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I SENSI DEL TESTO N. 6 Collana di critica e storiografia letteraria diretta da Fausto Curi
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E. Tatasciore, "Di ombre e cose salde. Studio su Montale", Mimesis, Milano-Udine 2015

Mar 04, 2023

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I SENSI DEL TESTO

N. 6

Collana di critica e storiografia letteraria diretta da Fausto Curi

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I sensi del testo

Enrico TaTasciorE

DI OMBRE E COSE SALDE

Studio su Montale

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) [email protected]

Collana: I sensi del testo n. 6Isbn: 9788857528403

© 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383Fax: +39 02 89403935

In copertina: Paul Cézanne, Bagnanti (particolare), 1874-75, New York, Metropolitan Museum of Art.

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INDICE

Premessa 9Edizioni e sigle 11

PARTE PRIMAL’ombra di un poeta: Pascoli e Montale

1. Figure del Nemico. Baudelaire, Pascoli, Montale 15

2. Pascoli nel mottetto dell’acacia ferita 47

3. Voci smarrite, voci soffocate. Un Pascoli di Montale 57

4. Ulisse e il «fanciulletto padrone». Montale e i Poemi conviviali 95

PARTE SECONDAOmbre, cose salde:

resistenza e dissoluzione della memoria

1. La lotta con la memoria. Tempi e figure di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ 121

2. Situazioni purgatoriali in Voce giunta con le folaghe 161

3. Montale e il Fedone 199

Indice dei nomi 233

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ai miei genitori

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PREMESSA

Le due parti in cui si divide il libro fanno capo a due grandi filo-ni della ricerca su Montale: i rapporti con la poesia di Pascoli e il motivo della memoria. Dentro questi temi si sono ritagliati cam-pi d’interesse ben definiti, in costante dialogo con la complessa vastità dell’opera montaliana. Punto di partenza sono stati i testi, sia che si trattasse di cogliere dietro i versi di Montale lo spettro di una configurazione ritmica, fonica, semantica della poesia di Pascoli, sia che l’analisi si concentrasse sulla costruzione e il si-gnificato di singoli componimenti quali ‘Ezekiel saw the Wheel…’ e Voce giunta con le folaghe, o sui loro riferimenti culturali.

«Trattando l’ombre come cosa salda»: il verso di Dante, cui il titolo si richiama, non si adatta soltanto ai temi del libro, ma vuo-le essere anche un rinvio alla sua ragione più profonda: l’avventu-ra del comprendere, dell’ascoltare i testi, di far sì che essi parlino e ci parlino. Lette in un certo modo, le parole di Stazio a Virgilio hanno avuto per noi il valore di un talismano, di fronte agli inter-rogativi che accompagnano ogni ricerca.

Quando un testo ha la possibilità di parlare? E qual è il nostro ruolo, o compito, davanti ad esso? A Virgilio Stazio dice:

Or puoi la quantitatecomprender dell’amor ch’a te mi scalda,quand’io dismento nostra vanitatetrattando l’ombre come cosa salda.

Si era chinato, Stazio, ad abbracciargli i piedi dopo averlo ri-conosciuto per suo maestro, e Virgilio, amorevolmente, lo aveva trattenuto:

non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi.

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10 Di ombre e cose salde

Ombra? Cosa salda? Senza «amore» i testi letterari rimangono materia inerte, inconsistente, immersa in un silenzio opaco. Per-ché parlino, il critico – ma prima di lui il Lettore – ha bisogno di trattare «l’ombre come cosa salda». Al di fuori di questo sforzo, o necessaria pretesa, un senso non si dà.

agosto 2014

Alcuni temi del libro sono stati parzialmente affrontati in saggi pub-blicati su «Soglie» (2005, n. 3; 2007, n. 1; 2008, n. 3; 2011, n. 3) e su «Italia-nistica» (2006, n. 2), ma sono qui ampiamente ripensati e approfonditi.

Desidero ringraziare Elena Salibra e Niva Lorenzini per la sollecitu-dine con cui mi hanno seguito in questi anni di ricerche montaliane e pascoliane, in un colloquio costante e sempre ricco di idee e di consigli.

Un sentito ringraziamento esprimo anche al prof. Fausto Curi, che ha accolto questo libro nella collana «I sensi del testo» accompagnandone la nascita con discretissimi ma determinanti suggerimenti.

Post scriptum, dicembre 2014

A Elena Salibra, che attendeva con impazienza questo libro e non ha potuto vederlo stampato, va il mio ultimo pensiero: alla lettrice attenta, alla preziosa interlocutrice che ho perduto.

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EDIZIONI E SIGLE

Per il testo delle poesie di Montale, come per i dati cronologici ed editoriali e per il materiale variantistico, si è fatto ricorso, salvo diver-sa indicazione, al volume dell’Opera in versi, affiancandovi l’apparato dell’edizione mondadoriana di Tutte le poesie. Si è tenuto conto anche delle varianti offerte dal dattiloscritto delle 47 POESIE per il Premio San Marino, incunabolo della Bufera e altro edito in «Trasparenze», n. 30, 2007 (Mezzo secolo di “Bufera”, numero monografico a cura di U. Fra-cassa).

Le prose sono citate dai volumi del Secondo mestiere, da cui sono attinte anche le informazioni sulla sede editoriale di prima uscita.

A tali opere si fa riferimento secondo le seguenti abbreviazioni:

– OV = E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, Torino 1980;

– TP = E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984;

– PR = E. Montale, Prose e racconti, a cura di M. Forti, nota ai testi e varianti a cura di L. Previtera, Mondadori, Milano 1995;

– SMP = E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996 (due tomi a numerazione di pagina consecutiva);

– SMA = E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996.

Quanto alle poesie di Pascoli, è nota la scarsa attendibilità filologica dell’edizione mondadoriana curata da Vicinelli, che riprende la prima raccolta in volume unico del 1939 e che è tuttora ristampata in edizione Oscar. Ciononostante sarebbe stato inutile, anzi fuorviante, rifarsi alle ottime edizioni critiche oggi a disposizione (non però per tutte le rac-colte, ma solo per le Myricae, i Canti di Castelvecchio, i Primi poemetti e le Canzoni di Re Enzio). Da Montale Pascoli non poteva che esser let-to, oltre che in riviste e antologie, nelle edizioni delle singole raccolte di Zanichelli (Giusti per Myricae) e poi di Mondadori, il cui piano era stato organizzato da Pascoli stesso ai primi del Novecento e poi prose-guito e concluso per opera di Maria negli anni successivi alla morte del

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12 Di ombre e cose salde

fratello. Nel ’39 però l’editore Mondadori riunisce in un unico volume «tutte le poesie originali di Giovanni Pascoli pubblicate e ripubblicate, precedentemente, in nove tomi separati» (mancano le traduzioni e le poesie latine): G. Pascoli, Poesie, con un avvertimento di Antonio Bal-dini, Mondadori, Milano 1939. A questa edizione si è fatto riferimento come a quella che più comodamente assomma la tradizione editoriale precedente senza distanziarsene troppo in termini cronologici, e garan-tendo allo stesso tempo la tutela dalle ulteriori, successive adulterazioni del testo.

Nel caso della Commedia, era possibile scegliere con il medesimo cri-terio? Evidentemente no. E non solo per la varietà delle edizioni che si sono succedute, e anzi affiancate l’una all’altra, dagli anni della for-mazione di Montale a quelli della Bufera (per stare ai termini cronolo-gici prevalenti nella nostra ricerca); ma anche, e soprattutto, perché il rapporto di Montale col poema dantesco presuppone una dialettica fra testo interiore (ossia storicamente interiorizzato) e testo esteriore (rea-lizzato nelle sedi editoriali) che si esplica in costanti ritorni di lettura e aggiornamenti di cui è più di una traccia nelle poesie e nelle prose. Non che ciò non avvenga anche con Pascoli, o con altri autori. Ma cambiano la misura e l’intensità, se è possibile riconoscere nel Dante di Montale persino un discretissimo senso di coscienza filologica, una cautela della lettera: che è a dire, l’assunzione negli spazi della poesia di ciò che di norma sta fuori di essa.

Detto questo, il testo che s’è scelto è quello dell’edizione hoepliana (la ‘Scartazzini-Vandelli’) del 1937, ristampata nei nostri anni in ana-statica: D. Alighieri, La Divina Commedia, «Testo critico della Società Dantesca Italiana riveduto col commento scartazziniano rifatto da G. Vandelli», Hoepli, Milano 2006. Volume maneggevole, comodo, stori-camente plausibile quando si analizzino poesie della Bufera. Anche il testo hoepliano ha, naturalmente, una storia interna, di cui è testimo-nianza eloquente la lunga indicazione del frontespizio, che compare, se non andiamo errati, a partire dall’edizione del 1928; ma seguirla, questa storia, sarebbe stato privo di interesse. Mentre fruttuoso è stato, nell’in-dagare i tratti danteschi di Voce giunta con le folaghe, soffermarsi su quel commento, per quanto «rifatto» e stratificato (vi abbiamo aggiunto quello, nuovissimo negli anni di Voce giunta con le folaghe, di Attilio Momigliano): in cerca non di mere identità testuali, ma di tutti quei nessi concettuali che una pagina dialogica come quella d’un commento può mettere in rilievo.

I testi di Baudelaire e di Apollinaire citati nel primo capitolo sono tratti da edizioni correnti: C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, introduzione di G. Macchia, Mondadori, Milano 2012; G. Apollinaire, Bestiario, o Il corteggio di Orfeo, incisioni di R. Dufy, a cura di G. Raboni, Guanda, Parma 2009.

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PARTE PRIMA

L’ombra di un poeta: Pascoli e Montale

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1.FIGURE DEL NEMICO

BAUDELAIRE, PASCOLI, MONTALE

Capita, leggendo dei versi, di ricordarne altri. Capita cioè che la lettura di un verso, o di un gruppo di versi, accenda nella mente memoria di altri versi, di altri luoghi e suoni dello stesso poeta o di altri più o meno affini. Ciò che Giovanni Nencioni chiamava «agnizione di lettura» è però – e le prime pagine del noto saggetto lo spiegano – non punto di arrivo ma di partenza. È inizio di una ricerca, innesco di un processo che misura nella continuità la dif-ferenza, e viceversa.1 L’agnizione è in questo senso una contrazio-ne, un momento in cui la lettura, idealmente, si ferma e trattiene il respiro. Ma poi il battito del pensiero ricomincia, e sui testi si prende a ragionare: comparando, avvicinando, distanziando.

I testi di Pascoli e di Montale che vorremmo sottoporre a una lettura di questo tipo, sono Il vischio, dei Primi poemetti, e Sere-nata indiana di Finisterre e poi della Bufera e altro.2 La questione dei rapporti fra Pascoli e Montale è troppo ampia e problematica per porla qui, in blocco, in testa a un’indagine che rischierebbe di esserne soffocata sul nascere. Ma vi attingeremo nel corso di que-sto e dei prossimi capitoli, volta per volta, a seconda della con-figurazione dei problemi concreti che ci porrà la nostra ricerca.

Del Vischio occorre rileggere per intero il ‘capitolo’ conclusivo:

1 Le considerazioni di Nencioni (G. Nencioni, Agnizioni di lettura, «Stru-menti critici», a. ii, n. 2, febbraio 1967, pp. 191-198) sarebbero state riprese da Gian Biagio Conte nelle prime battute del suo fortunato libro Memoria dei poeti e sistema letterario (1974, 1985), ristampato un paio d’anni fa con prefazione di Cesare Segre: G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema let-terario. Catullo, Virgilio, Ovidio, Lucano, prefazione di C. Segre, Sellerio, Palermo 2012. Vi si aggiunga almeno E. Raimondi, Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale, a cura di J. Sisco, Bruno Mondadori, Milano 2004, e in particolare il saggio Ipotesi sull’intertestualità, pp. 73-120.

2 Un cenno a questa vicinanza si trova anche in A. M. Girardi, Pascoli e Montale, in Id., Interpretazioni pascoliane, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, pp. 159-199 (p. 185).

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16 Di ombre e cose salde

Due anime in te sono, albero. Sentipiù la lor pugna, quando mai t’affisinell’ozïoso mormorio dei venti?

Quella che aveva lagrime e sorrisi,che ti ridea col labbro de’ bocciuoli,che ti piangea dai palmiti recisi,

e che d’amore abbrividiva ai volid’api villose, già sé stessa ignora.Tu vivi l’altra, e sempre più t’involi

da te, fuggendo immobilmente; ed oral’ombra straniera è già di te più forte,più te. Sei tu, checché gemmasti allora,

ch’ora distilli il glutine di morte.

Proviamo ora a leggere il secondo movimento di Serenata in-diana (in particolare a partire da «Il polipo che insinua…»), aven-do nell’orecchio soprattutto gli ultimi versi pascoliani, «ed ora / l’ombra straniera è già di te più forte»:

Fosse tua vita quella che mi tienesulle soglie – e potrei prestarti un volto,vaneggiarti figura. Ma non è,

non è così. Il polipo che insinuatentacoli d’inchiostro tra gli scoglipuò servirsi di te. Tu gli appartieni

e non lo sai. Sei lui, ti credi te.

Sarà coincidenza casuale, ma entrambi i brani sono com-posti di terzine sigillate da un verso isolato.3 E in entrambi la

3 Ovviamente il metro di ciascun testo, preso per sé, si inserisce fra gli ele-menti di una scelta di genere, più evidente per Pascoli che offre una riela-borazione inedita della terzina dantesca, ma non meno attiva in Montale, che all’epoca di Finisterre frequenta il sonetto elisabettiano, e rielabora due traduzioni dai Sonnets shakespeariani per pubblicarle, proprio assie-me a Serenata indiana (già comparsa nella plaquette del ’43), sulla rivista «Città», Roma, 7 dicembre 1944. Se la struttura strofica non è quella del sonnet, identico è il numero di versi, quattordici. Del resto rilevante è la presenza, nella sezione, di testi riconducibili a quello schema, e insistito è

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Figure del nemico. Baudelaire, Pascoli, Montale 17

voce del poeta si rivolge con pathos a un tu, nel primo all’albero malato, nel secondo alla destinataria della «serenata». L’insi-stenza sulla seconda persona singolare si direbbe anzi il punto di massimo contatto testuale, quello che nella sua movimen-tazione ritmica fa scattare nell’orecchio la giustapposizione, assieme naturalmente ad altri fattori a cavallo tra la sintassi e il piano tematico.

Non è il caso di soffermarsi a lungo sulla catena in e tonica, particolarmente esibita nel testo di Montale, anche perché per questo disponiamo dell’eccellente cappello introduttivo di Isel-la.4 Basta osservare che tale catena verticale di picchi fonici (che incomincia nel primo movimento e si chiude nel secondo: «sere», «è», «aloè», «me», «potere», «tiene», «è», «te», «appartieni», «te») conduce direttamente, nelle ultime battute, alla rivelazione del potere oscuro del polipo attraverso una negazione dell’identi-tà del tu martellante, tutta affidata alla morfosintassi:

…può servirsi di te. Tu gli appartieni

e non lo sai. Sei lui, ti credi te.

Su una catena meno serrata, più nascosta nei versi ma non per questo semanticamente meno rilevante, fa perno, nel poemetto, l’accorata evocazione dell’albero da parte del poeta che ne vede scomparire la vitalità e con questa la stessa autocoscienza.5 Il «tu

l’impiego di moduli shakespeariani: cfr. R. Orlando, Montale e i “Sonnets” shakespeariani, in Id., Applicazioni montaliane, Pacini-Fazzi, Lucca 2001, pp. 3-38. Il ‘fattore’ Shakespeare non inficia il confronto tra il poemetto e Serenata indiana: opera semmai come strumento di elaborazione stilistica atto a rastremare ed esasperare certe frizioni e antitesi già pascoliane.

4 E. Montale, Finisterre (versi del 1940-1942), a cura di D. Isella, Einaudi, To-rino 2003, pp. 15-16 (si vedano anche le note alla poesia per la presenza di segnali che riconducono ad Arletta, pp. 16-17). Si può aggiungere il recente commento alla Bufera di Marica Romolini, pubblicato online: M. Romo-lini, Commento a “La bufera e altro” di Montale, Firenze University Press, Firenze 2012, pp. 35-40.

5 Fondamentali per l’analisi le indicazioni di Gian Luigi Beccaria sulla «ridu-zione timbrica […] a vocali tenute» secondo un’«equazione orizzontale […] e verticale»: G. L. Beccaria, Quando prevale il significante. Disseminazione e ‘senso’ del suono nel linguaggio poetico di Giovanni Pascoli, in Id., L’au-tonomia del significante: figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1989, pp. 136-208 (p. 189).

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18 Di ombre e cose salde

gli appartieni e non lo sai» montaliano è formulazione che ben potrebbe convenire anche a quell’albero la cui anima originaria Pascoli vede affievolirsi («t’involi / da te») a vantaggio della se-conda, quella parassitica del vischio, per cui, a un certo punto dello straziante processo di disappropriazione, la prima «già se stessa ignora» (tipicamente pascoliana è l’attribuzione di un’ani-ma alla natura rappresentata, a rendere profondamente umano il flusso simbolico tra l’io e gli oggetti che lo circondano: in questo caso per intessere un discorso sulla Vita, la Morte, la Poesia, il Male). Infine un’ulteriore corrispondenza sembra potersi ravvisa-re tra l’«anima» di Pascoli e la «vita» di Montale, corrispondenza sottolineata dall’uso comune del dimostrativo «quella» reggente la relativa, in principio di verso nel poemetto, e a coprire la 6ª sede nell’endecasillabo montaliano: «due anime in te sono […]. // Quella che […] già se stessa ignora» – «Fosse tua vita quella che mi tiene / sulle soglie».

«Sei lui, ti credi te», dice Montale. E Pascoli così conclude la metamorfosi dell’albero: «Sei tu, checché gemmasti allora, // ch’ora distilli il glutine di morte». Non senza una sfumatura di orrore tardoromantico, l’«anima» del vischio si è dunque ap-propriata di quella dell’altra pianta. Non toccata dalla rima, ma diffusa nella narrazione delle terzine con effetti patetici, ecco la sequenza del tu pascoliano: «due anime in te sono», «t’affisi», «quella…che ti ridea», «che ti piangea», «tu vivi l’altra», «e sem-pre più t’involi // da te», «di te più forte, / più te. Sei tu…». Inar-cature strofiche drammatiche, come e più di queste ultime due (o di quella, appoggiata sempre su e tonica, «palmiti recisi // e che»), sono anche in Montale: «Ma non è, // non è così», «tu gli appartieni // e non lo sai».

Il contatto testuale, fonico e morfosintattico, rappresentato dalle traversie della seconda persona singolare, involta in figure di antitesi che a un presunto tu sostituiscono un lui, il polipo o il vischio, non è altro che il corrispettivo di un più esteso anello te-matico. Questo consiste nell’ignoranza del sé, della propria natu-ra minacciata o addirittura già «posseduta», e quindi nell’essere preda di un Altro, di un terzo, che è estraneo, insinuante, paras-sitico. È «l’ombra straniera» di Pascoli, «il polipo che insinua / tentacoli d’inchiostro» di Montale.

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Figure del nemico. Baudelaire, Pascoli, Montale 19

1. La morte senza riscatto: Pascoli

In Pascoli quest’Altro si dichiara: nella simbologia dei poemet-ti, è quel particolare tipo di «morte» (parola con cui termina Il vischio) costituito dall’interruzione del circolo vitale morte-ri-nascita, sfiorimento-fruttificazione, di cui partecipano tutti gli alberi tranne quello affetto dal vegetale parassita. Il principio del darsi, del morire per la vita, in un perpetuo ciclo di esistenza, è enunciato nella sezione terza del poemetto:

E tu saprai che per la vitasi getta qualche cosa anche più belladella vita: la sua lieve fioritad’ali.

La sorte dell’albero dalle due anime rappresenta dunque non una morte apportatrice di mutamento, ma uno scacco, un desti-no di sterilità imposto dall’Altro, cui l’albero è suo malgrado con-dannato, un male assoluto che interrompe il circolo della natura:

Qual vento d’odio ti portò, qual forzacieca o nemica t’inserì quel mollepiccolo seme nella dura scorza?

Tu non sapevi o non credevi: ei volle.6

Tale ingiustizia, provocata da una «forza cieca o nemica», è verosimilmente assimilabile a quella subita dal poeta con l’assas-sinio del padre: una vicenda di sterilità, di perturbazione della storia di una vita, di una famiglia, del «nido». L’immedesima-zione patetica del poeta con la sorte dell’albero è nel poemetto

6 Cfr. Purg., v, 91-92: «Qual forza o ventura / ti travïò […]?», già citato da Contini (G. Contini, La letteratura dell’Italia Unita. 1861-1968, Sansoni, Firenze 1994, p. 264). Ampliando il contesto, e tenendo conto anche della relazione con l’allegorismo dantesco all’epoca studiato da Pascoli, l’Altro si rivela come il male che inaridisce la volontà: «La concezione del male come entità sconosciuta, inspiegabilmente presente nella nostra anima e causa dell’asservimento della volontà, sottintende la teoria del pecca-to come eredità di un’animalità primitiva che continua ad agire in ogni uomo» (F. Nassi, «Io vivo altrove». Lettura dei “Primi poemetti” di Giovanni Pascoli, ETS, Pisa 2005, pp. 171-172).

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tanto evidente quanto la presa di distanza quasi didascalica che il personaggio della narrazione, quell’io che dialoga con l’«anima sorella» e che con essa rammemora il trascorrere delle stagioni presso l’orto, istituisce nei confronti delle singole anime vege-tali che addita alla propria interlocutrice quali exempla.7 Così che, quando comparirà l’albero colpito dal vischio, ciò avverrà nei modi di un’inaspettata interruzione della rassegna positiva attraverso cui il poeta istruisce la sorella sul mistero del circolo della vita. L’albero partecipe di questo circolo è descritto, icasti-camente, quasi nei termini di una figurazione allegorica, imper-niata sull’azione ostensiva di congiungimento dell’immagine del frutto presente con quella delle spoglie del fiore che ad esso diede origine, azione espressa dal verbo «addita» fortemente isolato in fine di strofa e in enjambement col proprio oggetto:

La pianta che a’ suoi rami vedei mille pomi sizïenti, addita

per terra i fiori che all’oblio già diede…Non però questa (io m’interruppi), questache non ha frutti ai rami e fiori al piede.8

La musica del magico corso della natura, in cui il passato trova giustificazione nel futuro, e questo nel passato, in una circolarità in cui l’oblio è lenta, necessaria dissoluzione per la rinascita,9 si spezza bruscamente all’apparire dell’albero malato. Alla sintas-si sfumante nell’emistichio «che all’oblio già diede…» subentra

7 Non è difficile, se si considera la Prefazione al libro, dare un volto bio-grafico ai personaggi di questo quadro, Pascoli stesso e la sorella Maria, ambientando la scena nel frutteto della casa di Castelvecchio.

8 L’uso del verbo in clausola riecheggia in Maestrale dell’Agave su lo sco-glio, negli Ossi di seppia: «O mio tronco che additi, / in questa ebrietudine tarda, / ogni rinato aspetto coi germogli fioriti». L’immagine è opposta a quella pascoliana: per questo mi limiterei a ravvisare nel luogo del Vischio, in questo caso, un suggerimento d’ordine puramente stilistico. Si tenga an-che conto, sullo stesso piano, della rima «dita»:«fiorita» nella prima saffica di Ida e Maria, in Myricae.

9 Nella rappresentazione dell’albero c’è l’eco di un passo di Dante, che, an-che perché rielaborazione di un luogo virgiliano (Aen., vi, 309-10), avrà certo per Pascoli valore archetipico: «Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso dell’altra, fin che ’l ramo / vede alla terra tutte le sue spoglie» (Inf., iii, 112-114).

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Figure del nemico. Baudelaire, Pascoli, Montale 21

quella, rotta, del verso successivo, con la didascalia «(io m’inter-ruppi)» incastrata per inciso nella ripetizione del deittico «que-sta», mentre il verso conclusivo sintetizza (ma si direbbe quasi stigmatizza), per negazione del quadro precedente, la figura dell’albero appena comparsa. Nei due versi seguenti l’atonia for-zata della vita di quest’albero, estranea al ciclo stagionale e per-ciò priva di una distinta identità, si esprimerà ancora attraverso coppie negative: «senza timore e senza festa, / e senza inverni e senza primavere».

Moto contrario, e corrispondente a quello che esclude l’albero malato dalla rassegna positiva, l’avvicinamento sentimentale si esprime nella sezione successiva, la quarta, anzitutto nell’allocu-zione diretta all’«albero ignoto», che diverrà via via, in crescendo, «albero strano», «tristo», «infermo», «morto»: se l’anafora del vocativo è fortemente simpatetica, gli aggettivi impiegati sono tutti in forma oggettivata, e quasi diagnostica è la loro successio-ne, con effetto straniante. Alla modalità descrittiva della rassegna si contrappone la corposità che avvolge la figura dell’albero, per-corsa dall’occhio del poeta di dettaglio in dettaglio.10 Se le parti dell’albero sano (rami, pomi e fiori caduti), nella staticizzazione del quadro che unisce i correlativi di due tempi diversi, il pas-sato della fioritura e il presente invernale ma gravido di frutti, sono non solo figurativamente («addita») ma teleologicamente congiunte, la rappresentazione dell’albero malato presenta tutto lo stupore di rinvenire nei particolari fitomorfici tratti discordi, dolorosamente dissonanti. La descrizione, memore dell’irrevoca-bilità e corposità dantesca (e forse di quella capacità di rallentare il tempo del trapasso, con effetti di spasimo, propria di Ovidio), è quella di una metamorfosi sbarrata, che tuttavia ancora lenta-mente séguita. La nettezza con cui sono rilevati i tratti dell’albero sano contrasta qui col raddoppiamento deformante e con la fu-sione di tratti divergenti che la morfologia dell’albero ha subìto:

10 Sulla concretezza delle immagini del Vischio cfr. F. Nassi, «Io vivo altrove», cit., p. 161. Impiego il concetto di allegoria in funzione di un confronto fra l’immagine dell’albero sano e quella dell’albero malato, allo scopo di evi-denziarne la diversa figurazione in termini stilistici e retorici. Non dunque con accezione ermeneutica, anche se è importante rilevare come l’impiego di un’immagine di stampo quasi emblematico sia funzionale al carattere esemplare che si vuol conferire all’oggetto rappresentato.

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«due verdi e un gialleggiar discordi»; «diverse rame, / foglie di-verse, ottuse queste, acute / quelle» (si noti il valore disgiuntivo del chiasmo e dell’enjambement); «non so che rei glomi e che tra-me» (con intensificazione dell’aspetto d’irriconoscibilità). Quel-la certa artificiosità retorica che tocca tale descrizione, con la ri-petizione in anafora della parola «albero» (ripetizione estesa in forma di sintagma aggettivale o proposizionale), non agisce solo in direzione d’un accrescimento della tonalità patetica. Essa fini-sce infatti per costruire la tramatura che regola i momenti della scoperta della multiforme diversità dell’albero malato, e che non a caso si chiude con la parola «vischio» in fin di verso, contrap-ponendo, anche graficamente, l’«albero ignoto» di inizio sezione alle «radiche del vischio» ormai rivelatesi in explicit del quadro.

In questa duplice valenza del rapporto tra il soggetto e l’albe-ro malato, di sim-patia e al contempo di distanziamento che ab-biamo potuto definire didascalico (se non fosse che la freddezza dell’epiteto è stemperata dalla sentimentalità della disposizione opposta), si esprime una vera e propria ambivalenza che percorre l’intera raccolta, ed è anzi polarità fondamentale della riflessione e della prassi creativa pascoliana: il poeta – mi limito ai Primi poemetti – è allo stesso tempo il sacerdote-maestro del mistero della natura, col ricorrere delle stagioni, e – più che per vocazio-ne programmatica, per un destino non interamente penetrato né accettato – il profano, colui al quale l’ingresso in quel tempio è interdetto. Conosce e addita il lento movimento del cosmo, ma non può prendervi parte. Perché? Perché qualcosa è nella natura di inspiegabile, di irriducibile al corso benefico in cui anche la morte assume una direzione e una giustificazione: vi è un Male fine a se stesso e non riscattabile. Ad esso il poeta è tanto vicino (e poco importa se le radici di questa consapevolezza siano bio-grafiche) quanto è vicino al moto incessante del Tutto. I Poemetti vivono di questa tensione.11

11 Analoga polarità antitetica si istituisce tra le due principali immagini della produzione poetica, il miele delle api e la «perla pallida di muco». In quest’ultima la Nassi vede un’allusione all’operato dell’imitatore, che sfrutta il prodotto altrimenti genuino del vero poeta (F. Nassi, «Io vivo altrove», cit., p. 169). Becherini invece, partendo dalla pregnante osservazione di Pasolini per cui «in queste sei strofe il Pascoli ha forse espresso un mondo che per la prima volta gli si mostrava come oggetto

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L’identità dell’albero trova contorno e rilievo nella relazione col moto ciclico della natura, nell’assecondarlo. Nel momento in cui l’anima del vischio prende possesso di quella della pianta, da quando inizia a dimorare nel suo corpo, la sua azione estrania l’al-bero dal flusso naturale: il tempo dell’anima non coincide più col tempo stagionale.12 Non si dà più, cioè, la conformità di un essere al proprio destino. La condizione del poeta è solo in parte assimi-labile a quella dell’albero malato: egli vive non nello straniamento completo, ma sul crinale tra la perdita dell’identità e l’acquisto di un’identità piena col Tutto. Quest’ultima si manifesta nei Pri-mi poemetti non tanto come sentimento cosmico, quanto come presa di posizione nel solco del proprio destino, come suggeri-sce l’aurea mediocritas dei soggetti e delle trame della Sementa e dell’Accestire.

di rappresentazione poetica», intende l’immagine del «glutine di morte» come «la voce più autentica della poesia italiana di fine secolo», indicando nella «perla di muco» un approfondimento, svolto nella trama stessa del poemetto, dell’immagine iniziale, tradizionale e topica, della poesia come «miele» (O. Becherini, Intorno ai “Primi poemetti” del Pascoli, in «Filologia e critica», n. 11, 1986, pp. 356-421, p. 420; P. P. Pasolini, Pascoli e Montale, in «Convivium», n. 2, 1947, pp. 199-205, p. 203). Solo in parte condivido queste letture, del resto opposte. Il vischio, che può plausibilmente essere immagine dell’imitatore, simboleggia anche, però, molto di più (come la lettura stessa della Nassi fa intendere; e gli imitatori stessi sono descritti come accidiosi nel saggio Letteratura italiana o italoeuropea?, cfr. Nassi, «Io vivo altrove», cit., p. 170); e certo l’io lirico fonde la propria sensibilità con la sorte dell’albero malato, per esteriorizzarne il dolore con accento patetico e forza plastica, ma senza realmente identificarvisi (come nemmeno l’atto di pietas di Dante nei confronti di Pier della Vigna implicava un’identificazione). Nel senso in cui ho scritto sopra, il poeta è dunque vicino all’abisso. Ma l’autenticità della sua voce si esprime anche nell’opposta istanza a farsi tramite tra un’umanità sgomenta e il mistero della Natura, nel cui movimento il dolore dell’individuo può trovare una giustificazione. Questa istanza ha nei Primi poemetti valore strutturante, come valore destrutturante ha l’attrazione per l’abisso. Il poeta occupa, come ho detto, una posizione di mezzo, e, si potrebbe aggiungere, combattuta fra una consapevole tensione alla pacificante circolazione naturale e un’attrazione verso l’informe se non proprio inconscia, almeno più difficile da dominare.

12 La dinamica è molto simile a quella della possessione diabolica. Non a caso Becherini, nel commento ai Primi poemetti, richiama l’episodio dantesco di Bonconte (G. Pascoli, Primi poemetti, a cura di O. Becherini, Mursia, Milano 1994, p. 238).

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Tempo stagionale (tempo orientato, si potrebbe dire, tempo della teleologia rinnovantesi della vita) e identità di un’«anima» (donde la riconoscibilità della sua veste corporea) vanno dunque di pari passo, se è vero che Pascoli può servirsi della locuzione «senza inverni e senza primavere» non certo per dire che l’albero malato non attraversi queste stagioni, ma per sottolinearne, me-tonimicamente, la carenza di tratti identificanti. Aggiungendo la coordinata dinamica del tempo stagionale, Pascoli fa in modo tuttavia che gli esseri dell’orto che passa in rassegna non siano tutti e totalmente corrosi da un ardore conoscitivo che, come nel giardino di una famosa pagina dello Zibaldone, quella scritta a Bologna il 19 aprile 1826, sveli il male e la sofferenza ovunque. Nell’orto dei Primi poemetti il male non è sottoposto alla lente d’ingrandimento che nella riflessione leopardiana rende enormi le singole sofferenze in un’impietosa (ma a sua volta sofferente) analisi della natura; ma è, come si è visto, elemento sfumato di un quadro («i fiori che all’oblio già diede…»), e, concettualmente, parte di un corso circolare che lo giustifica.

Vi è però in Pascoli anche quel Male che, irriducibile a qual-siasi orientamento teleologico, fa il suo ingresso nel quadro in una maniera abrupta, introducendo un fattore di insolvibilità che rende la visione pascoliana della natura drammatica quanto quel-la leopardiana, seppure radicalmente diversa. A differenza della, per così dire, democratica rassegna leopardiana (ironia tragica dell’abbagliante luce del vero), per cui tutte le creature, «tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual indivi-duo più, qual meno»,13 quello dell’albero malato è un caso isola-to, un’apparenza anomala che solo in un primo istante, e certo con un voluto effetto di sospensione, resta «ignota» e «strana», se la parola «vischio» sigilla, attesa non solo dalla rima ma dalle premesse di contenuto, l’intera sezione quarta. Sicché nel caso di Pascoli si potrà parlare di un rapporto emarginatorio fra i due poli del quadro naturale, con quello ‘infetto’ opportunamente distin-to dal ‘sano’: «Non però questo (io m’interruppi)…». Il confronto col giardino di Leopardi, che abbiamo appena abbozzato a grana

13 G. Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da L. Felici, Newton & Compton, Roma 1997, p. 854 (p. 4175 dell’autografo).

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grossa, lascia intuire, dietro differenze gnoseologico-figurative, schemi ideologicamente diversi di approccio alla realtà.14

Se a quel Male, che potremmo definire metafisico, volessimo dare anche un contenuto logico, potremmo aggiungere che esso rivela l’impossibilità di pensare in maniera completamente po-sitiva l’esistenza di una ciclicità pacificata nella sua perfezione. E bisogna rendere merito a Pascoli di non cadere mai nella ten-tazione di considerare la confortante immagine della rotazione stagionale (immagine di un avvicendamento metafisico) in ma-niera ingenua, come l’unica con cui l’intelletto umano si confron-ti. Accanto ad essa, o anche al suo interno, l’uomo trova l’abisso, l’irriducibile, il pensiero di qualcosa che sfugge ad ogni giustifi-cazione e dialettizzazione, o, al limite della ragione e senza con-tenuti precisi, il pensiero stesso di questo sfuggire e di questa ir-riducibilità.

È chiaro che a Pascoli, esposto al tramonto dell’idealismo e dei positivismi ma non ancora investito dal vento nietzscheano che proprio in quel tempo si sollevava, la scoperta di questo Irridu-cibile apparisse non certo come una possibilità di libertà, una possibilità di esprimere, attraverso il travaglio e la sofferenza da cui l’uomo non può ipocritamente distogliere lo sguardo, una vo-lontà al di là del bene e del male. Piuttosto, pur senza cercare la conciliazione, ciclo naturale e sterilità (ma anche orto e al di là della siepe, Italia e fuori d’Italia) sono figure che ripropongono la polarità bene-male, trasponendo sul piano di una morale laica un’antitesi in cui l’uomo è – qui l’immagine calza – invischiato, e sulla quale il poeta meditava col sussidio delle letture dante-sche, ma comunque a partire dalla propria personale esperienza. La validità del messaggio dantesco come l’opportunità di una sua declinazione in termini moderni sono ugualmente presenti a Pa-scoli, che nella Mirabile visione scrive:

ho imparato dal nostro Poeta, quale sia la libertà che bisogna impe-trare a sé e predicare agli altri […]: è la libertà del volere, che si è incep-pato, per qual ragione si può discordare, ma che e il poema antico e tanti

14 Va detto che, all’epoca della stesura del Vischio, lo Zibaldone non era stato ancora pubblicato: sarebbe apparso negli anni 1898-1900 col titolo di Pen-sieri di varia filosofia e di bella letteratura, a cura di una commissione di studiosi presieduta da Carducci e stampato in sette volumi da Le Monnier.

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libri nuovi affermano potersi riavere o avere con lungo e forte esercizio sopra sé e dentro sé. Sia un’antica colpa, come Dante credeva, sia la na-turale origine, come si crede ai nostri tempi, è però, in questo e in quel modo, un retaggio selvatico e bestiale, che noi portiamo in noi.15

Il torpore del volere, che mantiene l’uomo imprigionato nell’a-nima sensitiva (se non addirittura in quella vegetativa: ricorre nelle riflessioni pascoliane il confronto con lo stato delle piante) ha un nome antico, quello d’ignavia o accidia (acedia), e segna per Pascoli la morte spirituale dell’anima, e in particolare di quel-la sua capacità, potenzialmente presente in ognuno, di sentire la propria consonanza col mondo e con l’umanità che la circonda. Il male morale fa tacere nell’uomo la voce del «fanciullino», in-troducendo nell’identità un fattore estraneo di disarmonia. Le implicazioni di questa riflessione con il contemporaneo lavoro di esegesi dantesca consentono di individuare nell’accidia il refe-rente ultimo, la concretizzazione morale principale di quel Male di cui si parlava, poiché per il Pascoli dantista l’acedia è il vizio dominante dell’anima umana.16

2. Nel chiostro odioso dell’anima: Baudelaire

È stata notata la vicinanza del Vischio, almeno per alcune sue immagini, a un sonetto dei Fiori del Male, L’Ennemi.17 L’impres-sione di affinità risulta tanto più motivata se si tiene presente che il centro ideologico del Vischio è il vizio dell’accidia. Vediamo perché, leggendo intanto il sonetto di Baudelaire di cui andrà considerata con particolare attenzione la terzina conclusiva:

Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage,Traversé çà et là par de brillants soleils;Le tonnerre et la pluie ont fait un tel ravage,Qu’il reste en mon jardin bien peu de fruits vermeils.

15 G. Pascoli, Prose, ii, Scritti danteschi, a cura di A. Vicinelli, Mondadori, Milano 1971, pp. 769-770.

16 Si veda F. Nassi, «Io vivo altrove», cit., pp. 168-169, per una disamina dei contatti fra il poemetto e le opere di critica dantesca e leopardiana.

17 Cfr. O. Becherini, Intorno ai “Primi poemetti” del Pascoli, cit., p. 419, e G. Pascoli, Primi poemetti, a cura di O. Becherini, cit., p. 239.

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Voilà que j’ai touché l’automne des idées,Et qu’il faut employer la pelle et les râteauxPour rassembler à neuf les terres inondées,Où l’eau creuse des trous grands comme des tombeaux.

Et qui sait si les fleurs nouvelles que je rêveTrouveront dans ce sol lavé comme une grèveLe mystique aliment qui ferait leur vigueur?

– Ô douleur! ô douleur! Le Temps mange la vie,Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le cœurDu sang que nous perdons croît et se fortifie!

La percezione di una parentela tra le due figure, quella del vi-schio e quella dell’«obscur Ennemi», è già data dalla presenza, nel sonetto, di un «jardin» squassato dalla tempesta, allegoria dell’anima del poeta. Baudelaire:

Le tonnerre et la pluie ont fait un tel ravage, Qu’il reste en mon jardin bien peu de fruits vermeils.

E Pascoli (ii, 1-2 e 4-6):

Una nube, una pioggia… a poco a poco tornò l’inverno; […]

Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi dentro il nebbione; e per il cielo smorto era un assiduo sibilo di fusi.

(Si noti però l’asprezza quasi imprecatoria dei versi di Bau-delaire a fronte della malinconia diffusa di quelli pascoliani – il «miracolo meccanico della stagione che muta» diceva Pasolini –18 e, su piani diversi, l’ipotassi contro la coordinazione, l’uso di un tempo da ‘mondo interpretato’ contro un tempo da ‘mondo nar-rato’).

A farci pensare al Vischio è però soprattutto la caratterizzazio-ne dell’«obscur Ennemi» come forza cieca che rode il cuore degli uomini (il discorso si apre, in un lamento che è anche sententia, all’universale):

18 P. P. Pasolini, Pascoli e Montale, cit., p. 204.

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– Ô douleur! ô douleur! Le Temps mange la vie, Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le cœurDu sang que nous perdons croît et se fortifie!

Così come il vischio s’impossessa della vitalità dell’albero attra-verso la sua linfa, il Nemico oscuro «du sang que nous perdons croît et se fortifie».

L’accostamento trova una conferma sul piano delle premesse filosofiche, data la corrispondenza dei termini in gioco che le ri-flessioni di entrambi i testi sottendono: la figura dell’Altro, del Nemico, la presenza di un Male divorante e irriducibile a com-promessi ideologici, l’identità divisa e aggredita, la cornice tem-porale. Il punto è che dietro l’«Ennemi» di Baudelaire si nascon-de, come è stato dimostrato, ancora il male dell’acedia o tristitia: un’allegoria drammaticamente moderna risemantizza figure e idee attinte, come è stato dimostrato, dai trattati di vita mona-stica.19 Nel sonetto che precede il nostro, Le mauvais moine, que-sta affezione tipica del cattivo «cénobite» affligge il poeta inerte, che abita e si muove nello spazio circoscritto della propria anima come un monaco in un «chiostro odioso»:

– Mon âme est un tombeau que, mauvais cénobite,Depuis l’éternité je percours et j’habite;Rien n’embellit les murs de ce cloître odieux.

L’accidia, qui come nel Vischio, al di là della patina medieva-le che la sua figurazione può assumere (con maggiore distacco ironico in Baudelaire rispetto all’esegesi dantesca pascoliana), rappresenta la malattia tipica della modernità: la condizione d’i-nerzia e di svuotamento in cui l’uomo cade di fronte al crollo del sistema simbolico imperniato sull’idea di una corrispondenza tra un qui e un aldilà, sulla polarità tra un Bene e un Male, sulla spe-ranza di un risarcimento della sofferenza. A ben vedere, è questa la matrice simbolica, di origine cristiana, che permette a Pascoli di concepire il ciclo naturale come processo compensativo, in cui

19 Cfr. M. Richter, Baudelaire, il cattivo monaco e il suo nemico, in «Rivista di Letterature moderne e comparate», n.s., n. 41, f. 1, gennaio-marzo 1988, pp. 23-40. Richter identifica il Nemico con l’acedia, a sua volta «effetto che nasconde una causa», cioè la «‘sainte Vérité’ della creazione dualistica» (p. 35).

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la pianta sfiorisce per fruttificare, e il castagno offre la propria legna al contadino fin oltre la morte. Processo in cui l’uomo solo parzialmente riesce a riconoscersi, per la presenza di quel Male che s’insinua negli ingranaggi del ciclo, dissolvendone la perfe-zione. Le immagini pascoliane sono eloquenti, intrise di quel-la simbologia elementare che viene tuttavia turbata e piegata in senso nostalgico: la corrispondenza, il rispecchiamento tra cielo e terra, completamente risolti nella rappresentazione, sono co-niugati al passato («Tale quell’orto ci apparì tra i veli / del nostro pianto, e tenne in sé riflessa / per giorni un’improvvisa alba dei cieli», I, 7-9), e il sentimento indefinito di trepida attesa che co-glie i due interlocutori nella loro giovinezza, certo laico ma enun-ciato con una terminologia tipicamente confessionale («Era, sai, la speranza e la promessa, / quella», i, 10-11), è contraddetto dal riconoscimento del suo carattere illusorio («ma l’ape da’ suoi bu-gni uscita / pasceva già l’illusïone», i, 11-12, ovviamente con rife-rimento alla poesia).

E non sfuggirà, per tornare a un confronto tra i due testi giocato più sul piano delle categorie di pensiero che su quello meramente figurativo, la comune allusione a una perduta fase edenica della vita, ciò che Pasolini definiva, accostando Pascoli a Montale, una «distensione» dell’«attimo lirico nella memoria», uno «storiciz-zarsi» dell’«emozione»20. E rispetto a Baudelaire occorrerà anche qui distinguere, perché l’estensione dell’attimo lirico alla sfera della memoria viene elaborata in Pascoli nei termini di un artico-lato, cogitante interloquire con una figura dai tratti diafani di cui sono sollecitate le reminiscenze, mentre in Baudelaire si esprime nella rigida incisività di un verso che non solo esclude la presenza di un qualsiasi ‘tu’ – «Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage» –, ma non ammette repliche se non la constatazione che l’epoca giovanile ha lasciato il posto a una spoglia maturità. E qui l’inar-catura temporale tocca il diapason di una rassegnata, malinconi-ca fatalità; ancora un’immagine elementare, di sapore proverbia-le, eppure vastissima:

Voilà que j’ai touché l’automne des ideés.21

20 P. P. Pasolini, Pascoli e Montale, cit., p. 202.21 Pascoli, si sa, seguiva in questo un’altra strada, quella della Silvia leopar-

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La lotta contro la polarità tipicamente cristiana di bene e male in cui Baudelaire si trova imprigionato potrebbe essere conside-rata dunque come il drammatico antecedente della situazione in-solubile che emerge talora nei Primi poemetti, là dove, come nel Vischio, Pascoli contrappone una natura armonizzata nel tempo a un Male che le è inconciliabile. Certo lo sforzo con cui Baude-laire trasforma il dolore (la «noblesse unique» dell’anima umana, come si legge in Bénédiction) in un fiore, una fleur du Mal, con-vertendo quel male che affligge l’anima cristianamente immor-tale in cui si trova imprigionato, l’acedia, nel tangibile prodotto poetico di un lavoro creativo, appare più avanzato e ‘moderno’ del tentativo pascoliano, pure cronologicamente posteriore. Sen-za giovarsi di simbologie agresti o naturalistiche, senza oscillare fra esperienza del dolore e sogno di un’armonia naturale, Baude-laire affronta a mani nude l’ipocrita affermazione di una «sainte Vérité» (Le mauvais Moine) che tutto giustifichi, di un Bene che è maschera della reale sofferenza. Affronta gli infingimenti che alterano il volto vero e crudo del dolore. Questo tentativo di tra-sfigurare l’irredimibile condizione umana, quella sofferenza che non si può più ignorare, in qualcosa che l’uomo possa sentire e toccare con le sue mani, frutto di un poièin che è sostanza della poesia, è forse più vicino alla futura svolta nietzschiana, e certo a una dimensione moderna, di quanto lo sia l’antico topos dell’ape che «fa […] il miele di sua vita», pur rinnovato nella riflessione sulla distonia tra la «vita» e la «lieve fiorita / d’ali» e accostato alla variante noir della «perla pallida di muco».22

diana: strada che si dirama, nella sua poesia come in quella del d’Annunzio paradisiaco e più tardi in quella di Gozzano, in una varietà di dialoghi, o di ‘colloqui’, anche al limite della realtà dell’atto comunicativo (La tessitrice). E se a proposito del dialogo fra l’io e il tu del Vischio vedeva in maniera finissima Pasolini, che parlava di «segreto epistolare» secondo una moda-lità trasmessa alla Casa dei doganieri, bisognerà indicare con forza la no-vità di Montale nel fatto che l’inconoscibilità del ‘tu’ e l’assenza di dialogo sono condizioni di partenza. «Tu non ricordi» non è una domanda né una formula fàtica, ma una constatazione; e il ‘tu’ è qui assente dall’orizzonte emotivo e conoscitivo dell’io, che non sa «chi va e chi resta». Nutrito della tradizione liberty e simbolista, poi crepuscolare, del dialogo, il «segreto epistolare» si converte nella Casa dei doganieri in figura dell’assenza e dell’incomunicabilità.

22 Giudizi su una ‘modernità’ non appieno raggiunta da Pascoli (e non solo da lui) si possono incontrare spesso negli scritti critici di Montale, e non

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Da ultimo, non è da trascurare un altro ‘personaggio’ che com-pare nella terzina conclusiva de L’Ennemi, quel «Temps» che «mange la vie», il quale non deve essere confuso con l’«obscure Ennemi». Il verso «O doleur! ô doleur! Le Temps mange la vie» va letto come lancinante presa di coscienza delle condizioni dram-matiche in cui l’anima è costretta a imprendere il lavoro «poieti-co» sul dolore. I termini in gioco sono dunque questi: un’anima cristianamente intesa come eterna, prigione inevadibile e teatro di un dolore assoluto (il «cloître odieux»); una vita, terrena, il cui senso può essere dato solo dalla trasfigurazione – che non è un imbellettamento – di quel dolore tramite l’arte; un «obscur En-nemi» che, succhiando le linfe di questa vita, anestetizza quello sforzo; e infine un Tempo che non tanto, come il Nemico, lotta in direzione contraria alla vita, ma piuttosto ne riduce la super-ficie, incalza, la divora come Crono faceva dei propri figli: riduce quantitativamente – e questo processo ha qualcosa di spietato – le possibilità che nella vita sono date all’anima di agire qualitativa-mente: «Bien qu’on ait du cœur à l’ouvrage, / L’Art est long et le Temps est court», come si legge in Le Guignon, il sonetto che se-gue L’Ennemi. Ars longa, vita brevis. Il frutto di quest’arte è «una nuova creazione in cui l’eternità del dolore (o dell’anima) sia la materia plasmata dalla temporalità del lavoro».23

3. Identità minacciate: Montale

Già in Baudelaire, dunque, la figura del Nemico non può andare separata da quella di un Tempo che, fuori della personificazione, altro non è che la cornice in cui si giocano le sorti dell’identità dell’io, che soltanto nell’ars, nel lavoro, può realizzarsi. Nel Vischio il riconoscimento dei paradigmi temporali in cui si colloca la vicenda del soggetto è altrettanto importante per interpretarne il destino, la realizzazione in termini esistenziali, al bivio fra l’immersione nel ‘flusso’ e il rigetto, quale ‘rottame’, sulla

soltanto nella Fortuna del Pascoli. Montale adotta, come linea di demarca-zione, la famosa «jonction Browning-Baudelaire che ha dato origine a tutta la poesia moderna», e alla quale Pascoli sarebbe «parzialmente estraneo» (Gozzano, dopo trent’anni, SMP, p. 1275).

23 M. Richter, op. cit., p. 34.

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riva (uso di proposito un vocabolario primomontaliano). Anche se occorre tener presente, come abbiamo visto, che la voce del poeta non coincide mai con una sola delle soluzioni, ma le esplora entrambe. Una concezione così smaccatamente quantitativistica del tempo, quale è quella baudelairiana del «Temps» che «mange la vie» (e che, per esattezza esegetica, va attribuita piuttosto al sistema assiologico in cui il poeta si muove, si logora e si divincola, che al poeta stesso) rientra certo tra quei phantasmata cognitivi che Montale, attraverso la lettura di Boutroux e di Bergson, ha cercato di disperdere. E lo ha fatto, se non proprio accettando la conversione della necessità in contingenza proposta da Boutroux, almeno deformando, per così dire, il tempo dal di dentro, cercando al soggetto quello spazio vitale, quel «varco» (aperto nell’«ora che passerai di là dal tempo»), o, di nuovo, quella realizzazione («qual volle si ritrovi») che ne fermi l’identità.24

L’identità è un’identità nel tempo, dunque, una collocazione. Non esiste per Montale, se non in alcuni squarci degli Ossi, un tempo come è inteso da Pascoli, cioè uno svolgersi teleologica-mente orientato degli eventi ravvisabile nella ricorrenza dei ‘fatti’ della natura, che già nel poeta romagnolo si prospetta nei ter-mini di un’aspirazione, di uno sforzo alla congiunzione, e non di una certezza. Presto abbandonato l’auspicio di Riviere (1920), tutto appoggiato a un’immagine di rinascita di cui solo la natura è portatrice,25 il tempo di Montale si fa, quando non immobile (ma di un’immobilità febbricitante e compressa nei gangli della necessità), entropico, scomposto: la casa dei doganieri che «s’al-

24 Le due citazioni sono da Casa sul mare. Queste considerazioni non esauri-scono, è chiaro, argomenti tanto vasti, che al nostro discorso fanno semmai da sfondo. I singoli testi andranno pertanto considerati come sequenze di un pensiero che ammette approfondimenti, palinodie e slittamenti, nel paradigma cognitivo prima che figurativo. La precisazione è indispensa-bile soprattutto per Montale, di cui è nota la vocazione a ripensare, nella fase di scrittura inaugurata da Satura, temi fondamentali delle proprie anteriori esperienze poetiche. Lo esemplifica bene Orlando su Tempo e tempi: R. Orlando, Tema e imagery di “Tempo e tempi”, in Id., Applicazioni montaliane, cit., pp. 123-135.

25 Si rilegga almeno il finale della poesia, datata da Montale «marzo 1920» (cfr. OV, p. 892): «Potere / simili a questi rami / ieri scarniti e nudi ed oggi pieni / di fremiti e di linfe, / sentire / noi pur domani tra i profumi e i venti / un riaffluir di sogni, un urger folle / di voci verso un esito; e nel sole / che v’investe, riviere, / rifiorire!».

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lontana», la banderuola che «gira senza pietà», sono il necessa-rio calato nella res extensa. La riflessione di Montale evolve dal-la constatazione della reciproca intangibilità dei destini (o, con termine gozzaniano, delle «sorti»), ferrea necessità che solo mi-racolosamente permette l’intersezione di due vite, all’idea di un meccanismo i cui ingranaggi, i «nastri» di Tempo e tempi, poco hanno a che fare con la figurazione di vere e proprie vicende uma-ne, che assumono consistenza soltanto nell’istante in cui entrano in contatto tra loro, e per giunta «per dirsi addio». Se è giusto dire che tra le Occasioni e la Bufera il confronto col tu prende le forme di un confronto di destini, la possibilità stessa di un incontro con l’interlocutrice assente sarà dettata dall’insorgere o meno di cor-rispondenze nel flusso plurale dei tempi, dalla giustapposizione, sempre circonfusa di un alone d’incertezza, del tempo in cui l’io entra in contatto con un oggetto con quello di un tu proveniente da una distanza, diacronica o sincronica:

tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria (La casa dei doganieri);

polene che risalgono e mi portano qualche cosa di te (Punta del Mesco);

forse nel guizzo argenteo della trota controcorrente torni anche tu al mio piede fanciulla morta Aretusa (L’estate).

Sono situazioni che rinviano, investendo la dimensione della memoria, ad Arletta, ma a una dinamica simile – e forse più marcata e stridente, e stavolta di natura sincronica – non sfugge nemmeno Clizia, soprattutto quando il suo diventa un Destino per eccellenza, cioè nella Bufera:

se la forzache guida il disco di già inciso fosseun’altra, certo il tuo destino al miocongiunto mostrerebbe un solco solo (L’orto; corsivo nel testo).

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Questi accenni al tema del tempo ci avvicinano, se riduciamo a mente anche il ruolo che esso gioca nell’identificazione dell’iden-tità in Pascoli, al nodo concettuale che sta al fondo di Serenata indiana. Eccone il testo, che ha due ‘tempi’ o movimenti:

È pur nostro il disfarsi delle sere. E per noi è la stria che dal mare sale al parco e ferisce gli aloè.

Puoi condurmi per mano, se tu fingi di crederti con me, se ho la follia di seguirti lontano e ciò che stringi,

ciò che dici, m’appare in tuo potere.

***

Fosse tua vita quella che mi tiene sulle soglie – e potrei prestarti un volto, vaneggiarti figura. Ma non è,

non è così. Il polipo che insinua tentacoli d’inchiostro tra gli scogli può servirsi di te. Tu gli appartieni

e non lo sai. Sei lui, ti credi te.

È qui promosso a struttura testuale il rapporto fra l’io e il tu in cui l’identità di entrambi si determina e si costruisce. Diversa-mente che nel poemetto pascoliano, il soggetto si muove qui al di fuori di ogni cornice temporale, e non certo per un assunto di tecnica figurativa, ma a partire da quel dato primo tutt’altro che letterario o formale di cui parlava Contini, il «minimo di tolle-rabilità del vivere», un dato esistenziale insomma.26 L’‘informità’ del tempo dunque viene concettualmente prima, appunto come percezione e convinzione esistenziale, rispetto alla soluzione figurativa individuata nel «disfarsi delle sere». Il plurale, l’uso dell’infinito sostantivato, estraggono dal magma delle situazioni possibili quella in cui l’io e il tu si possono riconoscere nella loro

26 G. Contini, Montale e “La bufera”, in Id., Una lunga fedeltà. Scritti su Euge-nio Montale, Einaudi, Torino 2002, pp. 77-94 (p. 82).

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vicinanza. Non si tratta di questa sera, ma, metafisicamente, del quadro atemporale in cui le sere si disfanno e una «stria di luce»

dal mare sale al parco e ferisce gli aloè.

Dall’indistinto temporale, così, una situazione slitta e assume valore pregnante per la vicenda dell’io e del tu: «è pur nostro il disfarsi delle sere»; «è per noi la stria che dal mare…».

L’atmosfera di evasione temporale e fantastica si gioca tutta nel titolo – che ricalca quello di Shelley The Indian Serenade – e nella prima strofa.27 Non si tratta però del racconto di un’evasio-ne, ma della descrizione dell’istante stesso, dilatato, in cui il fa-miliare «parco» (potremmo immaginare un «paesaggio versilie-se», secondo il suggerimento di Montale a Guarnieri,28 o la casa delle due palme) si apre ad accogliere il messaggio di un essere lontano. Una pianta esotica, dai fiori rossi o gialli, originaria dell’Africa e delle isole dell’Oceano Indiano, propizia, attraverso un avvenimento cromatico, il riempirsi di una distanza, l’avve-rarsi di una congiunzione. Può darsi che in questo squarcio di luce e di paesaggio sia proprio Arletta a ritornare. La distan-za temporale, il passato, si oggettivano in lontananza spazia-le, lentamente colmata dalla striscia di luce, ed è forse l’uso del verbo ‘ferire’ a testimoniare di una modalità tipica dei ritorni di Arletta, se si tien conto del carattere spesso doloroso, lancinan-te, della riemersione del personaggio nella memoria del poeta. Se è vero, come sostiene Gilberto Lonardi,29 che vettori pulvi-scolari della figura di Arletta sono segmenti fonici come ar e ra,

27 Era lo stesso Montale a dichiararlo a Guarnieri: «Serenata indiana, temo che il titolo sia di Shelley» (SMA, p. 1517). Altrettanto esotica l’atmosfera evocata dal titolo di una precedente stesura manoscritta, Havaiana. La poesia di Shelley è un canto all’amata lontana. Non vi sono corrisponden-ze testuali con Serenata indiana se non nel titolo, che, come quello «alla Browning» Due nel crepuscolo (così Montale: cfr. OV, p. 954), appartiene alla componente letteraria, forse psicologicamente schermante, del canzo-niere per Arletta (si pensi ancora a un titolo come Quella del faro, letterario in quanto metatestuale, o al senhal della «capinera»).

28 SMA, p. 1517.29 G. Lonardi, Mito e ‘melos’ per Arletta: “Punta del Mesco”, in Id., Il fiore

dell’addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 139-159 (pp. 141-142).

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frequenti là dove la fanciulla viene evocata per essere magari taciuta, si otterrebbe un ulteriore indizio della presenza di que-sto personaggio nell’attualizzarsi del paradigma, con una serie di parole contenenti il segmento ar che si accampano attorno a «stria» in 6ª sede: «disfarsi», «mare», «parco» (in una comune sonorità aspra in r, str, rt ecc. propria del primo movimento). In centro di verso e in rima al mezzo con «mare», e pertanto se-manticamente esaltato, sta il verbo «appare» che, contro i pre-cedenti sostantivi, segna una possibile realizzazione.30

Torniamo all’immagine iniziale della «stria che dal mare / sale al parco», per avvicinarci alla percezione di quel sottile di-scrimine che separa il veritiero contatto dell’io col tu (sia pure fantasticato) dall’inganno per cui è l’Altro, il Nemico, ad assu-mere la maschera del tu (e forse ciò accade proprio perché l’im-possibilità dell’io di uscire dai confini soggettivi della propria fantasia mina ab origine la stessa realizzazione di un contat-to). Pensiamo alla luce che si congiunge con gli aloè salendo dal mare: proprio la dinamica di colmamento di una distanza altro non è che il corrispettivo, non ancora distorto e cambiato di se-gno, dell’immagine del «polipo che insinua / tentacoli d’inchio-stro tra gli scogli», peraltro con schema identico, di sostantivo con relativa, rispetto al precedente «la stria che dal mare / sale». Ancora, altro motivo speculare che marca due segni opposti, se relativamente all’atmosfera serotina si dice che «per noi è la stria che dal mare / sale al parco», nel secondo movimento, con in-versione chiastica, il polipo è soggetto di una predicazione che ne sottolinea il potere mistificante, opposto a quello della luce crepuscolare che al contrario propizierebbe la congiunzione: «il polipo […] può servirsi di te».

