole implicitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza
indissolubile, tale da determinare l’assoluta inutilità di una decisione sulla
seconda questione».
Nel caso specifico, in cui erano proposte due domande, si trattava di
vedere che tipo di concorso intercorreva tra i due titoli e se la parziale
comunanza dei fatti posti a base della pretesa determinava oppure no che il
giudicato sull’una incidesse sulla decisione dell’altra116
.
116
In particolare, nel caso di specie, la Corte ha negato il ricorrere del giudicato
implicito sulla domanda di risarcimento da mancata contribuzione per effetto del giudicato
esplicito di rigetto sulla domanda di risarcimento da mancata retribuzione, affermando essere
di fronte a «domande che, pur unificate da una comune istanza risarcitoria, sono dirette al
conseguimento di beni giuridici distinti e si fondano su fatti costitutivi autonomi». La Corte
osserva infatti che, pur fondandosi le due domande su un presupposto comune (rapporto di
lavoro) il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile resta circoscritto entro
i limiti della controversia svoltasi fra le parti, per come in concreto segnati dal petitum e dalla
causa petendi della stessa, ed implica che fra la questione decisa in modo espresso e quella
che si vuole essere stata risolta implicitamente sussista un rapporto di dipendenza
indissolubile, tale da determinare l’assoluta inutilità di una decisione sulla seconda questione,
e che la questione decisa in modo espresso non sia stata impugnata. L’elemento veramente
decisivo, in questo caso, era però dato dal fatto di essere in presenza, in questo caso, di un
giudicato di rigetto della domanda proposta in via principale per la condanna del datore al
– 261 –
Il criterio del «rapporto di dipendenza indissolubile» tra le questioni, al
fine di stabilire se una decisione espressa su una questione dipendente
comporta un giudicato implicito sulla questione pregiudiziale serve,
prevalentemente ai fini dell’individuazione dell’operatività del giuidcato
materiale sostanziale.
Nell’ottica endoprocessuale, la categoria è usata abbastanza
impropriamente, al fine di definire empiricamente la formazione delle
preclusioni sui punti di merito, ma non ha senso, perché è illogico ipotizzare
che l’affermazione di una certa qualificazione giuridica comporta l’implicita
negazione, con efficacia di giudicato interno, di tutte le altre possibili
qualificazioni, in mancanza di espressa impugnazione: invero, se si è formato
il giudicato interno sulla qualificazione giuridica del rapporto, perché il tema
non è stato devoluto, direttamente o indirettamente, al giudice
dell’impugnazione, oppure il giudizio di qualificazione può essere in thesi
riformulato, perché non è possibile immaginare un onere a carico della parte
di censurare tutte le possibili ricostruzioni alternative117
. Senza addentrarci in
questo tema assai complesso, ci limiteremo dunque a verificare in che misura
l’attuazione del principio di diritto, che deve guidare il rifacimento del
giudizio di merito, è garantita dalla preclusione all’esame degli antecedenti
logici necessari di merito, che costituisce, riteniamo, uno dei corollari
specifici del princpio di diritto effettivamente, o esiste un giudicato interno
esplicito (su un fatto, su una qualificazione giuridica: non determinato ne
versamento dei contributi assicurativi per il periodo dicembre 1982/luglio 1989, e la
negazione a questo fine della sussistenza del rapporto di lavoro si è ritenuta non valere per la
diversa domanda, proposta in via subordinata, per il risarcimento del danno ex art. 2116,
comma 2, c.c. (quest’ultima domanda da qualificarsi, in difetto di prova delle condizioni per
l’accesso al trattamento pensionistico, come domanda di risarcimento del danno da
irregolarità contributiva. 117
Per interessanti riflessioni su questi temi, GNANI, Se la contestazione
dell’appellante sul solo fatto costitutivo implichi giudicato interno sull’esistenza del diritto:
brevi note in tema di acquiescenza c.d. impropria, effetto devolutivo dell’appello e parte di
sentenza, nota ad App. Torino, 23 maggio 2003, in Giur. it. 2004, 3.
– 262 –
2.3. Preclusioni sui punti di merito dopo l’annullamento della sentenza per
violazione o falsa applicazione di norme di diritto.
Posto che nel giudizio di rinvio non c’è spazio per il rilievo di nullità
processuali, carenze di presupposti processuali, difetto di condizioni per la
proponibilità della domanda che avrebbero dovuto essere discusse e rilevate
nelle fasi di merito pregresse ovvero censurate in Cassazione e non lo sono
state, si tratta ora di vedere come si configurano i compiti del giudice di
rinvio in relazione al merito della causa passata al suo esame dopo la
pronuncia del principio di diritto in caso di accoglimento del motivo di
ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ovvero in caso
di accoglimento della censura di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.
Partiamo dalla prima ipotesi.
Va premesso, al riguardo, che il discorso è reso più agevole – anche se
non del tutto risolto - dal fatto di impostare il problema dell’emersione dei
materiali di causa da un passaggio da un grado all’altro del giudizio
nell’ottica per cui i motivi specifici di impugnazione servono ad individuare i
punti di fatto e di diritto della sentenza impugnata che si intendono sottoporre
a critica118
; le difficoltà discende da ciò, che, all’interno della «fattispecie»
storica in fase di accertamento, possono esserci diversi profili – anche dotati
di autonomia concettuale ma collegati tra di loro – che incidono nel senso di
spostare l’asse della sussunzione da una norma all’altra; sì da determinare,
118
Salvo che per le questioni di rito, che in occasione dell’accoglimento del vizio di
cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. pervengono per intero, per così dire, dinnanzi al giudice
dell’impugnazione. Nel senso della «minor pervasività del principio dispositivo in ordine al
“contenuto” delle questioni processuali» che possono essere devolute al giudice
dell’impugnazione rispetto al corrispondente esercizio di impulso alla revisione delle
statuizioni di diritto, sulla base dell’osservazione che «ogni volta che il codice nomina una
questione di rito, anche a proposito del suo riesame in sede di impugnazione, essa è sempre
considerata unitariamente», v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 374; 372, ove alla nt. 641, i
riferimenti normativi contenuti nel codice alle fattispecie processuali: il difetto di
giurisdizione, all’art. 37; le nullità (artt. 156 ss.); l’estinzione (artt. 306 ss.); etc.
– 263 –
rispetto alla ricostruzione precedentemente articolata, «la ricostruzione di una
fattispecie diversa»119
.
Si dovrebbe, al riguardo, quanto meno partire dall’assunto che, con
riguardo alle questioni di merito che sono «tecnicamente autonome» ma non
«logicamente autonome»120
, il dissodamento, ad opera della Cassazione, del
«punto» comune a più fattispecie astratte ipotizzabili dispone una riapertura,
se è vero che la possibilità di ritenere operante il giudicato implicito,
nell’ipotesi di ricostruzioni/qualifiche giuridiche alternative, appare assai più
difficile da ammettere121
. D’altro canto anche in presenza di una discussione,
119
Per usare la terminologia di DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1347. 120
Cfr. GIUDICEANDREA, Le impugnazioni civili, cit., 66, per il quale le parti di
sentenza «possono essere tra di loro: a) autonome, cioè fondate su presupposti di fatto e di
diritto diversi e tali da rendere a sé stanti le singole parti; b) non autonome, cioè fondate su
presupposti di fatto e di diritto che sono tra loro in relazione tale da far dipendere la
decisione contenuta in una delle parti dalla decisione contenuta in un’altra delle parti stesse.
In questa seconda ipotesi, la decisione contenuta nella parte da cui dipende la decisione
dell’altra costituisce presupposto necessario rispetto a quest’ultima, che può definirsi,
invece, parte dipendente». 121
Ci sembra sia, questa, un’idea che può trarre conforto dalla considerazione – ad
opera di chi, esaminando il complesso meccanismo della devoluzione dei materiali di causa
nelle fasi di impugnazione, ne ha ricavato una sicura ricostruzione in base a cui la parte di
sentenza che rileva, ai fini della impugnazione e dell’acquiescenza parziale, è la «decisione
di questione», sul singolo punto di fatto e di diritto – di quelle che vengono individuate
come deroghe alla tendenziale attitudine «sostitutiva» della pronuncia – anche ad opera della
Cassazione – sulla questione di diritto, ovvero l’essere il dictum in iure della Corte Suprema
la «statuizione-premessa del giudizio rescissorio che vincola positivamente sul punto il
giudice di rinvio»: POLI, I limiti oggettivi, cit. 501, nt. 164, su cui, infra. Ebbene, per questo
A., la regola è la seguente: che la Suprema Corte emette «una pronuncia sostitutiva sulla
singola questione di diritto sostanziale ad essa devoluta, attraverso l’affermazione del
principio di diritto, indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti per la pronuncia nel
merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. novellato: infatti, nelle ipotesi in cui viene censurata la
statuizione relativa alla qualificazione giuridica della fattispecie o alla individuazione della
disposizione applicabile (o del suo contenuto, o di alcuni dei suoi effetti), all’accertamento
del vizio, segue, di regola, poiché in ciò si concreta l’affermazione del principio di diritto,
l’esatta qualificazione giuridica della fattispecie (ciò che sembra inevitabile, ad es., nelle
ipotesi di sindacato della sussunzione di una fattispecie concreta in una disposizione
contenente un c.d. concetto giuridico indeterminato piuttosto che in un’altra del pari
contenente un altro concetto dello stesso tipo) o l’esatta determinazione del contenuto e degli
effetti della disposizione applicabile alla fattispecie»: ID., op. loc. ult. cit. Tuttavia, per Poli,
sono senz’altro ipotizzabili delle eccezioni, in cui tale pronuncia sostitutiva piena non viene
– 264 –
nelle pregresse fasi di merito, sulla soluzione di singole questioni relative alle
situazioni soggettive portate in giudizio ove non sia richiesta una nuova
decisione, si può discutere se esse passino o no in giudicato122
.
emessa dalla Suprema Corte. Tali eccezioni ricorrono, in particolare, «quando si contesta
l’erroneità della sussunzione effettuata dal giudice di merito, senza indicazione di
un’alternativa, nemmeno attraverso impugnazione incidentale, anche condizionata, e
l’eventuale attività di qualificazione integrativa della Corte finirebbe, inammissibilmente, per
porre a fondamento della decisione una questione diversa a quella sottopostale: qui la Corte
può e deve arrestare il suo dictum all’accertamento dell’erronea sussunzione, attraverso
l’emanazione di un principio di diritto essenzialmente negativo» (ID., op. loc. ult. cit., c.n.).
In proposito, l’a. specifica che «quando invece si contesta la negata sussunzione, da parte del
giudice di merito, invocata nella precedente fase, la Corte, se accoglie il ricorso, nella
maggior parte dei casi provvederà ad indicare la corretta sussunzione, emanando in tal caso
un principio eminentemente positivo, vincolante per il giudice di rinvio»: ID., op. cit., 502,
nt. 164. Inoltre, è dato rilevare che di norma accade che la Corte, trovandosi a valutare
diversi aspetti sollevati con i motivi di ricorso e perciò a pronunciare diversi principi di
diritto, in accoglimento di più motivi ovvero in forza dell’esame congiunto degli stessi e del
loro accoglimento «per quanto di ragione», enunci un unico principio di diritto che risolve
varie ipotesi ricostruttive, ma per definire l’una o l’altra occorre tornare a ricavare un
elemento dalla fattispecie concreta: se si è discusso, nell’arco del processo, sull’attivazione
ed i presupposti della garanzia prestata dal fideiussore, e la Cassazione dice, ad es., che
l’indicazione dell’importo massimo garantito va fatta per iscritto contestualmente alla
fideiussione, qualificata come omnibus secondo la prassi bancaria e riguardata come tale nei
gradi di merito, ma è necessaria, ai sensi dell’art. 1938 c.c., solo se la fideiussione è prestata
in relazione ad un’obbligazione futura, e non nel caso di un’obbligazione condizionale, in
sede di rinvio la questione se l’obbligazione garantita fosse un’obbligazione condizionale
diventa pregiudiziale ed impedisce che si consideri passata in giudicato interno la questione
della validità della fideiussione omnibus se fatta o meno con la contestuale fissazione per
iscritto dell’importo massimo garantito, a nulla rilevando, in termini di validità della
fideiussione, eventuali accordi successivi alla stipula della fideiussione omnibus. V. anche il
caso del principio di diritto preventivo, su cui retro, capitolo I, nt. 119, nella vicenda
esaminata da Cass. civ., Sez. I , 25 febbraio 2009, n. 4587, in cui la Corte decide profili
relativi ai «criteri di determinazione del danno subito dagli investitori (…) e di
aggiornamento o di adeguamento monetario della somma liquidata dal giudice in ordine
logico successivi rispetto al momento dell’an della responsabilità dei commissari ed esperti,
sul quale il giudice del rinvio dovrà nuovamente a pronunciare», e quindi fissando principi di
diritto apertamente ipotetici, in quanto condizionati da una cronologicamente successiva
valutazione sull’an della pretesa da parte del giudice di rinvio. 122
Al riguardo, nel riflettere sulle conclusioni raggiunte da RASCIO, op. cit., 242,
sull’ipotesi in cui oggetto di dibattito sia la soluzione di singole questioni giuridiche relative
alle situazioni soggettive portate in giudizio, ipotesi per cui Rascio riconosce la formazione
del giudicato interno ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c., ove non venga richiesta una
nuova decisione su tali questioni in appello, Poli pone dei distinguo: «questa soluzione»,
– 265 –
La premessa è necessaria perché, a fronte del punto di diritto della
sentenza del giudice a quo rescisso, si tratta di stabilire cosa c’è di vincolato
dalla pronuncia di cassazione e se e quale dibattito si possa considerare
riaperto; la disciplina di cui all’art. 336, comma 1, c.p.c., secondo cui la
riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza
dipendenti dalla parte riformata o cassata, la quale consente la devoluzione al
giudice dell’impugnazione dei capi di sentenza dipendenti da quello su cui
incide il motivo accolto nei limiti in cui ciò serva a coerenziare le parti
dipendenti da quelle incise e riformate, si deve confrontare con la possibilità
che, in cassazione, la rescissione operata su un punto (in luogo della
decisione nel merito, resa sulla base dei fatti accertati e pienamente
sostitutiva) pone un diaframma tra l’attività di individuazione e di
interpretazione della norma e quella di applicazione della norma ai fatti da
accertare e da rivalutare (in casi marginali, da istruire ex novo).
La circostanza che, verificata dalla Corte Suprema l’erroneità
dell’interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie ovvero secondo l’a., «può essere condivisa solo per le ipotesi di attore soccombente che non chiede,
con l’atto di appello, il riesame di alcune domande rigettate … non anche per le ipotesi di
appello proposto dal convenuto soccombente, nelle quali, essendo la fattispecie costitutiva
cristallizzata nella sentenza impugnata – oggetto diretto dell’impugnazione – l’indicazione
dei motivi specifici consente sempre la pronuncia sul merito della situazione giuridica
controversa, ovvero sull’oggetto diretto dell’impugnazione»: così, POLI, I limiti, cit., 36, nt.
58. Questo dovrebbe giustificare non solo la proponibilità dell’eccezione, ma anche il rilievo
d’ufficio della nullità del contratto per cui è causa in fase di appello; che però è uno dei pochi
casi chiari, per quanto riguarda il giudizio di rinvio, di antecedente logico necessario «di
merito» del principio di diritto che riguardi, ad es., l’adempimento del contratto. Secondo la
giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 22 marzo 2005, n. 6170, in Corr. giur. 2005, 962
ss., con nota di MARICONDA, La Cassazione rilegge l’art.1421 c.c. e si corregge: è vera
svolta?; e in Resp. civ. prev. 2006, 1674 ss., con nota critica di PILLONI, La Cassazione e il
rilievo ex officio della nullità tra oggetto del giudicato, principio dispositivo e
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato), peraltro, la nullità del contratto si pone come
una questione pregiudiziale in senso logico-giuridico (che il giudice decide con effetto di
giudicato anche esterno, si badi) non solo rispetto alle azioni di esatto adempimento, ma
anche rispetto alle azioni di risoluzione, rescissione ed annullamento del contratto
(nell’ambito delle quali, per inciso, viene da un certo orientamento negata la possibilità del
rilievo d’ufficio della nullità del contratto, per via dell’esigenza di non violare il principio
della domanda).
