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tascabili del Sole 24 Ore Fai di te un leader è dedicato a tutti quelli che intendono rinforzare il piacere di vivere positivamente utilizzando il loro potere personale per realizzare imprese e diventare dei costruttori della società in cui vivono. È scritto per quanti, incerti ed esitanti nella vita, non vogliono però rimanere soggiogati dalla pressione degli eventi esterni; è rivolto anche a coloro che, fino a ieri, non pensavano di poter influenzare l ' ambiente nel quale vivono, rinunciando a recitare una parte attiva e ad avere soddisfazioni dal proprio operato. Gli autori sono convinti che un mondo di piccoli e grandi leader è in grado di rendere la società e la convivenza umana non soltanto vivibile, ma arricchente ed entusiasmante. Riccardo Varvelli ingegnere, esperto di organizzazione e docente di Economia al Politecnico di Torino. Maria Ludovica Varvelli psicologa, esperta di comportamento umano, studiosa dell'intelligenza emotiva. Luca Varvelli economista, esperto di formazione, presidente del Gram (Gruppo di ricerca applicato al management). Fai di te n leader prefazione di Paolo Fresco Come decidere la propria strada verso il successo e raggiungerlo "Tre guru della classe dirigente italiana." LA REPUBBLICA AFFARI&FINANZA I y ln / S ~ ul ~ e GJZS VL1S~ 9 788883 63489 € 11,00 ISBN 88-8363-489-6 w ww.ìlsolc24orc.com II Solc 24 ORE S.p.A. Economia & Management
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(eBook - Ita) Varvelli - Fai Di Te Un Leader

Oct 21, 2015

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Page 1: (eBook - Ita) Varvelli - Fai Di Te Un Leader

tascabili del Sole 24 Ore

Fai di te un leader è dedicato a tutti quelli che intendonorinforzare il piacere di vivere positivamente utilizzando il loro

potere personale per realizzare imprese e diventare dei costruttoridella società in cui vivono.

È scritto per quanti, incerti ed esitanti nella vita, non vogliono

però rimanere soggiogati dalla pressione degli eventi esterni;è rivolto anche a coloro che, fino a ieri, non pensavano di poterinfluenzare l'ambiente nel quale vivono, rinunciando a recitareuna parte attiva e ad avere soddisfazioni dal proprio operato.

Gli autori sono convinti che un mondo di piccoli e grandi leader

è in grado di rendere la società e la convivenza umana nonsoltanto vivibile, ma arricchente ed entusiasmante.

Riccardo Varvelliingegnere, esperto di organizzazione e docente di Economia

al Politecnico di Torino.

Maria Ludovica Varvellipsicologa, esperta di comportamento umano, studiosa

dell'intelligenza emotiva.

Luca Varvellieconomista, esperto di formazione, presidente del Gram

(Gruppo di ricerca applicato al management).

Fai di ten leader

prefazione di Paolo Fresco

Come decidere la propriastrada verso il successoe raggiungerlo

"Tre guru della classe dirigente italiana."LA REPUBBLICA AFFARI&FINANZA

I

yln/S

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GJZS VL1S~

9 788883 63489€ 11,00

ISBN 88-8363-489-6

w ww.ìlsolc24orc.com

II Solc 24 ORE S.p.A.Economia & Management

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Sommario

Il testo di questo libro, che esce per la prima volta in edizione tasca- 7 Prefazionebile con il titolo Fai di te un leader, è già stato pubblicato con il titolo di Paolo FrescoFai di te un protagonista.

9 Introduzione: la vita sottobraccio

1. Diventare protagonista

13 La responsabilità di se stessi

17 Prepotenza, autorità o carisma

21 Antagonista, utilitarista, disfattista o nichilista

27 Il modello della piramide

29 Gli scalini dritti o rovesci

2. Le capacità del leader

35 I dieci comandamenti

37 Primo: solo chi sa di non sapere è saggio (saper diagnosticareISBN 88-8363-489-6 e valutare)

41© 2000, 2003 Il Sole 24 ORE S.p.A. Secondo: scegliere e costruire la realtà (saper decidere

Economia & Management rischiando)

Sede legale: via Lomazzo 52, 20154 Milano 45Redazione: via Tiziano 32, 20145 Milano

Terzo: dal sudore alla stamina (saper lavorare duro)

49 Quarto: all'inizio era il verbo (saper comunicare)Servizio clienti: tel. 3022.5680 (prefisso 02 oppure 06); 53

fax 3022.5400 (prefisso 02 oppure 06);Quinto: l'erba voglio (saper motivare)

e-mail: [email protected] 58 Sesto: non si vince da soli (saper lavorare con gli altri)

62Prima edizione: aprile 2000Settimo: il tiro alla fune (saper gestire i conflitti)

Prima edizione tascabile: maggio 2003 67 Ottavo: oh capitano, mio capitano (saper comandare)

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71 Nono: 168 ore e basta (sapersi programmare)

76 Decimo: il grido di Archimede (sapersi innovare)

3. Lo stile del leader

81 L'abito fa il monaco (scegliersi la cornice)

86 L'immagine, specchio segreto (ciò che gli altri vedonodi noi)

90 Chi non comunica non esiste (130 parole al minuto)

95 Il dovere di piacere (educarsi all'eleganza)

98 La ricerca della notorietà (costruirsi la visibilità)

103 Una vita di qualità (humour e salute: un dovere)

108 Energia interiore, benzina d'oro (il quoziente di vitalità)

4. L'ultimo scalino: dalla forma all'eccellenza

113 L'ultimo scalino: il luogo dell'arca

116 I quattro cavalieri: convinzione, convincimento, energiae volontà

121 L'affitto del successo: lavoralcolismo e narcisismo

127 Le trappole della cima: fatica ed errore, incertezzae solitudine

131 Il Tap: test dell'ascendente personale

136 Interpretare il proprio carisma

5. Le carte da gioco del leader

141 Dalla terza ondata allo shock del futuro

144 Scegliere valori per avere valore

149 Le sette carte positive

159 Le sette carte negative

166 Le sette carte ambivalenti

Prefazione

In ogni situazione c 'è un protagonista, positivo o negativo. A noiinteressa, ovviamente, il protagonista positivo, quello che po-tremmo chiamare: "leader".

Stiamo parlando di chi non si ferma al "si è sempre fatto così".Di chi crede in se stesso e in chi gli sta attorno. Di chi ama il nuo-vo. Di chi sa trascinare gli altri. Di chi riesce anche a far progredi-re le cose dovunque si applichi.

Ammirare queste persone è quasi inevitabile, com'è inevitabilechiedersi qual è il loro segreto: il leader cerca di dominare lesituazioni, non accetta di subirle.

Non si accontenta mai di un mestiere che non lo soddisfa, cer-ca di cambiare finché non si sente realizzato. Ama il rischio e nonha paura di mettersi in discussione. Cerca sempre di imparare.Non è geloso delle proprie idee e sa valorizzare quelle altrui. Unatteggiamento mentale che, il più delle volte, paga. Chi fa unacosa che gli piace, normalmente la fa bene. Ha soddisfazioni e,spesso, ha anche successo.

Può succedere sul lavoro come nella vita privata, in una grandeazienda come in una piccola bottega o, magari, in una competizio-ne sportiva. Milioni di italiani giocano al calcio tutte le domeni-che, nei campi di periferia e negli stadi della serie A: ogni campoha il suo goleador, il suo uomo partita.

Questo libro ci ricorda anche che non c'è solo il leader già rico-nosciuto e affermato. Gli autori si propongono, anzi, di far uscireallo scoperto tutti i protagonisti "in sonno" che ancora non sonoconsapevoli di avere questa capacità.

Qualcuno, riflettendoci sopra, capirà che è venuto il momentodi svegliare il leader che è in lui e di assumersi una responsabili-tà importante non solo nei confronti di se stesso, ma anche dichi gli vive accanto.

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8 Prefazione

Ma, per fortuna, per essere leader non è indispensabile esserecostantemente sotto i riflettori. Il palcoscenico della vita ha biso-gno di una compagnia di attori: si può trovare la felicità ed eccelle-re anche nella parte del comprimario. L'essenziale è conoscere sestessi (come insegnavano già i filosofi greci) e interpretare almeglio il ruolo che siamo stati capaci di conquistarci.

introduzione: la vita sottobraccio

Il potere personale, il primo potere disponibile a ogni essere uma-no è quello di prendere la vita sottobraccio e accompagnarla ver-so gli obiettivi che egli stesso decide. Di molti che così hanno fat-to conosciamo storie e successi: per alcuni di loro è stato facile,per altri difficile, per altri impossibile.

Ma molti, moltissimi sono coloro che al loro potere personalenon pensano o non hanno mai pensato. Essi hanno vissuto e vivo-no come "belli addormentati" delle fiabe, aspettando che la vitadecida cosa fare di loro.

Così come psicofisiologia e medicina studiando i tipi e gli stadidel sonno ne definiscono la diversa profondità e distanza dallaconsapevolezza attiva, anche le nostre ricerche hanno riconosciu-to chiaramente almeno due tipi di sonno del potere personale. Iltipo più grave, più dannoso nei confronti della qualità umana, èrappresentato dal "sonno di stadio 4" ("sonno molto profondo,presenza di onde delta, rilassamento muscolare completo, cuoree respirazione calmi e regolari, assenza di sogni").

I dormienti di stadio 4 sono coloro che si pongono consape-volmente nella situazione di chi prende atto della vita, senzaconcepire altre alternative che accettarla come si presenta, checredono alle notizie dei giornali e alle pubblicità promozionali,che giocano al lotto affidando alla sorte i loro sogni, che siammalano ubbidienti ogni volta che la televisione annuncia l'ar-rivo di un'ondata di influenza e che dicono "me lo aspettavo"quando l'Italia perde qualche campionato sportivo o la Ferrariesce in curva.

Appartengono a questa categoria: i genitori che guardano iloro figli crescere chiedendosi "Chissà cosa li aspetta!"; gli im-piegati che la sera in cucina spiegano alla moglie cosa dovrebbefare il capo per far avere loro la nomina a quadro; i giovani senza

Paolo Fresco

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10 Introduzione: la vita sottobraccio Introduzione: la vita sottobraccio 11

lavoro che aspettano la nascita di un'azienda a 10 chilometri dacasa per fare la domanda di assunzione; i prepensionati di cin-quant'anni seduti sulle panchine dei giardini pubblici che discu-tono di problemi di governo e di strategie calcistiche.

Sono informati, delicati, intelligenti. Sono buoni e sovente pii.Si domandano tra loro: "Mi trovi invecchiato?". A chi chiedeloro se sono felici rispondono: "dipende" e quando si insiste persapere la loro risposta promettono che ci penseranno e poidiranno qualcosa.

Stanno seduti da anni sulla stessa sponda del fiume, vissuti dal-la vita, attraversati dagli avvenimenti.

E non sanno di dormire, di morire un poco ogni giorno, spre-cando il loro potere, ignorando il loro potenziale, appannando laloro potenza senza avere vissuto.

Meno grave, ma più crudele è la situazione degli: "addormenta-ti disturbati", quelli che la psicofisiologia del sonno definisce del-lo stadio 1, per indicare cioè uno stato di dormiveglia e di mezzosonno (in questa situazione l'attività del cervello si modifica spe-cie se il soggetto chiude gli occhi e riduce l'attenzione e la consa-pevolezza, passando dalle onde beta della veglia normale alle on-de alfa più lente e di potenza superiore).

Essi sono coloro che a tratti subiscono il ben conosciuto "sus-sulto del dormiente" che interrompe la sonnolenza con momentidi risveglio lucido e improvviso nel corso dei quali essi si accorgo-no che esiste un modo di vivere intenso e interessante, durante ilquale se sono sereni si sentono forti, se si sentono forti influenza-no gli avvenimenti e rendono le persone intorno a loro attente edisponibili ai loro messaggi.

Capiscono di avere della potenza da esplicare e sentono ancheil pedale dell'acceleratore sensibile sotto il piede, ma l'idea di pre-parare lo zaino con le provviste, di tirar fuori la carta stradale e diallacciarsi la cintura di sicurezza e, soprattutto, di doversi sceglie-re dei compagni di viaggio, li frena e li trattiene.

"E se poi non dura?" essi pensano, "e cosa diranno gli altri? E semi rendo ridicolo?".

Chiedono a se stessi e agli altri: "E se mi farò del male e sedovessi soffrire?". Nel risveglio improvviso l'occhio infatti co-glie i particolari in modo nitido e preciso e riesce a vedere sia gliaspetti bene illuminati e luminosi, sia quelli nell'ombra, oscuri epericolosi.

Così la paura prende il sopravvento e si traveste da buon senso,da prudenza, da capacità di accontentarsi. "Forse la mia esistenzanon è poi così grigia" essi si dicono. "In fondo in Africa c'è genteche muore di fame mentre io ho tutto il necessario. La tensione famale al cuore e mio nonno è morto d'infarto... Chi si accontentagode ed è meglio non svegliare il can che dorme...".

Così il mezzo sonno riprende, le tranquille onde alfa sopisconorumori e pensieri e lo stadio 1 di dormiveglia si avvia a trasfor-marsi nello stadio 2 e poi nel 3 e nel 4.

Le occasioni perdute si spingono le une contro le altre comenelle costruzioni di equilibrio con il domino e quando l'ultima esi-tazione le fa cadere tutte, a catena, i "belli addormentati" non sene accorgono nemmeno.

Tra un sussulto e un risveglio sfugge dalla loro coscienza ilmonito della cultura umana, che pure avevano studiato a scuola epian piano le ragnatele coprono il messaggio della lapide dellaChiesa di San Paolo, in Baltimora, sulla quale da tanti secoli èscritto anche per loro: "Passa tranquillamente tra il rumore e lafretta ma ricorda quanta pace può esserci nel silenzio. Conserval'interesse per il tuo lavoro per quanto umile: è ciò che realmentepossiedi per cambiare le sorti del tempo. Gioisci dei tuoi risultaticosì come dei tuoi progetti. Con tutti i suoi inganni, i lavori ingratie i sogni infranti, è ancora un mondo stupendo. Fai attenzione.Cerca di essere felice".

Questo libro va dunque verso le persone deste per conferma-re il loro potere spirituale e rinforzare l'impegno e il piacere divivere esercitandolo e va verso le persone incerte ed esitanticon la forza dell'azione concreta, con la veemenza inconfutabiledei risultati dimostrati. Esso vuole rompere la bara di cristallodegli addormentati del quarto stadio e scuotere la reticenza deisonnolenti di primo stadio. Perché siamo convinti che un mon-do di persone sveglie è meglio di una clinica del sonno e che lapotenza di tutti, esplicata con coraggio e serenità, è ampiamentein grado di rendere la società e la convivenza umana non soltan-to vivibile ma godibile ed eccellente.

"In una società basata sulla conoscenza ci aspettiamo che tut-ti possano avere successo", scrive Peter E Drucker nel suo ulti-mo libro sulle sfide del XXI secolo. Ma questo è impossibile. Inrealtà, per molte persone c'è, se va bene, la mancanza di insuc-

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12 Introduzione: la vita sottobraccio

cesso, perché è inevitabile che la presenza del successo impli-chi necessariamente quella dell'insuccesso.

Dunque diventa di importanza vitale per ogni persona, ma an-che per la sua famiglia, che esista un'area dove si possa dare uncontributo, fare la differenza, essere "qualcuno".

Bisogna scegliere un modo di vivere, una consapevolezza di sé,una partecipazione al sociale che offra la possibilità di essererispettati, di essere leader, di avere successo.

1. Diventare protagonista

La responsabilità di se stessi

Diventare protagonisti si può. È molto divertente. Dà grandisoddisfazioni.

Soprattutto dà la sensazione di vivere la vita in ogni angolo, inogni piega, senza sprecarne nemmeno una goccia. Di avere ciòche si vuole e di volere ciò che si ha.

Ci sono due modi di vivere la vita: aspettare che le cose accada-no o agire per farle accadere. I protagonisti scelgono il secondomodo e non si interrompono di fronte alle difficoltà.

Sanno che nessuno può decidere o influenzare certi avveni-menti che gli accadono ma che tutti, e sempre, possono scegliereil modo con cui reagire a essi.

Sanno, oppure intuiscono, che la vita non aspetta altro. Essa siannoia a consumare i giorni spingendo branchi di passeggeri daqua a là o guardando greggi di pecore esitanti che si fanno guida-re dall'erba dei prati per andare a brucare in una zona piuttostoche nell'altra. Quando incontra qualcuno che la guarda in faccia ele dà fiducia, la vita si trasforma, diventa disponibile, rivela segre-ti, offre opportunità.

Non più facile né più buona che per gli altri. Ma più arieggiata,più emozionata, pronta a concedere spazio alle iniziative e gene-rosa nel permettere la loro trasformazione in risultati.

Il protagonista è visto dagli altri come qualcuno che riesce piùdella media, che vale di più, che ottiene ciò che vuole, che arrivaprimo o che, se anche non arriva primo, in poco tempo conquista iprimi posti. Il protagonista, il altri termini è un leader.

La parola protagonista ha radice greca, protos significa primo,

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14 Diventare protagonista Diventare protagonista 15

proteros anteriore, pro davanti. Il termine indica quindi prioritàin ordine temporale, spaziale e di importanza e significa origina-rio, primitivo, elementare, fondamentale. Il protocollo è il primofoglio incollato, il protoplasma è la prima sostanza. Il protagoni-sta-leader occupa il ruolo centrale in qualsiasi campo, è al cen-tro di ogni vicenda, dà il suo marchio nell'ambiente in cui operae vive.

E sempre popolare nell'ambito in cui vive e che lo riconoscecome superiore. Può trattarsi di un ambito allargato (giornali,televisione, notorietà nazionale o mondiale) ma può trattarsi(cosa assai più interessante, più significativa) di un ambito ri-stretto (un paese, un'azienda, una famiglia). E protagonista ilPiccolo imprenditore che diventa grande, è protagonista il Cicli-sta che vince il Giro d'Italia, ma lo è anche il Nonno di una fami-glia che costruisce la casa per tutti, la Suora che crea l'asilo inun paesino sperduto, il Veterinario che corre in cima alla valleper aiutare le bestie a partorire.

In molti casi i protagonisti-leader sono ammirati, stimati, amatie invidiati; in altri sono criticati, temuti e anche odiati, ma sempre,assolutamente sempre, sono riconosciuti come più forti e più po-tenti degli altri.

E come se avessero deciso, alcuni consapevolmente altri incon-sapevolmente, di assumersi la responsabilità di essere vivi e quin-di di sentire il dovere di agire in modo autorealizzante sia nellepiccole azioni sia nelle grandi scelte. Quando, avendo sete, bevo-no un bicchiere d'acqua lo fanno con piacere godendone ognigoccia e poi dicono: "mi sento meglio", senza aspettare di chiede-re al loro fisico se è vero, ma già sapendo che sarà così. Quandoaccettano un lavoro che non piace o si accorgono di avere unamalattia, non misurano l'umiliazione o il dolore che ciò procuraloro, ma si organizzano rapidamente e lucidamente per combatte-re la guerra e cedere al nemico il minor territorio possibile.

Il rispetto di se stessi viene prima del rispetto degli altri, manon è mai egoismo, a meno che non si intenda per egoismo l'esor-tazione del vangelo cristiano che dice di amare gli altri come sestessi. Si tratta invece di dignità, di autosufficienza, di autonomia(proprio nel senso delle parole greche autos e nomos, che signifi-cano "regola a se stesso ") e può apparire a seconda dei soggetti:leggero distacco, spazio tra sé e gli altri, senso del segreto e,soprattutto, accettazione ed elezione della solitudine, non come

rifugio o difesa, ma come luogo della sorgente vitale e della ricari-ca spirituale.

I protagonisti-leader stanno volentieri con gli altri; sono socie-voli e trascinatori, quasi sempre sono anche dei leader carisma-tici (infatti il modello della piramide del prossimo capitolo indi-ca che il loro livello di massima riuscita è rappresentato dalla co-struzione dell'ascendente o carisma personale) ma sentono co-me indispensabile il bisogno di rimanere ogni tanto da soli, distare con se stessi, di riflettere, di organizzare per conto propriola propria energia. Perché è proprio l'energia la loro caratteristi-ca principale, un'energia con le quattro "E" descritte da uno diloro, un prototipo di protagonista di origine italiana e di culturaamericana che ha cominciato la sua avventura di vita e di lavorocome giovane praticante di uno studio legale a Genova ed è arri-vato fino a diventare vicepresidente della General Electric e pre-sidente della Fiat.

"Energy: avere energia; Energize: la capacità di trasmettereenergia ad altri; Edge: la volontà di vincere; Execute, la decisionedi agire", così rispondeva Paolo Fresco a chi gli chiedeva ilsegreto del successo.

Nella società del Duemila la conoscenza, che negli anni Novan-ta veniva ancora considerata come un differenziale strategico trale persone è ormai a disposizione di tutti, e non solo grazie aInternet; la specializzazione si compra; la competenza richiedetroppo tempo per accumularsi; solo l'energia personale è semprepronta, non ha prezzo, non si accumula in banca, non si gioca inBorsa: o c'è o non c'è. E si trova solo dentro alle singole persone. Ibelli addormentati, i sonnolenti non lo sanno o non l'usano, i pro-tagonisti-leader sì. Sanno che se nel bene c'è la ricchezza, è nel-l'uso che c'è il valore. Sanno che la ricchezza immobile serve soloa un ladro o a un erede, ma a nessun altro.

E la persona energica che produce la ricchezza mobile, cioè ilvalore, e questo valore, in qualunque campo si esplichi, si traducein potere. Ed è proprio il potere l'altra consapevolezza distintivadei protagonisti-leader; il potere nelle sue tre forme di uso: poten-za, potenziale e potenziamento. La potenza definisce la sensazio-ne di possibilità, di forza in uso nel presente, il numero di giri delproprio motore mentre la macchina viaggia. E la luce che fa lapropria lampadina, il volume dell'emozione che si fa voce, suonoe volontà, l'energia dell'azione.

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16 Diventare protagonista Diventare protagonista 17

Il potenziale definisce l'energia di riserva, la carica accumulata, ilprogetto interiore, le mete da raggiungere già decise ma ancorainvisibili a chi sta intorno, il voltaggio dell'alogena di cui nonnecessariamente è in uso nel presente tutta la potenza. Dei quat-tro tipi di potenziale umano da noi individuati nel corso dei nostristudi (il nebbioso, l'orizzontale, l'autopromozionale e il verticale)i protagonisti-leader coltivano l'autopromozionale, cioè quello fo-calizzato sulla volontà e sul gusto di vivere.

Il potenziamento definisce la trasformazione del potenziale inpotenza e viceversa, il cambiamento e il miglioramento dell'agireattraverso l'impegno e l'espressione delle proprie risorse interio-ri. Gli sportivi fanno potenziamento quando si allenano cercandoman mano di spostare in meglio i loro traguardi. Gli studenti fan-no potenziamento quando esercitano la memoria e il linguaggioper migliorare la resa dello studio.

Le persone fanno potenziamento quando si sforzano di migliora-re le loro reazioni o di aumentare le loro conoscenze e capacità. Ilpotenziamento viene spesso realizzato grazie all'aiuto di altre per-sone che incitano, stimolano, confortano al miglioramento delleprestazioni e infatti esso costituisce uno dei compiti più importantidi genitori, educatori, capi, superiori, allenatori.

Il protagonista-leader si potenzia da solo, per istinto, perché sidiverte e si realizza nella sfida continua con i propri limiti. ReinholdMessner, il primo alpinista che ha scalato tutti i 14 ottomila delmondo, quando cadde per uno stupido incidente e la rottura di untallone interruppe la sua carriera si trasformò in esploratore eaffrontò da solo i deserti di ghiaccio dei Poli, raggiungendo altrirecord. "Per me vivere vuol dire andare oltre" dice Messner "ognigiorno è un punto di partenza " .

Non solo per Messner ma per ogni protagonista-leader non esi-ste limite fisso, in nessun campo. Ogni risultato raggiunto diventala constatazione che era possibile farlo e si trasforma nella base dipartenza per un nuovo sforzo. La sfida infatti è sempre con sestessi prima che con chiunque altro.

Né il successo, né la popolarità giustificano da soli l'impegnoe la tenacia con cui il protagonista-leader si impegna nell'auto-potenziamento. Ciò che lo muove è proprio il concetto di poterenel suo significato etimologico, quello di possibilità e di potenzaa disposizione, di creazione di realtà nuove e di influenzamentodi quella esistente. L'entusiasmo per l'essere e per riconoscersi

potente costituisce il massimo rischio morale del protagoni-sta-leader: infatti quando egli agisce entro regole e per fini etici,socialmente economicamente e umanamente accettabili, il suopotere realizza del bene e dell'utile; ma nel caso in cui egli siaper sua educazione o scelta, privo di cultura, di regole morali edi rispetto sociale, diventa un moltiplicatore di male (da Barba-blù a Hitler, la storia è ricca di esempi di protagonisti negativi).

Prepotenza, autorità o carismaA questo punto diventa indispensabile affrontare il problema delpotere, del suo uso, del gusto di esercitarlo, della consapevolezzao meno di possederne.

Tutte le altre caratteristiche finora esaminate, infatti, non sonocosì critiche e non destano tanto sospetto quanto l'affermare cheil protagonista-leader è, prima di tutto, una persona consapevoledi possedere del potere, impegnata a esercitarlo in modo naturalenei confronti di chiunque si relazioni a lui, in ogni situazione e inogni momento, da quando apre gli occhi a quando augura a qual-cuno la buonanotte.

E poiché il potere personale non è mai di un solo tipo ma assu-me forme e modalità diverse e differenziate, noi suggeriamo diabituarsi a riconoscere almeno i tre tipi fondamentali, che sono: laprepotenza, l'autorità e l'ascendente. Il mix dei tre tipi con cuiogni protagonista-leader esercita il suo cento per cento di potererappresenta il suo timbro sociale e morale e costituisce la cartinadi tornasole del suo valore umano.

La prepotenza (uguale: potere di più) o potere anticipato è lacategoria che comprende qualsiasi forma di potenza individualeche permette di forzare il comportamento altrui senza bisogno nédi legittimazione né di autorità. Corrisponde al possesso di mezzidi pressione o strumenti di obbligo, controllo, sanzione che con-sentano di realizzare situazioni di superiorità tali da ottenere ub-bidienza o sottomissione. Una tradizione scorretta attribuisce allaprepotenza delle interpretazioni esclusivamente negative. Secon-do noi ciò non corrisponde affatto alla realtà. Come per il coleste-rolo vi è una prepotenza buona e una cattiva. E quella buona èindispensabile a un organismo sano.

Il potere del campione sportivo nei confronti dei suoi concor-renti altro non è, infatti, che una forma di prepotenza, intesa nel

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18 Diventare protagonista

senso migliore del termine; egli è più forte, corre più svelto e vin-ce grazie alla sua superiorità. Il potere che il neonato esercita neiconfronti dei genitori quando piange la notte costringendoli piùvolte ad alzarsi è autentica prepotenza perché la sua apparentefragilità è in realtà la forza dell'inerme che ha la meglio sul legitti-mo diritto al sonno. Il potere del più allegro in società, del piùgeneroso in un gruppo di amici, del più lamentoso in un 'escur-sione, del più egoista in un consesso familiare, del più insistentein una riunione è prepotenza, cioè esorbita, supera, travalica ilconfronto razionale, il rispetto democratico, l'ordine logico.

La prepotenza associata a crudeltà e disprezzo verso gli altridiventa prevaricazione, ingiustizia, violenza. Ma la prepotenza as-sociata a correttezza, competenza, generosità, svolge non di radoinsostituibili funzioni civili. Così in occasione di disastri o in situa-zioni di panico sociale è sovente il prepotente che offre la sua for-za dando contributi risolutivi. Anche nelle organizzazioni il poteredi prepotenza, purché contenuto in binari ferrei di autocontrolloed educazione, può contribuire a sbloccare situazioni pericolose,a controllare persone difficili, a imporre ordine e rispetto in perio-di di agitazione, crisi o paura. Il protagonista, il trascinatore, ilcapo che soggioga con la sua forza emotiva è sempre, almeno unpoco, prepotente. Quando Ford diceva che tutti i suoi clienti era-no liberi di acquistare l'automobile del colore che volevano, pur-ché fosse nero, non era forse un magnifico, spiritoso, prepotente?

Quando un insegnante o un educatore decide il gioco da faredurante la ricreazione anziché consumare tutto il tempo a disposi-zione nelle discussioni sulla scelta dello stesso, non è forse unintelligente prepotente che privilegia il moto e lo svago per ilbenessere degli allievi?

Più tranquillizzante e legale della prepotenza, l'autorità è la piùclassica tra le categorie di potere. Essa viene definita come "azio-ne che trae forza da un'istituzione o dalla norma di un sistemasociale". E infatti sempre collegata a un ruolo, a una funzione, aun simbolo e corrisponde allo stato sociale di una persona, carat-terizzato dalla possibilità o dal diritto o dal dovere di influenzarealtri verso determinati comportamenti.

Essendo uno stato sociale e non naturale, l'autorità può esseretemporanea, parziale, indossata e smessa come un'uniforme ouna giacca. "Non ti parlo come amico d'infanzia, ma come capo.In questa veste ti devo dire che, se non accetti l'offerta che ti fac-

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cio, ti dovrò allontanare dalla sede...". "In nome dell'autorità chemi è stata conferita dalla proprietà...". "In questa casa si fa così,perché è casa mia e ti mantengo, figlio mio. Appena ti guadagne-rai la vita potrai renderti indipendente".

Questo tipo di potere, apparentemente ideale, apprezzato dailegalisti e dai burocrati, si presta in realtà a giochi deresponsabi-lizzanti e non di rado ipocriti. "Se dipendesse da me io non lofarei, ma il ruolo mi impone...". La forza dell'autorità risiede nellasua legittimità, la debolezza nella sua impersonalità: "ecco, arriva-no le autorità...", "chi ha autorità in questa organizzazione hadiritto di parcheggiare nel cortile".

Il burocrate non esisterebbe senza autorità, nessuno lo ascolte-rebbe! Il protagonista-leader invece si cura dell'autorità solo perlegittimare le sue azioni, ma la vive con distacco e se ne serve,consapevole che altrove è il cuore del vero potere.

Terzo e più importante degli altri, l'ascendente o autorevolezzarappresenta senza alcun dubbio il tipo di potere più naturale alprotagonista-leader perché è il più divertente, il più autentico eanche il più rispettoso dell'identità dell'individuo.

Secondo l'Enciclopedia Britannica l'ascendente è definito unaggregato di doni speciali di pensiero e di comportamento che sipone all'origine del potere personale di individui considerati ecce-zionali, dal quale essi traggono la capacità di ottenere fedeltà e diesercitare autorità spontanea su altre persone.

Secondo Max Weber, invece, per ascendente si intende quellaqualità, ritenuta straordinaria o rara, a cagione della quale unapersona viene giudicata eccezionale, come rivestita di un valoreesemplare e di conseguenza vista come trascinatore, come mo-dello da seguire.

Secondo la psicologia del comportamento, l'ascendente comequalità personale si concreta in energia, dominio, forza, coscienzadi una missione da compiere, convinzione nel perseguire gliobiettivi. Esso viene definito come "un'influenza senza forza néautorità di sostegno, collegata a un individuo specifico e al suomodo di essere più che al suo comportamento esteriore". Il prota-gonista-leader è esattamente questo: un individuo con ascenden-te che può non avere potere ma è potere.

Come per la prepotenza e l 'autorità anche questo tipo di pote-re può essere negativo se viene usato per il raggiungimento difini immorali, illegali, ingiusti, comunque crudeli. L'ascendente

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del cattivo compagno sui bravi ragazzi, del pessimista intelligen-te sui colleghi ingenui, del leader terrorista sugli adepti, dellamoglie depressa sul marito che ama il suo lavoro, del professo-re universitario pervaso da rancori e asti personali, del magi-strato che insinua senza dichiarare. Ma questo non è un libroper i protagonisti del male, ai quali auguriamo impopolarità einsuccesso.

Attenzione! A questo punto attenzione comunque! Il protago-nista-leader resta un essere umano e l'averne parlato così a lun-go nulla cambia della sua normalità e della possibilità di com-portarsi come lui.

Non è un semidio e neppure un genio: a vederlo dall'esternonon presenta nessun segno di superiorità; il più delle volte nonè bello, non è ricco, non è importante, non è celebre. E il suomodo di essere che lo contraddistingue, non le cose che ha.Infatti egli non ha quasi mai un talento o una dote specifica, maè il modo con cui utilizza i suoi talenti che gli permette di avereciò che vuole.

Il protagonista-leader trova lavoro prima degli altri, viene rico-nosciuto capo in qualunque ambiente si trovi a operare, sia essofamigliare, sportivo, politico o lavorativo e dà la sua impronta allecose che avvengono intorno a lui.

L'età, il sesso, il lavoro, la cultura, la nazionalità sono del tuttoindifferenti alla personalità del protagonista-leader, il quale, gio-vane o vecchio, donna o ragazzino, sacerdote o mafioso, managero casalinga, presenta delle caratteristiche di comportamento acui si tiene strettamente fedele e che costituiscono un vero e pro-prio marchio, riconoscibile a distanza. Abbiamo osservato e stu-diato protagonisti-leader in ogni campo, per la durata di trent'annie ci siamo convinti che mentre alcuni di loro sono nati così, moltialtri, anzi, i più, lo sono diventati con l'attenzione, la volontà e ilmetodo, comportandosi secondo uno schema facile da imitare esemplice da esercitare.

Abbiamo sperimentato lo schema su noi stessi, lo abbiamoanalizzato e discusso con gruppi di persone in ambienti diversie distanti tra loro (impiegati, studenti, religiosi, infermieri, ma-nager, presidi, sportivi), lo abbiamo studiato nel tempo e a di-stanza attraverso l'esame di biografie contemporanee e testi sto-rici. Abbiamo educato i nostri figli secondo lo schema qui pre-sentato e la loro riuscita nella vita sta dando una buona dimo-

strazione di conferma. Per questa ragione ci sembra utile pro-porlo attraverso questo libro a un pubblico più vasto di quelloche ora lo conosce perché altre persone possano trarne sugge-rimento e vantaggio.

Antagonista, utilitarista, disfattista o nichilista

Oltre ai protagonisti-leader ci sono anche i "non protagonisti" equesti si comportano in modi diversi, ovviamente, dal protagonista.

Ma i "non protagonisti " non sono una categoria unica come iprotagonisti. Noi crediamo che si possano catalogare in "specie"

diverse in funzione del loro agire prevalente.C'è chi agisce reagendo ai fatti che accadono, cercando so-

prattutto di modificarli anche sostanzialmente perché non sod-disfatto di essi. E questo il comportamento del cosiddetto: "agi-re innovando".

C'è chi agisce nel rispetto degli accadimenti, rivolto però amigliorare la situazione che essi creano, eliminando o riducendo-ne gli aspetti negativi. E questo: il comportamento dell"`agiremigliorando".

C'è chi è portato a opporsi, spontaneamente o per scelta ideolo-gica, alle cose che accadono e ciò fa senza proporre alternative dimiglioramento o di cambiamento. E questo: il comportamentodell"agire contrastando".

C'è chi cerca di comportarsi accettando le situazioni e i fatticosì come accadono ma traendo da essi il massimo dei vantaggisenza dare un contributo positivo. E questo: il comportamentodell"`agire sfruttando".

C'è, poi, il "non agire", caratteristico di coloro che nulla fannodi fronte a qualunque situazione, non aggiungono e non tolgono,non migliorano e non peggiorano i fatti. Non fanno altro che os-servarli come spettatori esterni, non li giudicano neppure; riman-gono inani di fronte a essi.

Possiamo ripassare questi cinque modi di agire immaginandoche cosa può succedere quando, sull'autostrada, a causa di unincidente automobilistico si viene a creare un blocco al traffico.

C'è l'automobilista che immediatamente esce dalla sua vetturae cerca di facilitare il passaggio delle altre macchine per evitare ilformarsi di una lunga coda, sollecitando altri per rimuovere pezzi

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o parti di auto sparsi sul manto stradale e telefonando con il cellu-lare al servizio dei carri attrezzati (agisce innovando).

C'è la persona che subito si preoccupa degli automobilisticoinvolti nell'incidente; lascia la sua macchina portandosi ap-presso, quando l'ha, la cassetta del pronto soccorso. Chiedenotizie agli incidentati, si pone in loro aiuto; controlla lo statodelle autovetture; se qualcuno ha necessità di essere ricoveratoè pronto a portarlo all'ospedale senza neanche aspettare l'au-toambulanza (agisce per migliorare). C'è chi interpreta l'av-venimento soprattutto per i danni che deve subire; non si preoc-cupa di intervenire o di aiutare qualcuno a meno che ciò possamigliorare la sua situazione; impreca contro chi guida male, mase gli è utile anche lui si mette a guidare male; si arrabbia per iltraffico eccessivo, per le autostrade mal gestite e inveisce, nonsentito, contro le forze dell'ordine o le istituzioni; quando doves-se arrivare la macchina-attrezzi o l'autoambulanza sposta confastidio la sua autovettura per liberare il transito. Egli è "contro"la situazione perché la situazione è "contro" di lui (e quindi agi-sce per contrasto).

Qualcun altro, rimasto intrappolato nell'incidente e fermo incoda non ritiene suo dovere o suo obbligo fare qualcosa perrisolvere la situazione; è concentrato sulle sue esigenze. Quan-do vede un varco nella coda si intrufola rapidamente anticipan-do gli altri; fa il "furbo" e se la macchina della polizia a sirenespiegate lo supera egli si mette subito in scia per bruciare lacoda e abbandonare rapidamente la zona dell'incidente. Costuiha un comportamento egoista; "agisce sfruttando" la situazionea scapito di altri.

Infine c'è chi si pone verso l'accadimento con atteggiamentofatalista; sa che ogni giorno succedono incidenti in autostrada;l'avvenimento specifico non lo commuove, non lo esaspera, nonlo attiva; attende senza fare nulla che altri risolvano la situazione;non cerca soluzioni; sta nella sua macchina e lì rimane anche perore ascoltando la radio. Siamo di fronte a un comportamento daignavo: egli non fa nulla e ritiene giusto non fare nulla.

La stessa persona potrebbe assumere contemporaneamentee in misura diversa alcuni dei comportamenti qui descritti. Chicerca di innovare la situazione potrebbe contemporaneamentemigliorarla; chi è contro tutto e tutti, al momento buono potreb-be infilarsi dietro la macchina dei carabinieri e sfruttare la situa -

Asse del contrasto

zione. Un ignavo, improvvisamente potrebbe assumere un'uni-ca decisione e con svolta improvvisa mettersi nella carreggiataopposta per sfilarsi dalla coda. Alcuni atteggiamenti tuttaviasono per loro natura antagonisti. Il generoso che aiuta, normal-mente non "sfrutta" la situazione. Colui che è contro tutto e tuttiquasi sempre non è un generoso. E difficile immaginare un indi-viduo che nella situazione descritta, come quella dell'incidente,cerchi di facilitare il traffico e nel contempo urli e sbraiti colpe-volizzando chi è in coda.

Dal gioco delle sinergie e degli antagonismi comportamentalinasce una figura a forma di "scacchiera" (vedi la Figura 1.1) chepermette di individuare cinque aree in ognuna delle quali si puòidentificare un "personaggio tipo " .

Figura 1.1Asse del miglioramento

Area 3

Gli utilitaria

Area 1

1 protagonisti_leader3

0

5 4

Area 4 Area 2

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Nell'area 1 possiamo allocare coloro che agiscono per modificareuna situazione migliorandola e/o innovandola. Nell'area 2 vannoa sistemarsi i personaggi che innovano contrastando. Essi agisco-no o criticano e sono utili alla società ma partendo dal presuppo-sto che tutto è da cambiare e nulla va bene a loro.

Nell'area 3 troviamo coloro che agendo egoisticamente, sfrut-tano la situazione a loro beneficio ma in qualche modo questoloro beneficio potrebbe anche migliorare la situazione globale.

Nell'area 4 possiamo allocare coloro che agiscono sfruttandol'occasione peggiorando la situazione stessa a causa del loro at-teggiamento di perenne disfattismo.

Con peso diverso ma di sostanziale ignavia nell'area 5 troviamocoloro che fanno poco o niente. Non innovano; non migliorano opeggiorano le situazioni ma neanche le sfruttano per quanto dibuono o di utile esse possano avere.

Abbiamo così la possibilità di classificare con molta approssi-mazione l 'umanità in tipologie di personaggi e precisamente nelleseguenti cinque:

—i protagonisti-leader nell'area 1;—gli antagonisti nell'area 2;—gli utilitaristi nell'area 3;—i disfattisti nell'area 4;—i nichilisti nell'area 5.

Con riferimento alla scacchiera comportamentale (vedi la Figura1.1) si può sovrapporre alle quattro semirette che partono dalcentro una scala con valore crescente da 1 a 5. In tal modo possia-mo dare forza e spessore alle singole tipologie: un'antagonista(4;5) è decisamente più aggressivo e più stimolante che un 'anta-gonista (3;3) o (2;4) o (4;2).

Per quanto attiene al significato delle nuove figure qui citate,oltre al protagonista, il vocabolario afferma quanto segue.

—Antagonista: personaggio in conflitto permanente e/o in op-posizione incidentale con la realtà nella quale egli vive; rivaledel protagonista nel cambiare le cose; cerca soluzioni semprediverse; agisce con modalità inusuali e considera la routineperniciosa e noiosa. La presenza di protagonisti lo stimola elo galvanizza.

- Utilitarista: personaggio che mira soprattutto al proprio ren-diconto traendo vantaggio per sé dalle situazioni nelle quali sitrova o dalle condizioni altrui; sfrutta, abusa, approfitta. Eun'egoista ma riesce a dimostrare che ciò che fa non danneg-gia nessuno. Rimane indifferente rispetto a qualunque prota-gonista a meno che questi gli dia un tornaconto.

- Disfattista: personaggio che interpreta negativamente ogni si-tuazione e tende a peggiorarla facendo azioni provocatorie eminacciose. Cerca di impedire il successo degli altri. E invidio-so, acrimonioso. Non si sente colpevole dei danni che procuraanzi ciò lo rende orgoglioso. Cerca di denigrare qualunqueprotagonista.

—Nichilista: personaggio che tende a fare nulla o poco nulla inqualunque situazione; fatalista fino a essere autolesionista;scettico, pessimista, anarchico, non crede in alcun valore.Odia i protagonisti.

Con lo schema della Figura 1.1 abbiamo posto le coordinate perallocare con tutta la dovuta prudenza l'umanità intera. Nasce im-mediata per qualcuno la domanda: quanti sono nella società colo-ro che si possono identificare secondo lo schema della "scacchie-ra" e cioè che possiedono le caratteristiche per poter appartenerea una delle cinque tipologie descritte nella Figura 1.1?

Ecco la risposta, anche se parziale e non universale.Dal 1989 noi eroghiamo un test che permette di misurare la

potenza e il potenziale delle persone.Si chiama Futura I e si inserisce nel filone dei grandi test pro-

iettivi di personalità quali: Eysenck, Cattel, Tat.Sono 23.000 gli individui che abbiamo già testato; fra essi: stu-

denti, operai, impiegati, dirigenti, maestri, professori, artigiani,commercianti, casalinghe e liberi professionisti.

Grazie a 12 fattori di comportamento misurati su una scalatotale di 240 punti, il Futura I permette di avere per ogni indivi-duo il suo potenziale (ciò che potrebbe diventare) e anche lasua potenza (ciò che fa, ciò che è). Il risultato del test è un profi-lo che grazie alla forza di ogni fattore e alla composizione dialcuni cluster (grappoli di fattori) permette di individuare conalta affidabilità l'appartenenza del soggetto ai cinque "tipi" dipersonalità già descritti.

I 12 fattori di comportamento del Futura I sono: l'energia, la

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volontà, la responsabilità, ilpensiero, la disponibilità, lasocialità, lacollaborazione, l ' influenzamento, l'equilibrio, la fantasia, la tensio-ne e l'astuzia di Ulisse.

Il test applicato a sicuri e acclamati protagonisti-leader (nellagrande o nella piccola dimensione sociale) ha permesso peresempio di individuare un primo cluster che ogni Protagoni-sta-leader possiede o dovrebbe possedere in grande misura;esso è il cluster: dell'energia, della volontà, della responsabilità edell ' influenzamento.

In altri termini chi possiede: voglia di fare, prontezza, concretez-za, rapidità, tonicità fisiopsichica (fattore: energia) insieme a: auto-sufficienza, fiducia in sé, indipendenza e non influenzabilità (fatto-re: volontà) e in aggiunta a: coscienziosità, senso morale, ordine,solido super-ego (fattore: responsabilità) il tutto condito da: sensodel potere, decisionalità, assertività, forza relazionale e una buonadose di prepotenza (fattore: influenzamento) secondo il Futura I è opotrà diventare con alta probabilità un protagonista-leader. Da allo-care in uno degli altri quattro tipi della "scacchiera" secondo moda-lità di "clusterizzazione" diversa la persona che, nel test, denunci ilcontrario di quanto detto e cioè dosi considerevoli di: disinteresse,lentezza, inattività, passività, pigrizia, prudenza, influenzabilità,pessimismo, scoraggiabilità, indecisione, superficialità, approssi-mazione, disordine, qualunquismo, adattabilità, incertezza.

Un secondo cluster che con intensità minore si ritrova in tutti iprotagonisti affermati e che dà, a chi li possiede potenzialmente,buona probabilità di essere o di diventare dei leader è quellocostituito dall'accoppiata dei due fattori: fantasia e astuzia di Ulis-se. Sono coloro che possiedono in buona misura: creatività, curio-sità, flessibilità, eccitabilità (fattore: fantasia) e: furbizia, egocen-tratura, autodifesa (fattore: astuzia).

Con la prudenza necessaria che queste tecniche diagnosticherichiedono per il fatto di non dire cose sicure ma valide, nel mi-gliore dei casi, al 90% della valutazione conclusiva o per il 90% del-la popolazione valutata, grazie alla nostra banca dati sulle caratte-ristiche di personalità di 23.000 individui sottoposti al Test FuturaI la "scacchiera" della Figura 1.1 viene così occupata:

—reali o potenziali protagonisti = 32%;—reali o potenziali antagonisti = 26%;—reali o potenziali utilitaristi = 18%;

- reali o potenziali disfattisti = 8%;— reali o potenziali nichilisti = 16%.

panorama è decisamente confortante.Più di un terzo dell'umanità (mutatis mutandis) ha la possibilità

di recitare nella piccola o nella grande dimensione sociale un ruo-lo da Protagonista quindi da leader. Egli dovrà vedersela con gliAntagonisti che non sono pochi e che cercheranno di impedirglidi esprimere la sua potenzialità. Potrà ignorare i Nichilisti e iDisfattisti anche se da loro sarà denigrato e odiato, ma dovràessere attento a individuare gli Utilitaristi con i quali potrebbetrovarsi bene a lavorare ma dai quali potrebbe essere strumenta-lizzato e ingannato.

C'è tuttavia un motivo di preoccupazione: i dati precedentemen-te elencati appartengono all'ultimo triennio. Se si risale più indietroe si va ad analizzare il triennio precedente allora i Protagonisti realio potenziali erano in misura maggiore: il 38% del campione FuturaL Stiamo andando verso un'era carente di leader?

Il modello della piramide

La piramide dell'autorealizzazione rappresenta il primo schemacomportamentale da noi elaborato sulla base delle nostre ricer-che sui personaggi autorealizzati. Esso propone una traccia diautosviluppo applicabile a qualsiasi persona, di qualsiasi cultura enazionalità e di qualsiasi età. E stato verificato e applicato da cen-tinaia di persone, non solo nel mondo del lavoro e la sua utilitàcomprovata ci incita a continuare a diffonderlo e a migliorarlo. Sitratta di un modello molto semplice (vedi Figura 1.2), rappresen-tato da una piramide che si basa su tre piani orizzontali definitidalle parole "capacità", "stile", "ascendente". Essa è riferibile allavita di una persona nel suo complesso, oppure agli aspetti profes-sionali specifici. Ci si può infatti domandare in modo generale:sono una persona "capace" di vivere, vivo con uno "stile" che rap-presenta ciò che mi sento di essere, esprimo un'autorevolezzapersonale che mi rende credibile da quanti mi conoscono?

Oppure, ci si può chiedere in modo più mirato e concentrato: nel-la mia professione, nel mio lavoro (qualunque esso sia: dentista,poliziotto, deputato, casalinga) sono "capace " di impiegare le com-petenze necessarie; sono "conosciuto e stimato" per il modo con

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Figura 1.2

A,scestdesrte

Stife

Capacità ;

MIOe:', !Plg%M

-

cui esercito il mio impegno, rappresento un "esempio " da imitareper i valori e la qualità che esprimo?