Il valore metafisico e fantasmagorico del quadro di partenza riceve infine una conferma dal fatto che, a partire dalla seconda strofa, prende avvio la fantasia dell’io non sul tu, ma col tu, e si sviluppa trasognata, densa e sinuosa nell’attorcersi l’una sull’altra delle due principali catene foniche, quella assonante in i di «fin-

30 Si tenga comunque presente che questo tipo di disseminazione fonica, per il vasto e polifunzionale impiego dei nessi sonori aspri nella poesia di Montale, ha effettivo rilievo euristico solo a patto che «faccia sistema», come precisa Lonardi, e sia contestualizzabile sul piano semantico.

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gi» «stringi» «dici» e quella in e di «sere» «aloè» «me» «potere».31 Sono eloquenti la subordinazione ipotetica e la semantica imper-niata su uno sforzo di esaltazione fantastica a creare una realtà tangibile («puoi condurmi…», «se tu fingi di crederti…», «se ho la follia di seguirti…», «m’appare»). Fortemente coesive, queste soluzioni hanno l’effetto di destare l’immagine d’una congiunzio-ne quasi fisica tra l’io e il tu – fino all’immagine dello stringere la mano – che sarà vanificata dall’insinuarsi del polipo fra i due personaggi nel movimento successivo.

Il riferimento a Tempo e tempi, poesia paradigmatica della con-cezione montaliana della temporalità a partire da Satura, ma an-che sistematrice, su un piano metatematico, di un pensiero che, come abbiamo abbozzato, si era già ampiamente sviluppato nelle raccolte precedenti, può aiutare a meglio comprendere i termini in cui è concepito il rapporto tra l’io e il tu. Vale a dire, non tra due semplici persone grammaticali, né tra due maschere, come avviene nella relazione quotidiana (correlativo frusto e banalizzato, forse, del dramma della mancata comunicazione essenziale, delle «due maschere / che s’incidono, sforzate, di un sorriso» in Due nel crepu-scolo); ma tra due vite, che entrano in contatto e in comunicazione fra loro, non solo riconoscendosi l’una con l’altra, ma riconoscendo se stesse, quasi che l’io, per accorgersi della propria consistenza e per stabilire i propri confini, richieda di toccare i margini di un tu.32 D’altronde a Montale è cara l’espressione ‘vivente’, a designare l’in-dividualità e la considerazione in re di una vita. Se l’essere viventi è una premessa (ed è, si legge in Tempo e tempi, appannaggio di «po-chi»), la comunicazione, il riconoscimento, ne sono la conferma. Il motivo del riconoscersi si mantiene sotterraneo fino a Satura, dove emergerà a livello metalinguistico: si pensi a Il ‘tu’, dove le tessere del nostro discorso si rimescolano introducendo, tra l’altro, il tema dei «duplicati». Ma è ben rinvenibile, come si è visto, in Due nel cre-puscolo (che era stata abbozzata già nel ’26) e in Serenata indiana.

«Nello sguardo», scrive Benjamin in Di alcuni motivi in Bau-delaire, «è implicita l’attesa di essere ricambiato da ciò a cui si

31 Senza contare altri fasci di toniche, come «stria» «ferisce» «follia», o la catena timbrica in a sulla 6ª posizione, spina dorsale dell’intero primo mo-vimento, «disfarsi» «mano» «lontano» «appare».

32 Su questo tema si veda F. Rella, La cognizione del male. Saba e Montale, Editori Riuniti, Roma 1985, in part. le pp. 22-27.

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offre. Se questa attesa […] viene soddisfatta, lo sguardo ottiene, nella sua pienezza, l’esperienza dell’aura». È la dinamica altri-menti designata, nello stesso saggio, come «apparizione irripe-tibile di una lontananza»: nell’esperienza dell’aura ha luogo il contatto, irripetibile, tra un io e un tu.33 La formula si adatta, in modi che ne illuminano ulteriori aspetti, a ciò che già Contini aveva definito «istante privilegiato», all’evento dell’«occasio-ne». Ci avviciniamo così al ruolo giocato dalla figura del polipo nel processo di istituzione di un contatto, immediato e perso-nale, tra l’io e il tu.

Il «polipo» è un segno metafisico, mentale. Come in tanti altri casi non si dovrà pretendere da Montale una precisione naturali-stica che non appartiene ai motivi della sua poesia. Tutti sanno che l’«anguilla» della Bufera ha qualità che, realmente, apparterrebbe-ro al salmone: ma si distruggerebbe questo efficacissimo simbolo ponendosi il problema se sia un’anguilla, o non piuttosto un salmo-ne, ad attraversare i mari del Baltico in cerca di «paradisi di fertili-tà». E ciò sia detto tanto più se stiamo osservando l’attitudine natu-ralistica di Montale accanto a quella, ben diversa, di Pascoli, per il quale al contrario è proprio la precisione naturalistica (soprattutto botanica e ornitologica, come è noto) a costituire premessa di senso e anzi a contribuire, molto spesso, alla stessa costruzione del testo poetico. Nel caso di Pascoli è sempre possibile determinare in senso naturalistico l’oggetto animale o vegetale: il testo, anzi, deve offrire le chiavi del riconoscimento, proprio in quanto la simbolizzazione del dato naturale s’impernia sulla sua sicurezza scientifica, e il ‘vero’ vuol fondarsi sul ‘certo’.34 Ma in Montale il presupposto è tutt’altro che naturalistico. Non si vuol negare che vi sia una referenzialità, ma le sue maglie sono larghe, pronte ad accogliere l’oggetto non in quanto dato naturale, ma come potenziale emblema. Il fine non è quello di trovare un senso nel dato naturale, facendolo motore di un circuito simbolico che porti all’umano, ma di trovare simbo-li entro un’enciclopedia di segni culturali; anche, eventualmente, appartenenti al sottoinsieme delle conoscenze naturali, ma in ogni caso senza l’esigenza della verifica. Per Pascoli invece la verificabi-

33 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, pp. 89-130 (pp. 124-25).

34 Cfr. in proposito E. Tatasciore, D’Annunzio e Pascoli: poesia fra i libri di ornitologia, in «Rivista pascoliana», n. 23, 2011, pp. 109-145.

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lità dell’asserzione poetica di stampo naturalistico era fra i principi regolatori della creazione, era una sorta di imperativo categorico della prassi poetica.

Se il discorso vale in generale, varrà tanto più per il caso parti-colare del «polipo» (ma lo scienziato correggerebbe in ‘polpo’), fi-gura che ha già un precedente nella storia letteraria, una quartina di Apollinaire che s’intitola Le poulpe e appartiene al Bestiaire, ou Corège d’Orphée, la prima raccolta edita dal poeta (1911). Difficile credere che questa e altre poesie del Bestiario non si siano stam-pate nella ricettiva memoria di Montale, non necessariamente in anni vicini a quelli di Serenata indiana:

Jetant son encre vers les cieux,Suçant le sang de ce qu’il aimeEt le trouvant délicieux,Ce monstre inhumain, c’est moi-même.

L’immagine del mostruoso animale viene di qui, già semanticamente connotata in direzione di un’ambigua violenza sull’essere amato.35 Ora non direi che, trovata questa ascendenza, si possa concludere che anche il «polipo» di Serenata indiana rappresenti «moi-même». Un poeta eredita un simbolo, un emblema, un «correlativo», ma il senso di questo sarà nuovo nel nuovo testo che lo accoglie. In questo caso l’«emozione» taciuta mette in crisi ogni semplicistica interpretazione del cosiddetto objective correlative, poiché qui davvero ciò che viene rappresentato attraverso l’immagine del polipo, che «insinua / tentacoli d’inchiostro tra gli scogli», non trova nome. L’inquietante evocatività dell’immagine, riversata nel significante, entra attraverso questo nella circolazione semantica dell’intero testo: non c’è bisogno di commentare il verso «tentacoli d’inchiostro tra gli scogli», se non per dire che nella parola «inchiostro» si compie a distanza la rima con «nostro» («È pur nostro il disfarsi

35 Fatta salva l’ovvia ampiezza del campionario animale nella raccolta di Apollinaire, resta interessante notare come altri animali della suite di Fi-nisterre vi trovassero già posto: i «delfini» di Su una lettera non scritta, le «meduse» degli Orecchini. Con Le dauphin e La méduse non si riscontrano contatti testuali, né credo convenga insistere in ricerche di questo tipo. Del Bestiario è l’operazione artistica in sé ad esser rilevante per la cultura e la poetica di Montale.

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delle sere»), vera è propria realizzazione, fonicamente corposa, di un’antitesi semantica. Ma che cos’è allora questo polipo: il male? L’Altro? O il vuoto, il nulla? Vedremo che non una designazione concettuale occorre a riempire la lacuna, ma un attraversamento di quell’effetto di crollo di senso che l’individuata e isolata immagine del polipo suscita con la sua intromissione nella fantasmagoria dell’io. Del resto lo stesso Montale, in una sua risposta a Guarnieri, elude ogni spiegazione: prima con una riduzione al referente, elegante reduplicazione, in realtà, del correlativo («Il polipo può esser le spirali delle onde nell’ora vespertina…»), poi suggerendo due riempitivi della lacuna («…oppure l’inconoscibile, il futuro negativo»),36 posti esattamente sullo stesso piano dell’immagine del mare: segno che poco importa cercare un nome per qualcosa che costitutivamente vi sfugge, che sta forse prima del nome e che può essere indicato solo per figure enigmatiche o vaghe designazioni di negatività.37

Basta il cogito ad afferrare questa indeterminata essenza? Evi-dentemente no, perché l’antico dubbio cartesiano sulla realtà di questo mondo e dell’io torna a imporsi, senza risolversi e anzi minando quel rapporto di conoscenza che a partire dal roman-ticismo più filosoficamente orientato richiede un oggetto per-ché il soggetto conquisti un’identità. Il polipo coi suoi tentacoli manovra il tu; ne assume la maschera allo stesso modo in cui è capace di mimetizzarsi. Non è fuori luogo invocare il carattere indefinito ed esistenzialmente indeciso del personaggio di Ar-letta a proposito dell’alone d’incertezza che avvolge la sostanza del tu di questa poesia. Ma se il tu è parto di un’immaginazione cartesianamente manovrata da altri, anche l’immagine che l’io ha di sé può essere falsa. E l’essere non basta – in quante forme

36 SMA, p. 1517.37 Anche il «futuro» è una forma dell’«inconoscibile», e in quanto tale sarà,

in questo contesto, naturalmente «negativo». Ma è da escludere che con l’espressione Montale intenda alludere al clima apocalittico in cui l’intero ciclo si colloca. L’immagine delle «spirali delle onde nell’ora vespertina» è del resto ben acclimatata nel paesaggio figurativo e stilistico finisterriano: si pensi alle «molli / meduse della sera» degli Orecchini. Sia detto una volta per tutte che le risposte a Guarnieri (cui faremo ricorso anche nel capitolo su ‘Ezekiel saw the Wheel…’) hanno per il critico valore segnaletico più che propriamente ermeneutico.

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la poesia di Montale ce lo dice – per esistere.38 Il male non è più un’entità identificabile, come in Pascoli, sul piano psicologico-morale (l’anima aliena che prende il posto di quella del sogget-to) o su quello naturale (l’estromissione dalla vicenda ciclica di vita e di morte, a sua volta metafora dell’estromissione dal consorzio umano), e quindi rintracciabile, per quanto oscura e misteriosa, come punto di depressione di una configurazione del mondo già disegnata. In maniera più radicale e dentro un paesaggio tutto mentale, in cui i termini in gioco sono le parti stesse del discorso e la sostanza che ricoprono (l’io, il tu), esso è la possibilità medesima della non coincidenza dell’identità con se stessa.

L’inganno cui il tu soggiace («sei lui, ti credi te») erode di ri-mando anche la coscienza che l’io ha di se stesso. E, bisogna ag-giungere, all’interno della dialettica per cui l’io può riconoscere se stesso solo a patto di riconoscere un tu al di fuori di sé, ulterio-re minaccia alla consistenza di una simile dinamica è l’incertez-za sulla sua effettiva realtà. Per cui ogni realizzazione di questa dinamica, come anche ogni fallimento, sono prospettati, sullo stesso piano, soltanto come possibili. Sono cioè subordinate alla possibilità entrambe le vie: sia la presa di coscienza, da parte del tu, della propria identità, e, attraverso questa, il rassicurante adagiarsi dell’io nell’alveo materno del tu («puoi condurmi per mano, se tu fingi…», dove la possibilità appare subordinata a una vera e propria fictio), sia – è importante – la stessa azione misti-ficatoria e illusiva del polipo («può servirsi di te»). Che anche questa sia esperita, al di là di ogni sicurezza, come possibile, che cioè il soggetto si dichiari non del tutto certo nemmeno della realtà dell’inganno, da un lato rafforza con logica coerenza il ca-rattere fondamentalmente ipotetico dell’auspicato contatto col tu, mostrando il verso fallimentare di una possibilità positiva, dall’altro – e qui la presenza del «può» si fa davvero indispen-sabile per comprendere l’essenza di quell’alterità – amplifica e specifica con estremo rigore il potere indistinto espresso nella figura del polipo: al soggetto non è dato sapere se e quando sia

38 Cfr. S. Givone, Lettura filosofica di Montale. Il tempo e il male, in Fondazio-ne Mario Novaro (a cura di), Il secolo di Montale. Genova 1886-1996, Atti del Congresso Internazionale, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 71-82 (in part. le pp. 75 e 79).

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l’Altro, e non il tu, ad agire. Vale a dire, l’essenza dell’Altro è de-finita, è delimitata, dalla stessa impossibilità di sapere se il suo potere agisca o meno: dunque, paradossalmente, dalla sua inde-terminatezza.

Alla luce di queste considerazioni, i versi finali della poe-sia, che con la loro pronuncia recisamente assertiva possono sembrare contraddittori rispetto alla non secondaria sfuma-tura di possibilità della frase precedente, portano in chiaro la condizione del tu e dell’io esprimendo linguisticamente il pa-radosso. Sono sospesi, l’io e il tu, tra due modalità dell’esiste-re poste sullo stesso piano rispetto al problema dell’identità, ma l’una di carattere dissolvente, l’altra di carattere, per così dire, concretante. L’identità del tu appartiene a quell’indistin-ta alterità che la dissolve, che la ingloba; ma allo stesso tempo resiste come persona, maschera il cui incavo nasconde solo il vuoto, ma che alla superficie – e solo lì: questo è il «credersi sé» – mantiene la propria individuata fisionomia. «Tu gli ap-partieni / e non lo sai. Sei lui, ti credi te». Come in una sintassi priva di marcature il «tu/te» si accampa ai bordi di una frase dentro la quale compare un «lui» spoglio di attributi, mero se-gnale grammaticale, così l’identità del soggetto si costruisce, nei modi di un’illusione che cela un non-sapere, attorno a un vuoto d’identità.

Se, sotto gli occhi consapevoli dell’io, l’inganno che involge il tu si palesa in una escalation negativa («può servirsi di te», «tu gli appartieni», «sei lui»), è anche vero che era stata la forza volitiva del tu a trasformare l’inganno in fantasmagoria, a investire l’azio-ne ‘debole’ del «credere» di un’amplificazione, di un potere magi-co che avviasse un contatto autentico tra l’io e il tu. E questa che in fin dei conti è una chimera, trova, dentro lo stesso spazio che essa delimita, un’autenticità paradossale che il lettore, compli-ce l’oltranza stilistica, non può non percepire. La tensione della frase, dell’ardua costruzione di immagini e rapporti, è quella che si misura fra la consapevolezza razionale del poeta dell’assurdi-tà del tentativo, espressa dalla ingabbiante costruzione ipotetica immediatamente negata («non è così»), e la concretezza della fantasia («puoi condurmi per mano», «ciò che stringi»), con una vibrazione emotiva data dalla reduplicazione dei moduli sintat-tici:

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se tu fingi di crederti con me, se ho la follia di seguirti lontano e ciò che stringi,

ciò che dici, m’appare in tuo potere.

Accanto alla rima «stringi»:«fingi», la più forte ed esposta del componimento con appendice in «dici», le numerose inarcature (una interstrofica) sono quelle di un’allocuzione che per tenace sforzo di pensiero strappa terreno al vuoto, si affaccia al limite del verso («se tu fingi…», «se ho la follia…») per pronunciare, dopo il salto nel vuoto, la ipotetica, irrazionale parola di conquista («…di crederti con me», «…di seguirti lontano»).

Come si vede, non tanto genericamente di soggetto è opportu-no parlare, quanto piuttosto di io e di tu, polarità entro la quale è possibile avvicinare il problema dell’identità. L’io montaliano può fare e disfare. Se il primo movimento si apre in forma affermativa, rafforzata dalla particella «pur» come a sottintendere un dialogo o una riflessione pregressa, o a rispondere a un’imprecisata obie-zione negativa («è pur nostro»),39 l’incipit del secondo movimen-to («fosse tua vita…») ribalta e dissolve tutto il sogno dispiegato nel precedente, opponendo al «potere» della donna la certezza dell’inappartenenza della sua figura alla sua stessa «vita». Qui l’io

39 Darei al «pur» questo valore asseverativo, piuttosto che quello di ‘anche’ suggerito da Isella con l’avallo della prima lezione «Come il nostro è il disfarsi delle sere» (cfr. E. Montale, Finisterre, a cura di D. Isella, cit., p. 16). È infatti vero che la lezione cassata pone sullo stesso piano «il disfarsi delle sere» e «il nostro», creando le premesse per un’identificazione dei protagonisti col paesaggio (per cui da «Come il nostro» si passerebbe a un più deciso ‘anche nostro’), e quindi per un’amplificazione semantica della scena. Ma l’idea di una condizione privilegiata dell’io e del tu è già impli-cita nella sintassi e nel tono di questa prima versione, e si sviluppa poi, precisandosi, nella lezione definitiva, in senso, come detto, asseverativo e più marcatamente emotivo, con una sfumatura molto più forte di quella di un ‘anche’. Del resto il verso successivo subisce anch’esso (per primo?) una torsione analoga, con un’anastrofe che marca il costrutto: da «Ed è per noi» si ha «E per noi è» (vi corrisponde, nella prosodia e nella fonosintassi, una riduzione timbrica ad o in 3ª sede dentro analoga cellula ritmica: «È PuR NOstro»/«e PeR NOi»). Infine, analoga oscillazione su «nostro», e sempre in prossimità dialettica con «noi», era negli abbozzi di Due nel crepuscolo, altra poesia dell’«ora vespertina» legata alla figura di Arletta: se ne veda la trascrizione in OV, p. 954.

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è solo, e la relazione col tu si rivela nella sua nuda sostanza di fictio privata della materia emozionale che dovrebbe veicolare: della vita. A Montale non riesce, come auspicava Nietzsche, di «continuare a sognare sapendo di sognare». Il tu si riduce a fi-gura, percepita o forse ricordata, o, addirittura, a personaggio di un sistema creativo-fittivo che è quello della poesia (la ben nota consapevolezza metapoetica di Montale permette una simile il-lazione), ma comunque a un essere che non esce dal perimetro percettivo e intellettivo dell’io. Il poeta rimane «sulle soglie», sul limitare della propria individualità (credo che un paragone con l’isola kantiana non sarebbe improprio), proteso verso un tu che, se avesse una propria vita – «ma non è, non è così» – potrebbe, sempre dal di dentro della coscienza dell’io, essere messo a fuoco, assumere un «volto» e una «figura». La consapevolezza del vuo-to, del male, orizzonte ultimo di ogni percezione d’identità, cor-rode dall’interno la fantasmagoria che l’io stesso aveva costruito, e la «figura» crolla nel momento in cui si forma.

Può sembrare che queste osservazioni smembrino e allo stesso tempo tentino di ricondurre ad un’unica ratio la tramatura della poesia. Non era certo nei propositi, tuttavia, costruire l’edificio in cui tutto tenga, precludendo la strada al riconoscimento di altri strati e rapporti di senso. Il fascino e la densità di questa poesia risiedono in fondo proprio nel carattere mobile e inafferrabile del nesso fra la consapevolezza razionale che impronta il suo dettato – consapevolezza del male e dell’inganno come orizzonte ultimo dell’esperienza umana – e l’aspirazione irrazionale all’abbandono fantastico, possibile risorsa di un’autenticità in cui, paradossal-mente ma in maniera vitale, sia la superficie il volto vero della maschera, e non ciò che dietro si nasconde.

4. Congedo dai testi, o un rapporto a distanza

A questo punto i due testi attorno ai quali s’è sviluppata que-sta indagine dovrebbero essere di nuovo separati, perché pos-sano essere letti nella loro reale autonomia. Dal punto di vista testuale, infatti, non è dato riscontrare una parentela diretta tra Il vischio e Serenata indiana, né l’interpretazione del singolo componimento necessita di addentellati con l’altro per essere

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Figure del nemico. Baudelaire, Pascoli, Montale 45

sviluppata. Ma se tra le varie tipologie di rapporto intertestuale ve n’è una che consiste in una relazione istituibile non a livello di forme (e sostanze) dell’espressione e del contenuto, bensì a livel-lo di materia del contenuto, questo è proprio il caso dei due testi esaminati, che lavorano concorrenzialmente su materiali con-cettuali analoghi, le cui configurazioni si sono tuttavia modifica-te col procedere stesso, in diacronia, del pensiero. Il quasi-calco formale individuato inizialmente è solo la via d’accesso alla rela-zione, e si colloca come cerniera tra una storia dei contenuti di pensiero e la storia letteraria. Entriamo in quest’ultima, infatti, quando il confronto non solo è argomentato dall’interpretazione del lettore, ma è giustificato da dati storico-letterari che rendono plausibile quell’idea di intertestualità concorrenziale e giocata sulle differenze oltre che sulle identità. Questi dati è possibile reperirli – ed è stato fatto dalla critica – non solo lungo l’asse lin-guistico, ma anche lungo l’asse tematico, rilevando tanto punti di contatto quanto divari irriducibili. In questo senso valgono soprattutto le conclusioni di Bonfiglioli, poi riprese da Mengal-do come correttivo alla tentazione della ‘derivazione’ genialmen-te rappresentata da Pasolini.40 La quale pur bisognerà, almeno in parte, assecondare, per percorrere le strade che dal poeta di San Mauro portano ai poeti del Novecento. Strade avventurose, vie del lessico, del suono e del ritmo, e, attraverso determinate configurazioni della materia sonora e verbale, della semantica. È quanto si tenterà di fare nei prossimi capitoli, dedicati alla tra-smissione di nuclei di significante e significato dalla poesia di Pascoli a quella di Montale.

40 Cfr. P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italiana del Novecento, in A. Battisti-ni, G. M. Gori, C. Mazzotta (a cura di), Pascoli e la cultura del Novecento, Marsilio, Venezia 2007, pp. 99-123. I testi cui fa riferimento Mengaldo sono il Pascoli di Pasolini, pubblicato nel ’55 sul primo numero di «Officina» (ora in P. P. Pasolini, Passione e ideologia, prefazione di A. Asor Rosa, Gar-zanti, Milano 2009, pp. 291-300), e il Pascoli e il Novecento di Pietro Bonfi-glioli, del 1958 (P. Bonfiglioli, Pascoli e il Novecento, in «Palatina», a. ii, n. 7, 1958, pp. 14-39). Torneremo più specificamente sulla questione nel terzo capitolo.

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2.PASCOLI NEL MOTTETTO

DELL’ACACIA FERITA

Non recidere, forbice, quel volto,solo nella memoria che si sfolla,non far del grande suo viso in ascoltola mia nebbia di sempre.

Un freddo cala… Duro il colpo svetta.E l’acacia ferita da sé scrollail guscio di cicalanella prima belletta di novembre.

Al mottetto Non recidere, forbice, quel volto… vengono spesso associati i nomi di Dante e di d’Annunzio: il primo a glossa della «forbice», metafora dell’azione distruttrice del tempo qui rivolta alla memoria,1 il secondo come fonte del lessema «belletta», già dantesco, che in forma locativa ricorre nel madrigale Nella bel-letta e negli Indizii.2 Minore attenzione si è prestata ai materiali

1 Cfr. Par., xvi, 9 «lo tempo va dintorno con le force», dove l’espressione si ri-ferisce alla caducità della «nobiltà di sangue». Il riferimento è segnalato ad esempio nei commenti di Dante Isella e di Tiziana de Rogatis: E. Montale, Le occasioni, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 1996, p. 118; E. Montale, Le occasioni, a cura di T. de Rogatis, Mondadori, Milano 2011, p. 148. Sul mot-tetto è tornato di recente Luigi Blasucci: L. Blasucci, Su un noto ‘mottetto’ montaliano: «Non recidere, forbice, quel volto…», in «Per leggere», a. xiii, n. 24, primavera 2013, pp. 58-67 (qui il verso dantesco è citato a p. 59).

2 Cfr. P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, in Id., La tradizione del Novecento. Prima serie, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 15-115 (p. 52). Mengaldo mostra inoltre come il madrigale Nella belletta possa avere in-fluito, con i vv. 7-8 («Ammutisce la rana, se m’appresso. / Le bolle d’aria salgono in silenzio») tanto su Occasioni, Stanze, vv. 37-38 («Ed ora sale / l’ultima bolla in su») quanto su un altro mottetto (La rana, prima a riten-tar la corda…). Ma su questo mottetto e sulle sue venature dannunziane

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pascoliani, che tuttavia, per quanto meno conclamati, sembrano svolgere un ruolo interessante nella strutturazione del mottetto.

Si può partire dalla nota di Isella al «guscio di cicala» del ver-so 7: «reminiscenza dei Canti di Castelvecchio […] da ‘The Ham-merless Gun’, La Pania, 49: ‘una spoglia di cicala’».3 È il caso di estendere la citazione al contesto. Non mancano infatti ulteriori spunti di confronto:

Il fringuello agile frullae, lontano, finc finc… Cade una foglia…

Proprio l’ultima (guardo) d’un querciolosecco! È bastato il soffio di quell’ala,è bastata la molla di quel volo:

eccola giù. Mi siedo sopra il greppo.Era come una spoglia di cicala (penso), rimasta a quel non più che un ceppo:

era gialla, era gracile; ma era l’ultima; che più dì, pendula, tenne…Come il povero vecchio ora dispera,vicino al Rio che mormora perenne!

1. Situazioni lessicali e narrative

Il discorso pascoliano parte dal dato realistico – la foglia che si spicca dall’albero – per subito trascenderlo, o meglio, per inclu-derlo in una similitudine («Era come una spoglia di cicala») sco-pertamente gestita dalla capacità associativa del soggetto («pen-so»). Qui, nella familiarità con cui il personaggio del poemetto ci accosta a un fenomeno che avviene nella mente, la dimensione descrittiva si apre a quella simbolica, col riferimento alla poe-

e pascoliane si veda anche la bella analisi di Giorgio Orelli nel saggio Su alcuni mottetti, in G. Orelli, Accertamenti montaliani, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 17-68 (pp. 54-63). Il verbo ‘tentare’, riferito a strumenti musicali (cfr. anche l’‘osso breve’ Tentava la vostra mano la tastiera…) è gia pasco-liano: si veda ad esempio Poemi conviviali, Solon, v. 40, «tentò le corde fremebonde».

3 E. Montale, Le occasioni, a cura di D. Isella, cit., p. 119 (su suggerimento di G. Contini, Introduzione a “Ossi di seppia”, in Id., Una lunga fedeltà, cit., p. 10).

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sia veicolato dalla cicala (accadrà qualcosa di simile anche nella montaliana L’ombra della magnolia…), proprio su quel monte Pa-nia che dovrebbe essere l’Elicona domestico del poeta.

L’esclamazione finale, che avrebbe interessato Debenedetti come caso tipico di ritorno nei ranghi di una musica facile,4 per-mette la chiusura del quadro su uno sfondo di eternità, su di un basso continuo («mormora perenne») in cui si perde la voce del singolo, del caduco, rappresentata dalla cellula ritmico-tematica «gracile». È del resto tipica in Pascoli la scelta di lessemi quali «mormora» e «gracile» in situazioni tematiche come questa.5

Diverso percorso segue Montale, che tra l’altro non è alle pre-se con una situazione narrativa. Nessuna espansione retorico-simbolica attorno al «guscio di cicala» del mottetto, che invece offre un concentrato di immagini in rapida successione: l’‘io’ del-la prima strofa qui si implicita totalmente negli oggetti della se-conda, con un salto fra i due momenti che ne intensifica il nesso semantico. Ma fin qui siamo nel già detto. Vale la pena notare, però, come la lezione, tipicamente pascoliana e di eredità dante-sca, dell’impiego espressivo delle doppie a potenziare figurazioni di secchezza, sia stata recepita qui come altrove dalla scrittura di Montale. I lessemi «freddo», «svetta», «scrolla» (in rima con «sfolla»), «belletta», hanno funzione analoga ai pascoliani «sec-co», «soffio», «molla», «greppo», «ceppo», «gialla», «tenne», «perenne». E per quanto la parola «belletta», dopo il ‘madrigale dell’estate’, sia di pertinenza dannunziana, non si può trascurare il verbo con il quale essa è in rima, «svetta». Verbo che Montale considera «prezioso in quel luogo» come scrive a Renzo Laurano: «Il significato equivoco di svettare (che tra l’altro vuol anche dire: recidere la vetta) […] m’è venuto spontaneo, non tirato per i ca-pelli, ed è prezioso in quel luogo».6 Il pregio del verbo non è cer-to nel suo «significato equivoco», ma – se ben si considerano le parole di Montale – nella sua assoluta aderenza al contesto e alla

4 Si veda, in G. Debenedetti, Pascoli: la «rivoluzione inconsapevole», pre-fazione di L. Baldacci, Garzanti, Milano 1994, l’analisi del Lauro, special-mente alle pp. 131-133.

5 Come mostrano gli spogli di G. L. Beccaria, Quando prevale il significante, cit.: «La parola tematica ripercuote sul contesto una sonorità tematica» (p. 156).

6 Lettera del 22 novembre 1937 pubblicata, nel 1940, nell’«Almanacco Lettera-rio Bompiani» (Tre lettere a Renzo Laurano): SMA, pp. 1473-1474 (p. 1474).

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‘posizione’ nel testo come rappresentazione: in quella posizione, cioè, il verbo «svetta» ha una drammaticità unica, che dice fulmi-neamente ciò che l’analisi può solo indicare giungendo fino alla deriva della divaricazione di significati (il «significato equivoco») di fronte all’immagine realizzata dal testo. Al significato iconico e espressivo (‘svettare’ intransitivo, detto metonimicamente del «colpo») si affianca perciò quello più realistico, referenziale, e in sostanza razionale di «recidere la vetta» (‘svettare’ transitivo, con oggetto interno). Tutto questo, di fronte alla poesia, è gramma-tica: ma una grammatica – questo ci preme sottolineare – che si troverebbe ben a suo agio nella vita campestre barghigiana, del taglialegna o del contadino che recidono le ‘vette’ delle piante. E difatti il termine «vetta» s’incontra più volte in Pascoli, specie nei Primi e Nuovi poemetti («ed i salci, / che ripulisco ogni anno d’o-gni vetta», Primi poemetti, L’oliveta e l’orto, vv. 33-34). Di «rami […] svettati» si legge in un poemetto delle Varie, I due vicini, v. 211.

Così altri particolari si aggiungono a quello della cicala: la si-tuazione autunnale, riconducibile a certe sonorità secche e cave tipiche degli entroterra campestri pascoliani (si pensi proprio a Novembre), più che della dannunziana Versilia in disfacimento al declino dell’estate; l’albero denudato delle foglie o della spoglia di cicala, immagine della condizione di perdita inesorabile, di ca-ducità in cui il soggetto vive (immagine ‘narrata’ a parte subjecti in Pascoli, risolta nell’oggetto rappresentato in Montale, ma in entrambi i casi fortemente sintetica e icastica); l’azione di una forza spietata (comunque si intenda, nei due contesti, il referente taciuto del tempo); e infine, il particolare della resistenza di un elemento «solo» (Montale) o «ultimo» (Pascoli), che accentra in sé la forza drammatica dell’immagine.

Se si pensa alla memoria dantesca evocata dai versi de La pania («Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso all’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie»)7 risalta l’ori-ginalità con cui Pascoli rielabora la traccia offerta dal modello, il topos delle foglie morte come immagine dei defunti: lo fa se-

7 Inf., iii, 112-114, citato da Nava in G. Pascoli, Canti di Castelvecchio, a cura di G. Nava, Rizzoli, Milano 1983 (ma s’è visto che il passo sta anche dietro Il vischio). La rima «foglie»:«spoglie» è anche in Inf., xiii, 101-103. Altro caso, ma meno pregnante, di foglia singola, ultima rimasta, in Pascoli, è in chiusa dei Due alberi nei Nuovi poemetti.

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condo una variante fortemente affettiva, scartando il plurale sa-pienziale e concentrandosi sulla singolarità di una figura, senza dimenticarne la partecipazione a un destino comune. Anche il mottetto si concentra su una analoga dimensione di singolarità, e anzi la sorte che colpisce l’io e il «volto» nel loro intimo legame trova una rappresentazione che, come in Pascoli, si serve di un meccanismo narrativo, seppure ridotto al momento essenziale, minimo, di una katastrophé. Peraltro, la messa in trama di destini individuali e la predilezione per l’evento sono tratti che, qualora si volesse accostare questo mottetto agli ‘ossi brevi’, cui è vicino per la figurazione naturalistica e preurbana, lo risospingerebbero con maggiore decisione nella serie cui appartiene. Non sfugga, infine, l’uso dei puntini di sospensione: Montale vi indulge con parsimonia, ma qui, come nell’Hammerless, l’accorgimento ha valore narrativo: «Un freddo cala… Duro il colpo svetta».

‘The Hammerless Gun’ è interessante anche per altre possibili disseminazioni nella poesia di Montale. Della quartina «Ecco l’alba (tra selve aride i fossi / vanno col fumo di vaporïere), / pie-na d’un tintinnìo di pettirossi, / cui risponde un tac tac di capi-nere…» (vv. 17-20) andranno considerati l’attacco, simile a quel-lo del mottetto Ecco il segno; s’innerva…, descrizione di un’alba; e, sul piano lessicale e sempre dentro parentesi, le «vaporïere», parenti di terra della «petroliera» della Casa dei doganieri. An-cora, lo scheletro ritmico-sintattico del verso «vanno col fumo di vaporïere» è parte di un sistema, facilmente rintracciabile nella scrittura pascoliana, di versi aperti da un verbo di ‘veni-re’ o ‘andare’: lo stesso, per intenderci, di «Entrò col lume della primavera» (Solon), spesso citato per il «Viene col soffio della primavera» di Bassa marea.8 Leggendo più avanti nel poemetto, ecco che al poeta con l’hammerless in pugno parla proprio La capinera: «Tac tac! anche te? non rammenti / le sere di quella tua mesta / città?». E ancora una volta va chiamata in causa, per una certa eco fonica e ritmica, la Casa dei doganieri: «Tu non ricordi la casa di questa / mia sera…». Vale lo stesso discorso fatto sopra a proposito del modulo ritmico-sintattico: anche qui infatti il «non rammenti» interrogativo si inserisce in una serie ben presente nella poesia di Pascoli, quella delle interrogative

8 Verso su cui torneremo nel prossimo capitolo.

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intime, fàtiche, sospese fra il dubbio e la complicità, una serie che forma il sostrato dal quale staccano i singoli punti notevoli: non isolati quindi, ma investiti di dinamiche diffuse e profonde del terreno poetico cui appartengono.

2. Impronte sonore, impronte semantiche

Ancora seguendo la filigrana pascoliana del mottetto dell’a-cacia, si potrebbe aggiungere un altro riferimento, questa volta decisamente spostato sul piano del significante. Si tratta de I due bimbi, quinto madrigale de L’ultima passeggiata, che termina con questa quartina:

Il vinto siede, prova un’altra voltacoi noccioli, li sperpera, li aduna,e dice (forse al grande olmo che ascolta?):E poi si dica che non ha fortuna!

Si vede bene che, dal punto di vista tematico e contenutisti-co, il madrigale non offre punti di contatto col mottetto dell’aca-cia. Eppure il contenuto della parentesi, quel «grande olmo che ascolta», sembra aver fornito lo stampo (a meno che non si tratti di pura casualità) per il «grande tuo viso in ascolto» di Montale.9

Si direbbe che la via del significante riservi le maggiori sorprese a chi indaghi il rapporto Pascoli-Montale: col premio, che neanche le più astratte formalizzazioni possono negare, di un accrescimento delle risonanze semantiche. Già qui si nota, del resto, come la for-ma ritmico-sintattica sia anche dotata di una peculiare ‘personalità’ semantica, individuata dalla compresenza dell’aggettivo «grande» e

9 In Pascoli in un endecasillabo che la parentesi spezza dopo l’attacco giambico, con il sesto ictus cadente su «grande»; in Montale in un endecasillabo sem-pre giambico nell’incipit, ma declinato in una vibrazione melodrammatica («noN fAR del gRANde…»), con accenti di 4ª («grande», anche qui dunque in posizione primaria) e 7ª («viso»). Il verso montaliano risulta dalla correzio-ne, apportata nell’edizione 1940 delle Occasioni, del precedente «non far sul grande suo viso in ascolto», dove gli elementi forti sui quali insiste il nostro discorso erano già presenti. La correzione è di non poco rilievo semantico: si veda S. Ramat, L’acacia ferita. Appunti sul mottetto xviii, in Id., L’acacia ferita e altri saggi su Montale, Marsilio, Venezia 1986, pp. 107-18 (p. 115).

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dell’azione dell’‘ascoltare’ espressa come espansione del sostantivo (frase relativa o complemento: «che ascolta»/«in ascolto»).

Provando a ragionare nei termini di una metrica e di una sintassi compromissorie (nel senso proposto da Gian Luigi Beccaria),10 ri-chiede attenzione l’impiego di una figura ritmica della tradizione aulica, lo iato dopo l’accento di 6ª («grande ^ ólmo che ascólta») che consente nell’endecasillabo l’esecuzione della clausola esa-metrica (esecuzione, appunto, giacché lo iato non è metrico e il computo sillabico viene rispettato): il fatto è che in questo caso lo stilema nobilitante è smorzato in una collocazione più «intima» (Beccaria), prodotta dalla parentesi, a sua volta luogo di resistenza al flusso degli endecasillabi. Una figura per solito adibita a effetti di sostenuto viene così a conferire maggiore vibrazione alla domanda posta nella parentesi. La parentesi stessa, l’interrogativa, il «forse» che la apre, sono accorgimenti tipici del Pascoli simbolista, capace di svelare o di lasciar intuire una dimensione seconda accanto a quella rappresentata per dati minuti e realistici.11

Così è la figura dell’«olmo» a emergere, grande (ma grande in senso affettivo: magnanima e comprensiva) di fronte al mondo in piccolo dei bambini. Figura paterna e adulta, rassicurante, quel-la dell’olmo non assolve dunque a una mera funzione esornativa, ambientale. Ed è proprio questo plusvalore affettivo che giunge, at-traverso il modulo ritmico-sintattico, al mottetto dell’acacia.12 Non siamo, occorre ripetere, sul piano di una coincidenza nei contenuti che non c’è, ma su quello di un significante che si riveste di un mini-mo di figuratività (il «grande», l’‘ascoltare’) e che veicola, in questo modo, dei tratti semantici: la relazione affettiva, la corrispondenza, in uno spazio che è fisico-simbolico in Pascoli, mentale in Montale.13

10 G. L. Beccaria, Compromessi tra significanti. Tradizione e innovazione nelle figure ritmico-sintattiche pascoliane, in Id., L’autonomia del significante, cit., pp. 209-284 (cfr. in part. p. 228).

11 Come nota Beccaria, l’uso pascoliano della parentesi (innovativo anche rispetto a quello che ne fa d’Annunzio) esercita una certa suggestione su Montale. Cfr. G. L. Beccaria, Compromessi tra significanti, cit., pp. 282-84.

12 Nella declinazione che dello stampo ritmico-sintattico offre il mottetto, «viso» occupa il luogo di «olmo». «OlmO», tuttavia, fa valere la sua eco su «ascOLtO», già in rima con «vOLtO»; «volto», poi, si intensifica in «vIso», non solo fonicamente, ma anche per una ridondanza semantica ‘esponen-ziale’: «suo viso», cioè «viso» del «volto».

13 Il modulo è ricorrente all’interno del sistema pascoliano: si veda ad esem-

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A questo punto sarà da approfondire il suggerimento, fornito dal luogo pascoliano, di un piede esametrico, che nel caso del mottet-to tende a strutturare certe zone della versificazione: «non far del grànde suo vìso in ascólto / la mia nébbia di sèmpre». La clauso-la d’esametro («vìso in ascólto»),14 sospende il corso del ritmo, e si rende complice dell’innegabile ipersignificazione dell’immagi-ne, le fa da cassa di risonanza: quel viso è intenso nell’espressione proprio perché intento, perché gli viene attribuito uno stato che sarebbe più propriamente della persona («in ascolto») ma che si proietta sul suo viso, sulla sua apparenza esterna, unica traccia che di quella rimane al poeta (la «spoglia di cicala»).15 Alla sospensio-ne segue l’attacco in salire del verso successivo, «la mia nebbia di sempre», che, puntando sulla parola «néBBia», anticipa l’effetto, imminente, della «forbice-accetta»,16 confermando, dopo «sfoL-La», la serie negativa delle geminate postoniche (poi «freDDo», «sveTTa», «scroLLa», «belleTTa»). Ma se al colpo dovranno segui-re il silenzio, la staticità della «belletta», non sembra fuor di luogo interpretare la prosecuzione del verso (in sé un settenario) come ritorno alla clausola esametrica («nebbia di sempre»), in conclu-sione di un movimento che sale, raggiunge un picco, e scende di nuovo alla stasi. Seguendo i suggerimenti di Beccaria sulla fortuna del ‘quinario-adonio’ pascoliano nel Novecento, e in particolare in Montale,17 verrebbe da dire che qui nel settenario che chiude la strofa si mascheri, si includa, proprio quella cellula ritmica quina-ria che compone, preceduta da tre endecasillabi, la strofe saffica. Questo – sia detto senza dimenticare il reale aspetto della strofa –

pio, nei Primi poemetti, L’eremita («nella grande ombra che tace»), o, in Odi e Inni, Chavez («con la sua grande anima sola»). Proprio la ricorsività di determinate configurazioni testuali, caratteristica vistosa della poesia di Pascoli, può avere un ruolo nella trasmissione di talune soluzioni alla poe-sia del Novecento. Approfondiremo la questione nel prossimo capitolo.

14 Qui la clausola non si giova dello iato, ma il particolare è riscontrabile in altre situazioni del verso montaliano. Su frequenza e funzioni della clau-sola esametrica in Montale si veda G. L. Beccaria, Compromessi tra signifi-canti, cit., p. 222 (ma l’esemplificazione è reperibile lungo tutto il saggio).

15 Mi accorgo che anche Fortini si serviva di questa parola, «intento», per pa-rafrasare il sintagma «in ascolto», in un saggio del 1945 (La poesia è libertà) citato da Blasucci (L. Blasucci, Su un noto ‘mottetto’ montaliano, cit., p. 60).

16 Così Montale a Laurano (SMA, p. 1474).17 G. L. Beccaria, Compromessi tra significanti, cit., p. 268.

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Pascoli nel mottetto dell’acacia ferita 55

potrebbe costituire ulteriore indizio di una sovrapponibilità fra si-stemi metrici, difficile da afferrare essendo ciascuno dotato di una marcata individualità e coerenza interna.18

Un’ultima osservazione. Ogni lettore sa che il madrigale de I due bimbi proviene da una rilettura del quadretto dantesco del «gioco della zara», che apre il canto sesto del Purgatorio. Ai fini del nostro discorso nemmeno tale aspetto va trascurato: non sarà lo sfondo testuale dantesco, l’aria di casa, a rendere più appetibili per Mon-tale – o magari solo per il suo orecchio – certi luoghi pascoliani, pur estranei al suo gusto? Veramente occorre affidarsi al movente puramente fonico e ritmico di fronte a certi fatti di riemersione in poesia. A prescindere cioè da ogni rapporto fra l’orizzonte storico, ideologico, di poetica e di tecnica fra gli autori e fra i loro testi (rap-porto che in ogni caso, a ben vedere, si risolve a favore dell’indivi-dualità, della circoscrizione storica di ciascuna figura, col suo irri-ducibile senso e messaggio), resta tuttavia, sempre sorprendente e tanto più quando affiora dopo percorsi carsici e segreti, una vena autonoma della poesia, trasmissione vitale e sempre rinnovantesi delle sue forme, della materia dei suoi suoni. Tale carsismo e strati-grafia del fenomeno poetico ci sorprende, dico, tanto più di fronte a testi di fortissima decisione semantica e formale, vere e proprie pietre inscalfibili della storia della poesia. Ecco allora, accanto al mottetto dell’acacia (che è uno di quei preziosi lapilli), la scheggia pascoliana. Due versi da Nell’orto, nell’appendice ai Canti di Castel-vecchio intitolata Diario autunnale:

E il cielo è bigio e smorto,la nebbia fuma, fredda punge l’aria.

Venature che si ritrovano nel mottetto:

…del grande suo viso in ascoltola mia nebbia di sempre.

Un freddo cala… Duro il colpo svetta.

18 Come ricorda sempre Beccaria, il quinario è fenomeno forte, da ‘orecchio interno’, della metrica montaliana, «una sorta di interiorizzazione ed allu-sione metrica all’aulica chiusa» (ibid.).

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Bisogna astrarre e soffermarsi sugli elementi, non tenendo trop-po conto delle pause logiche (delle virgole insomma) e persino del contesto. Suoni, vocabolario, cadenze: è la materia che riecheggia dall’uno all’altro testo, una materia organizzata in rete ritmico-so-nora: a «bIgiO e smOrtO» risponde «vIsO in ascOltO», all’endeca-sillabo pascoliano «la nebbia fuma, fredda punge l’aria», quello di Montale «un freddo cala… Duro il colpo svetta»; dove si vede che la bipartizione dell’endecasillabo è solo uno degli elementi d’un sug-gerimento che investe l’intero spettro ritmico e sintattico del verso. Ma a partire da questo primo impulso, che è sempre d’impronta ritmica, sonora, sintattica (con vari bilanciamenti di queste com-ponenti), è anche il lessico a mostrarci, in casi come questo, che dietro le forme e la materia (la materia dinamicamente, elastica-mente formata) si agitano immagini, sensi, nodi emotivi. Stavolta si trattava della «nebbia», quella nebbia che non compare solo qui nella poesia di Pascoli, ma vi spesseggia in condizioni figurative di costante tensione simbolica. Anche questo infatti vedremo: dietro la soluzione di un poeta, che portiamo a far reagire col testo di un altro poeta, c’è quasi sicuramente un paradigma, un sistema di co-stanti, che le dà spessore. Queste costanti cooperano a disegnare delle ‘situazioni’ testuali particolari, le quali non sono esenti, come tutti i fenomeni testuali in poesia, dal veicolare particolari valori connotativi (nel caso del mottetto abbiamo visto trattarsi di un va-lore di affettività). Identifichiamo, e identificheremo, tali situazio-ni a un livello di analisi che potremmo definire – ma il lettore non mi prenda troppo alla lettera – spettrografico, di scomposizione in figura della superficie testuale, dove la figura sia data da elemen-ti notevoli, ‘forti’, d’ordine fonico, ritmico, sintattico. Un’analisi di questo tipo mira chiaramente più al mobile aspetto della storia del-le forme che non al senso dei singoli testi, il quale apparirà anzi, talvolta, scandalosamente obliterato. Ma i testi, si sa, resistono con la loro integrità di messaggio, di cose salde, anche quando li si vo-glia considerare, e a fini non biasimevoli di euresi, come ombre.

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3.VOCI SMARRITE, VOCI SOFFOCATE

UN PASCOLI DI MONTALE

Il saggio di Nencioni Agnizioni di lettura, che abbiamo citato all’inizio del primo capitolo, offre tra le tante una formulazione che fa ancora al caso nostro. In senso «irradiante e quindi pro-spettivo», scrive Nencioni, andrebbe inteso ciò che si suole chia-mare tradizione (Nencioni pensa da filologo: dunque, in tutta la concretezza del termine, traditio), e che spesso s’intende in ma-niera «passiva», puntando cioè «sull’aspetto ricettivo e quindi retrospettivo».1 Si può provare a identificare un Pascoli di Mon-tale a partire non da Montale, ma dagli elementi, dalle caratteri-stiche e dalle configurazioni testuali della poesia e dell’opera di Pascoli che, col senno del poi, si impongono alla nostra attenzio-ne carichi di futuro: «sistemi espressivi», diceva Anceschi, con cui la poesia di Pascoli «preparò qualche cosa di utile ai poeti seguenti, un modo operativo di servirsi della lingua e di articolare le figure».2

1 G. Nencioni, Agnizioni di lettura, cit., p. 192. Tengo fermo che quando si parla di tradizione l’atteggiamento mentale più redditizio è quello di considerare la tradizione in senso plurale, come «fascio o trama», secondo l’espressione di Nencioni, o, per dirla con Anceschi, come «insieme fitto e complesso di reti di tradizione» (L. Anceschi, Altre circostanze, per il libro, nota del 1978 ai Lirici greci ora in S. Quasimodo, Lirici greci, a cura di N. Lorenzini, con tre scritti di L. Anceschi, Mondadori, Milano 2004, pp. 335-341, p. 336). Ma anche come «sistema», e non per amore della parola o del concetto, ma per scopi pratici d’indagine, come fa Conte in Memoria dei poeti e sistema letterario, cit.

2 L. Anceschi, Pascoli verso il Novecento, in «il verri», a. ii, n. 4, 1958, pp. 9-33 (p. 21). Sono pagine fondamentali la cui prospettiva resta fertile anche quando si consideri che ciò che Anceschi individuava, in quegli anni, come «lirica del novecento» (vedi nel saggio, in particolare, le pp. 13-17) era un istituto che egli stesso contribuiva, in quel momento, a rinnovare, conta-minare, polarizzare in nuovi rapporti (pensiamo all’«intenzione all’epica» individuata in Eliot e in Pound), a tutto vantaggio della poesia che si faceva allora, e si sarebbe fatta poi, in Italia (su questo si veda F. Curi, Anceschi e

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Il movimento della nostra ricerca è in realtà oscillatorio, poi-ché, se tentiamo di ascoltare Montale in Pascoli, non possiamo poi evitare di riascoltare, per coerente verifica, Pascoli in Mon-tale. Attraverso questo movimento cercheremo di portare alla luce le linee di quell’«itinerario metamorfico» che – scrive Niva Lorenzini di fronte al Pascoli di un altro poeta, Caproni – «af-fiora alla superficie quando lo consentono particolari condizioni strutturali, tematiche, metaforiche».3 È infatti possibile registra-re, e circoscrivere in un insieme coerente, fenomeni di memoria testuale che, come vedremo, sembrano avere matrice comune in un determinato nucleo di motivi e di necessità semantiche.4

l’orizzonte della poesia, in «Studi di estetica», a. xli, n. 47, 1996, pp. 93-113).3 N. Lorenzini, Itinerari della memoria testuale: Pascoli e Caproni, in Ead.,

Le maschere di Felicita. Pratiche di riscrittura e travestimento da Leopardi a Gadda, Manni, Lecce 1999, pp. 82-100 (p. 82). Le premesse teoriche del saggio si estendono oltre la poesia del solo Caproni, prolungando le ri-flessioni del Pascoli di Anceschi. A taglio con la nostra prospettiva anche ciò che la Lorenzini scrive a p. 98: «i percorsi della poesia sono veramente imprevedibili: può mutare la funzione di un topos, di un campo semantico, ma resta la memoria testuale a incidersi, per itinerari sotterranei, nella carne viva delle parole, tramite una suggestione visiva o l’eco fonica di una modulazione ritmica».

4 Occorre a questo punto fornire un vademecum dei più importanti studi sul rapporto Pascoli-Montale, giacché in questo capitolo l’analisi si farà più este-sa e più frequente sarà il ricorso alle voci della ricerca che ci ha preceduto. S’è già citato il Pascoli di Pasolini, accanto al Pascoli e il Novecento di Bonfiglioli. Di quest’ultimo sono numerosi i lavori su Pascoli e Montale: P. Bonfiglio-li, Pascoli, Gozzano, Montale e la poesia dell’oggetto, in «il verri», a. ii, n. 4, 1958, pp. 34-54; Pascoli e Montale, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, in «L’Archigin-nasio. Bullettino della Biblioteca comunale di Bologna», Commissione per i testi di lingua, Bologna 1962, 3 voll., I, pp. 219-243; Dante Pascoli Montale, in L. Anceschi (a cura di), Nuovi studi pascoliani, Centro di cultura dell’Alto Adige – Società di studi romagnoli, Bolzano-Cesena 1963, pp. 35-62; Il ‘ritor-no dei morti’ da Pascoli a Montale, in Pascoli, Atti del convegno nazionale di studi pascoliani, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 1965, pp. 55-72. Di Anceschi si vedano, oltre al già citato Pascoli verso il Novecento, almeno Pa-scoli e le istituzioni del Novecento e Poetiche e istituzioni di un D’Annunzio ‘sperimentale’, in L. Anceschi, Le istituzioni della poesia, Bompiani, Milano 1983, pp. 135-177 e 179-205 (un percorso negli studi pascoliani e dannunziani di Anceschi è in N. Lorenzini, Pascoli e d’Annunzio verso il Novecento? in R. Barilli, F. Curi, E. Mattioli, L. Rossi (a cura di), Luciano Anceschi tra filosofia e letteratura, CLUEB, Bologna 1997, pp. 165-178). Considerazioni e sondaggi sul Pascoli di Montale si trovano poi nel già citato saggio di Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale (del 1966, aggiornato per la prima edizione in volume

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1. «E tutto cade, tutto va, si perde»

Quando si legge il mottetto dell’acacia per intero, quando ci si interroga sulla sua forma individuata e autonoma e sul suo sen-so, allora non c’è richiamo pascoliano che tenga. E lo stesso vale, mutatis mutandis, per un testo come Nell’orto, che, se a rileggerlo

del 1975). Mengaldo è in seguito tornato sul tema, dando largo spazio al rap-porto Pascoli-Montale in Pascoli e la poesia italiana del Novecento. Si trovano qui, tra l’altro, utili considerazioni sulle divergenti posizioni di Bonfiglioli e di Pasolini, di due approssimazioni, cioè, eccessive l’una «per difetto», l’altra «per eccesso» (P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., pp. 101-103). Prospettiva d’analisi che condividiamo, analoga a quella espressa da Girardi in Pascoli e Montale: «Si può parlare in termini di ‘opposizione ideologica’ [Bonfiglioli], certo, ma, d’altra parte, di larga simpatia, pasoli-nianamente, per sperimentazioni e risorse tecnico-stilistiche pascoliane, e, limitatamente, per alcuni spunti tematici» (A. M. Girardi, Pascoli e Montale, cit., p. 160). Questo saggio si distingue per il tentativo, non privo di utili ac-quisizioni, di estendere i sondaggi (rispetto alle ricerche di Bonfiglioli e al Mengaldo di Da D’Annunzio a Montale) anche ai Poemetti, Primi e Nuovi, ai Conviviali, a Odi e Inni, raccolte che qualche peso pur ebbero, come vedremo, nella formazione della memoria pascoliana di Montale (il Pascoli di Montale considerato da Mengaldo nell’ultimo intervento resta invece quasi esclusiva-mente quello di Myricae e dei Canti di Castelvecchio). È da dire che non tutti i riscontri portati da Girardi sono convincenti, specialmente quando analogie tematiche o metaforiche non siano suffragate da prove testuali forti, che si impongano cioè all’orecchio per analogia fonica, ritmico-sintattica, lessicale. A distanza di pochi anni da Mengaldo è tornata sul tema Pascoli-Montale Francesca Nassi: F. Nassi, Echi pascoliani nelle “Occasioni”, in P. Polito, A. Zollino (a cura di), Paesaggio ligure e paesaggi interiori nella poesia di Eu-genio Montale, Atti del Convegno internazionale (Riomaggiore-Monterosso 2009), Olschki, Firenze 2011, pp. 231-247. Condivido di questo saggio l’indica-zione di ricerca di una «continuità di impiego semantico di certi moduli tra Pascoli e Montale» (p. 237), ma non mi spingerei a indicare, in certi luoghi montaliani, una relazione di allusività vera e propria nei confronti di Pascoli (p. 233, p. 243). Non si possono trascurare, infine, le indagini in area carduc-ciana e crepuscolare, ossia sul ‘prima’ e sul ‘dopo’ immediati di Pascoli e d’An-nunzio. Si vedano almeno, per Carducci, T. Arvigo, Da Carducci a Montale: una ‘linea’ possibile?, in E. Pasquini, V. Roda (a cura di), Carducci nel suo e nel nostro tempo, Bononia University Press, Bologna 2009, pp. 589-598, e M. M. Pedroni, «Il Carducci meno eletto» di Montale, in «Studi e problemi di critica testuale», n. 86, aprile 2013, pp. 125-166; e, per i crepuscolari, i saggi, pur appartenenti a stagioni e orientamenti diversi, di Sanguineti, Bonfiglioli e Blasucci: E. Sanguineti, Da Gozzano a Montale (1954), in Id., Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1970, pp. 17-39; P. Bonfiglioli, Pascoli, Goz-zano, Montale e la poesia dell’oggetto, cit.; L. Blasucci, Montale, Govoni e l’‘og-getto povero’, in Id., Gli oggetti di Montale, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 15-47.

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può gettare qualche lampo su Montale, tendendosi in avanti, ha poi una sua musica propria che lo riporta indietro al luogo, al tempo e al poeta cui appartiene.

Ma basta poco a ridestare quel legame. «E tutto cade, tutto va, si perde»: sembra un verso di Montale, ed è un verso di Nell’orto. E quando si legge, nel Giorno dei morti, «Sibila tra la festa lagri-mosa / una folata, e tutto agita e sbanda», viene in mente Arsenio:

…fuma il suolo che t’abbevera,tutto d’accanto ti sciaborda, sbattonole tende molli, un fruscio immenso radela terra…

…e ancoratutto che ti riprende, strada porticomura specchi ti figge in una solaghiacciata moltitudine di morti…

La chiave della ‘trasmissione’ è la parola «tutto» (ma tornere-mo anche su «agita e sbanda»). «Uomini e fiere, in casolari e tane, / tacciono. Tutto è chiuso» si legge ancora nel Giorno dei morti. Pascoli ha saputo scoprire dentro questa parola un senso di sbigot-tita perdizione delle cose: «Tutto è chiuso, senza forme» (Finestra illuminata, Myricae); «Tutto, intorno, screpola rotto» (L’uccellino del freddo, Canti di Castelvecchio); «e l’acqua scroscia su le morte foglie; / e tutto è chiuso, e intorno le ventate / gettano l’acqua alle inverdite soglie» (In ritardo, Canti di Castelvecchio).5 Percepiamo così, tanto più nettamente, la novità, la peculiarità di una soluzio-ne come quella di Arsenio, la compenetrazione fisica di uno scon-volto mondo esterno con l’io fatto «giunco»: «fuma il suolo che t’abbevera / tutto d’accanto ti sciaborda», «tutto che ti riprende».

5 Ancora, da Myricae: «E tutto è bianco e tacito al mattino» (Dialogo); «E tutto albeggia e tutto tace» (Finestra illuminata); «quando tutto cade, / stingesi, e muore» (Germoglio); «Il cielo s’alza e tutto trascolora» (Rammarico). Dai Canti di Castevecchio: « nuvola fosca / che tutto fa sera» (Il brivido); «Tutto pende tacito e tetro» (La servetta di monte); «Tutto annerò» (Il bolide). Mi-nori ma significative occorrenze nelle altre raccolte. Fra i Primi poemetti, ad esempio: «Non gemono le porte / più, tutto oscilla in un silenzio austero» (Il libro; tipico di Pascoli, e premontaliano, il «più» sospinto ad agganciare il verso successivo); «e tutto si scolora» (L’asino). Notevole, nei Conviviali, l’«infinito / ansar di tutto» di Tiberio, che ci riporta ad Arsenio.

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Pascoli è un poeta che ‘si ricanta’, anche a diversi livelli stili-stici e persino in contesti di senso opposto. Gli è stata rimprove-rata, specie nelle opere degli ultimi anni, una stanca ripetizione di moduli già esperiti. Ebbene, in una prospettiva di trasmis-sione di forme e di suggerimenti tecnici una simile caratteri-stica conferisce spessore e coerenza al singolo tassello. Ciò che riecheggia da una particolare poesia è spessissimo di casa nel-la poesia di Pascoli in generale. E il rumore di fondo influisce tanto quanto il suono singolo e distinto, poiché vi è coordinato. Nel caso della parola-vettore «tutto», per giunta, chiunque ab-bia nell’orecchio un po’ di Montale non faticherà a riconoscere come il seme gettato da Pascoli abbia attecchito sul nuovo ter-reno poetico dando vita a quello che, in Montale a sua volta, diventa un sistema, un paradigma. Dagli Ossi: «Tutto fra poco si farà più ruvido» (Marezzo), «Tu chiedi se così tutto vanisce / in questa poca nebbia di memorie» (Casa sul mare). Dalle Occa-sioni: «Come tutto si fa strano e difficile, / come tutto è impossi-bile, tu dici» (Carnevale di Gerti), «Varcano ora il muro / rapidi voli obliqui, la discesa / di tutto non s’arresta» (Bassa marea), «E tutto è uguale» (Punta del Mesco). In Costa San Giorgio lo stilema è diventato attonito refrain: «Lo so, non s’apre il cer-chio / e tutto scende o rapido s’inerpica / tra gli archi», «Nulla ritorna, tutto non veduto / si riforma nel magico falò», fino alla frase secca, senza scampo, «tutto è uguale» (come in Punta del Mesco): «Tutto è uguale; non ridere: lo so».