– 266 –
nell’attività di sussunzione di una certa fattispecie storica sotto una certa
norma giuridica da parte del giudice a quo (quindi in accoglimento del
ricorso ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)123
si verifica, nella maggior parte
dei casi, una sostituzione piena della decisione della questione giuridica da
parte del principio di diritto, che esclude quella sussunzione verosimilmente
indicando la diversa sussunzione che secondo la Corte è corretta, deve fare i
conti con il fatto che lo schema di sussunzione proposto dal principio di
diritto non è necessariamente protetto dal giudicato dal giudicato interno: dal
momento che, per la formazione del giudicato interno, non è sufficiente che
la statuizione non sia oggetto di impugnazione (qui – ovvero nel passaggio
dalla cassazione al giudice di rinvio – per inimpugnabilità) ma è altresì
necessario che essa sia «logicamente autonoma»; mentre, nella ricostruzione
giuridica della fattispecie, gli schemi di sussunzione, di costruzione dei
rapporti norma-fatto, ai fini della dichirazione dell’effetto, si caratterizzano
per essere (inter)dipendenti o alternativi124
. Perché quindi possa
comprendersi appieno il vincolo prodotto dal principio di diritto, è necessario
verificare in che modo il giudice di rinvio mantiene in vita ed applica il
dictum portato dalla sentenza della Suprema Corte (la cui efficacia abbiamo
visto essere, nelle ricostruzioni più convincenti e meno smentibili,
123
Sulle diverse interpretazioni in ordine alla rapportabilità degli errori nell’attività di
sussunzione allo schema della «violazione» o alla «falsa applicazione» di norme di diritto, v.
retro, capitolo 2, nt. 24 nel par. 1.2. 124
C’è bisogno del riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere dell’autore
del danno, perché si possa escludere una responsabilità dell’autore del danno ai sensi dell’art.
2046 c.c., ma se il danno è stato causato, ad es., dal cane del presunto incapace, e si discute
del caso fortuito, che la Corte, interrogata sui presupposti del riconoscimento della colpa
dell’autore del danno nella causazione del proprio stato di incapacità, abbia statuito su cosa
debba intendersi per «colpa» a quel fine può diventare irrilevante se la fattispecie completa
che deve essere esaminata è data dall’art. 2052 c.c. Sulla relatività del concetto di fattispecie,
v. retro, capitolo secondo, nt. 90 nel par. 2.2. Il presupposto comune da accertare è
l’esistenza del nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso non interrotto dal caso
fortuito: se questo elemento è in discussione, ed è in grado di condizionare l’applicazione
dell’una o dell’altra norma, la pronuncia della Corte sulla fattispecie pregiudicata non passa
evidentemente in giudicato interno. Invero, quasi mai il punto da decidere perviene da solo
innanzi alla Cassazione.
– 267 –
un’efficacia «interna» di tipo accertativo125
: v. retro, capitolo secondo),
sebbene, per via delle relazioni di implicazione logica dei rapporti di
pregiudizialità-dipendenza di merito, non sia sempre tecnicamente possibile
invocare il giudicato implicito; ad esempio ove siano contemporaneamente in
ballo due fattispecie autonome quanto a presupposti e ad effetti ma c’è un
elemento condizionante comune che è ancora sub iudice126
.
Ciò posto, è noto che, nel dirigere la causa verso la decisione nel merito,
il giudice di rinvio rinviene gli spazi della decisione entro i limiti segnati, da
un lato, dalla pronuncia di annullamento e, dall’altro lato, dalle conclusioni
rassegnate dalle parti nel giudizio di provenienza della sentenza cassata.
A questa stregua, va evidenziato il ruolo che l’art. 394 c.p.c. svolge nella
definizione dei poteri del giudice in sede di rinvio. Tale norma, come noto,
impone alle parti di non prendere conclusioni di diverse da quelle prese nel
giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la «necessità»
125
Sono infatti culturalmente lontani i tempi in cui predominava «una concezione
limitata della pronuncia di cassazione», che dava «esclusiva accentuazione dell’effetto
rescindente, quasi che in esso si esaurisse ogni efficacia»: così, CERINO CANOVA, Le
impugnazioni civili, cit., 484, proseguendo: «Indubbiamente tale impostazione è anche nella
legge, che identifica la statuizione della S. Corte proprio per il suo portato cassatorio (v. artt.
382-384). L’accentuazione di questa prospettiva sacrifica però una dogmatica concezione
della sentenza, perché ne pretermette un profilo che le compete come provvedimento
giurisdizionale: e dunque, la funzione di attuare concretamente il diritto. Rispetto a questa
più completa visione, non è sufficiente affermare che la sentenza cassa ovvero rescinde.
Piuttosto, si dovrebbe dire che essa rende concreta un’astratta volontà di legge, la quale
prevede la cassazione» (ID., op. cit., 484). L’Autore, in conclusione, rifacendosi al
tradizionale insegnamento secondo cui ad ogni sentenza costitutiva compete anche un effetto
di accertamento, recupera da BÖTTICHER, Der Zwischenurteilscharakter des gemäss § 565
ZPO aufhebenden und zurückverweisenden Revisionsurteils und die sich hieraus ergebende
Erstreckung der Bindung auf die Zurückweisung von Revisionsangriffen, in MDR, 807, nt. 3,
una considerazione intorno ad analoghe questioni nel corrispondente rimedio tedesco che
trova anche da noi calzante: e cioè che «molti dei problemi relativi agli effetti vincolanti
della pronuncia in Revision sono scaturiti da una concezione meramente ablativa della
dall’altro giudice: anzitutto con una verifica della tenuta logica della
motivazione; poi con un controllo sulle ragioni e sulla loro correttezza sotto il
profilo giuridico dell’interpretazione e, ancor prima, della scelta della norma
applicata: «si può dire probabilmente che la Cassazione fa l’inverso del
cammino seguito dal giudice di merito; posto il fatto come vero, si controlla
se esso è stato correttamente qualificato sotto il profilo giuridico, il che
rimanda a sindacare l’interpretazione della norma applicata, ed
eventualmente anche a verificare se è stata giusta la scelta della norma
applicabile; se tutto ciò ha esito positivo, il sindacato può investire le
conseguenze giuridiche tratte da quella applicazione di quella norma al
fatto»133
.
Ripercorrendo all’inverso il ragionamento giustificativo, la Corte potrà
verificare se concorda o meno con le ragioni che sono addotte dalla sentenza
nel giudizio giuridico; controllare, in caso di esito negativo, se il punto di
giudizio relativo a quell’argomentazione carente costituisce un vizio di
merito; infine procedere all’annullamento o limitarsi a correggere la
motivazione secondo che il vizio ci sia oppure no. In ogni caso, ripercorrere a
ritroso i singoli passaggi nei quali si è articolato il singolo giudizio di diritto,
la Corte può verificarne la correttezza. Se la verifica ha esito positivo, nulla
quaestio. Se la verifica ha esito negativo, si pone l’esigenza di riformulazione
del giudizio di diritto, e quindi dell’attività – di applicazione della norma
scelta ed interpretata – che si svolge secondo lo schema ermeneutico sub A.
Posta questa premessa per inquadrare il tipo di attività di giudizio
disimpegnata dalla Cassazione, lo schema può essere utilizzato per cercare di
inquadrare l’attività del giudice di rinvio. Se la Corte procede al rinvio ai
sensi dell’art. 383 è perché, controllando le argomentazioni svolte dal giudice
a quo ha rinvenuto un passaggio non convincente della sentenza, ha
132
TARUFFO, op. cit., 120. 133
TARUFFO, op. cit., 121.
– 272 –
riscontrato delle ragioni giuridiche erronee e non fungibili con altre corrette
con conseguente erroneità del dispositivo, ritenendo perciò di dover
riformulare il giudizio, di scegliere un’altra norma applicabile ovvero di
interpretare diversamente quella posta a base della decisione erronea.
Dopodiché, si deve passare alla fase dell’applicazione della norma ai
fatti di causa: e qui potrà darsi che, trattandosi di un’operazione automatica,
la Corte possa effettuare il passaggio dall’astratto al concreto senza dover
svolgere nuovi apprezzamenti di fatto, allorquando la premessa di diritto
(ri)formulata si trovi, ad es., a ridosso di un fatto semplice, già accertato e
non più contestabile134
. Diversamente, in presenza della necessità di nuovi
accertamenti, sarà necessario rimettere la decisione della causa al giudice di
rinvio.
Nel momento in cui il giudice di rinvio riceve il principio di diritto a
cui dare applicazione, dunque, egli deve in pratica realizzare una sintesi tra
una certa premessa di diritto, sorta dall’analisi e dal rifacimento del giudizio
sulla questione di diritto svolti dalla Corte Suprema, ai fatti rilevanti per
quella causa. Si potrà trattare, secondo i casi: a) di fatti “nuovi” rispetto al
processo, ossia di accadimenti ed elementi storici non considerati rilevanti
nelle pregresse fasi di merito ed il cui ingresso, nel giudizio di rinvio, è reso
necessario dalle aperture consentite dalla pronuncia di annullamento (arg. ex
art. 394 c.p.c.); b) ma, più spesso, di fatti molteplici i quali, sebbene in ipotesi
pacifici, non contestati o in qualunque modo provati, necessitano di
rivalutazione complessiva, alla luce della diversa qualificazione giuridica
offerta dalla Suprema Corte alla fattispecie dedotta nel giudizio (ed è in
effetti dubbio che, in tali casi, la Cassazione possa decidere nel merito,
procedendo ad una nuova valutazione della fattispecie); c) di fatti che furono
134
Come nel caso in cui, stabilita la Corte Suprema una certa decorrenza del termine
prescrizionale, anteriore a quella prescelta dalla sentenza impugnata, la verifica della
scadenza del termine dell’eccepita prescrizione può essere considerata come frutto della
sussunzione di fatto semplice alla premessa di diritto formulata dalla Corte, sicché è
necessario evitare di disporre inutilmente il rinvio.
– 273 –
temi di allegazione od anche oggetto di offerta di prova, quindi già introdotti
nel processo, per i quali è necessario stabilire, alla luce della premessa di
diritto formulata dalla Suprema Corte, se è stata o no raggiunta la prova; se
c’è stata, o meno, contestazione, ecc …
Ebbene, in questa prospettiva, l’attività del giudice di rinvio non si
presta ad essere compiutamente inquadrata in uno dei modelli indicati di
attività di giudizio, in quanto è un’attività, per un verso, di completamento (di
applicazione della norma ai fatti) del giudizio altrui (del giudizio della
Suprema Corte); per altro verso, salvo il caso – raro – sub a) di esigenze
istruttorie relative a fatti semplici “nuovi” al processo, è un’attività di ri-
valutazione dei fatti (la quale non può non essere un’attività mediata che si
estrinseca nel controllo del giudizio di fatto del giudice di merito pregresso),
dove però il rapporto norma-fatto è prestabilito, per via dell’esistenza del
principio di diritto, e la ricostruzione dei fatti deve “servire” alla
qualificazione giuridica somministrata dalla Suprema Corte.
Dunque, entrambe le attività del giudice di rinvio si svolgono nel solco
tracciato dal principio di diritto; dal punto di vista dello spazio decisorio, il
giudice di rinvio interviene in relazione al punto di merito su cui il principio
viene pronunciato, dovendo e potendo esaminare tutte diverse questioni che
da lì si diramano; dal punto di vista della ricostruzione storica, dovrà andare
alla ricerca degli elementi di fatto atti ad essere sussunti e comunque rilevanti
alla luce del giudizio di diritto già formulato. Ad esempio, se la Corte ha
fornito una certa qualificazione giuridica, il giudice di rinvio dovrà affrontare
una serie di questioni intermedie, che è necessario porre per procedere alla
«scelta dei fatti semplici» da sussumere sotto quella qualificazione
giuridica135
, e dunque riconsiderare i fatti non solo in relazione alla questione
135
Terminologia di Siracusano, ripresa da POLI, I limiti oggettivi, cit., 348, nt. 565.
– 274 –
tecnica centrale ma anche alle singole sottopremesse, le quali andranno
istruite a loro volta136
.
La stabilità del principio di diritto (o meglio, la sua applicazione al caso
da definire in sede di rinvio) è assicurata appunto da ciò, che, da un lato, non
si rimettono in questione i presupposti di fatto/diritto che hanno portato la
136
Cass., 27 ottobre 2010, n. 2196 è una sentenza dalla quale tutti questi profili della
cognizione del giudice di rinvio emergono con nettezza, perché è un caso in cui il ricorrente,
riportando la causa una seconda volta in Cassazione, mirava a far dichiarare la violazione dei
principi di diritto affermati nella prima sentenza di cassazione e nel contempo a censurare
una serie di vizi ulteriori: l’esame di tale pronuncia dà la misura dell’ampiezza che in quel
caso è stata riconosciuta alla cognizione del giudice di rinvio. Il principio di diritto che era
stato in prima battuta somministrato al giudice di rinvio era del seguente tenore: per negare
applicazione alla clausola di salvezza dell’art. 742 c.p.c. (in virtù della quale, a fronte della
revoca o alla modifica di un decreto – nella specie, di autorizzazione ad una vendita di un
bene di un minore – sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in forza di
convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca) è sufficiente la conoscenza, da parte
dell’acquirente, della frode ordita dall’infedele amministratore dell’eredità condizionata, che
sia attuata mediante la vendita di un immobile; non è necessaria, invece, la partecipazione o
comunanza o concerto dell’acquirente in relazione alla frode. Questo essendo il principio da
applicare, il giudice di rinvio procedeva ad esaminare la questione della conoscenza della
frode da parte dell’acquirente attraverso l’esame di una serie di sottoquestioni: in primo
luogo, le ragioni dell’occultamento di gran parte del prezzo pagato (chiedendosi se il
pagamento “sottobanco” di gran parte del prezzo fosse una semplice modalità di pagamento
dettata da ragioni di risparmio fiscale oppure rappresentava il mezzo per occultare
clandestinamente l’attuazione di una operazione incompatibile con il regime autorizzatorio al
quale l’atto doveva soggiacere, a tutela del minore istituito erede; valutando la circostanza
che l’impegno finanziario dell’acquirente, ulteriore e diverso rispetto a quello richiesto nel
decreto di autorizzazione, era servito a soddisfare debiti per i quali erano state iscritte
ipoteche sull’usufrutto dell’immobile venduto, onde verificare se, con la corresponsione
“sottobanco” di somme al venditore e da questi fatte proprie, l’acquirente avesse
consapevolmente assecondato il disegno dell’usufruttuario ed amministratore infedele
dell’eredità del minore, permettendogli di pagare suoi debiti personali – che erano garantiti
sul solo usufrutto a lui spettante – anche grazie all’alienzazione della nuda proprietà
spettante al minore, e con ciò sviando l’atto dalle finalità dichiarate nel chiedere
l’autorizzazione); in secondo luogo, la questione se la conoscenza della frode desunta da
comportamenti concernenti soggetti diversi dai legali rappresentanti della società potesse
essere imputata alla società acquirente; infine, se la prova della conoscenza della
macchinazione poteva essere desunta da contegni successivi all’acquisto. La Cassazione
difende l’operato del giudice di merito, dimostrando con ciò di convalidare non solo il
merito, ma anche il metodo seguito dal giudice di rinvio, di revisione in fatto e diritto di
ciascun profilo emergente dal punto di diritto investito dal principio ex art. 384 c.p.c.
– 275 –
Corte ad una certa ricostruzione della fattispecie ed alla sua qualificazione
giuridica e, dall’altro, il giudice di rinvio tenderà a recuperare e rivalutare –
con un controllo sull’attività dei precedenti giudici – i fatti che la
ricostruzione giuridica fatta propria dalla Corte ritiene rilevanti, solo in casi
particolari e, diremmo, eccezionali provvedendo all’istruzione dei fatti
ulteriori.
La verifica dell’insussistenza degli elementi di fatto che il principio di
diritto pretende di sussumere costituisce anch’essa applicazione del principio
di diritto, nel senso della negazione degli effetti giuridici legati alla norma
giuridica individuata dalla Corte Suprema nel dictum: se la Corte afferma che
la clausola-oro è nulla e dice al giudice di rinvio di applicare questo
principio, costituirà applicazione di tale principio la verifica, da parte del
giudice di rinvio, che il contratto per cui è causa non contiene una clausola-
oro.