La zona più ampia della piramide, corrispondente alla base, èquella chiamata delle capacità, la zona intermedia è quella dello sti-le, la zona superiore, il traguardo finale, è quella dell'ascendente odell'autorevolezza. La diversa dimensione delle zone corrispondealla quantità di opzioni in esse contenute: dieci sono le capacità, cin-que le componenti dello stile, due le dimensioni dell'ascendente.

Per "capacità" intendiamo una specificità rivolta al fare basata suconoscenze di riferimento, un saper fare caratterizzato dalla possi-bilità di concretizzare e dalla realizzazione in azioni. La capacitànon è da confondere con il talento, la dote o l'abilità naturale, chesono caratteristiche strettamente individuali e innate. La capacità èpragmatica, si impara, si insegna, si copia, si allena, si esercita, sicorregge e si sviluppa. La capacità è la base del potere delle perso-ne di produrre e costruire azioni coerenti e quindi comportamentiripetibili e continuati mirati al raggiungimento di obiettivi.

La psicologia divide le capacità in capacità generali riferite adazioni realizzabili, in svariati campi della vita umana e capacità spe-cifiche riguardanti ambiti particolari di realizzazione. La capacità didecidere, per esempio, è una capacità generale mentre la capacitàdi cucinare o quella di intrattenere i bambini sono capacità specifi-che per le quali è necessario, fra l'altro, decidere. La nostra pirami-de considera fondamentali (proprio nel senso di essere elementicostituenti le fondamenta) dieci capacità generali che l'esperienza

ci ha dimostrato essere prioritarie per la costruzione di un'esi-stenza interessante, possente, dispiegata in ogni sua possibilità.Naturalmente siamo consapevoli che esistono molte altre capacitàgenerali che qualche lettore potrebbe preferire o giudicare piùimportanti delle dieci citate, ma dopo anni di ricerca e sperimenta-zione noi confermiamo il suggerimento di cominciare da quellepresentate nel capitolo.

L'acquisizione e la pratica delle capacità permette alle persone diesplicare il massimo grado della sua mediocrità, intendendo il ter-mine mediocrità in senso positivo e cioè al mezzo, al medio dellasua potenza. In molte organizzazioni sociali ciò equivale già al pri-mo riconoscimento di valore e all'acquisizione di una prima formadi potere esecutivo.

L'individuo capace, infatti, viene apprezzato per la sua utilità. Equesto il caso di molti sistemi di valutazione del personale in varisettori come quelli che riguardano il lavoro pubblico e privato,aziendale o istituzionale, militare o scolastico i quali misurano idipendenti e i collaboratori sulla base di liste di capacità generali especifiche a seconda dei ruoli.

Ai più capaci viene riconosciuto uno stipendio migliore ed è tradi loro che, di solito, vengono scelti quelli a cui affidare compiti diguida o responsabilità dei collaboratori. Molti individui capaci sisentono realizzati e soddisfatti da questi riconoscimenti e trovanonel loro agire e nella loro funzione di utilità una soddisfazione suffi-ciente per dare un senso alla loro esistenza. Si considerano quindiarrivati e si bastano così. Altri no.

Gli scalini dritti o rovesci

Gli altri sono coloro ai quali non basta che la loro capacità sia valu-tata bene da coloro che li circondano ma desiderano misurarsicon una riconoscibilità più allargata. Per costoro la frase "saperfare e fare" si completa indispensabilmente con il "far sapere".Queste persone attribuiscono importanza alla relazione socialenon solo come scambio di necessità ma anche come occasione estimolo di arricchimento personale. Esse considerano il socialeben più ampio del solo ambito lavorativo o famigliare e desidera-no sentirsi parte attiva e riconosciuta di uno scenario allargato,della società, del loro paese.

Essere capaci di costruire una bella automobile o una casa soli-

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da, di insegnare bene una materia, di professare un mestiere concompetenza non sembra a costoro sufficiente a rappresentare lacompleta applicazione della loro qualità umana.

Essi provano il bisogno e il desiderio di realizzarsi in qualcosa dipiù, che corrisponde al vedere la loro casa abitata, la loro automobi-le privilegiata tra le altre, la loro scuola riconosciuta come eccellen-te da allievi e genitori, il loro mestiere citato come modello da altricolleghi, anzi scelto come prototipo di miglioramento della società.

Sanno già di essere persone e sono contente di esserlo ma sento-no di poter diventare personalità nel confronto, nella comunicazio-ne e nella collaborazione ma anche nella competizione.

Per loro, e per quanti non ci avrebbero pensato da soli ma trova-no stimolante la proposta che stiamo suggerendo, diventa impor-tante la seconda zona della piramide, quella definita dello "stile"per indicare con questo termine la scelta e lo sviluppo di un'im-magine pubblica, da offrire a tutti e non solo a chi già li conosce,allo scopo di far esercitare a 360 gradi le proprie capacità e farsiidentificare come persona originale e inconfondibile. Lo stile non èuna recita né una finzione ma costituisce la cornice, l'abito e ilmodo con cui si sceglie di comunicare.

Naturalmente tutti comunicano anche senza stile!Tutti si vestono e tutti rispondono al telefono, tutti parlano con

gli altri, ma la maggioranza delle persone vive la relazione interper-sonale senza aver mai pensato in che modo lo fa; quelli che lo fannospontaneamente bene vengono giudicati simpatici, estroversi, pia-cevoli, mentre quelli che lo fanno sgraziatamente e male vengonogiudicati antipatici, conflittuali, asociali. Probabilmente questi ulti-mi non lo sono volontariamente, né vorrebbero esserlo, ma nessu-no li ha mai avvisati. Nel mondo del lavoro la ricerca e l'importanzadello stile dell'immagine relazionale risultano indispensabili persvolgere con successo determinati compiti e per costruire certe re-sponsabilità: cosicché mentre il buon capoufficio non ha bisogno diuno stile originale per dirigere il suo ufficio, il direttore di filiale diuna banca, invece, ha bisogno di uno stile personale e coerente perattirare la clientela e rappresentare la sua azienda. E come lui ilvenditore, il commerciante, il benzinaio o il deputato.

Anche nella famiglia la scelta di uno stile facilita i rapporti e valo-rizza le persone: quanti matrimoni falliscono perché nella coppianon si gestisce la convivenza con un minimo di stile e quanti genito-ri diseducano i figli con il loro spontaneismo casuale seppur affet-

oso che confonde i messaggi, si contraddice e sbanda non avev-o scelto una coerenza comunicativa?Ognuno può decidere il proprio comportamento poiché esso èstituito da azioni, reazioni e comunicazioni, cioè messaggi verba-e non verbali; è sufficiente governare e organizzare queste quat-

tro componenti per costruirsi uno stile.Ognuno può scegliersi il proprio, con tutte le sfumature che vuo-

le. Se non si ha voglia, se non ci si sente in grado di fare sforzi crea-tivi o di progettazione basta scegliersi un modello di immaginesemplice ma bene accetto dalla cultura in cui si vive e da cui si desi-dera essere legittimati, mantenendo, naturalmente, i valori morali.

Per una trentenne funzionaria di una media azienda che desideridiventare dirigente, per esempio, il modello di immagine può esse-re quello di un'altra manager di successo che ella abbia conosciutoo di cui abbia letto notizie o sentito dichiarazioni e interviste. Perun giovane studioso che arrivi alla carriera scientifica e universita-ria, invece, il modello deve prevedere la pubblicazione di articoliscientifici, la presenza a congressi di studio, l'iscrizione ad associa-

` zioni culturali del proprio settore. Gli stili di relazione sociale esi-stono da quando esiste la società umana, il tempo dedicato a procu-rarsi il più adatto al tipo di vita e di lavoro che si pratica, non è tem-po perso ma, al contrario, costituisce un investimento sicuro pervalorizzare le caratteristiche e le qualità personali.

Nella figura della piramide, mentre il lato inferiore della zonadello stile confina con il piano delle capacità e dimostra che solo ilriuscire a far riconoscere le proprie capacità è la base del succes-so personale, il lato superiore dello stile confina con l'ultimo scali-no, quello dell'ascendente che definisce la leadership personale.Secondo i nostri studi infatti quando lo stile di una persona diven-ta eccellente come qualità e armonia di espressione, esso si puòtrasformare facilmente in autorevolezza e venire riconosciuto co-me carisma.

L'ultimo scalino della piramide è quello che qualifica il comporta-mento di qualunque persona rendendola una personalità "fuori dalcomune" cioè riconosciuta come superiore alla media da quanti loincontrano, anche solo per caso.

E lo scalino al vertice del disegno per indicare sia una situazionedi superiorità sui livelli sottostanti sia il raggiungimento di un mas-simo non superabile.

La forma della piramide apre a tutti la possibilità di diventare dei

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leader. Sviluppare le capacità di base del primo gradino non richie-de altra difficoltà che esercitarsi e allenarsi e permette di realizzareun comportamento concreto e apprezzato. Scegliersi uno stile per-sonale e valorizzare la propria immagine, come propone il secondoscalino, richiede un lavoro un po' più impegnativo di diagnosi del-l'ambiente in cui si vive e si lavora e la selezione di alcune caratteri-stiche che consentano a chi le pratica di segnalarsi come figurariconoscibile e popolare.

Il terzo scalino propone di costruire e sviluppare la propria per-sonalità ed esige uno sforzo mirato a cui non tutti sono disposti. Ciòche consente, tuttavia è la pienezza della potenza e l'esplicazionedei talenti cioè l'intensità totale della vita, del piacere e dell'in-telligenza. Nella terza zona vivono i "personaggi esempio", i model-li, i realizzati, coloro che rappresentano, in carne e ossa l'idea del-l'autorealizazione citata da psicologi e filosofi di tutte le culturecome la massima qualità umana.

Anche la quantità di superficie e il volume dei tre scalini esprimevisivamente la difficoltà crescente della proposta. Rispetto a 100persone che decidono di diventare capaci, due terzi lo diventanoma solo un terzo di esse si costruisce uno stile e un'immagine origi-nale e soltanto un cinque per cento realizza una leadership perso-nale di successo.

Che ciò che affermiamo sia di consapevolezza comune, vienedimostrato dalle nostre indagini miranti a rilevare le reazioni didiversi campioni di italiani nei confronti delle tre parti della pirami-de. Alla domanda: "quale gradino indicherebbe come zona chedescrive il suo personale modello di comportamento attuale?", su486 adulti responsabili e attivi (funzionari, insegnanti, dirigenti,commercianti, genitori), il 70% ha indicato le capacità, il 25% lo stilee solo il 5% l'ascendente. Un secondo campione costituito da 270

studenti universitari al quale invece è stato chiesto di indicare lazona della piramide a cui stava mirando nel momento della doman-da, ha risposto: per il 60% non so, per il 12% ha indicato le capacità,per il 5% lo stile e per il restante 23% l'ascendente.

Un terzo campione, costituito da 132 impiegati di una grandeazienda multinazionale, al quale è stato chiesto di attribuire ai pro-pri superiori delle caratteristiche, assegnandoli ai tre gradini, harisposto descrivendoli per il 43% soltanto capaci, per il 50% anchebuoni gestori della propria immagine e per il 7% provvisti di cari-sma e ascendente.

Anche se difficile, la sfida si propone come attraente. I leader natu-rali sono nella quasi totalità persone di successo, che ottengonoquello che vogliono con maggior facilità degli altri, sono ricono-sciuti come particolarmente popolari e si sentono contenti di loro.

Ma quasi tutti possono diventare dei leader sol che lo vogliano efacciano esercizio. Il comportamento è imitabile e non richiededoti elitarie o eccezionali ma solo un metodo e una costanza parti-colare fomentata da uno sforzo quotidiano e incessante. Non occor-re conoscere personalmente dei leader per diventarlo e neppureche questi siano in vita per imitarli, è sufficiente leggerne le dichia-razioni, osservare le loro azioni, consultare le loro biografie e darefiducia al loro modello. Dall'Odissea ai Promessi Sposi, da GiulioCesare a Madame Curie, da Lincoln a Bruno Mazzolari, ognunopuò identificare personalità che impersonano valori e scelte spiri-tuali o politiche che gli corrispondono e costruirsi un esempio e unmodello fondendo caratteristiche, abitudini, modi di fare diversi.

Così facendo si accorgerà che qualunque tipo di leader egli esa-mini, di qualunque epoca storica, provenienza e cultura esso sia,esiste in ognuno di essi un comune denominatore fisso e ben defi-nito, assolutamente invariabile, costituito dalle due dimensioni in-teriori della volontà e della vitalità, ovvero della convinzione e delconvincimento. Per riuscire a sapere se anch'egli lo possiede e inquale misura, il quarto capitolo presenta un test autovalutativo.

L'allenamento e il lavoro scambievole di queste due forze costitu-isce la sostanza dell'ascendente personale e consente l'esplicita-zione della leadership come capacità di influenzamento di se stessie degli altri. Dalle dieci capacità ai cinque stili, alle due dimensioni,nella punta della piramide ognuno conosce i prezzi che deve paga-re e conserva impressi nella memoria quelli che ha già pagato. Mala sensazione di completezza e di identità da cui si sente colmato loricompensano di qualsiasi sacrificio.

Un tempo pensavamo che la costruzione della piramide persona-le dovesse necessariamente cominciare dalla base e procedere ver-so la cima passando attraverso la scelta di uno stile.

Oggi per noi non è più così. Conosciamo persone che sono parti-te dalla cima e cioè dal possesso della consapevolezza di avereascendente e leadership ma poi si sono accorte che il carisma, perquanto abbondante, non si concreta in riconoscimento né tantomeno in successo senza la scelta di un rapporto sociale e accettatodall'ambiente esterno. Lo studente o il laureato di gran personalità,

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34 Diventare protagonista

primo del suo corso, rimane disoccupato se non spedisce il suo cur-riculum alle organizzazioni che possono assumerlo e, soprattutto,se non lo scrive in modo comprensibile. L'attore più trascinantenon fa carriera se non trova una compagnia con cui recitare o unagente che lo promuove presso gli impresari; lo scrittore miglioreresta sconosciuto se un editore non legge il suo libro e non decidedi pubblicarlo.

L'artigiano o il piccolo imprenditore, più carismatico, amato e sti-mato dai suoi dipendenti che darebbero la vita per lui, continuerà astentare il guadagno e a tirare i conti a fine mese se non decide difar conoscere i suoi prodotti. Il successo e i soldi si fanno attraversoil secondo scalino che è appunto "secondo" sia considerandolo dal-la cima che dalla base della piramide nel senso che non è il piùimportante, ma viene subito dopo il più importante. Ma il successo,i soldi e la realizzazione personale diventano duraturi e stabili solose gestiti con capacità. Lo scalino delle capacità resta "fondamenta-le", in quanto costruisce le fondamenta, cioè le basi che garantisco-no la tenuta della costruzione nel tempo.

E il saper scegliere, pianificare e programmare i propri obiettivi.E il saper prendere decisioni con il giusto grado di rischio, il sapercapire cosa succede e come affrontare la realtà, il saper cambiareal momento giusto, il saper coinvolgere gli altri ai propri progettiche rende possibile costruire una professione, una carriera, unafamiglia, un business solido e stabile. Sono le capacità che permet-tono a un giovane deputato eletto con ampio consenso grazie allasua simpatia di trasformarsi in un politico utile al suo Paese; sono lecapacità che aiutano un medico con sicuro istinto del mestiere adiventare responsabile di un grande ospedale; sono le capacità chefanno di un operaio appassionato di meccanica il piccolo imprendi-tore che dà lavoro agli amici del suo paese.

Tuttavia, mentre un tempo le fondamenta si scavavano nel terre-no ed era obbligatorio per qualsiasi costruzione cominciare dallaloro posa, oggi esse si possono anche fissare dall'alto (funi, vele,tiranti) e completano con funzione estetica l'architettura e la tenutadi ponti, edifici, musei. Restano indispensabili ma non importa se sicomincia da loro o si finisce con loro. Quindi la scelta è libera perchi vuole diventare protagonista. Che si inizi dalla base o che sicompleti dalla cima, che gli scalini si salgano o si scendano il segre-to della piramide è uno solo. Capaci, relazionali, leader; azione,relazione, personalità: fare, apparire, essere.

Le capacità del leader

fl'j dieci comandamenti

- Questo capitolo illustra la base, lo zoccolo della nostra teoria delsuccesso personale. Dopo aver constatato che non è tanto il suc-cesso che rende leader coloro che svolgono un ruolo, quantopiuttosto il saper essere leader in un determinato modo che con-sente di raggiungere il successo, entriamo ora nella metodologiaOperativa: da dove si comincia e come si comincia.

Il rischio del metodologismo pedante ci preoccupa, perché sia-mo consci che un consiglio "vago" anche se bene espresso puòpraticamente non servire a nulla, mentre d'altra parte un consi-glio preciso risulta spesso molesto, pignolo e prescrittivo.

"Tutto qui?", pensa il nostro lettore, che sperava in un megadi-segno magico e si trova invece davanti a una serie di azioni allaportata di tutti. Eppure chi ha toccato con le mani i blocchi di pie-tra della piramide di Cheope o del tempio del Sole di Cuzco non lidimenticherà più: un blocco dopo l'altro, uno per volta, aggiustatoal millimetro, accostato agli altri, levigato come se fosse il piùimportante. La piramide e il tempio non reggerebbero se la basenon fosse stata curata così perfettamente. Dunque, tutto qui.

Incominciamo dall'affermazione, ovvia, ma non tanto fino aquando non viene dichiarata, che il leader deve avere sostanza enon può vendere solo fumo o soltanto apparire.

Può accadere che un leader sia diventato tale anche senza con-tenuto ma i fatti dimostrano che costui non dura. Per rimaneretale nel tempo, il leader deve dimostrare di possedere delle quali-tà che si evidenziano nell'agire quotidiano; deve, insomma e pri-ma di tutto, dimostrare di saperlo fare e cioè di avere quelle capa-

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36 Le capacità del leader Le capacità del leader 37

cita, quelle competenze che non sono tecniche e/o specialistiche,ma sono una sorta di caratteristiche generali comuni a tutti i lea-der. Affermare che i "saper fare" del leader non siano solo tecni-co-specialistici non vuoi significare che la competenza specificasia ridondante o, peggio, inutile ma semplicemente ammettereche il migliore specialista del mondo, il più esperto professioni-sta, il miglior studioso ricercatore non diventeranno mai punto diriferimento, modello da imitare, personaggio da ricordare senzale altre capacità, quelle generali.

Per noi esse sono dieci; potrebbero essere anche il doppio e il tri-plo, ma per noi quelle che proponiamo, figlie di anni di studio e diricerca sono le fondamentali per costruire la base del comporta-mento del leader. E vogliamo chiamarle comandamenti per sottoli-nearne l'importanza e l'indispensabilità. Tutti i leader da noi cono-sciuti e studiati praticano questi comandamenti, con differente in-tensità e cura, a seconda dei loro caratteri, cultura e ruolo nonescludendone nessuna. Tra un comandamento e l'altro non ve n'èuno più importante o prioritario, come nel caso di quelli cristiani,ma si può comunque suggerire un ordine logico per la loro presen-tazione che cominci dalla capacità iniziale di diagnosi (che cosasuccede) e continui con la capacità di decidere (scegliere l'azioneda compiere) affronti poi la capacità di lavorare duro (resistere nel-l'intento prescelto), arrivi alle capacità di relazione con gli altri(comunicare, motivare, collaborare, gestire i conflitti e comanda-re) e si concluda con le due capacità "madri" del successo in ogniambito privato o professionale, la capacità di gestire il tempo (sa-persi programmare) e quella di innovare (saper migliorare le situa-zioni con la fantasia e la creatività). Tuttavia chi aspira al praticanta-to di leader deve scegliere pesi diversi e personali ai dieci coman-damenti. Il suo ordine prioritario dipenderà dagli obiettivi di breve,di medio e di lungo termine che egli si pone. Se l'obiettivo priorita-rio di breve per esempio è la visibilità allora conviene incominciarea investire nella capacità di comunicare ed esprimersi. Se l'obiet-tivo prioritario è invece l'integrazione con le persone con cui silavora, le prime capacità su cui esercitarsi diventano quelle di lavo-rare e interagire con gli altri e di motivare i collaboratori.

Se prima di tutto si vuol diventare esempio per la concretezza deirisultati a breve termine le capacità da privilegiare sono il saperdecidere e il saper lavorare duro; se i risultati si vogliono raggiun-gere al medio e lungo termine allora è meglio privilegiare oltre a

quelle dette, il saper programmare e pianificare. Tutti i comanda-menti possono essere considerati di volta in volta prioritari, mal'essenziale è ricordare che sono tutti necessari.

Primo: solo chi sa di non sapere è saggio(saper diagnosticare e valutare)

Se non si capisce quello che succede non serve decidere cosafare: quasi sicuramente si sbaglia. Se non si capisce ciò che pen-sano le persone, non serve sforzarsi a convincerle: le si irrita. Senon si capiscono i punti forti e i punti deboli di una persona nonserve avere idee vincenti né soluzioni formidabili: il sistema cede-rà comunque e l'interlocutore può lasciarci dall'oggi al domanisenza che noi ne comprendiamo il perché. Per capire bisognafare diagnosi. La diagnosi rappresenta il momento essenziale delsuccesso di ogni azione e di ogni pensiero intelligente.

La parola viene dal greco diagnosis; è composta dai due termi-ni dia (attraverso) e gnosis (conoscenza) e indica l'acquisizione diconoscenza mediante l'osservazione della realtà oppure, con defi-nizione più completa, il riconoscimento della specie e dei caratte-ri di un problema (di una situazione, di una persona) sulla basedell'osservazione dello stesso e dell'elaborazione dei sintomi, co-stituiti normalmente da informazioni. Chi fa diagnosi "ruba" gra-tuitamente conoscenza dalla realtà; già i filosofi greci sosteneva-no che la cultura nasce dal confronto ed Emmanuel Kant stigma-tizza duramente chi tale confronto rifiuta. "Coloro che hanno pre-sente soltanto il vecchio sistema, per cui è già stabilito prima ciòche devono approvare e ciò che devono disapprovare", scrive ilfilosofo tedesco nella Critica della ragion pratica, "non desidera-no nessuna spiegazione che potrebbe essere di ostacolo al loromodo di vedere". Per assumere l'atteggiamento corretto, coluiche diagnostica deve:

—sospendere qualsiasi giudizio preesistente in merito all'og-getto della diagnosi (il pre-giudizio);

— sviluppare l'osservazione intesa e mirata sul problema, rac-cogliendo la maggiore quantità di informazioni possibili;

—confrontare le informazioni raccolte con il proprio sistema diriferimento, ricontrollando a questo punto motivazioni e giu-dizi precedenti (apprendimento per differenza);

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38 Le capacità del leader Le capacità del leader 39

— elaborare l'interpretazione definitiva della diagnosi, che di-venta così parte del bagaglio culturale globale e può influen-zare le azioni e le decisioni successive.

Come si vede, la diagnosi richiede tempo e buon autocontrollo. Lafretta, l'ansia, il coinvolgimento emotivo viziano la lucidità dell'os-servazione e la raccolta dei dati, mentre l'attenzione, la concentra-zione, il distacco, la calma e la curiosità sono di grande aiuto.

Forse per questo la capacità diagnostica non piace ai popoli latinie mediterranei: essa è lenta, quasi ferma; distaccata, non induttiva;nega il "sé" a vantaggio del "non-sé", rifiuta il "pathos" e privilegia ilragionamento; coltiva il punto interrogativo evitando le certezzetroppo semplici. Ha scritto nella sua Etica Baruch Spinoza: "vedia-mo che gli uomini sono abituati a chiamare le cose perfette oimperfette più a causa del pregiudizio che secondo una vera cono-scenza di esse". La diagnosi provoca irritazione, oltre che per i tem-peramenti caldi e impulsivi, anche per alcune mentalità che tendo-no a rifiutarla come non utile e, soprattutto, non condizionante.

La mentalità burocratica, privilegiando la norma come rispostagià pronta, accetta il momento analitico dell'osservazione, ma ricu-sa l'aspetto storico anamnestico e dubitativo della diagnosi.

Anche la mentalità tecnica che si basa sulla storia, sull'espe-rienza e sui dati numerici considera la capacità diagnostica comeridondante e intellettuale. A che serve perdere tempo a cercareinterpretazioni teoriche quando i numeri sono già lì, concreti, adire il necessario? Più la realtà è complessa, più gli stimoli sisovrappongono, più le alternative sono numerose, più la diagnosidiventa indispensabile. Essa rappresenta la base professionale,non solo dei grandi investigatori, dei medici famosi, degli psica-nalisti più professionali, ma di qualsiasi leader responsabile dicomportamenti pubblici o privati.

La diagnosi applicata alle persone viene chiamata "valutazio-ne", per non confonderla con le diagnosi di tipo medico e psicolo-gico. Il dovere-diritto di valutare rappresenta l'aspetto più delica-to di chi deve interagire con altri, perché sfiora talmente da vicinola dimensione privata individuale da obbligare chi lo esercita achiarimenti etici e tecnici precisi.

Chi proviene dalla cultura cattolica deve anche convincersi cheil nolite iudicare non prescrive al buon fedele di "non prendereposizione in nessun modo", in quanto una più attenta lettura del

Vangelo chiarisce il vero significato del messaggio. Scrive l'apo-stolo Luca (6,37-42): "non giudicate se non volete essere giudica-ti". Solo il pavido e l'altezzoso non vogliono essere giudicati.

Miss Marple, Hercule Poirot, Nero Wolfe, il tenente Colombo:la letteratura poliziesca di qualità migliore si basa sull'esaltazionedella capacità diagnostica dei suoi personaggi leggendari. Ancheleggendo un giallo ci si può allenare all'osservazione e all'inter-pretazione dei fatti.

Per esercitarsi all'atteggiamento diagnostico bisogna coltivare ecurare la capacità di ascolto. L'80% delle informazioni che ci servo-no sono già presenti nell'interlocutore: si tratta quindi di riconosce-re il bandolo iniziale e srotolarlo senza "strappare". Anche un silen-zio tra le frasi o uno sguardo può esprimere un segnale che il dia-gnostico sa cogliere. Troppo spesso l'efficienza eccitata di coluiche deve giudicare castra l'esattezza della diagnosi e diventa radicedi decisioni sbagliate perché troppo si è... saltati alle conclusioni.

Far bene diagnosi vuoi dire ricominciare ogni giorno a osser-vare ciò che accade intorno a noi, come se tutto fosse nuovo.Ricordiamo che i genitori sono gli ultimi ad accorgersi che i figlicrescono e che i parenti non riconoscono i segni del cancro sulvolto del congiunto più caro.

Il dubbio intelligente, non il dubbio indeciso o pavido, è la ca-ratteristica di una mente acquisitiva, curiosa, coraggiosa. Chi du-bita con metodo fa ricerca e fa diagnosi. Scrive il filosofo BlaisePascal: "tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato". Reci-ta il proverbio: "solo chi sa di non sapere è saggio".

Nei giudizi sulle persone o sui problemi il buon diagnostico evi-ta le affermazioni assolute. Non esiste la persona coraggiosa incontrapposizione con la persona timorosa, ma la persona più co-raggiosa di un'altra (o meno timorosa di un'altra).

Tutti siamo un po' coraggiosi e un po' timorosi. Paradossalmentela valutazione obiettiva non è quella assoluta; essa è sempre figliadel confronto. Di qui la certezza che non sempre la valutazione sul-la stessa persona o sullo stesso problema, fatta da due valutatoricoincide. Quanto più la diagnosi sposta la sua applicazione dai feno-meni fisici a quelli umani, dai semplici a quelli complessi, da quelliripetitivi a quelli innovativi, da quelli manuali a quelli intellettuali,tanto più la diversità di opinione diventa norma.

Fate scrivere un breve componimento a 10 ragazzi di età ugualema di diversa "bravura" scolastica. Consegnate il tutto a tre profes-

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40 Le capacità del leader

sori di età diversa chiedendo loro un giudizio secondo il classicocriterio docimologico dello zero e del dieci. Il migliore tema noncoinciderà per tutti e tre i professori e così anche per il peggiore.

Quando si tratta di valutare una composizione artistica, un'azio-ne creativa, uno spunto intellettuale, un'idea, la valutazione saràsempre approssimativa e vaga. Ma fra giudicare e non giudicare èsempre meglio giudicare. II giudizio, qualunque esso sia, si puòdiscutere, confrontare, modificare, migliorare. Esercitandosi a va-lutare si migliora la diagnosi; mai si arriverà, per molte situazioni,al giudizio universale ed eterno, ma almeno sarà più contenuto ilgrado di approssimazione.

Al futuro leader una raccomandazione è doverosa: lo stesso im-pegno da porre a migliorare la propria capacità di diagnosi e divalutazione deve corrispondere a un'uguale disponibilità a esserevalutato e la disponibilità a essere giudicato deve essere premessaalla valutazione altrui.

Ci sono persone che nella vita non si sono mai chieste: "qualisono i miei difetti?" (ma anche, "quali sono le mie doti?"). Ci sonoindividui che mai hanno provato a mettersi in discussione, di soli-to sono gli stessi che rifiutano le diagnosi degli altri.

Quando chiediamo a potenziali candidati per un posto di lavorodi parlare dei loro errori o dei loro punti deboli, sovente c'è ilsilenzio come risposta o addirittura la sorpresa. Non si è mai pen-sato a ciò. Il leader si pone invece la domanda e prova a risponde-re come premessa alla seconda domanda: che cosa dovrei fareper essere migliore? Per essere più utile e a valore aggiunto, peressere di esempio? Sull'entrata dell'oracolo di Delfi c'era scritto"Conosci te stesso". L'autovalutazione comincia dal conoscersi econtinua con il volersi migliorare. Dunque, ognuno è, prima ditutto, maestro a se stesso.

Scrive Lucio Seneca ne La tranquillità dell'animo: "innanzituttodobbiamo esaminare noi stessi, poi i compiti che vogliamo assu-mere e infine le persone con le quali intendiamo lavorare. Dob-biamo valutare noi stessi perché di solito ci sembra di potere (o divalere?) più di quanto in realtà siamo e possiamo. Così uno falli-sce perché confida troppo nella sua eloquenza; un altro pretendetroppo dalla propria intelligenza; un altro ancora sfianca il suo fisi-co debole con un lavoro troppo faticoso".

Dobbiamo inoltre pesare bene i compiti che vorremmo assume-re e confrontare le nostre forze con ciò che stiamo per tentare.

Le capacità del leader 41

Ricordiamoci che chi compie un'impresa deve disporre di una for-za superiore a quanto comporta l ' impresa stessa; è fatale che pesisproporzionati schiaccino colui che li porta. E per essere maestro ase stesso il leader, come dice Khalil Gibran ne Il profeta, deve impa-rare da se stesso: "quando un tale domandò: parlaci e insegnaci,Egli disse: nessuno può insegnarvi nulla, se non ciò che in dormi-veglia giace nell'erba della vostra conoscenza".

Il futuro leader è come il gabbiano Fletcher così come lo ritrovia-mo nell'ultima pagina dell'opera di Richard Bach: "il gabbiano Jo-nathan sospirò e guardò verso l'orizzonte: tu non hai più bisogno dime; tu non hai bisogno di nessuno Fletcher. Devi solo seguitare aconoscere meglio te stesso, ogni giorno un pochino di più per tro-vare il vero gabbiano Fletcher Lynd. E lui il tuo maestro. E lui chetu devi capire. E in lui che tu devi esercitarti, a essere lui".

Secondo: scegliere e costruire la realtà(saper decidere rischiando)

Il mondo è pieno di indecisi, di pavidi, di rinunciatari, di dubbiosima anche di persone pronte a criticare, di solito con il "senno dipoi", coloro che le decisioni le hanno prese.

Siete mai stati coinvolti in un ingorgo a un incrocio? Vi è mai suc-cesso di vedere qualcuno scendere dalla macchina e porsi al centrodella strada per riattivare la circolazione decidendo lui chi far pas-sare, chi fare attendere, chi fare arrestare? Potete immaginare ciòche pensano o dicono ad alta voce gli automobilisti bloccati? Alcunise la prendono con il semaforo spento e con chi non ha fatto l'op-portuna manutenzione; altri fanno ragionamenti non troppo bene-voli verso il Corpo dei vigili urbani, vistosamente assente nell'oc-casione. C'è chi urla con quello davanti, c'è chi impreca con quellodi dietro. Molti suonano rabbiosamente, lungamente, inutilmente ilclacson. Ma nessuno scende per prendere qualche decisione riso-lutiva a vantaggio del problema. Viviamo nell'indecisione perma-nente o nella permanente attesa di qualche decisione che altridevono prendere per risolvere un problema senza chiederci se pos-siamo noi decidere qualcosa per il problema.

Si racconta che alla proposta di assumere l'onere (ma soprat-tutto l'onore) di diventare il primo presidente della Repubblica,negli anni Quaranta del secolo scorso, De Nicola tergiversasse,dubitasse, tentennasse non rispondendo alle sollecitazioni di chi

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era latore della proposta fino a quando qualcuno dei proponenti,perdendo la pazienza, sbottò dicendo: "onorevole, decida di deci-dere se accetta di accettare!".

Ma anche il non-decidere è una decisione. Si decide di non-deci-dere. Quindi tutti decidono, volenti o nolenti, spesso senza render-sene conto e quindi senza valorizzare la decisione. Ogni azione onon-azione è una scelta almeno nel modo in cui la si effettua, se nonnel contenuto, nell'obiettivo. La vita di ognuno è un tessuto conti-nuo di decisioni (cominciando dal programmare la sveglia un mi-nuto prima, dieci minuti prima o esattamente al minuto necessarioper alzarsi) ed è indispensabile analizzare il meccanismo delle de-cisioni più consuete per poterlo scomporre, aggiustare, valorizzaree trasferire nelle decisioni professionali e importanti.

Decidere significa scegliere, prendere posizione, privilegiare,acquisire. Ma significa, soprattutto, rinunciare. Quando si decideun'azione o si sceglie una soluzione, vuoi dire che si lasciano per-dere tutte le altre. Se non si capisce o non si accetta questo aspet-to della decisione, non si diventerà mai dei buoni decisori.

Il comportamento del decisore appartiene a quella classe dicomportamenti la cui dominante comune risulta sempre essere lamotivazione. Chi ha obiettivi o bisogni precisi decide più facil-mente di chi non sa ciò che vuole o ha motivi deboli, contingenti,legati a situazioni conflittuali. La definizione psicologica di deci-sionalità è ben descritta nella citazione che segue, tratta dal Dizio-nario di psicologia di Amedeo Dalla Volta: "la personalità forte-mente decisa è caratterizzata dalla tendenza a risolvere pronta-mente i problemi e a persistere in un dato corso dell'azione, met-tendo in opera quanto necessario per raggiungere le mete prefis-se, superando ostacoli e resistendo ai contromotivi con adeguateinibizioni. Quando l'azione debba essere dilazionata, la personache è decisa non rinuncia, ma si pone in condizioni favorevoli al-l'attesa. Dalla fermezza nella decisione si passa per gradi all'in-certezza, fino all'incapacità di formulare e mantenere le decisioni.Il comportamento dell'individuo diviene man mano passivo e iltratto della personalità opposto alla decisione, l'indecisione, puònelle forme più gravi (abulia) essere considerato patologico".

Rapidità, prontezza, organizzazione, tenacia, fermezza e capaci-tà di attesa: un cocktail di caratteristiche che possono far apparirela persona decisa poco malleabile, poco disponibile, forse anche

poco simpatica. Sarà allora indispensabile sapersi spiegare, coin-plgere gli altri, trasmettere convinzione e convincimento.

,;La prima decisione della storia umana l'ha presa Eva nel Para-diso terrestre. Adamo non aveva scelto di esistere né tantomeno

togliersi una costola per trovare compagnia. Se fosse dipeso dalu, avrebbe continuato a ubbidire al buon Dio e non avrebbe pre-

alcuna decisione. Eva, invece, si avvicinò all'albero, staccò lamela, decidendo, come ben sappiamo dannosamente, per sé e pertutti noi. "Dirigere è decidere", afferma lo studioso Peter Druc-

ker. Non esiste organizzazione che non si appoggi su una gerar-chia di decisori. Nell'esercito, nella scuola, negli ospedali, nelleaziende industriali, nelle imprese di servizio, nei sindacati, nellachiesa, nelle organizzazioni filantropiche, nei partiti, ma anche infamiglia esiste sempre una precisa e ristretta gerarchia di deciso-ri il cui livello nella struttura è tanto più alto quanto più ampi sonoi loro spazi discrezionali. Anche laddove si parla di "democrazia",

cioè di un'organizzazione il cui potere è (o dovrebbe essere) inmano ai membri della stessa organizzazione, le decisioni vengo-no prese di volta in volta da un numero limitato di persone delega-

te formalmente o informalmente, scientemente o meno a far ciòdal resto della popolazione.

- Lo sviluppo della capacità decisionale è alla radice di ogni com-portamento umano libero e maturo, essendo la libertà nient'altroche la possibilità di compiere un'azione o di formulare un pensie-ro o un'opinione piuttosto che un'altra; ma è soprattutto alla basedi ogni comportamento del leader il quale, per essere veramentetale, deve realizzarsi in uno spazio di discrezionalità, cioè di possi-bilità di scelte e di alternative.

Il processo decisionale è costituito da un ciclo di attività, la cuiconoscenza e applicazione iterata più volte permette di affinare ladecisione finale.

Una semplice schematizzazione è quella che risulta da una ricer-ca diretta da E.R Archer, che ha interrogato più di duemila perso-naggi sul modo in cui prendono le decisioni. Lo schema di Archerpropone un processo decisionale scandito da nove operazioni.

—Prima operazione: l'esame del contesto in cui la decisione de-ve essere presa.

—Seconda operazione: la definizione del problema o della situa-zione su cui decidere.

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— Terza operazione: l'individuazione degli obiettivi che sonoda raggiungere.

— Quarta operazione: la diagnosi dei problemi o delle situazio-ni considerate.

—Quinta operazione: la valutazione delle possibili soluzionialternative.

—Sesta operazione: l'individuazione del metodo e dei criteri pervalutare le alternative.

—Settima operazione: la valutazione con i metodi e con i criteriindividuati.

—Ottava operazione: la scelta dell'alternativa migliore.—Nona operazione: l'attuazione dell'alternativa scelta.

Decidere quindi è scegliere fra alternative nella speranza che quel-la scelta sia la migliore per risolvere il problema. Ma non sempre ècosì. Scegliendo si può sbagliare e l'errore è lo scotto da pagare perchi decide. Solo chi non decide, non sbaglia. Chi decide quindirischia. Il rischio rappresenta la probabilità che un evento, realiz-zandosi, produca effetti negativi, contrari, diversi dall'obiettivo otti-male cui esso mirava. Solo le decisioni senza innovazione sonocompletamente prive di rischio; ma se non c'è innovazione non c'èprotagonismo. Le decisioni coperte da una procedura, le decisionigarantite da una norma, rispondono a un problema, ma non a unproblema nuovo. Tali decisioni sono proprie del burocrate, cioè dicolui che non ammette il rischio.

Per rischiare bisogna essere disposti a sbagliare: a riconosceredi aver avuto torto e questo implica l'aver risolto la questione dellafiducia in sé. Chi vuoi essere un leader deve sapere che nella vitavince chi sa perdere e non chi vince sempre. Bisogna aver paura diavere sempre ragione perché l 'unica novità, per chi vince sempre,può essere quella di incominciare a perdere. Compiere un erroredi cui scusarsi, avere un insuccesso su cui riflettere, correre unrischio su cui meditare è la situazione ideale per rafforzare la crea-tività, il coraggio, la voglia di proseguire. A decidere qualche voltasi sbaglia ma a non decidere, si sbaglia sempre.

Nel processo decisionale proposto da Archer l'ultima operazio-ne recita: attuazione dell'alternativa scelta. La decisione, dunque,ha significato se si realizza. Ma, dice il proverbio, "fra il dire e ilfare, c'è di mezzo il mare".

Goethe ha scritto: "pensare è facile; agire è difficile, ma più dif-

ficile ancora è trasformare le idee in fatti" e frequentemente neiconsessi pubblici di qualche politico gira questa voce: "a parole èaffascinante; nei fatti è un incapace".

Sostiene Peter Senge: "il valore di un professionista, oggi, con-siste nella sua capacità di trasformare modelli concettuali e dicomportamento in azioni concrete che portano a risultati visibili emisurabili". Decidere è dirigere, dirigere è decidere.

Per il leader attuale o futuro valgono le seguenti massime:

—tra decidere e non decidere è sempre meglio decidere;—tra decidere "no" e non decidere è sempre meglio decidere

"no", anche se ciò comporta scelte dolorose e non simpatiche;—tra decidere oggi e decidere domani è sempre meglio deci-

dere oggi;—tra decidere rapidamente, sbagliando qualche volta, e deci-

dere lentamente alla ricerca della risposta perfetta è sempremeglio decidere rapidamente (per rapidamente correggeregli errori);

—si può anche non decidere, purché la scelta di farlo sia ragio-nata e temporanea;

—decidere non è suggerire, ritenere opportuno, consigliare;questi verbi non fanno parte del lessico del protagonista-decisore;

— non si può decidere su tutto; per i problemi meno importantisi può usare la tecnica della delega; per quelli marginali sipuò arrivare anche all'indifferenza.

Terzo: dal sudore alla stamina (saper lavorare duro)

Anche quando piace, il lavoro costa fatica e richiede per il suo com-pimento l'impiego di una forza fisica, intellettuale e psichica che,una volta erogata, ha bisogno di tempo per ricostituirsi. "Lavorarestanca", come dice il proverbio, e se non c'è stanchezza significache non si è lavorato come si poteva e si doveva. Si tratta natural-mente di stanchezza diversa a seconda che si lavori con piacere,con rancore o con passività: esistono stanchezze felici e appagate,stanchezze amare e sfinimenti oscuri quasi quanto una malattia(non si dice, infatti, "stanchi morti" e "stancarsi da morire"?).

Dalle stanchezze felici si ci riposa facilmente, da altre invece

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non ci si rimette mai del tutto poiché si sommano le une alle altrefino a deformare l'intera personalità del soggetto.

E dai tempi antichi che questa storia della stanchezza continua aripetersi e abbiamo ragione di credere che non cambierà mai. NelParadiso terrestre il lavoro viene presentato come il castigo pereccellenza, di cui il sudore della fronte deve costituire testimonian-za. Oggi il sudore della fronte funziona ancora per pochi poiché,con la trasformazione di gran parte del lavoro da manuale e fisico aimmateriale e intellettuale, è diffusamente sostituito dal sudoredella noia o delle mani ansiose o del labbro nervoso, ma lo sforzocontinua a essere tale per tutti, seppur mutato nella tipologia.

Nessun percorso importante, neppure quello scandito da tappevittoriose, può essere compiuto senza fatica. La maglia rosa delGiro d'Italia, così come le classifiche dei campionati mondiali,richiedono sforzi uguali ai primi concorrenti come agli ultimi,anzi richiedono ai primi sforzi raddoppiati rispetto agli ultimi. Infondo, anche Malabrocca, mitica figura di maglia nera del Girod'Italia degli anni Cinquanta, colui che "ce la metteva tutta perarrivare ultimo", faticava e soffriva, ma molto meno di Bartali eCoppi. Un obiettivo raggiunto senza sudore (fisico, emotivo omentale) non è un obiettivo da raggiungere ma qualcosa cheabbiamo già a disposizione e, quindi, senza valore.

Se il lettore è già centrato nell'ordine di idee di diventare o dirimanere un leader, sappia che il prezzo da pagare per questoruolo è anche di tipo fisico. Non di rado chi arriva al vertice dellacarriera ama ricordare i tempi duri vissuti nell'attesa del successoe con una sottile forma di vendetta obbliga i suoi collaboratori apesanti tour de force. Come Harold Geneen, il mitico e storicopresidente dell'Itt. Egli si vantava di lavorare 14-16 ore al giorno edi interrompere per la colazione solo quando ne aveva il tempo,"in un momento qualunque tra mezzogiorno e le quattro " . Fa par-te della sua leggenda l'abitudine per cui le riunioni con i collabo-ratori potevano andare avanti fino alle undici o mezzanotte con osenza l'interruzione per la cena, a seconda dell'importanza dellecose da discutere.

"Mi occorrevano uomini che non solo fossero professionalmen-te capaci e competenti" scrive nella sua autobiografia, "ma cheavessero anche la carica interna necessaria per resistere a ritmimassacranti durante il lungo orario di lavoro". A un dirigente delgruppo che gli faceva notare come in un anno avesse passato 175

giorni in riunioni di quel tipo e gli chiedeva dove avrebbe trovato iltempo per dirigere il suo ufficio, rispose: "negli straordinari serali,nei fine settimana e in qualunque altro momento possibile!".

Ma se si accetta l'idea che il protagonista debba essere coluiche "prima di tutto" lavora indefessamente, si corre il pericolo dibrutalizzare il protagonista a livelli di mera prestazione esecutivae di pura manovalanza.

La nostra accezione della capacità di "saper lavorare duro" siriferisce, invece, al saper faticare nel senso antico dell'etimo ecioè alla capacità di sopportare con naturalezza le sollecitazionipsicofisiche del lavoro; di distribuire correttamente lo sforzo nelcorso della giornata; di non cadere in stati di scoramento, di debi-litazione, di distrazione, di depressione; di gestire se stessi conautocontrollo e resistenza, consapevoli che la fatica ormai non èmuscolare ma nervosa e quindi il lavorare duro riguarda più laresistenza, la tenacia, la volontà e il rispetto di se stessi che la vee-menza o la forza bruta. Nella nostra interpretazione saper lavora-re duro significa saper utilizzare al meglio l'energia di cui dispo-niamo e saperla rigenerare quando essa viene impiegata.

Per qualsiasi essere vivente tutto comincia e tutto finisce in ener-gia. Anche l'uomo si presenta alla scienza che lo studia come unfascio di energie diverse (muscolari, nervose, cerebrali, mentali,spirituali) tutte indispensabili alla conduzione della sua esistenza.

Ogni emozione procura una spesa di energia, ogni pulsione eogni attività, sia essa fisica o mentale, ogni piccolo movimento èaccompagnato da un'erogazione di energia alcune volte coscientema più spesso inconsapevole.

L'energia, che è definita come la capacità di compiere del lavo-ro e di consentire quindi l'effettuazione di azioni, dal punto divista meccanico si presenta nelle due forme dell'energia cineticacaratterizzata dal movimento e dall'energia potenziale caratteriz-zata dal non essere evidente e dall'esplicitarsi solo in certe situa-zioni trasformandosi in potenza per reazione a certi stimoli.

Dal punto di vista umano si parla di potenza per indicare l'ener-gia in atto e di potenziale per indicare l'energia di riserva nella stes-sa identica accezione della scienza fisica. Oppure di energia super-ficiale di adattamento e di energia profonda in senso strettamentefisiologico e medico. Ogni persona vive grazie all'impiego dellaPropria energia, che costituisce il suo capitale più prezioso e il cuiuso diventa la determinante dell'intera esistenza. L'erogazione del-

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l'energia di superficie produce fatica e stanchezza ma, dal momen-to che essa si ricostituisce attingendo sia dall'energia profonda cheattraverso lo scambio con la realtà (l'energia non si distrugge, masi trasforma, dice il primo principio della termodinamica), la faticapuò venire recuperata con il riposo e si parla, in questo caso, di fati-ca "buona". Quando invece il meccanismo di erogazione e di recu-pero di energia si inceppa e la spesa di vivere arriva a intaccare e aconsumare il capitale di riserva, allora la fatica diventa "cattiva"perché spezza l'equilibrio energetico e inizia il processo di invec-chiamento. La vecchiaia altro non è che la progressiva perdita diefficienza dei sistemi interni dell'organismo, mentre la buona salu-te è la conservazione della massima efficienza fisica, psichica ementale. L'essere umano, dice la medicina, è l'unico essere vivente"programmato" per vivere 120 o 130 anni che non completa il suociclo vitale a causa del cattivo uso della propria energia.

La chiave dell'equilibrio è nella mente umana, poiché è in essache avviene il riconoscimento del tipo e della quantità di energiarichiesta ed è in essa che si può manovrare l'interruttore della pro-pria efficienza e decidere il momento e la quantità del recupero.