Là dove la frase più si contrae in secchezza assertiva, e la den-sità di realia è convogliata in soluzioni dove la grammatica è trat-tata di scorcio («tutto che ti riprende», «la discesa / di tutto»), lì cogliamo a un tempo l’eredità della lezione pascoliana e il punto di passaggio a una poetica nuova. Il lacerto «tutto è chiuso», che abbiamo citato da Pascoli in tre occorrenze diverse e che così iso-lato manifesta una carica densa di futuro in senso ‘novecentesco’, si stempera nel contesto se dalla lettura discreta (che aveva addi-rittura spezzato un endecasillabo) torniamo a quella legata della terzina:

Uomini e fiere, in casolari e tane, tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino socchiude l’uscio del tugurio al cane.

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Il «tutto» di Pascoli designa ancora, seppure caricato d’in-quietudine, la somma delle cose di una scena, o, nei casi di maggiore enfasi (ma di più debole effetto), l’insieme, la totalità degli elementi della natura. Gli si può sempre trovare un corri-spettivo nell’insieme dei dati che, nella scena del testo, il poeta ci ha fornito: è, rispetto alla visione, il tratto riassuntivo, non quello che la scardina. E il brivido e l’inquietudine, che non si vuol negare vi siano, risiedono nell’ampiezza che questo rap-porto di sineddoche, condensato nella parola «tutto», riesce a trovare. In Montale, invece, la parola è via d’accesso diretta al piano metafisico, è entità autonoma, elemento che gli oggetti posti in campo nella poesia non bastano a spiegare poiché si pone in un ordine altro, di senso separato rispetto alle figure e alle cose rappresentate.6

Frasi spezzate, e, dentro il contesto, assolutizzazione gram-maticale (ma non semantica) del vocabolo «tutto» preludono in Pascoli, tecnicamente, agli esiti montaliani, mentre la di-stanza è segnata da una diversa intenzione epistemologica alla parola.7

Ma ci interessa anche sottolineare la fertilità, per l’orecchio cri-tico, della duplice lettura, isolante e contestuale (vi sovrintende il principio che la lettura è esperienza dialettica, plurivoca, e a più velocità). Ciò che per noi è lettura a ritagli, per i poeti che ven-nero dopo Pascoli (i quali peraltro erano anche lettori, prima che poeti) fu operazione tecnica intesa a cogliere e tradurre in atto ciò che di potenziale poteva annidarsi nella poesia pascoliana.

6 Più negli esempi citati dalle Occasioni che in Arsenio, dove la parola ha ancora il valore comprensivo dei dati scenici che è in Pascoli, anche se con quel fondamentale slittamento sul tu, in forma di coazione, che abbiamo notato («tutto che ti riprende»). Naturalmente la tradizione che si accam-pa dietro un testo resta pluridimensionale; non sarà quindi sconveniente fare, con Contini, il nome di Sbarbaro: «l’importanza anche storica della sua poesia discorsiva, in endecasillabi sciolti (inframmezzati qua e là da qualche moncone), è stata notevole, in particolare sul Montale di Arsenio» (G. Contini, Letteratura dell’Italia Unita, cit., p. 726).

7 E poiché s’è fatto il nome di Sbarbaro, occorrerà riconoscere certa sua me-diazione anche nel caso particolare della parola «tutto» caricata di sensi: «tutto m’intenerisce e mi dà gioia» (Il mio cuore si gonfia per te, Terra…, in Pianissimo); «Tutto è sospeso come in un’attesa» (Io che come un sonnam-bulo cammino…, ivi).

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2. «Voce nuova, eppur nota ad ascoltarla»

Il verso «tutto è uguale; non ridere: lo so» può essere ripre-so a segnare ancora un passo nella ricerca delle relazioni fra la poesia di Pascoli e quella di Montale. Vi si avverte, se non ci in-ganniamo, un’altra modulazione pascoliana. Appare e scompare, assorbita dai gangli tenaci della ben nota concentrazione fonica e lessicale montaliana, che qui con la rima «ridere»:«stridere» ci riporta in carreggiata:

non ridere: lo so,lo stridere degli anni fin dal primo,lamentoso, sui cardini…

Ma intanto per un attimo abbiamo risentito Pascoli, il Pascoli di Colloquio in Myricae:

Io devo dirti cosa da molti anni chiusa dentro. E non piangere. La vitache mi desti…

Non piangere. È uno sforzo così mesto…

Non piangere… Sarebbe così bello…

…t’avrei qui; lo sento:viva; lo so: perdonami; sorridi.

Ma sì: la vita mia (non piangere!) oranon è poi tanto sola…

Di tutta Colloquio – cinque movimenti composti ciascuno di un sonetto – forse ciò che più rimane dentro l’orecchio è quel «non piangere», modulato in frasi spezzate eppure legate, for-mula di contatto con l’interlocutrice e insieme di trasmissione musicale del discorso. Che non è fatto isolato, ma tecnica estesa in Pascoli, se si ricorda il Vischio (e quanto ne scriveva Pasolini) o anche Digitale purpurea. Rimane forse di Colloquio, nella me-moria di Montale, anche un sintagma, «nel dolce viso attento» (riferito naturalmente alla madre) che qualche eco può avere nel «grande suo viso in ascolto» di Non recidere, forbice, quel volto…

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Un’illazione, forse. Ma la dissoluzione del ricordo, e del ricordo di un «viso», quello materno, a suo modo l’aveva sperimentata anche Pascoli, sempre in Myricae, in uno dei sonetti intitolati Anniversario (Sono più di trent’anni…): «e già gli occhi materni io penso a vuoto; / e il caro viso già mi si scolora; // mamma, e più non ti so».

Forme di insistenza stilistica e lessicale ha del resto il ribadito dialogo con i morti, e con la madre in particolare: dialogo dico, e non semplicemente il rapporto coi morti che si esprime nel-la figura topica del ‘ritorno’. Poiché se è vero, come ha mostrato Bonfiglioli, che le premesse di un rapporto, e quindi anche di un ritorno, cambiano da Pascoli a Montale col cambiare dell’oriz-zonte di pensiero e della percezione del mondo,8 è anche vero che la concentrazione di tensione dialogica delle liriche di Pascoli sui propri morti è premessa di alcuni tentativi di Montale fra i più ar-dui in direzione di una comunicazione con figure finite, assorbite dal nulla. E non penso alle tematizzazioni, diciamo, per Pascoli, alla Tessitrice o per Montale al «lungo colloquio coi poveri morti» di Notizie dall’Amiata (ma «i miei morti» dell’Arca e di Proda di Versilia è già nel Giorno dei morti e nei Gigli di Myricae). Penso a qualcosa di più sfuggente, a una sorta di ossessione del mutismo che in alcune liriche di Pascoli dà luogo a ragnatele labili di suoni, che con qualche parola-spia imprigionatavi dentro accade poi di ritrovare in Montale.

Si consideri ancora un segmento di Colloquio: «O madre sep-pellita, / che gli altri lasci, oggi, per me». E poi, dal Giorno dei morti: «Chi parla? / Voce velata dalla sepoltura, / voce nuova, ep-pur nota ad ascoltarla»; o dalla Voce, nei Canti: «voce stanca, voce smarrita», «voce stanca, voce perduta». E infine, dalla Messa, nel Ritorno a San Mauro:

La panca vedrai dove un giorno veniva coi piccoli intornotua mamma: venivi anche tu.

Pregava – tuo padre non c’era –pregava; ma quella preghieras’è forse smarrita laggiù.

8 P. Bonfiglioli, Il ‘ritorno dei morti’ da Pascoli a Montale, cit.

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Ed ecco Eastbourne:

E vienitu pure voce prigioniera, scioltaanima ch’è smarrita,voce di sangue, persa e restituitaalla mia sera.9

Ancora, si prenda Notte d’inverno, sempre nei Canti. La «voce» del treno, il cui suono desta illusioni e ricordi, è «di bronzo»: e qui par di leggere più Carducci che Pascoli. Ma è anche, quella voce, una «voce straniera»: «quando la voce straniera, / di bronzo, me chiese». Col che il paradigma che stiamo ricostruendo si arric-chisce in due sensi. Da un lato «straniera» si affianca a «velata», «stanca», «smarrita», «perduta» ecc. Dall’altro si scopre un filo di rime che si avvolge ossessivo nei Canti di Castelvecchio, in specie nella parte finale, quella ‘funebre’, del libro, così bene indagata da Garboli.10 Rime che dal costituente minimo «era» si stendono a captare parole come «straniera», «sera», «preghiera», «prima-vera» (le più ricorrenti; ma ce ne sono altre, fino alla tematizza-zione della rima in La mia sera). Avremo così «straniera»:«era» in Notte d’inverno, l’ipermetra «erano»:«preghiera» nella Voce, «primavera»:«sera» nella Figlia maggiore, e ancora – abbrevian-do l’esemplificazione – «sera»:«primavera» in In ritardo, fino alla canzoncina che a ondate interrompe Mia madre nel Ritorno a San Mauro, che inanella «sera», «mattiniera», «era», «preghiera», e ancora «sera» e «era». Ora, direi che non tanto il singolo luogo pascoliano, preso in sé, opera sulla memoria poetica di Montale, ma l’intero paradigma, con la sua densità, preme sulla sua scrit-tura; con questo di caratteristico, che i punti in cui maggiore è l’addensamento di questi elementi acquistano forza impressiva

9 Versi per i quali Mengaldo scrive: «e chi non sentirà un retrogusto pasco-liano in questo grande largo di Eastbourne?» (P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 122; ma cfr. già Id., Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 36, nota 42). Si consideri inoltre in Eastbourne l’ennesima occorrenza di «tutto», congiunta a una memoria foscoliana (la «forza» dei Sepolcri che s’incontra anche nei Morti): «Tutto apparirà vano: anche la forza / che nella sua tenace ganga aggrega / i vivi e i morti».

10 C. Garboli, Trenta poesia famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, Torino 2000, in particolare il capitolo sul Ritorno a San Mauro (pp. 267-365).

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dalla costanza e dall’insistenza con cui gli stessi elementi si pre-sentano, sparsi e isolati, nell’insieme. E il paradigma, in Montale, si realizza e si rinnova:

Viene col soffio della primaveraun lugubre risucchio d’assorbite esistenze; e nella sera,negro vilucchio, solo il tuo ricordos’attorce e si difende.

S’è già fatto il nome di Pascoli per questi versi di Bassa marea. Si cita spesso, ad esempio, il verso di Solon «Entrò, col lume della primavera» accanto al «Viene col soffio della primavera» di Mon-tale.11 Sarà giusto. Ma più giusto, mi sembra, è chiamare in causa il vario repertorio di «viene», di «giunge» ecc. sparsi nella poesia di Pascoli, poiché è questo che si accampa, con la sua insistenza, dietro un verso, anche uno solo, di Montale.12 Ne costituisce la premessa storica, più o meno passibile, poi, nel fatto minuto, di realizzazione particolare, di rapporto privilegiato fra luogo e luo-go dei rispettivi territori testuali.13

11 Vedi G. Pascoli, Poemi conviviali, a cura di G. Leonelli, Mondadori, Mila-no 1980, p. 83; P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 20 (con un interessante richiamo a Govoni, «il soffio della primavera»: nota 15); F. Nassi, Echi pascoliani nelle “Occasioni”, cit., p. 233.

12 Alcuni esempi: «Vengono soffi di lampi» (L’assiuolo); «Viene un suon di campane dietro un velo / di lontananza; e tutto si scolora» (L’asino, col già riscontrato «tutto»); «Viene col vento un canto di preghiera» (I due alberi, con «preghiera» in rima con «bufera», «era», «primavera», «sera», «nera»).

13 Per «negro vilucchio» si consideri La mia malattia, sempre nei Canti: «Che sarà della sua vita, / un vilucchio avvoltolato alla sua fede?». Anche la parola «risucchio» è già in Pascoli, a sé (Il mendico, nei Canti di Castel-vecchio; La madre, nei Poemi di Ate dei Conviviali), o in rima proprio con «vilucchio» (Gli emigranti nella Luna, nei Nuovi poemetti). Sul «materiale […] largamente pascoliano» di Bassa marea si tengano presenti almeno Mengaldo, che sviluppa i sondaggi di Bonfiglioli (P. V. Mengaldo, Da D’An-nunzio a Montale, cit., pp. 20-22) e Nassi (F. Nassi, Echi pascoliani nelle “Occasioni”, cit., pp. 235-238). D’altra parte «risucchio» occorre anche in due liriche tutt’altro che di secondo piano di Alcyone, Le madri (in rima con «mucchio») e Undulna. Parleremmo allora non tanto di un rappor-to diretto fra Bassa marea e questi testi, ma dell’apertura, da parte di un Pascoli e di un d’Annunzio che già allora operavano in concorrenza sul si-stema linguistico-letterario, di un campionario di possibilità di langue, poi

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Il rapporto può essere di tanti a uno (o a pochi), ma anche di uno a tanti. Ad esempio, sempre in Notte d’inverno si leggono dei versi ancora che ci proiettano fino a Montale, fino a Eastbourne, a L’estate, a Corrispondenze:

Sei tu che ritorni. Tra poco ritorni, tu, piccola dama,sul mostro dagli occhi di fuoco.

Astraendo – e la memoria uditiva è capace di farlo – dalla «pic-cola dama», dal «mostro dagli occhi di fuoco» (che ancora ci fanno pensare a Carducci), ciò che rimane è una frase densa di futuro: «Sei tu che ritorni». Si pensi ad analoghi movimenti di Eastbourne: «E vieni anche tu…», o dell’Estate: «torni anche tu al mio piede fanciulla morta / Aretusa», o di Corrispondenze:

Torni anche tu, pastora senza greggi, e siedi sul mio sasso? Ti riconosco; ma non so che leggioltre i voli che svariano sul passo.

Dove la curvatura della frase in domanda ha ancora un prece-dente nel sistema pascoliano, che dal «sei tu che ritorni» di Notte d’inverno (già trepidante, in fondo, d’inquietudine interrogativa) passa al «chi sei, che venisti […]?» del Bacio del morto (in Myri-cae):

Chi sei, che venisti, coi lievituoi passi, da me nella notte?Non so; non ricordo; piangevi.

Tali moduli d’interrogazione e di contatto sono già in Pascoli costantemente legati al motivo del ‘non sapere’ e del ‘non ricor-dare’. Ed è, questo, dato più interessante, ai fini della ricostruzio-ne di un campo di possibilità aperto dalla poesia di Pascoli all’ini-ziativa dei poeti del Novecento, che non quello, più puntuale ma forse più aleatorio, di una corrispondenza figurativa e testuale fra i «lievi […] passi» del Bacio del morto e il «passo che proviene / dalla serra sì lieve» di uno dei mottetti. Troveremo così anche in

esperite autonomamente anche dalla poesia di Montale.

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Montale casi di interrogative in sintassi analitica, rapide, snodate su costituenti brevi. Prima delle Occasioni, gli abbozzi del ’26 di Due nel crepuscolo condensano tutti gli elementi che abbiamo individuato:

Ti guardoin un molle riverbero: non so se ti conosco: e so che più straniero non ti fui mai che in questo nostro tardo ritorno…

Lezione cui concorre la variante: «Ti guardo / in un molle ri-verbero: sei tu? / non so se ti conosco»,14 che aggiunge appunto l’interrogativa agli altri elementi del ‘ritornare’, del ‘non sapere’ (e ‘non conoscersi/riconoscersi’) e dell’essere «straniero» (paro-la che scomparirà nella lezione definitiva del ’45, «Non so / se ti conosco; so che mai diviso / fui da te come accade in questo tardo / ritorno»). Gli abbozzi di Due nel crepuscolo sono il caso più antico di esercizio su questi motivi. Altro esercizio, stavolta in area non avantestuale bensì, se possiamo dire, ipertestuale, è l’acrostico Da un lago svizzero, dove il modulo della domanda a focalizzazione doppia, sul «tu» e sul verbo, dà un risultato di perfetta liquidità: «Sei tu che brilli al buio?».15

E i vari «vedo», «ho visto», «sento», «ho sentito» di Pascoli non anticipano quelli di Montale (gli «ho visto» di Da una torre, ad esempio)? Punta del Mesco: «vedo il sentiero…», e ancora:

Brancolo nel fumo, ma rivedo: ritornano i tuoi rari gesti e il viso che aggiorna al davanzale, –mi torna la tua infanzia dilaniata dagli spari!

14 OV, p. 953 per entrambe le lezioni.15 Nel congegno ben oliato si riconosce ancora qualche elemento di prove

anteriori: «io, straniero», e, come in Corrispondenze e nell’Estate, lo scarto di prospettiva dalla terra al cielo guidato da un «volo», stavolta di un’«a-nitra / nera». Ma la novità e la bellezza dei Madrigali risiede proprio nella sprezzatura con cui il poeta rigioca le sue carte in rialzo, nel turbine del nuovo personaggio Volpe.

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da confrontare sempre con Notte d’inverno:

E il Tempo lassù dalla torrelì grida ch’è giorno. Risentola tromba e la romba che corre;

o con un attacco come quello dei Gattici, poesia tutt’altro che par-ca di ‘protomontalismi’ (i verbi «mulina», «gocciare», il «rovaio che a notte urta le porte»): «E vi rivedo, o gattici d’argento».

Eastbourne, L’estate, Corrispondenze, Da una torre (che termina coi versi «e un labbro di sangue / farsi più muto»), e prima ancora Fluisce fra te e me sulla veranda… (la futura Due nel crepuscolo), sono tutte poesie legate alla figura di Arletta, o, se proprio non vogliamo fare un nome che fissi il personaggio, a quella indefini-bile figura umbratile che è l’altro polo del femminile montaliano (delle donne ‘sicure’: Clizia, Volpe). Ed è figura legata a doppio filo al mondo dei morti. Già «sommersa», secondo l’epiteto, del tutto coerente con la nostra serie, di Incontro,16 già «presenza soffocata» in Delta,17 seppure in queste due liriche degli Ossi non con una rea-lizzazione così piena del paradigma, che sarà solo nelle Occasioni. Viene quindi il sospetto che vi sia un legame preferenziale fra il Pascoli che abbiamo illustrato, con i suoi colloqui soffocati, onirici, sospesi «fra idillio e incubo» (così Garboli a proposito del Ritor-no a San Mauro),18 e la zona tematica montaliana di Arletta e di analoghe presenze fantasmatiche, di confine fra la vita e la morte. Cercare di verificare un simile sospetto sarebbe forse scompiglia-re e distruggere quel poco che abbiamo trovato, ma certo alcune sintonie del suono, all’apparenza casuali, acquistano, alla luce di quanto s’è visto, aspetto di passaggi quasi obbligati dell’emozione. Anche quando è sensibile lo scarto tonale, la sproporzione di regi-stro, resta la sensazione che sottotraccia insistano delle costanti, per così dire, molecolari. Si motiverà così, in questa prospettiva e

16 «Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari / qual sei venuta e nulla so di te». Ma nella prima stampa sul «Convegno», intitolata Arletta: «Poi ristò solo… Oh Arletta!: tu dispari» ecc.

17 «La vita che si rompe nei travasi / secreti a te ho legata: / quella che si dibatte in sé e par quasi / non ti sappia, presenza soffocata».

18 C. Garboli, op. cit., p. 271.

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non in quella di una derivazione diretta, un confronto come quello già visto fra ‘The Hammerless Gun’ e la Casa dei doganieri:

Tac tac! anche te? non rammenti le sere di quella tua mesta città?

Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

Non manca il caso, tuttavia, in cui a prevalere sia la motivazio-ne dialogica in sé, comunque sostenuta da momenti di alta ten-sione emotiva. Si rilegga nella Bufera l’ultima strofa dell’Orto, «O labbri muti» ecc., con attenzione al finale (il corsivo è nel testo):

o intento che hai creato fuor della tua misurale sfere del quadrante e che ti espandiin tempo d’uomo, in spazio d’uomo, in furiedi dèmoni incarnati, in fronti d’angioleprecipitate a volo… Se la forzache guida il disco di già inciso fosseun’altra, certo il tuo destino al miocongiunto mostrerebbe un solco solo.

E si confronti con questo passaggio del Ritratto nei Canti di Castelvecchio (il «tu», qui, è il fratello Giacomo, morto poco dopo il padre, «lui»):

O tu che sei congiuntoa lui, ch’oltre lo spazio, oltre la vita,vedevi allora…

Sempre che non si tratti di coincidenza, un legame fra testi che così poco hanno a che fare l’uno con l’altro si spiega solo con la particolare tensione allocutiva raggiunta talvolta dalla poesia di Pascoli, il cui dialogismo emerge talora con evidenza come costituzionale, profondo, persino turbato dalla domanda onto-logica sullo statuto del tu (qualità, questa, che lo distanzia dal dialogismo di d’Annunzio, che si potrà imprimere nella memoria per musicalità o anche per quel segreto senso di congiunzione con la figura evocata, ma non per il senso della comunicazione affannosa che invece sostanzia i versi pascoliani). La via, ad ogni

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modo, è quella del suono articolato in registro teso, vibrato, e al-lora la stesura di una strofa come quella dell’Orto che abbiamo letto potrà attrarre nella sua orbita anche frammenti di quel neo-classicismo minore che Montale più volte dichiara di avere, quasi suo malgrado, nell’orecchio: «Maria, che […] il suo destino / volle per sempre al mio destin congiunto» (Zanella, Amore immortale; il «congiunto» di Pascoli, in clausola e in rima con «punto», rie-cheggia Dante, Inf., x, 111).

Qualche traccia del Pascoli funebre potrà rinvenirsi persino in Xenia. Il passaggio del Giorno dei morti «ma era / grossa la lingua e forse non udivi» non anticipa forse analoghi movimenti delle poesie per la Mosca? In Caro piccolo insetto… (Xenia, I, 1):

ma non avevi occhiali,non potevi vederminé potevo io senza quel luccichìo riconoscere te nella foschia.

E in L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili… (Xenia II, 14):

il mio coraggio fu il primodei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo.

Certo qui occorre andar davvero cauti. Sulle ragioni della dia-cronia pesano quelle dell’autonomia: quel «forse», in funzione logica e musicale a un tempo, è di Montale e di nessun altro. Ma ancora una volta bisognerà riconoscere che tra le cascate di ter-zine bagnate di pianto del Giorno dei morti Pascoli sia riuscito a trovare toni di dialogismo schietto, disarmante, che lo proiettano in pieno Novecento.

3. «Da un fólto ormai bruciato»

Sono punti determinati, quasi vene della superficie testuale, che dal Ritorno a San Mauro e da altre liriche analogamente mo-dulate si incidono nella memoria di Montale. E poiché la memo-ria s’impregna anche di aloni, oltre che di particolari, non avremo difficoltà a dire che il Ritorno a San Mauro abbia agito sulla me-moria poetica di Montale anche in blocco, come addensamento

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o nebulosa di motivi.19 C’è un Pascoli che si impone per moltipli-cazione di singoli momenti significativi, dando luogo a una im-pressione generale che vale per i poeti come qualcosa di più che la somma dei singoli momenti staccati. Un testo però – un testo unitario – sembra aver influito su Montale allo stesso tempo come quel fantasma indistinto e nella sollecitazione di singole soluzio-ni figurativo-linguistiche. Appartiene al Pascoli delle antologie, della scuola. Al poeta, per dirla con Anceschi, dell’«adolescenza» delle generazioni a lui succedute.20 Parliamo di Romagna, che per suscitare quella impressione diffusa è di respiro sufficientemente ampio ma ben armonizzato, e colpisce d’altra parte il lettore an-che per la nettezza dei singoli momenti, ben inquadrati ciascuno nella sua quartina.

Rileggiamone una strofa, la quarta, in cui il poeta, dopo aver ricordato «le stoppie», «la tacchina con l’altrui covata», «gli sta-gni lustreggianti» su cui scivola l’«anatra iridata», si rivolge a Se-verino:

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,gettarci l’urlo che lungi si perdedentro il meridïano ozio dell’aie.

E osserviamo come l’insieme dei valori fonici, ritmici, figura-tivi, semantici di questi versi, si riverberi nella poesia di Montale secondo due opposte realizzazioni. La prima appartiene a quel-la «fusione, in enunciazioni assolutamente nuove per Montale»,

19 È di qualche interesse, in tal senso, quanto Montale scriverà nel reportage del 1956 Feste intorno alla casa di San Mauro dove nacque Pascoli cent’anni fa, uscito sul «Corriere» il 13 maggio: «il borgo è cresciuto fino a quattro-mila persone e con le sue case basse e intonacate di fresco, e oggi pavesate, non suggerisce affatto l’idea di ciò che potevano diventare quei canti di San Mauro che, poi, il poeta non scrisse, o scrisse con altro titolo. Bisognerebbe ricreare il silenzio e il deserto intono alla casa che fu di Ruggero Pascoli, ministro, o, se volete, fattore dei Torlonia, per tuffarsi in un’autentica Stim-mung pascoliana» (SMP, p. 1948).

20 L. Anceschi, Pascoli verso il Novecento, cit., p. 32: «Le generazioni succe-dute al Pascoli, pur se parvero lasciare in disparte il poeta delle Myricae, per volgersi a modelli stranieri, inconsapevolmente non fecero che acco-starsi a quei modelli con sensibilità allenata e affinata prima sulle pagine del poeta della loro terra e della loro adolescenza».

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che Contini avvertiva in Nella Serra e Nel parco.21 Ci interessa un passaggio della seconda:

…a un soffio di cerbottanala freccia mi sfiora e si perde.

Pareva una foglia cadutadal pioppo che a un colpo di ventosi stinge – e fors’era una manoscorrente da lungi tra il verde…

Mengaldo parla, per questa poesia e per la sua gemella Nella serra, di «pascolismo diffuso».22 Ora, questo pascolismo si com-pone di vari elementi. C’è ad esempio un’eco della solita ‘Ham-merless Gun’: «era come una spoglia di cicala / (penso) rimasta a quel non più che un ceppo» («pareva una foglia caduta / dal pioppo»). E c’è il novenario, che sveltisce del ritmo nuovo di Ca-stelvecchio le quartine ancora tradizionali di Romagna. Ma c’è anche – e qui tocchiamo il punto che più ci interessa – la traccia formale di quel luogo di Romagna, luogo anch’esso di «fusione», di immediatezza e fluida circolazione di un rapporto. Come giu-stamente osserva Contini, tali enunciazioni Montale mai s’era concesso prima: prima cioè di testi come Nella serra e Nel parco, che confluiranno nelle Silvae assieme ad altre liriche di maggior ampiezza e impegno, L’orto e Proda di Versilia, che tale immedia-tezza contengono, come vedremo, in forma riflessa.23

21 G. Contini, Montale e “La bufera”, cit., p. 93. 22 P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italana del Novecento, cit., p. 122. Sor-

presa, come Contini, mostrava anche Pasolini, il quale per parte sua non poteva mancare di ascrivere Nella serra e Nel parco all’area d’influenza pascoliana: «nella Bufera si accentuano […] certe movenze pascoliane (sorprendenti, in questo senso, Nella serra e Nel parco…)» (P. P. Pasolini, Montale, recensione del ’57 alla Bufera, in Id., Passione e ideologia, cit., pp. 322-326, p. 323). Ribadiamo che il punto di maggior interesse delle due poesie risiede in quell’aggiunta di Contini, «enunciazioni assolutamente nuove per Montale»: il ‘pascolismo’ andrà valutato, a livello di analisi se-mantica ed estetica, in funzione di questa novità nel sistema montaliano; se insomma di accentuazione si tratta, o forse meglio di riemersione, di «movenze pascoliane», il fenomeno deve trovare una ragione nello svilup-po della poetica e della poesia di Montale. Ma a seguire questa strada ci allontaneremmo troppo dall’assunto di queste pagine.

23 La fluidità di Nella serra e Nel parco sembra preludere ai modi dei Madri-

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Dal ritorno all’eden di Romagna provengono dunque le spie che abbiamo ravvisato in Montale: il verbo ‘perdersi’, semantica-mente modulato sulla doppia referenza («e perderci nel verde», «l’urlo che lungi si perde»), la rima «verde»:«si perde», l’avverbio «lungi». Tutto ciò è ancora più rilevante in quanto il luogo mon-taliano è di grande densità intratestuale, con quella «mano scor-rente da lungi tra il verde» che anticipa, nella serie delle Silvae, la «mano che mi sfiora la spalla» dell’Orto, appartenente a «un’altra estate» come altro, remoto, quasi arretrante alla prima infanzia è il tempo di Nella serra e Nel parco (se queste sono poesie di Ar-letta, poesie del ‘primo amore’, è anche vero che vi è diffusa una componente d’infantilità che pare entrare nel tempo scenico del testo come ‘tempo nel tempo’).

Si aggiunga che la memoria della quartina di Romagna è po-tenziata da una ripresa di Gozzano, una strofa che Montale citerà nel 1951 in Gozzano, dopo trent’anni, ritagliando due quartine da L’assenza:

Un bacio. Ed è lungi. Dispare giù in fondo, là dove si perde la strada boschiva, che pare un gran corridoio nel verde. […] Lo stagno risplende. Si tace la rana. Ma guizza un bagliore d’acceso smeraldo, di brace azzurra: il martin pescatore…24

gali privati. In ogni caso si tratta, stilisticamente e date le premesse ‘teore-tiche’ enunciate da Contini, della via a un formicolante dérèglement, che un poeta come Montale non può che praticare in forme mediate, attenua-te, senza rotture della tenuta logica della frase.

24 Gozzano, dopo trent’anni, SMP, p. 1277. Su questi «gozzaniani ritagli» di Montale si soffermava Sanguineti, ma con tutt’altre premesse e altri scopi che qui non è possibile discutere: E. Sanguineti, Da Gozzano a Montale, cit., pp. 28-29. Il valore di una «linea» Gozzano-Montale è stato ridimen-sionato da Anceschi (Pascoli verso il Novecento, cit., e Pascoli e le istitu-zioni del Novecento, cit.) e da Mengaldo (Da D’Annunzio a Montale, cit.): ridimensionato, non negato, ché al fattore di mediazione gozzaniana e crepuscolare, quale che sia la prospettiva d’analisi, di storia della lingua o di storia delle poetiche e delle forme, è difficile rinunciare. Quanto meno perché si pone, storicamente, come prima metamorfosi del linguaggio, della poetica e delle forme pascoliane e dannunziane.

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È vero che al terzetto rimico-lessicale derivato da Romagna («lungi», «si perde», «verde») e trasposto in novenari si aggiun-ge qui, altro elemento che si ritroverà in Nel parco, il verbo ‘pare-re’. Ma è anche vero che alle due quartine di Gozzano non è perti-nente quell’insieme di valori semantici che stiamo individuando – e che continueremo a individuare – attorno al motivo dell’eden infantile e della realizzazione di un rapporto. Ciò che Gozzano prende da Pascoli e da d’Annunzio, del resto, è materiale che si deve avvertire come eterogeneo: come richiamo allusivo per chi ha l’orecchio esercitato ai luoghi più o meno reconditi dei due grandi poeti. Qui, ancor più che di Romagna, si percepirà allora l’eco dannunziana di Nella belletta («Ammutisce la rana se m’ap-presso», variato con un «si tace» frequentissimo nelle Laudi), e del Commiato («un lampo di smeraldo, e il becco / tuffa il piom-bino»: cioè, con altro nome, il «martin pescatore»). La ripresa di Gozzano, insomma, potenzia la memoria pascoliana, e sarà forse determinante per l’esito particolare di Nella serra; ma rimane pe-riferica rispetto alla rete di valori semantici che si estende, come vedremo, da Romagna ad alcune zone della poesia di Montale.25

Sul versante opposto a quello della realizzazione positiva di Nella serra, la medesima strofa di Romagna si proietta, del tutto deformata, sulle «cave / ceppaie, nido alle formiche» di Personae separatae, in Finisterre:

ciò che manca,e che ci torce il cuore e qui m’attardatra gli alberi, ad attenderti, è un perdutosenso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi,figure parallele, ombre concordi,aste di un sol quadrante i nuovi tronchidelle radure e colmi anche le cave ceppaie, nido alle formiche.

25 Inutile dire che la rima «perde»:«verde» (anzi, «si perde»:«verde») tro-va almeno un’altra occorrenza in Pascoli (coerentemente con la tendenza complessiva della sua poesia all’esperimento molteplice di nessi fonici, an-che su registri stilistici diversi): il «si perde» del verso «e tutto cade, tutto va, si perde» in rima con «verde» in Nell’orto. Si dirà che la rima è semplice, usata: ebbene, altra caratteristica pascoliana ben nota è l’insistenza, tal-volta ossessiva, proprio su rime di tal genere. Vi faremo cenno ancora nel corso di queste pagine.

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Là dove Montale è più Montale, in versi che trovano parole tra le più alte e dense della sua carriera poetica, là è anche un Pascoli straniato sino al capovolgimento. Si riascolti il verso di Romagna: «e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie». Più che all’ag-gettivo «cave», non necessariamente di tradizione pascoliana (anche se il «cavo al pié sonante» di Novembre e la «cava ombra infinita» di Alexandros hanno fatto scuola), è l’impronta silla-bica e lessical-sintattica a riportarci a Pascoli e precisamente a quel luogo di Romagna: con i gruppi fonici -olmi, -aie, e il nesso «nido alle». E il fenomeno vale per noi non come sordo referto d’intertestualità, ma a riprova del fatto che davvero, in un testo come Personae separatae e in una suite come Finisterre, si con-suma la disgregazione di un mondo, con tutti i suoi echi e le dolci illusioni di cui la letteratura era stata capace di fasciarlo.26

Quanto più avvertiamo remota, distorta la memoria pasco-liana, giunta a costituirsi fibra di un nuovo discorso poetico che è di Montale e di nessun altro (e il caso delle «cave ceppaie» è veramente esemplare), tanto più possiamo esser certi, sul piano storico-letterario, della profondità del rapporto con Pascoli. E, possiamo aggiungere, con Romagna, cui ancora dobbiamo tribu-tare l’accennata lettura a spartito unico. Propongo allora al lettore di riascoltarne un gruppo piuttosto ampio di strofe, riprendendo il filo solo dopo aver suscitato quel fantasma o impressione gene-rale di cui si diceva:

Da’ borghi sparsi le campane in tantosi rincorron coi lor gridi argentini:chiamano al rezzo, alla quiete, al santodesco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciatesotto ombrello di trine una mimosa,che fioria la mia casa ai dì d’estateco’ suoi pennacchi di color di rosa;

26 La proposta di «verificare alcuni riscontri puntuali» della Bufera portava Mengaldo a citare anche le «cave / ceppaie» di Personae separatae (P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 122). Mi sem-bra che la verifica sia così assolta; ma solo, come s’è visto, ampliando la porzione testuale in causa.

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e s’abbracciava per lo sgretolatomuro un folto rosaio a un gelsomino;guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,chiassoso a giorni come un biricchino.

Era il mio nido: dove, immobilmente,io galoppava con Guidon Selvaggioe con Astolfo; o mi vedea presentel’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in viacon l’ippogrifo pel sognato alone,o risonava nella stanza miamuta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciatide’ grilli il verso che perpetuo trema,udiva dalle rane dei fossatiun lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quellich’io meditai, mirabili a sognare:stormir di frondi, cinguettìo d’uccelli,risa di donne, strepito di mare.

Chi abbia dimestichezza con le Silvae avrà forse inteso. Anche nel caso dell’infanzia gli accenti trovati nella Bufera sono nuovi per Montale, che affianca un tempo della fanciullezza personale, e domestico, a quello universale, da pittura metafisica, degli Ossi. In Proda di Versilia lo sguardo si stende sopra

macerie e piatte altane su case basse lungo un ondulato declinare di dune e ombrelle aperte al sole grigio, sabbia che non nutre gli alberi sacri alla mia infanzia, il pino selvatico, il fico e l’eucalipto.

Ma ecco si apre una nuova strofa:

A quell’ombre i primi anni erano folti,gravi di miele, pur se abbandonati;a quel rezzo anche se disteso sottodue brandelli di crespo punteggiati

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di zanzare dormivo nella stanza d’angolo, accanto alla cucina, ancoranottetempo o nel cuore d’una siestadi cicale, abbagliante nel mio sonno,travedevo oltre il muro, al lavandino,care ombre massaggiare le mureneper respingerne in coda, e poi reciderle, le spine; a quel perenne alto stormirealtri perduti con rastrelli e forbicilasciavano il vivaiodei fusti nani per i sempreverdibruciati e le cavane avide d’acqua.

È quasi obbligatorio, oltreché naturale, l’uso dell’imperfetto in casi come questo. Ma l’impronta pascoliana viene di qui, in primo luogo, da questo imperfetto che vorremmo dire affettivo («Era il mio nido»), cui si congiunge, con lo stesso valore, il di-mostrativo: «Già m’accoglieva in quelle ore bruciate» (Pascoli), «A quell’ombre i primi anni erano folti» (Montale). Il «rezzo», la mimosa col suo «ombrello di trine» a ombreggiare le «ore bru-ciate», il «folto rosaio», il «pioppo»; e ancora le fantasticherie, i suoni trauditi da un luogo che un mondo, e un mondo sensa-to e amato, circonda, lo «stormir di frondi»: sono questi gli ele-menti che formano ciò che potremmo definire, in rapporto agli esiti poetici di Montale, l’‘archetipo’ testuale di Romagna, che in quanto tale sta dietro, non dentro la figurazione montaliana.

Ciascuno poi ha i suoi numi, i suoi lari, ciascuno ha il suo paesaggio e i suoi alberi. Se il «pioppo» è comune, la mimosa è l’albero sacro a Pascoli (il «verde ombrello / della mimosa in fiore» come ribadirà in Casa mia, nel Ritorno a San Mauro), mentre il salice, e ancor più la magnolia, sono quelli di Montale: «La tempesta di primavera ha sconvolto / l’ombrello del salice» è l’incipit dell’Arca, con un significativo ritorno dell’«ombrello» che Pascoli attribuiva alla mimosa (ma «trine» Montale utilizzava nella Lettera levantina: «i nostri colli nani cui vestono le trine / rade di spogli rami»; e «rossi pennacchi», variazione del «rosso flabello» di un mottetto, saranno quelli delle «canne» nei Nascondigli II di Altri versi). Nell’Arca, i morti «li protegge in fondo la magnolia / se un soffio ve la getta». Questo caro affaccendarsi di figure, che estende la rappresentazione del momento individuale, del ‘cantuccio’, a evocazione di un

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mondo intero di perduti, segna il punto di maggior distanza dall’‘archetipo’ (anche rispetto ai morti, tutti ‘privati’, del Giorno dei Morti): il punto che, lontano da Pascoli, congiunge liriche come L’arca e più tardi Proda di Versilia a quel concetto di universalità cui l’esperienza personale si rivolge nella Bufera, con o senza esplicito richiamo a Clizia.

La diramazione, infine, si può estendere allo stesso Orto, dove trova spazio persino quella parola che dopo Pascoli è diventata tabù, almeno nel suo senso figurato, «nido», e che di fatto Mon-tale disloca sull’asse contestuale della referenza (il «chiuso / dei meli lazzeruoli ove si lagnano / i luì nidaci, estenuanti a sera» è il primo indizio ambientale del testo):

io non so se la mano che mi sfiora la spallaè la stessa che un temposulla celesta rispondeva a gemitid’altri nidi, da un fólto ormai bruciato.

Seppur sospeso, il senso metaforico resta, trasposto nella chia-ra accezione esistenziale del «fólto ormai bruciato». Il quale si pone ancora, quanto a materia lessicale, a metà strada tra la sfera dell’intratesto montaliano e l’archetipo pascoliano. Avremo così da un lato gli «anni folti», i «sempreverdi / bruciati» di Proda di Versilia, dall’altro le «ore bruciate», il «folto rosaio» di Roma-gna (consideriamo il lessico nel suo aspetto materico, anteriore, per così dire, alle individuazioni grammaticali e semantiche: si vede bene che le realizzazioni poi, su questo piano, sono diver-se, come accade ad esempio con «folto», aggettivo o sostantivo). Persino la relazione istituita dalla rima «nidi»:«gridi», onnipre-sente in Pascoli, è recuperata nel sistema intratestuale di Monta-le, se richiamiamo a mente la già citata Bassa Marea:

Sere di gridi, quando l’altalenaoscilla nella pergola d’allorae un oscuro vapore vela appenala fissità del mare.

Versi che ci riportano, d’altra parte, a un procedimento di giu-stapposizione sintagmatica dei tempi, di un ‘allora’ e di un ‘ora’ («oscilla» ora l’altalena «nella pergola d’allora»), che sarà reim-

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piegato nelle Silvae, nell’Orto, appunto, e in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ («la pioggia che si disciolse / sui miei capelli, sui tuoi / d’allora»).27

Resta da chiedersi se questa di Romagna sia una presenza limi-tata all’area della Bufera (vale a dire, storicizzando, degli anni del-la guerra e dell’immediato dopoguerra, con Personae separatae datata «novembre 1942» e Nel parco e Proda di Versilia a stampa rispettivamente nell’«aprile» e nel «luglio-dicembre» del ’46),28 o se non si possa rinvenirne qualche traccia anche nelle altre rac-colte, prima e dopo l’arco Finisterre-Bufera.

Qualcosa in effetti, a rileggere con una maggiore consapevo-lezza, si trova. In Egloga, negli Ossi, il lessico delle figurazioni d’infanzia, pur se del tutto autonomo, ha qualche tangenza con quello pascoliano («e perderci nel verde», «in quelle ore brucia-te»):

Perdersi nel bigio ondoso degli ulivi era buono nel tempo andato – loquaci di riottanti uccelli e di cantanti rivi…

Quello di Egloga, si sa (come degli Ossi in generale), è un «idil-lio» che contiene il seme dell’«ora fallita»: «brucia una toppa di cielo / in alto», «venta e vanisce bruciata / una bracciata di ama-ra / tua scorza, istante». Intanto però quell’idillio c’è, pulsa nel sistema dell’immaginario, vale a dire che si realizza nelle forme della poesia. Si apre i suoi spazi contrastati, sempre contrastati (ed è nelle forme di quel contrasto – ma è un’ovvietà dirlo – che va ricercato il baricentro di un testo). Se la «Romagna solatìa» è

27 Senso potenzialmente figurato hanno i «nuovi nidi» del finale di Acce-lerato, poesia che la Nassi avvicina al Brivido dei Canti di Castelvecchio (F. Nassi, Echi pascoliani nelle “Occasioni”, cit., pp. 241-245). In effetti in Accelerato, nel finale della ansimante cascata di versi brevi che qualche endecasillabo rallenta prima della stretta conclusiva («fu così, / rispon-di?»), è difficile non avvertire un’eco della chiusa pascoliana («rispondi, / com’era?»), e proprio in virtù dell’efficace rapporto, comune a entrambe le poesie, fra l’enunciazione conclusiva e la cavalcata ritmica precedente. Ri-corre nel Brivido la già vista serie rimica in «era» e «sera»: vi si aggiungono, qui, «nera» e «bufera».

28 Cfr. rispettivamente OV, pp. 944, 963, 964.

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il «dolce paese» di Pascoli (come la Toscana lo era di Carducci), anche Montale, negli Ossi, ha il suo: il paese sul quale, per un momento, riaprirà le quinte Proda di Versilia. Paese, se non pro-priamente «dolce», avvolto almeno, in certi istanti, di una «dol-cezza inquieta», come sa il lettore degli Ossi.

Ancor più che Egloga («nei miei paesi a quell’ora / cominciano a fischiare le lepri»), un passaggio di Mediterraneo è da avvicinare a Romagna. Siamo nel secondo movimento del poemetto, Antico, sono ubriacato dalla voce… «La casa delle mie estati lontane», dice il poeta rivolto al mare,

t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare.

Alla poesia di Pascoli ci conduce stavolta quel segmento tra-mato di determinanti locativi, «là nel paese dove», che, all’appa-renza puramente transitorio, ripete in realtà un modulo già spe-rimentato dalle quartine iniziali di Romagna:

il paese ove, andando, ci accompagna l’azzurra visïon di San Marino… […] Là nelle stoppie dove singhiozzando va la tacchina con l’altrui covata, presso gli stagni lustreggianti…

Anche il verso «la casa delle mie estati lontane», a ben vedere, frequenta il medesimo ambiente di rapporti grammaticali, lessi-cali e figurativi: «la mia casa ai dì d’estate», «il mio paese», «il mio nido».29 Non si vuol dire che Montale, in quel luogo di Mediterra-neo, ricordi o addirittura ‘citi’ Romagna (o, per esprimersi con più proprietà, che sia nel campo delle intenzioni del testo l’allusione a Romagna). Il fenomeno va interpretato in una prospettiva di

29 Perfino la zona di sonorità che si crea fra «lontane» e «accanto» («La casa delle mie estati lontane / t’era accanto») contribuisce a richiamare qual-cosa di Romagna, se si pensa all’emistichio «le campane in tanto», non isolato ma anello di una insistita catena di terminazioni in -ando/-anto istituita a partire dall’ampio gerundio «andando», al centro della prima quartina. Il «lontane» di Montale, peraltro, è in rima interna con «campa-ne» («quando si schiudono / come verdi campane»).

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trasmissione storica delle forme e delle possibilità poetiche, che in quanto tali sono prolungabili, modificabili, persino, e spesso, deformabili, in una dialettica costante di metamorfosi. Ciò che noi notiamo quando si crea, così palese, un corto circuito come quello fra Romagna e Mediterraneo (ma tra frammenti, vene di testo), è, per così dire, un ispessimento del tessuto della tradi-zione, che ci giunge alla vista come particolarmente significativo e accenna in realtà, quasi come simbolo, a tutto l’universo della vita dei testi, alla maglia delle relazioni per cui nessun testo è isolato. Per questa via può essere anche accolto il dubbio di una intenzionalità della corrispondenza (come elemento funzionale del testo), in quanto veicola una domanda non priva d’interesse: se vi sia, in Mediterraneo, una tensione alla letteratura cosiddetta di secondo grado, al testo che in se stesso ascolta altri testi. Una decisione, relativamente al singolo passo, è forse impossibile. Ma certo l’insistenza del poemetto sulle «sillabe», sulle «parole», strumenti incerti, fra il pieno e il vuoto, di un «balbo parlare», e ancora le «lettere fruste / dei dizionari», la «lamentosa lette-ratura», le «frasi stancate», sono testimoni di una parola poetica tutt’altro che ingenua, tutt’altro che incapace di vedere, dentro la propria individualità, anche il seme dell’alterità, seme di stan-chezza e di opacità dentro il nuovo.

Ulteriori affioramenti di Romagna, nell’opera di Montale, non ci sembra di ravvisare. Quanto s’è trovato, però, se si considerano i termini cronologici (1923-24, 1942-46), basta a far intuire una solidarietà fra le possibilità espressive e figurative della ‘roma-nella’ pascoliana e una determinata area della poesia di Montale, quella della memoria dell’infanzia e dei suoi luoghi: al punto che col riaffiorare di questi motivi tornano in superficie, per discre-tissimi lacerti, anche quelle forme pascoliane in cui essi si erano rispecchiati, al momento in cui la lettura sostiene il formarsi del-la coscienza e l’infanzia si scopre, in un istante, finita.

È un filo, naturalmente, che si indica: Pascoli contribuisce, per la sua piccola parte, a un percorso in diacronia che si estende dagli Ossi fino alle ultime prove poetiche di Altri versi, legando le istan-ze della memoria ai modi formali del riaffioramento, del ritorno, della cessione a una malinconia che solo relativamente ai «primi anni» un poeta come Montale si permette di assecondare. Anche le prose sono coinvolte (Farfalla di Dinard) e ne risulta poco tocca-

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to il libro ‘fiorentino’ delle Occasioni, il che, sia detto un po’ fretto-losamente, risponde a una fenomenologia stilistica che, se mai s’è tenuta identica a se stessa, d’altra parte ammette anche recuperi, ponti gettati all’indietro. Nella prefazione alle Poesie tradotte in svedese da Gösta Andersson, Montale afferma che la «libertà» di testi come I limoni, Falsetto, Riviere, «liriche idealmente – non cronologicamente – precedenti ai motivi svolti in Mediterraneo» (il point of no return dell’idillio infranto), l’ha ritrovata, negli anni, «in molte pagine de La bufera e altro»: pagine «di guerra e d’a-more, nelle quali ogni inibizione, sia essa di carattere stilistico o psicologico, mi pare definitivamente caduta». Si legge ancora in questa prefazione: «nelle Occasioni cresce il bisogno di un’espres-sione oggettiva e sono diminuite le effusioni di carattere romanti-co»; «Finisterre conclude le Occasioni; mentre le altre poesie della Bufera tornano a un’espressione più diretta e allentano le maglie di una tessitura fin troppo rigorosa»; e infine: «considero La bu-fera e altro come il mio libro migliore sebbene non si possa pene-trarlo senza rifare tutto il precedente itinerario».30

La questione pascoliana, è evidente, rifluisce in questa più am-pia, più essenziale. E quanto a ciò che s’è definito, a fini puramente pratici, l’archetipo testuale di Romagna, esso incontra ben altri archetipi dell’opera montaliana, d’immaginario e di motivazione poetica profonda. Ma a questo punto ci fermiamo. Non senza no-tare, però, con quanta densità di senso l’autonomia quasi gelosa di un cosmo poetico, il carattere unico e individuale dei suoi simboli, siano immersi nel tempo storico dei rapporti con altri universi di segni, con altre configurazioni. Così, nello spessore della lonta-nanza investiti della luce radente di un subitaneo avvicinamento, i testi ci si mostrano cosa mobile, concreta, reale.

4. Letture in prospettiva

Se poi reale e concreto è ciò che è nel tempo e ha un passato, è pure da considerare che, invertendo la prospettiva, reale e con-creto si presenta anche ciò che dà un passato. Non senza inten-

30 E. Montale, Poesie, traduzione di G. Andersson, Casa editrice Italica, Stockholm-Roma 1960, (citazioni da SMA, pp. 1495-1497).

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zione s’è parlato, in principio, di un ‘seme’ di Pascoli nella poesia di Montale. Il pensiero correva a quanto ebbe a dire Giorgio Ca-proni in un’intervista radiofonica: «il Pascoli veramente è stato il primo a seminare, a immettere il seme dell’inquietudine nella parola; quella di Carducci è ancora una parola marmorea, pre-cisa, inequivocabile. In Pascoli, viceversa, la parola comincia ad assumere plurisignificati, quei significati armonici, come si dice in musica».31 Fa forse più testo, nell’ottica della nostra ricerca, una dichiarazione come questa che non una del diretto interes-sato. Poiché, laddove per Montale la relazione con la tradizione fondativa del Novecento (Pascoli, d’Annunzio) è ancora, per così dire, in atto, non risolta, e in qualche modo imbarazzante,32 per un poeta come Caproni essa è storia persino già filtrata (per lui dallo stesso Montale), in un rapporto col passato, con gli alimenti del terreno poetico, forse meno impegnato a risolvere le contrad-dizioni del ‘salto’ da un’era della poesia all’altra. Così a Caproni, non a Montale, dovremo rivolgerci per trovare la definizione for-se più appropriata del fenomeno che abbiamo descritto, di un’a-scendenza cioè che prima di tutto si avverte, si percepisce con evidenza, e solo dopo si verifica. Scrive Caproni ad Anceschi del ’53: «Quando leggo in Pascoli (faccio un esempio in fretta): “sibila tra la festa lacrimosa / una folata, e tutto agita e sbanda”, non è che io senta il Pascoli in Montale, ma già presento il Montale in

31 L. Surdich (a cura di), «Era così bello parlare». Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni, Il melangolo, Genova 2004, p. 185.

32 Nella Fortuna del Pascoli, che più che una recensione è una riflessione a partire dall’Omaggio a Giovanni Pascoli pubblicato da Mondadori nel ’55, Montale interviene così sul saggio di Alfredo Schiaffini lì contenuto, Giovanni Pascoli disintegratore della forma poetica tradizionale, che lo chiamava direttamente in causa fra i ‘discendenti’ di Pascoli: «L’autore-vole Alfredo Schiaffini vede […] nel disintegratore Pascoli un precursore dell’attuale rivoluzione metrica. Su questo punto specifico se Pascoli abbia avuto una discendenza poetica, se da lui discendano corrotti o incorrotti figli (a seconda dei gusti) la discussione è avviata e continuerà a lungo. Non vorremmo, per ovvie ragioni, prendervi parte» (SMP, p. 1904). (Chi legga il saggio di Schiaffini troverà molta ironia in quell’«autorevole», giacché Schiaffini non fa che comprimere Montale su Pascoli, concludendo, con Pampaloni, che «Montale è uomo di cultura molto aperta ma tradizionale, il suo grande poeta è Giovanni Pascoli»: M. Valgimigli, A. Vicinelli (a cura di), Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario della nascita, Mondadori, Milano 1955, p. 246).

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Pascoli». «Presento», aggiunge Caproni, «l’inquietudine d’oggi», quel «disseminare umana inquietudine negli oggetti naturali e del linguaggio».33

Ebbene l’inquietudine della parola pascoliana, di certe solu-zioni timbriche ossessivamente ricorrenti nella sua poesia, e in particolar modo in quella più legata all’area tematica del culto familiare, trasmigra nella poesia di Montale in soluzioni nuove e diverse, con un sensibile slittamento dal motivo materno, ti-picamente pascoliano, a quello della fanciulla amata ma «som-mersa», alla sua «voce prigioniera». Se da un lato conoscevamo bene l’ossessività di certi nuclei tematici della poesia di Pascoli, e lo spesso ricorrere dei loro indicatori formali, dall’altro ci era ignoto il loro decisivo influsso sulla formazione di alcune trac-ce, di alcuni disegni della dizione poetica montaliana. Non solo: la variabilità dei motivi cui si legano gli spettri fonici, ritmici e lessicali che abbiamo individuato – i morti, sì, in generale, ma l’universo materno in Pascoli, quello della donna amata in Montale – testimonia per converso di una certa stabilità di que-gli spettri, soluzioni produttive e malleabili al punto di poter essere trattate sotto la specie del semplice riecheggiamento, dell’impressione di lettura. Quando si leggono due poeti tra loro così distanti, quando li si mette in relazione cercando di cogliere linee di sviluppo storico senza comprimere ciò che si assume come punto d’arrivo sull’ipotetico punto di partenza, questa stabile volatilità, se così possiamo chiamarla, degli ele-menti considerati non è un danno, è una ricchezza.

Caproni peraltro non era il solo, negli anni ’50, a esercitare una lettura a rebours della linea Pascoli-Montale, a ‘presentire’, come diceva lui, Montale in Pascoli. Ben più noto è il Pascoli di Paso-

33 Lettera di Caproni ad Anceschi del 24 dicembre 1953, in D. Baroncini, Caproni e la poesia del nulla, Pacini, Pisa 2002, p. 229 (corsivi nel testo). La lettera commenta l’antologia curata da Anceschi con Antonielli Lirica del Novecento, uscita per Vallecchi nel ’53. Caproni vi discorre appunto del «salto» fra la poesia dell’Ottocento e quella del Novecento, obiet-tando alla soluzione proposta da Anceschi: «non son del tutto persuaso che fra il Pascoli ecc. e il Gozzano ecc. ci sia il salto che tu dici, e perciò non so se sia stato bene cominciare così recisamente dal Gozzano». Su «agita e sbanda» non poteva non soffermarsi Mengaldo: Da D’Annunzio a Montale, cit., pp. 25-26; Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 122.

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lini, che apre il primo numero di «Officina» (1955). Nel quale, ai nostri scopi, noteremo il ricorrere di un aggettivo come «implici-to» e di verbi come ‘prefigurare’ e ‘preludere’.34

Ora, affidarsi a una simile modalità d’ascolto, se non si è rigi-di cultori d’uno storicismo lineare, può rivelarsi felice chiave di lettura proprio di un rapporto storico.35 Per quanto ci riguarda, e senza sollevare la complessa questione dei ‘conti con Pascoli’ in cui erano impegnate la critica e la poesia italiane in quegli anni (diciamo fra il ’52 e il ’62, con un picco nel 1955, centenario della nascita del poeta),36 estraiamo dal Pascoli di Pasolini un ulterio-

34 P. P. Pasolini, Pascoli, cit., pp. 295-296. 35 Ciò che Anceschi, ben conscio del valore di tali esperienze di lettura, for-

mulava in questo modo: «Ora la critica – è questo uno dei suoi còmpiti quando sia anche storia – vien cercando i legami ed i tessuti connettivi che collegano il Pascoli alla poesia del novecento; e già non vi è dubbio che, se, preparando nuovi modi della lingua, e nuove istituzioni, convenzioni e tecniche espressive, il Pascoli ha posto alcune strutture necessarie alla vita della lirica del novecento, nello stesso tempo, riletto dopo i lirici nuovi, s’è fatto, per certi lati, nuovo con i nuovi» (L. Anceschi, Pascoli verso il Novecento, cit., p. 11). La valutazione della «misura» (ibid.) di questa rinno-vata novità o attualità di Pascoli coinvolgeva però, sempre in quegli anni, lo stesso concetto di ‘lirica’, come mostrano la polemica tra Sanguineti e Pasolini e il versante di studi di ‘poetica americana’ dello stesso Anceschi.

36 Del 1952 è un numero monografico della «Fiera Letteraria» su Pascoli, mentre nel 1955 esce l’Omaggio di Mondadori. Del 1955 è anche la confe-renza di Contini Il linguaggio di Pascoli, edita la prima volta in A. Baldi-ni (a cura di), Studi pascoliani, Lega, Faenza 1958, pp. 27-52. Gli studi di Bonfiglioli, s’è visto, vanno dal ’55 al finale Il ‘ritorno dei morti’ da Pascoli a Montale del 1965 (nel ’62 ricorrevano i cinquant’anni dalla morte di Pa-scoli), attraverso un Pascoli e il Novecento pubblicato su «Palatina» nel 1958, anno del Pascoli di Anceschi sul «verri». Bisognerà tenere in con-siderazione gli orientamenti della critica avviati dalla ‘resa dei conti’ con Pascoli degli anni ’50-’60, fino almeno al Pascoli di Baldacci del ’74 (anno, anche, dell’edizione critica di Myricae curata da Nava), per inquadrare un sibillino epigramma di Montale emerso di recente fra gli scampoli de La casa di Olgiate e altre poesie. S’intitola G. Pascoli ed è datato 1976: «Gli mancò purtroppo l’autoironia / (la più importante che sia)» (E. Montale, La casa di Olgiate e altre poesie, a cura di R. Cremante e G. Lavezzi, Mon-dadori, Milano 2006, pp. 14 e 78-79). Quell’«autoironia» che Montale ave-va riconosciuto a Gozzano in almeno due occasioni, Due artisti di ieri, del 1949 (SMP, p. 853), e Gozzano, dopo trent’anni (SMP, p. 1276). Da scrivere resta, comunque, un capitolo che sarebbe non disutile alla ricostruzione del Pascoli di Montale: un capitolo, dico, che contempli il versante del-le prose critiche (e delle interviste) considerando tutte le occorrenze del nome di Pascoli e individuando le costanti concettuali che vi si associano

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re esempio di lettura in proiezione: «Ecco l’esempio minimo di un verso delle Myricae che si potrebbe attribuire agli Ossi: “due barche in panna in mezzo all’infinito”, e di uno stilema che si po-trebbe leggere nelle Occasioni: “virb… disse una rondine; e fu / giorno”».37 Certo quando Pasolini azzarda:

tutto il procedimento stilistico montaliano che si definisce nel cari-care di un senso cosmico, illuminante, un umile oggetto – la “poetica dell’oggetto”, insomma – è implicito nella pur candida teoria pascoliana del “particolare”;

e ancora:

la tipica funzione della memoria montaliana è un po’ preannunciata da quella che il Pascoli, con immagine appunto montaliana ante litte-ram, chiamava “tecnica del cannocchiale rovesciato”,38 e del resto – scan-dita dall’arido e insieme smanioso “ricordi?” – quanto del tono stupen-damente evocativo e gnomico della Casa dei Doganieri è avvertibile già nel Vischio;

ebbene diremo che, osservando i due poeti, le due opere dalla distanza, egli abbia stupendamente ragione, ma anche che lo svol-gimento che Pasolini intravede dall’alto rischia di obliterare quei non pochi punti di rottura che fanno di Montale altra cosa rispetto a Pascoli. Già la perdita di quel ‘candore’, che è perdita di un intero universo di certezze, è elemento che distanzia. E la sicurezza gno-mica della voce narrante del Vischio: che cosa ne resta nella Casa dei doganieri, dove l’io non giudica più, non organizza più la descri-zione delle cose, non ha più punti di riferimento per circoscrivere sorte e presenza dell’altro? La visione sul problema non può essere

(in un’intervista, ad esempio, dove Montale fa per sé i nomi di Browning e di Baudelaire, cade un cenno agli scritti di Bonfiglioli: SMA, p. 1605). Se La fortuna del Pascoli è infatti la parola ufficiale di Montale sul tema (cui si aggiunge il già citato, ma poco noto reportage da San Mauro del ’56), vi è comunque tutta una insistita presenza di Pascoli – anche solo come termine di paragone negativo – nella riflessione critica montaliana, pre-senza che si estende diacronicamente dal Quaderno genovese alle ultime, svagate dichiarazioni del vecchio poeta.