Conclusivamente, sul punto, in quello che potremmo definire il vettore
della formazione della decisione attraverso le varie fasi di impugnazione, che
procede dall’appello, giunge in cassazione e da lì perviene al giudizio di
rinvio, la sintesi tra i fatti e la norma può essere ancora compito del giudice
d’appello (sicuramente, nella forma più libera, è compito del giudice di primo
grado, che è il primo a fornire un inquadramento giuridico alla fattispecie
dedotta dalle parti); a tale sintesi procede ora anche la Cassazione, quando,
accolto il ricorso e dichiarata la norma sotto la quale va sussunta la
fattispecie, non vi sia necessità di «ulteriori accertamenti di fatto»; al giudice
di rinvio spetta invece il compito di completare la ricostruzione della
fattispecie nei termini indicati dalla Suprema Corte, realizzando la sintesi tra
norma e fatti, secondo un modello sussuntivo in qualche modo logicamente
inverso a quello seguito dal giudice d’appello e dal giudice di merito in
generale, che muove dal fatto per arrivare alla norma: partendo dalla norma il
giudice dalla norma, per inquadrare il fatto, logicamente è assai più probabile
– 276 –
che il giudice accerti la «insussistenza della stessa fattispecie» oggetto del
dictum piuttosto che «l’accertamento di una fattispecie diversa»137
.
2.5. Poteri del giudice di rinvio nel caso in cui la sentenza di annullamento
ha accolto la censura di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.
Quella di cui al n. 5 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. è, con
riguardo alla configurazione dei motivi di ricorso per cassazione, la censura
che più frequentemente subisce i rimaneggiamenti del legislatore delle
riforme della Cassazione, nella speranza di esiti deflattivi.
I risultati concreti di tali interventi si rivelano tuttavia sempre piuttosto
limitati, perché il motivo in questione tende – per via del suo stesso oggetto
metagiuridico, ossia il controllo della logicità e congruità del giudizio di fatto
– a riempirsi dei contenuti del diritto vivente, più che delle articolate
locuzioni esibite, di volta in volta, dal legislatore.
È, storicamente, nota la sostanziale insensibilità della portata assegnata
dalla Suprema Corte al c.d. vizio di motivazione rispetto alla formula
linguistica utilizzata livello normativo, a causa di radicate tradizioni
dogmatiche sul tema del controllo in cassazione sul giudizio di fatto e di una
prassi autodeterminatrice con cui la Suprema Corte ha da sempre rivendicato
a sé il compito di definire presupposti e limiti di tale potere di controllo, in
forza del proprio – inevitabile – compito di dare contenuto ed applicazione
alla disposizione (art. 132 c.p.c.) che inserisce i motivi, ovvero la
motivazione (ora, le ragioni di fatto e di diritto della decisione) nel contenuto
obbligatorio delle sentenze138
.
Ciò spiega perché difficilmente la dottrina, quando interviene una
modifica sull’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è disposta ad ammettere
137
Ancora avvalendoci delle parole di DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1347. 138
Contenuto peraltro rapportato al diritto alla motivazione costituzionalmente
garantito nel precetto di cui all’art.111 Cost.
– 277 –
l’idoneità della riforma a determinare significativi cambiamenti sul piano
pratico; di rado, in effetti, questo scetticismo viene smentito.
Così è avvenuto anche in occasione della riforma del 2005/2006, che ha
modificato l’art. 360, n. 5 c.p.c. nel senso di prevedere che il vizio di omessa,
insufficiente, contraddittoria motivazione debba vertere sopra un «fatto
controverso e decisivo per il giudizio» e non più sopra un «punto decisivo
della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio», come esigeva
la vecchia formula.
La dottrina maggioritaria, a commento di tale modifica, ebbe infatti a
segnalarne la scarsa portata innovativa sul sistema del controllo della
Cassazione sulla motivazione, osservando come all’interno della nozione di
«fatto» contemplata dalla formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. risultante
all’esito della riforma del 2005/2006 si presti ad essere ricompreso «tutto ciò
che finora era ricondotto al “punto”»139
.
In concreto, poi, non si sono registrate sensibili variazioni della prassi
nel trattamento e nella definizione dell’ambito di applicazione della censura
in questione.
È sempre alla riforma del 2005/2006 che si deve l’ampliamento del
potere-dovere della Corte di cassazione di pronunciare il principio di diritto
ai casi in cui essa decide di censure diverse da quella prevista al n. 3 del
primo comma dell’art. 360 c.p.c.; ma anche in questo caso deve riconoscersi
139
Così, SASSANI, Il nuovo giudizio di cassazione, cit., 225 s.; nello stesso senso, tra
gli altri, TARUFFO, Una riforma della cassazione civile?, cit., 780; CARRATTA, Sentenze
impugnabili e motivi di ricorso, 322 ss.; POLI, Il giudizio di cassazione dopo la riforma, cit.,
12; in senso opposto, v. invece, MONTELEONE, Il nuovo volto della cassazione civile, cit.,
947 ss., il quale vede nella riforma una vera restrizione dell’ambito di controllo sulla
motivazione da parte del giudice di legittimità ai fatti costitutivi delle posizioni giuridiche
dedotte in lite e non più al controllo dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice a quo.
Anche l’attribuzione della qualifica di «controverso» al fatto non sembra, all’attuazione
pratica, poter escludere la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione sui «fatti
pacifici» ove la carenza motivazionale incida sulla concludenza del fatto stesso. In questo
senso, TARUFFO, Una riforma della cassazione civile?, cit., 780 ss.; CARRATTA, Sentenze
impugnabili e motivi di ricorso, cit., 328; POLI, Il giudizio di cassazione dopo la riforma, cit.,
12 ss.
– 278 –
che l’impatto innovativo della novella è stato relativo, almeno nel senso che
neanche prima della modifica operata dalla riforma sull’art. 384, primo
comma, c.p.c., si è mai dubitato del fatto che le statuizioni rese dalla Corte in
accoglimento della censura proposta ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
esplicassero un’efficacia vincolante, quantomeno di natura negativa, in capo
al giudice del rescissorio; un’efficacia che costituiva d’altro canto il portato
diretto di una normatività insita nella stessa sentenza di cassazione, a
prescindere dal motivo di ricorso accolto.
Era – ed è – inoltre pacifico che il contenuto minimo di questa efficacia
vincolante, con riguardo alla pronuncia di accoglimento della denuncia ex art.
360, n. 5, c.p.c., consiste nell’imposizione al giudice di rinvio dell’obbligo di
non ripetere l’iter motivazionale censurato, dovendosi in sostanza escludere
la possibilità, per il giudice di rinvio, di fondare la propria decisione sulla
medesima combinazione apprezzamento di fatto-motivo, ritenuta dalla
Cassazione inidonea a fondare la definizione della controversia140
.
Altrettanto duffusa è l’opinione secondo cui, proprio perché i limiti che
il giudice di rinvio incontra nella decisione della controversia esibiscono,
prevalentemente, natura negativa, l’accertamento del vizio di motivazione
rappresenta l’ipotesi di cassazione della sentenza dalla quale possono
derivare maggiori aperture cognitorie nel giudizio di rinvio.
Se si scorrono i repertori, è facile rilevare che le massime sono
consolidatissime, con riguardo al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sia nel
senso di affermare – a conferma del vincolo a contenuto quantomeno
negativo – il principio per cui l’annullamento della pronuncia per difetto di
motivazione impone al giudice di rinvio di giustificare il proprio
convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato
nella sentenza di annullamento e, quanto meno, gli vieta di fondare la
decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti dalla
140
E.F.RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 169 ss.
– 279 –
Cassazione illogici, gravandolo invece del compito di rimuovere le
contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati; sia nel senso di
ribadire – a riprova della maggiore libertà di cui gode il giudice del rinvio
disposto in accoglimento della censura della sentenza impugnata per vizio di
motivazione – che la pronuncia rescindente, che indichi i punti specifici di
carenza o di contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata,
non limita il potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti specificati,
da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, così che egli
mantiene tutte le facoltà ed i poteri in tema di indagine e di valutazione della
prova che gli competono quale giudice di merito141
.
Da tali massime, emerge con chiarezza l’idea che l’effetto principale
che la sentenza d’annullamento per vizio di motivazione produce rispetto ai
poteri del giudice di rinvio si estrinseca, appunto, nella funzione negativa di
porre al giudice di rinvio il divieto di fondare la decisione di merito sugli
stessi elementi che la Corte abbia ritenuto contraddittori o insufficienti; con
la precisazione che, quando la Corte accoglie la censura di cui al n. 5 dell’art.
360 c.p.c., la sentenza rescindente non si limita ad annullare la sentenza di
merito e a dichiarare decisivo il fatto mal motivato, ma esprime, anche in
maniera implicita, una sorta di «progetto» di iter logico-argomentativo che il
giudice avrebbe dovuto e non ha, invece, seguito, e che il giudice di rinvio è
tenuto a ripercorrere.
141
C’è unità di vedute al riguardo. Ex plurimis, Cass. 14 giugno 2006, n. 13179; Cass.
26 agosto 2004, n. 17004; Cass. 16 maggio 2003, n. 7635 e molte altre. Per la giurisprudenza
penale, v. Cass. pen. 21 giugno 2005, n. 30422; Cass. pen. 4 luglio 2003, n. 36995, la quale
afferma che «nell’ipotesi di annullamento per vizio motivazionale, il giudice di rinvio – pur
restando libero di determinare il proprio apprezzamento di merito mediante autonoma
valutazione dei dati probatori e della situazione di fatto concernente i punti oggetto di
annullamento – è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema
esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, con il vincolo di
dare alla decisione una motivazione congrua e il divieto di fondarla sugli stessi argomenti dei
quali sia stata dichiarata l’illegittimità o l’illogicità»; nello stesso senso, v. anche Cass. pen.
12 giugno 2002, n. 31449; Cass. pen. 8 ottobre 1997, n. 9476; Cass. pen. 27 marzo 1991,
Schittino.
– 280 –
In effetti, la motivazione della sentenza di Cassazione che accoglie la
censura di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non è esclusivamente funzionale
all’emanazione della sentenza rescindente, ma è anche idonea ad influire sul
successivo sviluppo del processo, come struttura base – la cui portata varia
secondo lo specifico vizio accertato, come si vedrà tra breve – del più ampio
percorso giustificativo che dovrà essere compiuto dal giudice di rinvio142
.
L’ammissibilità di un effetto vincolante «positivo», per il giudizio di
merito, della pronuncia della Cassazione che accoglie la censura per vizio di
motivazione – di un vincolo, cioè, che supera il contenuto minimo del
divieto, in capo al giudice di rinvio, di fondare la propria decisione sugli
elementi ritenuti insufficienti e contradditori dalla Suprema Corte – si profila
con riferimento alla possibilità che il giudizio di «decisività» del fatto operato
142
Percorso giustificativo che non potrà perciò prescindere dallo schema di
motivazione proposto dalla Corte per introdurre temi di indagine nuovi, pena la violazione
del vincolo; in questo senso, la riapertura della cognizione del giudizio di rinvio è in realtà
limitata, se si ha riguardo alla domanda. Ad es., la Suprema Corte ha censurato, appunto, la
ribellione al vincolo da parte del giudice di rinvio, nella fattispecie all’esame di Cass. 10
maggio 2005, n. 9733: la controversia verteva sulla illegittimità del licenziamento in tronco
intimato al lavoratore (addetto ad un casello autostradale), per aver compiuto taluni illeciti
connessi alla sua posizione lavorativa (era stata accertata l’avvenuta doppia utilizzazione dei
biglietti autostradali). La sentenza cassata aveva negato la legittimità del licenziamento
perché non risultava accertata la imputabilità del comportamento al lavoratore, potendo
l’illecito essere stato commesso dalla postazione di questi, ma durante le pause lavorative
non annotate. La sentenza è stata cassata per vizio di motivazione, che la Corte Suprema
ritenuto insufficiente nella parte in cui non indicava la possibilità che il dovere di
annotazione delle pause lunghe poteva trovare ratio tanto in un obbligo contrattuale, quanto
in un onere del lavoratore, per esonerarlo da qualunque responsabilità, essendo comunque
quest’ultimo l’unico responsabile della sua postazione lavorativa. L’oggetto del rinvio,
conseguentemente, consisteva nell’accertamento della natura dell’obbligo delle annotazioni,
per verificare se il lavoratore fosse sempre responsabile della propria postazione, e se questi
potesse essere esonerato dalla responsabilità dell’illecito solo fornendo la prova che altri
occupava detta postazione al momento dell’allontanamento per una pausa breve. Al
contrario, il giudice di rinvio ha completamente disatteso l’obbligo di seguire le direttive
della Corte, dando alla controversia un’impostazione del tutto nuova, ed introducendo nuovi
temi d’indagine: egli, infatti, ha ritenuto insussistente la responsabilità del lavoratore sulla
base del mancato raggiungimento della prova dell’elemento soggettivo del dolo di
appropriazione. La sentenza è stata, ovviamente, nuovamente impugnata in cassazione ed
annullata con rinvio. V., altresì, Cass. 16 maggio 2003, n. 7635; Cass., sez. un., 28 ottobre
1997, n. 10598. In dottrina, PANZAROLA, La Cassazione civile, vol. II, cit., 563 ss.
– 281 –
dalla Corte di cassazione debba essere ritenuto vincolante per il giudice di
rinvio.
La giurisprudenza e la dottrina largamente maggioritaria sono orientate
nel riconoscere la sussistenza di tale vincolo143
.
143
In giurisprudenza, nel senso che il giudice di rinvio non possa mettere in
discussione il carattere di decisività del punto, v. Cass. 20 aprile 2005, n. 8244, per la quale
«in caso di accoglimento del ricorso per cassazione per omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, il giudice del rinvio
dovrebbe limitare il riesame dei fatti in ordine ai quali il rinvio è stato disposto, alle
circostanze attinenti ai punti decisivi indicati nella sentenza di cassazione e a quelle legate ad
essi da un nesso di dipendenza logica, in quanto anche per la cassazione per vizio di
motivazione vige il principio nel ne bis in idem. Il giudice del rinvio, pertanto, dovrebbe
nuovamente valutare quei punti della controversia ritenuti, nella sentenza di annullamento,
potenzialmente idonei a giustificare una decisione diversa da quella impugnata». In
applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha accolto il ricorso promosso avverso la
sentenza del giudice di rinvio, designato al fine di pronunciarsi sulla responsabilità del
Comune per omessa manutenzione dell’impianto fognario pubblico, rispetto all’allagamento
di un locale commerciale. La sentenza di merito, che aveva escluso qualunque prova della
responsabilità dell’ente territoriale, era stata cassata per omessa motivazione su un punto
decisivo, che nella specie consisteva nel non aver tenuto conto che dalla C.T.U. svolta in
giudizio era emersa l’idoneità dell’impianto privato allo smaltimento delle acque in
situazione di normalità, e non soltanto l’inidoneità dello stesso a fronteggiare situazioni
eccezionali (quest’ultimo profilo della C.T.U era l’unico ad essere stato preso in
considerazione dal giudice di merito). Valutando tale aspetto della controversia, infatti, si
sarebbe potuta configurare una diversa ricostruzione della fattispecie, considerando
l’effettiva incidenza causale di ciascuna concausa nella produzione dell’evento dannoso.
Altro aspetto decisivo della controversia, disatteso dal giudice di rinvio, era l’utilizzabilità, al
fine della ricostruzione dei fatti, dell’accertamento peritale svolto nelle precedenti fasi di
merito, sulla base della convinzione che detta C.T.U. non fosse riconducibile con certezza al
giorno in cui si era verificato l’evento dannoso e risultasse comunque priva di riscontri che
provassero con certezza che il danno era stato provocato dalla condotta omissiva del
Comune. Ancora, il giudice di rinvio aveva omesso di valutare il risultato di una prova
testimoniale, qualificando la testimonianza come generica, profilo negato, poi, in sede
rescindente, ove era stata definita circostanziata e precisa. Unicamente valutando tutti gli
aspetti decisivi già disattesi dalla sentenza d’appello, il giudice di rinvio avrebbe potuto
emettere una pronuncia, anche contraria a quella annullata, ma inimpugnabile nuovamente
per cassazione per vizio di motivazione. Omettendo tali valutazioni, al contrario, il giudice
del rescissorio ha reiterato il vizio logico già rilevato dalla Suprema Corte ed ha esposto la
pronuncia ad un nuovo annullamento con rinvio. Emerge chiaramente la necessità che il
giudice di rinvio esamini, prima di tutto, gli aspetti decisivi relativamente ai quali la sentenza
rescindente ha rilevato il vizio di motivazione, nella fattispecie che ha dato luogo a Cass. 14
giugno 2000, n. 8125, sentenza di cassazione della sentenza del giudice di rinvio il quale,
chiamato a sopperire alle lacune argomentative della sentenza del giudice di merito, ha
– 282 –
completamente disatteso l’esame dei punti della controversia ritenuti decisivi e mal motivati.