In alcune culture occidentali, quella americana soprattutto, anzi-ché di energia si parla di stamina (o stàmina, dal termine greco dienergia) considerandola una delle caratteristiche più importanti dapossedere per vivere e lavorare in modo pieno, sano, possente erealizzante. La stamina definisce l'energia, la forza, la grinta di unapersona. Chi ha buona stamina riesce a reggere le situazioni diffici-li senza farsene stroncare, sa reagire agli ostacoli e trasmettere for-za alle altre persone, sa ricominciare senza rinunciare. Chi ha sta-mina debole si stanca facilmente, fa fatica a recuperare, tende avivere in modo pessimistico e autodistruttivo. La stamina si puòallenare esattamente come si fa con la forza muscolare. Bisognaimpegnarsi a mettere potenza in tutto ciò che si fa, a coinvolgersi inciò a cui si partecipa e a recuperare rapidamente la fatica sia emoti-va che fisica. Bisogna imparare a compensarsi, a canalizzare ledelusioni e le sofferenze, a spostare gli investimenti dispersivi ver-so obiettivi più raggiungibili, a distrarsi, a non lasciarsi deprimere,a fare un vero e proprio footing della psiche per tenersi in forma.

Per quanto ci si riesca a ricaricare ogni mattina e si viva colmidi sana ed energetica stamina, nessuno nello studio, nel lavoro,nella vita famigliare può evitare lo stress. Esso costituisce la rea-zione inevitabile degli esseri umani a un tipo di esistenza che si

svolge in situazioni che sono stressanti per loro natura. Di stresssi può morire, di stress ci si può ammalare, lo stress può rovinareuna vita, distruggere i rapporti affettivi, avvelenare i più modestipiaceri quotidiani. Ma, d'altra parte, è solo nello stress che è rac-chiusa la spinta per il successo, per il raggiungimento di qualsiasiobiettivo importante. Nulla di eccezionale, di grande o di social-mente utile è mai stato fatto da una persona che trascorresse lavita sdraiata su una spiaggia in abbronzante dormiveglia e cherispondesse alla domanda: "c'è qualcosa che desidera nella vita?"con un: "che tutto resti com'è!".

Secondo Hans Seyle, il medico che per primo studiò lo stress,il massimo dovere delle persone consiste: "nel dare il più possi-bile espressione alle potenzialità interiori del proprio io. Perottenere ciò essi devono anzitutto accertare quale sia il lorolivello ottimale di stress". Il suo primo libro sullo stress iniziacon questa frase: "questo libro è dedicato a tutti coloro che nontemono di godere a fondo lo stress di una vita totalmente pienae che non sono tanto ingenui da presumere che ciò sia attuabilesenza uno sforzo dello spirito".

Quarto: all'inizio era il verbo (saper comunicare)

"La bistecca è scotta ma l'alcool è concentrato". Con questa fraseun calcolatore ha distrutto in pochi attimi mesi di lavoro di un grup-po di esperti informatici-linguisti, infatuati della strumentazioneelettronica, strenui difensori dell'intelligenza artificiale e convintiassertori che tutto, anche il linguaggio volgare, potesse essere tra-sformato in comunicazione computerizzata. Essi avevano infatti"perfettamente" insegnato al computer il modo di tradurre da unalingua europea a un'altra; peccato che la frase proposta per la verifi-ca fosse: "la carne è debole ma lo spirito è forte". L'aneddoto do-vrebbe servire ad attenuare gli infantili entusiasmi che alcuni tribu-tano all'azione di informatizzazione globale, considerandola comela soluzione unica e totale per la gestione delle comunicazioni neisistemi complessi. Costoro ritengono che, automatizzando le infor-mazioni, dovrebbe cessare ogni necessità di comunicare a voce frale persone e che la comunicazione computerizzata potrebbe sosti-tuire la comunicazione umana e decretarne la fine.

Già lo studioso di strategia Russell Ackoff aveva espresso unaforte preoccupazione per il meccanismo implicito nell'uso di mac-

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chine "senza anima e senza cuore"; la sua era la stessa preoccupa-zione mostrata da McLuhan nell'analisi dei mezzi di comunicazio-ne di massa, quando auspicava il recupero della voce e della pre-senza umana del soggetto parlante contro il pericoloso e irrever-sibile processo di spersonalizzazione e di burocratizzazione inatto. Il computer può e deve diventare un utile e parziale sostitutodella parola umana, ma non ne sarà mai l'alternativa definitiva.

La cultura spirituale ("in principio era il Verbo...") e la culturamaterialistica ("le parole sono armi", affermò Lenin) hanno sem-pre esaltato l'uso della parola e non sarà certo la tecnologia a ucci-derla. "Il fondamento dell'esistenza umana è il colloquio" ha scrittoil filosofo tedesco Heidegger. Fuori dunque dalle illusioni di unprossimo futuro nel quale le comunicazioni dovrebbero essere de-legate solo e soltanto alla strumentazione elettronica, le nostrericerche confermano una realtà nella quale la comunicazione uma-na appare essere l'attività più frequente e più impegnativa di coloroche operano nelle organizzazioni.

Saper comunicare vuole dire: sorridere, modulare la voce pertrasmettere sensazioni ed emozioni, trasmettere attenzione, sicu-rezza, fiducia oppure rampogna, rabbia, sconforto. Si comunicaciò che si dice ma anche come si dicono le cose. Quando McLu-han dice che il mezzo è il messaggio, non afferma soltanto chenella comunicazione umana: "l'abito fa il monaco" ma dice cheogni persona traduce nel suo esprimersi il proprio modo di esseree di sentire, oltre che di pensare. Il protagonista che non è consa-pevole di ciò, trasmette a sua insaputa, si tradisce senza volerlo,vive e lavora come l'imperatore della favola di Andersen che sicredeva vestito elegantemente e non sapeva di essere nudo.

Il modello di Johari che definisce in quattro aree le possibiliposizioni del sé comunicante in rapporto ai quattro assi ortogona-li: cosa so di me, cosa non so di me, cosa gli altri sanno di me,cosa gli altri non sanno di me, considera di pari importanza nelrapporto sociale:

– l'area aperta (so cosa comunico; la mia emissione consape-vole coincide con la ricezione degli altri);

– l'area privata (so cosa non comunico; controllo la mia riser-vatezza e la difendo dall'osservazione altrui);

– l'area inconscia (non posso comunicare ciò che non so di mee quindi nessuno può ricevere nulla);

– l'area cieca (esprimo dei contenuti che gli altri ricevono mache non so di comunicare), l'area della metacomunicazione.

Non si comunica quindi soltanto con le parole (l'area aperta). Seciò che si comunica verbalmente non è che una parte dellacomunicazione umana, bisogna sviluppare e controllare la meta-comunicazione, riportandola nell"area aperta" perché il com-portamento non verbale commenta, rinforza, talvolta contraddi-ce o sostituisce il significato della parola. La mimica del corpoappartiene al campo della metacomunicazione. Di essa fannoparte: la gestualità (come si muovono le mani); la maschera fac-ciale (che traduce le emozioni); l'orientamento dello sguardo(che trasmette l'intensità di ascolto o la direzione fisica del mes-saggio); le posizioni e il movimento del corpo (che danno vitali-tà e credibilità alle affermazioni e agli atteggiamenti).

Il cibernetico Forrester, con una felice esemplificazione, defini-sce il comunicatore "un rubinetto regolatore inserito fra due imbu-ti accostati per il vertice, entro i quali transitano informazioni". Unodei due imbuti ha il compito di raccogliere, ascoltare, ricevere; ilsecondo quello di emettere, restituire, rispondere. Secondo questoschema l'essenza della comunicazione umana è racchiusa nellafunzione del filtro tra i due imbuti, la cui presenza si giustifica perscegliere cosa utilizzare, rifiutare, cosa manipolare; se così non fos-se, il comunicatore si ridurrebbe a un semplice trasferitore passivodi comunicazione. Si ha così, di volta in volta, il comunicatore am-plificatore, il comunicatore traduttore, il comunicatore riduttore, ilcomunicatore decodificatore o il comunicatore sordomuto.

Ora ci possiamo chiedere: qual è il processo di comunicazione?Quali sono i verbi che lo caratterizzano? Essi sono almeno sei: dueper la fase di entrata (ascoltare e leggere); due per la fase di elabo-razione, che è, poi, il momento della vera trasformazione (memo-rizzare e pensare); due per la fase di uscita (parlare e scrivere).Rapportato a 100 il tempo di relazione, i sei verbi citati assumono,secondo le nostre ricerche, la seguente dimensione quantitativa dicolui che vive e opera nel sociale (famiglia; scuola; lavoro; tempolibero). Egli, nel suo tempo di relazione e di comunicazione:

– ascolta per il 40-50%;– legge per il 10-15%;

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—medita (memorizza e rielabora) al massimo per il 5% del tem-po a disposizione;

—parla per i120-30%;—scrive per meno del 5%.

Il nostro comunicatore dovrebbe ascoltare, dunque, molto più diquanto parli.

In una società intasata di rumori e di messaggi, chi sa ascoltaregode di un vantaggio indiscutibile sugli altri; un flusso incessantedi idee e di informazioni raggiunge la sua mente che viene resagratuitamente più intelligente e più aggiornata.

Il disegnatore Altan, in una delle sue fulminanti vignette fa direalla sua caratteristica e procace signora: "siamo alla post-babele.Tutti parlano la stessa lingua, più nessuno ascolta".

La lingua italiana indica con tre parole diverse l'esercizio del-l'ascolto: l'udire definisce la ricezione passiva dei suoni, il sentiredefinisce il coinvolgimento emozionale e solo l'ascoltare definiscel'atto volontario di percezione e interpretazione dei messaggi. C'èchi ode e non sente, chi sente e non ascolta e c'è chi ascolta, siimpegna, si concentra nell'ascolto.

Mentre si insegna a parlare, in nessuna scuola si insegna adascoltare; né da giovani né da adulti esistono corsi di addestramen-to generale all'ascolto (tranne che per specialisti e tecnici), né corsidi addestramento all'ascolto umano (tranne che per religiosi e tera-peuti). Eppure stiamo parlando dell'attività umana più praticata inogni momento della vita e soprattutto nel lavoro. Si ode molto di piùdi quanto si parla e di quanto si agisce: il non ascoltare può produr-re danni economici enormi. Infatti, non si saprà mai esattamentequanto è il costo conseguente al non ascolto, ma lo si può facilmen-te immaginare. Proposte intelligenti non ascoltate e di conseguen-za non realizzate; avvisi di pericolo lanciati inutilmente che, disatte-si, provocano disastri incommensurabili; frasi di stima o d'amoresussurrate e non percepite che provocano distacchi e dispiaceriaffettivi; termini male intesi che producono conflitti tra le persone,dispersione di tempo, errori: "io avevo detto, sì", "io ho sentito, no";oppure: "ma io l'avevo detto!", "e io non l'ho sentito!". C'è chi nonascolta perché pigro e distratto, chi perché egoista e autocentrato("non c'è peggior sordo di chi non vuoi sentire" dice il proverbio),chi perché non sa farlo con metodo e, infine, chi non ascolta perchénon vuole farlo, temendo erroneamente che l'ascoltare costituisca

Le capacità del leader 53

una forma di assenso e coinvolgimento rispetto a quanto viene udi-to. Invece la regola è un'altra: "ho detto che ho sentito, non ho dettoche sono d'accordo".

Esistono due tipi di ascolto, l'ascolto passivo e l'ascolto attivo.Il primo produce ricezione adattiva, quasi una sorta di ubbi-

dienza, che acquisisce i messaggi in modo acritico e li decodificaattraverso i propri filtri abituali senza chiedersi cosa intende direcolui che sta parlando o quali siano i significati e le opportunitàcontenuti nella comunicazione.

Il secondo invece è un ascolto attento, centrato sull'interlocutoree che definiamo "a valore aggiunto", significa lasciare parlare l'in-terlocutore fino alla compiuta espressione del suo pensiero, rinun-ciando al piacere (o al vezzo) di interrompere. Ed è un ascolto tantopiù attivo quanto, attraverso il silenzio, si facilita l'espressione al-trui. Il silenzio è costituente obbligatorio dell'ascolto e anch'essoha, come l'ascolto, le due alternative, del silenzio passivo (costret-to, impaziente, concentrato su ciò che si dirà appena l'interlocutoreprenderà fiato, oppure chiuso nel disinteresse) e del silenzio attivo,che consente al buon ascoltatore di realizzare i quattro passi otti-mali: recepire; selezionare; valutare e infine reagire al messaggioin modo contributivo e benevolo.

Saper ascoltare nella vita e, soprattutto, nel lavoro è una capaci-tà insostituibile e un dovere professionale che contribuisce inmodo determinante alla buona esecuzione di qualsiasi compito,alla soddisfazione del cliente, alla gestione della responsabilità.Infine, ascoltare non solo gli esseri umani ma anche le voci del-l'arte e della storia, della natura e della musica, delle stelle e deglianimali consente, a chi lo fa, di moltiplicare la sua vita in mille vitedi sentirsi parte dell'universo.

Quinto: l'erba voglio (saper motivare)

Le discipline comportamentali hanno dedicato e continuano adedicare attenzione ai bisogni che le persone cercano di soddisfa-re attraverso il loro comportamento, sia esso di studio o di lavoroe che vengono comunemente definiti: motivazioni. Attualmente èopinione comune degli studiosi dell'argomento (i più celebri deiquali restano Abraham Maslow e Frederick Herzberg) che lemotivazioni allo studio e al lavoro possono venire sistematizzatem cinque tipi diversi tra loro sequenziali, iniziando dalle motiva-

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zioni primarie, percepite da tutti e completandosi con quelle se-condarie percepite da molti ma non da tutti. Delle motivazioni pri-marie fanno parte il bisogno di sopravvivenza (sicurezza fisica edeconomica) e il bisogno di stabilità (sicurezza garantita nel temposia economica che affettiva); delle secondarie fanno parte il biso-gno di relazione (affetto, socializzazione e informazione), il biso-gno di riconoscimento (stima, utilità, successo) e il bisogno diautorealizzazione (espansione spirituale e fisica, potenza, poten-ziamento, creatività, vitalità).

Non condividiamo la schematizzazione piramidale di Maslow ilquale sostiene che una motivazione non può accendersi ed esserepercepita da una persona che non abbia soddisfatto le motivazionisequenzialmente precedenti. Si pensi, per esempio, allo studenteche sente e vive le motivazioni esattamente al contrario del lavo-ratore. La nostra esperienza ci dimostra che a prescindere dalruolo, per molte persone, i bisogni secondari sono più forti delbisogno di stabilità e che, tra i bisogni secondari, solo a volte ilbisogno di autorealizzazione è più forte del bisogno di riconosci-mento mentre in molti casi vale l'inverso.

Esiste differenza tra i vari tipi di motivazione, ma esiste anchedifferenza tra le persone e la loro sensibilità alle motivazioni. Alcu-ne persone scelgono (non importa se consciamente o inconscia-mente) di seguire le motivazioni come un obbligo dannato o uncastigo, si adattano in modo conforme a quelle "citate dai giornali"e le perseguono con passiva insoddisfazione. Altre scelgono di per-seguire solo le motivazioni che costano meno fatica e si accontenta-no del minimo di soddisfazione dei bisogni più semplici, rimanen-do poi in attesa che la società offra loro gratuitamente la realizza-zione dei bisogni superiori. Altre infine si impegnano con energiaal raggiungimento dei loro obiettivi e vivono con identico piacere larealizzazione sia dei bisogni primari sia di quelli superiori. Sonoquesti i protagonisti attuali o futuri.

Il buon Herzberg, che si deve essere lasciato abbagliare dagliepigoni di Marx, ha classificato come bisogni puramente soddi-sfattivi quegli obblighi sociali che nelle organizzazioni avanzatedovrebbero essere già rispettati, riservando il ruolo di "autenticie unici motivatori" ai bisogni superiori (partecipazione, status,riconoscimento, realizzazione) che erano e restano ancor oggimeno facili da raggiungere da parte delle persone perché spessoantieconomici rispetto alle leggi di mercato.

Oggi sappiamo che la forza della motivazione nasce dall'internodella persona e viene influenzata dal contesto sociale con intensi-tà inversamente proporzionale alla solidità psichica e all'intelli-genza di essa. La forza del conformismo, dei valori contempora-nei e degli esempi di successo può risultare forte e fortissima, manon può mai essere fondante, tranne che per le persone deboli esciocche (cioè con intelligenza non attivata). Accade anche che lacultura politica si impadronisca di certe motivazioni e le trasformiin una sorta di programma elettorale, suggerendole e imponen-dole ai propri adepti, fino a che essi le introiettano sostituendolealle proprie.

L'autentica motivazione, quella libera e naturale, è una spintaattiva verso il raggiungimento di un obiettivo e gratifica il sog-getto che la prova già con la prefigurazione della meta ben pri-ma che con il perseguimento della stessa. Nel momento stessoin cui è avvertita, la motivazione produce energia positiva e gra-tificante se l 'obiettivo viene percepito come raggiungibile oppu-re energia negativa e frustrante se l 'obiettivo viene percepitocome irraggiungibile.

Quando la motivazione viene raggiunta e soddisfatta essa non sisvuota né si affloscia ma costituisce base solida per altri obiettivi eper arricchire la propria autorealizzazione. Ma non per tutti. Per-ché la gente pensa in tre modi diversi: indifferente, negativo, positi-vo. Pensare indifferente vuol dire rispondere: "dipende" quandoqualcuno ci chiede "che tempo fa?". Pensare negativo vuoi direrispondere a chi osserva che è una bella giornata che "le previsionidicono che non durerà". Pensare positivo vuol dire rispondere "do-Mani farà bel tempo" a chi si lamenta della pioggia e della nebbia dioggi. Non si nasce indifferenti, negativi o positivi se non per picco-lissima parte del nostro carattere; l'atteggiamento vitale di ciascu-no di noi si basa su una mescolanza di cultura, esempi, influenzeambientali e caratteristiche personali che è possibile analizzare,riconoscere e orientare nella direzione preferita.

"La più grande scoperta della mia generazione" ha scritto W.James "è che gli esseri umani possono cambiare le loro vite cam-biando le attitudini mentali". La vita non è , quella che dovrebbeessere; è quella che è e che può essere. E il modo in cui la siaffronta che fa la differenza.

La differenza tra chi vive con successo e tra chi subisce la vita;tra i realizzatori, i contenti, gli attivi e i depressi, i perdenti, gli

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sfortunati, gli ammalati psichici. "É sorprendente" sostiene il filo-sofo Bertrand Russel "vedere come il rendimento di una personae la sua serenità aumentino se essa riesce a educare la mente al-l'ordine e a pensare le cose adeguate al momento giusto anzichéinadeguatamente e in qualsiasi momento". Qual è infatti la perce-zione corretta della realtà: quella che rispecchia ciò che "essa è" oquella che intravede ciò che essa "può diventare"?

Può esistere un evento indipendentemente dall'interpretazionedi esso? E possibile leggere un dato senza passare attraverso losguardo del lettore? Si può avere una "reazione-azione" umanarazionale non filtrata dal pensiero?

Il modo di pensare di ognuno è il risultato di una scelta, spessoadottata in modo inconsapevole ma in ogni momento correggibi-le e riorientabile. La scelta di pensare positivo (cioè di privilegiarele opportunità, gli aspetti su cui agire, i particolari piacevoli e leprospettive di sviluppo) è alla portata di tutti, esattamente come ènella possibilità di ognuno di alzare lo sguardo in alto oppureabbassarlo a terra. Il controllo dei conflitti interiori, il dominiodelle emozioni negative (depressione, timore, incertezza, diffi-denza, sfiducia) si raggiunge con facilità organizzando la propriamente a filtrare le "distorsioni cognitivistiche", cioè a scegliere ilcolore delle lenti dei propri occhiali.

Secondo A. McGinnis, autore del best-seller La forza dell'ot-timismo, vi sono alcuni e ben precisi passi da compiere per farciò. Il primo consiste nell'addestrare la mente a intercettare ipensieri automatici negativi e a bloccarli appena riconosciuti. Ilsecondo consiste nel ricostruire la fonte dei pensieri negativi,fonte che sovente risale alla giovinezza o a episodi che non ciriguardano direttamente e che abbiamo visto solo accadere (ge-nitori depressi, conoscenti o superiori disfattisti, ambienti operiodi duri e dolorosi). Il terzo passo nel correggere la logicadel ragionamento automatico, cercando quelle che i terapeutichiamano le distorsioni cognitivistiche quali la mania delle cata-strofi, la mania dell'insuccesso e dell'autocolpevolizzazione, lamania di generalizzare. E il quarto nell'apportare correzionimirate al proprio atteggiamento e al proprio linguaggio.

Pensare positivo aumenta l'energia ed eccita la creatività, svi-luppa la ricerca scientifica e il miglioramento continuo. Pensarepositivo rende protagonista e attrattiva anche la persona più timi-da e riservata. Pensare positivo è molto più che essere semplice-

mente ottimisti. E decidere, con coraggio e lucida razionalità chese le paure si apprendono si possono anche disimparare e che,pur essendo il dolore e il male dimensione inevitabile dell'esi-stenza, l'infelicità, invece, è un optional.

Il leader, quando realizza un'impresa, ha sempre bisogno deglialtri. Per aumentare le probabilità di successo delle sue imprese,al leader non basta sapere di avere persone disposte a seguirlo.Egli deve essere certo di avere intorno a sé persone motivate arealizzare l'impresa, che non si limiteranno a seguirlo ubbidendoma in grado di trovare autonomamente le piccole (o grandi) solu-zioni ai tanti piccoli (o grandi) inconvenienti che ogni impresacomporta.

Anche l'alpinista himalayano che vuole raggiungere la cima in-violata in solitudine non può non preoccuparsi dello stato motiva-zionale degli sherpa che lo hanno accompagnato all'ultimo campoprima dell'assalto; se non altro (ed egoisticamente) perché incaso di bisogno di aiuto, in caso di incidente la loro "non" parteci-pazione all'impresa sarebbe esiziale per lui.

Affinché le persone che collaborano con il leader siano motiva-te egli deve:

– illustrare (comunicare) nei dettagli l'obiettivo che intenderaggiungere e le ragioni per cui vuole farlo;

– verificare l'esistenza di eventuali dubbi e riserve, discuterlie, se non è possibile risolverli, dimostrare di comprenderli;

– chiarire i livelli di discrezionalità che affida a ciascuno verifi-candone il grado di accettazione;definire i mezzi e le risorse di cui ogni persona può averebisogno nell'ambito della delega assegnata;

- stabilire i criteri di ricompensa economica, materiale e psico-logica per la partecipazione attiva all 'impresa;

- ma, soprattutto, saper entusiasmare, essendo lui medesi-mo un entusiasta.

L'entusiasmo è uno stato d'animo costruito dalla volontà e dallapassione ed è l'atteggiamento umano che più di ogni altro si tra-smette attraverso l'esempio e la vicinanza. Non essendo un'emo-zione, può venir procurato consapevolmente, e una volta innesca-to offre un aiuto ineguagliabile all'affrontare le situazioni in modoenergetico e positivo.

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Muovendo da una presa di posizione razionale a cui dona la caricadella passione attiva, il leader entusiasta diventa in tempi brevi ilprimo motivatore di se stesso e degli altri e la sua leadership uma-na viene gratuitamente riconfermata.

Sesto: non si vince da soli (saper lavorare con gli altri)

Il leader è un solitario? Poche volte lo è veramente. Nella maggiorparte delle occasioni egli è protagonista unico soltanto nell'ultimafase di un'impresa. In tutte le fasi precedenti al risultato finale egliinteragisce con una grande quantità di personaggi, la più partedei quali rimarranno ignoti e oscuri per tutta la vita e oltre purcostituendo del risultato acquisito la parte essenziale, la base sen-za la quale l'acuto finale non poteva essere effettuato.

Dietro la trasvolata in solitaria di Lindberg c'erano le decine diingegneri, di meccanici, di semplici manovali che misero a puntol'aereo. Dietro la frase: "un uomo solo al comando" che fu il com-mento storico della storica impresa di Coppi ai campionati mon-diali di Lugano c'erano: il direttore della squadra, il massaggiato-re, il meccanico, gli organizzatori del circuito, la folla acclamantee incitante e il radiocronista che coniò la frase.

Dietro i successi di Schumacher c'era e c'è l'ufficio progettazio-ne della Ferrari, c'era e c'è la squadra che cambia le gomme inpochi secondi, ci sono gli addetti che controllano i tempi, le tem-perature, i sorpassi, il numero dei giri.

Anche la prima scalata all'Everest in solitaria e senza ossigeno diReinhold Messner non si può affermare essere il frutto del corag-gio, dell'abilità, dell'intelligenza, della fatica di un uomo solo. Alme-no fino al campo base anche il più forte e il più affermato alpinistavivente nel mondo ha avuto bisogno di portatori per trasportareviveri e materiale alpinistico e fin dall'inizio ha dovuto cercarsidegli sponsor per avere i mezzi per finanziare la sua impresa.

Il leader, tranne eccezioni, vince e si afferma se sa utilizzare lecapacità degli altri, se sa organizzare le persone che gli stannoattorno, se crea gruppo intorno a sé delegando a ciascuno la suaparte di compiti e di responsabilità.

Il vero leader non è un solitario e tanto meno un asociale. È sol-tanto uno che "arriva prima degli altri" ma alla presenza e con lapartecipazione di altri. Lavorare con gli altri significa lavorarecoralmente; quindi non individualmente, non solitariamente. La-

rare con gli altri si può realizzare però in molti modi. Conside-ando, per esempio, gli altri un semplice mucchio casuale di per-

sone, oppure un branco unito semplicemente da necessità di so-pravvivenza come avviene per gli animali. Oppure il leader puòscegliere di operare con gli altri considerandoli un gruppo o unasquadra. Ma è più facile diventare leader operando con gli altriorganizzati a mucchio, a gruppo o a squadra?

Al leader lasciamo la scelta più opportuna per la sua afferma-ta xione.

Con un mucchio di mattoni si fa una casa, cioè una costruzionestabile, ma con un mucchio di dirigenti non si fa un'azienda, cioèun'organizzazione dinamica. In un mucchio tutti sono uguali, pos-sono fare le stesse cose, non ci sono regole particolari, nessuno èspecialista in qualche disciplina.

Si dice "gruppo di turisti" e non "mucchio di turisti". Si usal 'espressione "mucchio di turisti " per esprimere un giudizio nega-tivo di comportamento non atteso e non gradito; quello del "muc-chio" appunto.

Un mucchio di sassi è sempre lì, non si muove, non muta, con-serva nel tempo la forma che gli hanno dato. Un gruppo di turistisimuove invece secondo linee o percorsi prevedibili e previsti. Ilsuo programma di movimento è conosciuto in anticipo e si cercadi rispettarlo perché ciò facendo si raggiungono gli obiettivi di-chiarati. Nel gruppo ci sono ruoli definiti ma facilmente intercam-biabili. Se in una riunione viene a mancare colui che fino a iericompilava il verbale, non è difficile individuare qualcuno che losostituisca. Nel gruppo vige un elevato spirito di mutua collabora-zione senza peraltro che la solidarietà dei membri debba esseresostenuta o legittimata da valori formalmente inseriti in uno statu-to restando così assai più flessibile dinanzi a essi.

I criteri di selezione per entrare nel gruppo sono molto labili eaperti a (quasi) tutti.

Nel gruppo il più debole viene normalmente aiutato e per taleragione la velocità di crescita del gruppo viene condizionata daimeno forti. Ciò crea un grande spirito di solidarietà e di integra-zione. Gli obiettivi di un gruppo non possono essere esageratiperché sono mediati e misurati secondo le forze di tutti; sonoobiettivi possibili e raggiungibili senza sforzo eccessivo.

La dimensione del gruppo non è illimitata ma il suo valore haun campo di escursione molto elevato. Per essere gruppo biso-

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gna essere almeno in tre. Un gruppo ideale per realizzare una riu-nione efficace deve avere da 5 a 8 membri. Un'aula di addestra-mento professionale, affinché il processo addestrativo abbia ef-fetto, non deve superare le 12-15 persone. Un'aula universitarianon deve superare le 40-50 unità affinché il professore possa dareun contributo valido e possa dialogare con gli allievi.

Per quanto riguarda la definizione, così recita il dizionario disociologia: "gruppo, un insieme di individui con numerosità taleda permettere che la maggior parte di essi si incontrino, seppurin modo saltuario, in uno spazio abbastanza limitato tale da con-sentire a ciascuno di conoscere e riconoscere gli altri ed essereda loro conosciuto".

In un gruppo di lavoro si opera per il risultato ma anche pergratificazione personale, perché come diceva Pierre de Couber-tin: " importante è partecipare" .

Per ottenere dei risultati, qualunque gruppo deve eleggere nelsuo seno un capo. Talvolta non c'è bisogno che questi sia formal-mente nominato dai colleghi perché si impone spontaneamente,per il suo carisma. Altre volte è l'organizzazione cui appartiene ilgruppo a scegliere il capo ma, in ogni caso, la sua caratteristicadominante deve essere quella di buon coordinatore cioè di buon"manager" (dal latino manus agere e cioè avere le mani in pasta).

Si dice "squadra di sportivi" e non "branco di sportivi". Comeper il mucchio anche in questo caso quando si usa l'espressione"branco di sportivi " è per esprimere un giudizio negativo, di uncomportamento non gradito, quello da "branco" appunto. Il con-cetto di squadra evoca immediatamente e diversamente da quellodi gruppo l'ambiente della competizione e della sfida. La menteche decodifica la parola comprende immediatamente che si trattadi vincere qualcosa e per gareggiare.

La competizione ha come obiettivo che qualcuno primeggi suqualcun altro. La ragione della competizione ha come obiettivola vittoria. In guerra, la vittoria consiste nel distruggere il nemi-co o, come scriveva Clausewitz, "nell'abbattere l'avversario perrenderlo incapace di opporre qualsiasi altra resistenza". Nellosport la vittoria consiste nell'arrivare primi sul traguardo o nelfare più punti dell'avversario. Nella produzione di beni e di ser-vizi la vittoria consiste nell'arrivare primi sul mercato, nell'ec-cellere, dal punto di vista della qualità, nel conquistare una fettadi mercato, nell'acquisire la proprietà del competitore.

In guerra, nello sport, nel mercato dei beni e dei servizi, la com-petizione, la sfida, la gara avvengono sempre in un ambiente nelquale una delle parti non può prevedere a priori quello che saràil comportamento dell'altra. In ogni momento, infatti, è possibi-le che si verifichi una situazione diversa dalla precedente chepuò influenzare in maniera consistente quella seguente, sia neiconfronti della squadra che conduce il gioco (o che combatte)che della squadra avversaria. Quando un ambiente si muovesecondo direzioni o situazioni non prevedibili viene definitocome turbolento. L'ambiente turbolento è proprio della competi-zione. Ogni volta che una squadra scende in campo deve aspet-tarsi di dover operare in un ambiente turbolento.

A differenza del mucchio, del branco e del gruppo, la squadraha un numero chiuso di appartenenti ed è quindi elitaria. Ognisport ha le sue quantità numeriche non superabili. E possibiletenere qualcuno in panchina ma il numero resta comunque limi-tato dai soliti ruoli che la competizione ammette.

Nella squadra, prima o dopo, il più debole soccombe. E la squa-dra stessa che lo enuclea e lo emargina. Inizialmente la squadraopera sul più debole un'azione di potenziamento sotto forma diincitamento a tenere duro, ma poi se il debole fa da freno loabbandona.

Gli obiettivi di una squadra che compete sono sempre "al limi-te" e "verso il meglio". Velasco, migliore allenatore di pallavolodegli ultimi decenni, dopo le più belle imprese della sua squadracostringeva i suoi giocatori a rivedere il filmato delle partite. "Seabbiamo vinto" egli affermava "è perché abbiamo fatto meno er-rori degli altri. Ma quando gli altri avranno imparato da noi, noinon vinceremo più". Ogni volta, dopo una vittoria, mondiale oeuropea che fosse stata, Velasco chiedeva ai suoi uomini di più.Sempre di più; sempre "al limite", sempre "meglio". Nella squa-dra ogni decisione che viene presa deve essere condivisa senzariserve e realizzata in tempi brevi senza tentennamenti e dubbi,in maniera quasi automatica. Nella squadra esistono ruoli benprecisi, e non facilmente sostituibili a rotazione; chi eccelle inun ruolo raramente è eccellente in un altro. Fra tutti i ruoli quel-lo fondamentale, più ancora di quello del caposquadra, è quellodell'allenatore. Egli non entrerà mai in campo poiché il suo con-tributo è preparare i suoi uomini a vincere qualunque sfida; lideve trascinare nei momenti difficili e frenarli nelle occasioni di

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successo. Deve accettare di essere considerato il colpevole nelcaso di insuccesso ma deve restituire e condividere con tutti imeriti della vittoria.

I grandi allenatori sono dei grandi leader.I grandi allenatori passano facilmente alla storia, difficilmente

ciò succede per i capitani della squadra.

Settimo: il tiro alla fune (saper gestire i conflitti)

"Il miglior modo di vincere una battaglia è quello di non combat-terla!", con questa frase il generale cinese Sun-Tzu, nel suo tratta-to L'arte della guerra, liquidava provocatoriamente la negoziazio-ne e la gestione dei conflitti. Questa capacità nasce, in realtà, dal-l'unione di due modalità che possono sembrare distinte e distanti,ma che sono invece complementari. La capacità di "saper nego-ziare" (la prima) viene utilizzata ogni giorno, continuamente, an-che senza rendersene conto.

Si negozia ogni volta in cui qualcuno chiede qualcosa a qualcunaltro, si negozia dovendo scegliere tra più alternative, si negoziaaccettando o rifiutando una richiesta o una proposta, si negoziacon se stessi e con la propria coscienza, si negozia su tutto. In lati-no negotium vuoi dire affare, attività, compito, ufficio o incarico.Negotium atrox significa faccenda grave; negotia privata et publi-ca sono gli affari privati e pubblici; mentre negotio desistere vuoidire rinunciare e nullo negotio, sine negotio senza difficoltà.

La seconda modalità, quella di "saper gestire i conflitti", ci ridu-ce comunque alla negoziazione. E un errore pensare che i conflit-ti sorgano "solo" in seguito a una negoziazione fallita o andatamale; il conflitto può essere prima e durante il negoziato. Il termi-ne latino confligere, che vuol dire combattere, si può definire con:"presenza di forze contrarie, quasi equivalenti come intensità, neiconfronti di un problema".

Usando le parole di Montesquieu: "laddove non vedete alcunconflitto, potete essere sicuri che non c'è libertà".

Un'analisi fredda e distaccata della negoziazione mette in evi-denza i seguenti fattori: la presenza di due o più attori; l'esistenzadi una situazione in cui bisogna scegliere, decidere, rinunciare,"prendere o lasciare"; la possibilità (volontà) di influenzare o es-sere influenzati; la possibilità (volontà) di trovare un accordo o uncompromesso.

Non sempre la negoziazione avviene tra due parti che hanno lostesso potere e ciò influenza molto la situazione. Tra una maestrae i suoi allievi c'è più potere dalla parte della maestra; un vigileurbano ha più potere di un automobilista (soprattutto se colto inflagrante errore); un bambino, in molte situazioni, ha più poteredel proprio genitore.

E non sempre esiste tra le parti una divergenza totale sulledecisioni da prendere o sulle scelte da fare. Tra due coniugi sipuò essere in accordo sulla possibilità di "uscire questa sera"; lanegoziazione verterà sul luogo, sugli orari, sulle opzioni. Ciò chenon è in discussione è la scelta di fondo, cioè "uscire".

Per razionalizzare una situazione negoziale nella quale si ècoinvolti, bisogna chiarirsi le idee su sei aspetti. Tre, in primaistanza possono essere considerati come variabili indipendenti:noi stessi, l'interlocutore, i risultati attesi, e tre come variabilidipendenti: l'atteggiamento personale, lo schema della negozia-zione e la strategia da seguire.

Noi stessi. Conoscere i propri punti di forza e di debolezza è lapietra miliare di ogni negoziazione. Chi mi fa arrabbiare e perché;con chi parlo più serenamente; quali comportamenti sono per meintollerabili. Mi sento prudente o temerario, preferisco la raziona-lità o l'emozione, cerco di vincere, convincere o... stravincere?

L'interlocutore. Capire l'interlocutore diventa strategico per de-cidere come comunicare, come "prenderlo", su cosa forzare e sucosa invece cedere. Ha più potere di me, è più importante, puòusare metodi o tattiche per mettermi con le spalle al muro? E unpositivo, costruttivo, che cerca la soluzione migliore, oppure è unnegativo, pessimista, malevolo?

L'obiettivo. La terza variabile indipendente è l'obiettivo chepuò essere fissato fra valore massimo (il massimo che si puòottenere), e il valore minimo (il limite sotto il quale non sonodisposto a scendere) e l'obiettivo auspicabile (quello che presu-mibilmente riuscirò a ottenere). Ragionare in questi termini perdefinire l'obiettivo significa dare alla negoziazione un approcciostrategico e ciò permette al negoziatore di capire quali spazi hanella trattativa e come agire per colpire il bersaglio.

Le tre variabili indipendenti sono conseguenze della situazionenegoziale in cui ci si trova. Ma poiché: "colui che eccelle nelle dif-ficoltà lo fa prima che sorgano", è opportuno analizzare le alterna-

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tive di azione e di comportamento, per non farsi trovare imprepa-rato e dare risposte coerenti.

La prima delle tre variabili dipendenti è stata definita come:"atteggiamento personale " . L'atteggiamento personale è un com-portamento che si indossa, una maschera che si porta, per rag-giungere l'obiettivo prefissato. Per semplicità si possono ricon-durre a quattro gli atteggiamenti più utilizzati, con i relativi pregie difetti: quello del persuasore, del tenace, del mediatore e deldistaccato.

—Il persuasore. Pregi: mostra di crederci, è creativo e ingegnoso.Difetti: tende a manipolare, supera i limiti, ha fretta.

—Il tenace. Pregi: deciso, determinato e autorevole; è la goccia chescava la roccia. Difetti: non valuta le conseguenze, è testardo.

—Il mediatore. Pregi: flessibile, buon ascoltatore, tende al com-promesso. Difetti: arrendevole sino al cedimento, lento nelleconclusioni, rimandatario.

—Il distaccato. Pregi: obiettivo, logico, autocontrollato. Difetti:prevedibile, formale, rigido e mai passionale, cioè non convin-ce anche se vince.

La seconda variabile dipendente: è lo schema da seguire, inten-dendo per schema la scaletta della negoziazione. Essa può essererigida, libera o a blocchi. E rigida quando tutto viene stabilito inanticipo; libera quando nulla viene preparato e a blocchi quandoci si costruisce una scaletta mentale di ciò che va affrontato manon viene decisa la sequenza degli argomenti o dei punti da tratta-re, lasciando la decisione della sequenza degli argomenti al mo-mento contingente.

Ultima, ma non meno importante, è la strategia della negozia-zione che tiene conto della raccolta di informazioni, della diagno-si della situazione, della valutazione dei rapporti di forza, dellagenerazione e dell'analisi delle alternative e della scelta tra vince-re la guerra o vincere la battaglia.

Dosando diversamente gli elementi suddetti il leader può realiz-zare una strategia razionale, una seduttiva o la terza conflittuale. Laprima è centrata sull'uso della logica e dei dati, sul ragionamentofreddo ma oggettivo, sul valutare i fatti e non le opinioni. La strate-gia seduttiva poggia, invece, sul carisma, sull'energia, sul fascino esul proprio entusiasmo per con-vincere; è emozionale e intuitiva,

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basata sul fiuto e sull'istinto. La terza tipologia di strategia è quellaconflittuale che è tipica di chi cerca lo scontro, di chi sa che rendeal meglio sotto tensione e ha bisogno di creare una situazione tesae ansiogena.

Non esiste una strategia, un atteggiamento o uno schema mi-gliore di un altro in assoluto; non c'è un modo giusto per nego-ziare e uno sbagliato. Tutte le metodologie possono, alla fine,risultare vincenti o perdenti. Il leader saprà scegliere di volta involta quali metodi, frasi, schemi adottare e li saprà adattare allasituazione.

Quando si entra nella sfera della conflittualità molte regole elogiche di comportamento perdono di valore. Le persone utilizza-no metodi quasi animaleschi pur di sconfiggere l'avversario. Trat-tative finite male diventano lotte e combattimenti all'ultimo san-gue. Molti tendono a vendicarsi e a non digerire i torti subiti.L'emozione prende il sopravvento sulla ragione, il cuore prevalesul cervello, l'intuito sulla logica.

Perché far saltare un matrimonio o un legame affettivo per unaquestione di vacanza (obiettivo)? Se uno dei due partner (noistessi) ama follemente la montagna e l'altro (interlocutore) nonpuò fare a meno del mare si può andare: a) quest'anno al mare e ilprossimo in montagna; b) in un luogo di montagna con un grandelago vicino; c) in un luogo di mare vicino alla montagna; d) uno almare e l'altro in montagna; e) una settimana al mare e una inmontagna.

Spesso succede, purtroppo, che la coppia finirà per andare incampagna scontentando entrambi. "Se scegli di non scegliere,scegli in ogni caso" (Jean-Paul Sartre) e invece per diventare lea-der si deve:

—ascoltare le idee altrui;—definire il problema e circoscriverlo;—pesare i fatti (che sono oggettivi), distinguendoli dalle opi-

nioni (che sono sempre soggettive);—imparare a cercare il compromesso (nell'accezione più pulita

e pura del termine) e cioè riuscire a soddisfare al meglio leesigenze contrastanti;

—utilizzare la creatività, perché si può risolvere una situazionedi impasse, scovando una terza via o proponendo una solu-zione innovativa che risolva e sistemi tutto.

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Le tre variabili dipendenti sono conseguenze della situazione ne-goziale in cui ci si trova ed è opportuno analizzare le alternative diazione e di comportamento, per non farsi trovare impreparato esaper dare risposte coerenti.

E bene ricordarsi che, per diventare leader nella negoziazio-ne, occorre:

—non trattare se non si è costretti;—non dedurre ma basarsi su fatti;—se la torta non si può dividere, ingrandirla;—prevedere accordi parziali;—trasformare le critiche in proposte;—non pensare alle soluzioni ma alle alternative;—cercare di essere morbidi con le persone e duri con il

problema.

Nella negoziazione, come in un qualunque altro tipo di relazioneinterpersonale, quello che conta veramente è "come si dice" enon "cosa si dice".

Imparare a perdere, subire una sconfitta e accettare un falli-mento, diventano doti che il leader deve possedere per reggerela fatica di un conflitto. Infatti, per portare bene il peso di unconflitto bisogna saperlo vivere: con distacco e senza farsi coin-volgere personalmente; con ottica globale ma senza generaliz-zazioni; con positività, ottimismo e praticità; con intelligenza escambio tra vittoria e sconfitta; con calma e pazienza, ma anchecon durezza e fermezza; con comprensione ma senza conces-sioni.

Le stesse identiche tecniche e tattiche negoziali si ritrovano neldecalogo che segue e che veniva insegnato ai samurai, nobiligiapponesi di casta particolare che potevano lavorare solo nel-l'esercito e nei pubblici uffici.

1. Conoscere l'avversario.2. Vivere in armonia.3. Allenarsi per migliorare.4. Conoscere e padroneggiare tutte le armi.5. Concentrare le risorse.6. Rispettare il vuoto, meditare.7. Se non si può vincere, allearsi!

8. Lottare nel momento opportuno.9. Prendere l'iniziativa e mantenerla.10.Dosare l'attacco.

Ottavo: oh capitano, mio capitano (saper comandare)

Alcune imprese che il leader vuole compiere con l'aiuto di altri sipossono realizzare senza bisogno di dover dare ordini o disposi-zioni, imporre veti o rilasciare approvazioni.

Tre sono le condizioni perché ciò avvenga:

—avere dei collaboratori altamente professionali, competentiquanto il leader (o più) su alcuni aspetti specifici dell'im-presa, non solo capaci ma anche disposti ad agire autono-mamente;

—avere dei collaboratori fortemente motivati a ottenere il risul-tato cui mira l'impresa malgrado le difficoltà che si possonoincontrare sul percorso;

—avere dei collaboratori fortemente integrati fra di loro, conun forte spirito di squadra e con capacità di lavorare insieme,collaborando fattivamente.

Ma non è sempre così. Non sempre l'obiettivo del leader è imme-diatamente o totalmente condiviso da coloro che operano con luie per lui.

Non sempre la competenza dei collaboratori del leader è taleper cui, indicato e dichiarato l'obiettivo, questi si mettono autono-mamente in movimento per raggiungerlo.

Non sempre l'intesa fra i seguaci del leader è ben collaudata, èspontaneamente sinergica e opera nella stessa direzione.

Non sempre il consenso della base è scontato e non sempre c'èil tempo per un recupero lento e faticoso di atteggiamenti indiffe-renti o di comportamenti antagonisti.

Come comportarsi allora, soprattutto se si opera in un clima diurgenza e di esasperata criticità? Quando c'è e quando si ha siricorre all'autorità gerarchica formale; si utilizza la leva del co-mando che non chiede, in alcuni casi, altro che l'ubbidienza.

Come avviene in battaglia. Piaccia o non piaccia al soldatino oall'ufficiale subalterno, quando il nemico preme non c'è tempoper convincere le persone per motivarle, per chiedere ed even-

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tualmente negoziare con loro la partecipazione alla difesa o al-l'assalto. Si comanda e basta.

Si comanda e si ubbidisce. Se c'è tempo e se si sopravviverà sipotrà, dopo, ragionare, discutere, discettare con calma.

Ma ciò vale anche per il professore, per il maestro, per il diret-tore d'ospedale, per il caporeparto, per il capostazione e per ilvigile urbano: essi sono autorità formali e quando non c'è tempo onon ci sono le condizioni per ottenere consenso e adesione sugliobiettivi indicati, quando le leve dell'ascendente, del carisma, del-la motivazione, della blandizie o del ricatto non funzionano, nonrimane per essi che esercitare la leva del comando sulla base del-l'autorità costituita.

Se il leader è nelle condizioni di essere autorità formale, cometale deve essere comunque rispettato, pena la denuncia agli orga-nismi preposti alla difesa del suo ruolo.

"Autorità", recita lo Zingarelli, "potere tutelato dalla legge diemanare atti vincolanti l'attività dei destinatari". Quanto al rischioche l'esercizio dell'autorità degeneri in autoritarismo ("forma diesagerata autorità; prevaricazione, trasgressione fino all'illecito,abuso") si è ben coscienti che esiste tanto quanto la partecipazio-ne democratica diventi lassismo (forma di esagerata indulgenza,indifferenza al rispetto delle regole, permissivismo a oltranza,mancanza di rigore). In entrambi i casi, gli eccessi sono da con-dannare drasticamente.

Non sempre il comando si giustifica soltanto per le ragionisuddette. Il comando può essere applicato quando è garantito ilconsenso a priori. Esistono realtà nelle quali chi collabora a unaimpresa, fin dall'inizio dell'opera delega autonomamente il pro-tagonista ad assumersi tutto il peso delle decisioni e dei rischiconseguenti concedendo in cambio tutta la disponibilità perso-nale. In fondo c'è chi ama essere comandato.

Ciò avviene quando i deleganti riconoscono nel leader doti ecompetenze che essi non hanno e che ritengono di non poterpossedere mai. L'esempio più immediato è dato dagli alpinistiche si affidano alla guida alpina per affrontare una via ardita,impegnativa e difficile.

Ogni sua indicazione è un ordine e ogni ordine viene rispettatosenza discussione, con rispetto, riconoscenza e ammirazione.

Chi mai oserebbe accusare la guida alpina di autoritarismo, diprevaricazione, di non rispetto della dignità umana?

Nella saggistica italiana il termine "comando" compare molto ra-ramente, quasi ci si vergogni della parola o non si voglia argo-mentare su di essa perché non gradita e male interpretata.

Nel Catalogo dei libri in commercio dell'Editrice Bibliografica,la pregevole opera di aggiornamento delle pubblicazioni librarieitaliane, i libri intitolati con la parola "comando" o con il verbo"comandare" e citati nel Catalogo sono soltanto due.

A fronte di questa pochezza letteraria, termini e verbi che inquesto nostro libro vengono affrontati hanno una ampiezza didocumentazione e una numerosità di opere enormemente supe-riore. I testi pubblicati in Italia che trattano il tema della "moti-vazione" e citati nella bibliografia suddetta sono almeno trenta;quelli sulla comunicazione oltre cento.

Ma la pochezza letteraria non autorizza a negare il comandocome dovere per il leader quando sussistano le condizioni già det-te di urgenza e di impossibilità negoziale.

Negare il comando in qualunque impresa significherebbe por-re le premesse per il suo fallimento.