37 P. P. Pasolini, Pascoli, cit., p. 296 (anche per le successive citazioni). 38 Pasolini allude al titolo con cui comparvero in rivista alcuni dei futuri

Flashes e dediche della Bufera, Col rovescio del binocolo (in «Paragone», a. i, n. 10, ottobre 1950).

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che multifocale per essere completa, non può che oscillare dalla prospettiva del continuum per cui, per dirla ancora con Caproni, «Montale, senza il Pascoli, sarebbe stato totalmente diverso»,39 a quella dell’individuum, che fra le voci nel tempo si leva a dir cosa nuova e ferma nel proprio senso, irriducibile alle altre. Consapevoli di questo, possiamo svolgere gli impliciti dei primi suggerimenti di Pasolini citati – i suggerimenti d’ordine stilistico – per trasportarci su un altro terreno, quello della trasmissione delle forme. Compi-remo anche qui alcuni sondaggi, facendoci guidare da quello spiri-to di ‘esperimento’, di reazione dei costituenti minimi, di cui, a ben vedere, partecipano i rilievi di Caproni e Pasolini: scompigliamen-to delle carte, fulmineo annullamento delle distanze.

Il verso «due barche in panna in mezzo all’infinito» citato da Pa-solini proviene da Dalla spiaggia di Myricae. Potrebbe trovar posto fra gli ‘ossi brevi’, in una poesia come Gloria del disteso mezzogior-no… o in una come Sul muro grafito… («Nel futuro che s’apre le mat-tine / sono ancorate come barche in rada»). Se il suggerimento non è (come però credo) di cadenza e di ambiente, se si vuole procedere lungo la via del lessico, viene in mente invece, da Arremba su la strinata proda…, il verso «è l’ora che si salva solo la barca in panna».

Quanto allo «stilema che si potrebbe leggere nelle Occasioni», è veramente istruttivo l’esempio che porta Pasolini (da Alba di Myricae), poiché lo stilema cui allude si trova in contatto im-mediato con altra caratteristica di Pascoli, quel procedimento onomatopeico che Montale – almeno per quanto riguarda lui – considerava un’ingenuità rispetto a ben più alti esempi di mimesi (pensiamo a quanto scrive nell’articolo In regola il passaporto del passero solitario):

virb… disse una rondine; e fu

giorno.

39 Nella già citata intervista radiofonica Caproni ricorda di aver svolto, per il concorso di ammissione all’insegnamento elementare del 1935, un tema sulla myrica Tre versi dell’Ascreo, in cui, dice, «fra l’altro, mi scappò che il Pascoli è l’iniziatore veramente di tutta la poesia moderna, novecentesca e che Montale, senza il Pascoli, sarebbe stato totalmente diverso. Non dico che non sarebbe stato, ma certamente totalmente diverso, basta pensare a tutta l’ornitologia montaliana e pascoliana allo stesso tempo» (L. Surdich, a cura di, «Era così bello parlare», cit., p. 185).

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Ora, accanto all’onomatopea c’è lo spezzato, c’è quel passato remoto dal valore puntuale e resultativo di cui si potrebbe fare una storia nelle Occasioni, a partire da Vecchi versi:

scrollòpazza aliando le carte – e fu per semprecon le cose che chiudono in un giro sicuro come il giorno;

fino a Costa San Giorgio:

Un dìbrillava sui cammini del prodigioEl Dorado, e fu lutto fra i tuoi padri.

Alla voce della rondine Montale ha sostituito l’evento, l’oggetto che stacca sugli altri, persino la parola:

Mi dissi:Buffalo! – e il nome agì.

Ci possiamo persino chiedere se non si fosse creato, in Paso-lini, un corto circuito della memoria fra le «barche in panna» di Dalla spiaggia, il «giorno» che erompe in Alba (enjambement in-terstrofico di grande effetto), e Barche sulla Marna di Montale. Alba continua e si chiude così:

virb… disse una rondine; e fu

giorno: un giorno di pace e lavoro,che l’uomo mieteva il suo grano,e per tutto nel cielo sonorosaliva un cantare lontano.

E in Barche sulla Marna leggiamo:Il sogno è questo: un vasto,interminato giorno che rifondetra gli argini, quasi immobile, il suo baglioree ad ogni svolta il buon lavoro dell’uomo,il domani velato che non fa orrore.

Certo è un’isola felice questa immagine tanto tersa. Vi si nota peraltro, come in Vecchi versi, l’insistenza sul valore positivo del

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«giorno». Ma è un «sogno», questo giorno, e termina presto, per-ché «qui… il colore / che resiste è del topo». E c’è una vena le-opardiana, non solo stilistica («interminato», più giù «silenzio altissimo»), ma concettuale, a percorrere i versi, poiché dopo il Sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta anche «il buon lavoro dell’uomo», se giunge a immagine, non può che serbare una cornice di dolore. Tuttavia ancora di ascendenza pascolia-na sarà quel movimento ad aprire, a rivelare, applicato anche in questo caso alla rappresentazione di un tempo aureo, intatto: un legame, questo fra motivo edenico e forme della sua rappresenta-zione, che abbiamo visto aver qualche rilievo quando si ricerchi un Pascoli di Montale.

5. Qualche conclusione

Qual è infine il peso, nella diacronia montaliana, della presen-za di questo Pascoli che abbiamo individuato? Fra gli Ossi e la Bufera, mi sembra, la bilancia si equilibra rispetto alla comune opinione della critica. Stando al materiale raccolto, le più ardite soluzioni tecniche di Pascoli sembrano trovar riscontro in Mon-tale in maniera più insistente nelle Occasioni che negli Ossi. Con qualche strascico nella Bufera, ma con un picco, appunto, nelle Occasioni. Ciò va di pari passo, a ben vedere e detto comunque con molta cautela, con l’emergere della traccia di Arletta. Sicché si potrà parlare, più elasticamente, di procedimenti stilistico-tema-tici che legano coerentemente quel picco delle Occasioni all’ul-timo lembo degli Ossi (le poesie inserite nel ’28, in particolare Arsenio e Incontro) e a certi ‘ritorni’ del motivo, con le sue impli-cazioni stilistiche, nella Bufera (Personae separatae, Proda di Ver-silia, Nella serra, Nel parco, Da una torre). Sembra insomma che vi siano le condizioni non dico per correggere, ma per rendere più articolata una conclusione di Mengaldo, che «i pascolismi si affollano negli Ossi, restano significativi nelle Occasioni, calano nella Bufera», qui però «con eccezioni importanti».40 Il punto è

40 P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 122. Alle «eccezioni importanti» della Bufera Mengaldo fa solo cenno. Come s’è vi-sto, c’era di che seguire l’indicazione.

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che variano, in diacronia, condizioni e sostanza del ‘pascolismo’. Di stampo prevalentemente lessicale, mi sembra, negli Ossi, e in condizioni di koiné con le soluzioni dannunziane e di stratifi-cazione con l’esperienza crepuscolare;41 di carattere tecnico-stili-stico nelle Occasioni e nella Bufera (restando ferma certa area di vocabolario: la «cedrina», mediata da Gozzano, il «guscio di ci-cala» nei mottetti), con l’avvertimento però che ai procedimenti tecnico stilistici rispondono tendenziali addensamenti tematici e semantici: rapporto d’ordine fàtico (reale o mancato) fra io e tu, emergenza di una ‘voce’ soffocata, emergenza o cancellazione di un sogno edenico.

La nostra indagine ha scelto, come unità di ricerca e di misu-ra, non tanto la parola (il «vocabolario» di Bonfiglioli), quanto l’impronta ritmico-sonora (spesso, questo sì, confermata dalla parola). Se lo strumento del critico, in un lavoro come questo, è l’orecchio (e non bisogna aver pudore ad ammetterlo), ebbene l’auscultazione non può che rispondere a oggetti non necessaria-mente ‘chiari e distinti’ (cioè linguisticamente delimitati, quali sono le parole). E aggiungiamo che non ragioniamo come se i luoghi attinti fossero cosa amorfa, lontana per giunta un certo numero di tacche, cioè di anni, sulla linea del tempo. Ma li consi-deriamo vicini, presenti, accesi dentro il nuovo tempo che creano i testi nuovi.

Scrive Niva Lorenzini che Pascoli sembra prestarsi a «percorsi non lineari e celati» più che d’Annunzio, «di cui si è esibita con molta più frequenza e varietà di prove la disposizione quasi con-naturata a venire ‘attraversato’ dai poeti del Novecento».42 Anche dai nostri sondaggi si ricava l’impressione che, almeno nel caso di Montale, sia difficile rubricare il rapporto con Pascoli come attraversamento. Si potrà parlare, piuttosto, di riemersione, ma non è forse il caso d’insistere nella ricerca di una formula. Le for-mule servono a descrivere il modo in cui qualcosa funziona, e in questo sono utili; ma non bisogna volerle inventare a tutti i costi. Resta il fatto che c’è, nella poesia di Pascoli, qualcosa di sfuggente e irrisolto, che sin da Croce la critica ha tentato di definire nei

41 Aspetti su cui è Mengaldo stesso a tornare: Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., pp. 103-108.

42 N. Lorenzini, Itinerari della memoria testuale, cit., p. 82.

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più disparati modi, da Serra alla «Ronda», da Debenedetti a Con-tini, fino, più avanti, a Baldacci (e in fondo anche quella offerta da Garboli è l’immagine di un Pascoli a più dimensioni). Nem-meno Montale, come si sa, si sottrae nella Fortuna del Pascoli al compito difficile di identificare quell’inexpletum quoddam.43 La conclusione più logica che ne possiamo trarre, e insieme la più prudente, è che sia proprio quel che di irrisolto c’è nella poesia pascoliana a garantirne la produttività nel tempo. È però spo-standoci sul piano della ineludibile polarità Pascoli-d’Annunzio che possiamo abbozzare una proposta che renda meno statica e tautologica questa conclusione.

Pascoli e d’Annunzio sono i due grandi sperimentatori alle so-glie del Novecento. Ma ciò che di nuovo d’Annunzio conquista al dominio della tecnica poetica è irreggimentato in un ordine che fa capo, gerarchicamente, all’io. Il ‘poetizzato’ in d’Annunzio diventa letteratura, e letteratura è, in un senso tutto dannunzia-no (e in fondo nuovo, e moderno), sfera di dominio dell’io, di controllo e accentramento. In Pascoli, viceversa, la lotta fra l’io e la materia poetica per la realizzazione di un’unità non si dà sen-za un preliminare abbandono di pretese dell’io di fronte a quella materia. Il dettame pascoliano che la poesia sia nelle cose e non in chi produce il testo, al di là del suo senso concettuale che può essere misurato su determinate coordinate storiche e culturali, esprime la configurazione di un atteggiamento del poeta di fron-te alla propria materia: a tale atteggiamento il fare poesia, il pro-durre testi, dovranno pur rispondere, e infatti la poesia di Pascoli più nuova, più fedele a se stessa, è quella in cui l’io si dissolve e si depotenzia, lasciando ‘parlare’ la materia poetica.

In realtà esistono i testi – esiste, di ciascun autore, il territo-rio frastagliato e multiforme della sua produzione. Sono i testi il precipitato di ogni atteggiamento di scrittura, o, se vogliamo, gli atteggiamenti si ricavano per astrazione, a volte anche ampia, dai testi. La diversa attitudine artistica dei due poeti, se è motivo di

43 «Più ancora della costante indecisione formale e psicologica che si avverte nelle sue poesie, lascia perplessi il fatto che raramente una sua lirica è un ‘oggetto’ distaccato, che può vivere per conto suo. Solo una profonda im-mersione nella propria materia può dar tanto. Pascoli tenne invece aperte troppe uscite di sicurezza. Ma forse chiediamo troppo e non siamo altret-tanto severi con poeti d’altra tradizione e d’altra cultura» (SMP, p. 1904).

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una diversa risposta dei poeti del Novecento alle loro sollecita-zioni, si lega a un’altra ragione di differenziazione: tra d’Annun-zio e Pascoli è solo il secondo, sia pure rivoluzionario inconsa-pevole o dinamitardo mancato, a «torcere il collo all’eloquenza» (espressione di Verlaine cara a Montale, che però per Pascoli non la usò mai). Tanto è vero che, quando d’Annunzio nel Commiato fa gioco allusivo attorno a luoghi fra i più in vista dei Canti di Castelvecchio e di due dei futuri Conviviali, il risultato, che po-teva riuscire persino odioso a Pascoli, era quello di anodizzare e anestetizzare tutto ciò che di antieloquente Pascoli era riuscito a trovare persino in situazioni stilistiche alte. «L’uomo che intende gli uccelli, i gridi / dei falchi, i pianti delle colombe» di Passeri a sera diventa, nel Commiato, «Quei che intende i linguaggi degli alati, / strida di falchi, pianti di colombe». Alla «donna d’Eresso» di Solon subentra, con turgido latinismo, una «femmina d’Eres-so», e l’«occhio azzurro come cielo» di Alexandros si cristallizza nel «cesio» occhio dell’«aquila di Pella». La stessa strofe saffica di d’Annunzio guarda a quelle ‘elleniche’ e barbare di Carducci, scolpite, figurative, non al passo duttile delle saffiche pascolia-ne. E la riprova è che le saffiche di Carducci si possono estendere narrativamente ad libitum (come si estendono quelle di Feria d’A-gosto e del Commiato nell’Alcyone); quelle di Pascoli no, hanno il respiro breve della lirica più eterea (si vedano gli Alberi e fiori di Myricae).44

Il monostilismo dannunziano fonda una nuova eloquenza, e in questo si esaurisce: esibendo come valore ultimo del testo la pa-rola in sé, nella sua perfezione subordinata all’impronta dell’ar-tefice (che a sua volta nella parola si specchia e si espone), esso, come esperienza complessiva, non può che fare della realtà ver-bale conseguita qualcosa di cavo, che suona a vuoto.45 Tale parola

44 Sulle ascendenze del Commiato e sui suoi rapporti con la poesia di Pascoli mi permetto di rinviare ad alcuni miei saggi: E. Tatasciore, Alla scuola del-la cantatrice. La prima saffica di “Solon” tra “Alcyone” e i “Poemi conviviali”, in R. Aymone (a cura di), Giovanni Pascoli a un secolo dalla sua scomparsa, Edizioni di «Sinestesie», Avellino 2013, pp. 421-453; Giovanni e Maria Pa-scoli nel “Commiato” di d’Annunzio, «Annali di Studi Umanistici», Univer-sità di Siena, n. 1, 2013, pp. 77-106.

45 Cfr. E. Raimondi, D’Annunzio e il simbolismo, in E. Mariano (a cura di), D’Annunzio e il simbolismo europeo, Atti del convegno di studio (Gardone Riviera, 1973), Il Saggiatore, Milano 1976, pp. 25-64.

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resta ferma. I poeti la potranno riprendere per attraversarla o pa-rodiarla, ma il recupero sarà, appunto, iniziativa loro. Ciò che ha preservato Pascoli da questa sorte sembra invece proprio il fatto che, al centro del suo stile (ove per stile s’intende la risultante di percezione del mondo, poetica e tecnica), non sia la parola – o, per dirla con Serra, la «letteratura» – ma la realtà scelta come poetizzabile. Nella realtà, va detto, la fiducia teoretica di Pascoli è grande, mentre proprio quella i poeti del Novecento, e Montale fra i primi, perderanno o quanto meno metteranno in discussio-ne. Ma la parola pascoliana, viva perché in vivo rapporto, nelle so-luzioni migliori, con le cose, non sarà nei nuovi poeti solo oggetto di recupero o di negazione, ma anche presenza silente, pronta a rigerminare.

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4.ULISSE E IL «FANCIULLETTO PADRONE»

MONTALE E I POEMI CONVIVIALI

Alcuni poeti cresciuti leggendo Montale hanno saputo restituire il senso del suo magistero poetico rimettendosi, con singolare acutezza e discrezione (talvolta quasi pudore), a pagine brevi ma decisive di omaggio o testimonianza, che forse, non fosse stata un’occasione a sollecitarli, non avrebbero scritto. Tra questi Sereni, Zanzotto, e ancora Caproni. A Caproni di nuovo vorremmo affidarci incominciando questo capitolo, a un suo scritto che s’intitola – e vedremo il perché di un titolo a tutta prima curioso – Montale poeta-vate.1

Scrive Caproni: «Montale ha per me il potere della grande mu-sica, che non suggerisce né espone idee ma le suscita in una con l’emozione profonda, e posso dire ch’egli è uno dei pochissimi poeti d’oggi che in qualche modo sia riuscito ad agire sulla mia percezione del mondo».2 La sua poesia possiede, oltre che la ca-pacità di attrarre il lettore «nell’atmosfera anche fisica dei versi», anche la virtù di coinvolgerlo «nel senso vivo e bruciante della Storia, sempre avvertito con una chiaroveggenza che ha spesso il freddo e la crudeltà di una lama di coltello». Tanto che «non sarebbe poi troppo difficile, a uno “studente canaglia”, leggere gli stessi Ossi in chiave d’allegoria civile o addirittura politica, oltre che religiosa».3

1 Comparve nel ricchissimo Omaggio a Montale allestito da «Letteratura» nel ’66 per i settant’anni del poeta, con scritti di critici e poeti (o critici-poeti) fra cui Anceschi, Corti, Fortini, Giudici, Sereni, Zanzotto, e il saggio di Montale La solitudine dell’artista. Si legge ora in A. Barbuto (a cura di), Giorgio Caproni, in «Galleria», a. xxx, n. 2, 1990, pp. 301-304.

2 G. Caproni, Montale poeta-vate, cit., p. 301.3 Ivi, p. 304. «Studente canaglia» è espressione montaliana, da Mediterra-

neo: «non ho che queste frasi stancate / che potranno rubarmi anche do-mani / gli studenti canaglie in versi veri».

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Teniamo dunque fermi questi due punti: la capacità della poe-sia di Montale di creare un paesaggio visibile, di identificare og-getti fisici, con essi suscitando «idee» sostenute da un’«emozione profonda»; e la sua ‘presa’ sulla storia, indiretta (Caproni parla di «allegoria») ma non per questo inefficace o debole. L’efficacia di Montale come poeta in grado di suggerire una visione sul mondo, oltre che come poeta civile, si misura in effetti anche sull’espe-rienza degli intellettuali che fecero della sua poesia un elemento della propria formazione. Ed è giusta in questo senso, entro que-sto orizzonte, la definizione che Caproni gli attribuisce, di essere – di poter essere considerato – un «poeta-vate», per quanto essa suoni paradossale in un’epoca in cui del tutto svuotata appaia, è chiaro, la retorica legata a questa figura. L’idea, però, di un poeta che possa considerarsi punto di riferimento, che sappia «inter-pretare ed esprimere, nel proprio dramma personale (nella pro-pria personale coscienza) il dramma (la coscienza) d’una intera società d’uomini e d’un’intera epoca», ebbene tale idea resta viva, e ha senso, nella misura in cui si attribuisce alla poesia e alla let-teratura una funzione nella società e in rapporto alla ‘coscienza’ della società stessa.

È consuetudine mettere alla prova di affermazioni come queste proprio gli Ossi di seppia, e lo faremo anche noi: questo capitolo intende essere da un lato un ultimo sondaggio sul ‘pascolismo’ di Montale, dall’altro un’apertura alla dimensione più spiccata-mente ermeneutica che prevarrà nei prossimi capitoli. Il percorso pascoliano tracciato sin qui toccherà perciò una poesia dei co-siddetti ‘ossi brevi’, Arremba su la strinata proda…, ma per dare udienza, in definitiva, al testo nella sua complessità e pienezza di messaggio. L’eco pascoliana, come vedremo, è solo uno degli elementi, anche se non di poco conto, della profondità storico-letteraria del testo. Il cui messaggio urge di per sé, nel proprio presente storico; e anche, potenzialmente, nell’oggi di ogni letto-re che vi si accosti.

1. Premesse su Montale e i Conviviali

Quello di Arremba su la strinata proda… è uno dei casi più vi-stosi di presenza pascoliana in Montale. Ed è curioso che finora la

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critica si sia occupata assai poco di questo aspetto, trattandosi pe-raltro di un testo così bello – occorre dirlo – e importante.4 Il ri-conoscimento dell’eco pascoliana non è propriamente funzionale al senso del testo. Potremmo dire che Pascoli ha, in questo caso, un ruolo di punta nella sua secondarietà. La sua presenza nell’‘os-so’ – l’eco di un luogo della sua poesia – non soltanto accresce, come accade in certi casi d’intertestualità, quel cerchio di riso-nanze non indispensabili alla comprensione del senso ma fonda-mentali per il suo spessore polifonico; ma costituisce, a livello di fenomenologia della strategia testuale, il fatto macroscopico che conferma e rafforza tutta una serie di più o meno visibili scelte che collaborano al meccanismo di creazione del messaggio.

Significativo è anche il fatto che la traccia pascoliana sia pas-sata pressoché inavvertita, indizio di un’attenzione critica forse lievemente sbilanciata sulle Myricae e sui Canti di Castelvecchio – con l’eccezione, come si è detto, di Girardi – laddove una let-tura del Pascoli di Montale non può prescindere, non dico dalla considerazione in blocco degli altri libri di poesia pascoliani, ma almeno di alcune loro punte significative. Anche la memoria del-le Myricae e dei Canti, del resto, come abbiamo visto, privilegia zone ben definite o addirittura singoli testi, quando la si interro-ghi osservando non tanto il vocabolario o le soluzioni tecniche in sé ma nuclei semantici legati a costanti formali.

Per quanto riguarda i Conviviali, c’è una ragione storica di non poco rilievo a suggerire un approfondimento dello studio del loro influsso su Montale. Ed è il fatto che essi nascono – quasi tutti i singoli poemi, e sicuramente il libro nella sua interezza – in una situazione di antagonismo e polarità rispetto all’opera, coeva, del d’Annunzio riscopritore dell’antico: il D’Annunzio, per intenderci,

4 Il saggio più recente è quello di C. Genetelli, Morfologie montaliane (una lettura di “In limine” e di “Arremba su la strinata proda”), in «Stilistica e metrica italiana», n. 7, 2007, pp. 313-328. Ma si tengano presenti i com-menti di Tiziana Arvigo e di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely: T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale: “Ossi di seppia”, Carocci, Roma 2001; E. Mon-tale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, Mondadori, Milano 2003. L’unico ad avvedersi della presenza pascoliana è Claudio Cencetti, in un libro d’interpretazione degli ‘ossi brevi’ per alcuni versi discutibile: C. Cencetti, Gli ‘ossi brevi’ di Eugenio Montale. I ‘veri’ significati, analisi metrico-stilistica, commento, Titivullus, Corazzano 2006, p. 207.

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di Maia e di alcune zone di Alcyone.5 L’Odisseo dell’Ultimo viag-gio vive anche, nella storia letteraria e nella memoria poetica del Novecento (non solo di Montale) nella contrapposizione al suo alter ego dannunziano. L’Ulisse del mito vuoto, come lo ha defini-to Nava, dello scacco esistenziale, della possibilità perduta (pen-so anche al Sonno di Odisseo, che nei Conviviali precede l’Ultimo viaggio), e il malinconico Alessandro che di fronte all’abisso nel «Niente» piange, perché più nulla è da scoprire, sono figure che già considerate nel taglio sincronico entrano in relazione di con-trocanto col vitalistico modello dannunziano. E Montale, il poeta che avrebbe ‘attraversato d’Annunzio’, non doveva aver letto con attenzione viva i poemi che, sia storicamente sia in prospettiva di ricezione, di quel d’Annunzio già costituivano un attraversamento ante litteram? Si pensi ad Alexandros:

– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!Non altra terra se non là, nell’aria, quella che in mezzo del brocchier vi brilla,

o Pezetèri: errante e solitariaterra, inaccessa. Dall’ultima spondavedete là, mistofori di Caria,

l’ultimo fiume Oceano senz’onda.O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,ecco, la terra sfuma e si profonda

dentro la notte fulgida del cielo.

Ne risente forse Casa sul mare, nel tono, in certi movimenti legati a idee, là dove interessa al confronto non l’idea in sé – sono due e diversi gli orizzonti culturali – ma la modulazione:

5 Troppo lungo sarebbe l’elenco degli studi in proposito, che coinvolgono non solo i Conviviali e le Laudi ma il complesso delle intenzioni dei due poeti e molte delle loro particolari realizzazioni. Bastino i nomi di Anna-maria Andreoli (Da Banville a Mallarmé. D’Annunzio lesse Pascoli, in «Ri-vista pascoliana», n. 1, 1989, pp. 141-153), Alfonso Traina (I fratelli nemici. Allusioni antidannunziane nel Pascoli, in A. Traina, Poeti latini e neolatini. Note e saggi filologici, ii, Pàtron, Bologna 1991, pp. 231-250), Marco Santa-gata (Per l’opposta balza. “La cavalla storna” e “Il commiato” dell’“Alcyone”, Garzanti, Milano 2002).

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Il viaggio finisce qui: nelle cure meschine che dividonol’anima che non sa più dare un grido.[…]

Il viaggio finisce a questa spiaggiache tentano gli assidui e lenti flussi.Nulla disvela se non pigri fumila marina che tramano di conche i soffi leni: ed è raro che appaianella bonaccia mutatra l’isole dell’aria migrabondela Corsica dorsuta o la Capraia.

Certo le «isole dell’aria» conserveranno memoria di Ceccardo, come nota Mengaldo.6 Ma qualcosa di quella rarefatta figurazio-ne lunare pure sembra collidere con l’immaginario montaliano, forse anche perché nei versi di Alexandros si fa fatica a vedere, distinto, l’astro, ma prevale l’immagine stranita di una «errante e solitaria / terra, inaccessa», vagamente indicata «nell’aria». Va aggiunto che l’immaginario di Montale, in questo caso, non ha alcun bisogno di appoggiarsi a puntelli letterari, come mostra la tarda ripresa di Cara agli Dei in Altri versi, che sottintende una complicità biografica, esperienziale, eletta a funzione significan-te del testo:

Vista dal nostro balconein un giorno più chiaro d’una perlala Corsica appariva sospesa in aria. È dimezzata dicesti come spessola vita umana.

Eppure anche a Pascoli la Capraia, dall’Ardenza, appariva «come una nube» (Conte Ugolino, nei Primi poemetti), «più lon-tana» rispetto alla Gorgona e «come tra leggiera / nebbia»: «uscìa d’una corona / di nebbia, appena». Qui dobbiamo registrare, fra Pascoli e Montale, non uno sviluppo in diacronia dell’immagine, ma un’elaborazione successiva della stessa materia di realtà. È un caso limite, che ci instrada però verso un fatto semplice quanto fondamentale per chi voglia indagare l’apporto dei Conviviali. Pa-

6 P. V. Mengaldo, Pascoli e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 107.

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scoli non è, a tutta prima, un poeta marino, litoraneo: il confron-to col d’Annunzio di Alcyone lo sospinge troppo prepotentemen-te di là dalle Panie, negli ambienti montanini della Garfagnana. Eppure figurazioni del mare e della spiaggia nella sua opera non mancano, sin dalle Myricae (abbiamo visto le «barche in panna», ma cadenze che anticipano Montale ha anche I puffini dell’Adria-tico). Ora, il libro più marino di Pascoli è senz’altro quello dei Conviviali. E a ben vedere è un dato, questo, in perfetta coerenza con quanto s’è detto prima sul rapporto fra i Conviviali e i due libri maggiori delle Laudi, Maia e Alcyone: anche per questa via, cioè, ritroviamo quella relazione polare che non si vede perché dovrebbe escludere, dal campo giustamente indicato da Mengal-do come koiné dannunziano-pascoliana – che sarà linguistica, ma anche di motivi figurativi – poemi quali Il sonno di Odisseo, L’ultimo viaggio, I vecchi di Ceo.7

La terra d’Itaca che l’Ulisse pascoliano intravede nel sogno (Il sonno di Odisseo) poteva ben identificarsi, fatte le dovute proporzioni, con quella che il giovane Montale era abituato a percorrere con gli occhi seduto su un barchetto, in faccia alle Cinque Terre:

E venne incontro al volo della nave,ecco, una terra, e veleggiava azzurratra il cilestrino tremolìo del mare;e con un monte ella prendea del cielo,e giù dal monte spumeggiando i botriscendean tra i ciuffi dell’irsute stipe;e ne’ suoi poggi apparvero i filarilunghi di viti…

7 Lo stesso Mengaldo, del resto, cita fra gli esempi di «concorrenza di modelli pascoliani e dannunziani» proprio I vecchi di Ceo e Le madri di Alcyone, per il loro influsso sul finale di Casa sul mare che esibisce la rima «moto alterno»: «eterno» (P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, cit., pp. 57-58; questione ripresa da A. M. Girardi, Pascoli e Montale, cit., pp. 165-166). Ma a me quel finale fa pensare molto, anche, alla «Olympiàs in un sogno smarrita» del finale di Alexandros. Anche fra i Poemi del Risor-gimento bisognerà cercare in questa direzione? Ecco l’incipit di Garibaldi fanciullo a Roma (il paesaggio è fluviale): «L’isola sacra, l’isola dei morti / aveano a poggia, piena d’asfodeli. / Là bianchi i morti, volti alla marina, / sui tumoleti, tendono le mani / al sole occiduo».

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Immagini, parole la cui metamorfosi farà capo a Fine dell’in-fanzia, agli ulivi «tenui come il fumo di un casale / che veleggi / la faccia candente del cielo» («tenue fumo / ch’esce dalla casa» è iunctura ricorrente, sin dal primo verso, nell’altro conviviale Psy-che), alle «macchie di vigneti», ai «fossi incassati, tra garbugli di spini», ai «botri».8 Ma ciò che più sorprende, e che conferma l’im-portanza di questo testo per Montale, è ritrovarne un’eco là dove la memoria del poeta torna sulle sue proprie immagini. Siamo, nemmeno a dirlo, ancora nell’Orto:

io non so se il tuo passo che fa pulsar le venese s’avvicina in questo intrico,è quello che mi colse un’altra estateprima che una folataradente contro il picco irto del Mescoinfrangesse il mio specchio.

8 Cenni sul rapporto con Fine dell’infanzia anche in A. M. Girardi, op. cit., pp. 196-197 (ma cfr. anche P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 39, per significative tessere dannunziane). Si può aggiungere che il sin-tagma «orlo di mondo» nel finale, splendido, della quarta strofa («rara di-roccia qualche bava d’aria / sino a quell’orlo di mondo che ne strabilia») ha un precedente nell’inno Il ritorno di Colombo: «Guarda: fu ieri: una canna / nuotava sul mare profondo: / oggi si cullano in panna / le navi su l’orlo d’un mondo». Se rapporto c’è, sarà di elementi linguistici o nessi assimilati nel nuovo linguaggio montaliano, come il dantesco-pascoliano «diroccia» o la dannunziana «bava» («bava di vento» in Meriggio, ad esempio, e in Maia, xxi). Ad ogni modo, in favore di Odi e Inni c’è, anche a suggeri-re ulteriori approfondimenti, la testimonianza dello stesso Montale, che nella Fortuna del Pascoli scrive: «Se la nostra memoria non ci fa un brutto tiro abbiamo l’impressione che negli ultimi anni della sua vita il Pascoli avesse raggiunto quella posizione di poeta nazionale che oggi neppure un suo pari potrebbe raggiungere, e che noi non auguriamo a nessuno. Come si spiegherebbero le Odi e gli Inni [in volume nel 1906] se il Pascoli non avesse sentito che il posto a lui assegnato lo collocava, inter pares, accanto al Carducci e al D’Annunzio? […] Le stesse famiglie borghesi che raccolte sotto l’abat-jour del tinello o nell’ombra del giardino ascoltavano la let-tura delle dannunziane Canzoni d’oltremare (uscite a grandi caratteri sul Corriere della Sera [su cui Montale pubblica questo pezzo, 30 dicembre 1955]) non ignoravano il nome e l’opera del Pascoli» (SMP, p. 1901). Gli ultimi anni della vita di Pascoli – poniamo, dal 1906 al ’12 – sono quelli dell’infanzia di Montale: e non fatichiamo a immaginare ambientata nella villa di Monterosso, dove i Montale trascorrevano l’estate a partire proprio dal 1906 (Eugenio aveva dieci anni), la scena perfettamente Biedermeier descritta nell’articolo.

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La «folata / radente contro il picco irto del Mesco» è quella che infrange «il mio specchio» (o «il tuo», secondo una significati-va variante), immagine legata, ancora una volta, al destino della fanciulla di Punta del Mesco (ma si rammenti anche la «folata» di Vento e bandiere). Ebbene nel Sonno di Odisseo si legge:

La nave radeva allora il picco alto del Corvo;

soluzione che il poeta sceneggiatore del sogno varia, dal terzo al sesto ‘movimento’, col variare della sequenza:

E la nave radeva ora una punta d’Itaca scabra.

La ricorsività, già tipica della poesia pascoliana, diventa nei Conviviali propriamente formulare, sull’esempio dell’antico; con la peculiarità tutta moderna, però, che spesso la ripetizione è funzionalizzata, attraverso una variatio minima ma semantica-mente discriminante, a spia di un mutamento di stato, narrativo o psicologico. Fin qui siamo dentro la tecnica dei Conviviali, che nel Sonno di Odisseo si fa quasi cinematografica. Ma in questo caso particolare l’insistenza sul verbo ‘radere’ che ne risulta copre – dal punto di vista della sollecitazione alla memoria – la distanza semantica fra le due situazioni referenziali, la «nave» di Pascoli e la «folata» di Montale. Ciò che razionalmente distanzia i due passi è insomma recuperato dall’orecchio, e al verbo ‘radere’ si apprende l’orchestrazione incisa, calibrata su elementi fonici e figurativi aspri, del segmento locativo: il «picco alto del Corvo», la «punta / d’Itaca scabra», cui risponde la Punta del Mesco di Montale, il «picco irto del Mesco».

Che cosa si vuol dire? Solo questo: che dietro l’immaginario, ribadiamo, autoctono del Montale monterossino c’è come il fan-tasma di quell’isola domestica sognata da Odisseo, col suo «picco alto del Corvo» analogo al «picco irto del Mesco» visibile da Mon-terosso. E ci muoviamo, si badi, non nella geografia biografica del poeta, ma in quella che il sistema della sua opera ha lentamente creato negli anni, con prime emergenze e ritorni. Anche in questo caso non possiamo che constatare l’insorgere della modulazione

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pascoliana nel contesto di una situazione che coinvolge da un lato Arletta (o comunque una figura femminile trascorsa rispetto alla nuova Clizia), dall’altro il senso d’un remoto ambiente – luoghi suoni figure – che la memoria alimenta ancora dentro sé. Ricor-diamo infatti che i versi successivi hanno, come abbiamo mostra-to, qualche rapporto con l’archetipo di Romagna: «gemiti d’altri nidi, / da un fólto ormai bruciato».

C’è, infine, un caso veramente esemplare di polarizzazione lin-guistica che, nell’orizzonte di quella koiné lexis, veicola un’oppo-sizione semantica: quasi direi un’inclinazione diversa, fra Pascoli e d’Annunzio, a trattare una materia figurativa comune. Monta-le, come vedremo, opera le sue scelte tenendo presente l’intero spettro offerto dai testi dei due poeti. Notando in primo luogo l’alta incidenza del sostantivo ‘gorgo’ negli Ossi di seppia, parola e immagine quanto mai significativa nel libro, si può tentare una ricerca delle iuncturae di questo lessema (con qualche incursione nella più vasta area degli affini ‘mare’ e ‘flutto’) in Maia, Alcyone e nei Poemi conviviali.9

In d’Annunzio avremo i seguenti nessi: «gorgo vorace» (Maia, iv), «gorgo soprano», «cerulo gorgo» (Maia, xvii), «gorghi in-torti», «incerti gorghi» (Alcyone, Anniversario orfico), «intorti gorghi», «viventi gorghi» (Alcyone, Terra, vale!). Notevoli poi il «gran mare torpente / ma pieno di occulta / ferocia, di vita vora-ce» di Maia, xvi (già segnalato da Mengaldo),10 e il «florido mare» di Maia, xx. Il lettore avrà riconosciuto l’antecedente lessicale, o meglio gli antecedenti, congiunti in un nuovo nesso, del «mare florido / e vorace» di Fine dell’infanzia (lezione che s’impone però soltanto a partire dall’edizione Ribet sulla precedente «mare fio-rito e vorace» de «Le Opere e i Giorni» e dell’edizione Gobetti).

Il paradigma tuttavia non è completo senza il versante pa-scoliano, che con quello di d’Annunzio, s’è detto, è in relazione storica di concorrenza. Il novero è più parco ma contiene una

9 Le occorrenze di «gorgo» in Montale sono 11. Stando al Vocabolario di Sa-voca, la parola ha una discreta diffusione anche in area crepuscolare, in Rebora, in Campana. Cfr. G. Savoca, Vocabolario della poesia italiana del Novecento. Le concordanze delle poesie di Govoni, Corazzini, Gozzano, Mo-retti, Palazzeschi, Sbarbaro, Rebora, Ungaretti, Campana, Cardarelli, Saba, Montale, Pavese, Quasimodo, Pasolini, Turoldo, Zanichelli, Bologna 1955.

10 P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 49.

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variazione fondamentale. Se tralasciamo il «nero gorgo» di Ate, avremo, nell’Ultimo viaggio, i «pescosi gorghi» del nono movi-mento (Il pescatore), e, nel ventiquattresimo (Calypso), i «gorghi sterili del mare», che nello stesso movimento diventano «flutto sterile». Stavolta sono i Morti a tornare alla memoria: «e il gorgo sterile verdeggia / come ai dì che ci videro fra i vivi».11 In d’Annun-zio l’aggettivo ‘sterile’, che non manca, non si lega mai a ‘mare’, ‘gorgo’, ‘flutto’, ed è attributo più che altro esornativo: «sterile» è la «sabbia» ne Le Ore marine, è il «sale» in Undulna, e si capisce perché: la sabbia non dà frutto, il «sale» marino essicca (e «indu-ra» appunto la sabbia, in Undulna). Ma in Pascoli l’aggettivo si carica di una valenza tutta interna alla vicenda psicologica e nar-rativa sviluppata dal poema. All’inizio i «gorghi» sono, secondo l’epiteto omerico, «pescosi» (come «pescoso» era il mare nell’O-dissea di Pindemonte):

Io vidi, anzi, mortali gittar le reti dalle curve navi, sempre alïando sui pescosi gorghi, come le folaghe e gli smerghi ombrosi.12

Ma nel movimento conclusivo del poema, il ventiquattresimo (quanti sono i libri dell’Odissea), il calco si ravviva e si capovolge: quei gorghi sono divenuti «sterili». Perché? Che cosa è successo? Non una delle tappe toccate da Odisseo nel suo viaggio a ritroso s’è rivelata piena di quel senso che egli cercava, inseguendo i fan-tasmi della memoria che altro non sono, poi, che i fatti prodigiosi narrati da Omero. All’isola di Calypso Odisseo approda morto, sospinto dalla corrente dopo aver naufragato contro gli scogli del-le Sirene, mute alla sua domanda esistenziale (Il vero). Si capisce dunque l’intensità della variatio rispetto al nesso omerico, che

11 Nel Vocabolario non trovo altre occorrenze del sintagma oltre a quella montaliana.

12 Sono sei le occorrenze di «pescoso» in associazione con «mare» nella tra-duzione di Pindemonte, mentre nell’Iliade di Monti si ha «pescoso Ocea-no», «pelago pescoso». Già «pescose rive» erano nella traduzione di Caro dell’Eneide. Il nesso è insomma ben acclimatato nella tradizione italiana quando Pascoli, tutt’altro che ignaro del lavoro dei ‘grandi traduttori’, lo recepisce per variarlo.

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Pascoli tiene a ribadire entro la stessa lassa, e con vistosa allusio-ne al passo precedente:

Non forse hanno veduto a fior dell’ondaun qualche dio, che come un grande smergoviene sui gorghi sterili del mare? […]Era Odisseo: lo riportava il marealla sua dea: lo riportava mortoalla Nasconditrice solitaria,all’isola deserta che frondeggianell’ombelico dell’eterno mare.Nudo tornava chi rigò di piantole vesti eterne che la dea gli dava;bianco e tremante nella morte ancora,chi l’immortale gioventù non volle.Ed ella avvolse l’uomo nella nubedei suoi capelli; ed ululò sul fluttosterile, dove non l’udia nessuno:– Non esser mai! non esser mai! più nulla,ma meno morte, che non esser più! –13

Un finale che non poteva non depositarsi nella memoria poetica di Montale, e il «gorgo sterile» dei Morti ne è la traccia. L’aggettivo, peraltro, subentra al precedente «florido» del testo stampato sul «Convegno» (1926), sostituzione che spiegherei con ragioni di variatio macrotestuale proprio rispetto al «mare» di Fine dell’infanzia, che come s’è detto diventa «florido / e vorace»

13 I primi tre versi citati rimodulano un luogo omerico (Od. 5, 51-53), ma, nell’includere la similitudine antica nella prospettiva soggettiva di Calipso, si avvicinano anche a un famoso tratto del Tristano e Isotta di Wagner. La nave di Isotta si avvicina, Tristano morente ne ha la visione nel desiderio e dice a Kurwenal: «Und drauf Isolde, / wie sie winkt, – / wie sie hold / mir Sühne trinkt: / siehst du sie? / siehst du sie noch nicht? / Wie sie selig, / hehr und milde / wandelt durch / des Meers Gefilde?» (atto terzo, scena prima, vv. 1217-25). Pascoli conosceva Wagner e, quanto a Montale, il passo sembra presente nella sua memoria se in Casa sul mare leggiamo l’espres-sione «sommossi campi del mare» che risponde, appunto, ai wagneriani des Meers Gefilde, tradotto «campi del mare» da Guido Manacorda nel 1922 (R. Wagner, Tristano ed Isolda, traduzione e commento di G. Mana-corda, Sansoni, Firenze 1922). Nell’Ultimo viaggio, ad ogni modo, «cerulei campi» sono, con calco dal latino (Silio per esempio), quelli di dominio di Nettuno, il «truce dio del mare» (vii, La zattera). L’espressione, come si vede, è sedimentata nella tradizione occidentale.

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nella nuova configurazione degli Ossi del ’28 (come il «groppo rabido» della seconda strofa diventa «torbido» per differenziare lessicalmente dal «rabido ventare di scirocco» de L’agave su lo scoglio). Il tutto mostra non solo l’operatività del paradigma nel suo complesso e la memorabilità delle sue punte più espressive, ma anche la redistribuzione dei valori semantici nella nuova sintassi del macrotesto, del libro. Se Montale ‘scopre’ l’aggettivo «florido» con la prima redazione de I morti, è significativo che poi, nella versione in volume, da un lato lo sostituisca con un aggettivo ancora più aderente alla situazione della strofa, dall’altro lo recuperi in Fine dell’infanzia dove esso trova, in associazione con «vorace» (ma anche il passaggio da «il mare» a «un mare» e l’enjambement cospirano all’effetto), un senso aggiunto di quasi crassa vitalità che mancava nella iunctura precedente «il mare fiorito e vorace». È quasi personificato questo mare, non più «padre», come in Mediterraneo, ma patrigno.

La polarizzazione dell’esperienza letteraria fra Pascoli e d’An-nunzio negli anni a cavallo fra l’Otto e il Novecento, anni vera-mente cruciali per la poesia italiana, si riverbera dunque sui testi. E l’opposizione fra i due Ulisse, fra le due riscoperte dell’antico, fra Maia, infine, e i Poemi conviviali, ne è componente organica, in re, che non può non trasmettersi, per vie scoperte o coperte, alla ‘tradizione del Novecento’.14

14 Un giudizio contenuto nella Fortuna del Pascoli è significativo, anche se sia-mo nel ’55 e non necessariamente le affermazioni del Montale critico rispec-chiano le situazioni profonde della sua poesia: «Se i Conviviali anticipano certi motivi del Rilke di mezzo – non francese e non orfico – tutto il curri-culum pascoliano non appare esemplato su modelli francesi e inglesi; non segue affatto la linea di sviluppo del così detto decadentismo contempora-neo» (SMP, p. 1902). Pur nel giudizio assai restrittivo, cogliamo in queste parole un’attenzione particolare verso i Conviviali, l’unico libro di Pascoli che Montale ponga in qualche rapporto con la tradizione europea e, attraverso la via del «decadentismo contemporaneo», con la modernità. Nell’Omaggio mondadoriano non si trova cenno a possibili analogie fra il Pascoli convivia-le e Rilke. Il legame fra i due poeti (cui si aggiunge d’Annunzio) è istituito da Montale già nel ’53, nel saggio su Gozzano, dove si legge: «Non del tutto ‘moderni’ (cioè parzialmente estranei a quella jonction Browning-Baudelai-re che ha dato origine a tutta la poesia moderna) erano anche D’Annunzio, Pascoli e il primo Rilke; ma i loro versi cantano spesso in profondità come il verso di Guido non cantò mai» (Gozzano, dopo trent’anni, SMP, p. 1275). In Un poeta alessandrino, articolo su Kavafis uscito sul «Corriere della Sera» il 13 aprile 1955, i «‘poemi conviviali’» che «scrissero Pascoli e Rilke» sono

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2. Male di vivere, storia, letteratura

Il 1925 non è solo l’anno in cui gli Ossi di seppia si affacciano al mondo della letteratura e del dibattito intellettuale, ma anche, nella cronologia, il momento di raccordo fra due tempi della vita sociale e politica del paese: la conquista del potere da parte del fascismo e l’inizio del consolidamento del regime. Due date sim-bolo possono essere il 1924, anno del delitto Matteotti, e il 1926, quando Gobetti muore in seguito all’aggressione di una squadra fascista («Il Baretti» chiuderà le pubblicazioni due anni dopo). Per dirla con i curatori del commento mondadoriano, il primo li-bro di Montale si situa «al confine tra due stagioni storico-cultu-rali, dividendo la fase del sovversivismo piccolo-borghese e delle avanguardie dalla svolta dittatoriale del regime fascista e della restaurazione classicistica».15

Vita politica e sociale e vita letteraria non vanno disgiunte. Gli anni della «Ronda» (1919-1922) sono anche quelli in cui, fra le tensioni di una società di massa che il vecchio stato liberale non è in grado di interpretare e sciogliere, il fascismo giunge al potere per il doppio binario della violenza squadrista (nazionalmente coordinata, infine, nella ‘marcia su Roma’) e delle oculate strate-gie di mediazione con la borghesia terriera e industriale e con le istituzioni del regno. Il periodo fra la prima e la seconda edizione degli Ossi (1925-1928) è poi quello della prima fase di consolida-mento del regime. Dopo le elezioni dell’aprile 1924, e risolta la crisi provocata dal delitto Matteotti, Mussolini farà approvare nel giro di due anni, da un parlamento a quasi totale maggioranza fascista, una serie di leggi autoritarie che avrebbero svuotato l’or-dinamento istituzionale di ogni contenuto liberale. Tutti i partiti,

definiti «poemetti d’intonazione neoclassica, e sia pure con sentimento mo-derno» (SMP, p. 1805). Il Rilke ‘conviviale’ poteva essere quello di Orpheus, Euridike, Hermes, o di Alkestis, poemetti che qualche anno prima Giaime Pintor aveva tradotto su «Letteratura» (n. 13, gennaio 1940) con una nota in cui riconosceva, fra gli strumenti a disposizione del traduttore italiano, proprio l’endecasillabo conviviale di Pascoli. Il volume che raccoglie que-ste traduzioni (R. M. Rilke, Poesie, traduzione di G. Pintor, Einaudi, Torino 1942) sarebbe stato donato da Pintor a Montale: cfr. L. Barile, F. Contorbia, M. A. Grignani (a cura di), I fogli di una vita. Le carte, i libri, le immagini di Eugenio Montale, Scheiwiller, Milano 1996, p. 56.

15 E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, cit., p. cxxi.

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tranne il Partito nazionale fascista, furono di fatto messi fuori legge sul finire del 1926, e venne istituito un Tribunale speciale per il giudizio dei delitti contro lo stato e il regime (con reintro-duzione della pena di morte). Anche la stampa fu costretta ad allinearsi. Lo stesso Gobetti, fondatore del «Baretti» e primo edi-tore di Montale, morì, si è detto, per le percosse ricevute, esule a Parigi, nel 1926.

Gli intellettuali riuniti attorno a Gobetti nella Torino indu-striale del dopoguerra (Giacomo Debenedetti, Sergio Solmi, Natalino Sapegno, Leone Ginzburg, per fare alcuni nomi) inten-devano esprimere un’idea di letteratura come strumento di esa-me critico della società e della cultura, e di ricomposizione del divario fra pubblico e mondo intellettuale. Il primo importan-te saggio di Montale, uscito sul «Baretti» nel gennaio del 1925 e intitolato Stile e tradizione (aprirà poi Auto da fé) è chiaro su questo punto: «In Italia non esiste, quasi, forse non esisterà mai, una letteratura civile, colta e popolare insieme; questa manca come e perché manca una società mediana»16 (lo lamentava già Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani: testo che era stato ripubblicato nel 1921 su un fascicolo della «Ronda»). Quello formulato da Montale è un vero e proprio programma di lavoro: lavoro svolto «in umiltà», da «disincantati savi e avveduti».17 Un lavoro che evita «il generico» costruendosi «dei limiti e dei piani concreti, e siano pure modesti»,18 e preferi-sce cercare i germi del cambiamento, secondo la lezione di Croce, nella storia e nella tradizione: non dunque nella gridata rottura delle forme, ma nemmeno nelle «forme del passato considerate come realtà estrinseche valide di per sé» (queste saranno ripetu-te ingenuamente dai «trovatori più baldanzosi, che cantano per universali»).19 È qui anzi, nell’alveo del cosiddetto ‘ritorno all’or-dine’, che par di capire interessi a Montale di fare i più urgenti e necessari distinguo. Nel clima di un restaurato classicismo – ga-rante comunque, sullo sfondo, di una sobrietà di forma necessa-ria all’esercizio del pensiero critico – la novità degli Ossi di seppia risiede nello ‘sporcarsi’ della parola poetica in situazioni di poesia

16 SMA, p. 10.17 SMA, p. 14.18 SMA, p. 9.19 SMA, p. 13.

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non predeterminata. È una parola che scansa lo sperimentalismo incontrollato e gratuito, evitando però di adagiarsi (era questo il rischio dopo la «Ronda») sulla linea di un generico e astratto recupero delle forme classiche della tradizione.

Montale perveniva così a situazioni che la vulgata dell’estetica crociana e un classicismo non problematico potevano definire di ‘non-poesia’, ma che erano tanto più artisticamente vere in quanto aderenti a un principio, come ancora si legge in Stile e tradizione, di «coscienza e onestà».20 Lo strumento della poesia permetteva, negli Ossi di seppia, la controllata messa a fuoco, in immagini e forme, di una realtà il cui senso ultimo sfugge, o, se si vuole, resta separato, come il giovane Montale leggeva in Schopenhauer.

3. Ulisse e il «fanciulletto padrone»

Veniamo ora ad Arremba su la strinata proda…:

Arremba su la strinata proda le navi di cartone, e dormi, fanciulletto padrone: che non odatu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi.

Nel chiuso dell’ortino svolacchia il gufo e i fumacchi dei tetti sono pesi.L’attimo che rovina l’opera lenta di mesigiunge: ora incrina segreto, ora divelge in un buffo.

Viene lo spacco: forse senza strepito.Chi ha edificato sente la sua condanna. È l’ora che si salva solo la barca in panna. Amarra la tua flotta tra le siepi.

Sono tre quartine fittamente percorse da richiami, anche inter-ni, di rima, assonanza, consonanza. La serie più notevole è quella che porta al finale: la rima «pesi»:«mesi», si associa, in assonanza sulle vocali e-i, a quella preziosa «strepito»:«siepi», allitterante e ipermetra.

20 SMA, p. 14.

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È noto che «arremba» significa ‘attracca’, e che «strinata» vale ‘bruciata’: sono, italianizzate, due parole di area ligure. Il primo verso disorienta alquanto il lettore, ma lo scherzoso, espressivo lessico marinaio non oscura il senso: ‘attracca, metti in secco sul-la riva le navi di cartone’. I «malevoli spiriti» appartengono per ora, a conclusione cioè della prima strofa, al mondo del «fanciul-letto», il bambino-adulto «padrone» della flottiglia di carta. La voce fuori campo, a lui rivolta, mima allo stesso tempo la serie-tà infantile e quella della dizione aulica: non possiamo insom-ma evitare un’associazione dei «malevoli spiriti che veleggiano a stormi» (espressione di registro quanto mai alto) con il prover-biale orco cattivo dei bambini. I due versi successivi abbassano ulteriormente il tono (fondamentale il diminutivo «ortino»), pur rimanendo il lessico alquanto scelto: si pensi a vocaboli di ironico espressionismo, preziosamente legati da assonanza-consonanza, quali «svolacchia» e «fumacchi», o al toscanismo «pesi» per ‘pe-santi’ o ‘gravosi’.21

Stringono, le tre strofe, attorno al motivo dell’«attimo che ro-vina l’opera lenta di mesi», sempre più approfondito e precisato sino alla vera e propria apocalissi in minore della terza strofa, che da un lato universalizza il messaggio, spingendo verso una pronuncia solenne («chi ha edificato sente la sua condanna»), dall’altro si richiama circolarmente, con l’ultimo verso, all’inci-pit: ma con accento quasi rude stavolta («Amarra la tua flotta tra le siepi»), opposto alla dolcezza con cui il cantato iniziale in-duceva al sonno il «fanciulletto padrone» («Arremba […] e dor-

21 Francesco Bausi segnala in «fumacchi» un’eco della carducciana Sacra di Enrico V: F. Bausi, Suggestioni carducciane fra Pascoli (“Gog e Magog”) e Montale (“Ossi di seppia”), pp. 119-136 (p. 136). Restando fermo che ‘fu-macchio’ non è parola di pertinenza esclusivamente carducciana, va os-servato che in effetti, anche se Bausi, e in seguito Pedroni («Il Carducci meno eletto» di Montale, cit., p. 163, n. 4), non approfondiscono il rilievo, dalla «nube di fumacchi» della Sacra emerge «uno stuolo di fantasmi» che si potrebbe avvicinare alla schiera dei «malevoli spiriti che veleggiano a stormi» dell’‘osso’ (o «spiriti malvagi» in redazioni anteriori, per cui cfr. OV, p. 876, e E. Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina, 1923-1925, a cura di L. Barile, Scheiwiller, Milano 1995, p. 150). È persino impiegato, da Carducci, il verbo ‘arrembare’, seppure in diversa accezione («arrembando e arrancando»). Ma non insisterei troppo su questi richia-mi, se non per ribadire quel carattere di letterarietà, culta e espressiva a un tempo, dell’impasto linguistico della poesia.

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mi»). La spirale della poesia, capiamo nell’ultima strofa, corre ora vicina all’imminenza della «condanna».

È qui che si inserisce – e veniamo a Pascoli – un’osservazione fondamentale. La struttura portante del testo è tutta ricavata da un passo dell’Ultimo viaggio (terzo movimento), quello in cui le «gru nocchiere» cantano un canto che dovrebbe persuadere Ulis-se al riposo e al sonno:

Sospendi al fumo ora il timone, e dormi. Le Gallinelle fuggono lo strale già d’Orïone, e son cadute in mare. Rincalza sulla spiaggia ora la navenera con pietre, che al ventar non tremi, Eroe; ché sono per soffiare i venti. L’alleggio della stiva apri, che l’acqua scoli e non faccia poi funghir le doghe, Eroe; ché sono per cader le pioggie. Sospendi al fumo ora il timone, e in casa tieni all’asciutto i canapi ritorti, ogni arma, ogni ala della nave, e dormi. Ché viene il verno, viene il freddo acutoche fa nei boschi bubbolar le fiereche fuggono irte con la coda al ventre…22

Al principio del poema l’eroe è a Itaca, tornato dal suo largo pe-regrinare. Dopo nove anni d’inerzia, deciderà di ripartire per toc-care ancora una volta le tappe del viaggio descritto nell’Odissea. I miti antichi gli appariranno svuotati di senso, e morirà naufra-gando senza conoscere il «vero», né veramente se stesso. Montale non sembra volersi confrontare, punto per punto, coi contenuti del lungo poema pascoliano (e si noti come quel ‘canto’ antico sia ridotto – è il caso di dire – all’osso); ma adombrare nel suo fan-

22 Il canto pascoliano delle gru contamina, dalle Opere e i giorni di Esiodo e dagli Uccelli di Aristofane, luoghi che per il Pascoli di Lyra custodirebbero «motivi popolari» (G. Pascoli, Prose, i, Pensieri di varia umanità, a cura di A. Vicinelli, Mondadori, Milano 1971, p. 649). L’invito al sonno è già in Aristofane («appendi il timone e dormi» traduce Pascoli in Lyra): non dunque, come vuole Cencetti, innovazione pascoliana rispetto a Esiodo (C. Cencetti, op. cit., p. 207), ma contaminazione e saturazione dell’eredità let-teraria. Dentro le coordinate della poetica di Pascoli, si tratterà del tenta-tivo di riportare alla luce, dalle fonti letterarie, il canto popolare originario che vi è imprigionato come gli insetti nell’ambra.

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ciullo un moderno Ulisse, questo sì: un Ulisse cui bastano poche «navi di cartone» e un sobrio equipaggiamento di lingua mari-naresca per esprimere le linee di una configurazione esistenziale.

Questa poesia dà anche un’idea dell’abbassamento di tono di cui Montale parla in Stile e tradizione. È vero che si intuisce, nella tecnica della parodia, l’eredità di Gozzano, che ricantava in falsetto i versi più riconoscibili di Pascoli e di d’Annunzio. Ma la parodia di Gozzano esibiva nel gesto tecnico la disperazio-ne del poeta nuovo, in un orizzonte di forme letterarie esaurite da cui, per allora, non era scampo (occorreva rompere le forme tradizionali, e lo fecero i vociani e i futuristi). La parodia messa in atto da Montale, invece, è tutt’altro che esibita. È una rimo-dulazione del canto, ma senza intento ironico verso la forma di partenza. Sentiamo – per dirla brevemente – che il centro del testo è nel messaggio e non nel gesto tecnico che lo esprime (che resta comunque indispensabile). A proposito dell’allusione Giorgio Pasquali ha enunciato una regola aurea: «le allusioni non producono l’effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono».23 L’allusione – come la parodia, o il pastiche – non è del resto un’operazione codifica-ta una volta per tutte, ma si presenta sempre come un fatto da interpretare. E determinarne l’«effetto» non significa portare a espressione verbale l’intenzione dell’autore al momento di fare dell’allusione elemento significante del testo, ma determinare il modo in cui quell’elemento cospira alla produzione complessiva del senso, in un rapporto scambievole e plurivoco con altri ele-menti. Qual è allora la strategia di significazione di Arremba su la strinata proda…?

In effetti sin dalla struttura di partenza, che riprende, come abbiamo visto, il modello pascoliano, tutto appare artificiale: la lingua insituabile, che impasta regionalismi espressivi e echi dot-ti; l’accento diminutivo; l’enigmatica figura del «fanciulletto pa-drone», per cui Montale dovette spiegare a Contini che intendeva «colui che può esercitare piccolo cabotaggio», proponendo ai tra-duttori francesi di interpretare «mio piccolo lupo di mare». È un

23 G. Pasquali, Arte allusiva (1942), in Id., Pagine stravaganti di un filologo, a cura di C. F. Russo, Le Lettere, Firenze 1994, 2 voll., vol. ii, pp. 275-282 (p. 275).

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gioco sottilmente intellettuale – non però intellettualistico – che crea, per così dire, l’ambiente protettivo per la formulazione del messaggio. E il messaggio non è certo lieto o giocoso, sebbene il dramma dell’«attimo che rovina l’opera lenta di mesi», la vicenda di «condanna» e «salvezza», non si consumi che in questi modi allusivi, riflessi, velati, consegnati alla ‘lettera’ del testo. Né que-sta andrà forzata a dire troppo di più.