In concreto il giudice di merito aveva riformato la sentenza di risoluzione del contratto per
mancanza delle qualità promesse dei prodotti venduti, senza, peraltro, nulla dire riguardo la
sussistenza nel prodotto delle qualità richieste. Cassata tale sentenza per illogicità della
motivazione per aver omesso qualunque riferimento sulla sussistenza delle qualità, il giudice
di rinvio ha correttamente esaminato preliminarmente il punto in questione, considerando
tutti gli atti di causa dai quali emergeva l’assenza delle qualità richieste, ma ha poi ampliato,
oltre i limiti concessigli, la sua cognizione, negando il diritto dell’acquirente sulla scorta del
rilievo per il quale quest’ultimo conosceva ab initio la mancanza delle caratteristiche de
quibus. Così pronunciandosi, il giudice di rinvio ha messo in discussione un punto della
decisione d’appello la cui cognizione gli era preclusa in quanto costituente un presupposto
del punto decisivo investito dalla censura. In concreto, la questione relativa alla verifica della
sussistenza delle caratteristiche richieste presuppone l’acquisizione del dato per cui l’accordo
si è concluso sulla vendita di beni dotati di quelle qualità. Escludendo tale presupposto di
fatto, il giudice di rinvio, non solo ha travalicato i limiti dei poteri conferitigli, ma ha altresì
destituito il giudizio di decisività sul punto relativo alla sussistenza di dette qualità sul
prodotto venduto. Lo stesso principio si rinviene nella motivazione in Cass. 18 giugno 2003,
n. 9690; Cass. 16 gennaio 1996, n. 308; Cass. 16 marzo 1995, n. 3073; Cass. 13 aprile 1995,
n. 4228; Cass. 19 aprile 1990 n. 3228; Cass. 23 marzo 1988, n. 2540. Nello stesso senso v.
altresì, la risalente Cass. 6 giugno 1967, n. 12647, in Giur. it. 1968, I, 851 ss., con nota di E.
F. RICCI, In tema di cassazione per vizio di motivazione e di vincoli a carico del giudice di
rinvio. In dottrina, v. DENTI, I giudicati sulle fattispecie, cit., 1340; FAZZALARI, Il giudizio
civile di cassazione, cit., 160; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. II,
cit., sub art. 394, 309; ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, vol. II, cit., 312; CERINO
CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 629; REDENTI, Diritto processuale civile, cit., 535, il
quale afferma che il giudice di rinvio è tenuto a prendere in considerazione il fatto ed
accertarne l’esistenza o l’inesistenza (si verum sit) e, nel primo caso, porlo a fondamento
della decisione; MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, vol. I, cit., 1951. Una posizione del tutto peculiare, al riguardo, pur nella identità di esiti rispetto alla soluzione
maggioritariamente accolta, è quella accolta da Ricci. Egli ritiene infatti che la questione
relativa alla efficacia imperativa del giudizio sulla decisività del fatto ritenuto erroneamente
motivato deriverebbe dall’accoglimento della censura di cui al n. 3, non di quella di cui al n.
5 dell’art. 360 (E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 167 ss.). Ciò in quanto la Corte,
ove valuti che il giudice di merito non ha ritenuto rilevante un fatto, che invece considera
rilevante ai fini della decisione, compie «una vera e propria sussunzione del caso controverso
entro schemi normativi», operazione che rientrerebbe logicamente nel giudizio sul vizio
rientrante nell’art. 360 n. 3 c.p.c.: così, E.F. RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 168, il
quale osserva che lo stesso rilievo non si sarebbe potuto muovere alla originaria
formulazione dell’art. 360, n. 5 c.p.c., che integrava il contenuto del vizio di motivazione con
l’omesso esame di fatti decisivi, e quindi proprio con l’erronea valutazione circa la rilevanza
di un fatto che, alla luce della riformulazione della norma nel 1950, può, invece, configurare
una ipotesi di violazione di norme di diritto: ID., op. ult. cit.,168, nt. 163. Il vizio di
motivazione, invece, atterrebbe ad un momento successivo a quello del giudizio sulla
rilevanza di un fatto: riguarderebbe le argomentazioni poste a sostegno del giudizio
sull’inesistenza o inesistenza del fatto che il giudice di merito ha ritenuto rilevante (E.F.
– 283 –
Non mancano, peraltro opinioni discordi, che tuttavia appaiono
fortemente condizionate da una concezione meramente rescindente del
giudizio e della sentenza di cassazione144
; ci sembra peraltro di aver chiarito
le ragioni per cui tale concezione non appare condivisibile.
L’opinione maggioritaria sembra invece omologabile nella misura in
cui si aderisca ad una nozione di «decisività di un fatto» intesa sì come
idoneità a giustificare una decisione diversa da quella impugnata, ma in senso
solo «potenziale»145
: in tal modo, dire che nel giudizio di rinvio deve tenersi
RICCI, Il giudizio civile di rinvio, cit., 168; ID., In tema di cassazione per vizio di motivazione
e di vincoli a carico del giudice di rinvio, cit., 853. Conseguentemente, il divieto per il
giudice di rinvio di tornare a discutere sulla decisività del fatto, in presenza
dell’accoglimento della censura di cui al n. 5 da parte della Cassazione, non sarebbe
riconducibile al dictum della Cassazione, ma alla preclusione del potere di rimettere in
discussione punti logicamente antecedenti a quello colpito dalla censura accolta (E.F. RICCI,
Il giudizio civile di rinvio, cit., 168). 144
In posizione nettamente critica all’orientamento dominante, che afferma il
carattere vincolante della statuizione sulla decisività del punto, si pone, ad es., TAVORMINA,
Contributo, cit., 232. La soluzione che nega qualunque forma di vincolo in capo al giudice di
rinvio derivante dalla sentenza di cassazione si inserisce nell’ottica più ampia assunta dall’a.
in merito alla configurazione del giudizio di cassazione come mezzo puramente rescindente:
per cui il giudizio sulla decisività del punto è una valutazione interna al ragionamento che ha
compiuto il giudice e che non può avere alcuna efficacia all’infuori di questo, anche in
ragione della natura del fatto ritenuto decisivo, il quale potrà essere sia un fatto principale
costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del diritto, sia un fatto secondario posto o da
porre a fondamento di una presunzione ai fini dell’accertamento del fatto principale: di
conseguenza, a meno di non voler attribuire al fatto secondario la capacità di sopravvivere
all’esterno del ragionamento del giudice per dargli vincolatività nel giudizio di rinvio, ed a
non voler ammettere che il giudizio sulla decisività su un fatto principale abbia un’efficacia
più profonda rispetto al medesimo giudizio su un fatto secondario, se ne deduce che in ogni
caso il giudizio sulla decisività del fatto è destinato a stare e a cadere con la motivazione del
giudice a quo, come segmento del ragionamento che ha condotto alla decisione, che perde
ogni efficacia ove l’intero iter logico del giudice sia caducato dalla sentenza di cassazione. 145
In tal senso, Cass. 20 aprile 2005, n. 8244. Per questa condivisibile nozione di
decisività non sembra cogliere del tutto nel segno la correzione che all’interpretazione
dominante sembra voler apportare ANDRIOLI, Commento, vol. II, cit., sub art. 384, 583,
quando sostiene che il giudice di rinvio è sì tenuto a riesaminare il fatto colpito dalla censura
della Corte, ma non anche a ritenerlo decisivo, in quanto il vizio di motivazione «suppone
una certa scacchiera di fatti, ma nulla esclude che l’ampliamento di tale scacchiera, reso
possibile nell’ambito proprio del giudizio di rinvio, muti la correlazione e privi di decisorietà
il punto che la Cassazione aveva ritenuto decisivo»; nello stesso senso MICHELI,
L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di cassazione, cit., 32, nt. 1, il
– 284 –
fermo il giudizio di decisività del fatto, equivale, in un certo senso, a dire ciò
che la giurisprudenza ripete costantemente anche a prescindere dal problema
della decisività del fatto, ossia che la sentenza che dichiara fondato il vizio di
cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. impone al giudice di rinvio di giustificare il
proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente
enunciato nella sentenza di annullamento, e quindi di passare
necessariamente attraverso il nuovo esame del fatto decisivo e per la
chiarificazione delle ragioni per cui esso viene eventualmente ritenuto
inidoneo a determinare una diversa soluzione della quaestio facti e della
controversia, secondo la prospettazione del ricorrente.
Orbene, dal breve excursus che precede, emerge che, in relazione al
giudizio di fatto per il quale è disposto il rinvio in seguito al riconoscimento
della fondatezza, ad opera della Corte, del c.d. vizio di motivazione, il
giudice del rescissorio risulta vincolato su un triplice fronte: i) nel non dover
fondare la propria decisione sugli stessi elementi ritenuti inidonei ed
insufficienti dalla Suprema Corte, ciò che si tradurrebbe in una illegittima
ripetizione del vizio censurato; ii) nel dover ritenere decisivo il fatto
considerato come tale dalla Suprema Corte, implicitamente o esplicitamente,
(limite, questo, che si concretizza nella necessità, per il giudice di rinvio, di
riesaminare il fatto prospettato come decisivo dalla sentenza di cassazione e
nel conseguente onere, a carico del giudice di rinvio, di fornire un’adeguata e
congrua motivazione circa la ritenuta inidoneità di tale elemento decisivo a
fondare la revisione del giudizio di fatto nella direzione indicata dal
quale osserva che l’efficacia vincolante del dictum della Corte è affievolita nel caso di
cassazione ex art. 360, n. 5, c.p.c.rispetto all’imperatività che esso ha, sul nuovo giudice, nel
caso di cassazione per violazione di norme di diritto, in ragione dell’osservazione per cui, se
è vero che il giudice di rinvio deve ritenere un fatto come decisivo, ove ciò sia detto dalla
sentenza di cassazione, non si può, tuttavia, escludere che lo stesso giudice di rinvio fondi
poi la propria decisione su altri fatti che ritenga decisivi e che escludano la decisività del
primo.
– 285 –
ricorrente) iii) nel dover procedere comunque ad argomentare la propria
decisione secondo lo schema desumibile dalla sentenza rescindente.
Ebbene, questi limiti alla cognizione del giudice di rinvio, desumibili
della sentenza di cassazione che accoglie la censura per vizio di motivazione,
si atteggiano, nel loro portato pratico, in maniera differente a seconda del
vizio che sia stato in concreto accertato.
Qualora, infatti, il vizio si concreti in omessa motivazione, il giudice di
rinvio dovrà «riapprezzare gli elementi di valutazione concernenti il fatto
interessato dal vizio e, quale che sia il suo convincimento al riguardo,
indicare approfonditamente gli elementi dai quali ha tratto il proprio
convincimento»146
.
In caso di omesso esame di un fatto, ovvero di omesso esame di un
documento o di un’istanza istruttoria, il giudice di rinvio «dovrà riapprezzare
gli elementi di valutazione del fatto tenendo conto degli elementi di fatto o
146
POLI, I limiti oggettivi, cit., 505. In questo senso, v. Cass. 16 gennaio 1996, n. 308;
la controversia in esame verteva sulla computabilità, ai fini della quantificazione
dell’indennità di anzianità e del T.F.R., degli emolumenti aggiuntivi corrisposti al lavoratore
nel periodo di collocazione lavorativa all’estero; la sentenza cassata aveva affermato la
natura retributiva delle somme corrisposte nel periodo di collocazione lavorativa all’estero, e
ne aveva dichiarato la computabilità nel T.F.R. La Suprema Corte ha rilevato che la sentenza
di merito aveva completamente omesso di motivare il punto relativo alla natura delle voci di
indennità estero. La sentenza rescindente ha, poi, indicato i criteri interpretativi della norma
relativa al trattamento di ciascuna voce dell’indennità estero, stabilendo che la natura
retributiva e la conseguente computabilità nel T.F.R. potevano essere riconosciute alle sole
erogazioni connesse alla professionalità del lavoratore. Il giudice di rinvio, operando una
nuova valutazione di tutti gli elementi di causa, ha escluso la natura retributiva di una sola
delle voci componenti l’indennità estero, in particolare l’indennità di disagio, proprio
applicando i criteri interpretativi forniti dalla sentenza rescindente, e rilevando che la ratio di
detta voce non fosse riconducibile alla professionalità del lavoratore. La sentenza del giudice
di rinvio è stata nuovamente sottoposta al vaglio della Suprema Corte, la quale ne ha
confermato la legittimità, argomentando sulla base del rilievo per cui la regola interpretativa
posta dalla sentenza rescindente era senz’altro vincolante, ma limitatamente alla corretta
interpretazione della norma di legge e non anche alla sua applicazione alla fattispecie
concreta, essendo la sussunzione della fattispecie concreta nella norma astratta un
procedimento logico oggetto del libero riesame affidato alla nuova autorità giurisdizionale,
quando il rinvio sia avvenuto per omessa motivazione. Il giudice di rinvio può, pertanto,
liberamente apprezzare il fatto, attenendosi ai criteri forniti dalla Suprema Corte unicamente
nella formulazione del giudizio di diritto.
– 286 –
istruttori trascurati nella sentenza impugnata ed esprimere il proprio
convincimento, anche identico, a quello del primo giudice»147
.
Infine, in caso di insufficiente o contraddittoria motivazione, egli
«dovrà riapprezzare gli elementi di valutazione concernenti il fatto
interessato dal vizio»148
.
147
L’obbligo per il giudice di rinvio di esaminare gli elementi trascurati dalla
sentenza di merito annullata è frequentemente affermato in giurisprudenza. In questo senso
v. Cass., sez. un., 28 ottobre 1997, n. 10598, che ha rigettato il ricorso avverso la sentenza
del rinvio, disposto per vizio di motivazione della sentenza di condanna emessa dal
Consiglio Superiore della Magistratura in un procedimento disciplinare contro un magistrato
che aveva preso parte ad una loggia massonica. Il vizio di motivazione censurato consisteva
nell’omesso esame di elementi dai quali avrebbe potuto emergere la non consapevolezza, da
parte del magistrato, dell’incompatibilità tra il suo status lavorativo e la sua permanenza
nella Massoneria. La sentenza di rinvio, effettuate le valutazioni richieste dalla sentenza
rescindente, ha confermato la condanna del magistrato; la sentenza rescissoria è stata
impugnata in cassazione per mancato adeguamento al dictum della sentenza rescindente,
sotto il profilo che l’indicazione fornita dalla Corte integrasse un principio di diritto,
vincolante per il giudice di rinvio. La censura mossa dal ricorrente è stata rigettata dalla
Suprema Corte, in ragione del principio per cui la cassazione per vizio di motivazione non
vincola il giudice di rinvio all’uniformazione a quanto stabilito dalla sentenza rescindente,
che non presuppone, da parte della Suprema Corte, un riesame delle risultanze istruttorie per
sostituire il proprio convincimento a quello espresso dal giudice di merito, ma soltanto un
vaglio di eventuali lacune e contraddizioni logiche che inficiano la motivazione di fatto.
Relativamente all’obbligo del giudice di rinvio di esaminare gli elementi istruttori trascurati
dal giudice che ha emanato la sentenza cassata, v. Cass. 23 marzo 1988, n. 2540; nel caso di
specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza del giudice di rinvio chiamato a decidere
la questione relativa alla titolarità di un pacchetto di titoli di credito emessi da un istituto di
credito estero in capo ad una delle parti, la quale era stata trovata in possesso di un
documento da cui risultavano detti titoli di credito. La sentenza di merito aveva escluso il
raggiungimento della prova della titolarità dei titoli di credito in questione ed era stata
cassata per omesso esame di tutti gli elementi indiziari sfavorevoli alla parte (tra cui il
principio dell’id quod plerumque accidit). Conseguentemente, il giudice di rinvio ha
correttamente riesaminato tutti gli elementi ed ha affermato la titolarità dei titoli di credito in
capo alla parte per la quale era stata precedentemente esclusa. 148
In giurisprudenza, sul dovere del giudice di rinvio di riapprezzare gli elementi
viziati da insufficiente motivazione, v. Cass. 19 aprile 1990, n. 3228, ove la Suprema Corte
censura la sentenza del giudice di rinvio che non aveva compiuto gli accertamenti necessari
al fine di risolvere la questione dell’aliunde perceptum, nella controversia vertente sul
maggior danno da licenziamento illegittimo. La questione era stata rimessa al giudice di
rinvio proprio perché il giudice di merito della fase precedente non aveva fornito una
sufficiente motivazione sul mancato raggiungimento della prova. In Cass. 16 marzo 1995, n.