Chi comanda è un... comandante. Nella letteratura anglosasso-ne, avere il comando si traduce con il termine "leadership". Inve-ce quando un'opera americana o inglese che ha nel titolo la parola"leadership" viene pubblicata in italiano, il termine suddetto vie-ne tradotto con "leadership". Ci si vergogna di tradurlo con "co-mando". Dicono editori e librai che un libro con la parola "leader-

ship" vende dieci volte di più che con il termine "comando". Ecosì, con la connivenza degli editori italiani, si è lasciato credereche "leadership" sia diverso da "saper comandare" e che il "lea-

der" sia un essere diverso dal "comandante".Ecco la ragione per cui libri sul "comandare" sono molto rari

in Italia. Essi aumentano considerevolmente se accettiamo diusare in sua vece il termine inglese. Nel Catalogo dei libri sud-detto i testi intitolati con il termine "leader" o "leadership" sonoventiquattro.

Ma chi è il comandante? Secondo von Clausewitz all'inizio delXIX secolo si era abituati a considerare il "comandante" come" l'opposto di una testa meditativa, ingegnosa e ricca di idee", uncretino, insomma. A difesa dei comandanti dell'esercito prussia-no il grande genio della guerra scriveva invece: "la loro sempli-cità apparente a fianco degli uomini di penna e degli uomini di

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affari, non deve indurre in errore sul carattere distinto dellaloro intelligenza pratica".

Pur non sapendo che più tardi, quasi due secoli dopo, l'ame-ricano Goleman avrebbe avuto successo predicando l'Intelli-genza emotiva" , von Clausewitz anticipava una caratteristica an-tagonista a essa, del saper comandare e cioè la capacità di pen-sare e di affrontare i problemi con estrema concretezza miran-do all'azione e al risultato rifiutando le emozioni con "intelligen-za pratica". Harold Geneen che sicuramente non lesse alcunchédi von Clausewitz, nella sua autobiografia riecheggia il tema del-la ragione pratica con questa affermazione: " i capi non sonopagati per fare le cose che piacciono, ma per far eseguire ciòche va fatto. Comandare significa ottenere che qualcosa vengarealizzato; significa far sì che ciò che si è deciso venga effettiva-mente fatto".

Napoleone, ai suoi comandanti, oltre che intelligenza praticachiedeva con molta maggiore semplicità di essere soprattutto diesempio per i loro soldati. In una lettera al fratello Gerolamo cheandava in guerra attorniato da belle donne e inetti dignitari egliscrive scandalizzato e con penna furente: "devi essere soldato epoi soldato e poi ancora soldato; devi bivaccare con la tua gente,essere notte e giorno a cavallo e marciare in testa con l'avan-guardia...". Questo è saper essere comandante! Vivere con i pro-pri subordinati, comprendere le loro pene, dare l'esempio di sa-per reggere le loro fatiche precedendoli ovunque.

Lee Jacocca, salvatore della Chrysler, ignaro dei precedentidetti e scritti affermava lapidariamente: "leadership significa darel'esempio".

Questa umanità di chi deve comandare nulla toglie all'obbligodi essere duri nel comando, esigenti nel chiedere e quando ne-cessario nel punire chi sgarra.

"Quel prencipe che non castiga chi erra è tenuto dai suoi oignorante o vile" scrive Machiavelli nei Discorsi sopra la primateca di Tito Livio. Il prezzo del comando è questo: essere più fortee più resistente degli altri; essere disposto a farsi odiare da chisbaglia per essere stimato da chi fa il proprio dovere. E ancoraMachiavelli ricorda al Principe che: "quando si comanda coseaspre, conviene con asprezza farle osservare", ma anche "dovesono le punizioni grandi, vi devono essere ancora i premi".

Cinquecento anni dopo John Kotter professore ad Harvard,

uno dei massimi esperti in materia di leadership riscoprirà il pen-siero machiavellico parlando del "sistema premi e punizioni".

Ricapitolando, per "saper comandare" il comandante deve:

—avere ragion pratica (von Clausewitz; H. Geneen);—dare l'esempio (Napoleone; Lee Jacocca);—premiare e punire secondo giustizia (Machiavelli; Kotter).

Rimanendo nel campo della cultura militare che è quella chemaggiormente ha sviluppato il tema del comando e utilizzandoil linguaggio moderno della Nato troviamo, del comando, que-sta definizione: "il Comando è il processo attraverso il quale ilComandante trasmette le sue intenzioni ai subordinati. Il Co-mando implica l'esercizio del potere e il diritto di pretendereobbedienza".

Al lettore, attuale o futuro leader, che si trovi nella condizionedi far ricorso alla sua autorità formale prima di emanare ordinicon il rischio di non essere ubbidito, suggeriamo di prendereposizione rispetto alle quattro domande qui di seguito elencate eche riguardano il suo rapporto con i subordinati.

Le domande sono quattro.

- Ho potere di chiedere informazioni ai miei subordinati? Chie-dendole, le ottengo?

—Ho potere di modificare il contenuto di lavoro dei miei subordi-nati? Proponendolo, essi lo realizzano?

—Ho potere di anticipare o ritardare i tempi di consegna del lavo-ro dei miei subordinati e chiedendolo lo ottengo?

- Ho potere di modificare gli obiettivi della mia impresa e quan-do li cambio i miei collaboratori mi seguono?

Solo se la risposta ai quattro quesiti sarà positiva allora egli potràpensare di poter comandare ed essere ubbidito.

Nono: 168 ore e basta (sapersi programmare)

"Non è nato per la gloria chi non conosce il valore del tempo".Questa massima di Vauvenargues riassume il senso della capaci-tà che più delle altre sta sconvolgendo l'ordine delle scale di prio-

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rità del vivere moderno. La condizione, comune a tutti i leadervincenti, è l'attenta, rigorosa, esagerata cura del tempo.

All'inizio della nostra ricerca sulle capacità del leader nessunodi coloro che collaboravano con noi considerava cruciale il pro-grammare. Programmare significava, infatti, soltanto distribuirele azioni nel tempo, dare linee guida e scadenze a se stessi e alsistema nel suo complesso. Gli aspetti burocratici e distributividel verbo lo mantenevano anonimo, un po' noioso, assai pocoagganciato alla riuscita nella carriera o all'immagine di un leader.Oggi la situazione è rovesciata. Il tempo è considerato la risorsacruciale di uomini e di organizzazioni: si vince nel tempo, grazie acome si utilizza il tempo. Il tempo è la "cosa" più importante, essoè "un semplice pseudonimo della vita stessa", scrive Gramsci nel-le sue Lettere dal carcere. E una risorsa irripetibile, non ritorna,non si ricrea, non si recupera.

168 ore la settimana, non una di più, né una di meno. E non esi-ste la settimana dei tre giovedì, né la "venticinquesima ora" comeintitolava un celebre film. Essendo una convenzione creata dagliuomini esso è ormai vincolante. Esso è il fattore limite per eccel-lenza; se i limiti di qualsiasi produzione sono fissati dalla risorsameno abbondante, nel comportamento del leader tale risorsa è iltempo.

A che serve avere idee brillanti, se non si trova il tempo di rea-lizzarle o quanto meno di esporle? A che serve finire bene unlavoro o raggiungere un obiettivo eccellente ma fuori tempo uti-le? Come si può lavorare in modo efficace se si opera in perennerincorsa, in continuo ritardo, in crudele assillo di non avere abba-stanza tempo per fare ciò che si vorrebbe o, peggio, ciò che sidovrebbe fare? Se un leader non gestisce il tempo e non sa ren-dersi conto di cosa e di chi glielo sottrae, significa che non èpadrone del suo agire.

Il tempo si padroneggia al meglio grazie a due strumenti, l'orolo-gio e il calendario. Il loro linguaggio d'uso è inesorabilmente sem-plice, quando (nel tempo) e quanto (di tempo). Le unità di misuraper entrambi sono i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi.

L'orologio e il calendario permettono di trasformare i due at-teggiamenti temporali della priorità e della puntualità in solidi efruttuosi binari di comportamento. Agire per priorità permetteinfatti di realizzare i propri obiettivi di qualsiasi tipo anziché vive-re a caso o per accidente; agire con puntualità permette di valoriz-

zare le ore e i minuti sentendosi padrone di una risorsa che, senon monitorata spiazza il leader rispetto alla realtà: l'anticipo e ilritardo sono sprechi della vita. II ritardo poi sembra essere unacaratteristica riconosciuta soprattutto agli italiani.

Vincent Guy e John Mattock, due ricercatori inglesi, stilandoun decalogo per il turista internazionale, pongono all'interno diuna ventina di comportamenti ritenuti necessari per essere benaccetti nelle singole nazioni, l'essere puntuale.

Secondo i due studiosi, il rispetto del tempo è la prima regola inSvizzera, in Giappone e in Germania, è seconda in Gran Breta-gna, è terza in Francia... è penultima in Italia.

Nel passato più che una regola il tempo è stato una idea moltovaga: "se nessuno mi domanda cos'è il tempo, io lo so", scriveSant'Agostino nelle Confessioni "ma se voglio spiegarlo a chi melo domanda, non lo so più".

Per Kant il tempo era una categoria, un concetto a priori; Carte-sio lo desumeva dalla coscienza individuale; Newton lo considera-va un flusso oggettivo. Einstein definì il tempo in termini di relati-vità. Il tempo non è uguale per tutti; ogni persona ha una sua per-cezione del tempo o meglio un vissuto interiore e lo struttura infunzione della realtà esterna. E questo il tempo psichico.

Tranne l'inconscio che è atemporale (dove paure, pulsioni, de-sideri, ansie vivono una vita latente ma immutabile che terminasolo e raramente con la risoluzione cosciente dell'elemento) tuttii contenuti di coscienza sono influenzati dalla concettualizzazionedel tempo.

Come regola psicologica, il tempo è sempre legato agli avveni-menti che si presentano all'individuo operante (percezione deltempo) che egli causa e influenza (comportamento temporale) orispetto ai quali si orienta (ricordo, memoria, passato, futuro).

Per tempo psichico o soggettivo si intende il complesso dellerelazioni prima-dopo tra l'individuo e gli avvenimenti. Il tempopsichico ha cadenze ed estensioni personali e contingenti (lungo:il tempo di passione; corto: il tempo di uno sguardo) ed è forte-mente influenzato da un complesso di fattori fra i quali la situazio-ne psichica e mentale del leader.

Per questo diventa importante essere in grado di diagnosticarei propri condizionamenti psichici.

Quando il carattere è "primario" l'urgenza ha sovente un'in-

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tensità incombente; quando il carattere è "secondario" i pensierisi sviluppano con risonanze lunghe.

Quando si è stanchi o ammalati i minuti passano con difficoltà,quando si è vecchi gli anni sembrano corti. Quando si patisce diansia, il tempo è sempre troppo lungo, mentre quando si patiscedi stress il tempo è sempre troppo corto.

Quando i modelli parentali della prima infanzia hanno avuto neiconfronti del tempo atteggiamenti confusi (sempre di fretta; sem-pre in ritardo; tutto urgente; programmi vaghi e non rispettati)l'individuo deve sopportare fatica per ricostruire un rapporto ar-monioso con la risorsa in questione; quando si è cresciuti in am-bienti regolari e calmi scanditi da ritmi ben programmati e inten-samente rispettati e accettati, il rapporto con il tempo anche dalpunto di vista psichico si incanala tra sponde già preparate, quelleche riportano all'interpretazione del tempo come fatto tecnico emetodologico. Il leader deve affrontare, cioè, il tempo secondocriteri metodologici; gestirlo attivamente (non subirlo o interpre-tarlo) con le tecniche della previsione, della pianificazione e dellaprogrammazione.

Programmare, pianificare e prevedere non sono sinonimi, anchese hanno come comune denominatore il tempo. Sono tre azionicompletamente diverse, legate tra loro da una logica sequenziale;una persona che voglia sviluppare appieno la propria capacità digestione del tempo, prima prevede, poi pianifica e infine program-ma. Se nell'elenco delle capacità del protagonista compare soltantoil termine "programmare", è perché l'azione che si dichiara è la piùconosciuta e praticata delle tre, oltre che l'ultima della serie.

Programmare, pianificare e prevedere sono azioni nelle quali èassente, seppur con intensità diversa, la certezza del risultato.Esse si differenziano per il grado di aleatorietà e di tolleranza frail dichiarato attuale e il risultato futuro: massimo per il prevedere,medio per il pianificare, minimo per il programmare.

Prevedere significa anticipare nelle dichiarazioni un probabileaccadimento. Il prevedere riguarda il futuro, tenta di descriverloe di renderlo reale, utilizzando informazioni presenti e supposi-zioni. E un atto, per sua natura, imperfetto. La caratteristica delprevedere infatti è di situarsi nel territorio del possibile e del pro-babile, alla soglia di ciò che non esiste ancora. Le previsioni nonsono profezie e il previsore non è un profeta. Lasciamo ai grandiprofeti biblici del VII secolo avanti Cristo e ai loro successori par-

lare del futuro con certezza. Quando annunciavano l'arrivo del-l'Uomo Nuovo essi non avevano dubbi. L'Uomo Nuovo, per loro,sarebbe sicuramente venuto. La loro abilità fu quella di non an-nunciare mai "quando" l'Uomo Nuovo si sarebbe manifestato. Ilprevisore parla invece di fatti e di tempi. Alloca i presumibili fattiin presumibili tempi. Come il meteorologo che afferma: "nelleprossime ventiquattro ore sono previste nelle regioni dell'Alta Ita-lia annuvolamenti e piovaschi". Non c'è certezza nella frase (per-ché è impossibile darla) ma solo anticipazione di un probabileevento. Dice ironicamente un proverbio cinese: "prevedere è dif-ficile, specialmente quando si parla del futuro". La base del preve-dere è l'intelletto; un connubio di calcolo, sogno e decisione: qualiinformazioni scegliere, quale visione possedere, quali azioni pro-gettare. Ma il prevedere è sempre influenzato dall'atteggiamentoemotivo del previsore. La persona molto pessimista, che vedenero e sogna grigio, interpreta le informazioni privilegiando gliostacoli, sottolinea le carenze e prepara le difese. La persona trop-po ottimista che sogna alto e fa tutto facile, sorvola sulle informa-zioni, perde il contatto con il presente.

Il leader si difende dalle tendenze emotive (sia quella pessimi-sta che quella ottimista) e arricchisce la sua attenzione al futurocon le astuzie e le cautele dell'intelligenza creativa. Ecco i criteriche suggeriamo al leader che cerca di prevedere nel modo mi-gliore possibile:

– egli trasforma il futuro desiderato in visione e la precisa neidettagli, alla luce delle informazioni che possiede e del tem-po disponibile;

– si prefigura il possibile verificarsi della previsione secondo lalegge di Murphy ("se qualcosa può andare male, andrà cer-tamente male") e coltiva una seconda e una terza visionealternativa nelle quali trasferire le sue aspettative;

– si allena a ricominciare a prevedere senza stupirsi di doverlofare anche "settanta volte sette" perché sa che il futuro èdistratto e non ha memoria (ha scritto il premio Nobel PaulSamuelson: "se devi fare previsioni, sappi che dovrai rifarledi frequente").

Pianificare significa decidere oggi quello che si vuole dovrebbeaccadere nel futuro, tenendo conto fin da ora delle risorse neces-

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sane per raggiungere l'obiettivo previsto. Pianificare è decidere ilfuturo... con tutte le approssimazioni del caso.

L'enfasi maggiore del pianificatore deve essere rivolta alle ri-sorse necessarie per il probabile raggiungimento del risultato piùche sul rispetto del tempo.

Infine, pianificare non significa programmare. Programmarevuoi dire allocare nel tempo degli eventi sufficientemente notinelle loro caratteristiche. Deriva da "pro-gramma", un manifestoche anticipa. Un programma richiama immediatamente alla men-te un calendario di date, una lista di attività scandite in modo defi-nito. Il programma è l'ultimo atto del processo di gestione delfuturo e diventa possibile solo dopo che siano stati chiariti gliobiettivi verso i quali si vuole tendere e siano state definite lerisorse con le quali li si vuole raggiungere. Una riunione si pro-gramma soltanto dopo aver definito per quale ragione la si indicee con chi. Dopo di che, ma solo dopo, si stabiliscono i tempi.

Abbiamo rivolto ad alcune centinaia di operatori la domanda:"possiede un 'agenda sulla quale programma i suoi prossimi im-pegni?" . Le risposte dei quattro quinti degli intervistati sono sta-te affermative. Rassicurati sulla capacità di gestire il tempo futu-ro, abbiamo posto la seconda domanda: "quante ore dei prossi-mi 10-30-100 giorni di calendario sono già programmate sullasua agenda e completate dall'indicazione della ragione, del luo-go e degli eventuali interlocutori, del suo impegno?".

E a questo punto che il dubbio si è insinuato in noi: solo il 40%delle ore disponibili erano già impegnate in modo preciso per isuccessivi dieci giorni; e quando l'ottica si spostava dal breve almedio termine, la caduta di programmazione raggiungeva per iprossimi cento giorni di calendario il valore del 3%. E questo1"`identikit" di un leader padrone del futuro proprio e della suaorganizzazione o non piuttosto quello di un pompiere di servizio,di una crocerossina, di uno sportellista, generoso fin che si vuole,sempre pronto a intervenire, ma limitato all'ottica della giornata equasi sempre eterodiretto?

Decimo: il grido di Archimede (sapersi innovare)

"Eureka!", ovvero, "ho trovato!". Nudo, Archimede correva per levie di Siracusa, felice di aver, finalmente, "trovato".

Saper innovarsi e innovare è trovare il modo di fare qualcosa di

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nuovo, mai fatto prima o di diverso. Innovare è scoprire ciò chegià c'è, ma è parzialmente nascosto alla nostra vista, come se fos-se ricoperto dalla nebbia; innovare può essere un "diradare lenebbie". Innovare non è solo creare, inventare, produrre ex novoma è anche plasmare, modellare, trasformare.

E innovativo trovare una strada diversa (più veloce o più prati-ca) per portare i figli a scuola, oppure modificare una ricetta ga-stronomica, aggiungendo un particolare; si può essere innovativiverso se stessi cambiando la montatura degli occhiali con una piùbella o più seducente.

Innovarsi è difficile e impegnativo. Si pensi a quanta parte dellavita è vissuta per abitudini, per automatismi, convenzioni o perroutine (dalla sveglia mattutina al sonno serale).

La nostra vita è un susseguirsi di ripetitività. Una persona defi-nita normale vive la sua giornata all'80-85% in modo abitudinario.Si sveglia sempre alla stessa ora, fa la "sua" colazione, ha i "suoiriti" per cominciare la giornata o per vestirsi, fa la "solita" stradaper andare a lavorare, vede e parla quasi sempre con le stessepersone, mangia o beve "il solito!", poi rientrando a casa pensa"che vita monotona e sempre uguale".

Per innovare e innovarsi deve esistere un bisogno o una moti-vazione e deve esserci una azione conscia e volontaria.

Immaginando di essere alla guida di un'automobile, si provi apensare con quale piede si frena e con quale si schiaccia, invece,il pedale della frizione. Le risposte (considerate giuste) sono pie-de destro per il freno e piede sinistro per la frizione. Ora si provi afrenare con il sinistro. Cosa succede? La macchina inchioda dicolpo e il guidatore, ahimè, si spiaccica contro il vetro anteriore.Perché? Perché la gamba sinistra ha memorizzato un movimentoautomatico, è abituata ad andare fino a fondo corsa del pedale perpoter inserire correttamente la marcia senza "grattare " e, se sicambia pedale, e si passa a quello del freno, ripropone lo stessomovimento.

Allo stesso modo, coloro che si sono cimentati per la prima vol-ta nella guida di una macchina con il cambio automatico, sonocaduti, molto probabilmente, nell'errore di provare a cambiare lostesso (azione effettuata con il piede sinistro) e hanno inchiodatola vettura, perché il loro piede sinistro ha trovato il pedale del fre-no anziché quello della frizione.

Così, se una nuova legge obbligasse tutti gli italiani a guidare

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come gli inglesi (cioè al contrario), ci troveremmo di fronte aquattro possibili reazioni: quelli che smettono di guidare; quelliche provano e, non riuscendo, rinunciano; quelli che provano edopo molti tentativi, riescono; quelli che riescono immediatamen-te. I primi due gruppi di persone non hanno acquisito la capacitàdi innovarsi, perché non sono stati capaci di rinunciare a un'abi-tudine (da habitus, abito).

L'abitudine è un sepolcro senza fondo. L'abitudine porta a riper-correre strade note, a ri-vedere gli stessi visi, a ri-pensare le idee disempre, a ri-fare. E abitudinaria quella persona che non si sforza dicambiare e di modificare il proprio atteggiamento, il proprio pen-siero; essere abitudinari vuol dire essere prevedibili. Inoltre, laripetitività di azioni, movimenti, idee fa invecchiare più velocemen-te; produce quei "giovani-vecchi " (giovani di età anagrafica e vec-chi di età biologica) che non sanno più cosa fare, che quando vannoin pensione deperiscono. Viceversa, i "vecchi-giovani" (magari ac-ciaccati dagli anni ma di spirito, indole e idee giovanili) hanno sapu-to rimanere flessibili, hanno fatto manutenzione al saper "innovaree innovarsi", hanno scoperto o riscoperto hobby e interessi che lihanno mantenuti giovani. Hanno fatta loro la prima frase del Picco-lo Principe: "tutti i grandi sono stati bambini, ma pochi di essi se nericordano".

Il motore del saper innovare e innovarsi è il cervello, oggettoancora misterioso.

Fra le funzioni del cervello quattro sono fondamentali e cioè:quella percettiva (capacità di osservare e concentrarsi), quella ra-ziocinante (capacità di analisi e di giudizio), quella ritentiva (capaci-tà di conservazione dei ricordi) e la funzione immaginativa (capaci-tà di rappresentazione, previsione ed elaborazione delle idee). At-tualmente l'intelligenza artificiale ha già acquisito ed esercita le pri-me tre capacità, all'umanità rimane ancora la quarta, che è intima-mente connessa con l'innovazione (si pensi alla capacità di immagi-nare il successo da parte, per esempio, degli sportivi).

Le quattro funzioni fondamentali sono allocate nei due emisferidel cervello, il sinistro e il destro.

Ognuno dei due emisferi si è specializzato in alcune attività pecu-liari. L'emisfero sinistro è quello della logica, è razionale, pragmati-co e ordinato; è l'emisfero privilegiato e premiato dalla scuola.L'emisfero sinistro sa far di conto, parla bene, ricorda le date stori-che, le formule chimiche, i nomi degli affluenti del Po; è lineare,

determinista, reagisce agli eventi, stabilisce norme e princìpi. Èquello che si nutre di esperienza e diventa con il tempo prudente e"frenatore".

L'emisfero destro è invece entropico, disordinato, fuori daglischemi. L'emisfero destro privilegia il caos e l'immaginazione. Erischiatore e imprudente; invita a uscire dagli schemi (suggeri-sce al bambino di arrampicarsi sulla libreria , e sporgersi dal balco-ne, perché non è frenato dall'esperienza). E flessibile, intrapren-dente, globale e coraggioso. Un po' anarchico e ambiguo, vive nelsogno e nella fantasia.

Innovare con l'emisfero sinistro vuol dire, allora, usare un ra-gionamento vincolato, implosivo, "a imbuto", centrifugo; conver-gere verso la soluzione del problema, cercando la risposta giusta,facile e logicamente necessaria. E l'approccio dello specialista,che isola e riduce, che si concentra sugli elementi, che modificauna variabile alla volta, che ricerca le cause, la linearità. E l'at-teggiamento del ricercatore.

Innovare con l'emisfero destro vuol dire, invece, usare un ragio-namento libero, esplosivo, centripeto e divergente; cercare unarisposta difficile, complessa, diversa, costosa e faticosa. E l ' approc-cio del generalista che sa collegare, che si concentra sull'intero,che considera i fini. E l'atteggiamento dello stratega.

Anche se vera, la teoria ha ingenerato qualche problema. Ènata una forma di razzismo intellettuale per cui molti sostengonoche per essere creativi, saper innovare e innovarsi, bisogna utiliz-zare l'emisfero destro (la parte innocente che consente una visio-ne olistica delle cose), mentre quello sinistro (educato e contrat-to) vale poco o nulla.

Nulla di più sbagliato. L'innovazione viene dall'amalgama deidue emisferi senza privilegi. Il ping-pong tra i due emisferi produ-ce l'idea innovativa. Un'idea per essere creativa, deve risultarelogica a... posteriori.

Colui che vuole diventare leader, può decidere di lavorare sualcuni aspetti della capacità di innovare e innovarsi che sono: lacuriosità, il piacere ludico, la concentrazione, la tenacia, l'im-maginazione.

La curiosità è la base dell'innovazione; la capacità di saper chie-dere e sapersi chiedere "perché", senza fermarsi alla prima rispo-sta. Il bambino è curioso per natura, "ficca il naso", scopre il mon-do. L'adulto non vede a un palmo dal naso. Per essere curiosi biso-

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gna imparare a fare più domande di quante risposte si possanodare, guardare tutto da punti di vista diversi. "Non si possono sco-prire nuovi oceani, se non si ha il coraggio di prendere il mare".

"Ludendo docere" era il motto dei maestri latini. Coloro chesanno giocare (a qualsiasi età, in qualsiasi luogo o momento)sono allegri, spargono felicità e simpatia intorno a loro. Nessunoama sedersi a tavola vicino a chi è triste o demoralizzato o nonride mai. L'innovazione e il cambiamento, molte volte, provengo-no dall'umorismo e dall'ironia. Saper giocare è anche fare doman-de "stupide", affrontare problemi senza risposte.

La concentrazione è la terza caratteristica sulla quale il leaderpuò lavorare.

Avere obiettivi, mete e progetti è il comune denominatore dellagente di successo, che ha saputo concentrare le proprie forze suun obiettivo o una meta. Avevano uno scopo e si sono concentratiper raggiungerlo; hanno imparato a lavorare in uffici rumorosi onegli aeroporti per recuperare le ore di attesa; a leggere un libromentre piccoli bambini rumorosi giocano ai cow-boy e agli india-ni a due metri di distanza.

La tenacia è saper ricominciare. Cercare strade nuove per risol-vere il problema; frugare nella banca dati del nostro cervello pertrovare qualcosa di vecchio che può andare ancora bene; o comeha scritto R. Kipling: "se sai fare un'unica pila delle tue vittorie erischiarla in un solo colpo a testa o croce e perdere, e ricomincia-re di nuovo dall'inizio senza mai lasciarti sfuggire una parola suquello che hai perso... allora Tu, sarai un Uomo, figlio mio".

E, infine, innovare è saper immaginare. Quando si rifiuta l'ov-vio si fa il primo passo verso l'innovazione. Immaginare vuoldire togliersi i paraocchi e uscire dagli schemi, cambiare oriz-zonti (esplorare, partire). Così come l'atleta che si prepara per ilsalto in alto, immagina la propria rincorsa, lo stacco, il supera-mento dell'asticella e proietta la sua immagine al di là dell'osta-colo verso la vittoria, il leader deve lanciare la sua immaginazio-ne verso l'obiettivo, preparandosi alle difficoltà e pregustando ilsapore del successo.

3. Lo stile del leader

L'abito fa il monaco (scegliersi la cornice)

Di una bella donna si dice che ha uno "stile" affascinante osser-vando e giudicando i suoi comportamenti, il suo modo di parlare,di muovere le mani, di camminare, il suo vestito ma soprattutto ilmodo di portarlo, il suo trucco ma soprattutto il modo di sfruttar-lo muovendo (o non muovendo) occhi e bocca. Di un ragazzo, atavola, si dice che ha uno "stile" educato perché si comportasecondo le regole canoniche del vivere civile: non mette il coltelloin bocca, non mangia con le mani, non scambia i bicchieri di vinoe acqua, non appoggia i gomiti sulla tavola, non si alza prima deglialtri. Di un pilota di Formula 1 si dice che ha uno "stile" nervosovalutando come accelera, come frena, come affronta le curve,come sorpassa. Di un oratore si dice che ha uno "stile" asciuttoascoltando quanto dice e rilevando il tono controllato, la mimicacontenuta, il linguaggio secco, non enfatico.

I giudizi di "stile" espressi per la bella donna, per il ragazzo,per il corridore di Formula 1 e per l'oratore, prendono le mossedall'osservazione del loro comportamento. Incominciamo per-tanto ad acquisire una prima identità: "stile" uguale "comporta-mento " e comportamento così come viene osservato e giudicatodagli altri. Chesterfield definisce lo stile con il termine "TheGraces", le grazie, intendendo con questo il modo di fare, lebuone maniere, la grazia del portamento. Noi definiamo lo stilecon queste parole: "insieme delle maniere e del costume abitua-le, del modo di agire di un individuo in situazioni di rapportointerpersonale o di pubblica attenzione, a volte inconscio, me-glio se adottato come scelta volontaria". Lo stile si può imitare

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da altri, si può adattare e costruire razionalmente basandosi sul-l'analisi della realtà di riferimento correlando le due componen-ti psicologiche, rappresentate dal sistema dei bisogni prevalentie dal sistema delle proprie aspirazioni, con le due componentistrategiche della cultura sociale dominante e degli obiettivi del-l'organizzazione di appartenenza.

Nell'operatività quotidiana "stile" non indica altro che la combi-nazione di modi di agire e di apparire trasformati in abitudine, inatti in ampia misura prevedibili per coloro che vivono a fianco del-la persona giudicata. Questa manifestazione scenica combina inmodo intonato i principi, le convinzioni, i tratti di personalità del-l'individuo con stimoli più effimeri e contingenti provenienti dal-l'ambiente sociale in cui si vive.

La moda del vestire e i termini del linguaggio d'attualità sono idue esempi più importanti che esauriscono le loro proposte nel-l'arco di poche stagioni ma incidono visibilmente sulla culturadominante. La qualità del vivere privato, le scelte hobbistiche,feriali e culturali, la professione morale e politica rappresentanoinvece manifestazioni di stile a medio termine che richiedonoscelte di coerenza per risultare efficaci e quindi d'effetto.

Chi è tetragono agli stimoli esterni del sociale e non ritiene didover cambiare per nessuna ragione le proprie convinzioni e ipropri princìpi, ha evidentemente un proprio stile, ma non è di-sposto ad adattarlo e neppure a porgerlo in modo accettabile. Anoi non interessa lo stile come norma risolutiva ("chi parla conl'erre moscia e porta l'orologio sul polsino farà carriera in Fiat";"se non si è iscritti al Rotary non si diventa direttori di questabanca"), né tanto meno come finzione totale ("non c'è nulla dimale a mentire, adulare, fingere che il tennis sia l'hobby preferi-to. Non c'è nulla di male ad affittare un'indossatrice e farla pas-sare per la propria moglie alla convention aziendale. Il fine giu-stifica i mezzi").

A noi interessa lo stile come scelta ragionata e sigillo formaleper poter meglio agire nel sociale e dal sociale essere accettato.

Il nostro modello di costruzione della figura del leader consi-dera lo stile come secondo scalino della piramide (vedi Figura1.2), perché la realtà dimostra che in un qualunque contestoumano organizzato e in qualunque tempo, il successo personaleè basato non solo sulla sostanza e sull 'autentica capacità dell ' in-dividuo ma anche, se non soprattutto, sul modo e sulla forma

con cui egli trasmette la sua personalità e le sue capacità e com-petenze e interagisce con gli altri.

Abbiamo già spiegato che, trattandosi di un modello piramida-le, il disegno stesso anticipa che non tutti coloro che iniziano lasalita della scala sono tenuti a percorrerla fino in cima. Coloroche si accorgono di aver raggiunto, a un certo punto della lorovita, un successo significativo grazie alle proprie capacità e nonintendono costringersi a formalità comportamentali che sentonofasulle e forzate, fanno benissimo a considerare compiuta la scala-ta e a mantenere le posizioni raggiunte, purché provino una sen-sazione di utilità, pienezza e soddisfazione raggiunta nel lavoro enella vita. Se nessuno la pensasse così e tutti volessero continua-re il gioco, la nostra piramide diventerebbe un parallelepipedo eperderebbe realismo. I "capaci e basta" sono quindi indispensabi-li alla plausibilità del modello.

Stile come formalizzazione, come vernice trasparente per ren-dere impermeabile la barca, come cornice in cui inserire un belquadro; non v'è dubbio che il dipinto resti l'elemento essenziale,ma un dipinto, per quanto raro, appeso su un muro sporco conuna puntina da disegno, non solo non viene riconosciuto cometale, ma viene ritenuto una copia modesta. La cornice, lo stile,serve dunque a mettere in valore il quadro e a collegarlo conl'arredamento della stanza: se cambia l'arredamento può essereutile cambiare la cornice. Il saggio padrone di casa dovrebbe ave-re a disposizione più di una cornice come il saggio leader dovreb-be saper praticare stili diversi. Ce ne sono tanti.

Prendete dieci leader di successo; esaminate il loro comporta-mento e scoprirete dieci stili diversi e dieci modi di interpretare laloro figura.

I commenti a questa frase possono essere due. Il primo, il piùdeludente è che, con questa affermazione, si vuole dimostrareche lo stile è una variabile indipendente e casuale, un fatto del tut-to accidentale, che non influisce sui risultati.

Il secondo, quello cui noi crediamo, è che non esiste uno stileunico vincente, sempre valido nel tempo e universale nello spazio.Molti sono gli stili che portano al successo personale; il problema èquello di individuare la correlazione fra stile e situazione, cioè cer-care di comprendere quale stile è il più adatto per "quella" situazio-ne (... quale cornice per quell'arredamento o per quel dipinto).

Nel definire lo stile della bella donna abbiamo usato l'aggettivo

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84 Lo stile del leader Lo stile del leader 85

"affascinante"; per il ragazzo l'aggettivo è stato invece "educato";per il corridore automobilistico "nervoso"; per l'oratore "asciut-to". Lo stile dunque si definisce con un aggettivo e lo Zingarelli ha40.000 aggettivi, molti dei quali potrebbero indicare altrettanti sti-li. Limitandoci a parlare degli stili del leader gli aggettivi disponi-bili e utilizzabili potrebbero essere alcune decine. Ma noi inten-diamo illustrarne sette e soltanto sette perché ci sembrano esse-re sufficienti e sufficientemente distinguibili fra loro.

Intendiamo approfondire il loro significato perché, avendo af-fermato che non esiste un unico stile vincente, vogliamo sperareche, conoscendo le alternative, il lettore possa e sappia sceglieretra esse valorizzando il suo contributo anche grazie al suo stile.

Sette sono gli stili dei quali vogliamo parlare oltreché di un paiodi variabili d'ambiente: la ripartizione del potere fra il leader el'organizzazione cui egli appartiene e l'atteggiamento dei collabo-ratori o dei colleghi del leader. Con il simbolo 1-0 si vuole indicareche, nel rapporto fra leader e gli altri, tutto il potere è in mano alprimo.

Analogamente, con il simbolo 0-1, si indica che il reale potere èpresso l'organizzazione (gli altri) e il leader opera in condizioniprecarie. Rapporti diversi dalle condizioni estreme ora dette pos-sono essere indicati con due numeri, la cui somma è sempreuguale a uno. Così la situazione 0,5-0,5 si ha quando il leader e glialtri hanno sostanzialmente uguale potere di contrattazione e ne-goziazione. La condizione 0-0, apparentemente anomala rispettoalla norma testé data, propone una realtà nella quale il poterediscrezionale di decidere, di comandare, di negoziare, di contrat-tare, è allocato fuori dalle parti: non è difficile comprendere che,nel caso della situazione 0-0, il potere è delegato alla norma e alleprocedure nelle quali il leader agisce e contro le quali egli benpoco può fare.

La seconda variabile d'ambiente, scelta per la differenziazionedei sette stili, riguarda l'atteggiamento che i membri di un'orga-nizzazione (gli altri) esprimono o pensano di avere verso gli obiet-tivi fondamentali del leader. Estremizzando e semplificando leposizioni, immaginiamo due condizioni limite: quella della condi-visione e quella della non condivisione degli obiettivi fondamenta-li del leader. Condividere gli obiettivi fondamentali significa ope-rare per il raggiungimento degli stessi, difendendoli in caso diaggressione contro la loro sopravvivenza. Avviene il contrario

quando questi obiettivi fondamentali non vengono condivisi. Cor-relando fra loro stile, potere e condivisione, possiamo descrivere isette stili.

- Sl, stile paternalistico: comportamento di chi, pur avendo tuttoil potere, non esercita appieno la sua autorità sapendo di averel'adesione spontanea dei collaboratori o dei colleghi alle deci-sioni che prende (potere: 1-0; condivisione degli obiettivi).

—S2, stile autoritario: comportamento di chi utilizza appieno ilpotere che ha, imponendo la sua volontà agli altri, soprattuttoquando questi dissentono da lui (potere: 1-0; non condivisio-ne degli obiettivi).

—S3, stile partecipativo: comportamento di chi, non potendoprevalere per autorità sulla controparte, negozia e dialogacon essa, sapendo di trovare facilmente punti di intesa, graziealla comune adesione ad alcuni principi fondamentali (potere:0,5-0,5; condivisione degli obiettivi).

—S4, stile tecnocratico: comportamento di chi, non potendo pre-valere sulla controparte, utilizza il raziocinio, la logica matema-tica, la modellistica per convincere e ricorre all'autorità forma-le e istituzionale solo quando deve imporre un ordine (potere:0,5-0,5; non condivisione degli obiettivi).

—S5, stile burocratico: comportamento di chi utilizza le norme ele procedure per ottenere risultati senza sentire il bisogno néavere la necessità di convincere le persone coinvolte nell'ap-plicazione delle suddette norme e procedure (potere: 0-0; con-divisione indifferente degli obiettivi).

—S6, stile democratico: comportamento di chi, sapendo di avereun ruolo di potere delegato, persegue il consenso alle sue deci-sioni e alle sue proposte attraverso la verifica costante e il con-dizionamento frequente del volere della base (potere: 0-1; con-divisione degli obiettivi).

- S7, stile permissivo: comportamento di chi avalla passivamente,senza essere in alcun modo protagonista del processo decisio-nale e operativo, le scelte e gli atti della base (potere: 0-1; noncondivisione degli obiettivi).

L'elenco suddetto, con le variabili "potere" e "obiettivi", rappre-senta un tentativo di correlare lo stile del leader con la situazioneambientale. Non esaurisce tutte le variabili organizzative e socia-

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li, ma è sufficiente per proporre il problema; un problema fonda-mentale. Sono le variabili ambientali che condizionano lo stile o èlo stile che condiziona le variabili ambientali?

Avendo il leader fra i suoi obiettivi quello di ottimizzare il com-portamento degli altri e dell'organizzazione nella quale operano,non c'è dubbio che il chiarimento si impone. Se si concludesse,infatti, che il comportamento del leader dipende dal clima orga-nizzativo e dall'ambiente vigente, si realizzerebbe la condizioneche suggerisce di assumere uno "stile situazionale"; mentre nelcaso contrario ci si troverebbe nella possibilità di realizzare uno"stile attitudinale". Si definisce uno "stile attitudinale" quello natu-rale e spontaneo di ognuno che evidenzia aspetti caratteriali escelte di personalità.

Si può partire dalle variabili ambientali e ritrovare qual è lo "sti-le" che più di altri può ottimizzare quella situazione ed ecco lo"stile situazionale", oppure si può stabilire quali dovrebbero esse-re le condizioni organizzative qualora si volesse adottare un certostile naturale e spontaneo che non si intende modificare, si realiz-za allora lo "stile attitudinale". Noi crediamo che sia meglio per illeader adottare uno "stile situazionale" che imporre uno "stileattitudinale".

L'immagine, specchio segreto (ciò che gli altri vedonodi noi)

Promuovere se stessi comporta la precisa e peraltro stimolanteconsapevolezza che in ogni istante della giornata noi "vendiamo"agli altri il nostro punto di vista e le nostre convinzioni, cercandodi convincerli a fare o a dare qualcosa. Entrare nella mente delnostro interlocutore, ottenerne il consenso persuadendolo o l'ub-bidienza convincendolo, attraverso un processo di empatia e diassertività, presuppone una buona conoscenza di sé. D'altronde,l'atto di vendita darebbe scarsi risultati se il venditore non cono-scesse bene il "prodotto" che intende proporre.

Mettendoci nei panni degli altri, fatto non sempre ovvio e prati-cato, riusciremo meglio e più puntualmente a corrispondere alleloro attese, alle loro esigenze, sviluppando inoltre una preziosacapacità di ascolto.

Tra gli scritti di Sigmund Freud, è celebre il racconto di unviaggio notturno in vagone letto nel corso del quale lo psicanali -

Lo stile del leader 87

sta, aprendo gli sportelli dello scompartimento si trovò di fronteun signore barbuto e corrusco, del tutto sconosciuto, che non glipiacque per nulla. Mentre gli rivolgeva la parola, si rese conto diessere di fronte a uno specchio e di osservare la propria immagi-ne riflessa.

L'autopromozione implica consapevolezza di sé e della propriaposizione rispetto agli interlocutori che ci interessano; richiedeun adeguato livello di autostima e se il prodotto lo consente, an-che un certo grado di visibilità.

Vediamo ora alcune conseguenze che la "non" promozione dise stessi può produrre:

– una persona capace e onesta, dotata di buone intenzioni e diqualità interiori, non viene riconosciuta né apprezzata se nonsa dimostrare il suo valore;

– il primo della classe diventa raramente anche il primo nellavita, se non media la sua competenza culturale attraversoaltrettanta capacità di trasmettere ciò che sa;

– un grande affetto risulta più inutile e vago di un sano e mode-sto sentimento, se non sa manifestarsi alla persona amata;

– un lavoratore fedele e generoso ma timido viene valutatomeno capace di un lavoratore più pigro ma più brillante;

– un ricercatore geniale o un progettista creativo che non san-no presentare le proprie idee, sono inutili all'organizzazionedi appartenenza;

– un manager discreto e riservato, sovente si vede superato incarriera e in successo aziendale da chi dedica tempo e atten-zione alla propria visibilità e alle relazioni sociali.

Il più delle volte le persone protagoniste non riflettono sulla propriaimmagine pubblica e cioè sullo "stile" che portano e sul "comporta-mento" che hanno e, così facendo, subiscono inevitabilmente ungiudizio restrittivo o negativo, basato su impressioni non corri-spondenti sovente a realtà. Essi si comportano così per irrazionalediffidenza verso l'esterno, per timidezza, per riservatezza naturale,per disinteresse alle pubbliche relazioni, per sfiducia nell'impor-tanza del sociale e per altre ragioni personali. Queste persone nonarrivano a essere dei protagonisti perché non credono nell'impor-tanza della valorizzazione del proprio contenuto e della propriaimmagine. Dice Peter Drucker: "1'autovalorizzazione delle persone

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è elemento vitale della valorizzazione dell'intera organizzazione.Coloro che ` si ' adoperano per diventare più realizzati nel loro ruoloalzano il livello di rendimento di tutto il sistema di appartenenza".

Dei due tipi di autovalorizzazione citati quella di contenuto vie-ne sovente considerata di qualità e significanza superiore a quelladi immagine, certamente a causa della concretezza e del caratte-re delle sue applicazioni.

Nei nostri corsi e nelle nostre conferenze, quando noi definiamol'autovalorizzazione della propria immagine con il termine operati-vo di "marketing di se stessi", ci accorgiamo che gli ascoltatoridevono vincere un iniziale rifiuto alla proposta di adattare a se stes-si una tecnica usata per "vendere " prodotti e servizi, ma poi proce-dono spontaneamente lungo il ragionamento e si divertono ad am-pliare l'ambito dell'esempio. Se, infatti, l'intelligenza consiste nellacapacità di stabilire relazioni significative tra elementi indipendentidi conoscenza, il cercare di porre delle relazioni significative tra iconcetti e le metodologie del marketing e il concetto e la metodolo-gia della valorizzazione della propria immagine rappresenta, se nonaltro, un'operazione di creatività intelligente.

La definizione di "marketing" quale viene citata sui manualidella materia è duplice, da un lato esso consiste nello studio e nel-la determinazione, con ottica strategica, di norme di comporta-mento nei confronti della programmazione, realizzazione e con-trollo delle attività di scambio sul mercato; dall'altro invece defini-sce la gestione della totalità del rapporto con l'esterno con otticainterdisciplinare, realizzando quindi un vero e proprio salto quali-tativo rispetto alle professionalità di tipo tradizionale, rivolte aruoli e funzioni univoche.

Domanda: è utile la presenza di una funzione di marketing nelmodello di gestione personale del leader? Risposta: o l'individuovive solo e solitario, avulso da ogni contatto sociale, oppure ilrapporto con l'esterno è considerato necessario e in tal caso vainterpretato, organizzato e padroneggiato al fine di evitare chediventi condizionante sulla personalità. Per farsi accettare, perfarsi scegliere, per farsi apprezzare, per farsi... pagare, il leaderdeve rendersi responsabile della sua immagine sociale, altri-menti, anziché avere un valore autonomo sarà costretto ad ac-cettare il prezzo imposto dal mercato e i condizionamenti del-l'ambiente esterno.

Per definire l'immagine può essere utile proseguire con rana -

logia già proposta e tornare alle definizioni dei manuali di marke-ting. Secondo questi:

—l'immagine è la sintesi delle opinioni che l'ambiente esternoha di un certo prodotto (il protagonista, nel nostro caso);

—l'immagine deriva da un processo di sedimentazione dellerelazioni che l'attività di marketing riesce a instaurare conl'ambiente;

—l'immagine che ha effetti significativi sul comportamento deiconsumatori (nel nostro caso, di quanti conoscono, frequen-tano e giudicano il protagonista), ed è caratterizzata da unacerta inerzia al cambiamento, per cui se un prodotto o unmarchio riesce a costruirsi una buona immagine, esso acqui-sisce un patrimonio di credibilità duraturo nel tempo.

L'immagine di sé, quindi, passa attraverso le seguenti premesse:non più solo " io come sono", e nemmeno "io come mi penso " , maanche "io come sembro", e soprattutto "io come potrei sembrarese facessi bene marketing di me stesso", e infine (postulato fina-le) " io come compromesso interno-esterno, intimità-immagine,contenuto-prodotto".

In un'indagine che destò curiosità alla sua presentazione pubbli-ca, abbiamo raccolto le risposte di alcuni leader italiani alla doman-da: "in che cosa consiste il suo comportamento di marketing perso-nale in rapporto a quelli che Lei considera i suoi specifici segmentidi mercato sociale?". L'omogeneità delle risposte ricevute ci ha per-messo di individuare cinque comportamenti base che, con dosag-gio diverso e cangiante nel tempo, costituiscono il comune denomi-natore dello stile comportamentale del leader.

Noi pensiamo che il leader può (e deve) decidere di recitare ilruolo (e cioè di scegliere lo stile) che la situazione gli impone, manon può (non deve) rinunciare a porre attenzione nel suo com-portamento quotidiano ai seguenti cinque aspetti elencati secon-do un criterio decrescente di importanza:

—il possesso di alte doti di comunicabilità;—l'attenzione all'estetica;—la ricerca della notorietà;—l'attenzione alla qualità della vita;—il possesso di energia interna.

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90 Lo stile del leader Lo stile del leader 91

L'interpretazione che noi diamo ai suddetti comportamenti base èla seguente:

– il possesso di alte doti di comunicabilità; cioè avere un'affasci-nante dizione, essere interessante nelle considerazioni e con-vincente nelle argomentazioni, parlare coinvolgendo l'inter-locutore nella narrazione, nel dialogo, nel dibattito senza nar-cisismi e autocentratura, saper parlare e saper ascoltare, met-tendo l'interlocutore nella condizione di sentirsi interessante;

– l'attenzione all'estetica significa: avere particolare attenzioneal proprio corpo, al modo di vestire; scegliere e portare oggettiindosso adatti alle varie occasioni sia di lavoro che di vitasociale; fare in maniera che "l'abito faccia il monaco" ovverosiache il comportamento personale sia coerente con l'abbiglia-mento adottato smentendo il detto "l'abito non fa il monaco";

– la disponibilità alla notorietà che significa non avere timoredi apparire in pubblico, anzi di cercare la visibilità, non quellaa ogni costo, ma quella ragionata e in alcuni casi progettata;che significa frequentare, obbligandosi talvolta, le occasionisociali importanti; assumere senza scopo di lucro responsa-bilità di rilievo esterne al lavoro in organismi pubblici e priva-ti; farsi citare dai giornali; frequentare la gente "giusta" e ilocali "giusti"; uscire, senza esagerare, dall'anonimato;

– l'attenzione alla qualità consiste nel garantire un buon equili-brio fra vita professionale, vita famigliare e vita sociale; nel-l'occuparsi della propria salute considerata sulla base del-l'equilibrio psicofisico; nel mantenere il controllo dell'emo-tività; nell'evitare a qualunque costo stress negativo e faticadistruttiva, nel coltivare la serenità e trasmetterla all'esterno;

– il possesso di energia interna vuol dire: avere scatto, rapidità,prontezza, velocità di decisione, aggressività calibrata, duratanello sforzo, sopportazione dell'ansia e dello stress, dimo-strando tono psicofisico pronto e vitale grazie al quale creareun contatto intenso e mirato in ogni situazione interpersonale.