4. Il gioco serio della poesia

Chinato sul gioco del bambino, il pensiero adulto – lo sguardo critico che della poesia è il vero protagonista – ritrova evidenza, pie-nezza consapevole di significati. In Arremba su la strinata proda…, come altrove nel libro, l’organizzazione intellettuale della materia (le immagini, le parole, i nessi musicali che regolano l’espressione) non nasconde se stessa, dando in questo la misura della distanza fra l’io che vede, che rappresenta, che medita, e l’oggetto o la scena messi in rilievo. Si potrebbe citare, rimanendo sul motivo del gioco infantile (che deve forse più a certi malinconici fanciulli di Govoni che a quelli, sicuramente meno ‘reali’, di Pascoli),24 un altro ‘osso’ in cui la rappresentazione della vita in turbine nel gioco dei bam-bini si carica di significati per l’occhio che la guarda col senso grave del distacco, e, come direbbe Caproni, «suscita idee»:

La farandola dei fanciulli sul greto era la vita che scoppia dall’arsura.Cresceva tra rare canne e uno sterpeto il cespo umano nell’aria pura.

24 Penso ad esempio a Per un dolce povero morto delle Poesie elettriche. Si vedano anche le riflessioni di Fausto Curi in Metamorfosi del «fanciulli-no», in F. Curi, Canone e anticanone. Studi di letteratura, Pendragon, Bo-logna 1997, pp. 47-75, e in particolare le pp. 60-69. Sullo sfondo è anche lo «scalzo fanciulletto» che «abbandona / le sue flotte di carta alla corrente» dei sonetti dell’Astichello di Zanella: retroterra culturale di un ottocento minore cui Montale fa spesso cenno nelle interviste, e che qui corrobora un’immagine già altrove presente negli Ossi (Flussi), anche in funzione metapoetica (Epigramma). Lonardi, che si sofferma sulla corrispondenza, ne dà anche una penetrante interpretazione: G. Lonardi, Un classicista da attraversare. Montale, Zanella e la ‘colpa’ moderna, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1990, pp. 25-27.

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Il passante sentiva come un supplizio il suo distacco dalle antiche radici.Nell’età d’oro florida sulle sponde felicianche un nome, una veste, erano un vizio.

Può intervenire – per fare un altro esempio – la mediazione del ricordo, una lente che allontana momenti di felicità nitida con l’effetto di rilevare ancora di più il senso critico, consapevole, del-la presente povertà dell’esistenza. È il caso di Fine dell’infanzia, lungo poemetto di centonove versi in cui si riassume la capacità di Montale di comporre la fabula di una vita nell’intreccio di un romanzo emergente per sussulti, per frammenti. Isoliamo il mo-mento della katastrophé, su cui la lunga rievocazione dell’«età verginale» («in cui le nubi non sono cifre o sigle / ma le belle sorelle che si guardano viaggiare») precipita nell’affannoso inse-guirsi dei versi conclusivi:

Volarono anni corti come giorni,sommerse ogni certezza un mare florido e vorace che dava ormai l’aspettodubbioso dei tremanti tamarischi. Un’alba dové sorgere che un rigo di luce su la sogliaforbita ci annunziava come un’acqua; e noi certo corremmoad aprire la portastridula sulla ghiaia del giardino. L’inganno ci fu palese.Pesanti nubi sul torbato mareche ci bolliva in faccia, tosto apparvero.Era in aria l’attesadi un procelloso evento. Strania anch’essa la plaga dell’infanzia che esploraun segnato cortile come un mondo!Giungeva anche per noi l’ora che indaga.La fanciullezza era morta in un giro a tondo.

Ah il giuoco dei cannibali nel canneto, i mustacchi di palma, la raccoltadeliziosa dei bossoli sparati!Volava la bella età come i barchetti sul filo del mare a vele colme.Certo guardammo muti nell’attesa

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del minuto violento;poi nella finta calma sopra l’acque scavatedové mettersi un vento.

La situazione atmosferica è la stessa che in Arremba su la stri-nata proda…, ma la voce narrante è dalla parte dell’infanzia, e sta ricordando. Dal tempo senza tempo dei giochi si ricongiunge al tempo adulto, in uno scavo a toccare momenti distanti della me-moria subito attratti verso quell’esito di ‘fine dell’infanzia’ come fine di un mondo.

È alle soluzioni narrative del testo che maggiormente si deve l’effetto di coinvolgimento del lettore, l’«emozione profonda» di cui parlava Caproni. Le possiamo seguire toccando alcune punte particolari del lessico. Il mare rendeva alla vista lo stesso aspetto «dubbioso» delle tremanti tamerici («tamarischi»): si moltipli-cano cioè i segni dell’incertezza, dell’esitazione, l’apparenza del-la terra si riflette su quella del mare. «Forbita» sta per ‘lucida’, e l’alba che trapela con un fildiluce dalla soglia è da intendere, come annotano Cataldi e d’Amely, «tanto nel senso di “un nuovo giorno” quanto in quello di “una stagione diversa”». Ma i bambini non lo sanno, non lo immaginano: di qui l’«inganno». Il mare è intorbidato («torbato»). Subito («tosto») si mostrano in cielo nu-vole pesanti: è l’«apparir del vero» di Leopardi. L’«attesa del pro-celloso evento», della tempesta, è nell’aria. Il verbo ‘stranire’ qui implica nervoso turbamento: se per l’infanzia il «segnato cortile» è come una vasta regione («plaga»), ora questo spazio s’inquieta, non riconosce più se stesso. Con le foglie di palma i ragazzini, che giocavano ai cannibali, si facevano dei «mustacchi», baffi lunghi e folti: nei giochi l’infanzia è volata come volano le piccole barche sulla tesa del mare, le vele colme di vento («volarono anni corti come giorni»). Il mare, ora, appare «scavato»: non ancora agitato, ma come deformato in rughe e vuoti, preludio al maltempo. Di fronte a questo mare ci lascia la voce narrante.

Ed è – per osservare una scelta narrativa importante – una voce che parla al plurale, ribadendo un noi che non è solo quello corale di un gruppo di ragazzi, ma quello dell’esperienza di ogni uomo. E ancora (altra soluzione, che conferisce straordinaria verosimi-glianza a quell’universale esperienza), il momento dello scacco è

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ricostruito per ipotesi, come se il dato, constatabile, della «fine dell’infanzia» non bastasse a comprendere veramente come, e perché essa sia finita, ma soltanto a intuirne la parabola: alla ‘fine dell’infanzia’ si è andati incontro. Due volte si ripete il modulo che unisce verbo e avverbio asseverativi in registro ipotetico: in una prima approssimazione allo svelamento dell’inganno, quan-do «un’alba dové sorgere […] e noi certo corremmo»; quindi, in forma capovolta, nel finale – dove parole e suoni dei versi pre-cedenti ritornano in rima o in assonanza – «certo guardammo muti […]; poi […] dové mettersi un vento». La scelta di un tono colloquiale, in cui la grammatica del discorso si carica di senso strutturante, dà luogo in questi ultimi versi a una sorta di sublime dell’emozione pensata, un sublime che i poeti che lessero allora Montale riconobbero come fondativo di una nuova autenticità, cui forse solo quella di Leopardi – ma in altro contesto, in altre forme – poteva essere affiancata come precedente più prossimo nella storia letteraria.25

È questa la via, avvertiva Solmi recensendo gli Ossi di seppia, all’«unica classicità compatibile con la nostra epoca difficile»: Montale non si sottrae alle «dure e irrevocabili responsabilità» cui è chiamato il lavoro del poeta, ma accetta «quei problemi di forma e di necessità lirica che son come la croce della nostra mo-dernità letteraria».26

Già Ungaretti con il Porto Sepolto ne aveva dato una prova, nel fuoco della guerra, la necessità espressiva ridottasi all’essenziale per ritrovarsi. Ora una stagione, se vogliamo, più infida (perché da un lato più confidente nella ritrovata saldezza delle forme, dall’altro assuefatta alla ‘riproducibilità’ delle tecniche di disgre-gazione formale), richiede ai poeti nuove forme e atteggiamen-ti a salvaguardia della necessità interna della loro espressione: e Montale diventa, con il suo primo libro, «l’esponente – pur carico di una individualità irripetibile e incomparabile – di una spiri-tualità latente, il riflesso di una situazione diffusa, se pure ancor

25 Su Fine dell’infanzia, come anche su Casa sul mare, si tengano presenti le letture di Blasucci: Un aspetto del leopardismo montaliano. Lettura di “Fine dell’infanzia”, e Livelli figurali di “Casa sul mare”, in L. Blasucci, Gli oggetti di Montale, cit., pp. 115-131 e 133-152.

26 S. Solmi, Montale 1925, in Id., Scrittori negli anni. Saggi e note sulla lettera-tura italiana del ’900, Garzanti, Milano 1976, pp. 15-20 (p. 16).

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priva di una voce autentica» (ancora Solmi nella Poesia di Monta-le, ampio saggio retrospettivo a partire dalla Bufera allora appena uscita).27

Arremba su la strinata proda…, per parte sua, è una poesia par-ticolare, a risonanza duplice potremmo dire: da un lato spinge i suoi riferimenti lontano nel tempo della letteratura (fino, attra-verso Pascoli, a Ulisse), dall’altro rappresenta, quasi in un’allego-ria, ciò che sta accadendo nel tempo presente della storia. Sap-piamo che è datata 22 agosto 1924, l’anno del delitto Matteotti. E possiamo provare a vestire i panni dello «studente canaglia» nel senso in cui l’intendeva Caproni, di chi senza difficoltà legga i versi degli Ossi «in chiave d’allegoria civile o addirittura politi-ca» (la clausola successiva – «oltre che religiosa» – tutela però da ogni ingenua lettura a senso unico). Il deputato socialista, che aveva denunciato i brogli e le violenze dei fascisti durante le ele-zioni del 6 aprile, fu rapito e ucciso da una squadra il 10 giugno. È in seguito a questo ennesimo, plateale gesto di violenza che le opposizioni decidono di non partecipare ai lavori del nuovo parlamento a maggioranza fascista (26-27 giugno: la ‘secessione dell’Aventino’). Il corpo di Matteotti verrà ritrovato soltanto il 16 agosto. Fu il primo drammatico delitto pubblico del fascismo al potere, e sorprende la coincidenza se pensiamo che la poesia di Montale data proprio a quei giorni. Letta in quest’ottica, essa sembra darci una chiave per il presente: «l’attimo» distruttore, lo «spacco», è imminente nella vita italiana; forse, «senza strepito», è già avvenuto.

Dev’essere anche per tale «chiaroveggenza» (altri, non solo Caproni, deve aver usato la parola) che la generazione di Mon-tale, e quella a lui successiva che lo leggeva durante la seconda guerra mondiale, ne avvertivano la poesia come fosse – scriverà Sereni – «a noi coeva, parte di noi stessi, parlante a nome di tut-ti»: «come se Montale ci avesse tolto la parola di bocca prima di pronunciarla».28

27 S. Solmi, La poesia di Montale (1957), in Id., Scrittori negli anni, cit., pp. 274-310 (p. 275).

28 V. Sereni, Sentieri di gloria. Note e ragionamenti sulla letteratura, a cura di G. Strazzeri, introduzione di G. Raboni, Mondadori, Milano 1996, pp. 88 (Ci appassionò alla vita, pp. 86-89) e 114 (In via Bigli arrivava soltanto un’eco, pp. 112-116)..

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PARTE SECONDA

Ombre, cose salde:resistenza e dissoluzione della memoria

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1.LA LOTTA CON LA MEMORIA

TEMPI E FIGUREDI ‘EZEKIEL SAW THE WHEEL…’

‘Ezekiel saw the Wheel…’, che prende il titolo dall’incipit di uno spiritual, si legge fra le poesie delle Silvae, quinta sezione della Bufera e altro. È una strofa unica di trenta versi anisosillabici:

Ghermito m’hai dall’intrico dell’edera, mano straniera? M’ero appoggiato alla vasca viscida, l’aria era nera,solo una vena d’onice tremavanel fondo, quale stelo alla burrasca. Ma la mano non si distolse,nel buio si fece più diaccia e la pioggia che si disciolsesui miei capelli, sui tuoid’allora, troppo tenui, troppo lisci, frugava tenace la tracciain me seppellita da un cumulo, da un monte di sabbia che avevoin cuore ammassato per giungere a soffocar la tua voce,a spingerla in giù, dentro il breve cerchio che tutto trasforma, raspava, portava all’apertocon l’orma delle pianellesul fango indurito, la scheggia, la fibra della tua crocein polpa marcita di vecchie putrelle schiantate, il sorrisodi teschio che a noi si frappose quando la Ruota minacciosa apparve tra riflessi d’aurora, e fatti sanguei petali del pesco su me scesero e con essi il tuo artiglio, come ora.

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Si suole attribuire la poesia al cosiddetto ‘ciclo di Arletta’. Ma fra i testi di questo ciclo, che attraversa più o meno sotterraneo tutto il canzoniere montaliano, ‘Ezekiel saw the Wheel…’ è forse quello che maggiormente può lasciare perplesso il lettore: sia nel suo significato, sia nella collocazione dentro la raccolta.1

In queste pagine cercherò di mostrare in che senso e in qua-li modi si manifesti la presenza di Arletta, e come nello stesso testo si affianchi, all’epifania del personaggio, l’apparizione, im-plicita e crittografata entro una serie di rimandi intertestuali, di un altro personaggio chiave della poesia di Montale: Clizia. La sovrapposizione di queste due figure femminili, che in ‘Ezekiel

1 Di un ‘ciclo di Arletta’ si parla almeno a partire dal saggio di Ettore Bonora: E. Bonora, Anelli del ciclo di Arletta nelle “Occasioni”, in Id., Le metafore del vero. Saggi sulle “Occasioni” di Eugenio Montale, Bonacci, Roma 1981, pp. 9-38. Le indagini sono state poi estese alla Bufera da Maria Antonietta Grignani: M. A. Grignani, Occasioni diacroniche nella poesia, in Ead., Pro-loghi ed epiloghi. Sulla poesia di Eugenio Montale, Longo, Ravenna 1987, pp. 49-70. Qui a ‘Ezekiel saw the Wheel…’ sono dedicate specificamente le pp. 64-66, dove l’appartenenza al ciclo si motiva con la dimostrazione che «Eze-kiel è un concentrato di temi arlettiani nel loro risvolto funebre-ossessivo»: la «vasca viscida» è ricondotta a Vasca, i «capelli […] troppo tenui, troppo lisci» alla lezione in rivista «pallidi capelli» di Incontro, la «voce» soffocata alla «voce prigioniera» di Eastbourne e alla «presenza soffocata» di Delta, la «Ruota» a quella di Eastbourne, mentre «il finale graffiante si allinea bene alla casistica» esaminata nel saggio, «a proposito di eventi memoriali co-niugati al nocciolo duro della morte». A questo lavoro si aggiunga F. No-senzo, Storia di Arletta: la figura della «fanciulla morta» nella “Bufera”, in «Lingua e Letteratura», a. xiii, n. 24-25, 1995, pp. 89-113: l’apparizione di Arletta nella poesia sarebbe da riferire alla tipologia dell’aspetto «gorgoneo» del personaggio, contrapposto a un suo volto «afroditico» emergente in altre poesie (pp. 102-103). Studio recente di dettagliata ricerca nella biografia e fra le letture del giovane Montale (forse, talvolta, con raccordi un po’ forzati) è quello di Paolo De Caro su Anna Degli Uberti: P. De Caro, Anna e Arletta, in Id., Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane, Edizioni Centro Grafico Francescano, Foggia 2007, pp. 21-131 (parzialmente antici-pato ne «La Capitanata», 2004, e in «Italianistica», 2005). Ancora valide le indicazioni di Macrì nell’Esegesi del terzo libro di Montale (ora in O. Macrì, La vita della parola. Studi montaliani, Le Lettere, Firenze 1996, pp. 143-209): ‘Ezekiel saw the Wheel…’ vi è citata entro una rassegna della simbologia del sangue, «segno del rapporto Cristo-umanità», che qui compare in un’at-mosfera «biblico-visionaria (per tramite di Dante e degli inglesi)» (p. 180). Un conciso ma densissimo accenno alle referenze culturali e letterarie della poesia si trova anche in R. Bettarini, Sacro e profano, in M. A. Grignani, R. Luperini (a cura di), Montale e il canone poetico del Novecento, Laterza, Bari 1998, pp. 43-45.

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saw the Wheel…’ si attua, come vedremo, dinamicamente, segna il punto di confluenza tra l’antico filone del ritorno dei morti (ri-attualizzato nella vicina Proda di Versilia, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo), con i suoi affioramenti ‘verticali’ (ed è il caso del ritorno, «voluto, disvoluto», del fantasma di Arletta), e la più recente ma già matura parabola cliziana che si estende a co-prire tutto il libro. Questa raccoglie, come direttrice ‘romanzesca’, messaggi e rituali di salvezza, e in tal modo fonda la particolare struttura narrativa della Bufera. E rituale di salvezza da un ricor-do opprimente potrà considerarsi quello che, doloroso ma tipi-camente cliziano (anche perché, come si vedrà, di matrice dan-tesca), il poeta mette in campo nel finale dello scavo coatto nella memoria che ‘Ezekiel saw the Wheel…’ ci presenta. Al di là di un primo livello di ardua comprensibilità, e anzi proprio seguendo le indicazioni del testo, sarà allora possibile scoprire, nell’«arti-glio» che da ultimo compare fra le immagini della poesia, l’estre-ma visitazione del fantasma di Arletta e, contemporaneamente, la comparsa fra le righe di una Clizia nelle vesti dantesche di una Beatrice che rampogna: quella Beatrice severa e altera che, nel trentesimo canto del Purgatorio, costringe Dante all’abbandono di ogni residuo amore terreno, al pentimento che prelude alla pu-rificazione.

Riconoscere la presenza, implicita e inespressa, di questa su-per-figura di Clizia-Beatrice (innesti in tal senso non sorpren-dono troppo il lettore di Montale) all’interno di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ significa dunque trovare la direzione cui la trafila di im-magini si rivolge, attraverso una sempre maggiore sconcretizza-zione e un crescente slittamento del significato degli oggetti figu-rati in senso metafisico-escatologico. Significa far parlare il testo anche quando il sostegno degli ‘oggetti’ vien meno e il messaggio finale è affidato a una rete di presupposti testuali, quasi sostegni figurali posti all’orizzonte dei significati individuali del testo.

1. Suono, metro, narrazione: presente e ritorno del passato

Un primo avvicinamento alla poesia può esser tentato seguen-done la struttura metrica e fonica. Se più avanti tenderemo a scin-dere, a operare delle suddivisioni interne al testo motivandole da

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un punto di vista tematico, qui cercheremo invece di catturarne e motivarne l’effetto di forte coesione interna. Ottonari, novenari ed endecasillabi fanno di ‘Ezekiel saw the Wheel…’, come s’è det-to, una strofa unica (come più avanti nelle Silvae saranno L’ombra della magnolia… e L’anguilla, come prima, nelle Occasioni, erano state Accelerato e Il ritorno). Le rime e in generale i richiami fonici si rincorrono in verticale provocando un movimento a cascata: ed è come se ciascuno di essi, con la sua minima variazione rispetto alla parola che riecheggia, consentisse l’apertura d’una porta sta-gna, il subentrare di un nuovo livello semantico. Basti l’esempio più vistoso della trasfigurazione della mano in pioggia attraverso la catena allitterante «distolse» «diaccia» «disciolse». «E con essi / il tuo artiglio, come ora», ossia gli ultimi due versi, di quattro e di otto sillabe (c’è una forte dialefe in «come ora») potranno pure congiungersi a formare un endecasillabo: ma vige, a questo punto della cascata fonica, lo spezzato, il sussulto che s’immobilizza nel-la ripetizione del piede quadrisillabico, con gli ictus dominanti su «essi», «artiglio», «ora», e la parola «artiglio» fortemente isolata (e fonicamente inattesa) dentro il ‘gancio’ a fin di verso «essi […] ora», che riprende e separa il sintagma precedente «riflessi d’aurora».

Ma osserviamo più da vicino la partitura dei suoni. Le rime, accavallate l’una sull’altra, seguono l’andamento ritmico sussul-torio e sono anticipate o richiamate da echi fonici di assonanza o consonanza, che si infittiscono soprattutto nell’ultima parte della poesia, assieme ai nessi consonantici aspri. L’osservazione di De Caro, che il titolo ‘Ezekiel saw the Wheel…’ «non andrebbe semplicemente letto […] ma cantato», al di là della battuta, ha un fondo di verità.2 È innegabile infatti che i primi quattro versi abbiano un particolare andamento cantabile, dal ritmo sincopato che è proprio la rima «straniera»:«nera» a sigillare. Sigillo che, come vedremo più avanti, ci permette di parlare dei quattro ver-si come di una ‘quartina’ nonostante il fatto che la frase prose-gua dopo «nera», sebbene – cosa importante – con un sensibile scarto dall’ottonario-novenario all’endecasillabo («solo una vena d’onice tremava / nel fondo, quale stelo alla burrasca»). Intanto qui la rima «straniera»:«nera» porta con sé tutto un modulo sin-

2 P. De Caro, Journey to Irma. Una approssimazione all’ispiratrice americana di Eugenio Montale, nuova edizione accresciuta, De Meo, Foggia 1999, p. 121.

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tattico-ritmico che, ripetendosi, conferisce alla ‘quartina’ la sua caratteristica impronta di cantato. Mi riferisco alla successione determinato/determinante in enjambement con determinante sdrucciolo («dall’intrico / dell’edera», «alla vasca / viscida») + cellula ‘musicale’ dattilica di cinque sillabe (se vogliamo, un ‘ado-nio’: «mano straniera», «l’aria era nera»):

dall’intrico / dell’edera, mano straniera?alla vasca / viscida, l’aria era nera.

Dove si noterà, anche, la legatura consonantica che ispessisce l’enjambement: «intRico»:«edeRa», «Vasca»:«Viscida». Altro effet-to, risultante dai precedenti, è quello che isola la sdrucciola «oni-ce» entro il verso «solo una vena d’onice tremava», dove il segmen-to «solo una vena», ritmicamente analogo ai precedenti «mano straniera» e «l’aria era nera», crea dopo di sé una cesura corrispon-dente ai precedenti enjambements, sicché anche per «vena d’oni-ce» si ripropone lo schema determinato/pausa/determinante con determinante sdrucciolo, «onice», qui connotato fonosimbolica-mente dal vicino «tremava». La ‘quartina’ che abbiamo disegnato è insomma tutt’altro che slegata dal resto della frase. Si forma cioè, e si ferma, un nucleo – ma per cambiare immediatamente stato, tra-valicando nei versi successivi, ed è questo il principio ritmico che regola l’intera poesia. Del resto la rima si fa, poco dopo, alternata, con «vasca» che trova compimento in «burrasca» chiudendo, que-sta volta sì, l’intero giro della frase, non senza una ripresa, però, in assonanza più giù, con «diaccia» (ma già nel verso precedente c’era «tremava»): il flusso è cioè ripreso dopo la pausa del punto fermo, con investimento, come vedremo, della semantica e dei valori nar-rativi che vanno man mano emergendo:

Ma la mano non si distolse, nel buio si fece più diacciae la pioggia che si disciolse…

Altra rima, «distolse»:«disciolse», quasi identica, e altro ac-cavallamento, se alla sequenza in rima e assonanza «tremava» «burrasca» «diaccia» si può aggiungere, qualche verso più sotto, «traccia», anzi l’intero verso, insistente sulla a tonica e consonan-ticamente amalgamato: «fRugAvA TenACe la TRACCiA».

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Ci fermiamo qui: lo spessore fonico del testo è fin troppo evi-dente, quasi virtuosistico, e ovunque il lettore cerchi, troverà, sia in verticale che in orizzontale, rime, assonanze, consonanze, allitterazioni. Dominano l’enjambement, esaltato magari dalla sdrucciola in fin di verso («giungere / a soffocar») e, in varie for-me, la reduplicazione e l’espansione («sui miei capelli, sui tuoi», «troppo tenui, troppo lisci», «a soffocar la tua voce, a spingerla in giù», «raspava, portava all’aperto»). La reduplicazione è talvolta variazione semantica e giunge dopo la pausa del verso quasi come autocorrezione d’una voce narrante in cerca di un’immagine e di un significato più veri:

da un cumulo,da un monte di sabbia;

la scheggia,la fibra della tua croce.

Ora, questo principio di individuazione di nuclei ritmici e fo-nici procede di conserva, è evidente, con una ricerca di nuclei semantici che trapassano l’uno nell’altro. E anche, abbiamo ac-cennato, di momenti narrativi, se tra i caratteri più vistosi della poesia sono la frequenza del verbo all’imperfetto e l’accavallarsi dei piani temporali. Dopo la domanda retorica iniziale, che pone la ‘situazione’ («Ghermito m’hai dall’intrico / dell’edera, mano straniera?»), è un vero e proprio flashback ad avviare l’‘azione’:

M’ero appoggiato alla vasca viscida, l’aria era nera…

Per l’interpretazione del testo, che è quello che qui ci propo-niamo, non si tratta tanto di leggere ‘Ezekiel saw the Wheel…’ come un racconto, ma di metterne a frutto i suggerimenti narra-tivi senza disgiungerli da quello straordinario motore semantico che è l’andamento ritmico e fonico del testo.

Lavorando empiricamente, si possono individuare nella poesia delle sequenze o blocchi, coincidenti grosso modo con la suddi-visione delle proposizioni (principali e secondarie). Intanto un primo blocco sarà costituito dal botta e risposta iniziale, ossia dalle prime due frasi:

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Ghermito m’hai dall’intrico dell’edera, mano straniera? M’ero appoggiato alla vasca viscida, l’aria era nera,solo una vena d’onice tremavanel fondo, quale stelo alla burrasca.

Sullo scarto temporale e sintattico prevale la coesione ritmi-ca, rimica e fonica, e, anche in ragione della particolare enfasi retorica che le lega, percepiamo le due proposizioni come forte-mente congiunte. Ciò che colpisce è qui l’estendersi del metro, negli ultimi due versi dopo la ‘quartina’, alla misura dell’ende-casillabo. La terza, lunghissima proposizione che costituisce la restante parte della poesia può essere a sua volta suddivisa in quattro blocchi:

Ma la mano non si distolse,nel buio si fece più diaccia e la pioggia che si disciolsesui miei capelli, sui tuoid’allora, troppo tenui, troppo lisci,

frugava tenace la tracciain me seppellita da un cumulo, da un monte di sabbia che avevoin cuore ammassato per giungere a soffocar la tua voce,a spingerla in giù, dentro il breve cerchio che tutto trasforma,

raspava, portava all’apertocon l’orma delle pianellesul fango indurito, la scheggia, la fibra della tua crocein polpa marcita di vecchie putrelle schiantate, il sorrisodi teschio che a noi si frappose

quando la Ruota minacciosa apparve tra riflessi d’aurora, e fatti sanguei petali del pesco su me scesero e con essi il tuo artiglio, come ora.

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Seguendo le riprese, le ‘correzioni’ e le stesse spezzature degli enjambement si potrebbe ulteriormente frammentare il testo, ma ciò che ci interessa qui è isolare almeno dei grandi momenti nar-rativi, e ne troviamo appunto quattro: la mano che si fa pioggia (altra ‘quartina’ siglata da un endecasillabo), la mano-pioggia che fruga nel cuore in cerca della «tua voce» (movimento di discesa), la mano-pioggia che porta in superficie oggetti e segni di quel ‘tu’ (movimento di risalita, di affioramento), la comparsa della «Ruota minacciosa» (movimento di discesa dall’alto e ritorno dell’endecasillabo).3

Rilevante è tuttavia che, nonostante le simmetrie interne (e le partizioni che ne derivano), la poesia si sviluppa come un unico flusso, senza soluzioni di continuità né metriche né ritmiche: il testo, si è visto, realizza una fortissima coesione fonica, culmi-nante in rime che non assecondano alcuno schema tradizionale di tipo strofico; così l’andamento alternato, più che isolare, con-catena le ‘strofe’ narrative in cui abbiamo suddiviso il testo.

L’impressione complessiva è dunque quella di un flusso ritmi-co che comincia e prosegue concitato attraverso una catena di ot-tonari e novenari, intervallato da momenti di distensione negli endecasillabi. Pause ritmiche notevoli si aprono fra i versi brevi, veri e propri momenti di Spannung, anche narrativa, come nella successione di novenario sdrucciolo più ottonario «in cuore am-massato per giungere / a soffocar la tua voce». Al tono serrato de-gli otto-novenari si oppone quello ritmicamente più disteso degli endecasillabi, che assumono la prevalenza nella parte finale del componimento. Anche qui, però, con un significativo momen-to di contrappunto, tra l’endecasillabo sdrucciolo e il versicolo successivo, in cui rivibra fra l’altro, con la rima, la prima sezione quadrisillabica del v. 27: «tra riflessi […] / i petali del pesco su me scesero / e con essi».

Tale movimento di sistole e diastole trova una giustificazione sul piano tematico, qualora di questo si consideri l’aspetto narrati-vo: in antitesi ai versi brevi, caratterizzati dalla ‘attualità’ narrativa della situazione, la misura endecasillabica sembra ospitare infatti

3 L’aggettivo «minacciosa» fu aggiunto sulle bozze per la stampa in «So-cietà», dove la poesia comparve per la prima volta nel 1946 (a. ii, n. 7-8, luglio-dicembre).

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lo spazio del ricordo, della riemersione del passato, secondo una progressione che dapprima va da un profilo metaforico di lei (at-traverso un oggetto d’ora rievocativo, la «vena d’onice»), all’esplici-tazione di un suo attributo di allora, i «capelli» (quasi il lampo di un’anamnesi: un unico endecasillabo, subito riassorbito dal moto vorticoso del ritmo otto-novenario); in seguito si rivolge alla finale attualizzazione di un’epifania già avvenuta in passato ma di nuovo presente («quando la Ruota minacciosa apparve […] come ora», con finale adempimento del percorso eziologico inaugurato dall’i-nizio della narrazione al v. 3, dopo la domanda).

Si vede bene che la struttura narrativa del testo è circolare: il ‘fatto’ che si dice avvenire oggi nei primi due versi («Ghermito m’hai dall’intrico / dell’edera, mano straniera?») ritorna identico se non più cruento negli ultimi due con l’affiorare compiuto del ricordo («e con essi [scese] / il tuo artiglio, come ora»). Evento attuale ed evento passato vengono a coincidere all’interno della memoria dell’io lirico, la quale si costituisce proprio dentro il per-corso poetico di scavo attuato dai versi centrali.

Il tu cui l’io si rivolge si scinde in una mano impersonale (at-tuale) e in un tu che affiora dal passato. Se non che, riemergendo all’attualità quel tu la cui voce il soggetto aveva tentato di soffocare (fermandone la figura semmai a pochi tratti essenziali e innocui: i «capelli»), esso stesso viene ad assumere i connotati del tu attuale (la «mano»), passando proprio attraverso il simbolo più imper-sonale del componimento (la «Ruota»). Anzi il momento della scissione tra l’io e il tu «d’allora» coincide proprio con la pronun-cia del «noi» (v. 25), e dunque con l’esplicitazione di una vicen-da retrospettivamente romanzesca di separazione degli amanti. È qui che il tu di allora si converte pienamente (già nell’allora, ma allo stesso modo si presenta ora) nell’«artiglio», acquistando il suo tratto demoniaco, mentre contemporaneamente la sua facies innocua subisce una metamorfosi cruenta, anello di congiunzione tra le due forme del tu nei confronti del soggetto:

e fatti sangue i petali del pesco su me scesero e con essi il tuo artiglio, come ora.

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Infine, il valore degli attributi della deuteragonista slitta dal personale all’impersonale, ossia da una dimensione familiare (i «capelli», «la tua voce», ma con un ambiguo tratto unheimlich) a una biblico-escatologica, metafisica: il passaggio avviene dopo la settima sequenza, ovvero dopo la comparsa della «tua croce» (v. 22), il che permette di motivare la separazione della terzina suc-cessiva da questa quartina: in tale terzina gli oggetti assumono una connotazione pienamente macabra e soprattutto imperso-nale. Entra, nella narrazione, un tertium («il sorriso / di teschio che a noi si frappose»), che, fuori della narrazione (e allo stesso tempo sempre all’interno di essa, nel ricordo), verrà ad identifi-carsi con la «mano»/«artiglio».

Sarà attraverso la costellazione di simboli impersonali, a parti-re dalla «croce» per finire con una «Ruota» biblica non più senhal arlettiano, nonché attraverso una trama di echi intertestuali, che comparirà, sovrapponendosi alla figura di Arletta, e non esplici-ta ma soltanto intuibile da analogie di situazione con la Beatrice del Purgatorio, l’immagine di una Clizia ‘violenta’, nella figura di quell’«artiglio» che è anche quello infero di Arletta. Il piano tem-porale del presente, già alveo dell’anamnesi arlettiana, acquista così una curvatura escatologica che permette, come in altre poe-sie della Bufera, il manifestarsi della salvatrice. Ma ciò avviene in una maniera torbida e quasi coatta, che fa di questo testo uno dei più inquietanti del libro.

2. Arletta, Clizia, Ezechiele e il Purgatorio

Descritte quelle che sembrano le strutture profonde della poesia, possiamo ora accostarci più da vicino alla sua dinamica narrativa. Partiamo da quello che abbiamo individuato come il primo blocco. La situazione, simile a quella de L’orto, dove pure le due figure s’incontrano, vede l’io improvvisamente «gher-mito», «dall’intrico / dell’edera», da una «mano straniera» che sembra appartenere a quell’Arletta infera la quale già altre volte era tornata in modi laceranti o lugubri: si pensi al «morso di tarantola» nel Ritorno delle Occasioni, o, nella Bufera, al finale di Da una torre.4 È tipica di questo personaggio la scenografia,

4 «Straniera» esprimerà, con la sorpresa, un senso acuto d’estraneità, come

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non solo con l’«intrico / dell’edera» che richiama luoghi della villa monterossina, ma soprattutto con quella «vasca», sin da-gli Ossi specchio di misteriosi ritorni, apparizioni e scomparse. Della ‘casa delle due palme’ (come sarà chiamata in un racconto di Farfalla di Dinard) Marianna Montale scriveva: «c’è un giar-dino grande, dove c’è la serra, un’altra vasca, una grotta coperta dall’edera».5

Quale altro dato si può associare immediatamente a questa mano? Il titolo, che come vedremo stringe un forte nesso erme-neutico col testo, ci dà già un’indicazione. Basti ricordare, per ora, che si tratta del verso incipitario di uno spiritual.6 Alla situazio-ne esistenziale del soggetto è sovrapposta l’esperienza profetica di Ezechiele. Caratteristica, nel libro del profeta, è l’espressione concreta dell’attimo della congiunzione col trascendente, attra-verso la formula «la mano del signore fu sopra di lui» (o «sopra di me») a indicare il rapimento profetico. Nel testo dello spiri-tual non compare quest’immagine della mano. Se la poesia, dopo averci dato una ‘chiave’ così determinata come l’incipit dello spi-ritual, ferma la nostra attenzione a un’immagine, la «mano», che non appartiene a quello, bensì all’originale biblico, è segno che abbiamo a che fare con un complesso di immagini, dove la «Ruo-ta» che campeggia nella canzone si affianca a quella originale del testo biblico, e, come vedremo, a quella dantesca del Purgatorio.

Quel che conta è dunque rilevare la filiazione della «mano stra-niera» da un luogo cui lo stesso poeta ha voluto rimandare indi-

nella variante di Due nel crepuscolo già esaminata nel capitolo Voci smar-rite, voci soffocate, par. 2: «so che più straniero / non ti fui mai che in questo nostro tardo / ritorno» (OV, p. 953). Si ricordino poi i sintagmi pascoliani su cui ci siamo ampiamente soffermati, «ombra straniera» nel Vischio, «voce straniera» in Notte d’inverno, e, nel senso di un’estraneità metafisica, la «straniera valle» leopardiana delle Ricordanze («quando la terra / mi fia straniera valle»).

5 Lettera riportata nella Postfazione di Laura Barile a E. Montale, Quaderno genovese, a cura di L. Barile, Mondadori, Milano 1983, pp. 183-184. Sarà questa la «serra» della poesia che nella Bufera fa il paio con Nel parco, la «serra delle piante grasse» (Il bello viene dopo, TPR, p. 49), vicino al «piop-po inclinato» (La casa delle due palme, TPR, p. 41).

6 Come è noto almeno dall’articolo di G. Cambon, Montale dantesco e brue-gheliano, in «Aut-Aut», n. 35, settembre 1956, pp. 371-391 (p. 382), e come ribadisce, in apparato, L’opera in versi (OV, p. 965). La citazione, vedremo, compariva già come epigrafe nella stampa in rivista, dove la poesia era af-fiancata a Proda di Versilia sotto il titolo comune di Motivi.

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rettamente (attraverso l’anello del titolo-spiritual), e che certo è parte di un immaginario figurativo-simbolico che va al di là del-la mera occorrenza testuale. Per ora importa qui notare come la domanda retorica di avvio inneschi un botta e risposta interpre-tabile come l’inizio di un processo eziologico volto a recuperare l’identità di quella mano, che del processo è artefice. La risposta all’urto iniziale di questa domanda è nei quattro versi successivi, che cercano di spiegare a un io incredulo le ragioni di quel ‘rapi-mento’. La condizione del soggetto, «appoggiato alla vasca / visci-da», in un’«aria nera» che ricorda l’«aria persa» di sapor dantesco di Incontro, è una condizione di estrema debolezza che si rispec-chia nell’immagine intravista nella vasca: «solo una vena d’onice tremava / nel fondo, quale stelo alla burrasca». La «vena d’onice» è, assieme allo «stelo alla burrasca», unico, minimale segno di vita che risponde al ‘mancamento’ del protagonista, alla stretta che lo sorprende. Il metro si allarga qui in due endecasillabi che accolgono la prima comparsa di una figura femminile che è forse Arletta, nella forma residuale e simbolica della «vena d’onice» e dello «stelo alla burrasca».

Continuiamo come impone il ritmo serrato della poesia:

Ma la mano non si distolse, nel buio si fece più diaccia e la pioggia che si disciolsesui miei capelli, sui tuoid’allora, troppo tenui, troppo lisci…

La «mano», nei quattro versi brevi (ancora una ‘quartina’) com-presi fra i precedenti endecasillabi (vv. 5-6) e un terzo endecasil-labo (il verso 11), continua la sua opera, e, trasformatasi ormai in pioggia, scende «sui miei capelli, sui tuoi». Chi è il tu di questa straniata situazione silvano-dannunziana? Parrebbe trattarsi di nuovo, e ancora più distintamente, di Arletta, ma di un’Arletta «d’allora» (v. 11), dai capelli «troppo tenui, troppo lisci». Altro ver-so lungo, altro slargo emotivo e questa volta anche temporale nel ritmo serrato del testo: il verso 11, sovrapponendo al presente, rela-tivo all’azione della mano, un remoto passato rappresentato da un altro dato minimo, i capelli dell’Arletta «d’allora», apre nel testo una pausa anamnestica che subito viene riassorbita dal procedere inesorabile dei versi. E, col flusso dei versi, che dopo questo ende-

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casillabo tornano brevi, dalla «mano» fattasi «pioggia». Questa, in un passato che comunque non è quello remoto «d’allora», ma quello inaugurato dall’avvio ‘eziologico’ «m’ero appoggiato», con-tinua a frugare la «traccia» di quel fantasma che il protagonista ha cercato di seppellire e di cui, con ambigua valenza simpatetica, la poesia ci ha già fornito alcuni labili senhals: la «vena d’onice», lo «stelo», i «capelli», tutti contraddistinti dal tratto della sottigliez-za e della fragilità.

Un oscuro e cruento processo di scavo nella memoria va quindi in scena:

frugava tenace la tracciain me seppellita da un cumulo, da un monte di sabbia che avevoin cuore ammassato per giungere a soffocar la tua voce,a spingerla in giù, dentro il breve cerchio che tutto trasforma…

È una fenomenologia della lotta con la memoria nella sua doppia valenza di ritorno dell’altro, degli altri (per lo più mor-ti e comunque perduti) in forma sorprendentemente oggettiva, «in corpo e in spirito» (dice il narratore de La donna barbuta, in Farfalla di Dinard), e di rifiuto, riluttanza dell’io a ricordare, a confrontarsi con quella memoria che solo in lui, e per determi-nate configurazioni esperienziali (di qui l’importanza dei luoghi, nelle poesie e nelle prose), torna a vivere. Arletta sarebbe, alme-no a questa altezza dell’opera montaliana, figura per eccellenza della schiera dei revenants, la più nobile anzi per la possibilità di letterarizzazione che la contraddistingue in quanto ‘ispiratrice’, e in grado per questo di competere con Clizia sul terreno di un ipotetico ‘canzoniere’.7 Lo scavo riporta alla luce simboli e tracce di un passato che il poeta ha voluto dimenticare, forse sublimare, o comunque, stando alla lettera del testo, «soffocare», come se

7 Competizione che giunge fino agli Altri versi, dove le due figure saranno compresenti nella parte finale: cfr. R. Bettarini, Retroscena montaliano di “Altri versi”, in «Studi di filologia italiana», n. 63, 2005, pp. 333-395. La possibilità di più figure femminili in concorrenza è contemplata dalla tra-dizione letteraria, e Montale ne è ben consapevole. Il caso più evidente è quello del contrasto fra Clizia e la Volpe.

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la «voce» dell’assente fosse stata spinta in giù, quasi un groppo deglutito, o un gorgo di sabbia assorbito – come in una clessidra – dal «breve cerchio che tutto trasforma», certo una delle immagini più enigmatiche dell’intera poesia.8

L’azione della pioggia-mano non si arresta:

raspava, portava all’apertocon l’orma delle pianellesul fango indurito, la scheggia, la fibra della tua crocein polpa marcita di vecchie putrelle schiantate, il sorrisodi teschio che a noi si frappose…

8 Colpisce la perentorietà del verso «cerchio che tutto trasforma», così com-piuto nella sua cadenza dattilica: il verso, dopo la sospensione dell’enjam-bement, dice l’oggetto identificandolo con la sua funzione. Cosa sia questo «breve / cerchio che tutto trasforma» è difficile dire. All’immagine della clessidra fa pensare un precedente dannunziano, il madrigale alcionio La sabbia del Tempo, dove la ‘topografia’ metaforica di un cuore che è «cles-sidra» del tempo è esplicita. Ma, forse in sovrapposizione con la dinamica della clessidra, l’immagine più coerente è quella del pozzo, per cui si trova-no addentellati nelle prose coeve a ‘Ezekiel saw the Wheel…’ e, proprio per l’espressione «breve cerchio», una significativa coincidenza testuale con d’Annunzio. Nel Fuoco il «pozzo» su cui si china Stelio è «quel profon-do specchio interiore che l’urto delle secchie non turbava più, quel breve cerchio sotterraneo che rifletteva il cielo divino» (passo citato, per altri riferimenti, da P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 45). Nelle prose montaliane l’immagine ricorre già esplicitamente connotata: «ogni pietra, ogni toppa e persino il tanfo di pesce marcio e di catrame che la circondava [una casa di color salnitro] lo tiravano pericolosamente in giù, nel pozzo delle memorie» (La casa delle due palme, TPR, p. 39); «pozzo di San Patrizio del ricordo», «pozzo della rimembranza» (Sulla spiaggia, TPR, p. 194), «Pozzo di San Patrizio del subconscio» (Baffo e C. in Fuori di casa, TPR, p. 250, dove per «subconscio» s’intende, contestualmente, una memoria involontaria che fornisce al suo possessore «soltanto dei trifles, delle inezie»). Sottilmente ironico, schermante ed esorcizzante è l’uso dell’immagine iperbolica («pozzo di San Patrizio») e persino del tec-nicismo psicoanalitico («subconscio»). Quanto agli «atti» di «insabbiare e seppellire» connessi alla memoria di Arletta e al suo «impalcabile risorge-re», essi ritorneranno, come nota la Grignani, nel Lago di Annecy del Dia-rio: «Perché può scattar fuori una memoria / così insabbiata non lo so; tu stessa / m’hai certo seppellito e non l’hai saputo» (M. A. Grignani, op. cit., p. 66). Quella dello ‘scatto’ è fra la modalità fenomeniche (e linguistiche) privilegiate della memoria montaliana: cfr. almeno Da una torre («scattar dalla tomba») e Voce giunta con le folaghe («lo scatto del ricordo»).

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Assistiamo qui a una sorta di riesumazione simbolica delle tracce dell’antica Arletta, complice anche, ad accrescere la tonalità macabra, quel verbo «raspava» che non può non richiamare alla memoria un luogo dei Sepolcri, quello della «derelitta cagna» che si sente «raspar fra le macerie e i bronchi» («senti raspar fra le macerie e i bronchi / la derelitta cagna ramingando / su le fosse e famelica ululando»). Le tracce che vengono così scoperte costituiscono una catena di simboli dell’Arletta di prima che sempre più si slegano, però, dalla sua figura individuata, tendendo all’impersonalità, e semmai al raggiungimento di una dimensione più universale del dolore. Tale passaggio avviene attraverso una compatta trasfigurazione figurativa e fonica dei simboli: dall’«orma delle pianelle» si giunge alle «vecchie / putrelle schiantate» che compongono la croce, oggetto a sua volta quasi di un processo di ‘carnificazione’ nel breve giro di frase «la scheggia, / la fibra della tua croce, / in polpa marcita…». L’ultima immagine, quella del «sorriso / di teschio», consegue il massimo allontanamento dalla figura di Arletta, crea anzi l’immagine di un ‘terzo’ – ed è una figura della morte – che emergendo dallo spesso piano figurativo creatosi, separa irreparabilmente l’io dal tu, o meglio impedisce loro di proseguire, assieme, un cammino di vita («a noi si frappose»). Tale «sorriso / di teschio» emerge improvviso e conturbante come in certi quadri barocchi la funebre immagine nascosta dall’anamorfosi, ed è vicina a un altro simbolo lugubre della poesia di Montale, la «farfalla» di Vecchi versi, «insetto orribile dal becco / aguzzo gli occhi avvolti come d’una / rossastra fotosfera, al dosso il teschio / umano», paradossalmente accolto, anch’esso, nella «memoria», «con le cose che chiudono in un giro / sicuro come il giorno».

Siamo alle soglie della rievocazione di un passato remoto (la perdita del tu), che si sta però riattualizzando attraverso lo scavo coatto della mano, e non sarà forse un caso se, proprio ora che l’as-senza si fa presenza e il passato remoto ritorna attuale, il metro volge ancora all’endecasillabo, misura, si è visto, dell’osmosi dei due piani. Osmosi che è una dialettica irrisolta fra una presenza benigna, ma scorporata e quasi violata nello scavo, e una presen-za maligna, paradossalmente riconducibile alla stessa figura, che torna come pensiero di morte nella sua evidenza, come immagi-ne dinamica del proprio esser morta. Un altro piano si innesta a

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questo punto in quello, per così dire storico, dei due ‘tempi’ della fanciulla, un piano già anticipato dal titolo e dalla allusività bi-blica dell’incipit. Si tratta del piano escatologico, veicolato da un simbolo che esula dalla dimensione sin qui privata della poesia: la «Ruota» infatti, che Montale ha cura di distinguere con la ma-iuscola, accosta il finale della poesia a visioni che coinvolgono i destini dell’umanità, come quella di Ezechiele o quella di Dante nel ventinovesimo canto del Purgatorio. D’altra parte i caratteri dello scavo e della riemersione messi in luce fin qui si amplificano nei versi finali della poesia senza alcuna soluzione di continuità (nemmeno una virgola dopo il verbo «frappose»):

quando la Ruota minacciosa apparve tra riflessi d’aurora, e fatti sanguei petali del pesco su me scesero e con essi il tuo artiglio, come ora.

La proposizione temporale, in doppia coordinazione («e fatti sangue […] e con essi», con la seconda frase ellittica del verbo), segue immediatamente il gradino appositivo conquistato dall’im-magine del «sorriso / di teschio». La comparsa del «sorriso / di teschio» (un sorriso che deturpa quello di lei) è correlata cioè alla comparsa della «Ruota minacciosa»: è all’apparire di questa che il sorriso di teschio compare a separare l’io dal tu. Il «sorriso / di teschio» è, nella sostanza, separazione del tu da se stesso, è la perdita d’identità dell’altro (la morte che in quello si rivela) cui l’io assiste impotente, quasi subendo un fisico, incontrastabile moto di allontanamento. Del resto l’inarcatura, che come le altre forme di pausa in questa poesia è procedimento di determinazio-ne imprevista, ‘a sorpresa’, del designatum (la «vasca / viscida», i «tuoi [capelli] / d’allora»), segna qui il fenomeno di maggiore straniamento dell’immagine da se stessa, un «sorriso» (e il letto-re pensa subito, dopo la serie di tracce di lei, al suo sorriso) che diviene impersonale, estraneo «sorriso di teschio». L’io è sospin-to indietro, lontano dal tu, come avviene in Due nel crepuscolo, altra poesia per Arletta cui s’è già fatto cenno:

Non so se ti conosco; so che mai diviso

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fui da te come accade in questo tardo ritorno. Pochi istanti hanno bruciato tutto di noi: fuorché due volti, duemaschere che s’incidono, sforzate,di un sorriso.

Ma in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ al «sorriso di teschio» si accom-pagna la «Ruota», si accompagna la visione di qualcosa che è più e oltre rispetto alla dimensione privata del rapporto io-tu. E su questo converrà riflettere ancora. Rappresenta forse, questa com-parsa della «Ruota» come oggetto-simbolo agente a fronte di un io passivo, che subisce, una chiamata, una vocazione. Ed è forse la vocazione del poeta che trasforma l’idillio in morte, la compli-cità in distanza e separazione, che vede la fine delle cose nei loro aspetti. Ripensiamo agli Ossi e alla loro poetica: la poesia, la vita atonale di chi veramente non vive, poteva osservare con stupore il tuffo di Esterina – ma può anche registrare, come in Incontro o in Arsenio, lo scacco di un’esistenza che non si realizza. In ogni caso la vocazione del poeta, o per meglio dire, del poeta montaliano, implica la percezione più o meno accentuata di quel velo funereo, del «sorriso di teschio». Nella Bufera ciò che abbiamo chiamato vocazione del poeta trova una sorta di trasposizione nella figura di Clizia, figura delegata, in un certo senso, a risolvere l’incom-piuto viaggio del poeta in adesione piena al divino (e con esso al Senso).9

Un endecasillabo grave, pausato, dall’attacco dattilico che spe-gne la cavalcata degli incipit giambici dei precedenti sette versi mette in scena la «Ruota», ed endecasillabica è la struttura del fi-nale della poesia, seppur rotta da richiami interni. Ma i segmenti in questo finale non sono più a rincorrersi, come nel trascinante processo di scavo, ma a giustapporsi, e al contrappunto si sosti-tuirà l’uniformità: l’assonanza non più incrociata ma ‘baciata’, «apparve»:«sangue», la legatura dell’allitterazione e dell’isotonia nel verso «i PEtali del PEsco su mE scEsero», la partizione in ‘co-

9 Il poeta resta a mezzo, e, se Clizia si allontana, la sua tensione verso di lei si risolve nell’immagine del «cefalo saltato in secco al novilunio», del gallo cedrone abbattuto. Ma la dinamica è oscillatoria: vedi l’Anguilla, vedi le Conclusioni provvisorie, o la poesia che rinasce dalle «stalle di Augìa».

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stituenti’ rimici quasi visiva dal sintagma «tra riflessi d’aurora» ai segmenti «e con essi» «come ora».

Il processo ascendente cui è sottoposto il valore connotativo degli oggetti, rappresentati nella concreta immagine complessi-va della riemersione-riesumazione, raggiunge a questo punto un apice che si potrà definire escatologico. E sarà da notare come la ‘metafisica’ montaliana si circoscriva e si determini, qui come in altri luoghi della Bufera, in un’immagine già fortemente conno-tata in quanto appartenente a una tradizione culturale condivisa. All’atteggiamento poetico della metafisica laica montaliana sarà anzi da ricondurre non solo la linea dell’‘oggetto’, quella «fisicità delle cose come condizioni indispensabili alle apparizioni dell’al-tro», quel «quotidiano oggettuale» che nella Bufera è «evocato spesso entro un contesto apocalittico» (Blasucci),10 ma anche un filone che nel libro si fa altrettanto rilevante, quello del nome, della formula linguistica o perfino dell’oggetto già connotati in senso propriamente simbolico-metafisico all’interno di una tra-dizione culturale. Tale nome, formula, oggetto possono prove-nire tanto dalla tradizione mitologica classica (i nomi «Iride» e «Clizia» ad esempio o «Ariete» nella Ballata scritta in una clinica, «Giove» nel Gallo cedrone, «Cibele e i Coribanti» nelle Proces-sioni del 1949), quanto da quella teologica della Bibbia e della sua tradizione ermeneutica («Giona» sempre nella Ballata; il «Cristo giustiziere», la «Colonna», la «Legge» in Sulla colonna più alta; il «Volto insanguinato sul sudario», il «Nestoriano smarrito», «l’opera Sua» e la «Sua forma» – categoria aristotelico-tomistica propria già di Personae separatae – in Iride; gli «angeli di Tobia», l’«Altro», «Lui» nella Primavera hitleriana, l’«ombroso Lucifero» nel Piccolo testamento; «Dio» stesso, infine, in tutte le sue decli-nazioni semantiche e lessicali, dalla «Divinità» de La trota nera agli «Iddii pestilenziali» del Sogno del prigioniero). Ma può darsi anche in forme ibride, se si pensa all’espressione «Iri del Canaan» (Iride) in cui «Iri» sta chiaramente per ciò che altrove sarà «mes-saggera» («del tuo dio – del mio forse», L’orto). Ed è chiaro, a questo proposito, che da Dante (o dallo pseudo-Dante) non pro-

10 L. Blasucci, Storia della lingua e critica letteraria (Per una diacronia dell’og-getto poetico in Montale), in Id., Gli oggetti di Montale, cit., pp. 49-70 (p. 64).

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verrà soltanto il suggerimento d’un nesso puntuale («quella ch’a veder lo sol si gira»), ma l’impulso alla tecnica sincretica in sé, alla fusione e risoluzione del patrimonio figurativo classico in quel-lo biblico-cristiano. Anche per questo tra i personaggi femminili montaliani al nome di Iride, o di Clizia, si potrà affiancare quello di Beatrice, seppure la poesia di Montale non si sia mai arrischia-ta a porre in atto, nei testi, una simile identificazione.11

Fra i simboli e le parole di questa ‘teo-logia’, ovvero di una no-minazione degli attributi conosciuti della divinità entro la medi-tazione strenuamente teologica di un soggetto laico, rientra anche la «Ruota» di Ezechiele, come del resto segnalano il titolo-chiave e l’uso della maiuscola (come per le parole «Colonna», «Legge», e «Volto» viste sopra). Ciò deve farci avvertiti che il termine, in cui confluisce certo una serie lessicale già tutta montaliana che ha la sua punta nella «ruota» di Eastbourne nelle Occasioni,12 deve es-sere letta a partire dal contesto semantico e culturale da cui è stata estrapolata, cercando di rintracciarne il vettore letterario e testuale.

È giunto il momento di riprendere la prima delle indicazioni forniteci dal testo, il titolo. E ricordiamo, col titolo, la strofa dello spiritual che esso lascia implicita coi puntini di sospensione:

Ezek’el saw the wheel’Way up in the middle o’ the air,

11 «Una possibilità di identificazione tanto evidente quanto vertiginosa» la definisce Blasucci, che attribuisce l’assenza di riferimenti espliciti e pubbli-ci di Montale al legame Clizia-Beatrice a «una forma di reticenza, diciamo pure di pudore» (L. Blasucci, Dantismo e presenze dantesche nella poesia montaliana, in Id., Gli oggetti di Montale, cit., pp. 73-86, p. 81). Vorremmo aggiungere che forse l’identificazione sarebbe stata addirittura dannosa in senso prima di tutto tecnico: la plurivocità del personaggio cliziano, il suo sfuggente alone di eroina momentanea ed epifanica, si sarebbero senz’altro appannati e irrigiditi, forse perfino banalizzati, accanto a un così solido e assoluto termine di paragone. E questo sia detto tenendo presente quanto nota ancora Blasucci: «faremmo un gran torto alla consapevolezza critica di Montale, in lui sempre altissima, se dovessimo pensare che questa identifi-cazione Clizia-Beatrice non sia stata subito presente alla sua mente» (ibid., p. 80).

12 La parola era investita di valore simbolico soprattutto in Fuscello teso dal muro…, Cigola la carrucola nel pozzo, Mediterraneo (Scendendo la via che divalla…), Carnevale di Gerti. Dopo ‘Ezekiel saw the Wheel...’, una sola oc-correnza, e non troppo connotata in senso metafisico, nelle Processioni del 1949.

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Ezek’el saw the wheel’Way in the middle o’ the air.The big wheel moved by FaithThe little wheel moved by the Grace of God,A wheel in a wheel’Way in the middle o’ the air.13

La Ruota «’way up in the middle o’ the air» è quella del carro di Dio che appare a Ezechiele come la prima delle visioni. Risa-lire alla Bibbia è indispensabile: lo richiede il particolare della «mano» che, come s’è detto, non appartiene al testo dello spi-ritual ma proviene direttamente dal libro di Ezechiele. A inte-grare l’immagine offerta dallo spiritual basta tuttavia soltanto il momento della visione vera e propria. Il testo di Montale sembra infatti più interessato all’immagine isolata della «Ruota» che al contesto scritturale:

E mentre io guardavo gli animali [i quattro cherubini che circondano il carro, in forma di animali ibridi], comparve a terra, a fianco degli ani-mali, una ruota su ognuno dei quattro lati. L’aspetto delle ruote e la lor conformazione era come pietra di Tarsis, e una stessa la figura di tutte quattro, e il loro aspetto e la loro conformazione era quella di una ruota dentro un’altra ruota.14

Si vede bene come entro un contesto che già dalla citazione risulta molto ampio (e il discorso vale anche per lo spiritual) Montale estrapoli e isoli un’unica parola-immagine, collocandola nella medesima situazione di epifania della Bibbia e dello spiri-tual. Sin dal titolo, così, la poesia si pone come percorso verso una visione, che si adempie nell’apparire della «Ruota»: «quando la Ruota minacciosa apparve». La comparsa dell’oggetto-simbolo è accompagnata, in Montale, da «riflessi d’aurora», ciò che in Eze-chiele è il luccicare dell’elettro e l’arcobaleno tra le nubi (Ez., i, 27-28). Non altri legami testuali si possono rinvenire fra la poesia e il libro: il rapporto è di memoria iconica, non propriamente d’intertestualità. Del resto il circuito interno istituito dalla poesia tra il titolo e la comparsa della «ruota» nel testo basta a se stesso,

13 In mancanza di una fonte d’epoca, cito il testo da E. Clementelli, W. Mauro (a cura di), Antologia degli spirituals, Guanda, Milano 1976³, pp. 132-133.

14 Ez., i, 15-18. Testo secondo La sacra Bibbia, Salani, Firenze 1939-1942.

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e più che stabilire un collegamento fra testi (con la Bibbia, o con lo spiritual) si pone come versione inedita e personale dello sche-ma della visione. Semmai, sarà da riscontrare una sintonia tutta tonale con la violenza di certe immagini del libro di Ezechiele (e in questo senso la «voce» soffocata, spinta «in giù, dentro il bre-ve / cerchio che tutto trasforma» si potrà accostare all’episodio del libro mangiato), sintonia che non rende troppo distante dalle atmosfere del libro biblico quell’aggettivo «minacciosa» allegato alla «Ruota», sebbene questa, nella visione di Ezechiele in sé, non rappresenti che fulgida «Gloria del Signore»: ma minaccioso è, appunto, il Dio di Ezechiele.

Quali sono dunque i contenuti, i significati di cui si riempie, in ‘Ezekiel saw the Wheel…’, la visione della «Ruota»? Un senso che non è certo quello della «Gloria del Signore» propone di sfuggita Montale stesso, in una lettera a Guarnieri del ’64 su La canna che dispiuma…. Se nel mottetto, scrive Montale, «la croce è un sim-bolo di sofferenza», «altrove sarà la Ruota di Ezechiele».15 Si tratta di una postilla di non scarso rilievo esegetico. L’affermazione è concisa, e, come spesso accade nelle risposte a Guarnieri, tende al generico: la «Ruota» (e si noti che Montale non dimentica la maiuscola) «è un simbolo di sofferenza», al pari della croce. La disinvoltura con cui Montale associa la croce alla Ruota di Eze-chiele ci fa avvertiti della dimensione nella quale collocare l’in-terpretazione della Ruota, assunta in questa glossa – e dunque anche in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ – come simbolo universale di sofferenza, e soprattutto di una sofferenza relativa a un umane-simo laico e non prettamente teologico. Del resto nella stessa ‘Ezekiel saw the Wheel…’ la comparsa della «Ruota» è preceduta da quella della «tua croce», di una croce, cioè, già pienamente secolarizzata, legata alla vicenda di questo ‘tu’ che noi non cono-sciamo. Come la croce non è simbolo di Cristo, ma, secolarmente, «di sofferenza», così la Ruota viene a perdere il rinvio biblico alla «Gloria del Signore» o alla Fede e alla Grazia di Dio, per conqui-stare un significato ancora più vicino a quello già montaliano. E

15 Lettera del 29 aprile 1964 (SMA, p. 1511). Forse nel mottetto, dietro l’«e-numerazione di fantasmi assurdamente privilegiati, aleatori rinvii all’Og-getto amato» (Isella, in E. Montale, Le occasioni, a cura di D. Isella, cit., p. 120), si cela la stessa Arletta nella sua contrapposizione a Clizia, ugualmen-te evocata nel testo.