3073, il giudice di legittimità conferma la sentenza del giudice di rinvio, il quale aveva
– 287 –
Poiché peraltro, restano ferme, nel giudizio di rinvio, le preclusioni
prodottesi nella pregressa fase di merito, sicché ciò che non è stato allegato o
provato resta non allegato e non provato nel giudizio di rinvio (a meno che la
censura non involga il giudizio per il quale non si ritenne raggiunta la prova
di un certo fatto, formulato dalla sentenza impugnata e cassato dalla Suprema
Corte), il compito del giudice in sede di rinvio si tradurrà, in molti casi, nel
controllare la congruità della precedente decisione, rivalutando le risultanze
processuali alla luce dello schema giustificativo proposto dalla sentenza
rescindente.
In realtà, quello che fa apparire meno intenso il vincolo determinato
dalla pronuncia della cassazione disposta all’esito di una censura ai sensi del
n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – rispetto all’ipotesi in cui il giudice di rinvio riceve la
causa in seguito all’accoglimento della censura di cui al n. 3 dell’art. 360
c.p.c. – è in realtà la più ampia (o la normale) possibilità, per il giudice di
rinvio che è gravato del compito di rimediare al vizio di motivazione
compiuto dal giudice della sentenza annullata, di pervenire alle medesime
conclusioni della sentenza impugnata.
Difatti, il giudice di rinvio, investito del compito di adeguare l’iter
decisorio agli schemi logici indicati dalla Cassazione in occasione
dell’accoglimento della censura di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è libero di
ribadire, sebbene con motivazione diversa, più articolata, la stessa soluzione,
in punto di fatto, fornita dal giudice della sentenza impugnata. Ciò che gli è
invece inibito allorquando la censura accolta dalla Corte è quella di cui al n. 3
dell’art. 360 c.p.c., allorché egli potrà confermare la direzione della
soccombenza (genericamente intesa) già stabilita dalla sentenza annullata, ma
sopperito alla insufficienza della motivazione della pronuncia del giudice di merito, in ordine
alla prova di un contratto, in quanto la sentenza di legittimità aveva basato la prova
dell’esistenza del contratto unicamente sulla produzione in giudizio del documento non
firmato da una delle parti. Il giudice di rinvio ha correttamente integrato la motivazione
insufficiente con elementi probatori cha corroborano il giudizio di esistenza del contratto in
questione. In dottrina, v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 505, nt. 180.
– 288 –
dovrà necessariamente farlo sulla base di un’argomentata applicazione della
fattispecie normativa individuata dalla Corte e cristallizzata nel principio di
diritto.
Invero, in ipotesi di accoglimento della censura per vizio logico, la
riapertura del giudizio di rinvio alla «rivisitazione» della causa è spesso più
apparente che effettiva. O, se si preferisce, è effettiva ma nell’ambito dello
spazio limitato – su cui si è appunta la censura in cassazione ed il relativo
accoglimento – in ordine al convincimento circa l’esistenza o l’inesistenza
del fatto inteso come accadimento (fatto semplice, principale o secondario)
e/o al nuovo apprezzamento di tale fatto in connessione con altri fatti, l’uno e
gli altri oggetto del potere-dovere di rivalutazione «complessiva» a carico del
giudice di rinvio.
Apprezzamento e rivalutazione complessiva che si rendono necessari,
ad esempio: i) nel caso di fatti principali complessi, costituiti da più fatti
semplici che rappresentano i presupposti di una determinata disciplina, come
ad es., il vincolo di «dipendenza» ai fini dell’applicazione della tutela
rapporto di lavoro subordinato; ii) nel caso di concetti giuridici indeterminati,
come la «buona fede», e la «giusta causa» di licenziamento; iii) ovvero in
ipotesi di interpretazione del contratto, dove bisogna determinare il contenuto
e il peso relativo delle clausole, il rapporto di prevalenza in ipotesi di
incompatibilità, in ipotesi di causa mista ecc...
Certamente, l’apertura degli ambiti decisori del giudizio di rinvio è, in
concreto, tanto più estesa quanto più a monte, nel percorso giustificativo
della decisione emergente dalla motivazione della sentenza cassata, si colloca
il punto colpito dalla censura accolta; potendo il giudice del rinvio non solo
rivalutare la quaestio facti investita dalla censura e tutte quelle altre questioni
che si pongono in stretta correlazione logica con questa (per la comunanza di
un elemento, ovvero per il nesso teleologico che le avvince in funzione della
ricostruzione del fatto principale complesso contemplato dalla fattispecie
– 289 –
astratta)149
, ma anche decidere questioni di diritto rimaste assorbite per
effetto della soluzione della quaestio facti poi censurata (ad esempio, in tema
149
Ciò, nel solco del potere di riesame complessivo delle risultanze processuali. Sul
riconoscimento del potere del giudice di rinvio di compiere una valutazione complessiva del
materiale di causa, limitatamente alla parte della sentenza devoluta al giudice del rescissorio,
vi è unanimità sia in giurisprudenza che in dottrina. Per la giurisprudenza, che, accogliendo
l’interpretazione di parte di sentenza come decisione di questione limita gli ampi poteri del
giudice di rinvio allo specifico punto di fatto relativamente al quale la motivazione sia
risultata inidonea a sostenere la decisione tra le tante, v. Cass. 6 aprile 2004, n. 6707: nella
fattispecie, relativa all’impugnazione del licenziamento, la sentenza d’appello di rigetto della
domanda del lavoratore è stata cassata dal giudice di legittimità per carenza di motivazione
sul punto relativo alla possibilità di reimpiego del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione
complessiva riconducibile al datore di lavoro. Riassunto il giudizio in rinvio, il giudice ha
accordato tutela reale al lavoratore nonché tutela risarcitoria, condannando sia il Consorzio
da cui il lavoratore era stato assunto, sia l’Associazione collegata con il Consorzio, ritenendo
che i due enti, pur con distinta personalità giuridica, agissero in concreto come unicum e
dovessero essere, conseguentemente, considerati un centro di imputazione giuridica unitario.
L’oggetto del giudizio di rinvio era delimitato nei seguenti termini dalla sentenza
rescindente: fermo il punto relativo alla sussistenza di una situazione aziendale di crisi che
forniva un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, punto che non poteva più essere
messo in discussione, si sarebbe dovuto provvedere ad una nuova disamina delle risultanze
processuali, con un esame complessivo dei fatti e degli elementi probatori, per verificare se
effettivamente non sussistesse alcuna possibilità di repechage del lavoratore nel complesso
aziendale del datore di lavoro (tenendo conto che l’onere della prova in merito a tale
impossibilità grava sul datore di lavoro). Il compimento di queste valutazioni presupponeva
logicamente l’acquisizione di un dato ulteriore: la titolarità dell’unico rapporto datoriale in
capo ai due enti collegati, con riferimento alla verifica del requisito numerico dei lavoratori
dipendenti per l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Proprio la motivazione
addotta dal giudice di rinvio a sostegno dell’unitarietà delle due organizzazioni è stata
nuovamente sottoposta al vaglio del giudice di legittimità che ha censurato la pronuncia per
omesso esame di punti decisivi della controversia, tale da non consentire l’identificazione del
procedimento logico-giuridico posto a base della decisione. Il giudice di rinvio, in concreto,
non ha valutato accuratamente tutti gli elementi acquisiti in ordine al collegamento
economico e funzionale tra le società, per verificare se detto collegamento avesse perseguito
o meno fini fraudolenti, e la relativa pronuncia è stata, per tale ragione, nuovamente cassata
con rinvio. La sentenza esaminata permette di evidenziare il portato pratico dell’opzione
interpretativa della nozione di parte di sentenza come decisione di questione rispetto
all’oggetto del giudizio di rinvio; la cassazione della sentenza ha investito, secondo la
ricostruzione che la stessa Corte ha fornito in sede di secondo giudizio di legittimità, soltanto
il punto della sentenza relativo all’impossibilità di un reimpiego del lavoratore nell’azienda.
Detto punto di fatto, nell’iter motivazionale, costituiva un posterius rispetto al punto relativo
all’accertamento della crisi aziendale, aspetto, quest’ultimo, che in quanto uscito indenne dal
vaglio della Corte, non poteva costituire oggetto del giudizio rescissorio, limitato
all’accertamento della possibilità di utilizzare ancora il lavoratore nell’azienda. È su questo
– 290 –
specifico aspetto che si sarebbero potuti (rectius dovuti) spendere i pieni poteri del giudice di
rinvio, estesi anche alla facoltà di accertare fatti ulteriori legati da un nesso di dipendenza
logica con quello espressamente censurato (in concreto, il punto relativo all’unitarietà del
datore di lavoro come presupposto applicativo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori). Al
contrario, ove la Suprema Corte avesse aderito alla nozione di “parte di sentenza” come
decisione di domanda, tutti i punti di fatto relativi alla dichiarazione di illegittimità del
licenziamento, compreso il punto relativo alla sussistenza di un’effettiva situazione di crisi
aziendale, si sarebbero dovuti intendere come caducati dalla cassazione e riaperti dinanzi al
giudice di rinvio con un evidente ampliamento, a nostro avviso ingiustificato, dell’ambito
cognitivo del giudice rescissorio, il quale avrebbe potuto decidere differentemente alcuni
aspetti di fatto che la Suprema Corte aveva, pur implicitamente, reputato immuni da vizi,
esercitando quegli ampi poteri di cui sta trattando per rimettere in discussione ciascun
sillogismo che costituisce la decisione finale della domanda originaria nel suo complesso. La
medesima ratio decidendi si ravvisa in Cass. 16 maggio 2003, n. 7635, che ha rigettato il
ricorso della parte soccombente in rinvio, la quale ha impugnato la sentenza rescissoria nella
parte in cui, confermando la sentenza di appello, rigettava la domanda di pagamento e
risarcimento dei danni dal soccombente promossa per la mancata corresponsione del
corrispettivo al rifornimento d’acqua da essa somministrato alla controparte. Non è stata
accolta, infatti, la censura avverso la sentenza del rinvio relativa alla rivalutazione dei fatti
sulla base dei quali era stata pronunciata la sentenza rescindente; in concreto, il ricorrente ha
lamentato che il giudice di rinvio, anziché calcolare il quantum dei beni per i quali era
accertato l’avvenuto rifornimento, aveva rimesso in discussione la premessa fattuale,
negando che la fornitura fosse stata effettuata. La Suprema Corte, adita per la seconda volta,
osserva che la prima cassazione non era avvenuta per violazione di legge e non comportava,
di conseguenza, un vincolo alla ricostruzione dei fatti operata nelle precedenti fasi di merito,
ma era avvenuta per vizio di motivazione, sub specie di contraddittorietà della stessa
relativamente alla premessa che la fornitura era avvenuta, anche se con falsificazione di atti e
documenti, e la conclusione che nessun corrispettivo era dovuto, in ragione del
comportamento fraudolento. Annullata in questi termini la sentenza di merito, tutte le
questioni relative al punto viziato sono state devolute il giudice di rinvio, il quale ha potuto
valutare nuovamente non solo l’errata conclusione, ma altresì le relative premesse fattuali, da
reputarsi travolte dall’effetto ablatorio della sentenza rescindente. Anche nella fattispecie in
esame la soluzione adottata dalla Suprema Corte presuppone l’adesione alla tesi per la quale
«parte di sentenza» coinciderebbe con la singola questione. In concreto, la questione oggetto
di cassazione per contraddittorietà della motivazione era il punto di fatto relativo alla
effettività della fornitura dedotta in giudizio e, tramite una rivalutazione complessiva dei fatti
relativi a questo specifico aspetto, il giudice di rinvio ha potuto sovvertire la decisione sul
punto precedentemente offerta dal giudice di merito (stabilendo, cioè, che la fornitura non
era avvenuta). La rivalutazione di tutti gli aspetti fattuali interni al punto caducato è altro
rispetto alla caducazione di ogni questione derivante dall’adesione alla nozione più estesa di
«parte di sentenza», in quest’ultimo caso si determina la possibilità di rivalutare ogni
questione di fatto decisa dalla sentenza di merito, anche se non espressamente censurata dalla
cassazione, mentre, nel caso in esame, il potere di rivalutazione dei punti di fatto compresi in
un’unica questione, costituisce lo sviluppo necessario per rimediare al difetto della
motivazione in fatto su quello specifico punto rilevato dalla Suprema Corte. Si è affermato il
– 291 –
di interpretazione del contratto, che è questione di fatto rimessa alla
discrezionalità del giudice di merito, qualora sia stata accolta in Cassazione la
censura per vizio logico in merito alla giustificazione della prevalenza di una
clausola sull’altra, di senso incompatibile rispetto alla prima, il giudice di
rinvio dovrà riformulare il giudizio di prevalenza unitamente a tutti gli altri
medesimo principio, per il quale l’annullamento per vizio di motivazione travolgerebbe tutte
le valutazioni dei fatti compiute in appello relativamente al punto affetto da vizio logico,
nella vicenda che si è conclusa con Cass., sez. un., 13 settembre 1997, n. 9095; si verteva su
un procedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura a carico di
un magistrato accusato di aver compiuto gravi violazioni delle disciplina processuale, avendo
omesso di comunicare al P.M. della Procura Antimafia le indagini da lui stesso svolte e dalle
quali emergeva un quadro probatorio rilevante ai fini di altri procedimenti pendenti su fatti di
mafia. Trattenendo l’inchiesta, anziché trasmettere gli atti alla Procura distrettuale antimafia
competente, il magistrato aveva commesso una violazione dell’art. 371 c.p.p. La sentenza di
condanna del magistrato, impugnata incidentalmente in Cassazione, era stata annullata per
vizio di motivazione per non aver tenuto conto della rilevanza dell’accertata violazione della
norma sulla competenza, con rinvio al giudice di merito per la valutazione di detto aspetto. Il
giudice di rinvio ha emanato, compiuta la valutazione trascurata, una nuova e più grave
sentenza di condanna, impugnata dal magistrato, il quale assumeva che i fatti e le risultanze
processuali riesaminati dal giudice di rinvio dovevano ritenersi definitivamente accertati
dalla sentenza assolutoria di primo grado e, quindi, non più sindacabili in sede di legittimità,
né riesaminabili in rinvio. La Corte afferma, invece, che, annullato lo specifico punto della
sentenza relativo alla valutazione della rilevanza della violazione commessa, il giudice di
rinvio acquista il potere di riesaminare ex novo tutte le risultanze processuali e di risolvere le
questioni devolutegli senza limitazioni di sorta, in quanto l’annullamento per vizio di
motivazione travolge la valutazione dei fatti compiuta in appello. Effetto questo che si
produce, giova sottolinearlo, limitatamente alle questioni che siano state devolute al giudice
di rinvio per effetto della censura della Cassazione, ferme restando le valutazioni dei fatti
sottesi a punti della decisione che non siano stati investiti dalla sentenza rescindente,
relativamente ai quali devono ritenersi ferme le preclusioni maturate dal passaggio da un
grado all’altro del processo. Anche nell’esame di quest’ultima sentenza, in altri termini,
acquista rilevanza l’accoglimento, da parte della Suprema Corte, della nozione restrittiva di
«parte di sentenza». Ove la Corte afferma che l’annullamento per vizio di motivazione
travolgerebbe tutte le valutazioni dei fatti compiute in appello, fa riferimento alle valutazioni
di fatti interni al punto censurato, non alle valutazioni di fatti che attengono a questioni
logicamente indipendenti da quella in cui si colloca il vizio, solo relativamente a queste
ultime, infatti, è scesa l’incontrovertibilità del giudicato, mentre le prime possono essere
ridiscusse in sede di rinvio, onde pervenire ad una decisione della questione ponderata
mediante un esame complessivo dei fatti ad essa sottesi. Su questo aspetto, in dottrina, v.
PANZAROLA, La Cassazione civile, vol. I, cit., 563 ss. Per la giurisprudenza penale che
afferma la libertà di rivalutazione dell’intero materiale di causa da parte del giudice di rinvio,
v. Cass. pen. 21 giugno 2005, n. 30422.
– 292 –
elementi discendenti dal contratto e quindi rideterminare la distribuzione di
obblighi, poteri e responsabilità discendenti dal contratto stesso) 150
.