Chi non comunica non esiste (130 parole al minuto)

La comunicazione verbale costituisce la parte di comportamentoespressa mediante il linguaggio parlato. Essa si concretizza inparole, le parole in frasi e le frasi in contesto linguistico comples -

sivo. Le principali discipline che governano il linguaggio sono: lalinguistica, la semantica, la grammatica e la sintassi.

Considerata l ' importanza di questo primo aspetto comporta-mentale è indispensabile che ogni lettore tenga a casa o nel pro-prio ufficio a portata di mano una grammatica, una sintassi o unvocabolario della lingua italiana, esattamente come tiene testi edizionari delle lingue straniere. Come abbiamo già detto, in unvocabolario italiano sono raccolte normalmente oltre 100.000 pa-role, di cui almeno 40.000 sono aggettivi, cioè termini che aiutanoa qualificare e specificare il proprio pensiero.

Inoltre dovrebbero essere sempre a portata di mano i dizionaridei sinonimi e dei contrari, strumenti assai utilizzati da chi scriveper professione, ma ignorati dalla maggioranza dei casi.

Se si considera che normalmente uno specialista o un profes-sionista ascoltano e leggono per anni quasi esclusivamente rela-zioni, documenti di lavoro, pubblicazioni tecniche specializzate eparlano quasi sempre degli stessi argomenti, si può dimostrareche il loro vocabolario complessivo si riduce a circa 1.500 paroleusate con alta frequenza e 1.000 usate con bassa frequenza. Quan-to a varietà e ricchezza espressiva, la loro verbalizzazione è similea quella di uno studente delle scuole medie. Per avere una dimo-strazione di questa affermazione è sufficiente sfidarli al gioco disocietà chiamato Taboo, che consiste nel far indovinare, in tempibrevissimi, degli oggetti quotidiani descrivendoli senza utilizzareil loro vero nome. Abbiamo personalmente assistito alla distruzio-ne dell'immagine di un ingegnere che una sera d'inverno, intornoa una tavola natalizia con famigliari e amici, risultò ultimo in clas-sifica rimanendo letteralmente senza parole (è il caso esatto) difronte a "innaffiatoio" e a "passavivande".

La comunicabilità richiede di leggere, ascoltare e variare lefonti di informazione allo scopo preciso di arricchire il propriolinguaggio.

Bisogna imporsi di imparare almeno tre o quattro termininuovi ogni mese (sarebbe bene trascriverli) e, appena imparati,introdurli nel proprio linguaggio abituale. Bisogna ripulire pe-riodicamente il proprio linguaggio dalle ripetizioni, dai modi didire, dal turpiloquio esagerato, dalle banalità e dalle inutili inte-riezioni come: "un attimo " o, peggio ancora, "un attimino " , " ilcontesto " , "se posso permettermi" , "sarò breve " , "è un momen-to difficile", "dipende" e così via.

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Bisogna ripetere i giochi dei sofisti greci, che proponevano diesporre una dimostrazione in modo così completo da convincerequalcuno e, subito dopo, di illustrarne il contrario per convincerequalcun altro dell'opposto esatto.

Le parole sono la materia base dell'espressione verbale: biso-gna frequentarle, manutenerle, averne cura, apprezzarle. E sonoanche i mattoni con cui si costruiscono i pensieri. Sono preziose enon vanno buttate a caso o sparse invano.

Il processo di comunicazione verbale ha un rendimento moltobasso; di ciò che viene detto, non tutto viene compreso e di quan-to viene compreso, non tutto viene memorizzato.

Al termine di una lezione o di un colloquio o di una riunione didue ore, normalmente viene ricordato il 20-30% delle affermazionie degli interventi più significativi e, dal momento che ciò che siricorda è ciò che piace o ciò che disturba, diventa indispensabileda parte di chi parla aiutarsi con sussidi visivi, ripetizioni, doman-de di controllo e, da parte di chi ascolta, prendere appunti scritti ecompilare un verbale conclusivo.

Le parole si appoggiano sulla voce, sul tono e sulla velocità,cioè sulla modulazione dell'emissione del respiro. La velocità mi-gliore per essere ascoltati e compresi è di 110-130 parole al minu-to. Una pagina standard di libro contiene circa 300 parole: allena-tevi a recitarla in due minuti e mezzo.

Un comune difetto dei tecnici, degli amministrativi, dei profes-sionisti, è quello di parlare con tono monocorde, concentrandosisul contenuto del discorso e dimenticando che l'ascoltatore rice-ve prima il suono e solo successivamente il significato.

La monotonia è il contrario della musicalità, del ritmo e dellavariabilità. La monotonia del parlare induce sonnolenza, disatten-zione e disinteresse nell'ascoltatore.

Fissate la vostra voce su un registratore e controllate la variabi-lità con la quale normalmente parlate.

Un secondo difetto, altrettanto comune, è quello di parlare conun tono di voce flebile o normale, considerando "normale" l'in-tensità espressa dalla respirazione spontanea.

Quando l'intensità vocale non è sufficiente a superare i rumo-ri dell'ambiente o la distrazione dell'interlocutore, il messaggioè perduto. Eppure sembra che molti non si rendano conto delfatto che la colpa è solo loro: "non mi ascoltano" dicono, "parli

più forte" qualcuno suggerisce, "ma io parlo così", è la scioccaconclusione.

A che serve dire cose intelligenti se l'interlocutore non le sen-te? L'immagine che si lascia di noi diventa quella di persone debo-li, timide, pigre o (peggio!) senza energia.

Nella vita di un leader vi sono alcune situazioni tipiche di ver-balità interpersonale: in occasione delle quali si deve decidereche atteggiamento, che comportamento, che stile assumere.Esse sono: il colloquio; la telefonata; la riunione; l'intervista.

Ognuna di queste situazioni si realizza in modalità differenti traloro a seconda dell'argomento, degli interlocutori, del tempo edel luogo. Così il colloquio può essere: comunicazione tra capo ecollaboratore, tra colleghi, tra fornitore e cliente, tra marito emoglie, tra avversari politici o contendenti sportivi, tra padre efiglio, tra vecchi amici. E può affrontare argomenti disparati: as-sunzione, licenziamento, sesso, negoziazione, conflitto, ricordi in-fantili, denaro, religione. Si può fare un colloquio a pranzo, inautomobile, nella sala di aspetto di un aeroporto, in una pausa diuna partita a tennis, in ufficio, al banco di un bar, visitando unafabbrica, passeggiando in un giardino. Si può parlare nel frastuo-no o nel silenzio, in due soli interlocutori o con altri presenti,ascoltatori o testimoni, coinvolti o completamente disinteressati.E anche il tempo può essere diverso: un colloquio alle otto di mat-tina è situazione completamente diversa da un colloquio alle ottodi sera o alle quattro del pomeriggio.

Ma pur variando modo, tempo, luogo, interlocutore e contenu-to, il colloquio rimane sempre una situazione di comunicazionetra due persone, che consiste nella trasmissione di informazionidestinate a influenzare il rapporto interpersonale scambievole equindi il comportamento finale di entrambi.

Lo stesso avviene per le riunioni, per le telefonate e per tutte lealtre occasioni di lavoro non solitario.

Vivere tali situazioni nell'ottica del marketing di se stessi, signi-fica porsi ogni volta due domande: "cosa voglio ottenere con ilmio stile comunicazionale?", "cosa devo dire per ottenerlo?".

L'impostazione della comunicazione deve essere coerente allerisposte.

Così per esempio un padre, se vuole ottenere da un colloquiocon il proprio figlio ventenne che questi non frequenti certi amicidrogati, dovrà impostare il colloquio soltanto su delle domande

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(infatti vuole ottenere un cambiamento nel comportamento dell'in-terlocutore, ma deve anche volere un cambiamento nel propriocomportamento e cioè una conoscenza di suo figlio diversa daquella attuale) e le domande non devono essere espresse in mo-do diretto, che risulterebbe aggressivo ("perché frequenti queicattivi amici?"), ma indiretto ("cosa pensi dei tuoi amici? cosa cer-chi nell'amicizia? quali amici di infanzia ti sono stati i più cari?cosa ti danno, cosa rappresentano per te i tuoi amici attuali? " ).

Sappiamo che per un leader pragmatico e concreto abituato aesprimersi con frasi incisive, centrate su obiettivi e azioni cosìcome per chiunque si consideri persona di successo, riuscire acomunicare attraverso delle domande e non attraverso delle af-fermazioni rappresenta un cambiamento totale. Sappiamo ancheche riuscire a trattenersi dal costruire spontaneamente le frasisull'io ("io penso", "la mia esperienza mi dice", "ti dico io comefare") non è solo un cambiamento, ma anche uno sforzo violentoda imporsi.

Ma la regola è una sola: se marketing di se stessi vuol diremassimizzare l'effetto che si produce sugli altri è agli altri chebisogna dedicare la massima attenzione. Il risultato comunquecompenserà il costo sostenuto. Il figlio nell'esempio appena cita-to, al termine di un colloquio tradizionale, sul tipo di: "figlio mioho ritenuto opportuno questo colloquio perché sono preoccupa-to (io) del tuo comportamento... I tuoi amici non mi (a me) sem-brano adatti...", si sarebbe probabilmente ritrovato irrigiditonelle sue scelte, e confermato nella convinzione dell'incompren-sione famigliare. E probabile invece che dal colloquio impostatosecondo il metodo suggerito e cioè basato su domande, egliintroduca nel proprio comportamento alcuni cambiamenti dovu-ti all'aver definito ad alta voce emozioni e impressioni forse finoa quel momento lasciate vaghe dentro di sé oppure al calore deiricordi rievocati, alla scoperta dell'atteggiamento del genitoredi rispetto e di autentico interesse.

Forse tra padre e figlio si è addirittura aperta una porta per con-tinuare il colloquio e preparare occasioni future di confidenza estima.

Dovendo parlare di suo padre con dei coetanei, lo farà in modopositivo: "malgrado sia direttore generale è rimasto umano, perfi-no giovane quanto a mentalità!". E dovendo pensare a lui, confer-merà l'affetto.

Quanto al padre il risultato di una comunicazione ben studiata,concentrata su domande e non affermazioni, ha rappresentato unbuon successo.

Il dovere di piacere (educarsi all'eleganza)

La differenza tra vestirsi e sapersi vestire, nell'ottica dell'argo-mento che tratta questo capitolo, è assai semplice.

Vestirsi significa coprire il proprio corpo al fine di proteggerlo,di non offendere il pudore altrui e di svolgere le attività desidera-te o necessarie. Sapersi vestire significa invece utilizzare lo stru-mento abbigliamento in modo coerente alla propria personalità,alle occasioni da vivere e all'immagine di se stessi che si desiderapresentare agli altri.

Racconta il responsabile della Tmc, un'agenzia che selezionapersone per le aziende:

Il vestito non è decisivo, ma a volte può pesare. Mi spiego con unesempio. Ricordo di un tale selezionato da noi, uno che sembrava ingamba, perfetto, che arrivò al colloquio con il cliente, cioè con la per-sona che lo doveva assumere, in maglietta e blue-jeans. Il colloquionon fu brillantissimo e a quel punto il jeans diventò decisivo; non fuassunto. E stata giusta quella decisione? Probabilmente sì. Quel talenon aveva riflettuto sulla relazione tra abbigliamento e circostanza.

Per un futuro leader, siamo di fronte a un imperdonabile esempiodi superficialità e alla dimostrazione di non essere in grado dicomprendere quale è il comportamento adatto a una specificasituazione.

"Non si ha mai due volte la possibilità di lasciare la prima im-pressione" ha detto McKenna, un esperto di marketing.

Il leader si rivela e si traduce attraverso la sua vestibilità. Dalmomento che non si va in giro nudi, l'abito è ciò che gli altri vedo-no in noi prima ancora di conoscere il nostro nome ("chi è quelsignore con la giacca blu in fondo alla sala?").

Il vestiario incornicia, copre, tradisce o valorizza la nostra e-spressione facciale, il nostro movimento corporeo, qualunque no-stra comunicazione. Sottovalutare l'importanza di questo aspettocomportamentale non è soltanto sciocco, è anche pericolosamen-te sbagliato.

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Sapersi vestire si impara per educazione, quando si sia avuta la for-tuna di nascere in una famiglia di buon gusto; per imitazione, quan-do si ha l'intelligenza di osservare le figure che fanno opinionenegli ambienti che ci interessano; per decisione, quando si ha lavolontà di costruire la propria immagine in vista di finalità precise.

E facile imparare a vestirsi. Esistono in ogni città i negozi "giu-sti", di solito uno o due, dove si vestono le élite che interessano erispetto alle quali ci si vuole misurare. E sufficiente osservareattentamente le loro vetrine; acquistare un capo di vestiario ecoordinarlo con il resto dell'abbigliamento, farsi consigliare daicommessi (superando l'imbarazzo che potrebbe causare il loroatteggiamento distaccato: anch'essi fanno il marketing dell'im-magine del negozio).

Nel concetto di sapersi vestire è compreso l'aspetto di eleganzapersonale, che può indifferentemente descrivere uno stile origi-nale oppure uno stile tradizionale di abbigliamento ma che esigecome condizione base che vi sia armonia di colori, di linee, dimateriali, di misura e proporzione di forme e di fogge.

La persona elegante segue criteri di abbigliamento che nonsubisce come se fossero vincoli ma seleziona e aggiorna con ilvariare dell'età, del ruolo e della responsabilità, degli ambienti incui vive; da giovani la vestibilità è sperimentata al fine di sceglier-si uno stile; da adulti va selezionata e resa coerente al proprio per-sonaggio; nell'età della maturità va raffinata e resa impeccabilecome qualità e semplicità.

L'abbigliamento risponde a tre scopi principali: allo scopo igie-nico, a quello funzionale e a quello rappresentativo.

Lo scopo igienico riguarda la salvaguardia della salute (capire,difendere e mantenere il benessere fisico).

Lo scopo funzionale riguarda la qualità della vita quotidiana(muoversi, agire con sicurezza e libertà, mantenere il benesse-re psichico e fisiologico).

Lo scopo rappresentativo riguarda l'espressione, il segno e ilsegnale che la persona manifesta attraverso il tipo di abbiglia-mento che sceglie.

La funzione igienica e quella funzionale del vestiario si realiz-zano attraverso la pulizia personale, la cura della biancheria inti-ma, l'attenzione alla scelta dei tessuti (spessore, peso, trama, tra-spirazione), del taglio e della forma, non vincolante per movimen-ti e per le posture da ruolo (sono da evitare le scarpe con tacchi

alti per le donne che devono stare molto in piedi, le giacche attilla-te per uomini che devono stare molto seduti ecc.). Può esserecompreso nello star bene (o benessere) il piacere e la piacevolez-za che un tipo di abbigliamento può dare al fisico, nonché la pro-tezione che offre al corpo per difenderlo dal freddo, dal caldo, dalbagnato, dagli insetti e così via.

Le categorie dell'abbigliamento variano secondo le scelte di vitadel soggetto. Le più utilizzate sono le seguenti:

—la quotidiana normale, che comprende il modo di vestirsi siasul lavoro che in casa;

—la sportiva, intonata al tipo di sport che si pratica;—la casuale, che caratterizza un'organizzazione di vita mobile e

attiva, non vincolata a stereotipi precisi ma solamente al gu-sto e alle preferenze del soggetto (si dice anche: "vestire injeans " );

—la formale, che serve per occasioni standardizzate secondo icanoni dell'ambiente in cui si vive; per esempio: vestirsi dapomeriggio; oppure: cambiarsi per un pranzo serale; oppure:giacca scura (per gli uomini) e mezza sera (per le donne);

—la cerimoniale, che comprende abiti codificati come i vestitida cerimonia, le uniformi, gli "smoking", il "tight", il "frac".

Lo scopo rappresentativo dell'abbigliamento riguarda la sua du-plice funzione comunicativa: verso gli altri, il nostro modo di vesti-re trasmette il ruolo sociale che riteniamo di coprire o il tipo dipersona che desideriamo che gli altri pensino che noi siamo; ver-so noi stessi, concretizza e conferma il conformismo o l'originalitàche sentiamo corrispondere alla nostra personalità (il senso deicolori, il bisogno di armonia e di estetica o la semplice comoditàdi cui preferiamo circondarci).

La componente principale dell'abbigliamento è l'abito, compo-sto solitamente da calzoni, camicia, cravatta e giacca per gli uomi-ni e da capi coordinati (tailleur, abiti, giacche, camicie, sottane,calzoni) per le donne.

Sotto l'abito, è parte del vestiario la biancheria personale, chenegli ultimi quindici anni è stata influenzata da tendenze contingen-ti tipiche della civiltà dei consumi (la moda dei "boxer" e dei "bo-dy"). Sopra l'abito completano il vestiario: i golf (con i bottoni), ipullover o maglioni (a collo alto o con scollo a V), i panciotti o gilet

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(in coordinato o spezzato, in tessuto o in lana, con dorso in fodera omeno, con o senza bottoni); le giacche, giubbotti o giacconi; sciar-pe, stole o poncho; gli impermeabili (corti, lunghi, di gomma, cera-ta, loden); i mantelli (o cappotti); le mantelle, le pellicce.

Accessori indispensabili sono le calze, le scarpe, le cinture, lecravatte e le bretelle (prevalentemente per gli uomini).

Non esistono in questo campo consigli validi per tutti, ma val-gono alcuni divieti assoluti: mai calze corte né bianche per gliuomini (tranne che per giocare a tennis); mai scarpe a punta (peruomini e donne), mai cinture accompagnate da bretelle.

Nella vestibilità maschile la cravatta rappresenta il timbro del-l'abito, la sottolineatura del viso e firma il sapersi vestire di chil'indossa. Una cravatta sbagliata distrugge il tono di un abbiglia-mento giusto nell'insieme e dimostra la carenza di stile di chil'indossa. Le cravatte dipinte a mano (anche se dalla moglie!)sono sempre cravatte sbagliate, così come lo sono quelle troppocorte, quelle con il nodo fatto male, quelle portate con il ferma-cravatte! Le cravatte "a farfalla" (farfallino) sono pericolose per lostile e vanno usate con prudenza (e senza elastici segreti!), tran-ne quelle nere da smoking.

Nella vestibilità femminile, gli accessori che valorizzano o di-struggono lo stile dell'abito sono i gioielli, i foulard e le sciarpe.

La differenza tra gioielli veri e propri (oro e gemme preziose)e gioielli di imitazione o di fantasia non è significativa ai fini del-l'eleganza, perché esistono spille, collane, braccialetti e orecchi-ni "veri" che possono risultare volgari e offensivi proprio nellaloro virulenza economica ed esistono spille, collane, braccialettie orecchini belli, armoniosi ed eleganti grazie ai colori e almateriale di cui sono fatti. Per le donne vale il giudizio di CocoChanel: "se una donna è malvestita si nota l'abito. Se è vestitaimpeccabilmente si nota la donna".

Vale per tutti, infine, l'affermazione di Jean-Paul Sartre: "l'ele-ganza è quella qualità di comportamento che trasforma la massi-ma quantità di essere in apparire " .

La ricerca della notorietà (costruirsi la visibilità)

Notorietà come timbro di identità, come difesa dall'anonimato,come scelta di riconoscimento globale: per rendere vivace e pre-sente il proprio nome oltre al proprio ruolo, il proprio volto oltre

al proprio numero di telefono, il proprio stile oltre alle capacitàche costituiscono la base del nostro prezzo.

Tutti siamo persone, ma non tutti diventiamo personalità, cioèindividui realizzati a 360° con coerenza tra ciò che siamo dentrodi noi e ciò che la società ci riconosce da fuori.

Se il ruolo definisce ciò che gli altri si aspettano da noi (ruolo dicapo, ruolo di madre, ruolo di cittadino), esso rappresenta troppopoco come risultato interno di una vita; se la celebrità definisceciò che gli altri invidiano di noi, essa non rappresenta nulla per-ché è fittizia, ma se la notorietà definisce il fatto che gli altri asso-ciano il nostro nome, il nostro viso e il nostro modo di fare a unruolo vissuto bene, a delle buone realizzazioni, a un'immaginepositiva non facilmente sostituibile, allora questa notorietà costi-tuisce il momento topico del "marketing di sé" non solo superfi-ciale ma di contenuto. Tutti possono costruire la propria notorie-tà, alcuni con maggiore facilità grazie a un carattere estroverso,un'infanzia felice e un'emotività positiva; altri con più fatica, a cau-sa di incertezze emotive e fragilità di autogestione.

Ma con poco sforzo e molto metodo, con media tenacia e spraz-zi di "humour", con forte fiducia in sé e nella lucida valutazionedelle situazioni, questa proposta è alla portata della maggior par-te delle persone ed è una sfida obbligatoria per tutti coloro chemirano a un ruolo di protagonista.

Il primo passo per raggiungere la notorietà consiste nello svi-luppare quel tanto di fiducia in se stessi da sentirsi pari agli altri,se non nei talenti e nelle qualità, almeno nelle possibilità. Il "tan-to" di fiducia di cui parliamo equivale a un sano senso critico checi eviti sia la sensazione di essere superiori agli altri (mi sento piùintelligente, più pronto, più distinto, più bella, più capace), siaquella di essere inferiori (non sono laureato, sono calvo, sonotroppo timida, sono vecchia e brutta) e ci spinga a una visione diimmagine personale nella quale identificare chiaramente ciò chereputiamo utile alla nostra notorietà.

Lavorare sulla fiducia in noi e identificare l'immagine che vo-gliamo dare agli altri è essenziale, perché secondo la psicologianella sfera inconscia di ognuno di noi è presente un'immaginedi noi stessi che incede fortemente sul nostro modo di compor-tarci e di metterci in relazione con l'esterno. Essa condiziona inostri bisogni e seleziona le nostre aspettative con una forzache è tanto più intensa quanto meno noi ne siamo consapevoli.

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100 Lo stile del leader Lo stile del leader 101

Non di rado l'imago interiore ci spinge a voler apparire diversi eopposti a quelli che siamo, per farci recuperare o vendicare diqualche carenza infantile o emotiva. Se non ce ne rendiamo contoe non ci difendiamo da questo meccanismo di recupero, producia-mo su chi ci vede dall'esterno un effetto stonato, faticoso, destina-to in anticipo all'insuccesso. E come se cercassimo di vincere sen-za volerlo veramente, perché in realtà abbiamo bisogno solo disentirci rispettati e di essere lasciati tranquilli. La nostra visibilitàin questo caso è quella di una persona che si dibatte, inquieta,infelice e non convincente.

Una visione globale che consideriamo eccellente, per esempio,per una persona tra i venti e i sessant 'anni è quella che segue.

– "Voglio essere riconosciuto nel mio ambiente di lavoro da tutti imiei superiori; che essi abbiano una percezione generale posi-tiva della mia persona e che siano informati che ho voglia diaumentare le mie responsabilità e sono pronto a viaggiare, acambiare lavoro e a imparare".

– "Voglio essere riconosciuto nel mio ambiente sociale come unapersona leale, affidabile, corretta, coerente, responsabile, capa-ce di risolvere situazioni difficili con uno stile personale preciso,di buon gusto, che ha un ascendente sugli altri e non influenzabi-le dalle mode di nessun tipo".

– "Voglio poter essere citato come esempio in qualche ambito,non importa quale, mi basta quello della buona educazione".

– "Voglio essere riconosciuto dai miei parenti stretti come unfamigliare che offre affetto e benevolenza, consigli intelligenti,riferimento sicuro, che domina con obiettività sia le simpatieche le antipatie e mantiene l'unità del ceppo famigliare".

E a proposito di simpatia e antipatia da esternare quali sceltesono più convenienti per il leader?

La simpatia è una caratteristica di comportamento che facilita irapporti interpersonali ma non qualifica quelli professionali; alcontrario, può addirittura appannarli o addirittura nasconderli. Lapersona simpatica riesce piacevole e ben accetta, si fa accoglierein modo positivo dagli altri, si inserisce rapidamente in ogni tipodi ambiente e apre canali di scambio fluidi e armoniosi. Ma è pro-prio la semplicità dell'approccio che può trasformarsi in un limite

nei confronti del riconoscimento del suo valore di originalità o dipotenziale da sviluppare.

"Ha un bel carattere", si dice di chi è simpatico, "si fa accettareda tutti; ha il dono di capire e di farsi capire; non è critico; noncrea problemi; è disponibile; si mette nei panni degli altri". Si trat-ta dunque di qualità relazionali pericolose perché sembrano quel-le di un leader mentre sono quelle di un amico.

Essere simpatici serve molto a vivere bene e a realizzare laqualità della vita, ma serve assai meno a farsi accettare come lea-

' der o come responsabile in un 'organizzazione o in un gruppo.Bisogna saper offrire e utilizzare la simpatia ma non fermarsi a

essa e trasformarla in "empatia" cioè comprensione basata sul-l'autorealizzazione positiva. Altrimenti hanno ragione quelli chesostengono che, per far carriera, serve più l'antipatia che la simpa-tia perché l'antipatico che si mette contro tutti si fa notare e sisegnala facilmente riuscendo ad apparire diverso e originale spes-so senza esserlo ma soltanto per merito della sua malagrazia.

La differenza fra simpatia e antipatia, è racchiusa nella sillaba ini-ziale delle due parole: "sim" e "anti". Il termine "patìa", che è comu-ne a entrambe, proviene dal greco "pathos" e indica il sentimento.

Quando è preceduto dalla particella "sim" (che in greco significa"con", "insieme") esso significa: sentimento condiviso, compassio-ne, consonanza, conoscenza interessata, comprensione; quando èpreceduto dalla particella "anti" (contrario, contro, opposto) essosignifica: differenza, dissonanza, contrasto.

Si può nascere più o meno simpatici e più o meno antipatici perragioni genetiche e caratteriali ma, dopo l'adolescenza, ognunodiventa responsabile di scegliere se comportarsi in modo simpati-co, cioè consonante, o antipatico, cioè dissonante nei confrontidegli altri. E non ci sono alibi che valgano, soprattutto per quantoriguarda il comportamento da adottare sul luogo e nell'ambito delproprio lavoro.

Chi sceglie la simpatia perché rispetta gli altri, si interessa a tutti,crede nell'educazione come autocontrollo e convivenza civile, svi-luppa la capacità empatica di attenzione, di partecipazione, di fusio-ne emotiva ed esperienziale ed espande se stesso, valorizzandosinel rapporto. Chi sceglie l'antipatia perché privilegia sé contro glialtri, si disinteressa alla condivisione e si concentra sul proprio io,compie una scommessa rischiosa perché rinuncia ad avere amiciprivilegiando la propria persona al prezzo della solitudine emotiva.

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102 Lo stile del leader Lo stile del leader 103

Illustri artisti, importanti scienziati, noti sportivi, hanno costruitoil loro successo malgrado (o forse per merito di) un comporta-mento antipatico. La loro popolarità può essere grande, ma laqualità della loro vita emotiva e di chi collabora con loro è sacrifi-cante e amara.

Altri protagonisti celebri sono invece simpatici e si propongonocon calore umano e benevolenza: sono questi i modelli e gli esem-pi ai quali il lettore deve guardare perché oltre a realizzare sestessi, essi aiutano gli altri a diventare migliori.

Fatte le debite scelte, viene per il leader il momento dell'azionee dell'impiego di metodo, con tenacia.

Le linee di comportamento da attivare sono quattro:

—realizzare nelle azioni quotidiane il modello globale; se sivuole essere visti come degni di fiducia: non concedersi pet-tegolezzi; se si vuole essere visti come più affidabili dellamedia dei colleghi: non concedersi ritardi in nessun ambito;se si vuole essere visti come disponibili e leader sicuri di sé:non tirarsi mai indietro, proporsi per primi per farsi caricoanche delle piccole cose e, soprattutto, evitare di lamentarsie di commentare le proprie sciagure; il mondo della pubblici-tà ha una regola d'oro, che conoscono tutti i tecnici del me-stiere: "Public relation begins at home", che significa: ciòche vuoi comunicare agli altri lo devi prima di tutto dimostra-re nel tuo privato e nella tua stessa casa;

—scegliersi uno stile preciso, un profilo di personalità ed eser-citarsi a rimanere dentro quel disegno (modo di vestire, tonodi voce, arredamento della casa e dell'ufficio, suppellettili,tipo di automobile);

—lasciare e lanciare segnali precisi e mirati agli interlocutoriimportanti e nei luoghi strategici;

—fare manutenzione e miglioramento continuo della visibilitàmano a mano raggiunta, controllandone l'effetto e la perce-zione (applicando a se stessi il metodo della ricerca d'opi-nione usato dalle pubbliche relazioni quando costruisconoun campione di riferimento per realizzare indagini su prodot-ti o avvenimenti).

L'apparente semplicità di queste indicazioni può far sorriderequalcuno perché non tutti comprendono quanta fatica e metodo

sono necessari alla tessitura di una notorietà e visibilità positiva.D'altronde, il successo non è alla portata di chiunque e restaobiettivo e realizzazione di un'élite della quale fanno parte iprotagonisti.

Abbiamo detto che le azioni esterne sono solo il servostrumen-to e il segnale dell'immagine interna di sé che ciascuno vuole farriconoscere agli altri per meglio realizzare la propria identità.Esse costituiscono quindi testimonianza di rispetto per se stessi edi coerenza.

Un'ultima raccomandazione, tuttavia: non insistere, non esage-rare, non accentuare, non calcare la mano. L'espressione dei se-gnali di visibilità deve essere leggera e inesorabile, discreta e maisottolineata. La più bella quercia della foresta emerge senza farepiù rumore delle altre; la goccia che costruisce la stalattite o lastalagmite più visibile della grotta, è silenziosa.

Una vita di qualità (humour e salute: un dovere)

Il fattore "qualità della vita" definisce la capacità di governare eimpostare la propria esistenza in modo sereno, equilibrato, natu-rale, intonato ai propri bisogni e alle proprie preferenze, nel ri-spetto degli altri ma principalmente nel rispetto di se stessi. Essacostruisce la base del fascino personale ed è la dimostrazione piùevidente della qualità del prodotto che si è, quindi della propriarealizzazione.

Nel lavoro e in molti altri ruoli di responsabilità, la qualità dellavita viene quasi sempre ignorata oppure considerata un aspettosecondario nella scala dei valori da perseguire per raggiungere ilsuccesso.

Moltissime persone vivono per lavorare anziché lavorare pervivere e si lasciano prendere nello stretto vortice dell'unica dimen-sione: più lavoro (o più guadagno), più aumento la possibilità divalere odi fare; più aumento le mie realizzazioni (anche le migliori,le più generose), più esplico la mia potenza personale, più vivo.

Così facendo, queste persone confondono la vita con l'azione,soffrono di "cinesi" cioè si sentono mortificate se non fanno qual-cosa, ragionano con l'emisfero sinistro della logica unidirezionalee pulsano con l'emisfero destro dell'emozione del possesso; cre-dono di essere vitali e sentono andare il loro motore a mille giri,senza ricordarsi che la pienezza dell'esistenza è bioritmo, è alter-

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nanza di pausa e movimento, è azione ma anche riflessione, è suc-cesso e tenerezza, è bisogno di comando ma anche bisogno diubbidienza. Ciò non significa che la qualità della vita inviti allamollezza o alla pigrizia ma, al contrario, che essa si fa carico del-l'armonia di tutte le dimensioni dell'individuo, rispettandone ilbenessere globale, cioè il corpo e la salute, l'emozione e la psiche,il successo e il riposo.

E solo essa che testimonia la qualità totale della persona e lacertifica a un livello superiore delle qualità parziali dei "protagoni-sti negativi " .

Definiamo così le persone che raggiungono notorietà e succes-so in campi specifici: il ricco, il celebre, l'importante, il presiden-te, il campione. Quanti di questi protagonisti pagano l 'eccellenzaparziale con la salute precaria, l'infelicità o la solitudine?

Della qualità della vita fa parte il saper vivere in modo positivocon gli altri, facendosi accettare per come si è senza soffrire ininutili infingimenti di immagine e accettando gli altri per comesono, senza rimproverare loro di non essere come vorremmo.

La capacità della convivenza è il contrario sia del disinteresse edel qualunquismo che della conflittualità critica e aggressiva.

"Rispettate i diritti degli altri, ma non necessariamente i lorodesideri", raccomanda la teoria assertiva. Cercate di rendervi gra-diti e piacevoli, dite cose gentili ma sincere, fate apprezzamentisupportivi e mai critiche gratuite e negative, ascoltate ciò che inte-ressa gli altri: anche nella persona più antipatica e nefanda vi èalmeno un 10% di buono.

Più riuscirete a comportarvi in modo sciolto e naturale con glialtri, più salirà il vostro indice di simpatia e di popolarità. Invecedi costarvi sforzo, questo moltiplicherà la vostra forza interiore eil vostro gusto di vivere. Troppo spesso la prepotenza e la distra-zione altrui producono situazioni in cui le persone bene educate esensibili si trovano a subire limiti e umiliazioni che sminuisconola loro immagine e menomano il loro spazio di espressione, ridu-cendo il contributo che esse potrebbero e vorrebbero dare. Que-sto non solo è un danno per l '

organizzazione, che riceve meno diquanto dovrebbe ricevere, ma è un autogol miserevole, un'auto-penalizzazione che diminuisce l'energia vitale e la fiducia in séproprio dei più generosi e meritevoli e danneggia talvolta irrepa-rabilmente la loro salute.

In nessun tipo di lavoro e di convivenza famigliare è possibile

'tare momenti di tensione o situazioni sgradite che produconoontro tra le parti. Ma la gestione dello scontro è una tecnica cheimpara e che si arriva a praticare facilmente con poco allena-ento. Evitate a qualunque costo lo scontro tipo "guerra" , perché

o porta a considerare l'altro come il nemico da uccidere e svi-ppa odio e distruzione.Praticate liberamente lo scontro tipo "lotta" perché pensare al-

altro come a un avversario temporaneo conserva la dinamica di*rese e battaglie successive, l'alternanza di vittorie e sconfitte,

possibilità di tregue e sospensioni e della rappacificazione fina-oppure, almeno, l'onore delle armi.Ma ricercate prioritariamente lo scontro-incontro tipo "gara "

perché affronta la turbativa interpersonale come un incidente1 quasi involontario, come la gomitata del concorrente della con

' i sia vicina o la ginocchiata del calciatore che cerca in ogni mododi farti goal; ma ci si affronta senza odio, con la consapevolezzache a partita finita ci si stringerà la mano perché ciò che conta ègiocare bene e realizzare un indimenticabile campionato. O sivince insieme o si perde tutti; questo vale per ogni famiglia,azienda, ufficio o squadra di persone. Sarà forse meno diverten-te che giocare agli indiani nei boschi, contando gli scalpi appesialla cintura: ma lascia la coscienza più tranquilla e moltiplica lasalute anziché la mortalità.

La salute è definita dalla medicina come uno stato di comple-to benessere soggettivo a cui corrisponde un analogo riscontrooggettivo. La salute come benessere oggettivo corrisponde albuon funzionamento delle tre strutture di prima risposta del-l'organismo (sistema nervoso, endocrino e immunitario) cheregolano e gestiscono le informazioni organiche e sostengonogli altri sistemi fisici (cardio-circolatorio, muscolo-scheletrico,genito-urinario, digerente, respiratorio, tegumentario).

La salute come benessere soggettivo corrisponde invece allasensazione personale di sicurezza, forza, stress positivo, ener-gia vitale e resistenza alla fatica. E soprattutto il modo di affron-tare questi due aspetti che dà la misura della capacità di sapervivere di una persona.

La fatica, definita come un calo di prestazione legato a un'at-tività reversibile grazie al riposo, ha una doppia dualità: può esse-re soggettiva e intrinseca, in quanto percepita dal soggetto e puòessere oggettiva e misurabile in quanto osservabile dall'esterno.

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Inoltre può essere "fisica" quando è dovuta a richieste di sforzomuscolare o "psichica" quando influisce sul sistema nervoso vin-colante il normale equilibrio del soggetto. Dal momento che lafatica sopravviene quando un'attività supera un certo livello e sidissipa dopo la cessazione dell'attività, esiste un livello critico diaffaticabilità personale che ogni individuo può imparare a ricono-scere e controllare, così come può allenare i propri tempi e modidi reintegrazione dello stato di benessere.

Grazie alla cura e alla buona organizzazione della propria vita,vi sono persone con vere malattie che vivono bene e con pienez-za, mentre tutti conosciamo persone sane che vivono come fosse-ro malate, dando di se stesse un'immagine di limitatezza e di mar-keting negativo.

Tra questi malati immaginari, si annoverano coloro che disprez-zano ogni cedimento a piacevolezze quali: la golosità, le comodità, ipiccoli vizi. Partendo dalla deprimente constatazione che tutte lecose buone e divertenti della vita "o sono dannose o sono peccato ofanno ingrassare", questi spegnitori del piacere di vivere riduconola loro esistenza a una perenne quaresima bianca (acqua naturale,riso bollito, verdura lessa, niente alcool, niente salatini, niente cioc-colato, no ai fritti, no ai salumi, no al sesso...; anche ridere troppopuò far venire l'appendicite!) continuando per tutta la vita a soffriree a chiedersi perché mai (solo) gli altri si divertano e, in più, faccia-no anche carriera! Come la pedagogia insegna, il bambino che nonama giocare è malato o psichicamente disturbato; così l'andrologiadimostra che l'adulto che dimentica il divertimento e non riescepiù a praticarlo è un disgraziato (proprio nel senso di privo di graziaglobale), mutilato nella salute e nella vivibilità.

Sapersi divertire è un dovere verso se stessi, oltre che un'oc-casione importante di incontro sociale e quindi di marketingpersonale.

Per svolgere la sua funzione di ricarica, rilassamento, attivazionedel piacere e della salute globale, il divertimento non deve tuttaviaessere sentito come un vincolo ("le vacanze estive le devo trascor-rere dove vanno gli amici), come un obbligo ("per avere la barcagiusta chiedo un mutuo") o come un atto di conformismo ("per farcarriera nella nostra azienda bisogna giocare a golf o a tennis").

Lo humour inglese "prendere le cose per come sono e nontroppo sul serio" è l'opposto della furbizia latina e soprattutto ita-liana del "prendere le cose sempre sul tragico". Il troppo spesso

ste "senso del dovere" deve e può essere sostituito dal "gustoel fare e del realizzarsi nel fare".Il senso ludico nella vita non si concretizza in risate e in godi-ento fatuo ma in consapevolezza dei gioco in atto, del divenire

come novità, dell'azione come ricerca e come sfida coltivando conmisura l'umorismo e un controllato senso dell'ironia. "Se da gran-de troverò un lavoro che mi piace" ha scritto un bambino, parteci-pando a un concorso sul lavoro indetto dalle scuole elementari"non avrò bisogno di giocare per divertirmi".

Quando dopo una lezione o una riunione due persone si do-mandano: "Ti sei divertito?", non dovrebbero rivolgersi l'inter-rogativo in chiave polemica anche se la lezione o la riunione sono

'state terribilmente noiose e deprimenti. Nel "ti sei divertito?" c'èla curiosità di sapere se si è avuta l'impressione di sperimentareuna cosa "nuova", cioè una cosa "diversa" (divertire dal latinodivertere; diverso da diversum, participio passato di divertire), c'èil senso della partecipazione interessata unitamente alla fruizionedi una novità, meglio se piacevole.

La vita è un grande gioco e ciò vale anche per il periodo lavora-tivo durante il quale si può anche ridere e sorridere.

Che una persona di successo non ami ridere può essere com-prensibile e accettabile ma che non sappia vedere il lato diver-tente delle cose, a cominciare dal sorridere di se stessa, è moltopreoccupante, indice per tale persona di mutilazione creativa edi incapacità di produrre simpatia.

Un individuo che voglia sviluppare se stesso e diventare un lea-der nella società deve allenarsi a salvaguardare il proprio gustoludico.

Ha scritto Harold Geneen, il mitico presidente dell'Itt: "andareal lavoro non mi è mai pesato; anzi mi ha sempre dato piacere. Illavoro era la parte migliore della mia vita. Dicevo ai miei colleghiche gli affari erano altrettanto divertenti del golf, del tennis, dellavela e di ogni altra cosa che io volessi fare".

E facile essere contenti e felici quando si ha successo. Mal'affermazione si può anche rovesciare: è più facile avere succes-so e fare carriera quando si è contenti e felici per ciò che si fa.

Ognuno deve coltivare e mantenere la quantità e i tipi di diver-timento che preferisce, con la massima libertà possibile nei con-fronti della propria immagine e del proprio ruolo.

La noia è la morte dello spirito. La perdita di qualità umana co-

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mincia dalla perdita del sorriso e dell'allegria del cuore. Quan-d'anche la vita, con le sue difficoltà e, non di rado, con le sue trage-die, spegnesse per certi periodi la capacità e l 'energia necessariaper divertirsi, bisogna ricordarsi di ricominciare. Come rispetto dise stessi, del proprio passato e presente, del proprio valore futuro!

Energia interiore, benzina d'oro (il quoziente di vitalità)

Possedere energia significa avere vitalità. Com'è una persona vita-le? Perché l'aggettivo vitale viene attribuito così raramente a qual-cuno e pronunciato con invidia, con ammirazione, quasi con stupo-re? Se siamo tutti vivi, come mai così poche persone sono vitali?

La vitalità è tanto chiara ma anche tanto rara per la ragione chesi costruisce facilmente ma deve poi essere esercitata con unacostanza e una fedeltà interiore totali.

La ricetta in sé è semplice. La vitalità si basa sulla fiducia in sée negli altri, sul pensiero positivo (cioè sull'ottimismo razionaleche ha deciso di vedere sempre e in ogni caso la bottiglia mezzapiena anziché mezza vuota), sulla fedeltà nel cambiamento (chealtro non è se non la capacità di ricominciare ogni giorno, diaccettare ogni giorno, di cambiare ogni giorno il modo di fare,rimanendo coerenti con se stessi).

La vitalità si esprime in un comportamento energico, attivo,benevolo, rapido, aperto, coraggioso. Nel coraggio rientra l ' ac-cettazione (umile, lucida, dignitosa) delle difficoltà e del dolore,poiché anche la sconfitta e il dispiacere sono parte della vita e lavitalità li riconosce e li patisce fino in fondo, senza cercare occa-sioni di fuga né alibi.

La vitalità si concretizza in stile personale assertivo, propositi-vo, generoso, entusiasta. Cioè in leadership naturale, carisma,fascino. Il potenziale umano inteso come potenza di riserva e pos-sibilità di agire e di volere è a disposizione di tutti, scientificamen-te riconoscibile, spiritualmente inesauribile. E sufficiente accetta-re la sua esistenza e impegnarsi a trasformarlo dapprima in attivi-tà di produzione e subito dopo in produttività.

Per spiegare ciò che intendiamo per vitalità della persona ecome si può misurare ricorriamo alle definizioni tecniche di pro-duzione e di produttività.

La produzione è l'attività consistente nella combinazione di ri-sorse diverse e nella loro trasformazione in prodotti.

produttività invece è il rapporto tra il risultato di una trasfor-ione e le risorse necessarie per ottenerlo.

La nostra tesi è che si possono trasferire queste definizioni allarsona e che si possono studiare e misurare la produzione urna-in termini di comportamento e la produttività personale in ter-ni di quantità e qualità dei risultati del comportamento stesso.La produttività della persona è pertanto collegata alla vitalità;vicinanza dei due concetti è tale da poter apparire sinonimi.

ulti conosciamo persone che vivono bene e senza sforzo, con lae dentro e intorno a loro e persone che vivono fievolmente,orbendo vitalità dall'ambiente e da coloro che li circondano.

on sono lo stipendio, né il tipo di occupazione, né il carattereche producono individui ad alta o bassa produttività personale.Ma è ciò che Peter Senge definisce "padronanza personale", cioèspeciale senso delle finalità, accettazione della realtà come alleatae non come nemica, capacità di sentirsi legati ad altri senza rinun-ciare alla propria unicità. Queste persone vitali e produttive sono

=: quelle che "fanno accadere le cose", mentre gli altri sono quelli "acui le cose accadono".

Un leader può e deve organizzare il proprio potenziale produtti-vo in modo da aumentare la sua efficacia, diminuire lo sforzo,ampliare la qualità della vita e, soprattutto, dimostrare di contri-buire direttamente al successo dell'organizzazione di cui fa parte.Dice Peter Drucker: "il leader ha il compito di creare un insiemeche vale più della somma delle sue parti, un'entità che producepiù della somma delle risorse investite".

Gli ambiti di esplicazione della produttività personale sono tre:il privato (famiglia, affetti, hobby, produzione artistica), il sociale(amicizia, comunità, società), il professionale (lavoro, business).Ognuno è libero di scegliere le proprie "zone di produttività"secondo gusto e carattere contingenti o vincoli specifici. I tipi diproduttività personale sono anch'essi almeno tre: considerandocome risorse umane: il cervello, il corpo e il cuore (convenzioneper indicare il luogo delle emozioni), i risultati sono: l'intelligen-za, la salute e l'emotività.

Della produttività fisica come rapporto tra il proprio corpo e lapropria salute e benessere esiste un'ampia letteratura stimolatadalla corsa ai record, ai primati, alle prestazioni eccezionali diogni sorta di sport.

Della produttività emotiva è sufficiente dire che essa consiste

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nel riconoscere le emozioni personali come categoria di esperien-ze intense, consapevoli ma non razionali, che riguardano la vitasentimentale e il modo di regolare gli affetti. Esse sono presentinella coscienza di tutti, anche se sovente sorgono e si determina-no quasi nostro malgrado. Si può tentare di rifiutarle, ma non sipossono negare.

Roger Penrose, fisico e matematico, dichiara: "a mio modo divedere, quello dell'emotività è un problema sussidiario a quellodella coscienza".

Le due dimensioni psichiche dei pensieri cognitivi e delle emo-zioni o sensazioni non possono essere separate che teoricamente;la relazione tra loro è indissolubile, esse si muovono integralmen-te, in continuo interscambio.

La produttività emotiva consiste nel riconoscere le emozionipersonali; accettarle, goderne o difendersene in modo funzionalee senza preconcetti, evitando gli estremi dannosi rappresentatidall'inaridirsi del cuore e dall'eccitazione confusionale.

La buona produttività emotiva si identifica quindi con la padro-nanza equilibrata delle emozioni, intendendo per equilibrio l'al-ternanza controllata e temporale (cioè non contemporanea) dimomenti di disequilibrio, e la consapevolezza che, anche nelleorganizzazioni, azioni, pensieri e atteggiamenti non conseguonolinearmente né dalla mente né dalla conoscenza pura e semplice.

In questo senso l'emozione diventa parte dell'intelligenza e sicollega alla produttività intellettuale. Definiamo produttività intel-lettuale la capacità di organizzare le risorse mentali in termini dirisultati (o output) concreti e realistici. Comprendiamo in essa sial'intenzione e l'interesse che provengono dall'esercizio della vo-lontà sia il fattore G e cioè: "la capacità di un individuo di interpre-tare la realtà e costruire risposte significative ai problemi".

La produttività intellettuale misura quindi il rapporto tra l'at-tività della mente (conoscenza, meditazione, analisi, diagnosi, in-tuizione, sintesi) e il risultato operativo della stessa (apprendi-mento, creatività, decisione, azione).

"E urgente" sostiene lo studioso della creatività Edward DeBono "passare dal pensiero povero al pensiero ricco, dal pensierologico e lineare a quello a rete e totale".

Le organizzazioni abbondano di competenza, che è conoscen-za ordinata e scarseggiano di intelligenza, che è innovazione;milioni di persone "ragionano" benissimo ma solo alcuni "pen -

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sano" altrettanto bene; tutti agiscono su base logica e rifiutano idubbi come debolezza. Quando sosteniamo che la competenzapuò essere stupida e l ' imprecisione intelligente, notiamo quasisempre un nervosismo preoccupato in coloro che esercitanofunzioni specialistiche e tecniche. Eppure non manchiamo dirispetto a nessuno. Peter Senge sostiene che l'efficacia di unleader dipende dal continuo miglioramento dei suoi modellimentali e dalla sua volontà di trasformare ciò che apprende incomportamento concreto.

Se la vitalità, come s'è detto, è espressione di energia, interessealla vita e all'iniziativa positiva, le due situazioni ambivalenti con cuiil leader deve imparare a convivere sono l'ansia e lo stress.

Queste due sensazioni, prodotte e strettamente connesse almodo di vivere contemporaneo, vengono considerate dalla mag-gioranza delle persone in modo univocamente negativo e caricatedi colpe non loro con il grave risultato di diffonderne un timorepassivo e di sprecarne le possibilità energetiche.