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questo lo conosciamo esplicitamente dichiarato in Eastbourne, in quel verso che sancisce il fallimento del tentato contatto con la figura morta (forse Arletta) e l’indifferenza della cieca macchina di un Tempo che qui diventa, in maniera assoluta, Male: «Vince il male… La ruota non s’arresta».

Non sarà però, quella tarda dichiarazione a Guarnieri, alme-no in parte fuorviante? Sentiamo cioè che l’equazione che pari-fica la «Ruota» alla «sofferenza» non rende ragione del carattere così individuato di quell’oggetto-simbolo nella poesia del ’46. Il plusvalore della «Ruota» potrebbe essere rintracciato, in realtà, seguendo non il filo dell’eco biblica, ma quello delle situazioni narrative. È possibile dunque trovare, per il finale di ‘Ezekiel saw the Wheel…’, un parallelismo di situazione, un quadro che si so-vrapponga a questo e ne amplifichi il senso? Forse sì, se tanto il titolo quanto la presenza di un simbolo tradizionalmente indivi-duato come la «Ruota» sono inviti ad aprire la lettura a una di-mensione più vasta di quella inscritta nella sola lettera del testo. Già Eliot, servendosi, in The Waste Land, dell’espressione «son of man» (comune anche a Montale: vedi i «figli / dell’uomo» negli ultimi versi dell’Anguilla), rinviava in nota al libro di Ezechiele, dove essa è ricorrente.

Ma Eliot non è stato il primo a citare Ezechiele. Lo faceva già Dante (che per Montale aveva comunque molto a che fare con Eliot) nel ventinovesimo canto del Purgatorio, e proprio in meri-to alla descrizione di un altro carro divino, ancora accompagnato da «quattro animali»:

A descriver lor forme più non spargo rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne, tanto ch’a questa non posso esser largo;ma leggi Ezechiel, che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne;e quali li troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch’a le penne Giovanni è meco e da lui si diparte. Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due rote, triunfale ch’al collo d’un grifon tirato venne.16

16 Purg., xxix, 97-108. Il nesso con questo episodio del Purgatorio è già se-

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Il rinvio esplicito di questi versi ben si potrebbe apparentare alla nota eliotiana a «son of man» e al titolo fortemente allusi-vo della lirica montaliana. C’è insomma una sorta di paradigma dietro ‘Ezekiel saw the Wheel…’, una costellazione di motivi che delinea la situazione narrativa in cui anche la scena della poesia potrebbe essere collocata. Dante descrive il carro su cui scende Beatrice e cita Ezechiele (ma lo ha contaminato con Giovanni) per dire che si tratta dello stesso carro visto dal profeta. Montale descrive la visione non di una ruota qualsiasi, ma della «Ruota» (seppure associata al particolare significato che abbiamo visto) e rinvia, attraverso il titolo, al medesimo passo biblico. Alla luce della forte componente dantesca che sostanzia, con la sua «po-larità di dannazione e salvezza»,17 lo svolgimento del ‘romanzo’ della Bufera, non sembra fuor di luogo ammettere un rapporto d’analogia fra l’apparizione del carro allegorico in Dante, cui se-gue la discesa di Beatrice, e la comparsa della «Ruota» con la di-scesa dell’«artiglio» in ‘Ezekiel saw the Wheel…’. L’apparizione di Beatrice è sconvolgente per Dante («conosco i segni dell’antica fiamma»), e tanto più sconvolgente sarà l’aspra rampogna della donna che lo indurrà a pentirsi del proprio traviamento terreno. A questa Beatrice che, pur circonfusa di luce e di fiori, si mostra aspra e severa col suo antico amante potrebbe associarsi dunque l’«artiglio» che, nella contratta figurazione montaliana, accom-pagna la «Ruota». Con ciò non si vuol dire che Montale ‘ripeta’ Dante, né che con procedimento allusivo si richiami alla scena del Purgatorio. Ci accontentiamo di estendere la proiezione dei valori simbolici e narrativi di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ a questo luogo e a questa situazione narrativa della tradizione letteraria. Non si tratta dunque di ancorare a un significato e a una scena già dati la magmatica figurazione montaliana. Al contrario, la com-plementarità di situazione apre il finale della poesia a una dimen-sione pienamente (e, all’interno del sistema Bufera, giustificata-mente) escatologica e ‘teo-logica’. Se tale dimensione appartiene alla vocazione romanzesca del libro, ad essa andrà associata, più che la figura di Arletta, quella di Clizia. La lotta con la memoria si

gnalato in R. Bettarini, Sacro e profano, cit., pp. 43-45.17 L. Blasucci, Dantismo e presenze dantesche nella poesia montaliana, cit., p.

77 (e cfr. anche ivi, p. 86).

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fa, in questo senso, tentativo di riscatto da quello stesso rappor-to, fisso e coatto, con una memoria privata, allorché una figura numinosa come quella di Clizia – del suo personaggio chiamato all’universale – può intervenire a sollevare il personaggio ‘io’ dal proprio ripiegamento su se stesso.

Se dunque la «Ruota», «simbolo di sofferenza», è anche vet-tore di una presenza dantesca, tale presenza sarà da ravvisare in una figura di donna che nella poesia può essere soltanto allusa: quella di Beatrice-Clizia. In effetti la ‘lotta con la memoria’ im-plica una lotta con la propria coscienza, chiamata ad accettar-ne il peso. Si avverte al fondo di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ un oscuro senso di colpa. La poesia ha il peso di una confessio-ne. Dal rapporto di dura recriminatoria che Dante instaura tra se stesso personaggio e la donna scesa a farlo pentire prima di concedergli l’accesso al Paradiso Montale estrapola proprio la componente più drammatica, quella della rampogna di una Be-atrice «regalmente ne l’atto ancor proterva» (Purg., xxx, 70), «superba» (ibid., 79), trasfigurandola in senso totalmente anti-beatifico nell’immagine isolata dell’«artiglio». Esplicita funzio-ne di richiamo nei confronti di una sterile memoria avrà Clizia in Voce giunta con le folaghe. Qui potremmo dire che tale fun-zione si trova ancora in nuce, e ancora dolorosamente connessa alla vicenda intima del soggetto, collocandosi a metà strada fra il pieno valore esemplare che emergerà in Voce giunta con le fo-laghe e la già ammessa identificazione, sempre sul piano dell’e-sperienza ‘privata’, di Clizia con Arletta nell’Orto.18

Tornando alla traccia narrativa, si dirà quindi che la dimen-sione verticale del riaffioramento della memoria di Arletta si ibrida con quella orizzontale dell’influsso ‘romanzesco’ di Clizia, figura carica di segni escatologici che di fatto, anche quando non affioranti a testo, agiscono come elementi di substrato entro il sistema-libro. Con l’inserimento della dimensione escatologica il processo di spersonalizzazione del tu «d’allora», già avviato nei versi precedenti, si fa esplicito nei versi che chiudono la poesia. La «Ruota» appare, come a dissipare definitivamente il fantasma di Arletta, «tra riflessi d’aurora», in un riverbero molto vicino alla luminosità che contraddistingue la figura di Clizia. Ma, s’è già ac-

18 M. A. Grignani, op. cit., pp. 57-58.

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cennato, altrettanto luminosa era la comparsa di Beatrice (Purg., xxx, 22-33):

Io vidi già nel cominciar del giorno la parte oriental tutta rosata, e l’altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vapori l’occhio la sostenea lunga fiata: così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva.

Versi che naturalmente hanno poco a che fare col tono apo-calittico e crudo della visione di ‘Ezekiel saw the Wheel…’, con la Ruota «minacciosa», l’«artiglio» e quei «riflessi d’aurora» che fanno pensare, semmai, al Blake figurativo. Eppure di «aurora» si trattava, anche nel caso di Beatrice: «L’incanto di Beatrice è in quell’aurora, dove l’occhio può contemplare a lungo il sole sorgente fra i vapori e dove la bellezza di Beatrice, così sfuma-ta, appare insieme vicina e distante», commenta Momigliano.19 E nell’edizione Scartazzini-Vandelli all’aggettivo «rosata» sono associati questi versi di Ovidio: «Ut solet aer / purpureus fieri, cum primum aurora movetur» (Met., vi, 47-48). Ma la memoria della comparazione dantesca sarà in Montale del tutto straniata e rattratta: se il colore della «parte oriental tutta rosata» si proietta sulla «nuvola di fiori» dando luogo ai «petali del pesco»,20 tali pe-tali saranno, con completo capovolgimento della visione beatifica dantesca, «fatti sangue».

Il segno di sofferenza che la «Ruota» porta con sé è perciò, pur nella sua versione universalizzata e spersonalizzata, ancora riferibile alla fanciulla ormai definitivamente separata dal poeta dalla morte, dal «sorriso di teschio». E dentro la dimensione

19 D. Alighieri, La Divina Commedia, commentata da A. Momigliano, Purga-torio, Sansoni, Firenze 1946, p. 492. Il commento all’Inferno esce nel 1945, quello al Paradiso nel 1947. Il ruolo di Attilio Momigliano per la cultura dantesca di Montale sarà approfondito nel prossimo capitolo.

20 Un accenno già in R. Bettarini, Sacro e profano, cit., p. 44.

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escatologica, e proprio nell’istante dell’abbandono della memo-ria privata (la rampogna di Beatrice), il destino di morte che ha toccato Arletta si fonde con quello dell’io lirico, quasi a investir-lo della coscienza di una vita che la «mano straniera» ha riesu-mato per dimostrarla definitivamente perduta: «e fatti sangue / i petali del pesco su me scesero». Nei «petali del pesco» si potrà riconoscere allora un ultimo, ormai postumo senhal della figura delicata della fanciulla prima della trasfigurazione.

Con gli ultimi due versi siamo ancora, a livello di sintassi del pe-riodo, entro la coordinazione interna alla subordinata temporale aperta dal «quando». Siamo dunque, sul piano narrativo, nella di-mensione del tempo ‘remoto’ instaurata dai verbi «si frappose» e «apparve». E tuttavia la frase «e con essi / il tuo artiglio, come ora», ellittica del verbo e conclusa da una comparativa implicita affidata al solo avverbio «ora», permette la chiusura di quel cerchio aperto, nel distico iniziale, dalla «mano straniera», pur rimanendo l’enig-ma della mano comunque irrisolvibile in maniera definitiva. Del resto la parola «artiglio», per quanto foneticamente irrelata rispet-to al contesto immediato – e per questo tanto più sorprendente alla lettura – riprende le sonorità dell’incipit, riprende i suoni di «gre-mito» e di «intrico», il cui comune denominatore è l’accentramen-to del consonantismo aspro attorno alla i tonica. Si torna cioè al presente, la scena di allora si ripete, ma forse – qualcosa di analogo accadeva anche ne L’orto – con una nuova consapevolezza. Il tem-po della congiunzione con un tu dai capelli «troppo tenui, troppo lisci» è un tempo forse anteriore persino al tempo degli Ossi: già allora, nelle poesie aggiunte nel ’28, il nucleo poetico associato alla figura di Arletta parlava di una «sommersa» (Incontro). Ora, nella Bufera, alla fenomenologia del ‘ritorno’ (praticata nelle Occasioni nella rappresentazione delle epifanie in atto, e di fatto creatrice di prodotti poetici) sembra associarsi un fattore, per così dire, di rifles-sione sulle condizioni e persino sull’opportunità di quella fenome-nologia. È per questo che i tempi si sdoppiano, l’epifania si presenta come ripetibile e associabile ad altre interpretazioni: ad Arletta si sovrappone Clizia, alla riemersione verticale e privata s’intreccia il filo di una narrazione affidata a simboli universali e condivisi.21

21 Secondo la lettura di Lonardi – vi abbiamo accennato nel primo capitolo – segmenti come quello in ar, senhal fonico di Arletta, «fanno rete o co-

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Il ‘senso di colpa’, la memoria come «peccato» che si percepi-sce nella filigrana semantica e narrativa di questa ‘Ezekiel saw the Wheel…’, poesia di scavo e di faticosamente controllato dérègle-ment di sensi e di simboli, è forse una forma ancora magmatica e oscura dell’idea che in Voce giunta con le folaghe si esprimerà nella sentenza dell’«ombra viva»:

Memorianon è peccato fin che giova. Dopoè letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sé…

3. ‘Ezekiel saw the Wheel…’ nelle Silvae

Il lettore delle Silvae montaliane sa di addentrarsi, all’apertura di questa sezione della Bufera, in uno spazio intricato e oscuro, a metà fra l’intimistico e il pubblico-politico. Nella sezione si in-tersecano tratti che si potrebbero definire ‘orizzontali’, pertinenti all’intero arco romanzesco della raccolta (si pensi a come la figura della donna salvatrice attraversa il libro), e dinamiche ‘verticali’, connotate dal carattere della riemersione: si può trattare allora – il riferimento è al gruppo che va da Nella serra a ‘Ezekiel saw the Wheel…’ – di riemersione fiabesca e infantile (Nella Serra e Nel Parco), di visitazione conturbante (la Clizia-Arletta dell’Orto), collettiva e marcante la svolta di un’epoca (Proda di Versilia), o addirittura, al di là del quintetto e dopo la Primavera hitleriana, intimistica, ma racchiudente una Clizia dalla potentissima aura gnomica, come in Voce giunta con le folaghe.

In ‘Ezekiel saw the Wheel…’ il ritorno di un fantasma della me-moria, quello del ‘primo amore’ Arletta, è vissuto come esperien-

stellazione e sono investiti di una funzione allusiva». Esiste cioè un «livello della disseminazione di un segmento fonico AR (o RA o ARA) allusivo alla sottaciuta, in libro (non in abbozzi o prima stampa in rivista), Arletta, il nome del primo amore» (G. Lonardi, Mito e ‘melos’ per Arletta: “Punta del Mesco”, cit., pp. 141-142). Alle occorrenze portate da Lonardi (fra cui, ad esempio, il «morso di tARantola» di Da una torre) si potrà dunque aggiun-gere, alla luce di quanto s’è detto, anche l’«ARtiglio» di ‘Ezekiel saw the Wheel…’.

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za di riaffioramento macabro di una presenza che si era tentato di soffocare. Soltanto un’istanza superiore, quella che nel finale del-la poesia si esprime nella visione della «Ruota», può capovolgere, in un processo doloroso e violento, la riemersione memoriale in purificazione, in elevazione, così come la mano del Signore gher-misce il profeta nella visione. La stretta dell’artiglio è la presa di coscienza del dolore e della morte. Rispetto all’idea di un destino di dolore, diversa è la curvatura esistenziale dei due ‘personaggi’ Arletta e Clizia: se l’una è avvolta in una esistenza esclusivamen-te terrena e priva di sbocco, l’altra di quel dolore è realizzazione ultraterrena, capace, secondo il modello cristologico, di redimer-lo (ma la vitalità e il fascino della poesia di Montale sono nella posizione dell’io poetico, sempre sfalsata rispetto alle condizioni di senso recate da queste figure simboliche).22 L’identificazione strutturale tra la Clizia che compie il processo di redenzione e la Beatrice che rampogna Dante (liberandolo, nel Paradiso terre-stre, dal peso dei suoi peccati), si dimostra fondamentale, nell’in-terpretazione del testo, per tentare di comprenderne non tanto la lettera, quanto il valore semantico entro il sistema di rapporti creato dalla poesia montaliana nel suo sviluppo dinamico e dal libro. Poesia elusiva e criptica, ‘Ezekiel saw the Wheel…’ ha col testo dantesco, su questo piano, un legame di forte valore erme-neutico. Non si tratta di citazione, ma della giustapposizione, alla situazione montaliana, di quella, esemplare, della Commedia. La rappresentazione frammentaria, per simboli isolati, di Montale (la Ruota, i petali del pesco, l’artiglio) si sovrappone alla figura-zione intessuta da Dante, alla sua potenza simbolica, per trovare in essa, dunque esternamente al testo, quei legami di significato che nei versi sono soltanto allusi.

L’esperienza della memoria che trova spazio in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ non è un caso isolato. Rientra anzi in una serie di ‘azioni’ compiute dal poeta, negli anni immediatamente succes-sivi alla guerra, in direzione di un riposizionamento di tessere del proprio passato, di figure che si accampavano ancora forti nello spazio interiore, che la guerra aveva reso come inattuali

22 Occorrerà intendere questa Clizia e questa Arletta come estremi ideali, figure che costituiscono metonimia intermittente, e non sempre onoma-sticamente realizzata (anzi! si pensi proprio al nome Arletta), di situazioni complesse, di configurazioni e possibilità di senso.

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e distanti, offuscandone il senso. Montale sembra cercare una nuova collocazione, all’interno della propria coscienza e nella propria opera letteraria, di frammenti di un «tempo che fu mi-surabile / fino a che non s’aperse questo mare / infinito, di creta e di mondiglia» (Proda di Versilia). «Anni di scogli e di orizzonti stretti / a custodire vite ancora umane / e gesti conoscibili…». Che valore hanno quegli anni, dopo la cesura della guerra, che ha sommerso quel mondo? E quanto ancora le figure del pas-sato dovranno richiamare il poeta al di là di quella barriera, o scavalcarla? Si direbbe che il muro eretto dall’esperienza della guerra, il cambiamento della realtà, si rispecchi, nella sua co-scienza, nel desiderio di chiudere i conti col passato, di supe-rarlo senza dimenticarlo.

In quest’ultimo paragrafo si cercherà di specificare meglio il posto di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ all’interno della riflessione montaliana sviluppata in quegli anni, premessa necessaria alla lettura, che si affronterà nei prossimi due capitoli, di uno dei testi più importanti della Bufera e della produzione montaliana in ge-nerale, Voce giunta con le folaghe. Questa poesia potrebbe infatti esser letta come la rielaborazione in forma universalizzante di ciò che ‘Ezekiel saw the Wheel…’ esprimeva come un’esperienza personale, magmatica, e non ancora distillata nei termini di una riflessione: una tappa ulteriore, insomma, di quel percorso di cui ‘Ezekiel saw the Wheel…’ fa parte. Il ruolo svolto dal Purgatorio come fonte ‘tonale’ e ‘atmosferica’ (vedremo in che senso) di Voce giunta con le folaghe mi sembra fondamentale. Non è un caso, credo, che a così stretta distanza due testi attingano a luoghi e atmosfere della stessa cantica. Segno che forse la funzione del Purgatorio, cantica della memoria e della nostalgia, acquista un peso rilevante all’interno della riflessione montaliana che si è cer-cato di delineare.

Per parte sua ‘Ezekiel saw the Wheel…’ sembra essere, tra gli anelli del ‘ciclo’ di Arletta, quello più resistente a un’ese-gesi puntuale, presentandosi come un conglomerato di moti-vi sì riconoscibili entro il paradigma arlettiano, ma talmente esasperati in violenza figurativa e compattezza ‘ermetica’ (con significative vicinanze a un altro importante paradigma tema-tico-simbolico, quello cliziano) che si può essere indotti a chie-dersi se non ci si trovi davanti a un testo di confine del siste-

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ma poetico montaliano, almeno, storicizzando, al livello della densa riflessione degli anni 1946-1947 concretizzatasi in alcuni testi chiave delle Silvae.

Alla sequenza Nella serra – Nel parco – L’orto – Proda di Ver-silia – ‘Ezekiel saw the Wheel…’ (già individuata dalla Grignani come ‘quintetto’ centrato attorno all’Orto) aggiungerei dunque Voce giunta con le folaghe, come summa (e parziale risoluzio-ne) delle questioni poste dalle prime: il problema morale della conservazione memoriale, l’«enorme presenza» dei morti con la conseguenza del riemergere lieto e sognante (Nella serra, Nel parco) o inatteso e sinistro (‘Ezekiel saw the Wheel…’) di certi fan-tasmi, e infine l’abbandono (ma in fondo una dialettica ritornan-te) di un’area gnoseologico-esistenziale in favore di un’altra, di un ‘mondo’ ancora (e a volte ostinatamente) larico contrapposto a un sopramondo che, originato da una tensione erotica matura, aperta all’altro-lontano-assente (penso alla Clizia delle Occasio-ni), raggiunge nella Bufera quello che Gilberto Lonardi ha de-finito il piano «figural-mitologico».23 Mentre gli ultimi tre testi delle Silvae, nel prospettare un presente in cui «comincia ora / la via più dura» (L’ombra della magnolia…) contro un passato in cui «era più dolce / vivere che affondare in questo magma» (Il gallo cedrone), e nell’indicare nel percorso dell’anguilla, «sorella» di Clizia, una probabile via di scampo (L’anguilla) chiudono la sezione con toni che già lasciano intuire la riflessione successiva sull’opacità del mondo postbellico.

Per una più distesa indagine e puntualizzazione sulla dialetti-ca di ‘ordine larico’ e ‘ordine erotico’ in questa fase e in generale nella poesia di Montale rimando al capitolo Il Vecchio e il Giovane del libro di Lonardi, che mi sembra contenere indicazioni fonda-mentali per l’interpretazione di questo e di altri percorsi monta-liani.24 Con una chiosa. Ancora sul piano di un ideale paradigma delle figure muliebri, e con, sottomano, quella categorizzazione ‘mobile’ di ordine larico e ordine erotico e la trafila esegetica rela-tiva al ciclo di Arletta, direi che quest’ultima si pone come figura di mezzo fra il larico e l’erotico, con cui condivide alcuni tratti ma

23 G. Lonardi, Lungo l’asse leopardiano, in Id., Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 73-120 (p. 107).

24 G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane, cit., pp. 101-111 (il capitolo rientra nel più ampio studio intitolato Lungo l’asse leopardiano).

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adulterandoli in maniera ‘eversiva’. Se del lare conserva l’apparte-nenza a un tempo dell’infanzia, dell’eros trova, nel dittico Nella serra/Nel parco, il momento della fusione con l’io lirico, seppure attuata in una forma onirico-fantastica per nulla accostabile agli amori di Clizia, della Volpe o di Mosca – e abbiamo visto che già Contini parlava, a proposito di queste liriche, di «enunciazioni assolutamente nuove».25

Allo stesso tempo Arletta possiede tratti che scardinano la co-mune configurazione dei due ordini, come la troviamo per i per-sonaggi rappresentativi di questi. Dell’eros, si è detto, conserva una dimensione onirico-fantastica estranea alle altre donne del-la fase ‘matura’, e forse derivante proprio dalla sua appartenenza al ‘tempo dell’infanzia’. Ma rispetto al lare porta con sé dei tratti ctonii, sinistri, ‘perturbanti’, per nulla assimilabili a quelli della madre e del padre, dolci, dimessi: un «volto ‘gorgoneo’», come è stato definito,26 che può essere anche la versione senza futuro del duro volto di Clizia.

Questo discorso, che già vale per le prime due raccolte, si complica nella Bufera, se si considera come qui la stessa Clizia, rispetto alle Occasioni, perda i connotati di realtà terrena per raggiungere un «oltrecielo» in cui si fa costellazione simbolica, trama di segni volta a dirigere al futuro lo sguardo di un soggetto rimasto a terra, durante e dopo l’imperversare della guerra. Se si guarda infatti alla storia compositiva della raccolta – e mi riferi-sco all’antico progetto di Romanzo – si può constatare come la divisione del primitivo capitolo conclusivo L’Angelo e la Volpe in due sezioni, Silvae e Madrigali privati, con il relativo celamento dei due personaggi-referenti, possa corrispondere – così Niccolò Scaffai, con cui concordo – a una volontà di fluidificare il rapporto e la transizione fra le due donne e anche, credo, a isolare il mo-mento della Volpe tra due sezioni sostanzialmente dedicate a un tema di più ampio respiro, storico più che personalistico-privato, ovvero le Silvae e le Conclusioni provvisorie (sezione, questa, in cui dell’Angelo sopravvive il senhal dell’iride).27 Scrive Scaffai

25 G. Contini, Montale e “La bufera”, cit., p. 93. Cfr. parte prima, cap. 3, par. 3.26 F. Nosenzo, Storia di Arletta, cit., p. 102, con riferimento alla teoria freudia-

na del lutto.27 N. Scaffai, Montale e il libro di poesia. “Ossi di seppia”, “Le occasioni”, “La

bufera e altro”, Pacini-Fazzi, Lucca 2002, p. 190. L’indice di Romanzo si

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che, rispetto al primitivo progetto di Romanzo, «nella Bufera e altro invece dell’opposizione tra le due figure femminili, è l’evo-luzione di esse, il graduale precisarsi dei tratti dell’una nell’altra» (e qui poesia di raccordo tra la figura salvifica di Clizia e quella vitalistica di Volpe è L’anguilla). «Ne risulta un andamento più mosso e narrativo rispetto alla forma paradigmatica del progetto originario».28

C’è insomma una progressiva rarefazione della figura di Clizia, di lei come persona-personaggio, in favore di una messa in risalto dei suoi attributi simbolici (il volo, le ali, l’iride). Tali attributi non solo conseguono carattere di universalità, ma, aggiungerei, continuano a vivere, quasi irrelati rispetto a una ‘compatta’ figura di donna, all’interno di un lessico simbolico-mistico indipenden-te, e applicabile pertanto anche – in certi casi – al personaggio di Volpe. Voglio dire che, nel corso della raccolta, il personaggio ‘forte’ di Finisterre (capitolo di raccordo alle Occasioni) diventa nelle Silvae sì figura oltrestorica, e anche lontana dall’esperienza privata e sensoriale del poeta (che, per esempio, non potrebbe più ‘liberarle la fronte dai ghiaccioli’ in questa sezione, come in-vece accadeva nelle Occasioni, nel famoso mottetto), e pertanto disincarnata (lei ch’era iddia incarnata durante la guerra), ma an-che centro invisibile di una raggiera di simboli potenzialmente salvifici presenti sulla terra e soprattutto nella riflessione mon-taliana sulla possibilità di una speranza: riflessione che si fa ap-punto, nelle Silvae, ancora più metafisica, se si vuole, universale, giocata non più tra il poeta e la donna-iddia, ma tra il poeta e i ‘concetti simbolici’ tratti dall’esperienza del rapporto con quella donna.

Ora, se torniamo ad Arletta, e in particolare al dittico Nella serra/Nel parco, ci accorgiamo che, rispetto al progetto origi-nario, queste due poesie sono state spostate dalla loro primitiva collocazione, che era al termine di Intermezzo a chiudere una parabola tutta ligure, anzi monterossina, e arlettiana, iniziata con Due nel crepuscolo. Era la chiusa positiva (a fronte dell’in-cipit fortemente disforico di Due nel crepuscolo) di un roman-

trova in una lettera di Montale a Giovanni Macchia del 4 novembre 1949, contenuta ora nel saggio Il romanzo di Clizia in G. Macchia, Saggi italiani, Mondadori, Milano 1983, pp. 302-316.

28 N. Scaffai, Montale e il libro di poesia, cit., p. 102.

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zo nel romanzo che Montale ha voluto, in un secondo tempo, scorporare. Perché? Probabilmente per lo stesso motivo per cui l’Angelo e la Volpe sono passate a occupare, anziché un titolo, uno spazio interno al romanzo, consentendo, tramite la scom-posizione di uno schema paratestuale forse troppo rigido, una fluidificazione di tratti di più ampio spessore semantico. Non solo: se da un lato, trattandosi di Arletta, avrà un ruolo anche la tendenza di Montale a ‘sotterrare’ e mimetizzare la figura della ‘fanciulla morta’, dall’altro, se si considera la destinazione finale del dittico, bisogna riconoscere che esso rafforza, accanto alla presenza cliziana (Iride, La primavera hitleriana), quella dell’a-rea memoriale e monterossina (Proda di Versilia), anche con contaminazioni (L’orto, Voce giunta con le folaghe). Si crea così, sul piano degli equilibri tonali della sezione, una sorta di con-trappeso a una dinamica tutta volta verso l’alto: un pendant, che da un lato bilancia la presenza della figura muliebre predomi-nante nella nuova sezione (e maggiormente visibile, anche gra-zie alla conquista del duplice nome Iride-Clizia), dall’altro crea un settore che, collocabile in una ideale serie di abbandono del-la memoria (dall’«artiglio» al monito della «voce»), intrecciata a una più ampia serie di trasfigurazione della memoria erotica personale di Clizia in senso simbolico-ultramondano (la Clizia dissoltasi in quella «voce»), è occupato da due testi di sinistro ritorno del tu erotico-larico solo a fatica contenuto da una sim-bologia cliziana (L’orto) o comunque universale e teologica (la «Ruota» in ‘Ezekiel saw the Wheel…’).

Sembra insomma che alla base della composizione del capi-tolo Silvae stia una delicata trama di bilanciamenti interni che compone, in questo «intrico», i rapporti tra le due donne fino ad ora più importanti del canzoniere montaliano, e in qualche modo fa il punto su entrambe (naturalmente senza chiudere la partita: basti pensare alle Conclusioni provvisorie), preludendo, con L’anguilla, alla comparsa di un personaggio terrigeno come la Volpe. Bilanciamenti si possono anche riconoscere sul piano metrico, se ‘Ezekiel saw the Wheel…’ riprende, dopo la pausa pre-valentemente endecasillabica, il metro ottonario-novenario di Nella serra e Nel parco, facendo precipitare però la divisione in quartine in un’unica lassa in cui si insidia, fino a prender piede nel finale, l’endecasillabo. In avanti, lo schema monostrofico con

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rapido scivolamento sintattico si proietta sull’Anguilla, un’unica lassa-periodo di endecasillabi e ottonari-settenari irregolarmen-te alternati.

Ma vediamo più da vicino il terreno in cui si innesta una po-esia così ardua come ‘Ezekiel saw the Wheel…’, cercando di co-gliere qualche nesso con i testi che la circondano. Nella serra e Nel parco, s’è detto, sono state prelevate in blocco da Inter-mezzo, il che, al di là della palese identità metrica è ulteriore conferma della loro inscindibilità e mutua relazione interna.29 Affiancate a L’orto, formano una sorta di preludio topografico (l’ambientazione è la stessa, quella della villa monterossina) e fantastico-memoriale (quell’ambientazione fa da sfondo a un inedito idillio tra l’io e una sottaciuta Arletta). L’orto sarà poi componimento di più ampio respiro e complessità (e di note-vole differenza tonale); e lo seguirà un altro dittico, questa volta motivato non tanto nella forma quanto nel tema, se comune argomento è il ‘ritorno dei morti’, nella sua manifestazione col-lettiva (Proda di Versilia) e individuale (‘Ezekiel saw the Whe-el…’): di fatto, le due poesie furono pubblicate assieme, in rivi-sta, sotto il titolo Due motivi, subentrato a quello in bozze Due ‘tempi’ di ***.30

Le cinque poesie (Nella serra, Nel parco, L’orto, Proda di Ver-silia, ‘Ezekiel saw the Wheel…’) formano così un blocco il cui co-mune denominatore è essenzialmente la presenza, in forma at-tuale (Nella serra, Nel parco) o rievocativa, con scarto temporale (L’orto, Proda di Versilia, ‘Ezekiel saw the Wheel…’) del paesaggio monterossino dell’infanzia del poeta. Tale paesaggio incornicia solitamente – più volte è stato notato – l’evento di un incontro, quello con Arletta. E infatti di queste cinque poesie ben quattro sono state attribuite al cosiddetto ‘ciclo’ della fanciulla scompar-sa, eccettuata Proda di Versilia che comunque riprende un filone tangente, quello del ritorno dei morti (sin dagli Ossi del 1928: si

29 Erano però uscite separatamente, seppur nello stesso anno, il 1946: Nella serra ne «Il ’45», Nel parco in «Lettere ed Arti». Entrambe poi (ulteriore conferma a posteriori) in R. Sommaruga, 6 incisioni con tre poesie di Euge-nio Montale, Editore del Gatto, Verona 1952, assieme a L’anguilla.

30 In «Società» nel 1946: Due motivi: 1. I miei morti che prego perché preghi-no… con l’epigrafe «Viareggio, 1946»; 2. Ghermito m’hai dall’intrico…, con l’epigrafe «Ezekiel saw the Wheel…».

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pensi alla serie I morti, Delta, Incontro, già comparsa in rivista, dove Incontro aveva il titolo Arletta).

L’identificazione del tu di Nella serra, Nell’orto e ‘Ezekiel saw the Wheel…’ con la figura della «giovane villeggiante morta molto giovane»,31 appartenente all’adolescenza del poeta nelle Cinque Terre, o, per dirla in maniera più aderente allo sviluppo del siste-ma poetico montaliano, con la figura o il personaggio di Arletta-Annetta, è ormai stata appurata sulla scorta di osservazioni te-matiche e filologiche avvalorate dall’identificazione di un ‘ciclo di Arletta’ che percorre sotterraneamente il canzoniere montaliano fin dagli Ossi di seppia. Tarde testimonianze di Montale (la pri-ma, riguardante la Casa dei doganieri e Incontro, si legge in una lettera a Silvio Guarnieri del 1964,32 mentre le più rilevanti, sulle poesie arlettiane delle Occasioni, sono state registrate da Luciano Rebay)33 e rilievi filologici accurati (fondamentali gli Appunti sul “taccuino” del 1926 di Rosanna Bettarini)34 hanno permesso, as-sieme al ritorno del poeta stesso su quella diafana figura con po-esie ‘rivelatorie’ che vanno dal Diario ad Altri versi (con tanto di esplicito svelamento del senhal durante un’intervista),35 di rico-struire con una certa sicurezza il sostrato storico-filologico su cui si è poi esercitata, negli anni ottanta, l’esegesi di Ettore Bonora e Maria Antonietta Grignani. A Bonora si deve l’individuazione di

31 Così Montale a Giulio Nascimbeni, in G. Nascimbeni, Eugenio Montale, Longanesi, Milano 1969, p. 116: «L’ho scritta [La casa dei doganieri] per una giovane villeggiante morta molto giovane. Per quel poco che visse, forse lei non si accorse nemmeno che io esistevo».

32 Lettera del 24 aprile 1964 (SMA, p. 1510): «…Nella Casa dei doganieri e in Incontro c’è la donna che chiamerò 4. Morì giovane e non ci fu nulla tra noi».

33 L. Rebay, Sull’‘autobiografismo’ di Montale, in V. Branca, R. Clements, O. Ragusa (a cura di), Innovazioni tematiche espressive e linguistiche nella letteratura italiana del Novecento, Atti dell’viii Congresso dell’Associazio-ne Internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (New York, 1973), Olschki, Firenze 1976, pp. 73-83.

34 R. Bettarini, Appunti sul ‘taccuino’ del 1926 di Eugenio Montale, in «Studi di filologia italiana», n. 36, 1978, pp. 457-512.

35 Sulla «capinera» di Altri versi si legga una testimonianza d’autore molto vicina a quella rilasciata a Nascimbeni: «In mie poesie recenti ho intro-dotto la capinera, ma quella è morta giovanissima e non ha quasi immagi-nato che un giorno avrei scritto di lei» (in C. Huffman, Eugenio Montale: Questions, Answers and Contexts, in «Yearbook of Italian Studies», n. 3, 1973-1975, pp. 219-233).

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un vero e proprio ‘ciclo’ che, con richiami intertestuali notevoli, si sviluppa tra gli Ossi e le Occasioni, mentre le Occasioni diacroni-che nella poesia di Montale della Grignani portano avanti il lavoro di scavo attuato sulle prime due raccolte arricchendolo di ulte-riori presenze nella Bufera, ancora sulla scorta di corrisponden-ze lessicali, figurative (dunque anche scenografico-ambientali) e tematiche.36

A suffragare le ipotesi esegetiche sui testi della Bufera non abbiamo invece testimonianze d’autore né vere e proprie prove filologiche, a parte quanto ci dicono gli abbozzi di Due nel cre-puscolo, comunque del ’26, dove il nome di Arletta compare per esser subito cassato. Anche se va detto che le premesse gettate dalle ‘scoperte’ nei primi due libri bastano senz’altro a illuminare vaste porzioni del terzo.

A tener conto di certi episodi editoriali che precedono la pubblicazione della Bufera, tuttavia, bisognerà pur convenire che qualche chiave Montale cominciava a offrirla. Proprio Due nel crepuscolo compare la prima volta in volume nella seconda edizione di Finisterre (1945, dopo una prima stampa in «Prima-to» nel ’43), esplicitamente presentata come «lirica del ’26»: «nata», scrive Montale in calce al libretto, «dal paesaggio delle due prose» che la stessa edizione raccoglie sotto il titolo di In Liguria, Visita a Fadin e Dov’era il tennis…37 Il lettore è così in grado non solo di collocare la poesia accanto a quelle aggiunte in Meriggi e ombre nella seconda edizione degli Ossi, ma anche di misurarne tutta la distanza dalle altre liriche nuove di questa nuova edizione della plaquette, i Madrigali fiorentini e soprat-tutto Iride, la punta più avanzata, in quel momento, del femmi-nile montaliano. Ancora, proprio Voce giunta con le folaghe sarà accompagnata, nella prima stampa in rivista (sull’«Immagine» nel giugno 1947), dal fac-simile di Il sole d’agosto trapela appe-na…, altra poesia per Arletta mai giunta a forma definitiva: il

36 E. Bonora, Anelli del ciclo di Arletta nelle “Occasioni”, cit.; M. A. Grigna-ni, Occasioni diacroniche nella poesia, cit. Si veda la prima nota di questo capitolo.

37 Cito la nota da OV, p. 936. La data di stesura degli «appunti» per la poesia è esplicitata anche nella nota che accompagna la prima edizione in rivista e nelle note alle edizioni della Bufera: cfr. OV, p. 954.

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manoscritto è datato «1926» e il nome di lei vi compare appena leggibile fra le cancellature.

Proprio nella Bufera tale aspetto di recupero della memoria an-drà tenuto presente nella considerazione del valore del rapporto tra l’io poetico e il personaggio di Arletta, giacché può aiutare a spiegare come mai nella stessa sezione e a distanza ravvicinata compaiano una Arletta ‘beatrice’ (Nella serra, Nel parco) e una Arletta ‘demoniaca’ (‘Ezekiel saw the Wheel…’): al recupero di un così lontano passato corrisponde infatti la riflessione sul valore morale stesso di questo scavo nella memoria, la cui conclusione, esplicitata di lì a poco in Voce giunta con le folaghe, esterna in ter-mini razionali – prendendo, in questo modo, una netta posizione – un conflitto che il soggetto di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ ha già vissuto acutamente, quello dell’io con un ricordo ‘sepolto’ eppure ancora vivo e violentemente sensibile.38

Scriveva Contini in Montale e “La bufera” che «alla rottura delle frontiere fra io e non io» (fenomeno che contraddistingue il libro e che Contini motiva col convergere di un approfondimento della riflessione sull’evocazione del tu e con l’urgenza della situazione storica) «s’accompagna, per un processo affine, l’abolizione della barriera fra vita e morte […]. La rottura di frontiere fra dentro e fuori e fra vita e morte sembra designare il punto di massima di-latazione toccato dalla fantasia solipsistica di Montale»; e ancora: «al termine di questo processo è l’identificazione dell’io all’ogget-to poetico».39 Affermazioni, queste, che saranno da tener presen-te quando si metterà a confronto la condizione dell’io «ghermito» dalla mano (invasione dello spazio del soggetto) con quella del segno del tu, la «vena d’onice» (identificazione soggetto-ogget-to). Dove il tu invasivo (la «mano») e quello speculare all’io (nel

38 È significativo che, nelle Silvae, fra ‘Ezekiel saw the Wheel…’ e Voce giunta con le folaghe si legga La primavera hitleriana, dove Iride, che ha trovato il nuovo nome di Clizia, viene definitivamente investita di quella funzione cristologica che le permetterà, in Voce giunta con le folaghe, di ricordare «per tutti»: «Guarda ancora / in alto, Clizia, è la tua sorte, tu / che il non mutato amor mutata serbi, / fino a che il cieco sole che in te porti / si abbàcini nell’Altro e si distrugga / in Lui, per tutti»

39 G. Contini, Montale e “La bufera”, cit., pp. 91-93. Cfr. anche G. Lonardi, I padri metafisici, in Id., Il Vecchio e il Giovane, cit., pp. 121-143: «l’io si pro-segue fin nell’oggetto» e, parallelamente, «il non-io […] si spinge fin nel soggetto» (p. 132).

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segno della «vena d’onice», segno di una figura ‘sepolta’) sono, ambiguamente, la stessa persona, Arletta. Ma sempre rimanendo alla fanciulla «morta giovane», si pensi a quei «petali del pesco» che scendono «fatti sangue» all’apparire della «Ruota»: rappre-sentazione del destino di Arletta sospeso tra due tempi anche fi-gurativamente opposti, simboleggiati dall’immagine delicata dei «petali» e da quella cruenta del «sangue».

Se tutto questo contribuisce a chiarire le motivazioni del ca-rattere bifronte della figura di Arletta, e in particolare nel caso della sua manifestazione nell’arco di poche poesie, sfugge, credo, il perché di un così insistito ritorno su di lei (con tanto di spo-stamento del dittico ‘idilliaco’ dall’Intermezzo alle Silvae) quando il pensiero montaliano ha già maturato l’idea di una memoria, ovvero di un recupero memoriale, che è (può diventare) «letargo di talpe». Perché, insomma, la «voce» giunta con le folaghe non ha oscurato, retrospettivamente, le poesie arlettiane, facendole scomparire dalla raccolta? Questa domanda è sicuramente trop-po forte, ma cerca di condurre alle estreme conseguenze le pur decise parole di Voce giunta con le folaghe. E, sempre in questa prospettiva oltranzista, bisognerà riconoscere che, se le poesie arlettiane ci sono, e se alla poesia della acquisita consapevolezza sono state avvicinate tanto (sempre ricordando che per Montale nulla è definitivamente acquisito), qualcosa deve far sì che la loro presenza sia necessaria.

Forse si tratta del fatto che la memoria che esse rievocano – an-che se in parte «disvoluta» dal poeta – comunque «giova», non è ancora «abiezione che funghisce su sé». È anzi, mi sembra, quel percorso necessario che conduce ad una seppure provvisoria con-sapevolezza del valore stesso del recupero (o della conservazio-ne) memoriale: le tappe di questo percorso vanno registrate, e, come è proprio della struttura stessa del fare poetico montaliano, la dimensione diacronica (lo scavo, il percorso di autochiarifi-cazione) non esclude la presenza pur sempre significativa della dimensione sincronica, in cui il superato sta sullo stesso piano dell’attuale. Non solo: il riconoscimento di altre voci, di altre pro-spettive, tutela dall’errore ermeneutico di considerare la senten-tia pronunciata dall’«ombra fidata» come coincidente tout court con il pensiero e l’esperienza poetica di Montale. Quella senten-tia si pronuncia in un contesto scenico, è messaggio che insorge,

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davanti agli occhi del lettore, da una situazione narrativa di rap-porti fra ‘personaggi’ (l’io, il padre, l’«ombra»), e trae alimento da paradigmi simbolici e nessi di pensiero che occorrerà deter-minare in rapporto sia alla logica del testo, sia alla riflessione e all’esperienza di scrittura di Montale in questi anni.

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2.SITUAZIONI PURGATORIALI

IN VOCE GIUNTA CON LE FOLAGHE

Abbiamo citato più volte Voce giunta con le folaghe, poesia su cui ci soffermeremo in questo e nel prossimo capitolo. In che cosa consiste, propriamente, la ‘scoperta’ filosofica che Voce giunta con le folaghe esprime, in toni gnomici e universali e poco dopo l’esperienza memoriale, visceralmente personale, di ‘Ezekiel saw the Wheel…’? E che ruolo svolge il Purgatorio nel-la ricerca montaliana relativa al tema della memoria? In ‘Eze-kiel saw the Wheel…’, s’è visto, il simbolo della Ruota evoca una situazione purgatoriale che ha un rilievo strutturale per l’esito dell’intera vicenda della poesia: attraverso tale simbolo, con la sua allusione alla ‘scena’ purgatoriale della rampogna di Beatri-ce a Dante, Montale può evocare – anche senza ‘raffigurarla’ – la propria Beatrice, quella Clizia che si viene a sovrapporre alla riesumata figura di Arletta.

Nelle pagine seguenti cercherò di dimostrare come il caso di ‘Ezekiel saw the Wheel…’ non sia l’unico in cui, all’altezza delle Silvae, il tema del recupero memoriale entri in contatto con trat-ti purgatoriali. La funzione strutturante di alcune scene o trat-ti tipici del Purgatorio è infatti altrettanto importante in Voce giunta con le folaghe, che si potrebbe concepire come lo sviluppo, in chiave sapienziale, di un’esperienza vissuta in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ ancora fra le sabbie mobili del cuore.

Occorre tuttavia, preliminarmente, fare il punto sul rapporto fra Montale e Dante, chiedendoci in particolare come il poeta, in quanto poeta ‘moderno’, legga e osservi la Commedia, e quali re-lazioni di senso e di possibilità espressive corrano fra la sua opera e il capolavoro dantesco.

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1. Una struttura compiuta del senso

Montale conosce, e manda a memoria per parti consistenti, la Commedia fin dagli studi scolastici, grazie anche, come dice in Auto da fé (nella settima delle Variazioni), al «gancio della rima obbligata».1 Un aspetto rilevante delle presenze dantesche nell’opera di Montale mi sembra in effetti sia proprio il loro ca-rattere non solo di palese memorabilità, ma di memorabilità con-divisa, tra il poeta e il lettore comune, un lettore ‘scolastico’, se vogliamo, della Commedia.

Ciò non implica, naturalmente, presenza massiccia di danti-smi esibiti nei testi, né preclusione di stilemi e allusioni più sot-tilmente celati, ma, direi, la tendenza, da parte di Montale, a una lettura più immediata, disinvolta e non archeologica, del poema dantesco. Senza per questo perdere di raffinatezza. Quest’idea si sposa con la riflessione sull’attualità di Dante e sul valore della tradizione – di una certa tradizione, quella, secondo le definizio-ni di Montale, realistico-metafisica – che il poeta va meditando, prima per proprio conto (Stile e tradizione, ne «Il Baretti», gen-naio 1925), poi con l’ausilio di un lettore d’eccezione come Eliot e con la frequentazione di Irma, dantista d’impostazione singleto-niana, nonché dell’amico Contini, che nel 1939 gli fa avere il suo commento alle Rime.2

Per inciso, tutte queste letture rafforzeranno la visione anti-crociana che Montale ha della Commedia, e la sua convinzione sul valore costruttivo, dinamico, della ‘fabbrica’ allegorica. Il di-scorso del 1965 per il settimo centenario della nascita di Dante, l’Esposizione sopra Dante (Firenze, 24 aprile 1965), costituirà l’e-splicitazione di un continuo confronto col modello dantesco.3

1 SMA, p. 192.2 Si veda la lettera di Montale a Contini del 21 dicembre 1939 in D. Isella (a

cura di), Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, Adelphi, Milano 1997, p. 59: «grazie del meraviglioso Dante. Sei un pozzo di scienza!!!».

3 Il discorso, che ricevette l’immediato commento di Maria Corti (M. Corti, “Esposizione sopra Dante” di Eugenio Montale, ora in Ead., Metodi e fan-tasmi, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 55-62) è conosciuto anche come Dante ieri e oggi, titolo con cui fu compreso nella silloge Sulla poesia del 1976. Si legge ora in SMP, pp. 2668-2690.

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Uno studio sull’evoluzione diacronica del dantismo nella poe-sia di Montale mostra il passaggio da un primitivo dantismo ‘to-nale’, lessicale, negli Ossi, a un vero e proprio impiego strutturale di motivi ed episodi danteschi nelle Occasioni e soprattutto nella Bufera, dove i riferimenti si fanno più insistiti ed espliciti; mentre a partire da Satura l’impiego di Dante sarà più ridotto, e spesso trattato in chiave ironico-parodica. Per questo aspetto rimando al saggio di Barański Dante and Montale: the Threads of Influence, in cui si trova anche una rassegna dei luoghi della Commedia più frequentati dal poeta.4

Mentre un altro punto mi pare necessaria premessa a uno stu-dio delle presenze dantesche: il valore eminentemente ermeneu-tico che il rimando dantesco possiede nei confronti del testo in cui è collocato. Tale appare il contributo più significativo di un altro saggio fondamentale, quello di Jacomuzzi,5 che, al di là forse di certa rigidità (Jacomuzzi parla più specificamente non di rimandi, ma di citazioni; e la definizione di metodo allegorico che teorizza per la poesia di Montale è discutibile), mostra come il dantismo si discosti dalla presenza, pur rilevante, di altri poeti (Foscolo, Leopardi, Pascoli, d’Annunzio, Gozzano…), per la sua imprescindibilità ai fini di una comprensione del testo. Il peso di Dante si misurerebbe pertanto più che sul piano stilistico (dove pure è considerevole), su quello strutturale, servendo il riferi-mento dantesco alla costruzione del testo ed essendone parte at-tiva. Di conseguenza, il riconoscimento di taluni ‘dantismi’, vale a dire di quelli funzionali (ossia il riconoscimento di un dantismo come funzionale) è fondamentale per la comprensione e l’inter-pretazione.

Ad avvalorare queste considerazioni si potrebbe aggiungere uno stralcio dell’Esposizione sopra Dante:

4 Z. Barański, Dante and Montale: the Threads of Influence, in E. Haywood, B. Jones (a cura di), Dante comparisons: comparative studies of Dante and Montale, Foscolo, Tasso, Chaucer, Petrarch, Propertius, and Catullus, Irish Academic Press, Dublin 1985, pp. 12-48.

5 A. Jacomuzzi, Alcune premesse per uno studio sul tema ‘Montale e Dante’, in S. Zennaro (a cura di), Dante nella letteratura italiana del Novecento, Atti del Convegno di studi (Roma, 1977), Bonacci, Roma 1979, pp. 217-227.

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Proprio fondandosi sulla lettera Miss Brandeis ci fa sentire quanto sia viva e concreta la presenza di Beatrice in tutto il poema e quanto siano strutturalmente necessarie le citazioni del Cantico dei Cantici, del Vangelo di San Matteo e del sesto libro dell’Eneide per rendere possibile e direi credibile l’apparizione di colei che vestita dei tre colori della fede, della speranza e della carità può sommuovere il poeta non dimentico del suo amore terrestre e fargli dire a Virgilio: «Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi: / conosco i segni dell’antica fiamma’ (Purg., xxx, 46-8).6

Il principio che soggiace alle due prospettive ermeneutiche, quella che ravvisa una necessità strutturale nelle «citazioni del Cantico dei Cantici, del Vangelo di San Matteo e del sesto libro dell’Eneide», e quella che, nei versi di Montale, riconosce la pre-gnanza, pure strutturale, del modello dantesco, è lo stesso. Nulla impedisce di pensare che questa concezione del poema, cui non è estranea una critica, appoggiata sul pensiero eliotiano, alla con-cezione crociana della ‘fabbrica’ della Commedia, possa aver im-prontato tentativi poetici ardui come quello di ‘Ezekiel saw the Wheel…’, le cui quinte simboliche non affiorano a testo, ma costi-tuiscono uno sfondo di riferimento, una coordinata per congiun-gere la poesia al filo romanzesco di Clizia.

Se The Ladder of Vision, l’opera della Brandeis cui Montale fa riferimento, è del 1960,7 la frequentazione della dantista risale, come si sa, a ben prima, agli anni 1933-1939. E l’‘idea di Dante’ in questo senso può essere altrettanto antica, visto che la si vede applicata proprio in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ Che dire poi del fatto che l’episodio citato nel discorso, quello del «conosco i se-gni dell’antica fiamma», è lo stesso che impronta i versi finali di ‘Ezekiel saw the Wheel…’? Segno che il passo dantesco – fra i più celebri, del resto, della Commedia – doveva essere ben presente e attivo nella memoria del poeta. La fiducia di Montale nell’oriz-zonte letterario condiviso col lettore è quindi, attraverso il rife-rimento testuale più o meno difficile da riconoscere, imperniata soprattutto sul testo dantesco, concepito, prima che come inar-rivabile campione letterario, come exemplum definito una volta per tutte di situazioni esistenziali legate alla vicenda di salvazio-

6 SMP, p. 2687.7 I. Brandeis, The Ladder of Vision. A Study of Dante’s Comedy, Chatto &

Windus, London 1960.

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ne-dannazione della Vita Nuova e della Commedia. Già Bonfi-glioli avvertiva tutti i limiti di una ricerca sul dantismo di Mon-tale che si soffermasse al solo livello lessicale: quello di Montale sarebbe «un dantismo assimilato senza residui, proprio perché assunto come struttura significante di un dramma moderno».8 Tale struttura è fatta poi di figure, di episodi, di ‘situazioni’. Ed è proprio sul valore situazionale del rimando dantesco che si con-centra il saggio di Blasucci Dantismo e presenze dantesche nella poesia montaliana:9 nella situazione dantesca, in sostanza negli episodi e nelle figure che si intravvedono o spiccano entro i versi di Montale (ma questo discorso vale soprattutto per la Bufera), il poeta moderno – secondo il pensiero di Montale – trova quelle «sintesi fulminee»10 di fisico e metafisico, di lettera e soprasen-so, che alla sua esistenza e di conseguenza alla sua poesia sono negate.

Sono dunque, anche quelle della Commedia, «strutture ideologiche e fantastiche di una poetica e di un tempo ai quali la realtà appariva ontologicamente significativa», come Jacomuzzi definisce quelle dello ‘stilnovismo’ fatto proprio da Montale sotto l’urgenza del «primum» esistenziale denunciato da Contini.11 Ma la Commedia, rispetto allo stesso Dante dello stilnovo, offre qualcosa di più all’uomo moderno. Il poema vige come evento irripetibile ma esemplare di una poesia a un tempo tutta terrena, legata alla storia (anzi al suo preciso momento storico) e immediatamente teologica. In questa prospettiva e con questo valore il testo della Commedia sarà attuale, conserverà il suo potere di significazione nel presente, nella misura in cui

8 P. Bonfiglioli, Dante Pascoli Montale, cit., p. 62. Un’affermazione simile, ma senza il riferimento, che noi riteniamo fondamentale, a quella «struttura significante di un dramma moderno», è contenuta nel saggio Il ‘ritorno dei morti’ da Pascoli a Montale, cit., p. 72: quello di Montale sarebbe «un caso unico (dopo il dantismo petrarchesco) di un dantismo non retorico, né esibito attraverso incastri o citazioni, ma risolto senza residui nella strut-tura del sistema linguistico»; qui anche due accenni alla sollecitazione di immagini purgatoriali (pp. 66 e 71).

9 L. Blasucci, Dantismo e presenze dantesche nella poesia montaliana, cit.10 «Dante crea gli oggetti nominandoli e le sue sintesi sono fulminee» si legge

nell’Esposizione sopra Dante (SMP, p. 2685).11 A. Jacomuzzi, Per uno studio sulla religiosità nella poesia della “Bufera e

altro”, in Id., La poesia di Montale dagli “Ossi” ai “Diari”, Einaudi, Torino 1978, pp. 34-57 (p. 47). E cfr. G. Contini, Montale e “La bufera”, cit., p. 82.

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fornirà al poeta moderno l’impalcatura di quel percorso verso il soprasenso che nella sua poesia non può essere che intenzionale, espresso sotto forma d’istanza e non di piena realizzazione; né più passibile, questo è certo, di valore esemplare.

Tali i punti più importanti in questione quando si parla di dan-tismo montaliano, e quando il discorso si concentra soprattutto sulla Bufera.

2. Una riva dantesca

Non ci piace parlare di ipotesto perché una poesia come Voce giunta con le folaghe non è un palinsesto. Come affrontare al-lora il ‘dantismo’ di questa poesia? Vorremmo parlare piuttosto di atmosfera – ciò che anche si diceva, una volta, Stimmung – e in particolare di atmosfera purgatoriale. È vero, la parola, che facilmente richiama l’idea di una critica impressionistica e tutta batticuore, gode di ben poco prestigio. Ciò non toglie, però, che le si possa recuperare valore tecnico impiegandola in maniera motivata là dove l’oggetto lo richieda. E ciò che Voce giunta con le folaghe sembra offrire al lettore quanto a sollecitazione a ri-conoscere, a condividere tratti del patrimonio e dell’esperienza dantesca, è proprio, e semplicemente, una impronta atmosfe-rica, che richiami situazioni figurative e sceniche proprie del Purgatorio: della cantica, voglio dire, e del luogo in sé, materi-camente e luministicamente connotato.12 Il riconoscimento di

12 I riferimenti a Dante nel mio testo sono in parte già segnalati, in parte nuovi. Sono, comunque, quelli soltanto che ritengo pertinenti, e legati a doppio filo col mio discorso interpretativo. Poiché di vitale ricerca del sen-so si tratta nel dialogo fra testi, quel che conta sarà sempre e comunque il discorso critico entro il quale gli accostamenti e i richiami saranno fun-zionalmente organizzati. Del resto la ricostruzione di ciò che la Romolini, nel suo commento, chiama il «fondo dantesco» della poesia è, nella storia della critica, poligenetica, e stanno a dimostrarlo i numerosi suggerimenti raccolti dalla stessa Romolini, che li vaglia con sensibilità non invasiva: M. Romolini, Commento a “La bufera e altro” di Montale, cit., pp. 291-300 (p. 293). Si vedano inoltre almeno G. Savoca, L’ombra viva della “Bufera”, in La poesia di Eugenio Montale, Atti del Convegno Internazionale, Librex, Milano 1983, pp. 385-411 (delle proposte esegetiche di questo contributo discuteremo nel prossimo capitolo), e N. Vacante, Il fantasma del padre e la memoria: “Voce giunta con le folaghe”, in Ead., Palinsesti montaliani.

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tale Stimmung purgatoriale può assumere valore ermeneutico, e mi sembra importante sottolinearlo poiché il ruolo di questa cantica potrebbe essere alquanto offuscato dalle più tipiche e appariscenti immagini montaliane di un ‘inferno terrestre’ e di una Clizia capace di contrastarlo, fissando lo sguardo contro il sole come Beatrice fa nel Paradiso. Fra i due estremi lo spazio intermedio di un Purgatorio laicizzato può aprire invece al sog-getto una terza strada più ‘umana’, rispetto a una disumanità di fatto (l’inferno terrestre, «certo» secondo uno dei mottetti) e all’incerta oltreumanità in cui la figura di Clizia tende ad allon-tanarsi.

Se la presenza del Purgatorio va registrata a livello della rifles-sione larica sul mondo dei morti e sull’arca familiare (due dei temi più rilevanti della raccolta, complementari a quello eroti-co rappresentato da Clizia o da Volpe), è anche vero che proprio grazie alla tematica schiettamente purgatoriale di un distacco dal terreno e dalla sua memoria, conseguito non per vie cruen-te, ma attraverso una meditazione e una purificazione incentrate sul proprio stesso passato, Montale cerca di integrare quella linea larica entro quella tendenzialmente universale e oltremondana esemplata nella vicenda di Clizia. È forse per questo che in poesie come Proda di Versilia, ‘Ezekiel saw the Wheel…’, Voce giunta con le folaghe, che sviluppano una serrata riflessione di questo tipo, ricorrenti sono i richiami a due zone fra le più memorabili della cantica, l’Antipurgatorio, con i suoi esempi di presa di coscienza della distanza dal terreno ma non di negazione di esso (nonché con la sua struttura opposta a quella infernale, inchiodata nell’a-trocità del distacco – e Montale pensa soprattutto alla selva dei suicidi), e il Paradiso terrestre, dove, con la comparsa del carro allegorico e la rampogna di Beatrice, avviene l’esemplare purifi-cazione di Dante dalle passioni terrene, complice anche il mito classico del Letè e dell’Eunoè.

Prima di leggere Voce giunta con le folaghe sarà perciò utile soffermarsi su un’evidente tessera dantesca introdotta da Mon-tale nella prima strofa di Proda di Versilia, che precede di poco il nostro testo nelle Silvae:

Riletture in trasparenza, Il melangolo, Genova 2006, pp. 50-75.

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I miei morti che prego perché preghino per me, per i miei vivi com’io invoco per essi non resurrezione mail compiersi di quella vita ch’ebbero inesplicata e inesplicabile, oggipiù di rado discendono dagli orizzonti aperti quando una mischia d’acque e cielo schiude finestre ai raggi della sera, – semprepiù raro, astore celestiale, un cutterbianco-alato li posa sulla rena.