Chiaramente, infatti, per quanto appare circoscritta l’unità decisoria in
punto di fatto suscettibile di autonoma considerazione ai fini
dell’acquiescenza151
(la decisione sull’esistenza o meno di un fatto
secondario152
, cioè quel fatto su cui si esercita il ragionamento presuntivo per
risalire, per induzione, al fatto principale ignorato), deve essere tuttavia
considerato il potenziale margine di espansione della cognizione allargata,
seppure nei limiti del condizionamento, autorizzato dall’art. 336, comma 1,
c.p.c.: perché, dalla diversa soluzione della questione relativa al fatto
secondario potrà dipendere, attraverso una rivalutazione complessiva dei fatti
secondari, il rifacimento del ragionamento presuntivo e dunque un diverso
150
Si allude perciò a tale fenomeno, della riemersione, in sede di rinvio, di questioni
assorbite, quando si afferma che, nelle ipotesi di accoglimento del ricorso per cassazione per
vizio di motivazione, la Corte dovrebbe limitarsi a disporre il rinvio, senza formulare
apprezzamenti circa la quaestio iuris; secondo taluno, questi apprezzamenti costituirebbero
meri obiter dicta: RENZI, Giudizio di rinvio ed un precedente richiamato. Sulla necessità che
la cassazione enunci «specificatamente» il principio di diritto, in Foro it. 2001, II, 2618 ss. 151
Per una chiarificazione su cosa debba intendersi per «autonoma» statuizione sul
presupposto di fatto, in senso tecnico ai fini dell’art. 329, comma 2, c.p.c., ossia nell’ottica
dell’acquiescenza e dell’impugnazione parziali, cfr. POLI, Oscillazioni della Suprema Corte
in tema di limiti oggettivi del giudicato interno, cit., § 4: «nei casi di affermazione, in
sentenza, di un presupposto di fatto della tutela richiesta, si ritrovano delle costanti nel
discorso del giudice, costanti in presenza delle quali può dirsi sussistere la autonoma “parte
di sentenza” rilevante ai nostri fini: «α) la presenza di una decisione, nel senso di asserzione
di esistenza/inesistenza del fatto sul quale è stato svolto l’accertamento; β) l’autonomia di
tale decisione nel contesto della sentenza rispetto ad altre decisioni, nel senso che la stessa si
fonda su valutazioni, di fatto (e/o di diritto), almeno parzialmente distinte ed autonome
rispetto a quelle poste a fondamento delle altre decisioni eventualmente presenti in sentenza;
γ) la decisività di tale decisione, ovvero la sua idoneità, se modificata in sede
d’impugnazione, a determinare una definizione della controversia, nel dispositivo, diversa da
quella adottata (…). In presenza di questi tre caratteri, il discorso del giudice ha efficacia
imperativa endoprocessuale, ovvero rappresenta un punto fermo nell’iter verso la decisione
di merito per il giudice che lo ha formulato e per il giudice dell’impugnazione, in mancanza
di una espressa censura della parte impugnante». ID., I limiti oggettivi, cit., 191 ss. 152
POLI, I limiti oggettivi, cit., 209, per il quale «“in fatto”, con la decisione sui fatti
semplici, si raggiunge il limite massimo di frazionabilità della sentenza rilevante ai fini
dell’impugnazione e dell’acquiescenza parziali».
– 293 –
giudizio intorno all’esistenza o meno del fatto principale; in ipotesi di
impugnazione di fatti principali semplici che concorrono a delineare fatti
principali complessi, dalla diversa soluzione data alla questione intorno
all’esistenza del fatto principale semplice potrà dipendere, in esito ad una
rivalutazione complessiva degli altri fatti semplici, un diverso giudizio sul
fatto principale complesso; e così via.
Come risulta evidente, la riapertura dei temi di cognizione nell’ambito
del giudizio di rinvio proclamata dalle massime nei casi di rinvio ai sensi
dell’art. 360, n. 5 c.p.c. è effettiva ma assolutamente circoscritta, in quanto
limitata al giudizio sul presupposto di fatto della tutela richiesta, secondo i
meccanismi che abbiamo esaminato.
Poiché il contenuto del provvedimento di cassazione accerta l’omessa o
insufficiente o contraddittoria motivazione sul fatto controverso e decisivo, si
tratterà di stabilire se la fattispecie ritenuta in sentenza è supportata dal
motivato convincimento sulla esistenza/inesistenza del fatto considerato e
dunque, di stabilire se il fatto principale corrispondente a quello contemplato
dalla norma è o non è accaduto; se si tratta di un fatto secondario, di rifare il
ragionamento presuntivo su quel fatto per giungere a ricavare un
convincimento sul fatto principale; ma resta fermo che, in presenza
dell’accoglimento della sola censura ex art. 360, n. 5, compito esclusivo del
giudice di rinvio è di riproporre a se stesso la quaestio voluntatis già
affrontata dal giudice di merito nel giudizio a quo ai fini dell’affermazione o
della negazione del fatto decisivo e controverso, questione a sua volta
funzionale all’affermazione o negazione della ricorrenza del presupposto di
fatto della norma e dell’effetto giuridico postulato dalla sentenza annullata.
In altri termini, il giudice potrà formarsi un diverso convincimento sul
fatto oggetto della censura e, per conseguenza, anche indiretta, sulla
ricorrenza o meno della fattispecie e dei suoi effetti: ma, restando fermo lo
schema normativo entro cui sussumere la fattispecie, non dovrebbe essergli
– 294 –
consentito di uscire dall’alternativa tra il riconoscimento e il disconoscimento
dell’effetto giuridico di cui si è occupata la sentenza annullata153
.
Diverso è il caso in cui la sentenza di cassazione accolga
contestualmente le censura ex art. 360 n. 3 e n. 5. c.p.c. In tale ipotesi, in
effetti, se le censure riguardano lo stesso binomio norma-fatto154
, il ricorrente
ottiene una rescissione della fase sussuntiva, dovuto ad uno smembramento
del binomio norma-fatto155
, da un lato, e all’accoglimento della censura sul
giudizio di fatto, dall’altro. E ciò potrà determinare in capo al giudice di
rinvio l’insorgenza del compito, stavolta effettivo, di rifare il giudizio che,
153
In questo senso, ci sembra, si muova Cass. civ., Sez. III, 6 marzo 2012, n. 3458,
secondo cui «… nel caso di annullamento della sentenza per vizi di motivazione, il giudice di
rinvio non può compiere un nuovo e diverso accertamento dei fatti che siano stati accertati
definitivamente e sui quali si è fondata la sentenza di annullamento» (Nel caso di specie, la
sentenza di annullamento aveva rimesso al giudice di rinvio il compito di verificare
responsabilità di un’amministrazione pubblica per fatto di un dipendente, che aveva sparato
ad un ragazzo, uccidendolo, nel corso di un diverbio occasionato da un controllo, stabilendo
“se il vigile, pur trovandosi in un primo tempo ad agire solo nell’espletamento di un compito
istituzionale, successivamente e cioè una volta provato (o provato in misura maggiore) il
“...risentimento..” nei confronti di un ragazzo abbia (o meno) cessato di agire per finalità
coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni in questione gli furono affidate ed abbia
(o meno) invece iniziato ad agire per un fine strettamente personale ed egoistico (ad es. lo
sfogo del risentimento predetto) assolutamente estraneo agli scopi dell’amministrazione, o
addirittura contrario ai fini che essa persegue; e quindi per un fine privo di ogni collegamento
con le attribuzioni proprie dell’agente (con conseguente cessazione del rapporto organico fra
l'attività del dipendente e la P.A.). Il giudice di rinvio aveva escluso la responsabilità
dell’ente comunale. Proposto ricorso dai genitori del ragazzo, la Cassazione si preoccupa di
ribadire che il giudice di rinvio deve uniformarsi alla statuizione di cassazione senza alcun
potere di controllo della sua giuridica correttezza o di manipolazioni interpretative
eventualmente necessarie per renderlo coerente agli arresti giurisprudenziali precedenti,
contestuali o successivi della corte di legittimità (con ciò dando per scontata la immutabilità
dell’inquadramento giuridico, che peraltro era in parzialmente incluso nella stessa – prima –
pronuncia di annullamento che aveva messo capo al rinvio). 154
Pur con i limiti che questa schematizzazione implica: sul punto,v. diffusamente
retro, capitolo secondo, nt. 90. 155
Naturalmente, in questo schema, il fatto del binomio norma-fatto è un frammento,
dotato di decisività, della più vasta fattispecie; mentre non coincide con il fatto secondario,
che ha una relazione con la fattispecie solo indiretta: ad ogni modo, la precisazione è
superflua, poiché per il tramite della discussione sul fatto secondario si dissoda il
convincimento circa un fatto principale direttamente contemplato dalla fattispecie normativa,
che è ciò che rileva.
– 295 –
malgrado la presenza performativa del principio di diritto, ripartirà dal fatto
per arrivare alla norma, consentendogli in effetti l’accertamento di «una
fattispecie diversa» da quella ritenuta nella sentenza di annullamento156
.
156
Uno scollamento tra principio di diritto e quadro fattuale emerso nel giudizio di
rinvio a seguito è alla base di Cass. 16 marzo 1995, n. 3073: nel caso di specie la sentenza di
merito dichiarativa della risoluzione di un contratto di locazione è stata annullata sia per
violazione di legge che per vizio di motivazione. Quanto al profilo dell’annullamento, la
Suprema Corte aveva fissato il principio di diritto per cui la firma di una delle parti al
contratto di locazione può essere sostituita dalla produzione in giudizio del documento da
parte dello stesso contraente interessato alla produzione degli effetti del contratto stesso. Il
giudice di rinvio, incaricato di compiere una rivalutazione degli atti processuali per
ricostruire la fattispecie cui applicare l’enunciato principio di diritto, ha escluso che potesse
applicarsi il meccanismo sostitutivo della sottoscrizione, in quanto costituiva dato
incontrovertibile il fatto che, nella specie, la produzione del documento era avvenuta dalla
parte che intendeva ottenere la risoluzione del contratto, e non da quella che intendeva
ottenerne la produzione di effetti. Il giudice del rescissorio, ha potuto discostarsi dalla
ricostruzione suggerita dalla sentenza rescindente per violazione di legge e disapplicare il
principio di diritto tramite una rivalutazione complessiva del materiale di causa, permessagli
dalla cassazione contestuale per vizio di motivazione. In concreto, il giudice di legittimità
aveva osservato che la sentenza di merito era viziata da insufficiente motivazione per non
aver fondato la decisione di risoluzione del contratto locativo su ulteriori elementi
corroborativi dell’esistenza del contratto, ulteriori rispetto al meccanismo probatorio
sostitutivo della firma. Il giudice di rinvio, conseguentemente, ha potuto (rectius dovuto)
compiere una nuova valutazione del materiale di causa nel suo complesso, dal quale ha tratto
la medesima conclusione della sentenza cassata: l’esistenza del contratto di locazione, ma
fondando la pronuncia su elementi ulteriori rispetto alla produzione del documento (
elementi quali la mancata risposta all’interrogatorio formale e le deposizioni di alcuni testi).
Fattispecie analoga ha dato luogo a Cass. 23 marzo 1994, n. 2807; nel caso in esame la
sentenza di merito, che aveva qualificato il rapporto dedotto in giudizio come
procacciamento di affari escludendo che fosse riconducibile nel contratto di agenzia con
diritto di esclusiva, era stata annullata per violazione di legge e per vizio di motivazione. Il
giudice di legittimità, relativamente al primo profilo dell’annullamento, aveva fissato il
principio di diritto nel quale aveva tracciato la linea distintiva tra il contratto di agenzia ed il
rapporto di procacciamento di affari, e, quanto al vizio di motivazione, ne aveva affermato
l’illogicità, l’insufficienza e la contradditorietà, per il riferimento che nella stessa si leggeva
ora all’accertamento della sussistenza del rapporto di agenzia, ora al procacciamento di
affari, ed aveva, altresì, censurato la motivazione per inesatta e incompleta disamina della
acquisita documentazione. In conseguenza della duplice censura rilevata rispetto alla
medesima sentenza, il principio di diritto emesso dalla Corte non può essere inteso come
«qualificazione di un rapporto già accertato, in tutti i suoi elementi di fatto rilevanti, in base
alla ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza cassata: così che possa dirsi che a quella
ricostruzione corrisponda, come sola qualificazione giuridica corretta, la ricostruzione del
rapporto come agenzia anziché come procacciamento di affari». Conseguentemente, è stata
– 296 –
giudicata corretta la sentenza del giudice di rinvio che, riesaminato il materiale di causa nel
suo complesso, ha qualificato, con adeguata motivazione, il rapporto in termini di agenzia
per un certo periodo e di procacciamento di affari per il periodo restante.
– 297 –
2.6. Considerazioni brevi sulla resistenza del principio di diritto allo ius
superveniens
Nel novero degli interrogativi che si affacciano alla mente
dell’interprete a fronte della delimitazione dei confini della portata vincolante
del principio di diritto ex art. 384, quello relativo alla resistenza del principio
di diritto al cd. ius superveniens (comprensivo sia del fenomeno del
mutamento del quadro normativo di riferimento per intervento del
legislatore1 sia del fenomeno di innovazione normativa per effetto della
1 Va tuttavia fatta una preliminare precisazione, intorno alla portata della locuzione
ius superveniens. Perché, nelle applicazioni giurisprudenziali che dello ius superveniens
vengono fatte, si presta assiduamente attenzione al requisito della «retroattività» o a quello
della natura di «interpretazione autentica» della norma sopravvenuta. La giurisprudenza della
Cassazione va, cioè, costantemente alla ricerca, quando ritiene di applicare la disciplina
normativa sopravvenuta, della norma transitoria o di quelle disposizioni che rivelano il
carattere retroattivo o quello interpretativo (e pertanto anche retroattivo), negando che si
possa parlare di ius superveniens ai fini dell’applicazione al processo pendente in assenza del
ricorrere di quei fattori. In alternativa, al di là del caso particolare dei rapporti di durata per i
quali il mutamento del quadro normativo è comunque rilevante, si va alla ricerca della
possibilità di ricadute in bonam partem che giustificano, per ragioni di carattere
pubblicistico, l’applicazione retroattiva anche alle situazioni giuridiche non definite ma
insorte sotto una vecchia disciplina di una modifica normativa che naturalmente disporrebbe
solo per il futuro. In Cass. 6 aprile 2005, n. 7144, si individua un criterio per stabilire la
portata del concetto di interpretazione autentica, e quindi anche retroattiva, delle nuove
norme che sostituiscono le vecchie: il carattere interpretativo di una norma, vi si legge,
«dipende dal solo contenuto del precetto posto in termini di apprezzamento ermeneutico di
un precetto antecedente al quale la nuova norma si ricolleghi nella lettera e nella ratio, a tal
valutazione sovrapponendo l’imperativa nuova interpretazione»; pertanto, quando «non è
dato rinvenire né riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche né la imperativa opzione
per una di esse ma, soltanto, la volontà, esplicitata in rubrica e nel testo, di modificare le
norme previgenti» si è di fronte ad una «operazione opposta a quella di recare interpretazione
autentica delle norme (imporre come corretta una delle sue possibili letture) e consistente
nella sostituzione di testo a testo (sull’assunto che nel primo testo non vi fosse spazio alcuno
per la soluzione auspicata)». Dal che viene desunto «il carattere non interpretativo di quello
che, pertanto, deve definirsi jus superveniens»: ed è evidente che la locuzione è in tal caso
usata nel suo significato letterale, come diritto che succede temporalmente a un’altra
disciplina. Nel merito, però, la Cassazione qui rilevava che la carenza di carattere
interpretativo della norma che veniva in questione era «del tutto indifferente ai fini della sua
applicazione alla controversia in disamina» perché con riguardo alla previsione di
– 298 –
dichiarazione di incostituzionalità della norma rilevante ad opera della Corte
costituzionale) sembrerebbe tra i meno problematici, perché la circostanza
che esso abbia conseguito in un arco di tempo relativamente breve una
riposta univoca da parte della giurisprudenza autorizza a pensare a questa
risposta come a una soluzione che era iscritta nell’ordine delle cose.