E sufficiente definire correttamente sia l'ansia che lo stress persfatare 1'80% della loro pericolosità e per intravederne modi didifesa e metodi di utilizzo:

—l'ansia è una situazione psicofisica di incertezza nei confrontidel futuro (cioè di qualcosa che deve ancora accadere) ac-compagnata da sensazioni spiacevoli di timori; gli atteggia-menti ansiosi possono essere piacevoli (sogno, speranza, fi-ducia) o spiacevoli (timore, attesa, preoccupazione). Di granlunga sono più numerosi gli spiacevoli;

—lo stress è una sensazione di pressione fisiopsichica accompa-gnata da emozioni di ordine temporale (premura e urgenza olentezza e freno). Lo stress si produce nell'individuo al mo-mento stesso in cui egli ha la sensazione di non riuscire afare tutto quanto vorrebbe o dovrebbe, nel tempo che ha adisposizione.

Molti medici confondono l'ansia con lo stress, considerandoli unasituazione di disagio unica e curandoli con metodi identici. Noi nonsiamo d'accordo, soprattutto per quanto riguarda l'ansia e lo stressdelle persone che vivono ruoli di responsabilità. La principale cau-sa dell'ansia è infatti racchiusa nella sproporzione tra la quantità diinformazioni disponibili e l'impossibilità di possederle tutte: "vorrei

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sapere qualcosa, so che potrei saperla e che se la sapessi evitereiforse degli errori. Ma non so dove e come raggiungerla e non ho iltempo per procurarmela. So che dovrei fare meglio e invece nonposso. Sento lo strazio di questa incertezza".

Caratteristica dell'ansia è quella di autoalimentarsi e di moltipli-carsi diffusivamente in senso negativo su campi e argomenti pros-simi a quello per cui si è incerti, producendo una situazione globaledannosa per l'equilibrio e la lucidità mentale del soggetto.

La causa dello stress è invece racchiusa nella sproporzione tra laquantità di opzioni disponibili e l'impossibilità temporale a praticar-le: "vorrei e potrei fare molto di più e molto meglio, se solo avessipiù tempo a disposizione. Ho le idee giuste ma non ho le ore perrealizzarle. Più aumenta la voglia di fare meno riesco a fare... Sonosempre indietro, sono sempre di corsa". Quando una persona co-mincia a "mettere in coda" le cose da fare perché non può o non levuole rifiutare; quando si rende conto che non riuscirà a fare tuttociò di cui accetta la responsabilità e ciò malgrado si sforza intensa-mente di "fare tutto", magari affrontandone due o tre contempora-neamente per non lasciare nulla indietro; quando un istante diven-ta pulsante di "ciò che devo ancora fare", "se faccio così, forse rie-sco a fare anche questo", quando la sensazione dell'insuccesso, delritardo, dell'insoluto si comincia a insediare, consapevole o incon-sapevole, in qualche angolo della coscienza. Ecco lo stress.

Ansia e stress vengono sofferti a livelli diversi e con intensità eviolenza variabili secondo le persone, procurano sofferenza, ma-lessere, riduzione della prestazione fino a divenire "killer" dellavitalità e della qualità della vita.

"Killer", perché l'ansia uccide di paura e lo stress uccide di pre-mura, perché l'ansia frena e confonde e lo stress impasta ogni attodi sfinimento e fatica. Infine, sono fattori "killer" perché legano alle"caviglie psicologiche" delle persone delle pietre pesanti che trasci-nano la psiche verso il fondo del pozzo, impedendo al cuore di par-tecipare con allegrezza leggera a ciò che succede nel quotidiano.

Il leader può difendersi dagli effetti perversi dell'ansia e dellostress. Può controllare e ridurre l'ansia spezzando le situazioni insuccessioni di momenti mai superiori alla mezza giornata: im-mergersi nell'azione immediata e vietarsi di spingere il pensierooltre l'obiettivo stabilito. Il controllo e la resistenza allo stress liottiene esercitando: priorità, puntualità, precisione, sintesi, ordi-ne e delega, difendendosi in ogni modo dalla disorganizzazione.

L'ultimo scalino:dalla forma all'eccellenza

L'ultimo scalino: il luogo dell'arca

Ha scritto Max Weber in Economia e Società: "un popolo che nonesprime veri capi è senza avvenire. Un regime che non li lasciaemergere è un regime esiziale e, quale che sia la sua etichetta, vatrattato come un nemico del popolo. La stessa civiltà occidentalepuò continuare a fiorire nel rinnovamento soltanto se avrà ancoradei veri capi".

Trasferendo alla realtà delle organizzazioni, di qualunque ti-po purché umane, l'affermazione di Weber, essa suona così:un'organizzazione che non esprime veri leader è senza avveni-re. Un'organizzazione che non li lascia emergere è una struttu-ra esiziale e quale che sia la sua etichetta va trattata come nemi-ca di coloro che di essa fanno parte. Qualsiasi organizzazioneumana può continuare a fiorire nel rinnovamento solo se avràdei veri protagonisti.

Noi siamo d'accordo con Weber a tal punto da aver dedicatoalcune pagine di questo libro proprio alla dimensione personaledel potere, quella che rappresenta l'eccellenza dell'esercizio dellaresponsabilità e che abbiamo situato allo scalino più alto del no-Sto modello della piramide.

Nei capitoli precedenti sono già state anticipate alcune defini-zioni del potere di ascendente, ma non siamo entrati nel meritodella composizione né della costruzione dello stesso. Ci sembra-va importante, infatti, rispettare la coerenza del disegno che di-mostra, anche visivamente, come alla maggioranza delle personeall'inizio della carriera serva, prima di tutto, sviluppare competen-za in termini di capacità; come, successivamente, a quanti voglio-

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114 L'ultimo scalino: dalla forma all'eccellenza

no continuare a migliorare il livello di prestazione e il riconosci-mento corrispondente da parte dell'organizzazione, diventi indi-spensabile la scelta di uno stile che valorizzi la competenza el'intoni alla cultura di riferimento e come infine, a coloro chevogliono mirare alla cima, rimanga da esplorare il coinvolgimentototale di tutta la loro personalità nel lavoro.

La cima della piramide e il contenuto in essa iscritto hanno undoppio significato. Come cima o apice, essa indica una situazionedi sommità, di vertice, di superiorità fisica sui livelli sottostanti eviene così percepita in modo indiscutibile sia da coloro cui inte-ressa arrivarvi, sia da coloro cui non interessa (perché si sannofermare o si sono fermati ai livelli sottostanti), sia addirittura dal-l'esterno della piramide.

Come area dimensionale, come quantità di superficie e divolume, il vertice della piramide essendo sensibilmente più pic-colo delle altre due fasce del modello, indica invece che sonoquantitativamente poche le persone che possono entrarvi. Men-tre nella zona di base chiunque si muove agevolmente perché lecapacità si imparano senza difficoltà e nella fascia mediana al-meno metà dei leader si identificano facilmente, al triangolofinale arriva una minoranza così esigua che, volendola quantiz-zare, potrebbe essere stimata intorno al 5% di quanti si impegna-no alla propria autorealizzazione.

Questa minoranza non è mai un gruppo, né una categoria néuna classe ma è composta di persone singole, indicate con nomee cognome e, a volte, soprannome (l'Avvocato, l'Ingegnere, ilBig-Boss, il Capo), sempre riconoscibili e uniche. Né vi è da stu-pirsi di ciò, considerando che si entra nella fascia di base quasiper necessità e per competenza professionale (essere capaci è undovere per tutti); si giunge alla fascia mediana per intuito, sensibi-lità, convenienza ed economia (avere stile vuoi dire integrarsi erendersi contemporaneamente visibili); ma al vertice superiore simira individualmente, avendo deciso di farlo e mettendo in giocouno sforzo intenso. Al triangolo di vertice infatti si arriva volendo-lo totalmente, perché non esiste, in questo campo, il volerlo unpoco: o lo si vuole e allora lo si vuole completamente o si limita losforzo e allora non lo si vuole veramente.

Che ciò che affermiamo sia di consapevolezza comune, vienedimostrato da alcune nostre indagini miranti a rilevare le reazionidi un campione di italiani nei confronti dei tre gradini della pira-

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mide. Alla domanda: "quale area indicherebbe come zona ottima-le del suo personale modello di potere attuale?", su oltre 400 per-sone con incarichi di media responsabilità (quadri, funzionari,dirigenti), il 65% ha indicato le capacità, il 25% lo stile di leader-ship e solo il 10% l'ascendente. Al contrario, un secondo campionecostituito da manager di vertice e imprenditori ha indicato nel70% delle risposte l'ascendente personale come zona ideale, nel25% le capacità e soltanto nel 5% lo stile.

Un'ultima caratteristica separa le popolazioni delle due fasceinferiori da quella del vertice e riguarda la responsabilità perso-nale. Un individuo può essere molto capace, può esercitare unostile di leadership perfetto, ma fino a quando non accetta la ge-stione della responsabilità come un fatto personale diretto ed eti-co (potere come servizio), egli rimane un professionista, magarieccellente, e non un leader. Il professionista, capace e dotato distile è certamente tra coloro che sono seduti al tavolo da giocodella buona partita organizzativa, ma solo i leader sono allo stessotempo giocatori e vincitori.

Il leader, per la natura stessa del termine, sa e vuole avere laparte principale da recitare, sa di essere l'attore più importante,di portare la responsabilità diretta del successo o dell'insuccessodi qualsivoglia azione in cui è coinvolto. Identità e mestiere diven-tano in lui sempre più attorcigliati e confusi, fino a non essere piùriconoscibili una separata dall'altro. La domanda antica, infatti, èsempre quella: "si nasce così o si può diventarlo?".

Si nasce leader o lo si diventa? Il carisma è ancor oggi un segnodello spirito che colpisce qualcuno prescelto da Dio, ma non da sestesso, come lo definiscono le scritture precristiane, oppure è uninsieme di cuore, volontà e intelligenza che determina da partedegli altri il riconoscimento di qualità eccezionali in una personache ha deciso di voler diventare carismatica?

Abbiamo dedicato tempo e studio a cercare la risposta a que-sta domanda e a rivolgerla, a nostra volta, ad altri. Suddividendoalcuni degli intervistati secondo il livello di responsabilità chegestivano, abbiamo rilevato che la punta massima di rispostenegative alla domanda: "l'ascendente si acquisisce?" si rilevanelle risposte di persone con ruoli burocratici e subalterni, op-pure in persone di tipo adattivo. Volendo indicare degli stereoti-pi fine Novecento (oggi in gran parte superati) potremmo direche non credono alla possibilità di realizzare l'ascendente per-

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sonale i funzionari di banca più tradizionalisti e i dirigenti ammi-nistrativi più razionali.

Le punte massime di assenso invece le abbiamo trovate nellepersone che esercitano ruoli indipendenti, commerciali o corn-petitivi; in qualsiasi campo, da quello manageriale a quello edu-cativo, confermando come nei lavori di iniziativa e di rapportocon gli altri è ben presente la consapevolezza che l'identità per-sonale può essere sviluppata e costruita nell'ambito professio-nale e in quello personale e può venire utilizzata per il raggiun-gimento di riconoscimenti di potere e di consenso. Che ciòavvenga per colpo di fortuna, per potenziale individuale o perpura casualità non veniva rilevato dalla nostra domanda iniziale,ma se avessimo formulato la richiesta, avremmo probabilmentericevuto la stessa risposta che Machiavelli diede al Principe:"certo che si arriva al successo e si diventa importanti: metà perfortuna e metà per virtù personale".

Rivolgendo infine la domanda a noi stessi e riflettendo sullemigliaia di persone che abbiamo conosciuto non solo sul lavoro,rispondiamo in modo doppio ma non ambivalente.

Siamo convinti che l'ascendente si costruisce e diamo quindiil consenso teorico (100% di sì), anche se la realtà esperienzialeci dimostra una proporzione inversa di 70% di negatività controun 30% di positività (su dieci persone che decidono di costruireil proprio ascendente, tre ci riescono e sette rinunciano). Siamoconvinti del fatto che qualcuno (per ragioni genetiche, cromoso-miche, caratteriali e casuali) nasce con maggiore predisposizio-ne di altri alla leadership naturale, ma dal momento che la socie-tà e le organizzazioni hanno bisogno di molti più leader di quelliche partono favoriti, riteniamo che ciò non costituisca un osta-colo per nessuno.

confronti di un'idea, di un fatto o di una persona e improntare aesso il comportamento reale e l'atteggiamento mentale. Una con-vinzione errata o cattiva può portare una persona alla distruzionee alla rovina, ma una convinzione giusta e buona può trasformareun essere qualunque in un santo o in un eroe. La convinzione aiu-ta la coerenza e moltiplica la forza personale.

Il convincimento è invece il fattore padre, quello che penetranella realtà e interviene nel sociale, realizzando i cambiamentinelle persone e negli eventi. Come per la convinzione anche ilconvincimento può agire per il male o per il bene e può trascinaregli altri verso il peggio oppure entusiasmarli al meglio. A noi inte-ressa solo il convincimento positivo perché è quello da imitare.

Il professore crede nell'importanza della materia che inse-gna, è convinto di essere utile ai suoi allievi, e oltre a testimonia-re in ogni sua frase il piacere di argomenti interessanti, trasmet-te l'intenso suggerimento di scoprire anch'essi la bellezza dellasua materia.

Gli allievi sentono la convinzione e provano rispetto per la suacoerenza e anche i più critici verso la scuola non dimenticheran-no mai il timbro delle sue lezioni. A quanti di noi è stato "regalato"il gusto della storia, il piacere della letteratura, il fascino dellamatematica, da un insegnante appassionato della materia e con-vincente nel costringerci ad avvicinarla?

L'ascendente non ha barriere di età per venir riconosciuto: ilneonato nella culla placa il capriccio e si tranquillizza al suono diuna voce sommessa ma ferma; esattamente come l'anziano agita-to e preoccupato si calma nell'ascolto di un tono caldo ma forte edeciso o come il cliente isterico si tranquillizza davanti a un fun

-

zionario calmo e sereno.In tutti i tipi di organizzazione i capi con ascendente ottengono

facilmente consenso e disciplina dai loro collaboratori perché nemeritano il rispetto, anche quando non ne ottengono la simpatia.L'ex presidente della Fiat, Paolo Fresco, alla domanda "come sicostruisce in azienda il carisma personale?", ha risposto: "il cari-sma si basa sulla competenza e sulla capacità ma soprattutto sullamaniera convincente con cui un manager svolge il suo ruolo dicapo, dimostrando la sua qualità di persona e la coerenza del suocomportamento quotidiano" .

La convinzione e il convincimento sono le basi dell'ascendente,ma essi non sarebbero sufficienti a "fare muovere" e rendere

I quattro cavalieri: convinzione, convincimento, energiae volontà

La convinzione e il convincimento sono i fattori genitoriali del-l'ascendente; madre la convinzione, padre il convincimento.

Definiamo la convinzione il fattore madre perché è quello chedà vita alle azioni in quanto raccoglie dentro di sé le fonti della for-za dell'io, della fiducia in sé e dell'autostima.

Convinzione significa praticare un coinvolgimento totale nei

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Figura 4.1

Forza dell'loPersonalitàAutonomiaFermezzaAutoincentivazione

Forza del socialeValori, idee, azioniResponsabilitàPrepotenzaInfluenzamento

Bassa Fiducia nella vita = convincimento (estroversione)

dinamico il sistema della leadership se non fossero accompagnatidalle due energie dinamiche, la vera "benzina" del motore del lea-der eccellente.

E il tipo e la qualità della benzina che condiziona la velocità e laquantità di strada che un motore può percorrere. La benzina mi-gliore per lo sviluppo dell'ascendente è rappresentata dalla doppiaV dell'energia: la vitalità e la volontà (vedi la Figura 4.1).

Di energia, stamina, vitalità si parla anche in altre pagine diquesto libro perché vogliamo contrastare la cultura della passi-vità e dell'adattamento che diventa ogni giorno più predicata equindi più pericolosa.

Nel capitolo della capacità di lavorare duro, l'energia viene pre-sentata come una capacità da allenare e sviluppare, come resi-stenza, forza e potenza espressa.

Nel capitolo delle sette ambivalenze indicheremo come, in no-me della virtù della tolleranza e del buon senso si cerca invece direndere le persone inermi (cioè senza vitalità) di fronte a sfideimprovvise e a proposte pericolose.

Chi vuole manovrare il consenso senza reale rispetto delle per-

sone ha solo due vie da percorrere: quella di un carisma ipnotiz-zante o quella della manipolazione qualunquista ("se lo dice luiche sembra così convinto lo farà per il nostro bene", oppure: "senulla ha veramente valore, una soluzione vale l'altra").

Così si comportano, forse senza accorgersene, i genitori osses-sivi verso i loro figli ("fallo per me, lo faccio per il tuo bene, io socosa è bene per te, devi credermi" ), così i superiori peggiori infabbrica o in ufficio ("tanto non diventeremo mai ricchi, né voi néio; ci toccherà sempre lavorare, in un modo o nell'altro").

E solo l'energia vitale, solo il gusto dell'azione e della reazioneche salva l'individuo dalla massificazione pecoresca e dalla rinun-cia impigrita della propria identità.

Ma la vitalità senza una direzione in cui esplicarsi corre il ri-schio di ridursi a una pagliaccesca eccitazione oppure di disper-dersi effondendo forza contraddittoria e disordinata.

Ci vuole anche la volontà, la seconda V, che mobilita l'ascen-dente, dà la direzione al comportamento e permette il raggiungi-mento degli obiettivi. Si può infatti essere molto convinti, ma sen-za forza di volontà non si può convincere nessuno.

Nel nome della volontà, facoltà fondamentale del comporta-mento umano, si sta praticando in questi anni il peggior malintesodella morale quotidiana, grandissimo nei confronti dei giovani,dannoso nei confronti del tutto. Esso consiste nel confondere lavolontà con la voglia: "come faccio se non ne ho voglia?", "non rie-sco a farmi venir la voglia", "beata lei, che ha la volontà".

La volontà non è la stessa cosa della voglia, anzi ne è l'opposto.Viviamo in un mondo pieno di voglie e scarso di volontà. La

voglia è un desiderio, un gusto, una spinta, una motivazione chesorge spontaneamente o per induzione nella persona e la coinvol-ge emotivamente. Una voglia può essere percepita tanto intensa-mente da provarne dolore, così come una voglia soddisfatta puòcolmare di tale piacere da far piangere di gioia.

La voglia è sempre situata fuori dalla persona, voglia di qualco-sa o di qualcuno e rende succubi coloro che la provano, bisognosidi lei.

Si possono provare voglie buone e benefiche (voglia di tenerez-za, voglia di amore, voglia di lavorare bene con gli altri) o vogliecattive e distruttive (voglia di veder morto qualcuno, voglia diavere cose non proprie, voglia di non compiere il proprio dovere).

Alta

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Le voglie vanno e vengono, cambiano lungo il corso della vita; avolte si riescono a soddisfare, altre volte no.

La volontà, come s'è detto, è un'altra cosa.Prima di tutto non viene dall'esterno ma si trova all'interno del-

l'essere umano. E insita in ognuno ed è una facoltà a disposizionedi chiunque l'eserciti. Si può riconoscere, allenare e controllare eaumentare. Si può soprattutto, utilizzare in senso realizzativo.

La sua definizione è chiara e semplice: la volontà è la facoltà diessere determinati a svolgere liberamente certe azioni. Già Ari-stotele ne parla in questi stessi termini nell'Etica Nicomachea.Dalla sua stessa radice etimologica viene il verbo voglio: "voglioessere sincero", "voglio controllare la mia impazienza", "vogliorisparmiare una parte del mio stipendio".

La volontà che mobilita e accresce l'ascendente è quella investitaverso traguardi a medio termine quali: la realizzazione di una fami-glia felice, la costruzione della carriera professionale, la costruzio-ne del proprio benessere economico o altri. Oppure verso traguar-di a lungo termine quali: la realizzazione di opere artistiche, lo svi-luppo continuo del proprio livello professionale, della propria azien-da industriale o agricola, il sostegno e l'esempio ai figli e ai figli deifigli. Oppure ancora, ed è la volontà più entusiasmante e visibile,verso traguardi a breve, immediatamente misurabili: smettere difumare, non bere alcolici per un certo periodo, cambiare alcunimodi di reagire troppo nervosi o troppo timidi; imparare uno sporto un esercizio difficile.

Per sviluppare la volontà è sufficiente cominciare da piccoledecisioni, non importa se futili e incidentali, ma che servono asperimentare la propria capacità di autocontrollo. Decidere peresempio di non guardare l'orologio per tutto il periodo di un'at-tesa (in aeroporto, dal dentista, mentre si addormenta un neona-to capriccioso) costituisce già un buon esercizio di base; cosìcome: non interrompere lo studio o il proprio lavoro per il tempodi un'ora, costringendo la propria attenzione a rimanere obbligatasu ciò che si sta facendo, oppure non cambiare canale televisivoper l'intera durata di una tavola rotonda. Questi esercizi hanno loscopo di allenare la determinazione e di dimostrare a noi stessicome possiamo esercitare la volontà.

Il passo successivo è decidere di trasferire ciò che si riesce afare episodicamente in comportamento continuato e regolare. In-fatti le due componenti costitutive della volontà sono l'intensità

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dello sforzo (decidere, obbligarsi) e la fedeltà della ripetizione(fare una volta, rifare, fare molte volte, fare sempre). Così VittorioAlfieri, imparò il greco; così migliaia di lavoratori studenti porta-no a termine brillanti percorsi di studio; così persone che partonosenza una lira accumulano il denaro per farsi la casa, dare unavvenire ai figli, creare un'azienda.

Sera dopo sera andare a scuola, senza mollare, aggrappati soloalla volontà. Milione dopo milione, senza cedere alla tentazione dispendere nel poco, senza farsi influenzare dagli amici che compe-rano la barca firmando cambiali e dicono che solo i soldi fanno isoldi e solo i raccomandati fanno carriera. Magari hanno ancheragione, ma ciò che diciamo noi resta certo: un mattone sopra unaltro mattone forma un muro; un chilometro dopo l'altro fa fare ilgiro del mondo; un giudizio positivo sul lavoro sommato per anniad altri giudizi positivi definisce un eccellente lavoratore. La vo-lontà è la forza che trasforma la vita di una persona. Come l'ener-gia è la benzina, così la volontà è la potenza del motore.

L'affitto del successo: lavoralcolismo e narcisismo

Per quanto energica e vitale sia la convinzione del protagonistacarismatico, per quanto incrollabile sia la sua allenata volontà, an-ch'egli è soggetto a crisi, a dubbi, a incertezze, a costi durissimi.

Pur essendo più alto degli altri, infatti, il cielo degli ottomila nonè terso né immutabile sempre. Esso è solcato da venti e furorid'aria, da lampi di violenza terribile e da nuvole gonfie di tempesta.

Questo rappresenta consolazione per coloro che si fermano ailivelli inferiori della piramide, oppure giustificazione per quantiaspirano alla quiete dell'animo e alla stabilità della vita. Ma non sco-raggia, invece, i leader i quali ben sanno come le cose preziosemeritano di essere pagate con prezzi altissimi.

Prepararsi, dunque, conoscendo in anticipo i vincoli e gli osta-coli e attrezzandosi per combatterli. Essi sono di due tipi. Chia-miamo tentazioni quelle situazioni che si possono limitare, cono-scendole in anticipo e chiamiamo costi e rinunce le altre situazio-ni che non si possono evitare perché costituiscono il negativo del-la realtà, ma di esse sono parte, in modo ineliminabile.

Se la parola tentazione identifica una situazione o un'idea cheattira e attrae il comportamento individuale verso scelte non positi-ve e spesso non etiche o non negative, le tentazioni del successo

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segnalano quei pericoli e quei rischi personali connessi all'eser-cizio dei ruoli di leader. Le tre tentazioni più importanti sono:

—la legittimazione del potere;—il lavoralcolismo;—il narcisismo.

La legittimazione da potere

La legittimazione da potere: è la più grave delle tre tentazioni, poi-ché coinvolge gli aspetti etici e morali del comportamento versogli altri. In modo un po' semplicistico ma sintetico essa può veniredescritta come lo scivolare in una deformazione mentale che tra-sforma la disponibilità di potere e l'esercizio dello stesso in undiritto alla prepotenza, all'arroganza e al compimento di azioniconsiderate scorrette da tutte le culture civili.

Legittimazioni tipiche sono quelle che riguardano i valori delrispetto altrui, della verità e della legge, la cui soglia di obbligoviene abbassata o spostata a seconda della convenienza della si-tuazione specifica. Rubare, mentire e prevaricare sono verbi chealcuni protagonisti praticano con grande naturalezza, come se aloro fosse permesso ciò che ai comuni mortali è vietato.

Sentendo parlare brutalmente di rubare, mentire e prevaricarealcuni sbarrano gli occhi e si ribellano ai termini usati, già offesial solo pensiero di poter essere coinvolti in simili brutte azioni;altri, invece, sbarrano anch'essi gli occhi, ma con un sussultosilenzioso, quasi si sentissero riconosciuti o riconoscessero a lorovolta qualcosa che già hanno pensato, che già temono e da cui giàsi difendono. Naturalmente le persone che si scandalizzano sonoancora nella base della piramide del successo, mentre il senso dicolpa o il sussulto della tentazione è riconosciuto da quanti giàsono prossimi ad ascendere.

Non si ruba solo sottraendo denaro a qualcuno o facendosidare una tangente per qualche favore, ma anche obbligando i col-laboratori a fermarsi oltre l'orario o i figli a farci compagnia.

Si ruba costringendo una persona timida che non si sa negare afarci delle commissioni; si ruba riferendo confidenze che eranostate date in privato; si ruba intromettendosi in una coppia o in ungruppo di persone che volevano stare tra loro. Si ruba il tempo, ildiritto al privato, la serenità familiare e lo si fa con finto rammari-

co e con tale naturalezza che trasforma la prepotenza in pelosaprevaricazione.

Nello stesso modo si mente non solo dicendo grosse e precisemenzogne o giurando il falso davanti al giudice, ma anche negan-dosi al telefono, inventando scuse per liberarsi di un collaborato-re, smentendo di conoscere un'informazione che invece si possie-de, profferendo lealtà proprio mentre ci si comporta con riserva,promettendo o impegnandosi in azioni che già si sa che non ver-ranno compiute. Si mente correggendo la verità, omettendoneuna parte, manipolando le notizie, accampando scuse.

Né, infine, si prevarica solo con il coltello o con la rivoltella(malgrado siano ben note in alcune organizzazioni le cosiddette"notti dei lunghi coltelli" e i "bagni di sangue") ma lo si fa affer-mando giudizi negativi su persone che non piacciono, rovinandol'immagine di avversari che ci fanno paura, riferendo parole e fra-si al fine di ferire qualcuno in modo indiretto. Si prevarica spo-stando collaboratori lontano dalla famiglia senza vera necessitàma per comodo organizzativo, non rispettando precise ed espres-se preferenze verso un certo tipo di lavoro, negando attenzione eudienza a persone che se lo meritano. Vi sono genitori che preva-ricano spiritualmente i loro figli condizionandoli a comportamen-ti negativi, ricattandoli con distorte esigenze emotive.

Anche l'arroganza ingiusta, l'impazienza sgarbata, lo scarso con-trollo dell'umore o del sarcasmo e dello "humour" caustico sonoforme di scorrettezza praticate come legittime perché ci si ritienecosì importanti da meritare metri di giudizio diversi da quelli invigore per gli altri. Harry Levinson definisce il comportamento chederiva dal cadere nella tentazione che stiamo descrivendo, conparole molto dure: "abrasivo", "cinico", "crudele" e invita chiunquea difendersi ed evitare simili porcospini. Nelle organizzazioni laprevaricazione costante, violenta e finalizzata a sfiancare il dipen-dente è diventata una potenziale prassi; essa è entrata nel lessicoorganizzativo con il termine mobbing e la sua applicazione sta peri-colosamente estendendosi.

Il lavoralcolismo"

Proporre tra le tentazioni dell'esercizio del potere sia nelle orga-nizzazioni che nelle famiglie il lavoralcolismo, non costituisce unascoperta recente. Quando Herbert Marcuse, il filosofo tedesco

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contrario all'ideologia della società industriale, scrisse un librointitolato L'uomo a una dimensione, indicava proprio il pericoloche lo sviluppo industriale e il benessere crescente contribuisse-ro a diffondere un tipo di etica del guadagno e del lavoro cheavrebbe inevitabilmente portato alla riduzione e alla valutazionedelle persone secondo l'unico metro del "ciò che fanno e ciò cheguadagnano" .

L'analisi di Marcuse ebbe notevole successo sociologico e poli-tico, ma non si realizzò per quella parte dei lavoratori, operai eimpiegati, che svolgono compiti che a loro non piacciono e daiquali cercano di sfuggire al termine dell'orario. Il pericolo del-l'uomo a una dimensione rimane invece incombente e minaccio-so per tutti quei protagonisti che riescono a realizzare il massimodel successo con il massimo della soddisfazione.

Il lavoralcolismo infatti è una tentazione paragonabile alla dro-ga o all'alcolismo: quando la si prova piace, quando la si smette sisoffre di astinenza. Se il lavoro dà piacere e riconoscimento, l'in-terromperlo interrompe il piacere e il riconoscimento. E non soloil lavoro del dipendente, anche quello della casalinga, del fotogra-fo di moda, del venditore di successo. Come la droga e l'alcol pro-ducono rapida assuefazione e vengono desiderati in quantità sem-pre maggiori, non per aumentare il piacere ma per mantenerloidentico, così la quantità di lavoro deve essere continuamenteaumentata per mantenere il senso di indispensabilità e la sensa-zione di sicurezza e di riconfermata utilità che essa restituisce.

Il lavoralcolismo colpisce madri e casalinghe che non riesconoa liberarsi dal ciclo perverso delle responsabilità famigliari e per-fezionano ogni loro lavoro al limite dell'assurdo diventando perse-cutrici di coloro ai quali si dedicano.

Colpisce religiosi, capi di comunità, volontari di opere sociali,studenti compulsivi che rifiutano voti mediocri perché esigonoper se stessi solo il massimo. Ma è nelle organizzazioni che essorisulta più macabro ed evidente.

"Mi vergogno a dirlo", ci confessò la moglie miliardaria di undirigente aziendale "ma io sono povera e sola più della moglie diun emigrante. Mio marito ama il lavoro e non me. Gli servocome orpello, come elemento di rappresentanza, come giustifi-cazione per non dover gestire la fatica e il costo di un'amantealla moda; ma il suo amore per me si è spostato sulla professio-ne. Dal momento che io continuo a volergli bene e che i nostri

figli lo rispettano, accetto questa situazione. Ma è atroce. Perfi-no le rare volte in cui facciamo l'amore io tengo gli occhi chiusiperché, se li aprissi, vedrei i suoi occhi che stanno pensandoalla telefonata da fare o al cliente di domani".

"Descrivi il tuo papà", è stato chiesto in una tema al figliododicenne di un professionista. Il bambino ha scritto: "Il miopapà, in verità, non posso descriverlo perché non so com'è. Vie-ne a casa la sera quando io sono già a letto ed esce al mattinocon l'autista mentre io faccio colazione. Non pranza a casa, ilsabato va al golf e la domenica va a sparare al tiro al piattelloperché dice che là c'è gente che deve assolutamente vedere. Staa casa a Natale; a Pasqua invece va in Africa. Le vacanze estivenon le fa oppure, se viene con noi, legge ` ventiquattr 'ore' le car-te che si è portato da casa. Dice che mi vuoi bene e ogni voltache lo dice mi fa un regalo, senza nemmeno chiedermi cosa mipiacerebbe: io odio i suoi regali. Poi vedo come si diverte a lavo-rare e lo perdono. Ma io da grande farò il portinaio, perché èsimpatico e gioca con me e mai e poi mai farò il professionista disuccesso".

Gli affetti e il tempo personale rappresentano la prima mercedi scambio con cui si paga il gusto drogante del lavoro; poi, inscalata, il lavoralcolizzato paga con la propria cultura ("leggaquesto libro e mi faccia una sintesi" dice il capo alla segretaria,alla madre o al figlio "così sembrerà che l'abbia letto io"), con lapropria informazione diretta ("questi sono i dépliant delle IsoleBaleari, chiediamo alla compagnia di viaggio un albergo chepotrebbe piacerci e facciamoci consigliare un viaggio già tuttoprevisto") e infine con la propria salute fisica ("non ho tempoper il dentista, vado in America e in una mattina, in clinica, mifaccio togliere tutti i denti e mettere la dentiera"; "ho letto dicibi trasformati in specie di carte di credito che si consumano incinque minuti masticando la carta con un bicchiere d'acqua,prodotti dall'azienda giapponese Asahi-Shokuhin-Kogyo. Tele-foni a Osaka, facciamoci mandare delle carte al salmone, allacarne e all'arancio. Così risolviamo la seccatura dei pranzi erisparmiamo mezz 'ora al giorno ").

Quando tutti i prezzi, l'amore, la cultura e la salute sono statieliminati, il leader, se non si impone da solo di resistere alla tenta-

zione, comincia a distruggere se stesso. Pian piano la lucidità si

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offusca, la rapidità si smorza, gli scatti di impazienza diventanoinsulti e ingiustizie.

A causa della legittimazione da potere egli giunge a offendere ea ferire. Per questo si può morire.

Il narcisismo

Il narcisismo: l'ultima tentazione inevitabile del successo raggiun-to consiste nel provare troppo "piacere di piacere" e di aumentarela propria gratificazione oltre il giusto gonfiandola a dismisura epervertendola in un patologico ripiegamento dell'Io, tipico delpeggior narcisismo.

Secondo la mitologia greca Narciso era un giovane bellissimoche rifiutò l'amore delle Ninfe (in particolare di Eco) perchépreferiva star con sé piuttosto che con gli altri. Per punirlo glidèi lo fecero morire affogato in una fonte dove si era chinatoeccessivamente per contemplare la propria immagine. Chiamia-mo ancora oggi narcisismo una forma di automasturbazione edi autocentratura che passa dal normale compiacersi della pro-pria persona alla prosopopea, all'autoglorificazione e all'auto-giustificazione assoluta.

E difficile misurare il momento in cui la fiducia in sé diventaorgoglio e l'orgoglio narcisismo. Ma è proprio il saper conservarela fiducia in sé come tendenza dinamica e consapevole verso unego ideale e non come certezza conclusa, che salva dalla tentazio-ne dell'orgoglio.

Il narcisismo del successo abbonda in tutti i campi. Esistononoti professori universitari che si ritengono insultati se qualcuno,ingenuamente, chiede loro quale materia insegnano, poiché dan-no per scontato che chi li avvicina debba conoscere il loro titolo eil loro ruolo.

Ci sono imperdonabili madri di famiglia e padrone di casa cheproducono scene isteriche di gelosia, non sessuale ma culina-ria, se un loro figlio o marito dichiara ingenuamente di averemangiato una torta di mele o degli agnolotti più buoni di quellifatti da loro. Esistono proprietari di barche miliardarie che tele-fonano alla capitaneria di porto per protestare che modesti gom-moni di gente beneducata e allegra attraccano nel porticciolotroppo vicino a loro: "non che facciano rumore, ma mi fanno sfi-gurare la barca" dicono.

L'ultimo scalino: dalla forma all'eccellenza 127

Quando il narcisismo sfocia nel bisogno di servilismo, la tentazio-ne è diventata peccato e il leader di successo, uomo o donna chesia, ha distrutto il suo carisma.

Le trappole della cima: fatica ed errore, incertezzae solitudine

Dopo le tre tentazioni descritte nel paragrafo precedente, cherestano pericolose e attraenti ma evitabili con autocontrollo eattenzione intelligente proprio perché sono tentazioni e non anco-ra azioni, dobbiamo ora affrontare gli inevitabili aspetti negatividel potere e della professionalità carismatica. Anch'essi sono tre,come le tentazioni, anch'essi riguardano solo quanto riteniamoappartenga al minimo comun denominatore del leader e non tuttele rinunce restanti che dipendono dalla sensibilità, dalla fragilità edalla storia delle esperienze delle singole persone.

Una rinuncia in termini di comportamento umano equivale sem-pre a un costo che si deve pagare o imparare a pagare. Il fatto che larinuncia sia consapevole e accettata in piena libertà non diminuiscedi un grammo la quantità di sforzo o di sofferenza che la personache la compie deve sostenere.

Forse qualche lettore penserà che stiamo aggiungendo troppespine alla corona del successo e che vivere nella situazione del ter-zo gradino non sia poi così piacevole come egli immaginava. Fabene a ridimensionare le sue aspettative. Questo libro non è statoscritto per spingere tutti verso l'apice della piramide, perché contri-buirebbe a sovvertire un sistema che ci piace così com'è; esso vuo-le indirizzare tutti a scegliere la propria dimensione autorealizzati-va, a qualunque punto della piramide si trovi o preferisca fermarsi.

Cosicché se il riflettere sui rischi delle tre tentazioni e sul durocosto delle tre rinunce che stiamo per spiegare convincerà qual-cuno a fermarsi a quella che riterrà una giusta dimensione di con-sapevole serenità (gradino delle capacità e della competenza, op-pure gradino dello stile e della forma perfetta), il libro avrà rag-giunto il suo scopo, esattamente come avverrà se il leggere di ten-tazioni e rinunce farà stringere i denti a qualcun altro, ma accre-scerà la sua determinazione ad arrivare alla cima. Le rinunce delgradino superiore, in ordine di durezza crescente, sono:

– il riposo (il sentirsi riposati) e quindi accettare la fatica;

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—la certezza (il sentirsi sicuri) e quindi accettare l'incertezza;—la comprensione (il sentirsi capiti) e quindi accettare la

solitudine.

La rinuncia al riposo comporta l'accettazione della fatica come si-tuazione normale e quotidiana. La disponibilità totale al lavoro, oallo studio e alla responsabilità, e il coinvolgimento emotivo causa-to dal gusto di ciò che si fa, portano inevitabilmente le persone anon porsi altri limiti che quelli dovuti a cause esterne e non modifi-cabili. Il limite rappresentato dal sentirsi stanchi è un limite "debo-le", che la volontà riesce facilmente a respingere o addirittura arifiutare, richiamando dal cuore e dalla mente una quantità sempremaggiore di autoincentivazione e di sforzo. Si tratta del comporta-mento opposto a quello definito "stancabile" cioè esauribile facil-mente e privo di riserve. I "nati stanchi" sono, per definizione, indi-vidui che si abituano a chiedere a se stessi un contributo continuodi energia, fisica e mentale e non reggono sforzi improvvisi né con-tinuativi. I leader invece esercitano la loro resistenza proprio comefa uno sportivo e alzano la loro soglia di affaticamento, mantenen-dosi in allenamento fisico e psichico. Non di rado vivono e operanoin uno stato di attenzione così vigile e teso da apparire al limite del-l'eccitazione, anche se ben controllata.

La rinuncia del riposo e la sopportazione della fatica sono defini-te dai medici come le basi dello stress da successo. Lo stress infattiè definito come: "una risposta specifica dell'organismo alle richie-ste effettuate su di esso", che varia come intensità a seconda dellivello di aspirazioni e di interesse investito dal singolo nelle pro-prie azioni. La sopportazione della fatica-stress e l'immunizzazionedalle somatizzazioni più comuni (insonnia, angoscia, depressione,distonia neurovegetativa, esaurimento fisico e nervoso) varianomolto da persona a persona e in chi vive da protagonista sono cosìben gestite da apparire quasi inumane agli occhi di chi si fa facilepreda di ansia e stress. "Beata lei, che non è mai stanca!", dice lagiovane insegnante alla cinquantenne preside dopo cinque ore dicommissione d'esame. "Ma come fai a studiare otto ore al giorno?"chiede l'universitario pallido e benestante al compagno di corsoche fa il cameriere di sera per pagarsi gli studi.

Nervi di ferro, resistenza d'acciaio e coinvolgersi tutto il gior-no, dalle otto di mattina a mezzanotte. Con un unico recuperosovente non confessato a nessuno: il tenero, terribile, malinconi-

co mal di testa del sabato mattina, quel mal di testa che la personanormale non proverà mai e che si vendica del leader quando latensione si interrompe e batte alle tempie o tra gli occhi, come unchiodo crudele.

Emicrania da protagonismo, dicono i medici; e suggerisconoche si può curare riposandosi anche durante la settimana e nonsolo il sabato, tutto d'un colpo. "Lei deve lavorare meno", ripeto-no. Gli abitanti del terzo gradino sorridono. Loro non lo sanno,ma sorridono tutti nello stesso modo: lo studente, la preside, ilmanager e l'artigiano. "Va bene, rispondono, ho capito; ma nonmi interessa riposarmi. E troppo noioso. Mi dia un calmante per ilmal di testa che faccio prima!".

La rinuncia alla certezza comporta l'accettazione dell'ansia edell'errore come situazioni psicologiche normali. Mentre il costodella fatica si concretizza nel pagamento di una moneta soprattut-to fisica, il costo dell'ansia e dell'errore viene pagato con monetaintellettuale. La definizione di ansia è infatti di "una situazione diincertezza, con sentimenti spiacevoli di timore, che riguarda azio-ni ed eventi presenti o futuri".

Chi accetta di vivere con alta responsabilità, si rende contosubito che non potrà mai avere la totale certezza della bontà e del-l'esattezza delle proprie azioni e perfino delle proprie opinioni.Troppe le informazioni necessarie per sentirsi "completamente"

sicuri, troppe le pressioni importanti per sentirsi "completamen-te " convinti, troppe le cose da fare contemporaneamente per sen-tisi "completamente" tranquilli di aver fatto il meglio.

I leader conoscono l'antico proverbio per cui "il meglio è il nemi-co del bene" e lo ripetono spesso ai loro collaboratori per incitarliall'azione. Conoscono pure la bella affermazione per cui il dubbio èla misura della statura umana e per cui chi non dubita non pensaautonomamente e la ripetono spesso a se stessi per placare l'af-fanno e il timore. Ma, ciò nondimeno, soffrono l'incertezza con unapena sorda, umile, che nascondono per dignità e per servizio.

Ha scritto Metastasio: "se a ciascun l'interno affanno si legges-se in fronte scritto, quanti mai che invidia fanno ci farebberopietà!".

Anche il costo dell'errore fa parte di questa seconda rinuncia erappresenta una delle prove psicologiche più dure da superareper i leader. E già difficile per ogni persona, per modesta e scono-Sciuta che sia, sopportare di ammettere uno sbaglio e ricrederse-

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ne di fronte anche solo a un amico pur modesto interlocutore; maper chi viene considerato "il" numero uno, "il" capo, "il" migliore,riconoscere di aver fallito, sbagliato, compiuto una mossa inge-nua o stupida, diventa ogni volta porre in gioco la propria credibi-lità, offrire armi agli avversari e rischiare la risata o la delusionedei collaboratori.

Un leader che non compie errori è un individuo che non agisce;un individuo che non li riconosce e che non se ne fa carico connaturalezza è un debole o un vile. I leader vanno valutati a saldo,alla fine del bilancio di un certo periodo di attività. E la differenzatra attivo e passivo, tra risultati ed errori, che dà il valore della per-sona, non il conteggio amministrativo e pignolo degli errori singo-larmente considerati. Chi fa sbaglia e chi non fa giudica, dicevano inostri antichi. Saper sbagliare, saper perdere, saper accettare lacolpa così come si accettano i meriti, saper cadere e rialzarsi, saperricominciare sempre, malgrado l'incertezza e il timore.

La rinuncia alla comprensione altrui comporta la gestione con-tinua del conflitto e dell'inimicizia e l'accettazione della solitudi-ne. Sostiene Freud:

Il capo deve avere una vita psichica distinta da quella dei gregari.Affettivamente solo, non deve aver bisogno di amare alcuno, deveevitare i sentimentalismi (le fissazioni libidiche stabili). Egli cura eama in egual modo tutti, anche se non li conosce ed essi non lo cono-scono. Elemento essenziale della relazione che il capo stabilisce con isuoi gregari è che egli pensi a tutti, dalla stessa distanza, che ciascu-no sappia di essere pensato, dalla stessa distanza. Ove questo ele-mento viene a mancare, l'organizzazione si disgrega come collettivi-tà, sfugge e si ribella.

In tempi più recenti Richard Senneth riprende la stessa afferma-zione come tesi di fondo del suo bel libro filosofico, L'autorità.Egli recupera il termine greco di autonomia per definire la com-ponente essenziale della "responsabilità": capacità di essere nor-ma a se stesso, autosufficienza, sopportazione della solitudine."Autonomia vuol dire riuscire a far sì che gli altri abbiano un po'più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di loro".

Un celebre detto latino afferma: "beata solitudo, sola beatitu-do" e anche Leonardo da Vinci sostiene orgogliosamente: "chi èsolo, è tutto a se stesso". Ma una cosa è la solitudine dello scritto-re e dell'artista, isolato a lavorare nella sua stanza, colmo e parte-

ripe della sua riflessione creativa oppure la solitudine del trappi-sta e della monaca di clausura che scelgono per meglio comunica-re con Dio nel silenzio delle voci umane; altra cosa, più amara per-ché creata dall'invidia e dall'incomprensione, è la solitudine delleader, che viene accettata o subita sovente senza essere compre-sa né ricercata.

Solitudine per rispetto della giustizia e dell'equidistanza, solitu-dine per garantire la riservatezza e la non indiscrezione, solitudi-ne per non creare aspettative, solitudine per non eccitare l'invidiae per smorzare la competizione, solitudine per non ferire troppochi vuole veramente bene al leader.

Solitudine, infine, perché quando il conflitto esplode, la ribellio-ne serpeggia, la malevolenza o la stanchezza, l'esasperazione o lapaura deformano il volto e lo sguardo dei collaboratori trasforman-doli in avversari. Bisogna a volte recitare il ruolo del nemico nume-ro uno, del colpevole principale, dell'accusato. Nel più bello, secon-do noi, dei film di Federico Fellini, intitolato Prova d'orchestra, ildirettore si trova a un certo punto a dover affrontare tutti gli orche-strali sindacalizzati e inferociti rivolti contro di lui. Gli rovesciano ilpodio, gli buttano addosso il metronomo, scrivono: "A morte ildirettore" con una bombola spray sul muro della sala. Egli ha unmomento di sconforto, nasconde la testa fra le mani, seduto sulloscalino della pedana di prova. L'ingiustizia della situazione è evi-dente: se egli è il capo, egli è il nemico. Abbattendo lui, cadrannotutte le polemiche. Ma poi, lentamente, il maestro alza la testa e insilenzio si china a raccogliere la bacchetta. Come placata e inter-detta, l'orchestra fa un passo indietro. Qualcuno a sua volta si curvaa raccogliere gli strumenti. Il direttore batte leggermente la bac-chetta sul podio che ha risollevato e ripulito dalla polvere: "venite"dice "proviamo. La musica ci salverà".

La melodia riprende, dapprima incerta, poi piena e solenne. Ilconflitto è stato superato; i suonatori sono di nuovo uniti; il mae-stro sorride, ha vinto da solo. E solo.

Il Tap: test dell'ascendente personaleDa alcuni anni abbiamo messo a punto e utilizziamo un test di auto-valutazione chiamato test dell'ascendente personale (Tap) ormai

convalidato da alcune migliaia di applicazioni. Lo offriamo volentie-ri alla sperimentazione del lettore come un suggerimento concreto

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di aggettivi e atteggiamenti pratici coltivando i quali si sviluppa e siaumenta la propria dimensione di ascendente personale.

Il test si applica compilando la scheda A (vedi la Tabella 4.1)entro il tempo obbligato di tre minuti. E fondamentale, per l'au-tenticità della risposta valutativa, compilare la scheda A nel tem-po indicato, quindi di slancio e senza riflettere, senza cercare coe-renze né correlazioni tra i sostantivi. Il modo migliore per rispon-dere bene è quello di scegliere nella propria memoria o nelle pro-prie conoscenze letterarie o reali un personaggio che riconoscia-mo "carismatico", che ci ha colpito in qualsiasi periodo della no-stra vita, che noi valutiamo un leader e un protagonista e a ognisostantivo domandarsi: "lui lo è, lo era, lo sarebbe? 0 no?".

E d'obbligo non leggere né consultare le definizioni della schedaB (vedi la Tabella 4.2) e del vocabolario finale (contenuto nel para-grafo "Interpretare il proprio carisma") perché influenzerebbero laspontaneità della risposta. Il Test è stato costruito sull'osserva-zione di personalità protagoniste e sul loro comun denominatorecarismatico in particolare per gli aspetti dell'energia e della volon-tà. Sono stati quindi volontariamente esclusi aspetti fondamentalidi qualunque personalità, anche di quelle senza ascendente, come,per esempio, l'intelligenza, la creatività, l'amore per il prossimo, lafede religiosa.