A questa strofa sono già stati accostati dalla critica13 i seguenti passi del Purgatorio, fra i quali quello degli «astor celestiali» è addirittura lampante:

Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego che per me prieghi quando su sarai”.(Purg., xvi, 50-51)

Io non vidi, e però dicer non posso, come mosser gli astor celestïali…(Purg., viii, 103-104)

Luogo quest’ultimo cui si aggiunge, in una sorta di condensazio-ne d’immagini nella memoria, questo del secondo canto sempre del Purgatorio:

Poi d’ogne lato ad esso m’appario un, non sapea che, bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscio.Lo mio maestro ancor non fece motto, mentre che i primi bianchi apparser ali…[…]Da poppa stava il celestial nocchiero…(Purg, ii, 22-26 e 43)

13 Cfr. da ultimo M. Romolini, Commento a “La bufera e altro” di Montale, cit., p. 271.

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È importante riconoscere un richiamo così aperto a Dante – una vera e propria allusione – perché esso aiuta il lettore a collo-care subito la scena in un clima purgatoriale. E perché, sempre attraverso la Commedia, rafforza il nesso istituito in diacronia e a livello tematico tra questa poesia e la prima dedicata ai morti, negli Ossi del ’28, intitolata appunto I morti. Nesso che, proprio grazie al paradigma di riferimento della langue dantesca, può te-stimoniare di un’evoluzione di pensiero all’interno della stessa linea tematica. La tessera che, meno scopertamente ma con forte eco ritmica, compariva nella prima strofa de I morti, era infatti eminentemente infernale:

Il mare che si frange sull’oppostariva vi leva un nembo che spumeggia finché la piana lo riassorbe. Quivi gettammo un dì su la ferrigna costa, ansante più del pelago la nostra speranza! – e il gorgo sterile verdeggia come ai dì che ci videro fra i vivi.

Se un’espressione come «gorgo sterile» attinge, come s’è visto,14 al Pascoli dell’Ultimo viaggio di Ulisse (naufrago nello squallido mare vuoto di miti della modernità), la memoria più incisiva, tanto più sensibile in quanto ritmica oltre che lessicale, è dalla prima famosa comparazione che apre la Commedia:

E come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago alla riva si volge all’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.(Inf., i, 22-27)

È un’eco lessicale («pelago», «riva») e ritmica («uscito fuor del pelago», «ansante più del pelago»), che porta con sé il nesso «riva»:«viva» dissolto nella quasi-rima lontana «riva»:«vivi» dei Morti. E forse anche, come semantema, il motivo dell’ansito, del respiro rotto, al prendere la riva: la fisica (ma anche morale) «lena

14 Cfr. parte prima, cap. 4, par. 1.

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affannata» di Dante, la morale (ma anche fisicamente connotata) «ansante […] speranza» di Montale. È chiara l’autonomia, anche semantica, del passo dei Morti, la ricombinazione degli elementi, ma ciò che ci interessava sottolineare era l’eco così prepotente (e quindi riconoscibile) di quel luogo dantesco, eco che conferisce al testo una Stimmung, un fondale: e questo basta a sé, nella sua funzione di dotare i versi di uno spessore di lettura, d’un supple-mento di profondità nella tradizione letteraria.15 Ciò che anco-ra noteremo è come quel sostantivo «vivi», lessema veramente pieno e pregnante di Montale, resista in diacronia come resiste il rapporto di specularità fra morti e vivi. Un rapporto sempre problematico (quali i veri morti, quali i veri vivi? «chi va», e «chi resta»?) ma arricchito in Proda di Versilia del motivo, tutto pur-gatoriale, della preghiera: atto, insegna Dante, di corrispondenza attiva fra il terreno e l’ultraterreno, fra il qui e l’aldilà, e in quanto tale recepito da Montale, poiché anche in Proda di Versilia esso ha un fine, «il compiersi di quella vita ch’ebbero / inesplicata e inesplicabile».

Queste sono semplicemente suggestioni, che ci accostano però alla lettura di Voce giunta con le folaghe. Cercherò di mostrare come, pur attingendo il dantismo di questa poesia a stilemi tratti da tutte e tre le cantiche, la situazione e l’atmosfera, come anche i nessi linguistici dal più spesso valore semantico, siano prevalen-temente ‘purgatoriali’.

Ecco intanto il testo della lirica:

Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga del sentiero da capre che mi porta dove ci scioglieremo come cera,ed i giunchi fioriti non leniscono il cuorema le vermene, il sangue dei cimiteri,eccoti fuor dal buioche ti teneva, padre, erto ai barbagli, senza scialle e berretto, al sordo fremitoche annunciava nell’alba

15 Alquanto debole mi pare invece il richiamo a Purg., ii, 50 e 131 di P. De Caro, Anna e Arletta, cit., pp. 94-95, perché i due versi («ond’ei si gittar tutti in su la spiaggia», «lasciar lo canto, e gire inver la costa») sono troppo distanti e perché «costa», qui in Dante, è la costa del «santo monte», non il lido.

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chiatte di minatori dal gran caricosemisommerse, nere sull’onde alte.

L’ombra che mi accompagnaalla tua tomba, vigile,e posa sopra un’erma ed ha uno scartoaltero della fronte che le schiara gli occhi ardenti ed i duri sopracciglida un suo biocco infantile,l’ombra non ha più peso della tua da tanto seppellita, i primi raggi del giorno la trafiggono, farfalle vivaci l’attraversano, la sfiora la sensitiva e non si rattrappisce.

L’ombra fidata e il muto che risorge,quella che scorporò l’interno fuocoe colui che lunghi anni d’oltretempo(anni per me pesante) disincarnano,si scambiano parole che interitosul margine io non odo; l’una forseritroverà la forma in cui bruciavaamor di Chi la mosse e non di sé,ma l’altro sbigottisce e teme chela larva di memoria in cui si scaldaai suoi figli si spenga la nuovo balzo.

– Ho pensato per te, ho ricordatoper tutti. Ora ritorni al cielo liberoche ti tramuta. Ancora questa rupeti tenta? Sì, la bàttima è la stessa di sempre, il mare che ti univa ai miei lidi da prima che io avessi l’ali,non si dissolve. Io le rammento quellemie prode e pur son giunta con le folaghe a distaccarti dalle tue. Memorianon è peccato fin che giova. Dopoè letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sé… – Il vento del giornoconfonde l’ombra viva e l’altra ancorariluttante in un mezzo che respingele mie mani, e il respiro mi si rompenel punto dilatato, nella fossache circonda lo scatto del ricordo.

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Così si svela prima di legarsia immagini, a parole, oscuro sensoreminiscente, il vuoto inabitatoche occupammo e che attende fin ch’è tempodi colmarsi di noi, di ritrovarci…

3. I giunchi fioriti, il sangue dei cimiteri

La determinazione di luogo iniziale ha tratti figurativi scarni ma densamente simbolici. Il soggetto che parla in prima per-sona, e che percorre un sentiero che è quello della propria vita, si dichiara giunto a un punto cruciale dell’esistenza, quando la «via percorsa […] è più lunga / del sentiero da capre» che con-duce al luogo «dove ci scioglieremo» (ovvero, dove è destino che noi uomini ci scioglieremo) «come cera». Siamo ben oltre il «mezzo del cammin di nostra vita», in prossimità di una morte che non è quella dell’anima, ma quella dell’individuo in quanto tale, e vicina ormai nel tempo. Questa l’impressione che danno i primi tre versi, con quell’ipotetica dalla sfumatura temporale tipicamente montaliana, ma in cui riecheggia forse movimento dantesco del verso «si volge all’acqua perigliosa e guata» che già abbiamo visto presente alla memoria del poeta nei Morti.

«Sentiero da capre», «dove ci scioglieremo come cera» sono espressioni del linguaggio comune per cui sarebbe fuorviante, credo, ricorrere a Dante. Esse evocano con assoluta semplicità d’immagine e di linguaggio la dimensione umana, per niente compensatoria, della morte come disfacimento e fine di tutto.16

16 «Luoghi, sentieri da capre» sono quelli «impervi, scoscesi, difficilissimi da percorrere», come si legge nel Battaglia che fra gli esempi ha Giusti, «per sentieri deserti e da capre»: luoghi tali che solo una capra potrebbe inerpicarvisi, com’è sapere collettivo. Nulla toglie, è ovvio, che l’iperbo-le sia praticata nella nostra letteratura sin da Dante («lo scoglio sconcio ed erto / che sarebbe alle capre duro varco» di Inf., xix, 131-132, citato ad esempio da Savoca, L’ombra viva della “Bufera”, cit., p. 409), ma nel nostro caso sarà più pertinente rifarsi all’opera montaliana e al suo immaginario, citando, meglio che l’eliotiano «goat’s path» di A Song for Simeon, tradotto da Montale con «sentiero delle capre», la prosa del 1946 Le Cinque Terre, poi compresa in Fuori di casa: «avaro vi è lo spazio che non permette pas-seggiate se non a coloro che vogliano inerpicarsi come capre fra terrazze di vigneti digradanti verso il mare» (SMA, p. 234). Per la «cera», si suole

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Se la salita dantesca per il «santo monte» è peregrinatio verso la salvazione, verso il paradiso terrestre, quello percorso dall’uomo di Montale in Voce giunta con le folaghe è il comune cammino di ogni uomo verso l’annullamento totale della morte. Sarà forse al cospetto di un Sole o di un Dio che «ci scioglieremo come cera», ma quale Dio? Voce giunta con le folaghe non lo dice, ma certo trasmette, in quel verso, l’idea di una sorte segnata, per tutti gli uomini. Ciò che il poeta tiene a specificare è che, all’altezza dove è giunto,

i giunchi fioriti non leniscono il cuore ma le vermene, il sangue dei cimiteri.

Su questi versi vorrei soffermarmi più a lungo. Siamo in un pa-esaggio che, volendo risalire alla biografia del poeta, potremmo identificare con quello di Monterosso (il cimitero, dov’è la tomba di Domingo e Giuseppina, morti nel ’31 e nel ’42, è in cima al colle). Ma è un paesaggio che evoca anche, attraverso le parole, luoghi e passi del Purgatorio e dell’Inferno. I termini «giunchi» e «vermene», presi da soli, non sarebbero forse identificabili con sicurezza come danteschi, tanto più che, se ci accontentassimo di una ricerca meramente lessicale, li troveremmo in abbondanza anche in Pascoli e in d’Annunzio (entrambi tuttavia mediatori, seppure in maniera diversa, di certi stilemi danteschi).17 Ciò che conta, tuttavia, è l’opposizione che i versi evocano, e questa sem-bra essere di matrice dantesca. Accostati e contrapposti, i «giun-chi» e le «vermene», richiamano due paesaggi che un lettore della Commedia non può facilmente dimenticare, tanto più che

citare la «cera mortal» di Par., viii, 128.17 Per d’Annunzio cfr. A. Zollino, Riscontri dannunziani nella “Bufera” di

Montale, in «Rivista di letteratura italiana», n. 7, 1989, pp. 311-347, special-mente p. 337, dove si porta un esempio dal Novilunio, che in pochi versi ha sia «giunchi» sia «vermene» (vv. 59-62) e uno dal Forse che sì forse che no (con un rimando anche a Govoni, Canzoni a bocca chiusa, Salici rossi: «vermene sanguigne»). «Vermene» è ribadito in Novilunio e ricompare nel Commiato. In Maia era nel capitolo xi. In Pascoli «vermene» compare, ad esempio, nella Canzone dell’ulivo dei Canti di Castelvecchio (‘fonte’ dello stesso d’Annunzio); «giunco» e «giunchi» nel Torello dei Primi poemetti. Tutti questi luoghi, comunque, non implicano il fondamentale nesso op-positivo contestuale che stiamo delineando.

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il contorno verbale dei singoli termini, comunque lo si voglia in-terpretare, ne amplifica evidentemente l’opposizione («i giunchi fioriti» vs «le vermene, il sangue dei cimiteri»).18 E la derivazione dantesca mi sembra, in questi versi, oltre che diretta, insistita ed esposta. Col ‘giunco’ si pensa immediatamente ai lidi dell’Anti-purgatorio. Nelle parole di Catone:

Questa isoletta intorno ad imo ad imo là giù colà dove la batte l’onda porta de’ giunchi sovra ’l molle limo.(Purg., i, 100-102)

Versi da leggere assieme a quelli, precedenti, che motivano l’indicazione topografica di Catone:

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso, sì ch’ogni sucidume quindi stinghe. (Purg., i, 94-96)

La funzione sacrale e purificatrice del giunco, che corona il capo del pellegrino di umiltà dopo l’aspersione che lo monda dal dolore dell’inferno, è però riprodotta in Montale nel senso laico del ‘lenire il cuore’, e con un’espressione brachilogica, contenuta in un solo verso, in cui la vicenda purgatoriale è evocata per essere negata.

18 Alludo all’ambiguità della funzione sintattica di «il sangue dei cimiteri»: apposizione di «vermene», a mio parere, piuttosto che sintagma coordina-to per asindeto e dunque nuovo oggetto introdotto nella rappresentazione. Quanto alla sostanza di realtà di «vermene», non penserei tanto a un fiore o a una pianta fiorita (magari di rosso), ossia, come alcuni ritengono, a uno scambio, sia pur giustificabile lessicalmente (vedi i vocabolari, fra cui il Battaglia che è per l’equivalenza proprio in questo testo di Montale), con ‘verbene’ (il cui fiore, nella varietà di natura verbena officinalis, è peral-tro rosa pallido, non rosso); ma presterei fede all’opposizione avviata da «non giunchi fioriti», immaginando le «vermene, il sangue dei cimiteri» come macchie di sterpi ramosi, rossastri e bassi, e comunque non fioriti. Immagine tutt’altro che latrice, insomma, dell’idea di una vista dolce, con-solante come può essere quella dei «giunchi fioriti». Di qui anche l’effetto di spaesamento dell’espressione intera, che sul finale si piega al paradosso: «i giunchi fioriti non leniscono il cuore / ma le vermene, il sangue dei cimiteri».

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Per quanto riguarda l’explicit del verso, «non leniscono il cuo-re», non è forse improbabile che sulla sua costruzione (che rin-nova l’usuale ‘lenire il dolore’) agisca una memoria semantica e fonosintattica della terzina introduttiva all’ottavo canto che ab-biamo già visto esser presente a Montale almeno per la tessera degli «astor celestiali». Altra comparazione, altro luogo memo-rabile:

Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ’ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio; e lo novo peregrin d’amore punge, s’e’ ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; quand’io incominciai a render vano l’udire…(Purg., viii, 1-10)19

Una memoria si nutre spesso anche del suo contesto, e per que-sto ho citato le due terzine per esteso. Esse mostrano bene come anche sul piano microstrutturale e traslato della comparazione dantesca, semplicemente volta a enunciare le coordinate tempo-rali e atmosferiche del viaggio, agisca quel generale sentimento di nostalgia, quella figurazione estesa del distacco dalla terra e soprattutto dalla propria vita precedente (che per Dante fu vita terrena), che impronta l’intera cantica e in special modo questi primi canti. Già dal ’44 – Voce giunta con le folaghe è del ’47 – Montale poteva leggere una raffinata analisi di questa Stimmung della seconda cantica nel saggio di Attilio Momigliano sul pae-saggio della Commedia. Momigliano, che Montale stimava come «sottile commentatore di classici», intendeva richiamare la criti-ca dantesca allo studio di un elemento tutt’altro che ornamentale nell’economia scenica della Commedia: «Che cosa significhino i colloqui del poeta con le ombre, tutti sanno benissimo; non al-

19 Alla medesima sfera semantica appartiene il «non ti molceva il core» di A Sivia («non ti molceva il core / la dolce lode or delle negre chiome, / or degli sguardi innamorati e schivi»). Occorre tener presente, però, anche l’opposi-zione a distanza con la lirica A mia madre: «Ora che il coro delle coturnici / ti blandisce nel sonno eterno». La strada per cui si avventura il poeta in Voce giunta con le folaghe – lo vedremo qui e ancor meglio nel prossimo capitolo – è quella della rinuncia alla dulcedo del paesaggio fatto ricordo.

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trettanto che cosa significhi lo sfondo di quei colloqui. La descri-zione dei luoghi non è esteriore, scenografica: ferma la fantasia, ma per incatenare l’anima».20 Il paesaggio del Purgatorio ha una qualità propria data dall’«intimità» ritrovata dal pellegrino nel ri-vedere cieli e luci umane, dal senso di raccoglimento cui la natura invita col ripristinato equilibrio del susseguirsi di giorno e notte: «I particolari di quel cammino lungo strade deserte e su per salite faticose, in cospetto sempre del cielo, hanno una poesia spirituale superiore ai paesaggi, più pittoreschi e meno intimi, dell’inferno e del paradiso».21 La lettura di Momigliano, sensibile ai rapporti tonali fra paesaggio e condizione delle anime e particolarmente incline all’analisi delle sospese atmosfere purgatoriali, si espri-merà compiutamente negli anni dell’immediato dopoguerra, nel commento alla Commedia (1945-47). Si legge in una nota del se-condo canto del Purgatorio (1946): «Nel Purgatorio i sentimenti terreni impallidiscono in ricordi, svaniscono in rimorsi: e con essi ai nostri occhi si attenua in ombra il corpo che li ha albergati. Parallelamente il paesaggio, che nell’Inferno ebbe un’apparenza aspra, aggressiva, bruta, qui si cambia, e nonostante le sue erte, è fatto più di aria che di rupi».22

Nel pellegrinaggio del poeta al sepolcro del padre, tuttavia, «i giunchi fioriti non leniscono il cuore»: e qui siamo di fronte a un caso, tipico dell’impiego montaliano di immagini dantesche, non tanto di risemantizzazione o deformazione, poiché l’aspet-to figurativo è lasciato intatto, quanto di rifunzionalizzazione. L’immagine del giunco infatti, latrice del richiamo alla situazione purgatoriale, non è in sé deformata ma semmai sottoposta a una variatio minima – i giunchi sono fioriti – che non ne intacca la fe-

20 A. Momigliano, Il paesaggio della “Divina Commedia”, in Id. Dante, Man-zoni, Verga, D’Anna, Messina 1944, pp. 9-33 (p. 9). Il saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1932 negli Annali della Scuola Normale, ma dubito che Montale lo potesse conoscere da quella sede. Ad ogni modo la sua con-suetudine con la critica e coi libri di Momigliano, testimoniata da numero-si cenni nelle prose, risale al 1928, anno della recensione alle Impressioni di un lettore contemporaneo. Un ritratto dello studioso, da poco scomparso, diventa lo scritto dedicato agli Ultimi studi, del 1955, da cui proviene il giudizio sul «sottile commentatore di classici» (SMP, p. 1780).

21 A. Momigliano, Il paesaggio della “Divina Commedia”, cit., p. 17.22 D. Alighieri, La Divina Commedia, commentata da A. Momigliano, Purga-

torio, cit., p. 271 (nota a ii, 40-42).

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deltà. La rifunzionalizzazione agisce piuttosto a livello sintattico, come è tipico di Montale: una data immagine viene posta al vaglio del ragionamento e impiegata in maniera contrastiva rispetto alla personale concezione dell’universo del poeta. E secondo Montale ‘reale’ e presente su questa terra è solo l’inferno. Un inferno i cui tratti sono spesso quelli aspri e sanguigni dell’Inferno dantesco. Ancora più interessante è vedere come davvero l’intera Commedia svolga una funzione strutturante, diciamo di impalcatura, suscet-tibile comunque di tutte le possibili dislocazioni e obliterazioni all’interno di una situazione storica ed esistenziale profondamen-te mutata.

Nel sistema montaliano e nel microsistema di questa poesia sembra di poter ravvisare una contrapposizione diretta tra il luo-go purgatoriale (e forse più precisamente antipurgatoriale) della nostalgia corretta dalla speranza, e quello infernale della selva dei suicidi, in cui la condizione di distacco dell’anima dalla propria spoglia corporale è fissata per l’eternità. La parola che ci permette di istituire questo nesso è proprio «vermena».

Già nella glossa di Scartazzini e Vandelli al «giunco schietto» è istituito un parallelo col canto XIII dell’Inferno: «schietto» vuol dire «liscio e diritto; il contrario de’ rami ‘nodosi e ’nvolti’ della dolorosa selva». Lì Pier della Vigna spiegava a Dante il destino dell’anima che ha peccato contro il proprio corpo, la quale rina-scerà nella selva dolorosa sorgendo «in vermena ed in pianta sil-vestra»:

Quando si parte l’anima feroce dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, Minòs la manda alla settima foce.Cade in la selva, e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena ed in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi delle sue foglie, fanno dolore, ed al dolor fenestra.(Inf., xiii, 94-102)

Ma non solo la parola «vermene» reca memoria della situazio-ne dantesca. Il canto inizia infatti con quel medesimo modulo sintattico e argomentativo, «non … ma», che ritroviamo in Mon-

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tale in forma contratta e tuttavia potenziata ad esprimere una contrapposizione esistenziale tra spazio del dolore lenito e spazio del dolore aperto, visibile: l’espressione «il sangue dei cimiteri», che accompagna le «vermene», è fortissima (e richiama tra l’altro il sangue sparso nella selva dei suicidi). Leggiamo Dante:

Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tosco: non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che in odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi colti.(Inf., xiii, 4-9)

«Non rami schietti…». Come si vede, e come rilevano i com-menti, la contrapposizione tra i due luoghi era già implicita nel poema dantesco, ma nella teologia laica di Montale essi, col ba-gaglio figurativo che li accompagna, conquistano una posizione di primo piano. Tanto che in una poesia di Satura, L’Arno a Ro-vezzano, ricorreranno lessemi analoghi:

Solo l’ansa esitante di qualche paludosogiuncheto, qualche specchioche riluca tra folte sterpaglie e borracinapuò svelare che l’acqua come noi pensa se stessa prima di farsi vortice e rapina.

I due casi si confermano insomma a vicenda (anche se nell’Ar-no a Rovezzano non c’è struttura oppositiva), e ci fanno accorti della presenza, nella memoria letteraria montaliana, di uno spa-zio dialettico istituito fra due luoghi eminenti della Commedia, in senso tanto topografico quanto testuale.23

23 L’Arno a Rovezzano è tra le poesie di Satura che Montale ritiene, «dal punto di vista linguistico», «molto vicine alla Bufera» (dichiarazione in C. Huffman, Eugenio Montale, cit., p. 221). Il riferimento a Dante è sta-to avanzato da Barański, per il quale «the surface Montalian anthitesis between “giuncheto” and “folte sterpaglie” is also the deep Dantean one between the “giunco schietto” of Purg., i, 95 and 102 and the “aspri sterpi […] folti” of Inf., xiii, 7» (Z. Barański, Dante and Montale, cit, pp. 23-24). A me non pare di cogliere, nei versi e nel paesaggio dell’Arno a Rovezzano, quell’antitesi (che invece è forte in Voce giunta con le folaghe), mentre vi vedo il significativo ritorno di una materia lessicale dantesca pienamente

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Il ‘canto dei suicidi’ è del resto un luogo del poema dantesco le cui tracce non si fatica a ravvisare nel lessico e nell’immaginario di Montale. Il lettore della Bufera pensa subito al «bosco umano» di Personae separatae («troppo / straziato è il bosco umano») e, accanto a questa, alla poesia per la madre, A mia madre, che na-sce sollecitata dallo stesso nucleo di motivi (se tu cedi / come un’ombra la spoglia). «Bosco» è chiamata da Dante la selva dei suicidi al secondo verso del canto, ed è chiaro che tutto infernale è il sapore che distingue l’espressione «bosco umano» in Perso-nae separatae.24 Quanto a A mia madre, il sostantivo «spoglia» ha carattere tecnico e racchiude il senso dell’individualità terre-na della persona.25 Non v’è certo allusione a Dante, al verso 103 «come l’altre verrem per nostre spoglie», ma la parola si carica della stessa valenza tematica, di simbolo di una identificazione o identificabilità umana perduta (Dante) o a rischio di dissoluzione (Montale). La consuetudine di Montale con questo canto dell’In-ferno risale però agli Ossi, come mostrano almeno due luoghi. Il primo è nella strofa iniziale di Meriggiare pallido e assorto…, quella che Montale data come la più antica poesia della raccolta (1916): in «ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi» la rima è dantesca (Inf., xiii, 37-39), come anche, data la vicinanza, il vocabolo «pruni» (il «gran pruno» di Inf., xiii, 32). Ma poi, se si considera che il terzetto di rime, in Dante, era «scerpi»: «sterpi»: serpi», abbiamo Tramontana dell’Agave su lo scoglio:

è un urlo solo, un muglio di scerpate esistenze: tutto schianta l’ora che passa.

Montale attinge qui all’immagine dantesca di un bosco riso-nante di sospiri umani, e soprattutto riprende i due verbi usati

assimilata. 24 Blasucci segnala il «ricordo complessivo della foresta dei suicidi e in parti-

colare dello “strazio disonesto” lamentato dall’anima-cespuglio, Inf., xiii, v. 140» (L. Blasucci, Dantismo e presenze dantesche nella poesia montalia-na, cit., p. 79).

25 Cfr. quanto ne scrive Dante Isella nel cappello introduttivo a A mia madre, in E. Montale, Finisterre, a cura di D. Isella, cit., pp. 50-51.

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da Pier della Vigna: «Perché mi schiante? […] Perché mi scerpi?» (Inf., xiii, 33-35).

Per la verità un altro poeta aveva dato aspetto topografico al legame a distanza fra i due passi danteschi. L’Odisseo di Pascoli nell’Ultimo viaggio si muove e si orienta fra presenze vegetali che segnano una diagonale molto simile a quella montaliana, se non che il protagonista di Voce giunta con le folaghe compie un’ascen-sione, mentre Odisseo discende al mare. E nello scendere

sentiva sotto i piedinon più le foglie ma scrosciar la sabbia;né più pruni fioriti, ma vedevai giunchi scabri per i bianchi nicchi.

Esempio veramente notevole di mediazione pascoliana di un paradigma dantesco, in una memoria che riarticola, magari in-consapevolmente, tessere già scomposte e ricomposte nella tra-smissione letteraria – con quella nota in più, «fioriti», che a sua volta rientrerà nel circolo della figurazione montaliana. I versi di Pascoli, poi, terminano così:

e infine apparve avanti al mare azzurrol’Eroe vegliardo col timone in colloe la bipenne; e l’inquieto mare,mare infinito, fragoroso mare,su la duna lassù lo riconobbecol riso innumerevole dell’onde.

E forse anche qui sarà da leggere un antecedente, capovolto e contaminato col Dante più corposo, del finale di Proda di Versilia:

tempo che fu misurabilefino a che non s’aperse questo mareinfinito, di creta e di mondiglia.26

26 «Mondiglia» sta qui per ‘immondizia’, ‘pattume’, ma la parola, sia pure in altra accezione, è pronunciata da Maestro Adamo in Inf., xxx, 89-90: «m’indussero a batter li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia». Quan-to al rapporto con Pascoli, bisognerebbe forse risalire indietro fino agli Ossi – come in parte s’è fatto chiamando in causa I morti – per confrontare in maniera sistematica le discese al mare montaliane (Arsenio) e l’aprirsi del mare di fronte a occhi stupefatti (Fine dell’infanzia) con quelle che, in

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Per tornare a Voce giunta con le folaghe, si può dire che, una vol-ta tracciata la contrapposizione, fra i due litiganti vinca un terzo: quel «leniscono il cuore» che, se pure non si realizza nei «giunchi fioriti», si realizza nelle «vermene», nel «sangue dei cimiteri». La funzione paradossalmente calmante e tranquillatrice di sim-boli di dolore così apertamente manifesti meriterebbe un’analisi che qui non posso affrontare, perché implicherebbe una più vasta indagine sull’esperienza del dolore e in relazione alla memoria degli estinti in Montale. Si può però constatare che ad ogni modo è l’idea di una ‘purgazione’ – seppure svolta in modi montaliani e non danteschi – a costituire il centro di questi versi. Ancora il Purgatorio, dunque, e su un piano di situazioni.

4. Con l’ombra fidata: Beatrice e Virgilio

Dopo la comparsa dell’ombra del padre, che si staglia, nella memoria improvvisamente ravvivata, su un quadro d’Acheron-te («chiatte di minatori dal gran carico / semisommerse, nere sull’onde alte»), si svela, nella comparazione con la prima, quel-la che accompagna il poeta: «L’ombra che mi accompagna / alla tua tomba, vigile, […] l’ombra non ha più peso della tua…».27 Quest’ombra è da attribuire a Clizia, secondo l’associazione più naturale risalente alla nota di Giovanni Macchia che si univa al testo nella sua prima comparsa in rivista.28 Una Clizia, però, che se qui mantiene i tratti danteschi di novella Beatrice, non rifiu-ta quelli dell’altra memorabile guida, di Virgilio. Alludo natural-mente a un’eredità di tratti funzionali, tratti che, come vedremo, nella loro realizzazione lessicale sono da ascrivere al solo influsso del Purgatorio.

numero consistente, si trovano nei Poemi conviviali: tenendo in conside-razione non certo i valori ideologici veicolati dal testo pascoliano, ma la rappresentazione e la resa linguistica e musicale di taluni caratteri fisici e ambientali.

27 Isolato, l’incipit «L’ombra che mi accompagna» richiama quello dantesco dal movimento simile «L’ombra che s’era al Giudice raccolta…»: è l’anima di Corrado Malaspina, sempre nel canto viii del Purgatorio, e anzi pochi versi dopo (109) il verso degli «astor celestïali» (104).

28 Sull’«Immagine» del giugno 1947. Riprendo la questione a conclusione del prossimo capitolo.

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Nella seconda strofa l’attenzione al carattere evanescente dell’ombra è evidente. Oltre che inserirsi entro una linea diacro-nica di progressiva scorporazione della figura cliziana che attra-versa le Silvae, questi versi possono essere avvicinati ad analo-ghe situazioni, tipiche del Purgatorio, in cui si descrive l’effetto dell’ombra di Dante sul sentiero e sulle rupi del monte, e la paura del poeta nel credere svanita la propria guida accanto a sé («Io mi volsi da lato con paura / d’essere abbandonato, quand’io vidi / solo dinanzi a me la terra oscura», Purg., iii, 19-21), oppure lo stu-pore delle anime nell’accorgersi che i raggi del sole non attraver-sano la figura di Dante (Purg., iii, 88-93). Questo del contrasto fra il corpo vivo di Dante e l’inconsistenza delle anime dei morti è per la seconda cantica, scriveva Momigliano, «un complesso, delica-tissimo motivo poetico conduttore».29 Proprio per la massiccia presenza di contesti in cui il dato fisico acquista funzione narrati-va e persino valore spirituale, la parola ‘raggi’ (al plurale) conta il maggior numero di occorrenze nel Purgatorio, ove prevalente è il senso proprio, concreto, di ‘raggi del sole’.30 Infine, all’attenzione alla fisicità o evanescenza dei corpi si accompagna nel Purgatorio quella per l’aspetto fisico del trascorrere del tempo.

Ebbene, descrizione dell’ombra e situazione albale ricorrono anche in Voce giunta con le folaghe, e ne costituiscono, a un li-vello più che lessicale, ciò che abbiamo già indicato come l’atmo-sfera purgatoriale della poesia, un insieme cioè di caratteristiche figurative dotate anche di funzione narrativa. Si sarà poi nota-to che ci stiamo muovendo entro i primi canti del Purgatorio, e anzi mi sembra che sia in particolare l’Antipurgatorio ad agire maggiormente nella memoria montaliana, forse proprio per il forte sentimento di distacco dal terreno tipico di questi luoghi. Nei racconti delle morti cruente di Manfredi, Iacopo del Casse-ro, Bonconte da Montefeltro, tale sentimento ha peraltro ancora quei toni commisti di colori infernali che vediamo nella prima strofa di Voce giunta con le folaghe.

29 D. Alighieri, La Divina Commedia, commentata da A. Momigliano, Purga-torio, cit., p. 279 (nota a Purg., iii, 25-27).

30 Complessivamente, e considerando anche il singolare, la prevalenza spetta al Paradiso, dove al significato proprio si accompagnano però, numerosi, i vari sensi traslati. La forma «rai» è invece nella sola terza cantica.

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Ma torniamo agli attributi che si possono legare all’«ombra» di Voce giunta con le folaghe. Il lettore della Bufera sa che alcuni se-gni contraddistinguono una delle ispiratrici di questo libro, quel-la Clizia che, entro l’arco narrativo della raccolta, occupa gli spazi di maggiore evidenza e riconoscibilità. È nella Bufera che la figura lontana ma ancora terrena dell’ispiratrice delle Occasioni assurge a simbolo pieno di un sacrificio cristologico di autoannullamento per l’umanità. Ed è nella Bufera che si compie l’identificazione fra Clizia e Beatrice, coincidente a livello strutturale con la vicenda di dannazione e salvezza di matrice dantesca che si sovrappone ai frammenti sparsi del viaggio montaliano. Il richiamo a eventi e situazioni della Commedia, si è detto prima, svolge una funzio-ne strutturante, investe semanticamente il testo con cui entra in rapporto, pur rimanendo il testo dantesco distante perché legato a un’epoca ideologica dell’umanità lontanissima nel tempo: ep-pure fornisce al poeta moderno una griglia che ancora può con-sentirgli, se non la conquista di una circolazione di senso totale, la spinta verso una costellazione semantica in cui sopravvivono i residui del saldo impianto teologico, e morale-esistenziale prima che letterario, della Commedia.

La Clizia-Beatrice è, dunque, riconoscibile per il lettore di Montale da alcuni segnali che si sono via via stratificati nella sua poesia. Ne riporto i più rilevanti e noti, premettendo che al tratto angelico si può associare (con grandioso sviluppo di un motivo già dantesco) quello della durezza, del gelo e perfino della violenza (ricordiamo ancora una volta la violenza verba-le di Beatrice «superba» di fronte a Dante, nel trentesimo del Purgatorio): Clizia è messaggera che figge «il duro sguardo di cristallo» (L’orto), è «figlia del sole» (Per un ‘Omaggio a Rim-baud’), è colei sul cui «ciuffo» pendono «gli amuleti» (Il tuo volo), è «perigliosa annunziatrice dell’alba» (Giorno e notte), la donna cui «le piume sulle guance sbiancano» (Il ventaglio), che non deve scostare dalla sua «fronte puerile» la «frangia dei capelli» che la «vela» (La frangia dei capelli…). È infine la protagonista dotata di «forte imperio» de Gli orecchini. E si potrebbe procedere a ritroso. Nell’Elegia di Pico Farnese, nelle Occasioni, la donna è «messaggera accigliata». In Nuove stanze si dice che

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resiste e vince il premio della solitaria veglia chi può con te allo specchio ustorio che accieca le pedine opporre i tuoi occhi d’acciaio.

Siamo in un testo che, come ha mostrato Blasucci,31 si proietta parecchio addentro nella Bufera: e già qui il dantismo è abbastan-za evidente e si carica di una funzione strutturante, che inerisce alla vicenda salvifica tracciata dal poeta. Vien da pensare al canto primo del Paradiso, con Beatrice che, rivolta al sole tanto intensa-mente, porta il poeta a dire: «aquila sì non li s’affisse unquanco» (Par., i, 48). Subito dopo Dante, sostenuta alquanto la vista del sole, rivolge lo sguardo al volto di Beatrice:

Beatrice tutta nell’etterne rote fissa con li occhi stava; ed io in lei le luci fissi, di la sù remote.(Par., i, 64-66)

Potere di mediazione della donna che in Nuove stanze non perde nemmeno la radice fisica avanzata nei versi di Dante: essa sarà schermo, non importa se della luce divina che accieca o dello «specchio ustorio» del Male. Tale qualità squisitamente materica e figurativa, con tutte le sue implicazioni ‘scenografiche’, è la vera eredità dantesca, e impronta versi come quelli di Nuove stanze ben più che il concetto – pure splendidamente espresso da Dan-te – che «trasumanar significar per verba / non si poria» (Par., i, 70-71).

Nella nostra poesia l’ombra di lei ha

uno scartoaltero della fronte che le schiara gli occhi ardenti ed i duri sopraccigli da un suo biocco infantile.

Ricorrono le immagini già viste. Ma si pensi poi a come com-pare Beatrice nel paradiso terrestre al momento di rimproverare

31 L. Blasucci, Lettura e collocazione di “Nuove stanze”, in Id., Gli oggetti di Montale, cit., pp. 153-183.

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Dante: «superba», «proterva»; aggettivi cui si aggiunge l’«altera» del commento scartazziniano.32 E soprattutto si pensi all’aggetti-vo ‘ardente’, vero e proprio Lieblingswort dantesco registrato sol-tanto nel Purgatorio e nel Paradiso (qui in maniera massiccia), «ardente spiro», «ardente affetto», «ardente amore», «ardente Spirito», e, nell’ultimo verso del trentunesimo del Paradiso, in riferimento agli occhi di Dante, «ardenti» nella contemplazione di Maria. Il nesso fra le componenti semantiche dell’ardore e del sorriso, fusi nella rappresentazione del volto di Beatrice, dà vita a versi memorabili nel Paradiso, e a una terzina in particolare fra le più belle della cantica:

che, sorridendo, ardea negli occhi santi (Par., iii, 24);

chè dentro alli occhi suoi ardea un riso tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo della mia grazia e del mio paradiso. (Par., xv, 34-36)

Sono, diremmo, elementi di sostrato, sui quali la compene-trazione degli estremi in Montale si sviluppa liberamente: lo «scarto / altero della fronte», gli «occhi ardenti», il «biocco in-fantile». Con gli attributi di Clizia-Beatrice siamo di fronte non alla citazione, ma alla fusione di una figura nell’altra, o per dir meglio: alla costruzione, da parte di Montale, della figura di una sua propria Beatrice, al collocarsi della sua poesia entro un’orbita ritenuta potenzialmente universale, orbita tracciata una volta per tutte dalla Commedia. «Dante», si legge nell’Esposizione, «non può essere ripetuto», e la ragione è chiara: «egli resta estraneo ai nostri tempi, a una società soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge».33 Ma la sua opera può valere come polo di tensione per la poesia che si fa nel-

32 «In sembianza altera e disdegnosa» nella nota introduttiva a Par., xxx, 55-81. «Altiera e rigida» nel commento a «proterva» («regalmente nell’at-to ancor proterva», v. 70). «Superba» appare la madre al figlio quando lo riprende: «Così la madre al figlio par superba, / com’ella parve a me» (vv. 79-80).

33 SMP, p. 2689.

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la modernità. È accaduto al Pound dei Cantos, «tentativo di porre mano a un poema totale dell’esperienza storica dell’uomo», an-che se Pound, poi, si è guardato bene dall’«imitare le simmetrie e la rigorosa struttura della Commedia»: «i Cantos contengono tutto lo scibile di un mondo in disfacimento e in essi il senso del carpet domina su quello di una costruzione, di un avvicinamento a un centro».34 È accaduto a chi, su Dante, aveva scritto quel sag-gio da cui Montale mutua la metafora del carpet, a Eliot che con The Waste Land ottiene l’esito artistico di un «concentratissimo inferno post-simbolista e quasi cubista».35

In Voce giunta con le folaghe è nella seconda strofa che la sotto-lineatura dell’evanescenza dell’ombra accompagnatrice e i tratti stessi che le sono attribuiti in quanto guida «fidata» e «vigile» ci fanno pensare a Virgilio.

Il processo che lega l’ombra di Voce giunta con le folaghe a Virgi-lio è lo stesso che la lega a Beatrice. Con la differenza che il legame col Virgilio personaggio in Dante si presenta in una forma circo-scritta a questa sola poesia, senza cioè implicazioni costruttive di tipo ‘romanzesco’ (posto che quello di Clizia sia, almeno fra le Oc-casioni e la Bufera e in maniera sussultoria, un filo romanzesco). Non ne ricaveremo per questo un’idea di marginalità, ma anzi un argomento in più a sottolineare l’intensità, lo spessore del ruolo di guida assegnato all’ombra accompagnatrice in questa poesia, se la composizione della sua evanescente figura si vale, eccezional-mente, di elementi e caratteri non di uno, ma di due personaggi danteschi, e appunto dei co-protagonisti con Dante. D’altra parte, se avviene una fusione dell’ombra montaliana con le due principali guide della Commedia, ancora una volta registreremo che gli spun-ti memoriali provengono in particolare da canti del Purgatorio, canti che oramai ci sono familiari. Nell’ottavo, quello degli «astor celestïali», Dante si accosta alle «fidate spalle» di Virgilio:

Ond’io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto m’accostai, tutto gelato, alle fidate spalle. (Purg., viii, 40-42)

34 SMP, p. 2688.35 SMP, p. 2689.

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Ma già in principio del terzo si leggeva:

Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga,i’ mi ristrinsi alla fida compagna…(Purg., iii, 1-4)

Passi da confrontare con le aperture della seconda e della terza strofa di Voce giunta con le folaghe:

L’ombra che mi accompagna… L’ombra fidata…

È chiaro che sin dall’Inferno Virgilio si presenta come «savio duca».36 Tuttavia l’aggettivo ‘fido’ gli è assegnato soltanto nella se-conda cantica, ricoprendo qui tre delle sette occorrenze comples-sive nella Commedia.37 «Fidate» è addirittura hapax legomenon, e unica occorrenza del participio passato di ‘fidare’ nel poema.38 Tutto il periglioso cammino infernale, tutta la cantica precedente sta a prova dell’affidabilità di Virgilio, del legame di fiducia che vige tra i due, e ora Dante, uscito a riveder le stelle, può dirlo pie-namente. Occorre soffermarsi su questo tratto della Clizia ‘virgi-liana’, e sulla sua derivazione specifica dal Purgatorio, perché te-stimonia un nesso che va più in profondità di quello aggettivale: è infatti nel Purgatorio, e non nell’Inferno, che Virgilio è nuovo al luogo al pari di Dante, ed è tratto eminentemente purgatoria-le che la sorte del guidato sia incerta tanto quanto quella della sua guida, sebbene questa sia maggiormente illuminata. Dal che deriva un maggiore accento sul tema della fiducia. All’ombra di

36 Inf., iv, 149. Il sintagma ricorre ancora in Purg., xxi, 76 e xxvii, 41.37 Le altre due occorrenze nel Purgatorio sono: «la scorta mia saputa e fida»

(xvi, 8) e i «passi fidi / del mio maestro» (xvii, 10-11), di cui andrà notata la prossimità reciproca e, assieme all’altra occorrenza (iii, 4), l’appartenen-za ai primi versi di ciascun canto. Nell’Inferno Nesso è «scorta fida» dei due poeti (xii, 100), mentre l’Ida è «cuna fida» di Giove (xiv, 100). Meno esposte, perché non legate a sintagma nominale, le due occorrenze nel Paradiso (xi, 34 e xv, 131).

38 Il richiamo a «fidate spalle» è già in G. Savoca, L’ombra viva della “Bufera”, cit., p. 391.

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Voce giunta con le folaghe questa sfumatura poteva venire soltan-to dal Virgilio del Purgatorio.

Qui il poeta latino manifesta appieno (siamo ancora nel can-to terzo) la distanza che lo separa ormai dalla terra, e ciò pro-prio quando deve motivare l’inconsistenza fisica della propria persona, che non fa ombra al contrario del corpo di Dante. La figura di Virgilio, inoltre, e non quella di Beatrice, poteva cedere a Clizia il senso profondo di una morte accettata, lontana. Vir-gilio dice:

Vespero è già colà dov’è sepolto lo corpo dentro al qual io facea ombra: Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto. (Purg., iii, 25-27)

E Montale:

l’ombra non ha più peso della tua da tanto seppellita…

Molto simile l’intonazione didascalica, e simile forse la sfu-matura di nostalgia, espressa in Dante nel turbamento di Vir-gilio che china la fronte, e in Montale in una sorta di trafila di correlativi oggettivi dell’evanescenza (e si noti il tono meditati-vo rotto da sussulti fonici nelle sillabe toniche in i e dagli enjam-bements):

…i primi raggidel giorno la trafiggono, farfalle vivaci l’attraversano, la sfiorala sensitiva e non si rattrappisce.

In questi versi ritroviamo, del resto, quella sensibilità mate-rica, luministica e temporale così spiccata in Voce giunta con le folaghe, che ne compone l’ambiente fisico. Tutte le sfumature d’immaterialità dell’incontro non avrebbero luogo senza i dati minimi eppure decisivi di questo scenario. In questo senso il nesso «primi raggi» acquista rilievo e funzione che non esite-remmo a definire danteschi. Per giunta, seppur usuale e di fatto già impiegato dallo stesso Montale (in Fuscello teso dal muro…

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negli Ossi: «un velo […] pende / dalla tua cima e risplende / ai primi raggi»), esso compare ancora nel Purgatorio, al primo ver-so del canto ventisettesimo: «Sì come quando i primi raggi vibra [il sole]».39

5. Figure in scena

A partire dalla terza strofa, una volta che il quadro, di ascen-denza purgatoriale come abbiamo visto, è stato delineato (situa-zione albale, pellegrinaggio, temi dell’ombra, del distacco e della nostalgia, cui si aggiunge la contaminazione tutta montaliana di un inferno terreno), la narrazione si sviluppa piana e con movi-mento oscillante dalla figura della donna a quella del padre. Le istanze recate dai due personaggi, per Clizia la scorporazione e il rivolgimento all’oltrecielo, per il padre l’attaccamento alla me-moria della terra, sono messe in scena in un dialogo che il poeta «interito sul margine» non ode ma che può ipotizzare, in una fictio che si ripiega su se stessa nell’enunciazione di due poli con-cettuali e lirici in conflitto: l’attrazione verso le sfere di un divino identificabile ormai soltanto con il vuoto e l’annullamento, ep-pure paradossalmente salvifico, e il legame larico alla terra e alla propria esistenza individuata, vissuta:

l’una forse ritroverà la forma in cui bruciava amor di Chi la mosse e non di sé

39 Quanto alla «sensitiva» – la mimosa pudica resa celebre dal poemetto di Shelley – sarebbe arduo per un botanico immaginarla nativa lungo il «sen-tiero da capre». Raffaello Piccoli, che nel ’25 tradusse The Sensitive Plant (con La maga dell’Atlante e Adonais) annota: «la Sensitiva è la Mimosa pudica, Linn., pianta erbacea importata nei nostri giardini dalle Antille. Le sue foglie, com’è noto, si richiudono al più lieve tocco, o quando viene a mancare la luce del giorno» (P. B. Shelley, Poemetti. La sensitiva, La maga dell’Atlante, Adonais, a cura di R. Piccoli, Firenze, Sansoni, 1925, p. 127; è noto che il primo traduttore italiano fu Adolfo de Bosis). Ora è chiaro che il poeta – almeno in questo caso – non è un botanico, né deve diventarlo il critico; ed è altrettanto chiara la ragione per cui la sensitiva sia chiamata a sigillare la strofa, a sigillare cioè la serie dei dati visivi e naturali che fanno dell’«ombra che mi accompagna» la più lieve e immateriale delle presenze.

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(perifrasi, quest’ultima, dalle movenze ancora dantesche, cfr. Inf., ii, 72: «amor mi mosse, che mi fa parlare», dice a Virgilio Beatrice, il cui nome compare qui per la prima volta nel poema),

ma l’altro sbigottisce e teme che la larva di memoria in cui si scaldaai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

Versi questi ultimi, riferiti al padre, di difficile interpretazione anche letterale. Si potrebbe pensare che sia la memoria che i figli hanno del padre a mantenere foscolianamente in vita il padre stes-so. Ma forse corrisponde di più alla dinamica della poesia e all’idea espressa nella coeva prosa Sul limite supporre che a mantenere in vita il defunto sia la memoria che egli conserva della terra e di ciò che vi ha lasciato.40 Se ripensiamo a I Morti, la sofferenza di questi era data dal fatto che la morte rendeva incompiuta, «inesplicata e inesplicabile» come dirà Proda di Versilia, la loro vita: da ciò l’af-fannoso ritorno ai propri lidi che avveniva in quella poesia, e che ancora avviene, sebbene con una minore carica di angoscia e «più di rado», in Proda di Versilia, nel mondo postbellico e deliricizzato in cui «astore celestiale», divino traghettatore su «vasello snelletto e leggiero» può essere anche un «cutter bianco-alato».

Ma appunto, s’è già detto, la novità di Proda di Versilia (e in ge-nerale, come notava per primo Contini, della Bufera) è l’assoluta permeabilità tra le due dimensioni, tra quella dei morti e quella dei vivi, tanto che la preghiera – altro motivo purgatoriale – può essere reciproca. Lontane dimensioni tuttavia, sempre da ricu-perare l’una all’altra nello spazio e nel tempo, secondo una tem-poralizzazione e fisicizzazione della distanza che sortisce effetti spiccatamente narrativi tanto nelle grandi liriche della Bufera (si pensi anche a L’orto) quanto nei racconti memoriali (La casa del-le due palme ad esempio). Anche quando cercata dal protagoni-sta, come ne La donna barbuta, la giustapposizione, la coinciden-za di presente e passato sortisce sempre un effetto sconcertante, «pazzesco»: le coordinate esistenziali entrano in corto circuito. È quello che abbiamo visto accadere, in maniera anche più intensa,

40 Sul limite (PR, pp. 187-192) apparve sul «Corriere della Sera» dell’11 agosto 1946 e fu incluso nella seconda edizione di Farfalla di Dinard (1960). Vi torneremo nel prossimo capitolo.

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in ‘Ezekiel saw the Wheel…’ (ma si pensi anche a Da una torre). Esperienze analoghe conosceva già il lettore delle Occasioni, in Punta del Mesco, ne L’estate o ne Il ritorno (aggiunta nell’edizione del ’40), tutte legate, a quanto pare, alla figura di Arletta. Ma c’è nelle poesie e nei racconti della seconda metà degli anni ’40 un’e-splorazione sistematica dei meccanismi, della fenomenologia di tali ‘ritorni’ e brucianti avvicinamenti, che meriterebbe di essere approfondita, anche in parte come preludio e primo esercizio del pensiero paradossale che impronterà taluni ‘ragionamenti in ver-si’ della successiva produzione di Montale.

Anche in Voce giunta con le folaghe si esprime un’idea nuova per la lirica di Montale: quella che dimenticare ciò che si è stati in vita comporti per i morti sì una sorta di perdita di spessore, ma con una conquista di quiete, di vicinanza a una sfera superiore, quella indicata da Clizia con la sua dinamica attiva («quella che scorporò l’interno fuoco»), contro la dinamica passiva del padre («colui che lunghi anni d’oltretempo / […] disincarnano») – il tutto da leggere però alla luce di quel «forse», tipico di Montale e di ogni sua meditazione in versi o in prosa, che mitiga in questo caso la perentorietà del futuro («l’una forse ritroverà»).41

In Sul limite l’abbandono del ricordo terreno implica il passaggio a un’altra «Zona», più eterea, un vero e proprio balzo come quello che qui si prospetta al padre. Il fatto che qui tale balzo, tale distacco dalla terra, sia inteso positivamente, lascia pensare che la rifles-sione sulla memoria si sia in questa poesia ulteriormente evoluta rispetto a un altro testo chiave, A mia madre, dove è il «gesto» indi-viduato, la voce propria della madre che, con le parole di Montale,

ti pone nell’elisofolto d’anime e voci in cui tu vivi.

La svolta di Voce giunta con le folaghe, poesia postbellica, di un tempo in cui al mare antico dell’infanzia si è sostituito, come recita Proda di Versilia, «questo mare / infinito, di creta e di mon-diglia», risiede in questa nuova visione del valore della perdita, e

41 «Futuro escatologico o apocalittico» definisce Blasucci il tempo verbale che ricorre nella Bufera, distinto dal «futuro esistenziale» degli Ossi di sep-pia e dall’attimalità delle Occasioni: L. Blasucci, Percorso di un tema mon-taliano: il tempo, in Id., Gli oggetti di Montale, cit., pp. 87-111 (pp. 104-105).

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non del mantenimento, della memoria. Ma tale valore può esse-re conquistato soltanto a patto che vi sia un garante: e il garante è Clizia-Beatrice, la stessa Beatrice che nel Purgatorio confessa Dante liberandolo dal peccato dell’attaccamento a immagini di bellezza terrestre, prima di farlo purificare della stessa memoria del peccato nel Letè. E che questo episodio fosse ben presente a Montale lo abbiamo visto in ‘Ezekiel saw the Wheel…’, in cui il riconoscimento, nella filigrana del testo, della presenza di una Clizia-Beatrice che giunge a strappare il poeta dall’atavica memo-ria del primo amore, Arletta, è chiave indispensabile per coglier-ne il messaggio. La dinamica ancora tutta personale e viscerale di questa poesia trova, in Voce giunta con le folaghe, un più ampio respiro e una certa sicurezza sapienziale, espressa dalla sententia messa in bocca a Clizia, che «memoria / non è peccato fin che giova». A chi sono rivolte queste parole e quelle che le precedono nella terza strofa, «Ho pensato per te, ho ricordato per tutti», ecc.? Al padre, certo («ora ritorni al cielo libero / che ti tramuta»), ma attraverso di lui al figlio.42 La fictio in cui la figura del padre può riemergere dal buio è infatti, sul piano della meditazione esisten-ziale del poeta, lo spazio in cui il soggetto vivente può mettere in scena, e giustificare, l’abbandono del legame immobilizzante con la propria memoria, anche se non della memoria tout court come effettiva realtà di ciò che è stato (anche Dante si immerge, dopo che nel Letè, nell’Eunoè). Come dice la voce:

Io le rammento quelle mie prode e pur son giunta con le folaghe a distaccarti dalle tue. Memorianon è peccato fin che giova. Dopo è letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sé…

È peraltro in questi versi un ulteriore ‘segnale’ che ci permette di attribuire le parole qui pronunciate al personaggio che brevemente

42 I versi «ora ritorni al cielo libero / che ti tramuta» conservano forse un’eco del dantesco «non so che divino / che vi trasmuta», riferito alla trasfigu-razione che l’aspetto dei beati riceve in Paradiso («Ne’ mirabili aspetti / vostri risplende non so che divino / che vi trasmuta da’ primi concetti», Par., iii, 58-60).

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designiamo col nome Clizia. Più avanti nelle Silvae, ne L’ombra del-la magnolia…, il poeta enuncerà in termini analoghi l’ossimorica virtù di lei, stavolta nominata esplicitamente come «Clizia»:

te consunta dal sole e radicata, e pure morbidacesena che sorvoli alta le freddebanchine del tuo fiume.

Il ricorso al medesimo nesso coordinativo con valore avversa-tivo concessivo, «e pur(e)», ribadisce la qualità che contraddi-stingue Clizia, di conservare la fedeltà al proprio solco esisten-ziale, e insieme di spendersi per gli altri uomini, secondo una paradossale giustapposizione di due figure tra loro contrastanti, l’eliotropio e la cesena, in cui esplicitamente il poeta ravvisa una figura del Cristo. Ma stavolta – rispetto alle anteriori emergenze d’una analoga simbologia – per deporre le armi: non quelle della fede nella possibilità di quella vicenda esistenziale-metafisica, di quel significato, ma le armi dell’adesione poetica e stilistica alla sua rappresentazione e narrazione. Non solo. Come figura Chri-sti Clizia è anche, anzi è soprattutto, umana: se è «consunta dal sole» è anche «radicata» (per questo si tratta di fedeltà al proprio destino, non solo al proprio Dio). In questo senso il parallelo con L’ombra della magnolia… è doppiamente significativo, perché il radicamento del girasole corrisponde al legame della folaga con le sue «prode». La folaga le «conosce», eppure attraversa la lun-ga distanza, giunge al padre per ‘liberarlo’ dalle sue, ed è questo l’atto che la pone sopra il resto degli uomini, che dà alla sua voce l’autorità del messaggio universale.43

43 Anche a me, con la Romolini, piacerebbe immaginare la folaga di Voce giunta con le folaghe non come la nostra fulica atra, ma come la fulica americana, «che in eccezionali casi è capace di coprire lunghe distanze, attraversando anche l’Oceano Atlantico fino all’Europa» (M. Romolini, Commento a “La bufera e altro” di Montale, cit., p. 299). Sarebbe l’ogget-to di realtà che meglio si sposerebbe con la simbologia di Clizia e con la sostanziale eccezionalità dell’evento rappresentato nella poesia («Io le rammento quelle / mie prode e pur son giunta con le folaghe / a distac-carti dalle tue»). L’interpretazione di un testo non è a compartimenti sta-gni e ciò che i linguisti chiamano l’enciclopedia fornirebbe in questo caso sensi interessanti al testo. Ma per rispondere a certe domande (Montale conosceva la fulica americana? Vi furono avvistamenti di questa specie in

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Quanto alla rappresentazione narrativa di una meditazione tutta interna al soggetto, occorrerà non dimenticare la prossimità cronologica di racconti già citati come Sul limite, La casa delle due palme, La donna barbuta, cui si può aggiungere Il pipistrello, il perturbante racconto di un ‘ritorno’ del padre in forma di pipi-strello.44 Tale prossimità non è solo cronologica, ma intimamen-te tecnica: la narrazione, la ‘finzione’ con tutte le sue possibilità concettuali, è una risorsa anche per la poesia e Voce giunta con le folaghe ne è la prova. In questo senso esplorare la vocazione al racconto di liriche come L’orto o Proda di Versilia (ma anche un pezzo fulminante come ‘Ezekiel saw the Wheel…’, abbiamo visto, presuppone una stratificazione di tempi narrativi) potrebbe esse-re compito nuovo e non privo di sorprese per la critica montalia-na. Per parte loro le prose aprono dimensioni nuove sulle poesie non solo in quanto ne illuminano talune ambiguità o contrazioni figurative, desublimandole e svelandone magari il referente di realtà (ma la critica, eludendo la sirena dell’esplicazione testo-testo o, peggio, testo-referente, si concentrerà sul meccanismo in sé), ma anche perché la ‘meditazione’ che in esse s’esprime, dele-gata com’è a terzi, cioè ai personaggi (più o meno riconducibili al sostrato biografico), s’inoltra in situazioni che sono, quanto più

Europa, in Italia, negli anni dell’immediato dopoguerra?) occorrerebbero fonti, che purtroppo non ho trovato. Resta interessante comunque, anche a livello metodologico, il corto circuito fra testo e dato di realtà.

44 Vi si può associare una lettera a Irma del 23 ottobre 1935, in cui si legge di ritorni del padre «from ghosts’ reign in shape of pigeon and cut tailed cat» (E. Montale, Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti, F. Zabagli, Mondadori, Milano 2006, p. 184). Non è rara, nelle Lettere a Clizia, la pre-senza di racconti in nuce (‘motivi’ che Montale donava alla stessa Irma per i suoi racconti), o riflessioni che si ritroveranno nella Farfalla di Dinard. Ecco una lettera da Monterosso del 7 settembre 1938 (ivi, p. 237): «sono qui a risa-lutare mia madre, ormai vecchia di 76 anni e poco riconoscibile. Questa è la villa dove sono nati i cuttle fish bones», «una pagoda a tre piani con grandi palme davanti, un giardino in decadenza e un orto» («pagoda», come ne La casa delle due palme: certi termini appartengano a un idioletto ben saldo). «È un luogo bellissimo, ma ormai per me non sa che di putredine e mi fa misurare meglio i pochi passi che ho fatti da allora e quelli che devo ancora fare per essere solamente me stesso, senza più contatti con un passato che non mi appartiene» (da confrontare con l’«assidua e involontaria opera di sradicamento» di cui si parla nella Casa delle due palme, PR, p. 40).

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paradossali, tanto più esplicitamente formulate e quindi afferra-bili nel loro meccanismo cognitivo.45

6. Sul margine

La nostra lettura si avvarrà di un ulteriore ausilio se osserverà, in Dante, un passo in cui il ductus sintattico si avvicina a quello dei seguenti versi di Voce giunta con le folaghe:

teme che la larva di memoria in cui si scalda ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

La «larva di memoria» coincide, in forma minimale, con quell’«interno fuoco» che Clizia, figura esemplare, ha scorporato per ritrovare – «forse» – «la forma in cui bruciava / amor di Chi la mosse e non di sé». Ora, se si legge un altro episodio memorabile del Purgatorio, quello dell’abbraccio fra le ombre di Stazio e Vir-gilio, abbraccio impossibile, si ritrova un’immagine simile:

Già s’inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: “Frate, non far, chè tu se’ ombra e ombra vedi”.Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate comprender dell’amor ch’a te mi scalda, quand’io dismento nostra vanitatetrattando l’ombre come cosa salda”.(Purg., xxi, 130-136)

«L’amor ch’a te mi scalda» è l’amore che infiamma Stazio per Virgilio. Il senso, rispetto al passo montaliano, è certo diverso, ma la struttura sintattica è molto vicina.46 Se si pone amore = fuoco (il fuoco che mi scalda per te), e «interno fuoco» = «larva di memo-

45 Attenzione costante ai rapporti col versante poetico e alla fenomenologia dei di-versi contesti di genere mostra la cura di Niccolò Scaffai alla silloge di Prose narra-tive: E. Montale, Prose narrative, a cura di N. Scaffai, Mondadori, Milano 2008.

46 Naturalmente, diverso è il valore semantico della preposizione «a» nei due passi. In Dante esprime un complemento di relazione (‘per te, verso di te’); in Montale una versione metaforizzata, figurata, dell’immagine dello scal-darsi alla fiamma.

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ria» (che qui è amor di sé, da superare), si comprende la dinamica per cui, entro la «larva di memoria» (che è memoria per la vita perduta), il padre «si scalda» (qui il verbo è reso riflessivo) «ai suoi figli», ovvero all’immagine più forte della propria presenza sulla terra (naturalmente con innegabile sfumatura foscoliana di «corrispondenza d’amorosi sensi»).