Se l’opinione presto consolidatasi in giurisprudenza, che si rintraccia
anche nelle massime dei repertori più recenti, è nel senso di ritenere
prevalente sul principio di diritto la difforme legge interpretativa intervenuta
successivamente, o la legge abrogativa della disposizione di diritto sulla
quale la Cassazione si sia espressa, è pur tuttavia vero che l’adesione alle
premesse di carattere sistematico cui si ritiene di accedere in merito alla
ricostruzione dell’ambito oggettivo del giudizio di rinvio in cui il principio di
«condizioni “disabilitanti” (sentenze irrevocabili di condanna) alla elezione o nomina alla
carica elettiva (…) le nuove disposizioni debbono essere applicate anche ove le situazioni
sanzionate si siano verificate ben prima della entrata in vigore della legge sopravvenuta», pur
«non venendo in gioco alcun profilo di retroattività della disposizione (posto che essa
produce i suoi effetti solo per il periodo successivo alla sua entrata in vigore) ma trattandosi
di un nuovo parametro cui il legislatore ancora il giudizio di indegnità rispetto alla
conservazione della carica». Ciò, in quanto sarebbe assolutamente evidente la ragionevolezza
della immediata applicazione della nuova norma, la quale, rimuovendo un pregresso giudizio
di indegnità – nella specie, «confinando nell’ambito dell’irrilevanza giuridica una condanna
penale che in base alle norme preesistenti aveva valore di condizione inabilitante», fornisce
le condizioni di mantenimento della carica conformi alla nuova valutazione legale (ma ove si
afferma che la novella che incide sul regime dei requisiti di eleggibilità ad una carica
pubblica avrebbe idoneità a mutare il regime delle condizioni di mantenimento della carica
con immediata efficacia «tanto in malam quanto, come nella specie, in bonam partem»,
sembra che prevalga, come criterio discretivo dell’applicazione immediata della nuova
normativa, non tanto quello dell’impiego in utilibus di una nuova normativa con rilevanza
pubblicistica, come applicazione del principio generale di legalità del tipo che ispira la
sistematica applicazione dello ius superveniens più favorevole al contribuente – v., tra le più
recenti, Cass., sez. tributaria, 10 marzo 2005, n. 5268 –, quanto piuttosto un criterio di
opportunità). In senso opposto a quello della sentenza sopra esaminata, sembra di capire,
Cass. 1° marzo 2005, n. 4327, secondo cui la nuova disciplina dettata sempre in tema di
sistema di elezione e di previsione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità a cariche
pubbliche «secondo i normali canoni che disciplinano la successione delle leggi nel tempo –
in quanto entrata in vigore successivamente al verificarsi dei fatti costitutivi della presente
causa ed in mancanza di qualsiasi contraria disposizione transitoria – non può trovare
applicazione, quale jus superveniens, nel presente giudizio».
– 299 –
diritto viene accolto ed esplicato, possono scaturire anche soluzioni non così
semplicistiche.
L’affermazione costante della giurisprudenza2 secondo la quale il
giudice di rinvio non è più vincolato al principio di diritto quando il quadro
normativo sia mutato, per effetto di norma interpretativa o retroattiva,
nell’intervallo di tempo che va dalla sentenza della Corte alla ripresa del
giudizio dinanzi al giudice di rinvio3, si fonda sul topos argomentativo della
minore «intensità di resistenza»4 allo ius superveniens di cui sarebbe dotato,
rispetto al giudicato, il principio di diritto, in quanto enunciato che
presuppone, per dispiegare la sua efficacia, il necessario svolgimento del
giudizio di rinvio, e che comunque non preclude la proposizione di un’altra
domanda, una volta estinto il processo a norma dell’art. 393 c.p.c.
Una simile soluzione equivale a riconoscere che la ratio che è alla base
dell’attitudine del giudicato a resistere allo ius superveniens non è parimenti
rintracciabile in quella «transizione» di decisione che è il principio di diritto
2 Dell’abbondante giurisprudenza che si muove in questa direzione, si può, ad
esempio ricordare, tra le sentenze più risalenti, Cass. 24 marzo 1969, n. 938; tra le più
recenti, Cass. 15 gennaio 1990, n. 120; Cass. 10 febbraio 1990, n. 978, Cass. 12 luglio 1991,
n. 77777; Cass. 4 giugno 1994, n. 5412; Cass. 15 giugno 1995, n. 6737, ove in massima si
legge che «l’obbligo del giudice di rinvio di attenersi al principio di enunciato dalla
Cassazione, a norma dell’art. 384 cod. proc. civ., viene meno nel caso in cui dopo la
riassunzione del giudizio di rinvio, muti la norma dalla quale il principio di diritto viene
dedotto»; Cass. 21 aprile 2000, n. 5217; Cass. 9 gennaio 2001, n. 207; Cass. 20 giugno 2001,
n. 8403, la quale reca in motivazione una formula ormai stereotipata: «l’efficacia vincolante
della sentenza di cassazione con rinvio, presupponendo il permanere della disciplina
normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto da applicarsi dal giudice
di rinvio, viene meno in tale sede allorché la disciplina da applicare sia stata successivamente
abrogata, modificata o sostituita per effetto dello “ius superveniens”». 3 Altra annosa questione è quella della applicabilità o meno in sede di rinvio dello ius
superveniens intervenuto dopo la deliberazione ma prima della pubblicazione della sentenza,
questione dalla quale qui prescindiamo perché non concludente ai fini del nostro discorso, in
quanto costituisce «uno dei diversi luoghi di scarico della tensione concettuale che si viene
accumulando altrove, a proposito dell’ identificazione del tempo in cui viene ad esistenza la
sentenza, e cioè: se al momento in cui è deliberata ovvero pubblicata»: così, AULETTA, Sulla
pretesa irrilevanza dello ius superveniens tra deliberazione e pubblicazione della sentenza di
cassazione con rinvio, nota a Cass. 23 marzo 2001, n. 4176, in Giust. civ., 2001, I, 2101 ss. 4 Così, ANDRIOLI, Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, cit., 279.
– 300 –
contenuto nella pronuncia rescindente della Corte, come esplicita, aderendo
alla suddetta tesi, Remo Caponi: «se la ragione giustificatrice della resistenza
del giudicato nei confronti dello ius superveniens consiste (…) nello
sganciamento della rilevanza giuridica della fattispecie del diritto fatto valere
dalla normativa astratta, la caratteristica operatività del principio di diritto al
solo livello della premessa maggiore del sillogismo giudiziale, se è consentito
usare ancora questa immagine, esclude a priori che questo possa resistere alla
legge retroattiva»: ciò, in quanto, «non singole fissazioni di punti di fatto o di
diritto della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere possono opporre
resistenza allo ius superveniens retroattivo, ma lo sganciamento della
rilevanza giuridica di tale fattispecie», che è esclusivamente «coordinato al
riconoscimento o al disconoscimento della situazione sostanziale fatta valere
in giudizio»5. Nelle argomentazioni di Caponi sono immediatamente
percepibili – e del resto apertamente dichiarati – gli influssi della concezione
sostanziale della cosa giudicata di Chiovenda, nonché la tendenza a svalutare
la rilevanza delle risoluzioni delle questioni più minute che alloggiano
all’interno della decisione sulla fattispecie costitutiva principale dedotta in
giudizio: del resto, le ragioni che l’Autore adduce a giustificazione
dell’incapacità del principio di diritto di resistere allo ius superveniens
riproducono esattamente quelle che egli fa poco prima valere per respingere
l’idea che la sopravvenienza della nuova norma possa lasciare indenni le
sentenze non definitive rese su questioni preliminari di merito6.
5 CAPONI, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, 353-354.
6 Dice infatti CAPONI, op. cit., 350, che «decisiva è a questo proposito la circostanza
che oggetto del processo deve essere un diritto e non un fatto e che lo sganciamento della
rilevanza giuridica della fattispecie giudicata deve essere funzionale alla salvaguardia del
risultato del processo, in quanto questo abbia portato all’accertamento dell’esistenza o della
inesistenza di una situazione sostanziale in corso tra le parti» (chiaramente rievocando la
teoria chiovendiana dell’aggiudicazione o della negazione del bene della vita come risultato
a cui il processo aspira e a cui il giudicato fornisce il crisma dell’incontestabilità per la
finalità suprema dell’ordine e della sicurezza della vita sociale), soggiungendo,
immediatamente dopo, che «non è dunque immaginabile uno sganciamento parziale della
rilevanza giuridica della fattispecie giudicata, avente ad oggetto cioè solo uno dei fatti che
– 301 –
Malgrado sia abbastanza pacifico che il principio di diritto non
condivide la stessa natura della cosa giudicata, sono pur tuttavia da segnalare
delle evoluzioni di pensiero in controtendenza rispetto all’opinione
consolidata che vuole la indefettibile prevalenza dello ius superveniens sul
principio di diritto.
In dottrina non mancavano, già all’indomani dell’approvazione del
codice del 1940, personalità eminenti che rifiutavano di assolutizzare la
carenza di efficacia di giudicato come indice sicuro della prevalenza dello ius
superveniens sul principio di diritto7; da parte di taluno, poi, si è avanzata
l’idea che debba differenziarsi il trattamento della resistenza del principio di
diritto allo ius superveniens in funzione della diversa natura della norma
sopravvenuta, postulandosi, a guarentigia della funzione nomofilattica della
Suprema Corte, l’incapacità della norma di interpretazione autentica di
soppiantare l’effetto vincolante del principio di diritto, e ponendosi il
carattere innovativo della norma sopravvenuta come condizione necessaria
entrano a comporre quest’ultima» – cioè della rilevanza di una pronuncia non definitiva
vertente solo su di uno tra i molteplici fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi
della fattispecie costitutiva della situazione sostanziale dedotta in giudizio – poiché tale
sganciamento parziale «non è poi in grado di coordinarsi ad alcun riconoscimento
dell’esistenza o dell’inesistenza di un diritto sostanziale»: ID., op. loc. ult. cit.; corsivo nostro. 7 Si vedano, infatti, l’ANDRIOLI, Il principio di diritto enunciato dalla Corte di
cassazione, cit., il quale dopo aver escluso che il principio di diritto possa godere di una
«intensità di resistenza» pari a quella del giudicato, aggiunge tuttavia che «ciò non significa
che altri motivi possano indurre a far prevalere il principio di diritto sulla legge
sopravvenuta», con l’avvertenza che all’uopo occorrono giustificazioni diverse da quelle che
sorreggono la resistenza alla legge sopravvenuta della cosa giudicata (ID., op. cit., 286-287);
nonché il MICHELI, L’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di
Cassazione e il giudicato sul punto di diritto, cit., ove è criticata la posizione parzialmente
scettica dell’Andrioli, e si solleva il dubbio che col far derivare dal disconoscimento al
principio di diritto della natura di cosa giudicata l’esclusione della prevalenza del dictum
sulla legge nuova, interpretativa o retroattiva, si rischia di porre «sullo stesso piano della
preclusione un effetto vincolante che il legislatore dichiara sopravvivere alla estinzione del
processo, in quanto la determinazione della norma da applicare in concreto è avvenuta da
parte della corte di cassazione la quale pertanto ha, in questi limiti, esercitato la funzione
riconosciutale»: ID., op. cit., 39.
– 302 –
per sollevare il giudice di rinvio dall’obbligo di uniformarsi al principio di
diritto8.
In realtà, una rappresentazione adeguata del fenomeno si può ricavare
proprio dall’aver trattato il principio di diritto sia come momento di rilevanza
logica che, all’occorrenza, sussistendone i presupposti, come momento di
cristallizzazione del giudizio in senso tecnico.
La giurisprudenza della Cassazione, infatti, comincia a dimostrare, al di
là dell’inveterata abitudine a riproporre la formula della vincolatività del
principio di diritto per il giudice di rinvio «salvo il necessario adeguamento
allo ius superveniens», una maggiore sensibilità verso l’esigenza di una
coerenziazione della disciplina relativa all’applicazione allo ius superveniens
con gli assunti propri della teoria della formazione progressiva del giudicato,
cui ormai da tempo ispira la sua azione.
Interessante, a questo proposito, è notare che nella sentenza della
Cassazione n. 6541 del 2000, ad esempio, con la quale si nega l’applicabilità
quale ius superveniens al giudizio pendente dinanzi alla Suprema Corte di
una sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale nelle more del giudizio di
legittimità, sulla base del rilievo – che dal tenore della pronuncia sembra
principale e assorbente – secondo cui, trattandosi di una sentenza
interpretativa di rigetto, «non produce l’effetto della espunzione della norma
stessa dall’ordinamento giuridico e non si traduce quindi in una
modificazione della situazione nomotetica alla quale esige di essere
raffrontata la fattispecie concreta sub judice», si rintraccia un significativo
obiter dictum: quello secondo il quale la deviazione dell’interpretazione
fornita dal giudice della sentenza impugnata rispetto alla interpretazione
8 L’idea è particolarmente ben esposta da SPIAZZI, in Ancora sull’applicabilità nel
giudizio di rinvio d’una legge d’interpretazione autentica sopravvenuta dopo la pronuncia di
cassazione, nota a Cass. 24 novembre 1981, n. 6251, in Giur. it. 1983, I, 333 ss. Essa viene
però contestata da CAPONI, op. cit., 353, nt. 9, perché si espone alla critica «di far dipendere
l’applicazione dello ius superveniens da una difficile e sempre opinabile operazione
ermeneutica volta a distinguere la legge innovativa da quella meramente interpretativa».
– 303 –
prospettata dalla Corte costituzionale come l’unica conforme ai principi
costituzionali, «deviazione suscettibile di risolversi in se stessa in un vizio di
violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 360 comma primo, n. 3, c.p.c.»
sarebbe comunque inammissibile perché «non solo non è stata dedotta quale
motivo di cassazione, ma non è stata nemmeno mai fatta valere, nelle
pregresse fasi di merito, dalla parte interessata» a dolersene9. Col che, in
sostanza si afferma che, anche se lo ius superveniens interviene dopo
l’instaurazione del giudizio di cassazione, la sua applicazione sarebbe
comunque subordinata alla verifica del contesto oggettivo della cognizione
9 Nella sentenza della Cassazione n. 600 del 19 gennaio 2000, richiamata dalla
sentenza in esame, invece, il rigetto del motivo, proposto in Cassazione, della violazione e
falsa applicazione di una norma sopravvenuta viene motivato con la considerazione che «non
può essere invocata per la prima volta nel giudizio di legittimità l’applicazione di una legge
intervenuta, come nel caso di specie, dopo la sentenza di primo grado, ma anteriormente alla
proposizione dell’appello, senza che in proposito la suddetta sentenza sia stata investita di
alcuna censura, dovendosi ritenere sul punto formato il “giudicato” e non potendo i motivi
del ricorso per cassazione investire questioni che non abbiano formato oggetto del giudizio di
secondo grado». Nello stesso senso, anche Cass. 25 novembre 1996, n. 10446, in cui viene
giudicata inammissibile la prospettazione per la prima volta, in sede di giudizio di legittimità,
della questione dell’applicabilità di una norma, la quale, per come reinterpretata dalla Corte
costituzionale in una sentenza anteriore alla proposizione dell’appello, poteva ridondare a
vantaggio dell’appellante poi ricorrente in Cassazione: ciò, sulla base del rilievo che «i
motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, le questioni che
abbiano formato oggetto del “thema decidendum” del giudizio di secondo grado, come
fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti», e del principio secondo cui lo ius
superveniens, che introduca una nuova disciplina del rapporto in contestazione, sebbene
rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, «incontra, nel giudizio di
legittimità, le limitazioni connesse con la disciplina delle impugnazioni, per effetto della
quale la nuova regolamentazione può trovare piena applicazione, solo quando essa sia
sopravvenuta dopo la proposizione del mezzo di gravame, e ciò perché, in tale ipotesi, il
ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti
legali, che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti». È evidente la diversità di
queste ultime ipotesi rispetto a quella sopra esaminata, stante il fatto che, negli ultimi due
casi, a differenza che nel primo, la sopravvenienza della norma non si verifica durante la
pendenza del giudizio di legittimità, ma è bensì anteriore alla fase d’appello. Tuttavia, in
tutte queste pronunce traspare un’opzione interpretativa che induce ad un ripensamento,
come, a breve, avremo modo di constatare, delle tradizionali convinzioni in ordine alla
immediata applicabilità dello ius superveniens nel giudizio di rinvio, anche a discapito del
principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.
– 304 –
residua, per come individuato e sospinto dalle censure di parte fino al
Supremo soglio.
E, con un’interpretazione a maiore ad minus, se è vero che la
Cassazione potrebbe e anzi dovrebbe non tener conto dello ius superveniens,
qualora a ciò ostino le preclusioni formatesi nel pregresso giudizio e dinanzi
alla Corte stessa per mancata interposizione di censura sul punto rispetto al
quale rileverebbe in astratto lo ius superveniens de quo, legittimamente si
potrebbe asserire che il giudice di rinvio non è tenuto a scavalcare in ogni
caso il principio di diritto per risalire direttamente allo ius superveniens se la
causa è pervenuta dinanzi a lui già definitivamente decisa, per giudicato
interno, sul punto interessato dalla modifica normativa. Questa, in sostanza,
ci sembra essere la prospettiva predicabile da parte di chi adotta la più
ristretta nozione di questione come dubbio intorno ad un punto di fatto o di
diritto della controversia come parametro per misurare l’estensione degli
ambiti decisori in fase di impugnazione10
.