Come procedere

Leggete i 45 termini senza soffermarvi su di essi e assegnateli conun segno grafico a una delle tre colonne verticali. Ogni terminepuò venire assegnato a un'unica colonna. Ogni colonna può riceve-re solo quindici segni. L'esercizio è a distribuzione obbligata: se sivuole avere una valutazione coerente con la struttura del test, biso-gna scegliere tra i termini e distribuirli secondo le titolazioni dellecolonne. Quindici termini contribuiscono allo sviluppo dell'ascen-dente personale, quindici risultano indifferenti, cioè non lo influen-zano né positivamente né negativamente, e quindici lo inficiano egli impediscono di manifestarsi (vedi la Tabella 4.1).

La scheda B presenta la distribuzione corretta dei 45 termininelle tre colonne (vedi la Tabella 4.2).

Ogni risposta esatta viene calcolata 1 punto. Il massimo di pun-ti possibile per ogni colonna è quindi 15 e il massimo punteggiopossibile è 45.

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Tabella 4.1 Test Tap — Scheda ARicerca sulle componenti dell'ascendente personale

Contribuiscono allo Risultano indifferenti Inficiano lo svilupposviluppo dell'ascendente dell 'ascendente

(si) (7) (no)1_Conv_inzione intensa - - - - - - - Z_Riserv_atezza - - - - - - - - - - - - -3, Discontinuità - - - - - - - - - - - - A Trasmissione v

-

_ alori - - - - - - - -. Capacità di tnasoni _mento - - -

¢ Serenità - - - - - - - - - - - - - - - -1_Mancanza_di humour - - - - - - p_cutura - - - - - - - - - - - - - - - - -

Attenzione10. Entusiasmo - - - - - - - - - - - - -11_Debolezza di carattere - - - - -12. Mediazione1

14,G ?nel_ si__

15 Pazienza - - - - - - - - - - - - - - -t¢_Età_anag __fica - - - - - - - - - - -17_Ricerca_del consenso - - - - - 18 Suggestionabilità - - - - - - - - 19. Ritualità

Autosufficienza _$1_Energi

-

_a, stamina - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

33_Cay_acità di realizzare - - - - - -23. Memoria _24_Fermezza_ sicurezza di séY5. Asmetto_estetico - - - - - - - - - 2 . stancabiàtà27_Situazione famigliare - - - - - -28. Campo di interessi_mirato - -n_Scoraggig ilità - - - - - - - - - - 3Q.Ordine - - - - - - - - - - - - - - - - 31_coerenza personale - - - - - - -32_Pessimis_mo - - - - - - - - - - - - _ Buon

-gusto - - - - - - - - - - - - -

34_Fiducia negli altri - - - - - - - - 35. Cortesia__ _

Incertezza indecisioneUmiltàEquilibrio - - - - - - - - - - - - - -

39_Durezza - - - - - - - - - - 40. Responsabilità

-

__4 1_Snobismo

-

__42. Cinismo43_Pigr _

-

_ _

- --

__ _44 Prudenza- -------------45•Lentezza di riflessiNota: controllare di aver assegnato tutti i 45 termini, suddivisi in 15, 15, 15 perogni colonna.

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Tabella 4.2 Test Tap - Scheda B. Ricerca sulle componenti dell ' ascendente

Attribuirsi un punto per ogni risposta esatta

Contribuiscono allo sviluppodell 'ascendente

Risultano indifferenti Inficiano lo sviluppodell 'ascendente

1. Convinzione intensa4. Trasmissione valori5. Capacità di trascinamento9. Attenzione10. Entusiasmo14. Generosità19. Ritualità20. Autosufficienza21. Energia, stamina

22. Capacità di realizzare24. Fermezza (sicurezza di sé)28. Campo di interessi mirato31. Coerenza personale34. Fiducia negli altri40. Responsabilità

2. Riservatezza6. Serenità8. Cultura13. Origine15. Pazienza16. Età anagrafica23. Memoria25. Aspetto estetico27. Situazione famigliare30. Ordine33. Buon gusto35. Cortesia37. Umiltà38. Equilibrio41. Snobismo

3. Discontinuità7. Mancanza di humour11. Debolezza di carattere12. Mediazione17. Ricerca del consenso18. Suggestionabilità26. Stancabilità29. Scoraggiabilità32. Pessimismo36. Incertezza, indecisione39. Durezza42. Cinismo43. Pigrizia44. Prudenza45. Lentezza di riflessi

Totale scelte esatte Totale scelte esatte Totale scelte esatte

Il punteggio ottenuto nella scheda B indica la precisione del rico-noscimento intellettuale del modello teorico di ascendente cheognuno ha e va interpretata secondo la scala seguente:

Punteggio da 0 a 15 mancanza di un modello teoricoPunteggio da 16 a 30 idee confuse in merito, presenza di elementi parziali

di riferimentoPunteggio da 31 a 45 identificazione buona al modello intellettuale dell'ascendente

La scheda C riguarda invece la ponderazione finale del test, inquanto ogni termine esatto della colonna "sì" vale 2 punti cioè varaddoppiato perché corrisponde al riconoscimento diretto dei co-stituenti dell'ascendente; mentre ogni termine esatto nella colon-na "no" mantiene il valore di un punto perché corrisponde a unriconoscimento di tipo inverso, cioè di secondo grado.

Il punteggio ottenuto nella colonna centrale non viene pondera-to e va considerato uguale a zero (vedi la Tabella 4.3).

Il punteggio ottenuto nella scheda C corrisponde al riconosci-

L'ultimo scalino: dalla forma all'eccellenza 135

Tabella 4.3 Test Tap - Scheda C. Ponderazione del Tap

Colonna: si Colonna: indifferenza Colonna: no

Ogni risposta esatta vale Ogni risposta esatta vale Ogni risposta esatta valezero e va quindi annullata

Totale ...Punteggio massimo = 15 punti

Totale complessivo ..........

mento mirato del comportamento carismatico e d'ascendente e corri-sponde quindi al vero punteggio del Tap con questa classificazione:

- il punteggio da O a 15 indica un riconoscimento (o un posses-so) insufficiente (non si ha ascendente, non ci si è mai preoc-cupati di pensarci o non interessa);

- il punteggio da 16 a 30 indica un riconoscimento (o un pos-sesso) appena sufficiente (basta poco per precisare il pro-prio ascendente e comportarsi in modo più carismatico diquanto si faccia abitualmente);

- il punteggio da 31 a 45 indica una sensibilità alta e la proba-bile presenza di caratteristiche di ascendente e quindi lapossibilità di trasformarlo in elemento evidente della pro-pria personalità.

Nelle migliaia di volte in cui il Tap è stato applicato, il punteggiominimo rilevato è stato di 7 punti mentre il punteggio massimo èstato di 42 punti.

Alcune volte (circa il 6% delle somministrazioni) si verifica il casodell"`ascendente rovescio", cioè di persone che ottengono nellaponderazione finale un punteggio della colonna "no" maggiore delpunteggio della colonna "sì". Questo fatto indica un rifiuto inconsa-pevole ma ugualmente preciso dell'ascendente che, come in unafotografia non stampata, è identificato per negazione.

Ciò avviene solamente in soggetti con precise scelte spirituali opolitiche o con equilibrio emotivo inquieto o semplicemente pessi-miste e tendenti all'invidia. Di solito coloro che ottengono questotipo di ponderazione se ne dichiarano soddisfatti e non dimostranointeresse a raddrizzare il loro approccio. Per un leader o aspirantetale questo risultato è altamente improbabile, ma è importante rico-noscere questa caratteristica nei propri collaboratori così come lo è

~ 2I

Totale ..Punteggio massimo = 30 punti

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Tabella 4.4 Test Tap — Scheda D. Riepilogo sull'ascendente

Elementi di comportamento che contribuiscono a determinarloContinuità di ideeCapacità di distacco, humourTenacia, testardaggineSopportazione solitudineSopportazione incomprensioneAutoincentivazioneTono psicofisicoCapacità di ricominciareOttimismoDecisionalitàUmanitàSentimentalitàAttività, sforzoOrgoglioRapidità

per un educatore o un genitore nei propri figli e allievi perché sipuò svolgere un lavoro e condurre una vita interessante anche sen-za essere carismatici, ma il rifiuto diretto dell'ascendente influenzafortemente il rapporto con coloro che ce l'hanno e tende a concre-tarsi in atteggiamenti di rifiuto o di conflittualità. Il test dell'ascen-dente rappresenta uno stimolo all'autovalutazione e la sua funzioneè più descrittiva della teoria che della realtà.

Per chi tuttavia intende utilizzarlo come traccia di riferimentoprescindendo dal punteggio del Tap, la scheda D (vedi la Tabella4.4) ne riepiloga il contenuto, recuperando in senso positivo an-che le indicazioni della colonna del "no": per esempio, i termini"discontinuità" e "mancanza di humour" diventano "stabilità dicomportamento" e "capacità di humour".

Il paragrafo seguente presenta infine il vocabolario che precisail senso dei 45 termini elencati.

Interpretare il proprio carisma

1. Convinzione intensa: forte persuasione nelle proprie idee, nelleproprie prese di posizione, nei propri obiettivi; volontà mirata.2. Riservatezza: discrezione, rifiuto della confidenza facile, rispet

to alla propria e all'altrui sfera privata, capacità di tenere i segreti.Senso del pudore fisico e morale.3. Discontinuità: tendenza a interrompere e cambiare facilmen-te idee e comportamenti, incoerenza, contraddizione.4. Trasmissione di valori: impegno a sostenere e testimoniare nelproprio comportamento e nel proprio linguaggio alcuni valori eticie sociali considerati fondanti.5. Capacità di trascinamento: influenzamento degli altri, convin-cimento, leadership spontanea volta a fare agire gli altri secondole proprie convinzioni e preferenze.6. Serenità: condizione emotiva di calma tranquilla e positiva.Atteggiamento disteso e disponibile, facilità al sorriso e allagentilezza.7. Mancanza di humour: suscettibilità, tendenza a prendere lecose sul personale, rigidezza, assenza di senso dell'umorismo.8. Cultura: complesso di cognizioni relative a una determinatadisciplina o a un campo del sapere, tendenza a conservare infor-mazioni, a leggere, a imparare.9. Attenzione: concentrazione fisica e mentale intorno a un deter-minato argomento; oppure vigile acquisizione di segnali ed eventianche non diretti al soggetto.10. Esibizionismo: coinvolgimento dell'animo e dello spirito in ciòche si fa e si dice; calore e colore del modo di reagire e partecipare,positività e ottimismo.11. Debolezza di carattere: tendenza ad accettare le situazioni eimpegnarvisi in modo indifferente; assenza di preferenze precisenei gusti, nelle motivazioni, nelle idee.12. Mediazione: attività che si interpone tra più persone per faci-litare le relazioni e l'accordo; per sopire o risolvere i conflitti;intercessione, diplomazia.13. Origine: nascita, provenienza, ceto sociale; tipo e livello eco-nomico della famiglia in cui si è vissuti; luogo, territorio, regione(origine contadina, origine borghese, extracomunitarietà).14. Generosità: magnanimità e liberalità di sentimenti e dicomportamenti.15. Pazienza: sopportazione e calma consapevole di ciò che ri-sulta, in minore o maggiore misura, disturbante, irritante e dolo-roso; mancanza di fretta e di agitazione.16. Età anagrafica: quantità di anni: infanzia, adolescenza, giovi-nezza, adultità, maturità, vecchiaia.

Convinzione intensaTrasmissione di valoriCapacità di trascinamentoAttenzioneCuriositàGenerositàRitualitàAutosufficienzaEnergia, staminaCapacità di realizzareFermezza (sicurezza di sé)Campo di interessi miratoCoerenza personaleFiducia negli altriResponsabilitàVolontà

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17. Ricerca del consenso: conformismo, sicurezza che provienedall'approvazione e dalla conferma altrui, dal benestare e dallacoincidenza di volontà per azioni da compiere o affermazioni dafare.18. Suggestionabilità: facilità a subire influenze e suggerimentiprovenienti da altri; tendenza a mettersi in situazioni emotive vis-sute da altre persone e non riguardanti direttamente il soggetto.19. Ritualità: utilizzo di comportamenti e scelte personali (orari,abiti, cibi, bevande, matite, suppellettili) eletti come abitudini epraticati con il senso della tradizione; rispetto di semplici cerimo-niali sentiti come apprezzabili e arricchenti (il rito del caffè, il ritodelle ricorrenze famigliari o aziendali...).20. Autosufficienza: tendenza a non dipendere dagli altri nelleazioni, nei bisogni e nei sentimenti; accettazione voluta dellasolitudine; sapersi consolare e comprendere da soli, bastare ase stessi.21. Energia, stamina. vigore, vitalità, attitudine a compiere ge-sti e azioni con forza, intenzione e intensità; potenza e rapiditàdi reazione e applicazione, tono fisico e psichico (l'opposto è lafiacchezza).22. Capacità di realizzare: trasformazione di idee, progetti, pro-poste in azioni concrete, programmi, atti e oggetti misurabili; con-cretezza, senso del tempo e della possibilità reale di fare e agire.Pragmaticità operativa.23. Memoria: capacità di ricordare, trattenere e utilizzare no-mi, cifre, episodi ed esperienze passati; ritenzione, richiamo ariconoscimento di conoscenze di persone ed eventi (l'opposto èla dimenticanza).24. Fermezza (sicurezza di sé): saldezza e risolutezza nelle scel-te e nelle prese di posizione, rifiuto del dubbio e dell'incertezza;rigidità e stabilità di carattere, sentimenti e idee.25. Aspetto estetico: cura e importanza attribuita alla forma e al-l'apparenza fisica; eleganza e formalismo negli abiti, capelli, orna-menti e suppellettili (automobile, orologi); ricerca della bellezzapersonale.26. Stancabilità: facilità a subire cali di energia e di prestazione;sensazione di esaurimento di energia e fatica fisica e mentale;alternanza (alti e bassi) di tono fisico e psichico in tempi più brevidella media.27. Situazione famigliare: stato civile: nubile, scapolo, coniuga-

to, separato, divorziato, vedovo; con figli, senza figli; serenità fa-migliare o lutti e perdite subite.28. Campo di interessi mirato: ambito degli interessi, delle moti-vazioni professionali, famigliari e intellettuali degli hobby con-densato e concentrato su alcuni temi e spazi e non su altri (l ' op-posto è l'essere interessati a tutto).29. Scoraggiabilità (depressione): facilità a perdere coraggio e fi-ducia in ciò che si fa o si vorrebbe fare, predisposizione al timoree alla depressione; tendenza a "mollare", a cedere e rinunciare difronte agli ostacoli.30. Ordine: abitudine a imporre ai propri comportamenti e alleproprie cose personali un aspetto e un metodo rispettoso di rego-le e criteri; utilizzo pratico di priorità e di metodi stabiliti per agiresia nelle piccole cose che nel raggiungimento degli obiettivi.31. Coerenza personale: assenza di contraddizioni tra ciò che sidice, si pensa e si agisce; conformità tra principi e comportamen-ti; impegno a rispettare modelli e criteri sentiti come validi eimportanti (l'opposto è contraddirsi).32. Pessimismo: interpretazione negativa di persone ed eventi;sottolineatura di ciò che manca rispetto a ciò che c'è; privilegio.33. Buon gusto: attitudine a privilegiare oggetti e comportamen-ti esteticamente piacevoli, armoniosi, dotati di senso della misurae dei colori; cura dell'accostamento di abiti e arredamenti; sensodel bello e dell'artistico.34. Fiducia negli altri: atteggiamento di sicurezza e affidamentonei confronti delle altre persone; benevolenza e speranza nei com-portamenti altrui morali e corretti; rispetto che non richiede garan-zie anticipate.35. Cortesia: modo di fare intonato a gentilezza, educazione, affi-dabilità di modi e di parole; ricerca di mettere a proprio agiol'interlocutore; approccio aperto, amabile e garbato nei gesti enelle frasi.36. Incertezza, indecisione: esitazione, tendenza al dubbio e alleperplessità, possibilismo, ondeggiamento tra soluzioni diverse,senza riuscire a dare priorità; posticipazione di scelte e decisionial limite del possibile e oltre.37. Umiltà, modestia: consapevolezza dei propri limiti, reveren-za, sottomissione, rifiuto dell'orgoglio, della prosopopea, del farsiavanti; virtù religiosa, senso lucido dell'uguaglianza sociale maanche fuga dal confronto e regressione.

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140 L'ultimo scalino: dalla forma all'eccellenza

38. Equilibrio: stato emotivo di convivenza e conciliazione delleemozioni e delle reazioni a fatti e persone esterne, nonché calmae controllo interiore sulle sensazioni ed emozioni personali; recu-pero rapido di eventuali scosse emotive.39. Durezza: mancanza di elasticità, difesa dalla sensibilità o dal-l'emozione superficiale, rigidità, severità, rigore e, in senso dete-riore: asprezza, ostinazione, caparbietà.40. Responsabilità: farsi carico di compiti e azioni; prendersi l'im-pegno di agire in un certo modo nei confronti di qualcuno o diqualcosa; dichiararsi riferimento nel successo e nell'insuccesso;coinvolgersi verso tutti fino al raggiungimento dello scopo.41. Snobismo. affettazione e ricerca di distinzione nel comporta-mento e nel linguaggio; imitazione di modelli percepiti come piùalti (élite) o di successo; ricerca di apparire meglio di come ci sisente.42. Cinismo: modo di sentire e di comportarsi caratterizzato daindifferenza e rifiuto di qualsiasi ideale umano; aridità di reazioni;rifiuto delle emozioni; interpretazione delle situazioni in sensoesclusivamente utilitaristico.43. Pigrizia: rifiuto dell'azione immediata e dello sforzo; tenden-za a non agire, non impegnarsi, non partecipare; lentezza e ne-ghittosità; privilegio al proprio "comodo" e comunque a tutto ciòche è comodo, facile e senza fatica.44. Prudenza: atteggiamento rivolto a evitare inutili rischi, agen-do con cautela e assennatezza; considerata tecnologicamente unavirtù cardinale che distingue il bene dal male, nel comportamentoquotidiano si concreta in buon senso e attivazione delle difese.45. Lentezza di riflessi: assenza di sollecitudine, di prontezza edi velocità nel reagire alle situazioni e agli stimoli; ritmo di azio-ne inferiore al normale; scarso coinvolgimento di attenzione edemozioni.

5. Le carte da gioco del leader

Dalla terza ondata allo shock del futuro

Non si vince da soli, ma con gli altri e sugli altri. E non basta ancora.Giovanni Agnelli, naufrago su un'isola deserta, altro non è che unuomo interessante con delle belle mani; solo nel momento in cuiuna scialuppa guidata da uomini tocca la spiaggia, egli ridiventauna fra le persone più importanti del mondo occidentale. A unacondizione. Per spingere i marinai a salvarlo, è necessario che essi"riconoscano" non l'uomo Agnelli, ma il nome di Agnelli e lo inseri-scano nel loro scenario culturale, collegandolo alla realtà industria-le contemporanea. Senza quello scenario, il mitico Agnelli dovreb-be costringere le belle mani sui remi e implorare un passaggio incambio di prestazione d'opera. Non si vince dunque da soli, ma nonsi vince nemmeno se si è stonati rispetto allo scenario culturaledominante. Se Luciano Benetton avesse offerto i suoi golf "tin-ti-in-filo" alla regina Maria Antonietta, neppure il suo sguardo affa-scinante lo avrebbe salvato dalla condanna a morte; nella Franciadel Settecento, infatti, la moda elegante imponeva tessuti raffinati ela regina stessa controllava il lento avanzamento della confezionedei propri abiti. A Rita Levi Montalcini, che negli anni Trenta non sisposò per meglio dedicarsi agli studi di medicina, dissero che "erain anticipo sui tempi" e un velo di sospetto e sufficienza accom-pagnò per decenni la sua carriera, fino al premio Nobel del 1986,occasione in cui, all 'opposto, risultò il personaggio più festeggiato emoderno dell'illustre schieramento di premiati.

Al leader non è chiesto di concorrere al Nobel, né di rischiarela scure dei profeti o degli anticipatori. E chiesto, al contrario, divivere il suo tempo e di avere successo entro i confini dello stesso

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e dello spazio in cui agisce. Il che significa essere consapevoledella cultura e della civiltà dominante (non come cieco seguace opecora conforme, ma come interprete originale), ma soprattuttoriconoscere i segnali deboli della stessa per prepararsi a control-larli e utilizzarli non appena, favorevole il vento, essi si trasformi-no da segnali in segni e da segni in realtà.

Se la ricerca è sempre e comunque miglioramento e se l'at-tenzione è, sempre e comunque, base dell'intelligenza, il leader,che impegnandosi al massimo nella sua realtà operativa ne percor-re ogni tanto i confini, si informa e si prepara, legge articoli, racco-glie documentazione, riflette sull'evoluzione dello scenario, non fasolo manutenzione del presente ma costruisce concretamente ilsuo futuro. Lo costruisce attraverso aggiustamenti continui delcomportamento, delle difese e delle priorità: senza mai tradire sestesso né le sue scelte etiche civili fondamentali, ma esercitandoflessibilità e adattamento creativo. Come l'animale selvatico cam-bia il colore del pelo e delle piume per adattarsi all'ambiente, persopravvivere e cacciare, così egli cambia le capacità prioritarie sucui punta, lo stile di comportamento che risulti stonato o superato,certi modi di dire e certi modi di valutare.

Questo libro stesso, pur augurandosi di offrire un modello utileper gli anni attuali, è costruito in modo da proporre una pluralitàdi suggerimenti per ognuno dei concetti base che sviluppa. Noisiamo convinti che nel quadro delle coordinate per la costruzionedel proprio potere, fatte salve le regole fondamentali della mora-le, della proprietà e del rispetto delle persone, tutte le altre coor-dinate spicciole di comportamento possono e debbono subireadattamenti a seconda del carattere del leader, delle circostanzein cui si muove e del periodo sociale dominante.

Al contrario dell"uomo per tutte le stagioni" che rinuncia allasua identità per galleggiare nel mondo, noi vogliamo aiutare l'in-dividuo a rimanere se stesso in tutti gli scenari prossimi venturi.Perché, postindustriale o quaternaria che la si voglia chiamare, lavita degli anni Duemila sarà diversa, non tanto negli aspetti tecno-logici e produttivi e negli epifenomeni più evidenti, quanto neivalori e nelle categorie psicosociali che influenzeranno i compor-tamenti individuali e attraverso questi, costruiranno una societàumana, forse ancora divisa da confini politici e geografici, masempre meno differenziata, sempre più simile.

Già oggi i prodromi di questi mutamenti sono in atto e sono

riconoscibili nella vita quotidiana di ognuno di noi, se solo si èdisposti a dedicarvi attenzione. Chi non ha voglia di impegnarsinel prestarvi attenzione può ricorrere alla lettura di qualche sce-nario socio-culturale e trovarvi illustrati i processi sociali più evi-denti. In questo caso egli deve ricordare che ogni scenario nonpuò mai essere totalmente oggettivo perché rappresenta semprel'interpretazione o la speranza del suo autore e deve quindi venirletto e tradotto alla luce delle scelte di vita di chi lo ha costruito.

Anche La terza ondata di Alvin Toffler, pur rappresentando unodegli scenari più completi del Duemila a cui far riferimento, risentedella scelta ottimistica dell'autore e del buon umore acritico procu-ratogli dalla sicurezza di scrivere un secondo best-seller dopo Loshock del futuro. Dal momento però che la sua "practopia" (termineda egli stesso inventato accostando le parole di praticabile-utopia)si basa sulla conoscenza e sulla consultazione di un numero di testiassai maggiore di quelli da noi conosciuti, ci piace citarlo a confer-ma dell'indispensabilità di tenere d'occhio i margini del quadro,pur continuando a operare concretamente sullo specifico contin-gente. Ha scritto Toffler:

Ogni civiltà opera nella e sulla biosfera e riflette i rapporti tra la popola-zione e le risorse. Ogni civiltà ha una caratteristica tecnosfera: un siste-ma energetico collegato a un sistema produttivo che è a sua volta colle-gato a un sistema distributivo. Ogni civiltà ha una sociosfera costituitada istituzioni sociali tra loro collegate. Ogni società ha un'infosfera: icanali di comunicazione dai quali passano le informazioni necessarie.Ogni società ha una sfera del potere. Ogni civiltà, inoltre, ha un insie-me di relazioni caratteristiche con il mondo a esse esterno: di sfrutta-mento, di simbiosi, aggressive o pacifiche. E ogni civiltà ha una superi-deologia: un insieme di fondamentali ipotesi culturali che strutturanola sua visione della realtà e giustificano il suo modo di operare.Dopo la prima ondata della civiltà (fase agricola), dopo la seconda onda-ta (fase industriale), la terza ondata inizia ora a manifestarsi caratteriz-zata dalla dominanza delle attività di servizio e dell'informazione. Essanon rappresenta un'estensione lineare della società industriale, ma unradicale cambiamento di direzione, quasi una negazione del passato.Essa porta a una completa trasformazione, almeno altrettanto rivolu-zionaria per i giorni nostri di quella generata dalla civiltà industrialetrecento anni fa.

Dalla fine dello sviluppo del mercato alla nuova figura del prosumer

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Le carte da gioco del leader 145144 Le carte da gioco del leader

(produttore e consumatore contemporaneamente), dalla casa elet-tronica al lavoro a domicilio, dall'indifferenziazione dei sessi allademassificazione dei media, dal collasso del concetto di nazionealla nuova psicosfera, i segnali si incrociano e si accavallano unifica-ti dalla raccomandazione di non tralasciare mai la sintesi, che rima-ne la condizione fondamentale per non perdersi tra le proposte diuna cultura caratterizzata dalla superspecializzazione, sommersada dati frammentari e da analisi tanto più parziali quanto più detta-gliate. Noi, senza entrare in suggerimenti indiscreti e indisponenti,pensiamo indispensabile presentare, prima e a monte delle propo-ste per diventare leader, un quadro dei valori che influenzerannosignificativamente le modalità di concretarsi della realtà futura aseconda di come saranno vissuti.

Consapevolmente o inconsciamente, infatti, il comportamentoindividuale è sempre influenzato da codici di valore, poiché do-vunque esiste discrezionalità di azione, ivi interviene il condizio-namento etico.

Riconoscere le influenze esercitate dal proprio comportamentoda parte dell'ambiente esterno rappresenta dunque la garanzia mi-nima di salvaguardia al libero arbitrio che ognuno deve esigere persé e da sé, ma anche la qualità massima dell'esercizio della respon-sabilità del leader. Nessuna intelligenza artificiale, per quanto sem-pre più raffinata e acculturata divenga la sua programmazione, arri-verà mai alla sensibilità morale; potrà venir demandata alle macchi-ne la scelta di come agire tecnicamente nelle realtà umane e orga-nizzative prevedibili e scontate, ma rimarrà sempre compito e mis-sione esclusiva del leader la scelta del come giudicare e del comecomportarsi in situazioni che coinvolgano valori etici.

Scegliere valori per avere valore

Si definisce "etica" (dal termine greco ethos, comportamento) ladisciplina filosofica che studia il problema morale del comporta-mento umano in rapporto ai mezzi, ai fini e ai movimenti. Le duebranche principali dell'etica sono: la teoria del valore o assiologia,che concerne ciò che è bene e ciò che è male e la teoria del-l'obbligazione o della natura della giustizia morale, che concerneciò che è giusto e ciò che non lo è.

Fino a pochi anni fa questa componente del comportamentoumano era rimossa e ignorata dai codici culturali occidentali, qua-

si che la realtà moderna potesse essere guidata da morali pseu-doggettive, tecniche, economiche o biologiche e fosse in grado diprescindere da leggi finali e da doveri assoluti. Esclusi coloro cheper scelte personali accettavano e seguivano ideologie politiche omorali religiose, prima fra le quali quella della Chiesa cattolica, lamaggioranza di coloro che si dichiaravano laici si definiva amora-le o materialista o pragmatica e rifiutava schemi di valori assolutia guida del proprio agire. I giornali scrivevano della "morte diDio" come di un traguardo di civiltà, alcune filosofie sostenevanoche tutto ciò che si può fare è lecito. Ma il pendolo della coscienzaumana stava invertendo la sua corsa: dagli anni Ottanta a oggi ilbisogno etico si è venuto man mano esplicitando, imponendosiquasi di prepotenza tra i bisogni primari dello scenario sociale.

Si può uccidere per difendersi oppure no? Si può rifiutare unlavoro a un malato di Aids oppure no? Si può sperimentare suglianimali il trapianto di organi umani? Si può fuggire da una prigio-ne dove si è rinchiusi ingiustamente? Si può mentire per salvarela propria rispettabilità?

Le domande "etiche" martellano gli individui fin dalla scuolamedia, si propongono e si impongono a ogni passo, emergono dallecoscienze, fioriscono tra i fatti di cronaca, dalle notizie dei giornali.La scienza, la genetica, la tecnica, la biologia, l'informatica, la bioin-gegneria, aprendo nuove possibilità all'azione umana, superano iconfini del limite tradizionale: fino a dove si può andare? Come midevo comportare? Se lo chiedeva Platone nell'antica Grecia, se lochiedono i cittadini del mondo di oggi.

Tra gli insegnamenti universitari viene introdotta la materiadella bioetica, che tenta la ricerca di coerenze scientifiche e mora-li in ottica interdisciplinare. L'incertezza tuttavia è ancora grande,perfino il mondo accademico paventa di prendere posizione.

I filosofi contemporanei sono i più poveri di proposte in merito.Sergio Quinzio dichiara: "siamo di fronte all'assoluta impossibilitàdi fondare una nuova etica, perciò ne parliamo tanto e ne sentiamotanto la nostalgia. Forse si sono consumate tutte le possibilità delgenere umano". Gianni Vattimo, docente di filosofia teorica all'Uni-versità di Torino, propone l'etica del negativo: "non sono lo svilup-po e il progresso i cardini su cui far girare le nuove etiche; la vita èfatta di tante vite che si contrastano: anche il virus dell'Aids è vita.C'è una contraddizione tra vita biologica, che giustifica tutto pur diimporsi, e vita cosciente. Il confine della morale è perciò fare i conti

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con i propri aspetti negativi, sapersi dire di no; la morale è la seriedi limiti che poniamo ai nostri progetti biologici".

Salvatore Veca, docente di filosofia della politica, ha fondato un"laboratorio di etica", che ha come programma di riabilitare l'eti-ca contro le tentazioni dell'abbandono e del nichilismo per ragio-nare collettivamente sulle credenze, sui valori, sui temi della giu-stizia sociale. Il laboratorio ha sviluppato una ricerca su tre ipote-si di nuova morale: la prima riguarda tutte le questioni di ingegne-ria genetica; la seconda le minacce alle condizioni di vita stessa; laterza la sfida dell'ambiente e la questione della vita futura.

Lo studioso inglese Alasdair Macintyre conclude un suo librodi morale intitolato After virtue (Dopo la virtù) con la frase: "stia-mo aspettando, non Godot, ma un altro San Benedetto". In un'in-tervista don Innocenzo Gargano, benedettino camaldolese, stu-dioso dei padri della chiesa, dice: "malgrado e contro le ipocrisiedella morale laica e la rigidità di quelle religiose, bisogna ritrova-re un comportamento etico-morale inserito nel banale fluire deltempo e degli spazi quotidiani e tuttavia capace di conservare eannunziare valori tutt'altro che scontati".

La realtà industriale fin dalla sua nascita, quando era soltantoun modo economico nuovo di produrre, è rimasta agnostica eamorale, disinteressata ai problemi spirituali e psicologici. Ben-ché Adam Smith, il padre teorico della prima rivoluzione indu-striale, abbia scritto due libri intitolati l'uno Teoria dei sentimentimorali, del 1759, e l'altro Indagine sulla natura e le cause della ric-chezza delle nazioni, del 1776, egli viene citato e studiato ancoraoggi soprattutto per il secondo. Quando poi la civiltà industrialediffondendosi e affermandosi nel diciannovesimo e nel ventesi-mo secolo cominciò a produrre la sua cultura (modi di pensare, didire, di comunicare, di scrivere...), questa "etica degli affari" bensintetizza l'ideologia pragmatica di quella che Alvin Toffler chia-ma la Seconda Ondata della civiltà.

Come Blaise Pascal scrive che il cuore ha le sue ragioni che laragione non conosce, così l'industria ha per decenni ritenuto che,se proprio una morale era necessaria, la sua poteva prescinderedalle altre e autofondarsi sulle regole economiche e produttive.Oppure poteva, al massimo, spingersi a considerare come valorietici il profitto e la redistribuzione dello stesso; ma ciò facendosenza convinzione autonoma, sotto la spinta esterna della filosofiamarxista da un lato e della religione cattolica dall'altro.

È da poco che si comincia a parlare in Europa, in termini di studisociali ed economici, di una morale capitalistica o di un'etica delcapitalismo, intendendo per sistema capitalistico un sistema fonda-to sulla libertà in campo economico e sul rispetto dell'iniziativaindividuale e di gruppo. La novità viene accolta con sospetto dallacultura tradizionale e con prudente incertezza da quella più avanza-ta. Il libro di Michael Novak intitolato Lo spirito del capitalismodemocratico e il cristianesimo, è rimasto in Italia circondato dalsilenzio più totale. Nella doppia veste di teologo cattolico e di stu-dioso di economia politica, docente ad Harvard e Stanford, titolaredella cattedra di Religion and Public Policy all'American EnterpriseInstitute di Washington, Novak rappresenta un punto di riferimen-to dell'emergente teoria cristiana del capitalismo.

Malgrado prudenze e sussulti, più che legittimi se si considerala sua secolare tradizione di tipo pauperistico e popolare, la dottri-na sociale cattolica comincia a fare spazio alle interpretazioni po-sitive del capitalismo. E superata la cultura fideistica e radicaledegli scritti di Fanfani, Dossetti, La Pira, che nel Novecento soste-nevano: "l'essenza del capitalismo non ha del cattolicesimo che lapiù recisa avversione", o "non ci resta che ripetere che l'etica cat-tolica è anticapitalistica".

Ha scritto Angelo Tosato, professore del Pontificio istituto bi-blico di Roma, nella presentazione italiana del testo di Novak:

L'atteggiamento che emerge in questi ultimi anni nella dottrina socia-le cattolica è di tipo euristico, volto a una rivalutazione etica del capi-talismo. Consolidatasi la spiritualità laica, cresciuta nei laici la consa-pevolezza del proprio ruolo specifico nella comunità ecclesiale, resa-si man mano più manifesta la pratica insostituibilità del capitalismo(intesa come sistema economico che assicura benessere e sviluppoal massimo numero di persone nella società moderna) e chiaritesiman mano le condizioni per il suo funzionamento eticamente corret-to, pare molto sentita l'esigenza di passare da una sua acquisizionepratica a una sua, se pur critica, acquisizione teorica, e a tal fine ci siadopera con uno sforzo di ripensamento e ricerca.

Sull'onda di questi movimenti culturali e del contemporaneo recu-pero di valori individualistici, abbiamo cominciato a notare anchenei discorsi e nei documenti ecclesiali da una parte, e capitalisti dal-l'altra, i primi segni di riconoscimento al proposito. Come scriveFred Hirsch nel libro I limiti sociali allo sviluppo, sta diventando

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convincimento sempre più condiviso che: "l'assenza di un'esplicitagiustificazione morale e/o di obblighi morali specificati all'internodel sistema ne indebolisce l'efficienza operativa".

Noi interpretiamo questo ritorno-riscoperta come la miglioredimostrazione che sta avvenendo un salto di qualità che rappre-senta la vera e unica garanzia alla gestione positiva della nuovaciviltà, non solo perché riconquista la pienezza della statura uma-na in modo globale e armonioso, ma poiché si pone, tra l'altro,sullo stesso piano di coerenza e di potenza morale delle due cultu-re capitaliste più importanti del mondo contemporaneo: la giap-ponese e l'americana. Ognuna di esse, malgrado i pochi episodicontraddittori utilizzati in modo infantilmente scandalistico dallastampa mondiale, possiede e promulga una precisa etica capitali-sta, che interpreta i fenomeni relazionali e psicologici inferenti,afferenti o anche solo interferenti nel sociale e offre indicazionichiare sul modo in cui affrontarli in termini di comportamento.

Anche noi, in questo capitolo, tentiamo qualche sussurro etico,più per proporre la categoria comportamentale che per affrontarein modo esauriente l'argomento. Abbiamo suddiviso in tre parti gliaspetti di scenario valoriale comportamentistico che costituisconoil minimo futuribile per quell'individuo, il leader che vogliamo cosìcapace e realizzato da distribuire, attraverso il suo comportamento,qualità di lavoro e qualità di vita a sé e agli altri. E abbiamo metafo-ricamente rappresentato in un mazzo di carte le opzioni prescelte,suddividendole in carte buone, cattive e ambivalenti.

Le carte buone riguardano gli aspetti positivi che non contrasta-no l'agire da leader, ma lo facilitano e lo aiutano a migliorarsi. Lecarte definite negative descrivono gli aspetti nei quali neppure ilpiù ostinato ottimismo troverebbe motivi di speranza civile. Da essiè indispensabile difendersi, essere pronti a contrastarli, riconoscer-li prima di venire contaminati. Le carte ambivalenti radunano deifenomeni per se stessi indifferenti, che possono diventare negativio positivi a seconda della creatività e della forza morale con cui ven-gono affrontati. Sono le carte dei tentativi, della sperimentazione,della fatica intellettuale oppure della ricerca.

Dovendo porre un limite alla nostra elencazione, abbiamo sceltoconvenzionalmente il numero sette, senza nessuna altra ragioneche la nostra simpatia per una cifra rituale per eccellenza: settepositività, sette negatività e sette tentazioni. E ovvio che gli elemen-ti di uno scenario sono infiniti e comunque più di ventuno e che

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ogni lettore troverà mancante qualche aspetto che egli ritiene es-senziale. Il criterio che ha guidato la nostra selezione è stato quellodell'esperienza e della verifica sul campo: l'ipotesi dei ventuno sce-nari noi l'abbiamo posta nel 1986 nel nostro libro La felicità mana-geriale. Da allora abbiamo attivato un sistema di monitoraggio perverificare l'attendibilità della proposta. Forti dell'avverarsi, nel frat-tempo, di quanto il nostro scenario allora prevedeva, li analizziamo.

I comportamenti e gli atteggiamenti che vengono descritti quidi seguito appartengono sicuramente al futuro già cominciato,quel futuro in cui la maggior parte di noi si trova a vivere. Alcunidi essi si impongono da soli all'attenzione dell'osservatore piùdistratto, tanto sono diffusi e zampillanti, altri strisciano comedubbi o segnali deboli; è certo tuttavia che non si possono ignora-re, pena l'alienazione e l'insuccesso personali. Ma poiché sonoprocessi che si sviluppano senza campagne promozionali, quasitutti senza sponsor e senza reddito tangibile, rimane compito delpraticante leader l'occuparsene e il rifletterci.

Come detto, aumentano ogni giorno i segnali di sensibilità eticae di attenzione, ma nella maggior parte delle organizzazioni si èancora pronti a spendere denaro in tecnologia e ad adottare ilmodello più recente di personal computer, mentre viene ancoraritenuto un lusso intellettuale, quando non uno spreco, organizzareun seminario sugli atteggiamenti dei giovani verso il lavoro o perpreparare dei dirigenti a valutare bene e far crescere professional-mente i loro collaboratori nuovi. Così succede di sentire affermaredi anziani e affermati professori universitari che a loro non interes-sa il comportamento degli allievi nella vita sociale purché studino efrequentino la loro materia, la quale, essendo "scientifica", nondeve e non può essere inquinata da problemi comportamentali sog-gettivi. "L'economia" ha affermato pubblicamente un docente del-l'Università di Torino "è una scienza esatta. Io non mi sento respon-sabile di sensibilizzare i miei allievi sulla necessità ed eticità delrisparmio. Io devo insegnare loro che due più due è uguale a quat-tro e come si compila un bilancio aziendale".

Le sette carte positive

Gli scenari futuri preannunciano fenomeni che vengono ricono-sciuti come positivi anche dai futurologi più depressi. Dal momen-to che abbiamo definito l'etica lo studio del bene e del male, essa

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deve non solo affrontare e controllare le negatività valoriali, ma conmaggior impegno, anzi con più entusiasmo, deve appoggiare lapropria convinzione ai valori positivi emergenti (o ritornanti, e nonè qui il caso di discettare su quali di questi valori sono nuovi portatidel progresso e quali sono sempre esistiti e furono solo appannatidai cicli della storia), favorendoli e traendone vantaggio.

Il catastrofismo moderno che ha trovato il suo prototipo antesi-gnano ne I limiti dello sviluppo, il rapporto sponsorizzato e pubbli-cato all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso per conto delClub di Roma, utilizzando alcune intelligenze del MassachusettsInstitute of Technology, non ha avuto fortuna. E pur vero che alpensiero catastrofico va il merito di aver additato alla coscienzasociale alcuni problemi quali: la limitatezza delle risorse, i pericolidella sovrappopolazione, i danni crescenti dell'inquinamento delglobo; ma ciò che lo ha caratterizzato maggiormente e per questopenalizzato, è stata la visione totalmente negativa e pessimistica delfuturo, descritto e interpretato con toni privi di alternative. Questaingenuità imperdonabile è superata non solo dalla cultura scientifi-ca, ma anche dal buon senso del singolo: nessuna situazione uma-na è totalmente negativa o positiva. Nessuna situazione anche soloindirettamente umana (sia essa tecnica, biologica, fisica ecc.), èdeterminabile in modo preciso in tutti i suoi elementi. La teoria del-la causalità meccanicistica è superata, ormai, dalle nuove teorie delcaso e della casualità, che prevedono probabilità positive e negati-ve a seconda del contributo creativo e mirato dell'uomo. Il futurosarà quindi il prodotto del nostro comportamento presente, sia insenso globale che nella realtà operativa di ciascuno. Rispettando ilimiti convenzionali del numero magico che ci siamo imposti, ab-biamo scelto senza ordine di priorità alcuni valori positivi sui qualisi può costruire un comportamento concreto destinato, con altaprobabilità, a sviluppare consenso e quindi serenità d'ambiente,ma anche successo di risultati e quindi eccellenza sociale. Le cartepositive del mazzo del leader sono: il nuovo individualismo, l'offer-ta di imprenditività, l'accettazione della meritocrazia, l'aumentodelle opzioni, la reversibilità delle scelte, la dimensione ludica dellavoro e l'individuo a valore aggiunto. I primi tre valori discendono,in realtà, dall'unica radice rappresentata dal ritorno del concetto disé, come patrimonio essenziale di ognuno, senza la consapevolezzadel quale nessuna costruzione di personalità né di cultura è possi-bile e nessuna vera pienezza o felicità è assaporabile.

L'ideale dell'individuo autonomo in rapporto al gruppo di cui sce-glie liberamente di far parte affonda le sue radici nel pensiero gre-co, ritorna nel pensiero dei letterati del Rinascimento, si esalta nel-la filosofia di Rousseau, ma sparisce all'inizio del nostro secolo, cheappare nella sua prima metà dominato dalle idee freudiane e socia-liste-marxiste per le quali l'ambiente condiziona a tal punto il singo-lo, che questi non è responsabile del proprio comportamento.

Secondo Jean-Louis Servan-Schreiber, giornalista e scrittorefrancese, attento studioso dei segnali deboli di mutamento deicomportamenti umani, le due concezioni freudiana e marxista,pur dipingendo un individuo vulnerabile, impotente, che tendeunicamente a delegare all'esterno la responsabilità della propriaesistenza, hanno assolto una funzione sociale importante, ma so-no oggi completamente superate. Mentre la società occidentaledell'Ottocento era caratterizzata da una proporzione dominantedi poveri e di ignoranti, quella di oggi, pur non essendo costituitaunicamente da benestanti informati, gode di un livello generale diqualità della vita che consente alla maggioranza dei cittadini diassumersi consapevolmente la responsabilità della propria esi-stenza. "Sbrigatevela da soli", dirà sempre più spesso il sistemaalle persone, "siete abbastanza grandi e io non ho più i mezzi perrisolvere i vostri singoli problemi". Questa apparente condizionedi solitudine e abbandono è invece la manifestazione, secondoServan-Schreiber, di un progresso atteso da molto tempo: "il fattoche l'autonomia non sia più un privilegio riservato a pochi indivi-dui eccezionali, ma divenga una realtà accessibile alla maggiorparte delle persone deve essere considerato come un risultatodecisamente positivo della civiltà tecnologica occidentale".

Evviva l'individuo

Negli anni Ottanta del secolo scorso, soprattutto presso le grandiorganizzazioni, il metodo del lavoro di gruppo rappresentava l'ar-gomento centrale di ogni iniziativa per i lavoratori, l'unica soluzio-ne sicura per sostenere le scelte strutturali organizzative che privi-legiavano i comportamenti e i meccanismi plurimi in luogo dellesoluzioni individualistiche. Task forces, comitati, gruppi di lavoro,circoli della qualità, conventions, erano tutti strumenti organizzativiche ricercavano e si basavano su soluzioni corali. Anche la vitasociale esterna all'azienda manifestava netta preferenza per le scel-

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te di gruppo, preferenza a volte talmente irrazionale e ottusa dainnescare veri e propri processi di degenerazione, trasformando il"gruppo" in "mucchio" ed eccitando gli aspetti negativi del "viverein comunità". Le assemblee studentesche, più ancora di quelle sin-dacali, furono in quegli anni l'esemplare monumento della stupidi-tà e della fragilità dei meccanismi sociali gruppali.

Oggi l'intera società e tutti i modelli organizzativi di successorifocalizzano l'attenzione sulla persona singola, anziché sul gruppo,e sul suo contributo individuale. La società della conoscenza è unasocietà di individui che "conoscono", i cosiddetti knowledge wor-kers, e che sono consapevoli di dare un contributo non solo manua-le al loro compito, sia esso lavorativo, famigliare o di volontariato.

Vivremo in un mondo (già viviamo!) in cui gli studiosi più attentidicono che la capacità di autogestione, l'autostima e la fiducia in sée nella propria competenza sostituiscono i titoli di studio e le racco-mandazioni per fare carriera e rappresentano il talento-base dellariuscita in qualsiasi campo. La tecnologia stessa spinge in questadirezione: ci si incontra e si dialoga su Internet, anziché al bar. Leserate di giovani e adulti trascorrono modulate e isolate sul ticchet-tio del computer, la solitudine virtuale domina le famiglie e l'indi-viduo, riconsegnato a se stesso, alle proprie preferenze e scelte,deve imparare nuovamente a essere amico di se stesso, a darsi del-le regole e degli orari, a riconoscersi nel proprio specchio.

L'offerta di imprenditività

L'immagine ottocentesca dell'imprenditore (colui che assume l'ini-ziativa) si associava specularmente allo stereotipo del dipendenteconsiderato come esecutore operativo. L'inserimento di un terzoelemento organizzativo fra imprenditore ed esecutore, la dirigen-za, ha ormai cento anni di storia, ma non ha modificato l'appellativodi "esecutori" nei riguardi del 95% della forza lavorativa. Operai eimpiegati erano considerati forza manovale o intellettuale che ope-rava e doveva operare senza spazi discrezionali né possibilità diautonomia. La discrezionalità e l'iniziativa restavano strettamenteriservate agli imprenditori o, in loro sostituzione, ai dirigenti (pariall'1-2% della forza lavoro o, in minore misura, ai quadri intermedi(pari al 5-6% della forza lavoro). Il valore dell'individualismo, che hacome caratteristica il desiderio del singolo di non essere più consi-derato "uno della massa", cioè indistinguibile dagli altri, si inseri-

sce prima come una spina e poi come una proposta in questa strut-tura rigida e classista. Dopo la crisi degli anni Settanta e Ottanta delsecolo scorso, caratterizzata da una minoranza di lavoratori forte-mente controdipendenti nei confronti dell'azienda e da una mag-gioranza sostanzialmente indifferente ai richiami di collaborazio-ne, la situazione attuale vede la popolazione lavorativa di qualsiasigenere e livello unita nell'esprimere segnali nei quali è facile rico-noscere la disponibilità diffusa a recitare una parte attiva e nonantagonista al raggiungimento degli obiettivi dell'organizzazione.