Dall’altro canto, la possibilità che dinanzi alla Cassazione la causa
pervenga ancora non del tutto definita, quoad ius, e che il principio di diritto
non si consolidi necessariamente per giudicato interno ove pervenuto
all’esame della Suprema Corte unitamente ad altri punti suscettibili di portare
ad una diversa ricostruzione della fattispecie, consente sia di assorbire il
10
La stretta relazione tra la prospettiva a favore della formazione del giudicato interno
sulle questioni già decise e non specificamente censurate, nonché indipendenti da quelle
annullate dal giudice di cassazione, e l’opzione a favore di una limitata operatività dello ius
superveniens in sede di rinvio sembra essere ben individuata da POLI, I limiti oggettivi, cit.,
pp. 560 ss.: «compito del giudice di rinvio è infatti innanzitutto quello di recepire quella
premessa nei termini indicati nella pronuncia rescindente (se trattasi di questione di diritto,
sostanziale o processuale) o di riformularla ex novo, rispettando i vincoli “negativi” contenuti
nella medesima pronuncia (ove trattasi di questione di fatto), e successivamente, nella misura
in cui occorra emettere la decisione definitiva di merito, accertare – o conformare nei limiti
del condizionamento – le ulteriori premesse di fatto e di diritto della controversia (dipendenti
da quella recepita o riformulata). Con la conseguenza che egli potrà tener conto dello ius
superveniens o sollevare incidente di costituzionalità (…) solo in relazione ai punti di diritto
ancora sub iudice, in quanto investiti direttamente dalla cassazione o da questi dipendenti e
pertanto non coperti da giudicato interno» (corsivo nostro).
– 305 –
principio della salvezza, nel giudizio di rinvio, dello ius superveniens, sia di
integrare nel nostro ordinamento gli sviluppi della giurisprudenza della Corte
di Giustizia europea stanno determinando sul sistema processuale interno
sotto il particolare profilo dell’efficacia del principio di diritto: la pronuncia
della Corte di Giustizia CE, grande sezione, 5 ottobre 2010 (C-173/2009,
caso Elchinov c. Natsionalna zdravnoodiguritelna kasa), ha infatti affermato
il principio per cui il giudice di merito ha potere di disattendere le pronunce
vincolanti in diritto rese dai giudici di ultima istanza al fine di attuare
l’ordinamento comunitario; e – sembrerebbe – anche se non si tratta di dare
applicazione allo ius superveniens: ciò, anche probabilmente sul presupposto
che, a tutt’oggi, il principio iura novit curia11
, la presupposta conoscenza
delle leggi da parte dei Tribunali supremi, non scalvalca ancora i confini
dell’ordinamento normativo interno.
11
Sul tema, v. PUNZI, Iura novit curia, Milano 1965.
– 306 –
CONCLUSIONI
In un mondo di parole qual è il mondo nel quale sono chiamati ad
orientarsi i giuristi, il principio di diritto enunciato da parte del supremo
garante della legittimità, crocevia in cui convergono l’interesse del filosofo
del diritto così come quello del processualista, l’attenzione dei teorici così
come quella dei pratici, manifesta una chiara attitudine ad incarnare
l’essenza, e con l’essenza, i limiti, di quella sintesi tra la norma e i fatti che è
il processo.
Dietro le parole, però, stanno i fatti, per l’appunto, gli uomini e i loro
rapporti, e mai, come quando ci si cala umanamente nelle stanze dove si attua
la giustizia concreta, e ci si pone spregiudicatamente a considerare le ragioni
delle parti, i loro particolari interessi, si fa più urgente l’obiezione che si agita
contro il positivismo: «fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni»12
.
Da una consimile osservazione allo sconfinamento nel soggettivismo il
passo può essere molto breve. L’ordinamento, però, crediamo, debba
respingere ogni tentazione nichilista; e se oggi gode di rinnovata vitalità il
dibattito sull’importanza della funzione nomofilattica della Cassazione, da un
lato, e sui ritmi non solo esterni ma anche interni del processo, dall’altro, ciò
è probabilmente dovuto alla ripresa di un ciclo, nei tanti corsi e ricorsi della
storia, in cui la giustizia ha bisogno di essere più esigente verso gli operatori
che si muovono al suo interno e dei cittadini che ne reclamano l’intervento,
per risultare più rapida e più stabile; di rinnovarsi, forte tuttavia di una lunga
esperienza, che le ha insegnato a percepire come servizio l’uso del proprio
potere, per poter continuare ad essere servizio, attraverso un recupero di
istanze tradizionali, seppure in una sempre più articolata concezione del
processo che, imponendo alle parti un altissimo grado di vigilanza su ogni
12
NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, Edizione italiana diretta da
Colli-Montinari, vol. VIII, tomo I, Milano 1974, fr. 7 (60), 299.
– 307 –
elemento che puntella la statuizione finale, e sulle iniziative delle controparti,
le responsabilizza notevolmente.
L’analisi intorno all’efficacia del principio di diritto ci ha condotto
naturalmente ad interrogarci sulle modalità con cui, da un punto di vista
logico, si svolge e si definisce il giudizio di diritto, ovvero la scelta del diritto
applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio; e ciò, nella consapevolezza,
non certamente nuova, della relatività della nozione di fattispecie, che per
essere tale è anzitutto «qualificata» come tale dall’attività di ricostruzione di
fatti storici riaggregati intorno ad uno schema legale. Perciò: un tema grave;
ma utilizzando un’angolazione minima, che è quella della prospettiva del
giudice di rinvio che riceve il dictum e lo deve applicare ai fini della
definizione della causa, si è potuto percorrere il sentiero di indagine cercando
di mantenere aderenza pragmatica.
Anzitutto, l’aver preso come riferimento la pronuncia in punto di diritto
della Suprema Corte ha consentito di saggiare, anche con un’inversione
prospettica, la bontà della scelta di assumere a parametro della devoluzione
nei gradi di impugnazione la nozione più ristretta di «parte di sentenza».
Infatti, respinto l’ordine di idee nel quale «parte di sentenza»
corrisponde a decisione di domanda per via della estrema difficoltà, se non
della impossibilità, di giustificare alla stregua di quella teoria un sistema di
preclusioni nel giudizio di rinvio – tale per cui, secondo quanto esige la
giurisprudenza, a) non possono più rilevare, nella fase processuale post-
cassazione, eventuali questioni di rito afferenti alle fasi di merito pregresse e
alla stessa fase del giudizio di cassazione che rendano inattendibile il
principio di diritto enuciato dalla Suprema Corte e, inoltre, b) quest’ultimo
deve essere accolto unitamente ai suoi cosiddetti «antecedenti logici
necessari», anche di merito –, nessuna soluzione intermedia, tra il concepire
come base dell’effetto devolutivo la domanda o, all’opposto, la singola
questione sui punti di diritto e di fatto, si appalesa gratificante.
– 308 –
Ed anzi, dall’esame della struttura del giudizio di diritto, la scelta della
nozione più ristretta di «parte di sentenza» si conferma valida, a monte, per
via della impossibilità di ipostatizzare ex antea la «fattispecie» rilevante in
concreto: il carattere necessariamente relativo della fattispecie, infatti,
determina la riproducibilità, per ogni operazione sussuntiva e per ogni
frammento delle fattispecie astratte adattabili al caso, dell’operazione di
correlazione norma-fatto: ed in questo senso il giudizio si profila come
selezione e decisione di singole questioni, fino a quando non si perviene alla
statuizione sull’effetto giuridico.
In questa prospettiva guadagna valore pratico l’acquisita
consapevolezza che la pronuncia in iure cui è chiamata la suprema Corte
quando riscontra un error iuris in iudicando riproduce la stessa struttura
delle decisioni sulle singole questioni di fatto e di diritto che costituiscono il
materiale di cognizione del giudice, le quali rappresentano frammenti di
accertamento dotati di valore interinale che si stratificano nel corso del
processo per poi confluire nella statuizione definitiva, attraverso un
meccanismo di consolidazione progressiva che solo l’iniziativa puntuale
delle parti può scardinare, dissodando i nuclei decisori ritenuti mal giudicati
con effetti a cascata, in caso di successo dell’iniziativa impugnatoria, anche
sui punti di giudizio da quelli dipendenti (il c.d. effetto preterintenzionale
dell’impugnazione).
Con specifico riferimento alla pronuncia in punto di diritto della
Suprema Corte, la irrevocabilità del punto di diritto deciso non comporta
peraltro ex necesse che su questo si formi il giudicato interno: perché, per la
formazione del giudicato interno non è sufficiente che la statuizione non sia
colpita da motivi di censura (qui per inimpugnabilità), ma è necessaria
l’«autonomia logica» tra le questioni sub iudice.
Questa autonomia logica difetta, in particolare, nei casi di relazione
pregiudizialità-dipendenza di merito, quando tra più schemi di sussunzione
c’è comunanza anche di un mero elemento della fattispecie o di una
– 309 –
questione preliminare di merito; quando vi sono schemi di costruzione dei
rapporti norma-fatto, ai fini della individuazione della fattispecie e della
statuizione sul relativo effetto giuridico, che si configurano, tra di loro, come
interdipendenti o alternativi (per implicazione logica, per incompatibilità).
Tale tipo di relazione tra i punti di merito, dall’apparenza orizzontale, è alla
base, crediamo, dell’orientamento che intravede l’effetto devolutivo allargato
dal capo dipendente a quello pregiudiziale, ovvero dei casi in cui il giudice di
rinvio sembra disattendere gli «antecedenti logici necessari del principio di
diritto».
Nell’esaminare, quindi, le modalità con cui il giudice di rinvio deve
dirigere la causa verso la decisione nel merito, occorre quindi previamente
definire gli ambiti decisori del giudizio di rinvio mantenendo ferme le
preclusioni prodottesi, per giudicato esplicito o implicito, nei gradi di merito
e fino alla pronuncia di annullamento della Cassazione, e tenendo conto del
conclusum delle parti.
La circostanza poi che l’art. 394 c.p.c. imponga alle parti di non
prendere conclusioni di diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu
pronunciata la sentenza cassata, salvo che la «necessità» delle nuove
conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione; il fatto cioè che la norma non
guardi alle «possibilità» consentite dalla sentenza di annullamento, ma alla
necessità di un riadeguamento delle posizioni delle parti, che sorge
evidentemente da un’impossibilità di mantenere le vecchie conclusioni ed il
nuovo principio di diritto (l’ipotesi più plastica è quella, ad es., della
sentenza della terza via), impone di verificare le differenze che il giudice di
rinvio incontra nella definizione della causa rispetto al giudice di merito di
una fase antecedente alla cassazione, anche per ciò che riguarda la
cognizione che residua al netto delle preclusioni.
A questo punto, la considerazione che il giudice di rinvio debba
rinvenire gli spazi della decisione entro i limiti segnati, da un lato, dalla
pronuncia di annullamento e, dall’altro lato, dalle conclusioni rassegnate
– 310 –
dalle parti nel giudizio di provenienza della sentenza cassata, viene
confrontata con la considerazione dell’efficacia accertativa propria del
principio di diritto. Se ne deduce che quel «di più» che essa ha, rispetto
all’efficacia accertativa delle decisioni rese sulla questione di diritto da parte
del giudice di merito, discende dal ruolo apicale della Suprema Corte e
dall’esigenza pratica di finitezza dei giudizi, e consiste essenzialmente
nell’imporre al giudice di rinvio un diverso metodo di giudizio rispetto a
quello seguito dal giudice di merito della fase d’appello.
Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, per il fatto proprio
di trovarsi come punto fermo di cui sono indiscutibili le premesse e le
conclusioni predeterminate delle parti, segna un percorso da seguire al
giudice di rinvio, ed ha la capacità di interrompere l’aspetto circolare o «a
spirale» della ricostruzione del rapporto norma-fatto.
L’attività del giudice di rinvio pertanto sarà, per un verso, attività di
completamento (di applicazione della norma ai fatti) del giudizio altrui (del
giudizio della Suprema Corte); per altro verso, salvo il caso – raro – di
esigenze istruttorie relative a fatti semplici «nuovi» al processo, attività di ri-
valutazione dei fatti (la quale non può non essere un’attività mediata che si
estrinseca nel controllo del giudizio di fatto del giudice di merito pregresso),
dove però il rapporto norma-fatto è prestabilito, per via dell’esistenza del
principio di diritto, e la ricostruzione dei fatti deve “servire” alla
qualificazione giuridica somministrata dalla Suprema Corte.
Dunque, entrambe le attività del giudice di rinvio si svolgono nel solco
tracciato dal principio di diritto; dal punto di vista del giudizio di diritto, il
giudice di rinvio interviene in relazione al punto di merito su cui il principio
viene pronunciato, dovendo e potendo esaminare tutte diverse sottoquestioni
che da quel punto promanano e dovendo comunque utilizzare come
passaggio obbligato del ragionamento la soluzione in diritto offerta dalla
Suprema Corte; dal punto di vista del giudizio di fatto, il giudice di rinvio
dovrà andare alla ricerca degli elementi di fatto atti ad essere sussunti nel
– 311 –
giudizio di diritto già formulato. Ad esempio, se la Corte ha fornito una certa
qualificazione giuridica, il giudice di rinvio dovrà affrontare una serie di
questioni intermedie, che è necessario porsi al fine di procedere alla «scelta
dei fatti semplici» da sussumere sotto quella qualificazione giuridica, e
dunque riconsiderare i fatti per decidere se sono idonei o no a sorreggere
quella qualificazione giuridica.
La stabilità del principio di diritto (o meglio, la sua applicazione al
caso da definire in sede di rinvio) è assicurata appunto da ciò, che, da un lato,
non si rimettono in questione i presupposti di fatto/diritto che hanno portato
la Corte ad una certa ricostruzione della fattispecie ed alla sua qualificazione
giuridica e, dall’altro, il giudice di rinvio tenderà a recuperare e rivalutare –
con un controllo sull’attività dei precedenti giudici – i fatti che la
ricostruzione giuridica fatta propria dalla Corte rende rilevanti, provvedendo
all’istruzione di fatti ulteriori solo ove necessario.
In tal modo, la verifica dell’insussistenza degli elementi di fatto che
appaiono rilevanti alla luce del principio di diritto enunciato dalla Suprema
Corte costituisce anch’essa applicazione del principio di diritto, nel senso
della negazione degli effetti giuridici legati alla norma individuata dalla
Corte Suprema nel dictum: se la Corte afferma che la clausola-oro è nulla e
dice al giudice di rinvio di applicare questo principio, costituirà applicazione
di tale principio la verifica, da parte del giudice di rinvio, che il contratto per
cui è causa non contiene una clausola-oro.
In sostanza, se la Corte, anziché limitarsi a giudicare erronea una certa
ricostruzione, ne indica un’altra, nel giudizio di rinvio è sicuro che si porrà
centralmente la questione se ci sono i presupposti per riconoscere o
disconoscere l’effetto giuridico richiesto dall’attore alla luce di quella
ricostruzione prescelta dalla Cassazione.
Ciò fa sì che si che, per quanto riguarda la fase post-cassazione
vincolata al dictum, si possa recuperare una nozione tecnica rilevante di
controllo: essendo, sostanzialmente, compito del giudice di rinvio verificare
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il processo a quo e rimediare alle difformità del giudizio formulato dal
giudice a quo rispetto al passaggio obbligato dell’applicazione della norma
individuata ed interpretata dalla Suprema Corte, salva la possibilità che il
conclusum critico delle parti, che individui spazi ancora aperti di cognizione,
non solleciti una deviazione dallo schema di risoluzione della controversia
fatto proprio dalla pronuncia di annullamento.
Tale impostazione ricostruttiva, che riconnette al principio di diritto
un’efficacia accertativa suscettibile di convertire in controllo l’attività di
giudizio del giudice di rinvio, ma senza giungere ad equiparare
ncessariamente al giudicato interno detta efficacia, consente sia di assorbire
nel giudizio di rinvio, a certe condizioni, lo ius superveniens; sia di integrare
nel nostro ordinamento gli sviluppi della giurisprudenza della Corte di
Giustizia europea stanno determinando sul sistema processuale interno sotto
il particolare profilo dell’efficacia del principio di diritto, nella misura in cui
l’Europa esige che non sia d’ostacolo all’applicazione dell’ordinamento
comunitario un sistema processuale interno ad uno Stato membro che
attribuisca alle pronunce in diritto rese dai giudici di ultima istanza
un’efficacia vincolante in grado di prevalere su ogni disciplina incompatibile
del caso concreto.
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