Come l'imprenditore anche il lavoratore, qualunque sia l'ambitodi contributo operativo in cui agisce, vuole avere e prendere inizia-tive nell'interesse dell'organizzazione che riconosce come rappre-sentante del suo interesse personale. Questo atteggiamento "im-prenditivo", non alternativo a quello "imprenditoriale", trova oggile migliori condizioni per esplicitarsi. Domanda e offerta di intra-prendere fortunatamente coincidono. E stato inventato addiritturail termine prosumer per descrivere le figure del produttore-consu-matore e del fai-da-te che caratterizzeranno il comportamento digran parte dei lavoratori della civiltà del Duemila. Sia il prosumerche il bricoleur realizzeranno la loro imprenditività in occupazionisempre più flessibili, alcuni direttamente all'interno dell'organizza-zione per cui lavorano, altri privilegiando il tempo lavorativo parzia-le e occupando il tempo libero con attività produttive autonome.L'atteggiamento del leader nei riguardi dell'offerta di imprenditivi-tà è chiaro: prima di tutto deve realizzare e potenziare la propriadimensione imprenditiva, superando alibi e timidezze, proponen-do, insistendo, domandando spazi, discrezionalità e delega per sestesso. Contemporaneamente può e deve rispettare e coltivare i se-gnali di disponibilità dei collaboratori, sostenere quelli più portatial coinvolgimento, difenderli se necessario, controllarli sui risultatie accettare di crescere con loro in una sinergia competitiva nellaforma, ma consapevolmente collaborativa nella sostanza.

L'accettazione della meritocrazia

La terza positività, discendente dal ritorno del concetto del sécome valore positivo, riguarda l'accettazione della meritocrazia,intesa nel doppio significato della possibilità concessa a ogni per-sona di far valere i propri meriti e le proprie capacità nei confrontidel sistema in genere e delle altre persone in particolare e della

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possibilità riconosciuta al sistema stesso e alle sue forme istitu-zionali di esprimere giudizi di merito nei confronti delle personee del loro contributo. Esiste anche una meritocrazia perversa,basata esclusivamente sulla capacità di approfondire gli studi econquistare una specializzazione di alto livello, definita da qual-che studioso come la forma più moderna di solitudine e di osses-sione, un nuovo classismo interclassista.

Se fino a pochi anni fa il clan, la casta o l'appartenenza a ungruppo poteva garantire a un giovane una carriera o almeno unposto di lavoro sicuro, oggi a causa della meritocrazia ciò è diven-tato quasi impossibile. Leggiamo che gli studenti giapponesi pre-parano esami con metodi ossessivi e che le loro famiglie inizianoa spingere i loro figli fin dalle scuole elementari verso l'unico tra-guardo sociale significativo che è rappresentato dall'accettazionein un'università. Questo tipo di meritocrazia selettivo e parziale ri-schia di ricreare delle situazioni di ingiustizia sociale altrettantogravi di quelle che si voleva correggere con la sua introduzione.

Altra è la meritocrazia che. noi citiamo come positiva, intesa insenso aperto e forse ingenuo, rivolta a riconoscere e privilegiare ilcontributo globale dell'individuo: il suo comportamento e non solole sue competenze, la sua cultura e non solo le sue conoscenze, lasua volontà e non solo il voto di laurea, il suo sforzo e non solo lacapacità acquisitiva. Agli anni bui dell'uguaglianza obbligata, del-l'avanzamento uguale per tutti, del trattamento economico senzadifferenziazione, degli scatti automatici, dell'eliminazione di ogniforma di premio (e anche di punizione), sta subentrando l'epocadei valori opposti, dove si realizza la differenziazione retributiva,l'avanzamento di carriera e l'assegnazione dei premi sulla base deimeriti effettivi, l'eliminazione degli automatismi. Il tutto accompa-gnato, anche se ancora in modo limitato e non sempre accettatocon soddisfazione dai destinatari, dal tentativo di oggettivare lavalutazione e di renderla adattabile, flessibile, parametrabile, masoprattutto equa. Questa meritocrazia onesta e concreta rappre-senta la merce di scambio che le organizzazioni possono offrire alladisponibilità e al coinvolgimento della maggioranza dei lavoratori.

La conoscenza del valore del contributo che ciascuno pone inessere nell'ambito del proprio compito, permette la correlazionecon eventuali forme di gratificazione così da rendere la meritocra-zia non solo credibile e accettata, ma addirittura richiesta.

Si innesca così un circolo virtuoso di tipo positivo poiché più

;'individuo percepisce che il suo contributo viene apprezzato e;riconosciuto, più tende spontaneamente a migliorarlo e accre-scerlo, mentre il sistema, da parte sua, più riceve utilità dalle per-sone correttamente valutate, più è portato a raffinare e potenzia-re il suo sistema meritocratico e retributivo.

Possiamo tutto: l'aumento delle opzioni

Questa positività, semplice e concreta, non richiede lungo com-mento, perché si illustra da sola nella stessa esplicitazione del tito-lo. Il progresso, la tecnica, l'affluenza di beni rappresentano oggiuna molteplicità di offerte impensabile fino a pochi anni fa. Non sitratta più di scegliere tra "questo" o "quello", ma tra decine e più dioggetti, di servizi, di alternative, di strumenti, di suppellettili, dioccasioni. Il leader che sa ciò che vuole lo trova; è sufficiente che locerchi. Ma deve sapere esattamente ciò di cui ha bisogno. Se accet-ta la prima occasione, il primo prodotto, la prima alternativa, ri-schia di non ottimizzare i risultati che si attendono da lui. Le offerteprevalgono numericamente sulle domande. Le offerte di ieri pos-sono essere obsolete rispetto alle domande di oggi, ma le domandeili oggi sono superate dalle stesse offerte di oggi. Le opzioni pre-mono sempre di più sull'individuo, il quale per non rimanerne tra-volto deve sviluppare più che nel passato la sua capacità di diagnosie di confronto. Egli deve saper scegliere rapidamente.

Per opporre resistenza intelligente al prevalere dell'offerta euscire vincente dallo scontro/incontro con le proposte esogene econ le alternative numerose, l'individuo deve aumentare la suacultura e adeguare le sue conoscenze, crearsi canali di informa-zione privilegiati sugli argomenti che gli stanno più a cuore ededicare una cura speciale alla costruzione di una banca dati facil-mente consultabile. Così facendo, oltre a essere pronto a sceglie-re il meglio, aumenta e aggiorna la sua professionalità. Quandosceglierà, fra le tante, la proposta adatta, lo farà consapevole diciò cui rinuncia e delle ragioni che privilegia e ciò gli permetteràdi utilizzare al meglio qualunque situazione.

La reversibilità delle scelte

Questa positività si correla alla precedente per l'aspetto concretodella quantità delle possibilità a disposizione, mentre attinge al-l'etica della tolleranza e della libertà per l'aspetto psicologico del

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cambiare e correggere le scelte compiute. Reversibilità delle sceltevuol dire infatti che "si può ricominciare" sempre e su quasi tutti gliaspetti della propria vita. Sia che le cose vadano bene e si voglia far-le andare ancora meglio, sia che vadano male e si voglia cambiarneil corso.

Il cambiare lavoro, un tempo interpretato da alcuni come rico-noscimento di insuccesso, sarà sempre di più una dimostrazionedi energia, di curiosità, di valore professionale. Cambiare gusti,cambiare casa, cambiare Paese, cambiare alimentazione. Per undipendente cambiare organizzazione non sarà più colpevolizzan-te. Già esistono e aumenteranno ancora le aziende che riassumo-no dopo anni ex dipendenti licenziatisi per affrontare nuove espe-rienze. Verrà fortemente attenuata l'importanza del rapporto difedeltà all'azienda nel senso di continuità di dipendenza.

L'invito alla seconda carriera, al mutare ruolo, al passare da untipo di presentazione a un altro rappresenta un elemento di mobi-lizzazione sociale del quale economisti e studiosi del sociale vedo-no aspetti positivi e innovativi, benefici per la salute e la cultura diintere nazioni. Un dirigente che dichiarasse pubblicamente di vo-ler affrontare un'esperienza nuova e partire da zero perché stancodella routine del ruolo di vertice, non sarà, nel prossimo futuro,un'eccezione da guardare con sospetto o da giudicare con meravi-glia. Nel suo significato etico questa positività recupera la dimen-sione del rinascere continuo dello spirito, dell'uomo nuovo dentroall'uomo vecchio, della vita come strada che restituisce staturaumana a ogni esperienza vissuta con impegno e autenticità. Anchealle esperienze sbagliate. "Errare humanum est" dicono i ragazzinelle scuole studiando il latino, ma che sbagliare possa essere utile,così come la capacità di interrompersi, di correggersi, di chiederescusa e di farsi carico degli errori e ricominciare, lo avevano finoradetto in pochi. E invece è una novità incombente.

Il piacere del lavoro

Una decina di anni fa una ricerca Intermatrix, descrivendo i cin-que tipi di "cultura del lavoro" esistenti nel nostro Paese, avevasegnalato come quarta la cultura, destinata a diffondersi progres-sivamente e a prevalere sulle altre, quella definita "neo-strumen-tale", che interpretava il lavoro come occasione di autorealizzazio-ne e non solo più di sopravvivenza.

Qualche altra voce, inascoltata dai sociologi di sinistra e dallamaggioranza dei lavoratori, associava già in quegli anni al concet-to di qualità della vita e di qualità del lavoro, quello di qualità dellavoratore, che implicava un impegno dell'individuo al coinvolgi-mento diretto non solo sul piano dell'adattamento (per cui, aven-do bisogno di lavorare per vivere, fa il miglior viso possibile al gio-co che non dipende da lui), ma anche sul piano intellettuale di chi,dovendo lavorare per vivere, cerca di farlo in modo da non perde-re né qualità di vita né qualità personale.

Oggi il tema dell'autorealizzazione nel lavoro è condiviso da unnumero sempre maggiore di persone ed entra addirittura negliobiettivi morali delle organizzazioni più avanzate. È ancora fresconella nostra memoria lo sguardo di stupore con cui gli allievi deinostri corsi ci ascoltavano confermare che a noi piaceva lavorare eche lo facevamo volentieri, addirittura divertendoci. Ben prestosarà guardato con stupore e con un po' di compassione colui chegiocherà alla vittima, lamentandosi di ciò che deve fare per vivere.

Dietro i termini apparentemente futili di "dimensione ludica" sinasconde infatti la fiducia in sé e negli altri, il senso della propriadignità, la consapevolezza che solo chi si sente prigioniero è tale,perché l'interesse per ciò che si fa ("interesse", appunto, dal ver-bo latino "essere dentro", "essere nella cosa") non è dato dal-l'esterno ma proviene esclusivamente dall'atteggiamento menta-le di ognuno.

La vita a valore aggiunto

Fare "di più", "di meglio" e "di nuovo" è il percorso obbligato dichiunque persegua il successo personale e la produttività nelleorganizzazioni. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso iltema della produttività sembrava appartenere soltanto alle indu-strie manifatturiere e in particolare alla fabbrica, dove lavoravanooperai e il prodotto era fisico. Il fine della produttività era alloraquello di fare di più, soltanto di più, intensamente di più.

A quel tempo la produttività si definiva come "dare di più a pari-tà di risorse" e ignorando le altre risorse a disposizione dell'or-ganizzazione, l'unica di riferimento diventava la risorsa umana.Era facile quindi il collegamento con lo sfruttamento del lavorato-re. Oggi non si parla più di produttività ma di valore aggiunto. 1due termini non sono la stessa cosa, perché invece del solo "di

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più" oggi c'è anche il "meglio" e il "nuovo" e perché, pur rimanen-do l'individuo il punto di riferimento, il "di più", il "meglio" e il"nuovo" possono e devono derivare dall'utilizzo innovativo di al-tre risorse oltre quella umana: le informazioni, la tecnologia, ilmateriale, il denaro, lo spazio. L'obiettivo di questa nuova produt-tività collegata a processi non solo fisici ma anche e soprattuttointellettuali è l'aggiunta di valore al prodotto o al servizio, maanche all'individuo.

Oggi è tanto più importante lavorare a valore aggiunto ancheperché il tempo per lavorare si riduce sempre di più.

Ognuno di noi vive mediamente 650mila ore (anche se i fisiolo-gi ipotizzano per il futuro un essere umano da 1 milione di ore divita). Nell'ambito di questa considerevole entità oraria, il tempodi lavoro si riduce sempre di più fino a diventare un impegnosecondario e marginale anche se, dal punto di vista etico, essorimane il fulcro centrale dell'agire umano.

Il tempo di lavoro dipendente (quello del lavoro retribuito, iltempo lavorativo dell'operaio, dell'impiegato, del dirigente) inci-de infatti ormai per meno del 10% nella vita di una persona. Nel-l'età lavorativa (fra i venti e i sessant'anni di ogni essere umano) iltempo del lavoro dipendente ovviamente aumenta, ma non supe-ra che raramente l'incidenza del 20% (sono 1.760 ore circa di lavo-ro sulle 8.760 ore dell'anno solare) e non è difficile ipotizzare chenel Duemila tale percentuale diminuirà ulteriormente fino a valo-ri del 15%, pari a un carico annuale di circa 1.400 ore, corrispon-denti a una settimana lavorativa di 35 ore e a 40 settimane diimpegno annuale.

Se questo fenomeno di contrazione del tempo lavorativo nonpuò che far piacere alla singola persona e alla sua famiglia, esso sitrasforma in motivo prioritario di preoccupazione per quelle orga-nizzazioni che fondano il loro successo sul miglior utilizzo deltempo di presenza dei lavoratori dipendenti. Ciò non significafare karaoshi (termine giapponese traducibile con "superlavoro")perché di karaoshi si può anche morire. Altre economie lavoranoancora oggi con spirito di karaoshi: si pensi al Giappone, dove illavoratore dedica 2.000 ore del suo tempo attuale al lavoro (il 20%in più del lavoratore medio italiano) o agli Stati Uniti con le 1.900ore/anno o, peggio, alle 2.500 ore/anno dei lavoratori della Coreadel Sud, di Taiwan, della Malesia, delle Filippine, di Singapore.

j Di questi tempi e nelle condizioni politiche in cui si trova l'Ita -

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Zia, nessuno statista, studioso, industriale o uomo di partito, ose-rebbe proporre ai lavoratori di fare del karaoshi, cioè di lavorare10 ore al giorno (come un secolo fa) oppure sei giorni alla setti-mana oppure 50 settimane all'anno con 10 giorni di ferie. Per que-sta ragione vincerà chi saprà lavorare a valore aggiunto.

Le sette carte negative

Tra i fenomeni che, se non contrastati, abbasseranno il livellomorale e la qualità della vita dei prossimi anni, ve ne sono alcunida definire ad alto rischio in quanto, se lasciati diffondere senzavigilanza, possono deformare la convivenza umana in modo irre-parabile. Ne scegliamo sette, tra i tanti, che ci paiono rappresen-tare le carte nere del mazzo da gioco del leader: quelle da ricono-scere al primo sguardo, per difendersene e contrastarle.

Essi sono: l'abbassamento della soglia dell'illecito, la tentazio-ne della devianza, la ricchezza perversa, la spregiudicatezza adalto livello, il formarsi di nuove emarginazioni, la tendenza al tra-smodamento e l'indifferenziazione delle responsabilità sociali.

Le prime due enunciazioni sono molto vicine tra loro, così comela terza e la quarta. Ma preferiamo commentarle separatamenteper sottolinearne meglio la strisciante e sottile pericolosità.

L'illecito come quotidiano

Questa negatività potrebbe, da sola, essere definita l'Aids psicolo-gico del comportamento sociale. Essa descrive la tendenza a con-siderare flessibili verso il basso le norme morali, di qualunquemorale si tratti, per accettare come unico dogma l'opportunità, lacomodità, la convenienza della situazione.

È il caso che crea la regola e la regola è che "si può".Se invece di un paragrafo dovessimo dedicare un libro a questo

fattore etico, potremmo cominciare citandone come prodromi lamorte di Dio, l'indebolimento del super-Ego, l'amoralità di como-do e la paura della sofferenza. Potremmo poi lamentare il permis-sivismo educativo (con il simbolico e dannoso dottor Spock e lasua teoria della "pipì libera" a fronte del vasino persecutorio),l'assenza di modelli famigliari solidi e una pavidità diffusa nei con-fronti di scelte etiche rigorose.

Basta segnalare come sempre più gente venga condannata per

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piccoli reati e come la magistratura si trovi ad affrontare ciò che itecnici definiscono "un nuovo ciclo di illegalità", che richiede larubricazione di reati fino a ieri inesistenti e che coinvolge persone, ceti e ambienti tradizionalmente considerati come morali perantonomasia. La tentazione di considerare alcuni "scivolamenti"come eccezionali e, quindi di accettarli (o, peggio, perdonarli), èpressante ed è proprio questa negatività nei confronti della qualeil leader deve pensare in anticipo la linea di condotta da assume-re. Se non si pensa prima è quasi inevitabile che quando si troverà

I li 1 nella situazione concreta la soluzione di cedere appaia la più sem-i

lplice e la più semplificante.

Parliamo, infatti, di "abbassamento di soglia". Se si cede la primavolta, diventa poi molto difficile rialzare la norma ai livelli che pre-cedono l'eccezione e dal momento che, come abbiamo detto, sitratta quasi sempre di eventi di modesta portata, si corre perfino ilrischio del ridicolo e della peggiore, proprio perché piccina, vigliac-cheria. Così, senza assolutamente volerlo, l'individuo si rende con-nivente di una situazione che egli vorrebbe definire amorale, mache è, a tutti gli effetti, immorale perché illecita.

L'impiegato che sottrae una sigaretta dal pacchetto del collegaassente ruba o sottrae? Prendere diecimila lire da un portafoglioè meno grave che prenderne cinquantamila? Un furto da cento-mila lire si denuncia e un furto da dieci si rifonde direttamente?EimPrenditore che inquina solo per un certo periodo dell'anno, ilbancario che ricicla denaro sporco perché non vuole mettersi invista con denunce incerte, il viaggiatore che colleziona posacene-re e asciugamani degli alberghi dove sosta, sono ladri o no? Direalla segretaria che non si è in ufficio per una determinata personama per un'altra sì; negare di avere un'informazione, trasformareun messaggio senza prendersene la responsabilità, riferire comevera una frase che non è mai stata detta: è mentire o no?

La tentazione della devianza

Abbiamo detto che questa seconda negatività è conseguente oconcomitante al fenomeno precedente. Essa non riguarda il nu-cleo duro della criminalità vera e propria, ma la propensione, lacuriosità, lo scivolamento del comune cittadino verso comporta-menti devianti che, in mancanza di norme morali prescrittive eprecise, tendono a infiltrarsi nella normalità quotidiana dove, per -

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duta la parvenza di originalità, si rivelano ben presto in tutta laloro pericolosità non più umana.

"Se usate un coltello da macellaio, è consigliabile non colpirel'avversario con coltellate all'impazzata. La cosa da fare è primaatterrarlo, poi spaccargli la testa di netto". Questo consiglio è con-tenuto in un libretto giapponese, La scienza dell'assassinio, scrittoda Yoshihiro Fukumoto, sul modello dell'altro manuale del delitto,L'arte di uccidere, scritto dall'americano John Minnery, ex berrettoverde. "Uccidere è abominevole, ma imparare come si fa a uccide-re per proteggere la propria incolumità secondo noi è giusto" di-chiarò alla giornalista che lo intervistava Akira Kitagawa, l'editoredel libro. Comperava il libro chi non era tra coloro che potevanocorrere rischi di rapina o terrorismo, ma i giovani eccitati e incurio-siti dalla precisione tecnica delle spiegazioni e dei suggerimenti.

Se la tentazione è qualcosa che mescola insieme il danno e l'at-trazione e che si ripropone in modi più o meno subdoli nel corsodella quotidianità, la tentazione della devianza è in Italia un segnaleancora debole ma non per questo meno pericoloso. Con formemeno virulente del manuale giapponese dell'assassinio essa assu-me già la mistificante apparenza dell'ovvio.

L'esempio seguente, accaduto a noi personalmente, ci ha im-pressionato. In un albergo di Genova, uno dei più eleganti della cit-tà, nelle camere stile liberty con i letti di ottone e le caraffe di cri-stallo sui comodini, abbiamo trovato negli armadi bellissimi appen-diabiti di legno lucidato a cera con una frase intimidatoria scolpita afuoco su ciascuno che diceva: "rubato all'Hotel...". Come il furtodell'appendiabito, così il furto nel supermarket, l'accettare un rega-lo dopo aver fatto un favore, l'utilizzo eccezionale di droghe, ilcoprire una menzogna, il rendersi conniventi di una scorrettezza, ilfar finta di "non vedere" possono sembrare incidenti di percorsoapparentemente secondari; tuttavia, se ripetuti o accettati comeinevitabili, diventano scelte di comportamento corrotto che appan-nano l'integrità individuale e minano alla base quelle professionali-tà che, per loro natura, si pongono come esempio agli altri.

La ricchezza perversa

La negatività della ricchezza perversa si collega strettamente aquella della spregiudicatezza e non rappresenta un concetto nuo-vo nella cultura umana occidentale in quanto, dall'avvento del Cri-

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stianesimo in poi, la potenza e la ricchezza, essendo per loro natu-ra raggiungibili da minoranze ristrette, si prestano generalmentea essere considerate come ingiuste o non democratiche.

Non era così nell'antichità pagana e precristiana ove, al contra-rio, il favore degli dèi e il riconoscimento del valore si concretizza-vano in abbondanza di beni e di potenza. Senza entrare in valuta-zioni di merito sul vissuto storico del capitalismo, la negatività dicui ci occupiamo considera il pericolo di interpretare i concetti diricchezza e di potere esclusivamente nell'ottica dell'invidia, dellarivalsa e del sospetto. La tentazione è facile, in quanto ciò che èappannaggio di pochi, essendo invece ambìto da moltissimi, pro-duce una sofferenza che si placa soltanto nella sublimazione deldesiderio o nella colpevolizzazione della minoranza fortunata.

Il leader deve difendersi dall'interpretazione perversa della ric-chezza (intendendo con questo termine il possesso di quantitànotevoli di denaro o di beni, industriali o personali), sia per quantolo può coinvolgere come attore diretto che per le persone e la realtàcon cui si trova a interagire. Più importante diventa la sua posizio-ne, più è infatti probabile che egli stesso venga considerato riccodagli amici e dai colleghi; in tal caso tocca a lui prevedere le possi-bili interpretazioni del suo comportamento, evitando ingenuità ecautelandosi con costante e cristallina trasparenza.

Per quanto invece riguarda "i ricchi" con i quali il leader opera,collabora e tratta nell'ambito del suo lavoro e degli impegni socia-li collegati al lavoro stesso, è indispensabile che egli pesi il suogiudizio evitando di confondere le persone con le loro proprietà.La ricchezza e la potenza non sono sempre il prodotto di compor-tamenti scorretti e coloro che le possiedono non sono inevitabil-mente disonesti. È vero che molti ritengono che il denaro nonabbia morale, ma la nuova etica degli affari sta ergendosi in modopreciso contro questa affermazione.

La spregiudicatezza

La quarta negatività forma coppia con la terza, così come l'in-sieme della prima e della seconda completa il valore negativo del-l'abitudine all'illecita

Nell'ambito degli atteggiamenti verso la ricchezza e il potere,questa negatività riguarda il comportamento caratteristico di chi,non essendo ancora ricco e potente, considera quasi inevitabile

che coloro che vivono e operano in situazioni di vertice sociale eorganizzativo (industriali, economisti, politici) seguano codici diambiguità, di scarsa lealtà, di immoralità vera e propria.

+ Quando molte pagine di giornale vennero dedicate allo scandalodei "giovani leoni diWall StreeC, quei manager finanziari di succes-so che praticavano a loro favore l'insider trading, cioè l'utilizzo anti-cipato di conoscenze borsistiche che dovevano rimanere riservate,pochi si accorsero che il vero scandalo consisteva nel fatto chel'insider trading esisteva e veniva sovente praticato da aziende eorganizzazioni in buona salute economica e con integerrima imma-gine. "Ma perché lo fate?", chiedemmo in quei giorni a un dirigentecervello finanziario di una piccola e brillante multinazionale, "perguadagnare di più" fu la risposta.

"Ma è un'azione scorretta", obiettammo, "sì, ma al successonon si sa resistere", fu la risposta.

È di questo "di più" che rappresenta la tentazione negativa, enon solo in campo economico.

"Cara moglie", dice l'ex capo ufficio, marito fedele da un decen-mo, ma or ora nominato direttore di divisione, "tu devi capire: lafedeltà coniugale va bene per chi non è importante. Se voglio farvedere che sono adatto al ruolo, devo almeno separarmi da te. Imiei superiori sono tutti separati o vivono con l 'amante " .

Per l'individuo etico e con la coscienza serena cui sono dedicatiquesti sussurri di scenario, la quarta negatività suona in terminisimili a questi: se venissi a conoscenza di un'informazione riser-vata che potesse rendere molto denaro a me, come mi comporte-rei? Se in un viaggio all'estero il mio capo mi offrisse di andarecon lui a una festa dove probabilmente circolerà droga, come micomporterei? Se per ottenere una promozione o una posizionemolto più importante dell'attuale dovessi votare contro il mio mi-gliore amico oppure prendere il posto che egli merita più di me,come mi comporterei?

Le nuove emarginazioni

Chi non è produttivo è inutile, viene sentito come un peso socialeed è allontanato, ignorato, rifiutato. Chi non vince o non guada-gna non interessa, è superato; chi sta male e soffre, disturba edistrae, va nascosto e, se possibile, eliminato.

Questa negatività contiene crudeltà e rimozioni rivestite di razio-

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l'eutanasia dall'altro: l'emarginazione finale; l'entrata e l'uscita dallavita condizionate dal comodo del più forte, dalla viltà, dalla difesadel benessere personale.

Il trasmodamento

I ritmi accelerati dell'evoluzione tecnica e dell'informazione, laframmentazione del tempo di vita e la diminuzione dell'educa-zione all'autocontrollo accentuano e facilitano la tendenza all'esa-gerazione, alla dismisura, all'iperbole.

Il suicidio giovanile, per ora meno diffuso in Italia che in altriPaesi europei, è l'esempio estremo ma tipico di questo trasmoda-re: chi è infelice non piange, non soffre, preferisce uccidersi. Informa più quotidiana l'esagerazione sfiora l'esperienza di ciascu-no di noi: chi vuole dimagrire rinuncia alla dieta se non perde

1 subito cinque chili nella prima settimana; chi subisce sul lavorouna scenata ingiusta da parte del superiore pensa alle dimissionie si mette a cercare un altro posto, denunciando il superiore allenuove organizzazioni "antimobbing".

Uno degli aspetti più precisi del trasmodamento quotidiano èrappresentato dall'iperbole del linguaggio e dal turpiloquio, chedell'iperbole concreta è la parte più squallida. Il turpiloquio rac-chiude infatti, nella sua esplicitazione: violenza, esagerazione, vol-garità e aggressività in egual misura e rappresenta un 'offesa al-l'interlocutore e un imbrattamento dell'ambiente umano. Impensa-bile fino a vent'anni fa in ambienti sociali definiti borghesi o colti (sidiceva emblematicamente: "parla come uno scaricatore di porto",oppure "linguaggio da caserma" ), il turpiloquio si è enormementediffuso nel decennio trascorso. L'utilizzo di termini sconci e di inte-riezioni di carattere sessuale costituisce, per le personalità più de-boli e pavide, un'affermazione di libertà da schemi di buona educa-zione. Poche situazioni ci appaiono più penose dell'assistere a in-contri con dirigenti o funzionari d'alto grado che intercalano parolevolgari al loro eloquio per dimostrarsi moderni. Ma una cosa è cer-ta: non si diventa protagonisti con il turpiloquio.

L'indifferenza al sociale

Questa settima negatività è la più pericolosa, poiché discende daun'interpretazione distorta della democrazia.

"Il movimento egualitario prese l'avvio come richiesta di uguali

nale ipocrisia. Nel sociale assume forme a volte segnalate con scan-dalo dalle persone più sensibili, ma considerate quasi normali dallamaggioranza, altre volte osservate con ambivalenza e incertezza.

Alle emarginazioni più evidenti, appartengono le realtà dei por-tatori di handicap (sia fisici che mentali) e degli anziani. Uhan-dicappato è un peso che le organizzazioni sane sopportano comeuna seccatura inevitabile, per mettersi la coscienza a posto, occu-pandosene il meno possibile, "guardandolo" il meno possibile.

"Ma il centralino telefonico non era qui?", chiedemmo nel cor-so di una visita di lavoro alla palazzina uffici di un'azienda, la bel-lezza e la luminosità della cui sede venivano citate sulle riviste diarredamento. "Sì" ci risposero "ma adesso lo abbiamo fatto scen-dere nell'ex-cantina, così da trasformare in saletta questa stanza"."Come mai?". "Perché abbiamo dovuto assumere un telefonistacieco e dal momento che non ci vede...".

Anche la vecchiaia, un tempo onore e vanto delle civiltà piùsane, è considerata oggi una specie di piaga sociale.

Mentre da un lato la vita umana si allunga e si rinforza, rendendola terza età ogni giorno più energica e ricca di voglia e di possibilitàdi operare e coinvolgersi, dall'altro le istituzioni sociali non si dimo-strano molto disponibili a investimenti improduttivi come infra-strutture e organizzazioni specificamente destinate alla quarta età,quella finale e irrimediabilmente inattiva.

Ogni estate, ogni periodo di vacanza riporta alle pagine dei gior-nali e ai notiziari televisivi la notizia degli ospedali che si riempionodi finti ammalati anziani abbandonati dai figli e dai parenti, di vec-chi che muoiono di solitudine nelle città abbandonate.

Altre emarginazioni che riguardano tutto il sociale sono quelleche la cultura contemporanea esercita in modo crescente nei con-fronti dei malati e dei morenti. Considerando l'Aids una malattiatra le tante, la paura e la repulsione che essa desta è emblematicadi quello che vogliamo commentare. La malattia è affrontata inmodo scientifico ma irrazionale: si tenta di dimenticarla circon-dandola di orpelli; gli ospedali val bene farli, ma situati in campa-gna o in luoghi dove non disturbino la vista; i medicamenti più dif-fusi sono quelli che, anziché guarire, eliminano la sofferenza.

L'eutanasia è la risposta più pericolosa in questo quadro di sem-plificazione amorale. Anticipare la morte, programmarla, offrirlacome un atto di amore, rappresenta la realizzazione dell'emargi-nazione assoluta. L'aborto da un lato: l'emarginazione a monte;

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opportunità di partenza e in questo senso ha conseguito giustisuccessi", ha osservato il sociologo Luciano Gallino. "Ma in modostraordinariamente rapido si è poi trasformato, in pochi lustri, inuna richiesta generalizzata di status, di condizioni di lavoro e divita in tutti i campi " .

"La partecipazione permanente di tutti a tutto è di fatto sinoni-mo di immobilità totale" ha scritto Ralph Dahrendorf ne La liber-tà che cambia.

L'interpretazione distorta della democrazia può incidere nega-tivamente sull'azione personale, perché si pone come contraddit-toria rispetto ai valori emergenti di tipo positivo, dell'individua-lismo e dell'imprenditività, dei quali abbiamo già detto nei para-grafi precedenti. E necessario che il leader la riconosca come ten-denza distruttiva per contrastarne l'influenza nel suo ambiente eper promuovere invece l'assunzione consapevole di responsabili-tà. L'assunto da cui si sviluppa quest'ultima negatività è il seguen-te: se tutti sono concettualmente responsabili di tutto, accade chedi fatto tutti sono irresponsabili di tutto. Se la città è di tutti, per-ché devo io raccogliere le carte per terra se a me non importa?Oppure, se è mia, perché non devo vuotare il posacenere dellamia auto sul marciapiede? Se uno scippatore colpisce un passan-te, gli strappa il portafoglio e fugge tra la folla perché o in nome dicosa devo essere proprio io a gettarmi al suo inseguimento o asollevare il colpito e offrirgli un caffè? Se accade un incidente inautostrada e qualcuno invoca a grandi gesti un passaggio per unferito, perché mai devo sporcare di sangue le fodere della miaauto e rinunciare all'appuntamento di lavoro verso cui sto andan-do? Se l'azienda è di tutti, perché devo essere io a spegnere le luciinutili o a rispondere a un telefono che suona in un ufficio vuoto?Il disordine diffuso, l'indifferenza latente, il qualunquismo di-stratto sono i segni della deresponsabilità sociale, i precursoripericolosissimi di una possibile civiltà incivile.

Le sette carte ambivalenti

Restano ancora sette fondali allo scenario che stiamo sfogliando,sette carte nel mazzo da gioco del leader. Sono quelle che abbiamodefinito come ambivalenti in quanto preannunciano situazioni diper sé apparentemente senza segno algebrico, ma destinate a tra-mutarsi in positività o negatività secondo l'atteggiamento di chi li

L'impersonalità della scienza e della tecnica

La prima ambivalenza è rappresentata dalla cosiddetta " imperso-nalità della tecnica", che si può in qualche modo collegare al pro-blema dell'amoralità della scienza, in quanto esamina la tendenzaa considerare la tecnica e i suoi prodotti come un qualcosa che,una volta posto in essere, può esistere e prescindere dal contribu-to umano e dal fine umano del suo utilizzo. La tentazione di pensa-re che la tecnica e la scienza esistono "in se stesse" e quindi van-no subite e rispettate, rappresenta una pericolosa deformazionematerialista. "Se i progressi tecnici, soprattutto quelli generalizza-ti, continueranno a essere sopravvalutati, la loro impersonalità e illoro anonimato diventeranno distruttivi per la società", sostiene ilsociologo Franco Ferrarotti parlando del futuro; si registrerà unacrisi della testimonianza e della presenza responsabile. Già oggil'individuo in difficoltà non sa a chi rivolgersi: cerca un viso e glivengono incontro delle sigle.

La specializzazione esasperata, anziché rassicurare, produce an-goscia e solitudine in chi ne fruisce. L'esempio della medicina èemblematico: scomparsa la figura del dottore che curava il malatocome individuo, conoscendone l'anamnesi e rispettandone la psico-logia, sono subentrati oggi gli specialisti delle diverse parti del cor-po, ognuno dei quali, con raffinatissimi strumenti e medicamenti,

affronta. Se un leader deciso e ottimista sa esercitarsi a mutare ivincoli in opportunità, avrà a suo favore, nel quadro valoriale pre-sentato in questo capitolo, quattordici fenomeni positivi contro set-te negativi. Se invece preferisce non prendere posizione, è facile

rt prevedere che i fenomeni negativi a suo svantaggio diventerannoquattordici. L'ottimismo attivo è infatti una delle chiavi del succes-so umano in qualunque campo. Abbiamo già affrontato questo con-cetto, ma fin d'ora è utile anticipare che non abbiamo mai conosciu-to leader eccellente che non fosse ottimista o, per essere più preci-si, che non avesse deciso di essere ottimista. Le componenti del-l'ottimismo sono la speranza, la fiducia e il senso del rischio; a chepro, infatti, un pessimista produrrebbe un'idea innovatrice quando"sa già che non servirà?". L'ottimismo a volte è perdente, a volte èvincente, ma il pessimismo è sempre perdente. Un vero pessimistanon legge gli scenari perché pensa che non serva anticipare le diffi-coltà e la preparazione ad affrontarle.

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si rende esclusivamente responsabile di un contributo parziale especifico che ignora l'equilibrio globale del paziente e, anzi, lo dan-neggia non di rado in altre parti.

Anche la burocrazia degli enti pubblici rappresenta una formadi impersonalità della tecnica. Negli uffici del futuro, quando tuttigli uscieri, le segretarie e gli addetti alle informazioni sarannosostituiti da terminali con cui dialogare, l'utente camminerà percorridoi deserti, si avvicinerà a sportelli vuoti mostrando un tes-serino magnetico, consapevole di esistere come codice e comenumero, ma non come persona vestita in un certo modo e dotatadi un certo sorriso. La scienza e la tecnica, pur impersonali eobiettive in quanto casuali, non sono mai al di fuori dei concetti dibene e di male perché, nel momento stesso in cui vengono utiliz-zate, lo scopo dell'uso determina il loro valore etico.

Il protagonista attento allo scenario, soprattutto se proviene dastudi ed esperienza deterministica e tecnica, deve salvaguardare lapropria capacità critica, utilizzando scienza e tecnica con lucidodistacco, controllandone limiti e pericoli, sfruttandone i vantaggisenza alcuna timidezza e controllando attentamente le situazioniper bloccarle appena lo ritenga opportuno. Egli rifiuta di sentirsi insoggezione nei confronti di oggetti o risultati che restano solo deimezzi; se ne serve con libertà critica, se necessario prescindendo-ne. Come sa che il suo personal computer non è un "amico" e nep-pure un " interlocutore" , ma soltanto un "servo sciocco ", squisita-mente veloce e con buona memoria, così non dimentica in alcunmomento che la sua responsabilità primaria è di dare risultati orga-nizzativi, nel rispetto delle persone umane che lo circondano e deivalori che garantiscono l'esistenza della società nel suo insieme.

"Il fatto che si possano effettuare trapianti di organi umani suanimali o che si possano realizzare incroci genetici di ogni tipo,non significa di per sé che sia giusto farli" ha affermato il premioNobel Rita Levi Montalcini. Non tutto ciò che si può fare è da fare.In questo consiste la moralità umana.

L'illusione del villaggio globale

t stato Marshall McLuhan a ipotizzare il "villaggio globale", rife-rendosi alla diffusione dell'informazione e alle possibilità elettro-niche e televisive di annullare distanze e differenze di luogo e dilingua. Tutti sapranno tutto e nello stesso momento. Tutti acqui -

steranno le stesse cose e le riceveranno a casa in qualunque luo-go del mondo. Proprio come in un villaggio, con la differenza chei contatti tra le persone potranno non essere più necessari. Giàoggi viviamo per anni in un appartamento senza bisogno di sape-re chi abita due piani sopra o sotto di noi; comperiamo al super-market senza riconoscere un solo commesso e ci curiamo a pez-zetti, incontrando medici e specialisti diversi di cui ci è difficilericordare i nomi. La logica del formicaio incombe sull'illusionedel villaggio globale.

Il leader per cui scriviamo godrà i vantaggi del villaggio globa-le, ma dovrà salvaguardare con testarda programmazione una

f rete di rapporti umani e sociali che lo aiutino a conservare la suaN dimensione relazionale. Tanto per esemplificare, esigerà che il

televisore non sia nella stanza dove pranza con la famiglia, che levacanze e le serate libere non vengano trascorse con colleghi dilavoro.

Nelle organizzazioni l'illusione del villaggio globale opera de-formando il clima umano, il quale appare a prima vista cordiale ecomunitario, in quanto le persone si vestono allo stesso modo, silamentano delle stesse cose, consumano gli stessi cibi usando lestesse posate. Ma la spersonalizzazione sostanziale dei rapportipuò essere nascosta immediatamente sotto la crosta dell'identicointerloquire. Quante volte nel nostro lavoro di docenti siamo col-piti dal fatto che gruppi di dirigenti che trascorrono nella stessaaula, seduti agli stessi tavoli, giornate intere di lavoro e di studio,non si curano di imparare i nomi dei colleghi e di identificarlicome persone oltre che come ruoli?

"Come ha detto il collega che mi ha preceduto...", cominciòuno di questi, presentando il lavoro del suo gruppo, nel corso del-la quarta giornata di seminario. "Come si chiama il collega chel'ha preceduta?" chiedemmo (l'aula era provvista di cartellini coni cognomi davanti a ciascuno dei partecipanti). "È il direttore diproduzione dello stabilimento di Caserta" fu la risposta. Avrebbepotuto aggiungere che era un ingegnere, che dirigeva settecentooperai e centoquaranta impiegati, che possedeva un'Alfa blu... mail nome gli sfuggiva! Tutti gli aspetti spersonalizzanti erano staticolti, ma non quelli originali, unici, umani, che avrebbero potutotrasformare un anonimo collega in un possibile amico.

Non basta istituzionalizzare il "tu" e rendere obbligatorio l'usodel nome di battesimo, per costruire una comunità ove le persone si

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sentano riconosciute e apprezzate per loro stesse e non solo per illavoro che svolgono. Il leader deve spingere più a fondo il suomodo di abitare il villaggio senza diventare indiscreto né dedicaretempo inutile a confidenze dispersive, deve costruire legami diriconoscimento umano intorno a sé. Chi si sente riconosciuto siimpegna più facilmente e tende a identificarsi con l'ambiente di cuisi sa parte significativa. Ci sembra quasi inutile precisare che ilriconoscimento, per essere umano, deve essere interessato e mira-to alla persona e non al ruolo: conoscere il voto di laurea di qualcu-no resterà sempre meno importante del sapere se costui ha deifigli, che cosa ama leggere e per quale squadra parteggia.

L'immateriale

Questo fattore di ambivalenza si collega all'illusione del villaggioglobale e ne rappresenta una derivazione che tocca la realtà socia-le attraverso le aspettative, le richieste e le reazioni degli indivi-dui. Se il benessere crescente nel mondo occidentale continueràa diffondersi e a confermarsi, si accentuerà l'influenza dei bisogniimmateriali sui comportamenti di consumo. Questo fatto, appa-rente segno di libertà dal bisogno e di intelligenza originale, ten-derà invece a concretarsi in una fittizietà di aspirazioni, nonchénell'ubbidienza acritica a un conformismo di massa, la cui pres-sione psicologica viene già ora accentuata dalla diffusività deimezzi di informazione.

Gli status symbol continueranno a esistere, svolgendo la loroutile funzione di unificazione interclassista ma, dal momento chenon si riferiranno più a livelli sociali diversi, ma a ruoli, soddisfe-ranno questo bisogno ambivalente di rappresentazione e rappre-sentatività che, se controllato, può essere vissuto in modo creati-vo e divertente. Mantenere un distacco intellettuale dalle scarpeNike ci pare indispensabile dal punto di vista sociale, ma usarleperché sono comode e durevoli ci pare rappresentare una provadi libertà altrettanto indispensabile.

Il big-bang dell'informazione

Si affoga nell'informazione e si muore di fame di conoscenza. "Labomba dell'informazione sta esplodendo in mezzo a noi", confer-ma Alvin Toffler, seppellendoci sotto una pioggia di immagini e

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modificando profondamente il modo in cui ciascuno di noi perce-pisce e agisce nel suo mondo personale. E scrive:

Nel passaggio dall'infosfera della seconda a quella della terza ondataanche la nostra psiche sta subendo una trasformazione. Man mano chenelle società si accelera il processo di cambiamento, si determinaun'accelerazione di tale processo anche in noi. Noi veniamo raggiunticontinuamente da informazioni nuove e siamo costretti a rivedere con-tinuamente il nostro archivio di immagini a un ritmo sempre più velo-ce. La nostra mente si internetizza, il linguaggio si informatizza, l'oc-chio e il dito si adattano a segnali ogni giorno diversi. Nuove idee, opi-nioni e modi di pensare balzano di colpo alla nostra attenzione, sonooggetto della nostra valutazione, vengono sottoposti a verifica e poisvaniscono immediatamente nel nulla. Ogni giorno teorie scientifichee psicologiche sono demolite e sostituite da altre. Le ideologie si sfal-dano, le celebrità attraversano fugacemente la nostra mente. Sloganpolitici e morali contraddittori ci assalgono da tutte le parti.È difficile dare un senso a questa vertiginosa fantasmagoria e com-prendere esattamente come stia cambiando il processo di formazio-ne delle immagini. La terza ondata non si limita infatti ad accelerare iflussi delle informazioni di cui siamo oggetto, ma modifica profonda-mente anche la struttura delle informazioni dalle quali dipendono lenostre azioni quotidiane.

Anche nel lavoro gli stimoli culturali sono continuamente spacca-ti in due: da un lato preme l'abbondanza pressante di notizie econoscenze specifiche sempre più indispensabili allo svolgersi diqualsiasi ruolo di responsabilità; ma dall'altro si acuisce e pungela riscoperta della conoscenza come fonte di riflessione e acquisi-zione profonda, indispensabile all'equilibrio umano.

Già oggi, il ritorno dell'interesse per la cultura umanistica co-stituisce una realtà sociale pressante e l'aumento della domandadi fruizione di beni culturali impone scelte politiche inaspettate; imusei e le mostre sono molto frequentati come i cinematografi.Sembra quasi che, più il rimbombo dell'informazione di consumosi fa violento e rapido, più viene percepito come vitale il bisognodi conoscenza "qualitativamente durevole".

Questo segnale di riscoperta del gusto culturale, storico, esteti-co, alza il livello intellettuale delle persone e impone al protagoni-sta di trovare il tempo per la lettura di libri non tecnici per mante-nere viva la propria riflessione intellettuale, dal momento che

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anche la dimensione culturale diventa elemento integrante dellaprofessionalità.

La ricerca del limite

Questa quinta ambivalenza costituisce il possibile risvolto positivodella già commentata negatività dell'abbassamento della soglia del-l'illecito. Deriva infatti dal comportamento evolutivo della tecnica,per la quale tutto ciò che oggi rappresenta il limite di uno strumen-to o di una situazione diventa di per se stesso la sfida da superare.L'esagerazione di alcune mode nell'abbigliamento, nella pettinatu-ra e nella coloritura o gommatura dei capelli, nella ginnastica e nel-lo sport (dal canyoing al jumping), nell'alimentazione e più grave-mente, la sperimentazione della droga, la velocità in motocicletta ein automobile, l'accumulazione di fatica e di stress, costituisconol'aspetto deteriore di questo fenomeno nei suoi riferimenti al com-portamento umano. La sfida al razionale in senso avventuroso,creativo, sportivo e tecnico ne costituisce invece l'aspetto positivo.Se non avessero ricercato continuamente il loro limite Hillary eTentsing non avrebbero vinto l'Everest. Ma nel 1996, nove alpini-sti-turisti di spedizioni commerciali diverse, morirono inutilmentesulla via del ritorno dalla cima più alta del mondo. Avevano supera-to il loro limite. Se questa ambivalenza vuole essere sfruttata dal"protagonista" in senso positivo, deve essere utilizzata come incita-

mento a tentare sempre qualcosa di nuovo. La parola "practopia" ,che significa "praticabile utopia", descrive bene il comportamentoche consideriamo esemplare in questo campo. Se la realtà è in con-tinuo divenire, quindi in continuo cambiamento, il protagonistadeve spingere ogni situazione verso un limite di miglioramento,senza deformare eccessivamente gli equilibri esistenti, ma senzamai accontentarsi. Qualunque prestazione umana può essere ag-giustata e spostata, i tempi e le quantità dell'agire umano sono dina-mici e flessibili. L'unico limite fisso è quello etico: tutto il resto èdivenire e può essere miglioramento. Scrive Goethe nel Faust:"chiunque tenta infaticabilmente, speri nella redenzione".

La frammentazione del tempo

La vita contemporanea, diventando sempre più ricca di possibilità ecreando ogni giorno nuovi desideri e bisogni, satura il tempo degliindividui più vivaci e tritura crudelmente quello delle persone sen -

za volontà. La città moderna è definita "una Gorgone insonne", unmostro dagli innumerevoli occhi, braccia e tentacoli, senza maiquiete. La civiltà del futuro rifiuterà, per scelta oltre che per neces-sità, la suddivisione del tempo in occupazioni categorizzabili perorario; la quantità del lavoro notturno pareggerà quella del lavorodiurno, la prestazione lavorativa di otto ore sarà praticata da unnumero di persone pari (se non minore) a quanti si impegnerannoin occupazioni part-time o con orari flessibili; il lavoro a domicilio sistaccherà dalle misurazioni quantitative di tempo per frantumarsisecondo le esigenze e le preferenze singole. Il tempo rimarrà comemisura concettuale indispensabile negli aspetti scientifici, com-merciali, pianificatori e programmatori della vita, ma si attenueràsempre di più negli aspetti del contributo umano. La sua gestioneverrà affidata alla discrezionalità del singolo e gli elementi psicolo-gici riprenderanno il sopravvento nel definire i contributi degli indi-vidui spontaneamente lenti o pigri e di quelli ansiosi o rapidi. E pro-babile che, come già oggi avviene, la pluralità degli stimoli spingala maggioranza delle persone verso l'adeguamento passivo a unafretta quasi meccanica.

Il senso della premura prevale infatti nel modo di vivere quoti-diano: alzarsi in fretta, spostarsi in fretta, giocare a tennis nell'oradestinata al pranzo, studiare lingue in metropolitana, pranzare dicorsa per non perdere lo spettacolo, per lavorare altre due ore,per telefonare di più. Le distanze si allungano, anche perché men-talmente non costituiscono più un ostacolo, ma fisicamente im-pongono ritmi e dislocazioni continui.

Mai come nel prossimo futuro la tentazione dell'alienazione(altro da sé, altrove da sé) sarà presente nella vita quotidiana.L'unico modo di contrastarla risiede nel praticare con testardacostanza e pignoleria il controllo ragionato della distribuzione delproprio tempo di vita. Programmare bene la propria vita privata,la propria vita sociale e quella professionale rappresenta infattiper il leader l'unica possibilità di salvaguardare l'identità persona-le e familiare senza rinunciare alle opportunità di una civiltà sti-molante ma frammentaria e massificante.

Lo spostamento delle virtù

L'ultima ambivalenza è intitolata allo spostamento delle virtù.Dodicimila sono state le persone intervistate sul tema dal pro-