Ma ciò che occorre sottolineare, ancora una volta, è il contri-buto funzionale della situazione scenica. Le scene dell’abbraccio negato dalla sostanza delle ombre, tanto quello tra Stazio e Vir-gilio quanto quello, forse ancora più memorabile, fra Dante e Ca-sella, dato estremamente toccante e tipico del Purgatorio, agisco-no cioè come motivo poetico e non come mero tesoro lessicale. Giungiamo così all’ultima strofa:

Il vento del giorno confonde l’ombra viva e l’altra ancora riluttante in un mezzo che respingele mie mani…

Anche qui abbiamo un abbraccio mancato, o meglio, se la scena dantesca subisce una riduzione ed essenzializzazione dei dati figu-rativi, un ‘contatto’ mancato. Ancora soccorre una spia dantesca, quel «mezzo» del primo canto del Purgatorio, che l’edizione Scar-tazzini-Vandelli commenta: «qui aria; ma in genere è il nome del fluido in cui vivono i corpi». Il sostantivo ‘mezzo’ in tale accezione compare per la prima volta in questo punto della Commedia:47

Dolce color d’orïental zaffiro, che s’accogliea nel sereno aspetto del mezzo, puro insino al primo giro… (Purg., i, 13-15)48

Memoria di questi versi era già in Dora Markus I, dove della terzina dantesca è l’eco atmosferica dei tratti semantici predo-minanti, la dolcezza, l’oriente, un certo senso di preziosità di cui risente forse il verbo scelto da Montale:

47 Nel Purgatorio ricorre anche in xxix, 45. Nel Paradiso tre volte.48 La terzina basta a sé come cellula d’immagini e motore di memoria (lette-

raria). Ma si può aggiungere la ripresa lessicale di qualche verso dopo: «Lo bel pianeta che d’amar conforta / faceva tutto rider l’orïente» (vv. 19-20).

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E qui dove un’antica vita si screzia in una dolce ansietà d’Oriente…

In Due nel crepuscolo, poesia che risale al ’26 e ripescata, dice Montale, dal «vecchio quaderno dove ho ritrovato, anni fa, Dora Markus» (fu pubblicata soltanto nel ’43 in rivista, per poi entrare nella seconda edizione di Finisterre e quindi nella Bufera), incon-triamo la parola «mezzo» in un senso molto simile a quello di Voce giunta con le folaghe.49 E ha senso attivo e quasi consistenza materi-ca, tanto è vero che, con costruzione analoga a quella di Voce giunta con le folaghe, è soggetto di un’azione espressa con la relativa:

Sta in un fondo sfuggevole, recisoDa te ogni gesto tuo; entra senz’orma,e sparisce, nel mezzo che ricolmaogni solco e si chiude sul tuo passo…

E veramente, per chiosare il termine in questo contesto, si po-trebbero usare le parole del commento dantesco: il «fluido in cui vivono i corpi».

Ancora una volta dunque una memoria di Dante, e nella fatti-specie del Purgatorio (e mi riferisco, più che alla parola «mezzo», al motivo dell’abbraccio frustrato) contribuisce in maniera molto discreta a una figurazione che è, e resta, originalmente montalia-na. Anche «punto», «fossa», e il precedente «balzo», sono parole eminentemente dantesche (e attraverso Dante dannunziane: la «Fossa fuia»). Ma sono diventate anche eminentemente monta-liane, sicché i versi «nel punto dilatato, nella fossa / che circonda lo scatto del ricordo», possono facilmente trovare una colloca-zione paradigmatica all’interno del sistema intratestuale di Mon-tale. Questa così stretta compenetrazione linguistica e fra i due poeti è uno dei fattori, forse, che più si oppongono alla stesura di un regesto completo dei dantismi nell’opera di Montale. Il danti-smo diffuso, cioè, prevale su quello puntuale.

49 La frase di Montale proviene dalla nota che accompagnava la poesia in «Primato» (15 maggio 1943). Una lettera di Montale del 7 maggio 1943 avvertiva Contini che nella rivista avrebbe letto «un pendant di Dora Markus». La parola «mezzo», compare già nel primo abbozzo della poesia, sebbene con diversa collocazione. Cfr. OV, pp. 951 e 954.

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Ma per concludere la lettura di questo testo, c’è da dire che la direzione che esso prende negli ultimi versi, oltre a presentarci uno dei momenti più ermetici ed enigmatici della poesia monta-liana, si presenta, sul piano del contenuto, come profondamente antidantesca. Anziché il ritorno a Dio, quella tensione della res al creatore illustrata nel discorso di Virgilio sull’amore, per cui, con le parole di Piccarda (Par., iii, 86-87), la volontà di Dio è «quel mare al qual tutto si move / ciò ch’ella cria e che natura face» – anziché questo c’è in Montale il ritorno a quel

vuoto inabitato che occupammo e che attende fin ch’è tempo di colmarsi di noi, di ritrovarci…

Tale «oscuro senso reminiscente» è la vera scoperta della po-esia, è la scoperta attimale di quella dimensione, di quel «pun-to dilatato», che è margine e sfondo dell’emergere di immagini e parole. Ovvero di ciò che è stata la fictio stessa della poesia, la riemersione alla memoria della figura del padre. Al di là della me-moria, come, sul piano esistenziale, al di là dell’individuazione del soggetto in immagini e parole, c’è, e l’io può afferrarlo proprio scomponendo la dinamica del ricordo, quel vuoto che è origine e fine dell’arco vitale degli uomini. Ma – e qui ci accorgiamo di come la via percorsa da Montale non sia quella di un nichilismo assoluto – tale vuoto è comunque un «senso», sebbene «oscuro».50 E a questa sorta di fiducia espressa tra le pieghe del verso e affi-data al destino di Clizia non credo sia estranea, in Montale, la convinzione che quell’immagine di un universo compiuto in Dio, forgiata da un uomo una volta per tutte nella Commedia, continui ad operare come possibilità minima di una struttura di senso, e come prova della sua esistenza.

50 E «reminiscente». Già Macrì (O. Macrì, Esegesi del terzo libro di Montale, cit., p. 148) parlava di «anamnesi platonica», motivo su cui torneremo nel prossimo capitolo con nuovi argomenti. Si tratta ad ogni modo – questo va anticipato – di una anamnesi sui generis, secondo una reinterpretazione li-bera (fatto non raro in Montale) delle idee e delle formule della filosofia. In un’analisi dei valori figurativi della lirica, però, ciò che non si può omettere di sottolineare è l’effetto iconico, e dinamico, del participio, invenzione montaliana che riveste di senso fisico il concetto di ‘reminiscenza’ a partire dalla concretezza sillabica della parola.

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3.MONTALE E IL FEDONE

L’ora in cui il protagonista di Voce giunta con le folaghe ha la visione del «vuoto inabitato / che occupammo e che attende fin ch’è tempo / di colmarsi di noi, di ritrovarci…» è forse la stessa che Álvaro de Campos, uno degli alter ego di Pessoa, immagina «mística e espiritual e antiqíssima», quell’ora

em que talvez, há muito mais tempo do que parece,Platão, sonhando, viu a ideia de DeusEsculpir corpo e existência nitidamente plausível Dentro do seu pensamento exteriorizado como um campo.1

Certo il poeta che «tardo di mente, piagato dal pungente giaci-glio» ancora sogna il sogno di Lei non poteva, non potrà riavere la plastica visione di Platone, o del Dante della Commedia. Ma lo leggeva, Platone: leggeva negli anni del secondo dopoguerra quello che è forse il più bello dei suoi dialoghi, il Fedone.

Un interprete moderno ragionava così sul problema di fondo del dialogo: «L’uomo non vuole, per se stesso non vuole e per i suoi morti sopra tutto, che sia distrutta la sua personale indivi-dualità: pensare che essa possa riassorbirsi nella totalità inde-terminata dello spirito, è come rinunziare al proprio essere, è come pensare questo essere proprio e di tutti coloro che amam-mo annullato per sempre nell’oscuro non essere». Ma come si vince quel dubbio, di un oscuro non essere che ci inghiotte? E

1 Dal secondo dei Dois excertos de odes (fins de duas odes, naturalmente) datati 30 giugno 1914. Nella traduzione di Antonio Tabucchi: «quest’ora in cui forse, molto prima di quanto si creda, / Platone vide in sogno l’idea di Dio / che scolpiva corpo ed esistenza nitidamente plausibili / nel suo pensiero esteriorizzato come un campo» (F. Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, a cura di M. J. De Lancastre, traduzione di A. Tabucchi, Adelphi, Milano 1993, pp. 64-65).

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se anche c’è un essere pieno, che tutto comprende, e noi ad esso torniamo, è un perdere pieni noi stessi? È anche questo, di nuo-vo, quel non essere? Il Fedone, il dialogo dell’immortalità dell’a-nima, si chiude nel «vivo dramma» di Socrate, il filosofo «che muore con serena letizia». E anche il suo problema centrale, se l’immortalità sia da concepire come universale o individuale, «non si risolve se non nella concretezza viva di questo dramma che è il germe fecondatore, il motivo di coesione e di coerenza di tutto il dialogo». «Non riesco, o amici, a persuadere Critone che il vero Socrate è questo qui che ora sta ragionando con voi e ordina una per una tutte le cose che dice; ed egli invece séguita a credere ch’io sia quello che tra poco vedrà cadavere, e natural-mente, mi domanda come ha da seppellirmi». Ma il fanciullo che è dentro noi, che teme la morte e teme di disperdersi con la fine del proprio corpo, a quel fanciullo va fatto un «incantesi-mo». La ragione lo deve persuadere che una vita ha senso solo se a quella morte si prepara nel suo stesso quotidiano trascorrere e agire. È necessario vivere pensando, correttamente pensando, dice Socrate. Non basta ragionare, ma occorre vincere il cattivo ragionare. Di fronte alla morte il pensiero deve essere più che mai limpido e onesto con se stesso.

Ci si può chiedere in che modo l’anima sia immortale. Un cor-po, per essere vivo, deve avere un’anima. L’anima infatti «reca in sé, come suo attributo essenziale, la vita, allo stesso modo che il tre reca seco il dispari, la neve il freddo». Ma poiché «il contrario di vita è morte», e una cosa non può recare in sé il suo attributo essenziale e il contrario d’esso, l’anima è immortale. E quando il corpo esala l’ultimo respiro, si disperderà l’anima? No: «in quanto non riceve morte ed è immortale, è anche indistruttibile vera-mente e imperitura».

L’incantesimo agisce… Ma di quale anima stiamo parlando? Poiché qui siamo noi, a ragionare, e un uomo sta per mori-re. Quale anima dunque? «L’anima personale di Socrate, di Simmia, di Cebète; o l’anima universale, questa totalità dello spirito che perennemente si avvolge nell’eterno circolo della vita?».

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1. Il Fedone di un classicista moderno

Il Fedone da cui provengono le citazioni è quello curato da Ma-nara Valgimigli per la ‘Piccola Biblioteca Filosofica’ di Laterza. Uscito nel 1925, il libro conosce numerose edizioni: del 1927 è una seconda «riveduta», del 1938 la settima «nuovamente riveduta», e ancora negli anni fra il ’39 e il ’43 si susseguono altre tre edizio-ni. L’undicesima è del 1946.2 La traduzione (senza testo a fronte) è preceduta da una introduzione e accompagnata da note a piè di pagina. Il dialogo è suddiviso in capitoli titolati, e un somma-rio ne riassume il contenuto a fondo del libro. Le parole che ho citato appartengono alle pagine finali dell’introduzione,3 meno una, la battuta di Socrate in 115c-d: l’ultima ironia del filosofo, che a Critone, il quale gli chiedeva come dovessero seppellirlo, risponde: «…dato che riusciate a pigliarmi e io non vi scappi dalle mani!». Aveva appena spiegato di essere, come traduce Pascoli nella Civetta,

ciò che di me sfugge agli occhi umani: l’invisibile.4

2 Mi servo di quest’ultima per le citazioni: Platone, Fedone, a cura di M. Val-gimigli, Laterza, Bari 1946. Fornisco il numero di pagina per le sole citazio-ni dall’introduzione (pp. 1-28), mentre mi riferisco a traduzione e note con le coordinate di paginatura consuete per il corpus platonico. La traduzione di Valgimigli, con le note, è infatti tuttora ristampata da Laterza (Platone, Fedone, traduzione e note di M. Valgimigli, introduzione e note aggior-nate di B. Centrone, Laterza, Roma-Bari, 2000): sarà così più agevole per il lettore rintracciare i passi citati su una qualsiasi delle edizioni correnti, e anche, al caso, confrontare col testo greco o con altre traduzioni. Una Avvertenza, nelle edizioni del Fedone a cura di Valgimigli, ricordava il testo di riferimento, approntato dallo studioso per la collezione scolastica Grae-cia capta di Sandron: Platone, Fedone, a cura di M. Valgimigli, Sandron, Palermo 1921. Si tratta di un commento al testo greco, preceduto da un’in-troduzione, ma senza traduzione. La versione fu raccolta anche in Platone, Dialoghi, i, Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Cratilo, Teete-to, tradotti da M. Valgimigli, Laterza, Bari 1931, 1945², e in M. Valgimigli, Poeti e filosofi di Grecia, i, Traduzioni, Sansoni, Firenze 1964.

3 Platone, Fedone, cit., pp. 32-33.4 In una lettera di Montale alla sorella Marianna, del 1917, si legge l’espres-

sione «amico dell’invisibile» (che dà il titolo a uno studio molto bello di Angelo Marchese, utile anche per le penetranti considerazioni sulla reli-giosità di Montale: A. Marchese, Amico dell’invisibile. La personalità e la poesia di Eugenio Montale, a cura di S. Verdino, Interlinea, Novara 2006, in part. le pp. 200-211): «Io sono un amico dell’invisibile, e non faccio conto

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C’è affettuosità nell’ironia con cui Socrate motteggia gli amici. I suoi ragionamenti hanno trasformato la paura della morte in fede in una vita più vera; ma resta negli animi il sentimento della perdita, non si attenua il dolore per la scomparsa della guida e dell’amico. Il pianto di Cebète e la serenità quasi ilare di Socra-te, nell’ultimo quadro del dialogo, rappresentano gli estremi di un’unica scena dell’uomo. Dalle strette pareti della cella le parole del filosofo s’erano aperte agli spazi del cosmo, alla considera-zione del destino delle anime, al senso di una divinità che i suoi ultimi atti e la sua stessa morte rendevano più vicina e intima. È anche, questa scena dell’uomo, vera e propria scena drammatica, come Valgimigli mostra nell’introduzione: i concetti diventano, attraverso i personaggi, sentimento e parola concreta. Di fatto ambientate anch’esse nella celletta in cui Socrate s’intrattiene per l’ultima volta con gli amici, le riflessioni di Valgimigli seguono il muoversi e l’aggregarsi delle idee verso un esito che rimane in parte insondabile, vivo nella rappresentazione ma non coercibile nelle maglie strette di un logos. Dei dialoghi platonici, questo è per lo studioso senza dubbio il fondamentale, e il più resistente all’erosione del tempo.

Ma perché soffermarsi proprio su questo Fedone? Cosa ci dice che fu una lettura importante per Montale? Fra il ’42-’43 (l’inver-no di A mia madre e della chiusura di Finisterre) e il 1947 (anno di Voce giunta con le folaghe) la produzione di Montale si arricchi-sce di nuovi elementi di pensiero e d’immaginario legati al tema della morte e dell’aldilà. Ebbene, mi sembra che tra i riferimenti culturali di questa fase un posto di rilievo spetti proprio al Fedone

che di ciò che si fa sentire e non si mostra; e non credo e non posso credere a tutto quello che si tocca e che si vede» (lettera riportata in E. Montale, Quaderno genovese, a cura di L. Barile, Mondadori, Milano 1973, p. 72). Siamo nella fase della formazione ‘schopenhaueriana’ di Montale, e sareb-be un errore porre questa antica lettera accanto ai nostri testi del ’46-’47. Ma a parte il fatto che fra gli autori di Schopenhauer c’è proprio Platone, la testimonianza lessicale merita d’essere registrata quale che sia la decli-nazione della parola e dell’idea di ‘invisibile’ in questo momento. All’epoca della formazione di Montale – e ancora nel mezzo di una guerra, la Prima – il ricorso all’idea di ‘invisibile’, e a questa specifica parola, rende molto naturale l’associazione col poema conviviale di Pascoli La civetta. L’incipit di un ‘osso breve’, del resto, «Ciò che di me sapeste…», ricorda da vicino il verso già citato, «Ciò che di me sfugge…».

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di Valgimigli. Vorrei mostrare come l’incontro con questo libro lasci traccia sicura almeno in Voce giunta con le folaghe, uscita la prima volta, come s’è detto, su L’Immagine nel giugno del ’47, e nel racconto Sul limite, scritto per il Corriere della Sera nell’estate dell’anno precedente.

In questi anni accade molto nella vita e nella poesia di Monta-le. L’irruzione dei fatti della guerra e della più atonale realtà nel tessuto della scrittura, la tensione verso un’altezza impersonale e universale in cui forse si accoglie dio (di lì scende, a dar bagliori di integrità ontologica e morale, la donna visiting angel), il bisogno di preservare una dimensione larica di memoria privata che non bruci di fronte a quei crudeli lampi di divino, ma che nemmeno si esaurisca nella stanca ripetizione: la fase dell’opera di Monta-le che vede in primo piano questi elementi è indispensabile per istituire legami di svolgimento fra una poesia come è quella di Palio, di Nuove Stanze, o di Iride, e quella pur così diversa degli Xenia per la Mosca, o, addirittura, delle ultime visitazioni degli Altri versi.

Saggi come quello di Siti su Iride, o di Jacomuzzi sulla religio-sità nella Bufera e altro, mostrano del resto quanta tradizione filosofica sia dietro testi tanto complessi e a volte oscuri.5 In Iri-de, che di questa poesia è forse l’esemplare più rappresentativo, le immagini si impongono con la loro forza sensibile, lo stesso timbro della voce poetica ha un potere tirannico e interi retro-scena culturali si condensano in formule linguistiche che produ-cono nuovi protagonisti e nuove situazioni: «Iri del Canaan», ad esempio, o il «Nestoriano smarrito». Ma come cogliere appieno il valore di queste punte semantiche, se non si getta uno sguardo sulla tradizione da cui provengono? Il fatto è che non solo la cul-tura di Montale è sincretistica ed eclettica, ma fra testo poetico e riferimenti culturali, quanto più ci si addentra nella selva delle letture, lo stacco si rivela netto. L’opera di Montale – ancor prima e più profondamente che le sue dichiarazioni – trasmette una in-trinseca esigenza di autonomia di pensiero e giudizio. La poesia segue sue proprie strade, quand’anche si inoltri nei terreni della

5 A. Jacomuzzi, Per uno studio sulla religiosità nella poesia della “Bufera e altro”, cit.; W. Siti, “Iride”, «Rivista di Letteratura Italiana», a. i, n. 1, 1983, pp. 97-138.

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filosofia, cioè del pensiero argomentativo, o dell’ideologia, o vesta i panni di un frasario codificato (questa del linguaggio è anzi, per il Montale ‘diaristico’, la via maestra alla critica delle ideologie).

Tutt’altro che inutile, però, è lo scavo nella cultura di Montale, se serve a scoprire i nessi concettuali che ne attraversano la poesia come materiale di pensiero storicizzato, proveniente cioè dalla tradizione del nostro pensiero occidentale. Ciò varrà anche per i rapporti tra il Fedone e Voce giunta con le folaghe. È vero che l’approfondimento del testo non può prescindere dall’analisi del-le sue strutture figurative, narrative e dialogiche. Queste fanno della poesia un mondo in sé compiuto e irriducibile. Ma le figure appariranno più densamente significative a un lettore che ne ab-bia scavato le radici concettuali, e non in astratto ma in rapporto a una tradizione di pensiero; e la tensione drammatica svelerà, in quelle figure, una concreta tensione di idee. La stessa A mia ma-dre, del resto, può esser letta – a livello di stratigrafia concettuale – come una poesia ‘a tesi’, da cui si possono estrarre due visioni contrapposte sul valore e il destino dell’esistenza individuale. E se è vero che anche dalle idee dipende, e molto, il senso della vita e degli affetti, una poesia così intimamente concentrata sul rap-porto privato madre-figlio non potrà che alimentare l’intera sua dizione tragica di un attrito concettuale e ideologico.6

Una lettura è importante tanto quanto il suo mediatore. È esemplare per Montale il caso di Alain, conosciuto e letto attra-verso Solmi. Lo stesso si può dire, se non per Platone in gene-rale, almeno per il Fedone e per questo momento dell’opera di Montale. Valgimigli fu da lui senz’altro molto apprezzato. Non

6 Leggendo La madre, altro conviviale ispirato al mito oltremondano narrato nel Fedone, ci imbattiamo nella scena del «buon demone» che conduce l’anima della donna nel «calmo Elisio»: «…e due tre volte la tuffò nel Lete. / E le dicea: ‘Dimentica per sempre, / anima buona; ché sofferto hai troppo!’ / E pose lei nel sommo della terra, / dove è più luce, più beltà, più Dio: / nel calmo Elisio, donde mai non torna / l’anima al basso, a dolorar la vita». Può darsi che, fra i precedenti della tradizione letteraria, anche il poema pascoliano sostenga l’alta dizione di A mia madre, non come frammento ma assorbito senza residui, accanto ai Sepolcri o al coro di Ermengarda dell’Adelchi. Per questi due riferimenti andrà tenuto conto dei saggi di Isella e Blasucci: D. Isella, Per due liriche di “Finisterre”, cit.; L. Blasucci, Esercizio esegetico su una lirica di “Finisterre” (“A mia madre”), in Id., Gli oggetti di Montale, cit., pp. 185-202.

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mancano, fra le prose del ‘secondo mestiere’, parole di elogio, che trovano il loro centro nell’articolo del «Corriere» A Manara Valgi-migli il premio Ines Fila 1954. Dello studioso, «autore di numerosi saggi critici sulla letteratura greca, di traduzioni e commenti alle opere di Platone, di Aristotele, di Eschilo e di Omero», Montale ricorda con evidente compiacimento la formazione nella cerchia dell’umanesimo carducciano, la «classicità tanto connaturata da sembrare ormai un abito di vita, una forma mentis, un costume», e l’«illuminato, sereno razionalismo» dell’interprete di poesia.7 Il mantello di Cebete (1947) e La mula di don Abbondio (1954), le due raccolte del Valgimigli elzevirista, con la loro «prosa di gior-nale così pieghevole sottile e pur nutrita» sono forse ancora più congeniali al suo gusto, e completano comunque l’opera di un classicista moderno la cui prosa, «quand’è dottrinaria, è degna di quella dell’Acri e del Rubbiani».8 Né sfuggivano a Montale i rapporti profondi dell’allievo col magistero pascoliano. Nell’arti-colo troviamo un giudizio sorprendente, secondo il quale le prose della Mula di don Abbondio «sono, se Dio vuole, le prose di un Pascoli che non è esistito prima di Valgimigli; di un Pascoli depu-rato, illimpidito, reso perfettamente ‘europeo’».9

Francesco Acri, di cui s’è appena letto il nome, era stato mae-stro di Valgimigli a Bologna. È con la sua fortunata traduzione dei Dialoghi che si confrontano in primo luogo le versioni di Valgi-migli, il quale curerà, sempre per Laterza, altri dialoghi platonici (Eutifrone, Cratilo, Teeteto, Apologia di Socrate, Critone). È chia-ro che Montale non deve aver atteso il 1943 per leggere il Fedone, e infatti – racconta in un’intervista del ’75 – il Platone della sua giovinezza fu quello di Acri (con cognizione, dunque, era pro-nunciato quel giudizio sulla prosa «dottrinaria» di Valgimigli).10 A noi però interessa capire se ebbe a leggere o rileggere il Fedone

7 SMP, pp. 1684 e 1686.8 SMP, p. 1685.9 SMP, p. 1686.10 E. Montale, Ho scritto un solo libro… (intervista del 1975 a cura di G. Zam-

pa): «Nella pineta familiare (in condominio tuttavia) […] lessi anche Plato-ne (Acri)» (SMA, p. 1720). La prima edizione del Fedone di Acri è del 1884. I Dialoghi furono in seguito riuniti in tre volumi fra il 1913 e il ’15 (Acri muore nel ’13): è questa, molto probabilmente, l’edizione in cui li lesse Montale. Cfr. ora Platone, Dialoghi, nella traduzione di F. Acri, con introduzione di C. Carena, Einaudi, Torino 1970.

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negli anni fra il ’43 e il ’47, e se fu proprio la versione di Valgimigli a entrare in relazione con la sua poesia e con la prosa.

Le caratteristiche del Fedone di Valgimigli acquistano un certo rilievo se si confronta la sua traduzione con quella del maestro. L’i-taliano di Acri vuol essere quello della lingua parlata, una lingua che faccia dei dialoghi platonici la testimonianza di un quotidiano inquisire per la verità. L’impressione è che questa prosa intenda ‘avvicinare’ la figura di Socrate al lettore, facendo leva sul tono fa-miliare, sagace e schietto di un toscano che scorre fra gli estremi del vernacolo e del dantismo espressivo. La lingua mira a essere semplice, popolare. Diverso l’atteggiamento di Valgimigli, che po-tremmo definire di un classicismo razionale e analitico, il quale non rifugge, però, dal turbarsi a contatto coi valori drammatici del testo (diverse, naturalmente, sono la temperie storico-culturale e le intenzioni, che qui non è possibile approfondire). Esemplare di una traduzione tesa e aspra, attenta alla psicologia dei personaggi che si esprime nella lingua, è il caso di Phaed. 63c. Dove Acri scio-glieva l’anacoluto del testo originale, Valgimigli tenta di riprodurre fedelmente ogni sfumatura della battuta, non senza esplicitare, con una nota: «Ho adombrato, traducendo, l’anacoluto del testo». Altrove, avvertendo che «bisogna stare attenti al giuoco delle per-sone e al movimento dialettico», dedica una lunga nota a ricostrui-re la scena e lo scambio di battute fra i personaggi (a 87c).

Si potrebbero fare altri esempi,11 e in ogni caso assieme al testo sono coinvolte le note del traduttore-interprete. Tali interventi non sono da trascurare. Poste a piè di pagina, le note nelle prime edizioni del Fedone (almeno fino agli anni ’40), accompagnano la lettura del dialogo mescolando costantemente la voce del curatore a quella dei personaggi. La suddivisione in capitoli, i titoli dati a ogni capitolo e sottocapitolo, e infine il Sommario del dialogo, ren-dono poi ancora più personale e interpretativa la traduzione. Ma già dall’introduzione, che del dialogo è una lettura vibrante e me-ditata, il lettore si accorge di quanto questo Fedone trovi, accanto al filosofo antico, un secondo autore nell’interprete moderno.

11 In un’altra lunga nota (a 86a) Valgimigli mostra come una frase ipotetica rimanga interrotta con l’esitare nel ragionamento da parte della persona che parla. Nell’introduzione, così caratterizza il personaggio di Cebète: «il tebano che è sempre in questo dialogo l’argomentatore più ostinato e più saldo» (Platone, Fedone, cit., p. 9).

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2. Il dramma vivo della filosofia

Nell’interpretazione di Valgimigli è centrale l’idea di un movi-mento dialettico della ragione idealmente messo in scena, davan-ti agli occhi del lettore, nel «dramma vivo» di Socrate. Il Fedone, come avverte il saggio introduttivo, non è semplicemente un te-sto di filosofia, ma è anche «opera di poesia». Il discorso filosofico scaturisce dalla rappresentazione di un dramma umano:

Qui abbiamo da fare con un’opera di filosofia che si concreta e s’av-viva in una vera azione, che anche dal punto di vista formale esterno si sviluppa in un vero dialogo, cioè in una scena che si muove tra persone vere, non tra simboli, tra persone le quali, sì, ragionano, ma anche sono agitate e travagliate e commosse, e hanno un’ansia di ricerca che non le interessa solo intellettualmente, ma le prende e conquide nella loro più profonda umanità.12

«Poesia» è l’artistica costruzione della scena, dei personaggi, delle linee emotive del discorso, cui Valgimigli nel presentare il dialogo riserva un’attenzione costante, in quanto componente in-trinseca del suo messaggio etico.

Una nota di Giovanni Macchia accompagna la prima stampa di Voce giunta con le folaghe.13 A rileggerla, sembra di trovare in termini capovolti l’idea espressa da Valgimigli. Non la filosofia che si fa dialogo, scena viva (e quindi poesia), ma la scena della poesia che tende alla filosofia. Voce giunta con le folaghe è animata, scrive Macchia, dall’«amore del concreto», dalla «felice capacità di render tutto rappresentazione». L’ombra che accompagna il poeta, «situata in un paesaggio […] trova la sua evidenza poetica nel contrasto tra ciò che le cose sono ed essa che non è: essa, attraversata dalle farfalle ignare, sfiorata al suo passaggio dalla sensitiva che non si rattrappisce».14 Ma l’«amore del concreto» non si ferma al semplice emergere delle cose, né al

12 Platone, Fedone, cit., pp. 1-2.13 La nota è riprodotta in G. Macchia, Una voce giunta è con le folaghe, in Id.,

Saggi italiani, cit., pp. 296-308, e in TP, pp. 1096-1099.14 TP, p. 1099. I vv. 20-21 di Voce giunta con le folaghe hanno «farfalle / vivaci

l’attraversano», ma «Toti Scialoja informa che l’autore lasciò ai redattori de L’Immagine l’opzione tra ‘farfalle / ignare l’attraversano’ e l’attuale ‘farfalle / vivaci’» (OV, p. 966).

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solo susseguirsi di quadri d’un racconto: «l’andamento narrativo è in funzione di un dialogo, che diventa monologo: il centro ‘morale’ della poesia. E poiché abbiamo usato questa espressione, non sarà esente dalla lirica una forza assertiva, un’intenzione necessariamente didascalica».15

Il Fedone, che racchiude gran parte dei motivi della filosofia platonica, è anche il ritratto per eccellenza di Socrate (che è com-pleto nel trittico con l’Apologia e col Critone). È il dialogo in cui, secondo Valgimigli, la sua figura spicca più rilevata e profonda alla luce della morte. Il Fedone non si risolve in un’astratta teore-si sulla natura e il destino dell’anima, ma concentra tutta la sua forza di rappresentazione intorno alle parole e ai gesti estremi del filosofo. L’ontologia e la gnoseologia dell’anima sono, come Valgi-migli si sforza di mostrare nell’introduzione, sostegni di «razio-nale certezza» a un’esigenza morale espressa nella stessa vita di Socrate. Scrive Banfi nel suo Socrate del ’43:

Ricordiamoci ciò che è il sapere per Socrate: non il sapere obiettivo di una verità in sé posta (in questo caso [nel caso cioè della virtù], di ciò che sia il bene in generale); ma un sapere di non sapere e quindi inquie-tudine, ricerca, esame di sé e del costume, un loro rapportarli e risolvere la loro reciproca limitatezza; ricerca che non si conclude a una nozione generale, ma a una certezza dell’anima, che, di fronte a una determinata situazione, ha trovato il suo bene, la propria ideale e universale sicurez-za e coerenza con sé, col costume, con l’umanità in una parola e perciò col mondo.

L’«atto di virtù» è tale «solo se la persona si sostenga nell’ordi-ne morale per mezzo del sapere come ricerca e discussione di sé con se stesso e raggiunga attraverso di esso la propria armonica certezza, che è libertà, libertà non psicologica, ma morale, inte-grità continuamente ricostituita di se stessa».16

Ci si può chiedere se il Fadin che nella prosa della Bufera ri-ceve l’ultima visita dell’amico, in ospedale («sulla balconata de-

15 TP, p. 1099.16 A. Banfi, Socrate, Garzanti, Milano 1943, 1944². Il libro uscì nella primavera

del ’43 e fu subito ristampato, come ricorda Eugenio Garin nell’introduzio-ne all’edizione da cui si cita, A. Banfi, Socrate, introduzione di E. Garin, Mondadori, Milano 1984: «In quella tensione, nella catastrofe della secon-da guerra mondiale, prende sapore, appunto, il Socrate di Banfi» (p. vii; pp. 99 e 100 per le due citazioni).

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gli incurabili, stesi al sole»), non sia un Socrate silenzioso, che abbia sublimemente abdicato alla così tipica parola dialettica del filosofo antico. «Del colloquio non ricordo più nulla», scrive Montale. «Certo non aveva bisogno di richiamarsi alle questioni supreme, agli universali, chi era sempre vissuto in modo umano, cioè semplice e silenzioso». Le morti filosofiche, e con esse quella di Socrate che fu la prima, sono qui tenute lontane, anche, se vogliamo, in senso stilistico e tonale. Non credo che la Visita a Fa-din implichi un antimodello (se proprio volessimo, lo troverem-mo semmai nel Seneca di Tacito, la cui morte può essere il tipico esempio di emulazione socratica): ma è l’immagine di una ‘morte da filosofo’, se assunta come posa pretensiosa, che qui Montale ri-getta. L’archetipo agisce però comunque, come rumore di fondo, e forse si può cogliere in questa prosa una prima traccia di lettura del Fedone di Valgimigli. Il filosofo, per Valgimigli,

sa che l’oggetto del conoscere non può essere la realtà sensibile che di continuo fluisce e sfugge ai suoi ingannevoli sensi, bensì una realtà di-versa, intellettuale e soprasensibile, cui l’anima sola può attingere nella sua purezza, e tanto meglio può attingere quanto più s’è fatta pura dalla contaminazione dei sensi e libera e sciolta dai fastidi del corpo; e perciò ha gioia del morire perché solo dopo morte egli potrà giungere alla com-piuta e perfetta verità.17

Un ‘capitolo’ del dialogo è quello intitolato, dal traduttore, Contro i misologi. «Anch’io», dice Socrate, «trattando di un pro-blema come questo in questo momento, corro il rischio di non comportarmi da vero filosofo, bensì di voler ragione a ogni costo, come quei tali che di educazione filosofica sono privi del tutto» (91a): «io non mi darò pensiero che appariscano vere a voi le cose che sono per dire, – se così avviene, tanto meglio! – ma che ap-pariscano vere a me prima che a ogni altro» (ivi). Quando Socra-te ricorda agli amici che la debolezza di un ragionamento non deve scalfire la fiducia nel ragionare, e che semmai «ammalati siamo noi», noi incapaci di bene ragionare (90e), Valgimigli an-nota: «Aver fede nella ragione e sapere alcuna cosa con sicurezza è appunto il benessere dell’anima; che equivale, come dirà più sotto fuor di metafora, al ‘comportarsi da vero filosofo’». A queste

17 Platone, Fedone, cit., p. 10.

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parole si possono affiancare, nel tono prima che nel senso, quelle di Visita a Fadin:

Essere sempre tra i primi e sapere, ecco ciò che conta, anche se il

perché della rappresentazione ci sfugge. Chi ha avuto da te quest’alta lezione di decenza quotidiana (la più difficile delle virtù) può attendere senza fretta il libro delle tue reliquie. La tua parola non era forse di quel-le che si scrivono.18

Alcuni dei compagni d’ospedale, compagni «occasionali» di Fadin, non c’erano già più: «ti avevano già preceduto alla cheti-chella, sparendo dai loro lettucci». Forse è irrilevante, ma «let-tuccio» è proprio la parola usata da Valgimigli quando descrive, nell’introduzione, l’ultima scena del dialogo: «e tutti infine si velano il capo e si traggono da parte, e nella stanza ormai fatta oscura e silenziosa biancheggia il lettuccio dov’è disteso il mae-stro, il compagno e l’amico». E ancora: «Socrate è seduto sul suo lettuccio»; «siede sul suo lettuccio; e ha ai suoi piedi, seduto in uno sgabello, il giovinetto Fedone».19

«Essere sempre tra i primi e sapere» è non tirarsi indietro, non bendarsi gli occhi (non si parla di un arrivismo della cono-scenza, quell’«e» è decisivo, mentre spesso si trascrive distrat-tamente «i primi a sapere»), sia pure in un mondo che al di là del fenomeno resta inconoscibile e, nell’ordine morale, incerto di un senso al nostro agire. Se torna, qui come più avanti negli anni di Montale, lo Schopenhauer degli Ossi di seppia, è sempre come aiuto a intendere il mondo della rappresentazione, non mai a superarlo nell’idea risolutiva di un nirvana. Ma qualche ipotesi, qualche domanda Montale l’azzarda, aprendo quella «felice capacità a render tutto rappresentazione» anche ai per-corsi dell’impensabile e dell’irrappresentabile, al paradosso:

Exit Fadin. E ora dire che non ci sei più è dire solo che sei entrato in un ordine diverso, per quanto quello in cui ci muoviamo noi ritardatari, così pazzesco com’è, sembri alla nostra ragione l’unico in cui la divini-tà può svolgere i propri attributi, riconoscersi e saggiarsi nei limiti di

18 Il corsivo è di Montale.19 Platone, Fedone, cit., pp. 2, 12, 28. Cfr. anche il Sommario del dialogo: «Ed

egli si sedè sul lettuccio stropicciandosi la gamba indolenzita dalla catena» (ivi, p. 169). La traduzione del passo (60b) ha «letto».

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un assunto di cui ignoriamo il significato. (Anch’essa, dunque, avrebbe bisogno di noi? Se è una bestemmia, ahimè, non è neppure la nostra peggiore).

3. L’ordine diverso: un problema ontologico e morale

Posta nei termini del trapasso del singolo, e della possibilità di un nuovo incontro in un ordine diverso, la riflessione di Mon-tale muoveva i primi passi – nell’arco di tempo cui abbiamo ac-cennato – con Personae separatae e A mia madre. Come mostra Isella, qualche spunto giungeva dalla delicata lettera di cordoglio di Contini («ho saputo da Ferrata del lutto che ti ha colpito…», 19 novembre ’42), in cui l’amico si chiede «se nella vita eterna si po-tranno amare particolarmente alcune individuate anime, si potrà far domande e avere risposte, sviluppare storicamente i proprî rapporti con loro».20 Contini vela il dolore che coinvolge perso-nalmente sé e l’amico di una forma fantastica: il «sottile quesito teologico» che nella lettera immagina di porre al friburghese pa-dre de Menasce. Dalla modulazione digressiva del discorso tra-pela in realtà la vicinanza nel lutto. Ma a ben vedere è proprio questo uno dei modi in cui Montale parlerà dei propri morti e della scena affettiva, di oggetti, di gesti e di paesaggio, in cui essi vivono. È una scrittura tenuta ironicamente sul crinale del que-sito filosofico e teologico, impegnata nell’esplorazione di un im-maginario aldilà: «ordine diverso», ma forse più reale di quello «pazzesco» in cui ci muoviamo.

«È curioso pensare», si legge in Dov’era il tennis…, «che ognuno di noi ha un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio, immutabile; è curioso che l’ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a scancellarsi». In Dov’era il tennis…, che nell’Intermezzo della Bufera fa dittico con Visita a Fadin, compare per la prima volta il padre del poeta, ignara figura premonitrice del «freddo» che «stava per giunge-

20 D. Isella (a cura di), Eusebio e Trabucco, cit., p. 77. Già notato nell’edizione del Carteggio, il legame di Personae separatae e A mia madre con la rifles-sione di Contini è messo a frutto da Isella in D. Isella, Per due liriche di “Finisterre”, Bollati Boringhieri, Torino 1997 e poi in E. Montale, Finisterre, a cura di D. Isella, cit., pp. 35 e 50-51.

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re» (sarebbe morto nel 1931, esattamente a metà del Ventennio fascista); e al paesaggio di questa prosa torna, come è noto, Voce giunta con le folaghe. Ma se pensiamo al racconto del ’46 Sul li-mite, che si affida alla scrittura immaginativa e paradossale di un limbo in cui tutto ciò che emerge a narrazione veste i panni del concreto, appare chiaro come i due ordini, il «fisico» e l’altro, il «diverso», non siano che facce d’una stessa medaglia. Nel rac-conto il protagonista chiede se anche la sua amica Giovanna sia morta. È morta, gli viene risposto, cioè è viva: «o meglio, anche per lei il guanto s’è rovesciato». (Lo strano viaggio, del resto, ini-zia con un capovolgimento fisico, l’incidente automobilistico: il protagonista si ritrova «disteso sul soffitto dell’auto, che s’era evi-dentemente capovolta»).21

Il mondo di Sul limite è diviso in ‘zone’: Zona I, Zona II, Zona III. La madre vive in quest’ultima: ha forse abbandonato quel-la «spoglia» che nell’ordine fisico, l’ordine di qui, ancora la pone nell’Eliso della memoria, «folto d’anime e voci». Ma questo del-la memoria è un problema di chi vive. A chi resta è consegnata la «domanda». Il dialogo in cui si formula il dubbio aveva in A mia madre una sola voce, anche se questa ospitava (letteralmente ospitava: nella parentesi) il pensiero della madre scomparsa:

se tu cedi come un’ombra la spoglia(e non è un’ombra, o gentile, non è ciò che tu credi)

chi ti proteggerà?

Quando scrive Sul limite, Montale sembra aver conquistato una diversa visione su quella domanda. Il nodo tragico fra oblio e memoria è meno stretto, si lascia attraversare dalla fantasia. È trascorso qualche anno. Sul limite è frutto della collaborazione di Montale al Corriere della Sera, dove esce l’11 agosto del ’47. A mia madre era una poesia in memoriam. Ora il testo non si presenta

21 PR, pp. 190 e 186. Tra la pubblicazione di Sul limite («Corriere della Sera», 11 agosto 1946) e la prima stampa di Voce giunta con le folaghe (giugno 1947) c’è l’articolo che aprirà Fuori di casa, Le Cinque Terre, uscito sul «Cor-riere» il 27 ottobre 1946: non privo di punti di contatto col paesaggio della poesia.

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più come legato a un evento, e la diversa forma letteraria, lontana dai luoghi deputati della tensione lirica, filtra gli stessi motivi se-condo una vena più libera di osare, sul filo di un sottile e inquieto nonsense.

«Avrei potuto venire con tutti gli animali della tua arca privata, Fufi e Gastoncino, Passepoil e Bubù, Buck e la Valentina…», dice Nicola, il giovane in pigiama sul calessino che accoglie e guida il protagonista.22 Gli spiega le regole del mondo in cui ora si trova:

Lo so, la prima volta si è ancora attaccati alle storie di prima. È come accadeva a me quand’ero tra i vivi, che dico?, tra i morti dell’Antelimite da cui tu giungi ora; sognavo e al risveglio ricordavo ancora il sogno, poi anche quella memoria si perdeva. Lo stesso ora succede a te; c’è ancora una frangia terrestre da addormentare nella tua mente, ma è questione di poco.23

Queste oscillazioni della memoria sono frequenti ancora presso Limite (dove Nicola lavora all’«ufficio di smistamento»), nella Zona I: «Poi dicono che questa memoria si perde e se ne acquista un’al-tra». Nella Zona II, all’«istituto delle entelechie superiori», «comin-cia il processo di smaterializzazione».24 Il processo è difficile: «le notizie che ci giungono di là», dice Nicola, «non sono troppo inco-raggianti; pare che il tesseramento vi sia più rigoroso e che sia più difficile trovare alloggio». È qui che vien fatto cenno al padre. La sua situazione coincide con quella descritta in Voce giunta con le fola-ghe: «Tuo padre aveva promesso di farsi vivo di là, ma per ora…».25

22 PR, p. 189. Commentando la prosa, Scaffai fa notare «una serie di ‘irregola-rità’ che segnano l’ingresso del personaggio in una dimensione fuori della realtà» (E. Montale, Prose narrative, a cura di N. Scaffai, cit., pp. 465-466). Ad esempio: «Il tranvai era semivuoto, tutti scesero alla Porta, e anche il bigliettario, per fumare; tuttavia il veicolo ripartì abbastanza veloce, senza di lui, e dopo pochi minuti mi accorsi ch’ero arrivato alla periferia della città, in senso perfettamente contrario alla destinazione che speravo di toccare» (PR, pp. 187-188); «Mi tastai per cercar l’orologio, quando da un viottolo secondario vidi avanzare un calessino tirato da un asinello sardo e guidato da un giovane in pigiama che portava in testa un cappelluccio da alpino, ma senza piuma» (PR, p. 188).

23 PR, p. 190.24 PR, pp. 189-190.25 PR, pp. 190-191.

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L’«ordine diverso» non si lascia catturare che in negativo e di sfuggita. Quando il protagonista chiede di vedere la madre, Nicola gli risponde: «Potrai comunicare con Zona III più tardi. Le sue ultime notizie erano buone. Ma là la memoria è molto ridotta, devo informartene».26 La rappresentazione di questo oltremondo si ferma qui. Esso ricostruisce, attorno alla cesura concreta di Limite – dove avviene il capovolgimento tra falsa e vera vita – un paesaggio fisico di ‘stati’ metafisici della persona, a metà strada fra i meccanismi danteschi del transito e il mito platonico dell’aldilà, descritto appunto nel Fedone. Si leggano questi passi del dialogo (80d-81a, 107c-108b):

E allora l’anima, la parte di noi che è invisibile, e che se ne va via ad un altro luogo della sua stessa natura, e cioè della sua stessa nobiltà di origine e come lei puro e invisibile, – all’Invisibile propriamente detto, – presso il dio buono e intelligente, là dove, se Dio voglia, anche la mia anima dovrà andare fra poco; ebbene, dico, questa nostra anima che è così fatta e ha tale natura, vorremmo noi dire che, appena si stacca dal corpo, ecco che tutt’a un tratto già s’è dileguata ed è finita, come dicono la più parte degli uomini? Ci corre molto in verità da questo, mio caro Cebète, mio caro Simmia; e anzi è molto più probabile che la cosa stia così. Se cioè l’anima si diparte pura dal corpo, nulla del proprio corpo traendo seco, come quella che nulla in vita, per quanto poté, volle avere in comune con esso, e anzi fece di tutto per sfuggirlo e starsene tutta rac-colta in se medesima, poiché a questo sempre si preparò, – e questo non è altro che propriamente filosofare e veramente prepararsi a morire sen-za rammarico; non è questo infatti che diciamo preparazione di morte? […] Ebbene dunque, se tale è l’anima, non se n’andrà ella a ciò che le è simile, cioè, dico, all’invisibile, al divino, all’immortale, all’intelligente, dove giunta potrà essere in realtà felice, libera ormai da vagamenti e da stoltezze e paure e disordinate passioni, e insomma da tutti i mali uma-ni; e veramente, come si dice degli iniziati, potrà trascorrere il rimanen-te tempo in compagnia degli dei?

Ma ora che l’anima ci si è rivelata immortale, nessuno scampo ella potrà avere dai mali né alcuna salvezza, se non in quanto divenga il più possibile virtuosa e intelligente. Perché nient’altro l’anima ha seco, an-dando nell’Ade, all’infuori della sua cultura e del suo costume, che è ciò appunto, come dicono, che grandemente giova o nuoce a chi muore, sùbito al principio del suo viaggio nell’al di là. […] Dunque, l’anima buo-na e intelligente segue il suo dèmone, e non ignora la sua sorte e con-dizione presente; ma quella che è tuttavia desiderosa del corpo, come

26 PR, p. 192.

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già dissi prima, per lungo tempo è conturbata e agitata dalla passione di quello e della regione visibile; e alla fine, dopo molto lottare e molto patire, trascinata a forza e a stento dal dèmone che le fu assegnato, se ne va via.

Il mito dell’aldilà non si esaurisce nella risposta al problema ontologico, ma implica anche una riflessione di carattere morale. Lo si vede bene al principio del secondo passo riportato. Monta-le sembra vivere l’esigenza di un confronto morale con se stessi proprio nel rapporto con la memoria, mezzo in cui l’ethos agito si fa concreto. In Sul limite, al protagonista toccherebbe un penoso confronto con i propri morti, e sono proprio le figure secondarie della sua vita – quelle che la coscienza è riuscita a tener lontane più facilmente – che minacciano di affollarsi inquietanti attor-no a lui. Figure solo esteriormente familiari, esse sono slegate in realtà dalla trama di vita dell’io (manca la «corrispondenza d’a-morosi sensi») e proprio per questo, nude e non consolanti, testi-moniano di un dolore non solo reale, ma storico: «Dall’altra [vita] saprai com’è venuto [l’amico Fred, in questa vita], dopo una rissa con alcuni ubriachi. Ma come si ricordava di Giovanna! Quando nel film la vedemmo rinchiusa nel vagone impiombato, lei e Jack, urlò come un pazzo».27 A questi incontri il protagonista vorreb-be sottrarsi. È qui che chiede di esser portato dalla madre:

Non si potrebbe rimandare questa faccenda, questo incontro, dico? Forse mi capisci, per me era una partita chiusa. Ho faticato tanti anni per deviare il mio pensiero da questi… amici, ho creduto d’impazzire per questo sforzo e il destino mi aveva persino risparmiato la notizia del vagone impiombato. E ora tu… No, no, è troppo, è troppo… Io volevo che ci fosse qualcosa di finito nella mia vita, intendi?, qualcosa che fosse eterno a forza d’essere finito. Non posso ricominciare, Nicola, non pos-so, portami da mia madre… se c’è.28

Ma nell’oltremondo di Sul limite non è possibile un salto del ge-nere (e l’impulso regressivo, si capisce bene, è trattato dallo stesso narratore come un cliché). Occorre questa forma di purgazione, lo scavo nella memoria per guardare in faccia la realtà. «Era trop-

27 PR, p. 191.28 PR, p. 192. Corsivo nel testo.

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po comodo dimenticare», dice più avanti Nicola.29 Forse è questa la memoria buona, la memoria che «giova» di Voce giunta con le folaghe. Ma qui ritorniamo nel campo ontologico, poiché nei famosi versi «Memoria non è peccato / fin che giova, dopo è letar-go di talpe…» la stessa memoria ‘buona’ rischia di convertirsi in ‘cattiva’ entro un processo indubbiamente temporale («fin che… dopo»). Tale ricordare assumendo su sé, sulla propria coscienza, il peso morale della realtà storica, è operazione che deve avere una misura. Superata questa misura, essa diventa «peccato», o, con un’immagine, «abiezione che funghisce su sé». L’immagine è importante, perché nettamente contrapposta a quella cui accen-na l’invito dell’ombra al padre, al «cielo libero che ti tramuta». La cosmologia di Voce giunta con le folaghe incontra, proprio qui, ancora Platone, e sempre nel serrato confronto di piano onto-logico e piano morale. Abbiamo già letto, nel Fedone, del mito delle anime dopo morte. Vi si lega il mito del cosmo, un’ampia descrizione del mondo che dalle regioni dell’ètere puro si spinge sino a quelle buie del Tartaro. Il mito racchiude almeno due temi, quello del mondo ‘iperuranio’ e quello della conquista della veri-tà, legato al modulo narrativo del capovolgimento di prospettiva (lo stesso del mito della caverna, ma anche lo stesso della prosa Sul limite): «credo che la terra sia qualche cosa – dice Socrate – di molto grande per se stessa, e che noi, dal Fasi alle colonne di Eracle, abitiamo soltanto una sua piccola parte». Abitiamo cioè – «come rane intorno a una palude» – solo una delle tante «cavità» che, a noi sconosciute, si aprono nella terra. Noi crediamo che il mondo più puro e più bello sia il nostro, «ma essa la vera terra si libra pura nel cielo puro dove sono le stelle, il quale la più parte di coloro che si occupano di queste cose chiamano ètere» (109a-c).30

29 PR, p. 192.30 Valgimigli annota: «la vera terra è al di sopra di queste cavità, e al di sopra

dell’acqua della nebbia dell’aria che vi stanno dentro e d’attorno; ed è una zona di puro ètere». E nel Sommario: «Chi potesse invece levar su il capo fuori dell’aria, da questa cavità torbida in cui viviamo, vedrebbe come gua-ste e corrose e impure sono le cose di quaggiù in comparazione di quelle di lassù dov’è il vero cielo, la vera luce, la vera terra» (Platone, Fedone, cit., p. 187).

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Ora, cosa dice al padre l’ombra di Voce giunta con le folaghe? Parole che intendono distoglierlo dallo sgomento per il «nuovo balzo»:

– Ho pensato per te, ho ricordato per tutti. Ora ritorni al cielo libero che ti tramuta. Ancora questa rupe ti tenta?

«La vera terra si libra pura nel cielo puro dove sono le stelle», diceva Socrate. E a questo cielo puro, così simile al «cielo libe-ro che ti tramuta», tornano le anime quando riescono a liberarsi della costrizione corporea, del legame con la terra, che è in primo luogo, in senso etico, legame con il male, vita non virtuosa. Si legge nel dialogo (114b-c):

Quelli poi i quali si sono segnalati fra tutti per la santità della vita, co-storo vengono a trovarsi senz’altro liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri, e giungono in alto nella pura abitazione e abitano su la vera terra. […] E così dunque, o Simmia, per tutto quello di cui abbiamo discorso, giova non tralasciar nella vita cosa alcuna per acquistare virtù e intelligenza; ché bello è il premio e la speranza è grande.

E nell’introduzione di Valgimigli:

…se invece [l’anima] si diparta pura dal corpo nulla traendo seco di corporeo […] allora se ne andrà tosto al mondo che le è simile e congène-re, all’invisibile al divino all’immortale, dove giunta potrà viver felice in compagnia degli dèi. […] E seguiamo il mito dell’anima pura che at-traverso l’umano travaglio sale di grado in grado per continui sforzi di liberazione e purificazione al cielo delle idee […]. Così la dottrina della immortalità da esigenza ontologica torna a essere esigenza morale; e la immortalità, […], da immortalità universale immortalità individuale.31

La voce portata dagli uccelli di passo sembra dirci che la stessa memoria è «peccato» quando sia sterile ripiegamento su sé, at-taccamento all’esistenza terrena (alla «regione visibile», le «pro-de» della propria vita). È il limite superato il quale ricordare – sof-fermarsi su ciò che è stato – non più sortisce l’effetto di fortificare la conoscenza e la coscienza del passato, e con esso del presente

31 Ivi, p. 19.

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(degli altri, anche, e con essi di sé), ma si converte in viltà, igno-biltà morale: «abiezione che funghisce su sé».

4. L’argomentazione drammatica

Non intendo attribuire a questa lettura parallela del Fedone e di Voce giunta con le folaghe il carattere d’un confronto punto per punto. I passi che ho indicato precisano meglio, però, quell’o-rientamento della poesia della Bufera (delle Silvae, in particolare) verso una religiosità di tipo platonico-cristiano, che nel Fedone di Valgimigli sembra trovare un decisivo punto di riferimento:

Questa immortalità dell’anima è come nel mezzo, dissi, tra una esi-genza etica, la serenità del filosofo che ha praticato virtù, e una esigenza ontologica, la dottrina delle idee. E secondo che oscilli e che pieghi ver-so l’uno o verso l’altro di questi due poli, ora pare che più si raccolga e determini in una immortalità individuale, ora si dilati e disciolga nella immortalità universale. E in questo oscillare è il suo mistero. […] E talora dentro lo stesso teorizzare vibra questa oscillazione, come nella teoria della reminiscenza dove è sì lo spirito universale ch’è padrone del cono-scere, ma da cui si rifrange un infinito moltiplicarsi di anime individuali che ricordano e seguitano a ricordare ognuna per sé qualche particella di questo infinito conoscere. Perché questa in sostanza è la immortalità che veramente corrisponde a una esigenza elementare dello spirito.32

L’immortalità che «corrisponde a una esigenza elementare del-lo spirito» è per Valgimigli prodotto stesso del Fedone come opera di poesia (la morte di Socrate è «la più alta celebrazione della immortalità individuale»), e garanzia del sopravvivere di questo dialogo nella storia: «è la voce che sopra tutte le altre pose poi il platonismo sul limitare del cristianesimo; e per la quale que-sto dialogo, primo tra tutti gli altri, e con esso Platone, risorsero dall’oblio del Medio Evo».33

È dunque, questo Fedone, tra i riferimenti culturali di Montale, e il sincretismo della sua poesia non impedirà di citare, accanto all’idea aristotelica e tomistica di ‘forma’ (cui allude Contini quan-

32 Ivi, pp. 26-27.33 Ivi, pp. 27 e 28.

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do scrive a Montale di «anime come formae separatae»), passi del dialogo come questo (72e-73a):

Ogni nostro apprendimento non è altro in realtà che reminiscenza; anche per codesta dottrina si dovrà pur ammettere che noi si sia appreso in un tempo anteriore quello di cui oggi ci ricordiamo. La quale cosa non è possibile se l’anima nostra non esistette già in qualche luogo prima di generarsi in questa nostra forma umana.34

Non è però nei contenuti dottrinari che l’impressione del Fe-done agisce di più su Montale, ma proprio nei valori drammatici, che Valgimigli esalta come il centro poetico e filosofico del dialo-go: «quando si guardi», scrive, «codesto stesso teorizzare non in sé, ma nella concretezza etica che inizialmente lo muove e gli dà colore e valore e sostanza».35

L’uomo dunque teme di fronte alla morte; teme, in particolare, di fronte all’abbandono necessario del corpo – poiché è questa l’esperienza più elementare della morte. Se è possibile accettare di morire, si può accettare anche di morire nella propria indivi-dualità? «L’uomo non vuole», avevamo letto all’inizio,

per se stesso non vuole e per i suoi morti sopra tutto, che sia distrutta la sua personale individualità: pensare che essa possa riassorbirsi nella totalità indeterminata dello spirito, è come rinunziare al proprio essere, è come pensare questo essere proprio e di tutti coloro che amammo an-nullato per sempre nell’oscuro non essere.36

Si intendono meglio le parole finali di Voce giunta con le fo-laghe, se si pensa alla dottrina della reminiscenza (è Valgimigli a tradurre così per primo anàmnesis), strettamente legata all’idea del ritorno al Dio, al Sommo Bene originario:

34 Si aggiungano almeno due note di Valgimigli: «apprendimento è reminiscenza. E così dalla teoria della reminiscenza consegue a sua volta, per la stessa ragione onde riconosciamo che codeste idee erano proprietà del nostro spirito (cfr. 76e) anche prima che assumesse forma umana, che appunto il nostro spirito dovè esistere prima della nostra incarnazione» (nota a 92d); «Causa e Sommo Bene si identificano nella dottrina platonica: dove infatti la teologia è rigorosamente ontologica, e la ontologia rigorosamente teologica. La causa di ogni cosa è l’idea che ogni cosa ha in sé; questa idea è una forma del Sommo Bene» (nota a 98b).

35 Platone, Fedone, cit., p. 27.36 Ibid.

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Così si svela prima di legarsia immagini, a parole, oscuro senso reminiscente, il vuoto inabitatoche occupammo e che attende fin ch’è tempo di colmarsi di noi, di ritrovarci…

Queste parole descrivono l’esperienza di un ritorno a qualcosa «che attende fin ch’è tempo / di colmarsi di noi, di ritrovarci», ma conservando il dubbio angoscioso di quell’«oscuro non essere».

Occorre qui riflettere su che cosa, dal Fedone, passi nella poesia di Montale. Fra l’«oscuro non essere» di Valgimigli e l’«oscuro sen-so / reminiscente» di Voce giunta con le folaghe è proprio quella determinazione di «oscuro», così emotivamente connotata, che si trasmette integra da un contesto all’altro. Se ripensiamo a Sul limi-te, lì il racconto si sospendeva e il protagonista restava comunque al di qua. Non incontrata, la madre abita forse quel «cielo libero» cui invita l’ombra: il «sommo della terra, / dove è più luce, più bel-tà, più Dio» (così traduce Pascoli nel poema conviviale La madre).

Montale non spinge il proprio racconto fino a questa regione, non segue Socrate (né Pascoli) nell’esplorazione di un luogo total-mente purificato dal terreno. Ciò non significa che il dialogo pla-tonico esaurisca qui il suo interesse. Il contributo più incisivo del Fedone alla poesia di Montale sembra anzi legato alle zone del dia-logo preliminari alla dichiarazione positiva di un Sommo Bene e di un mondo delle idee; e va ricercato in quell’elementare esperienza dell’uomo, di dubbio e sgomento di fronte alla morte e al dissolversi dell’individuo, su cui insistono sia l’introduzione sia le note di Val-gimigli.

C’è un caso, veramente notevole, in cui il Fedone di Valgimigli offre alla poesia di Montale proprio le parole per la rappresen-tazione drammatica di questo troppo umano moto dell’anima. Ecco il brivido del padre, nella seconda strofa di Voce giunta con le folaghe:

sbigottisce e teme che la larva di memoria in cui si scaldaai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

Il timore del padre corrisponde, nel linguaggio di Platone, a quello del fanciullo che ha paura della morte (77e); e il fanciullo,

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annota Valgimigli, è «la parte irrazionale dell’anima umana che non vede il bene e tende solo al piacevole»:

E Cebète, sorridendo: – Proprio come se s’avesse paura, disse, o So-crate, vedi di persuaderci e di farci animo; o meglio, non come se s’aves-se paura noi: ché c’è, forse, anche dentro di noi, come un fanciullino, ed è lui che ha di questi sgomenti. Tu dunque, questo fanciullo, cerca che muti animo, e si persuada a non aver paura della morte come dell’Orco.

Dal Fedone a Voce giunta con le folaghe, il turbamento dell’ani-ma può trasmettersi per lo spiraglio di una frase. Il passo appena letto è preceduto da questo (77d-e):

A ogni modo mi pare che tu e Simmia anche su questo punto avreste piacere di investigare un poco più a fondo; e che siate come i ragazzi, con la paura addosso che veramente, quando la vostra anima sarà lì per uscire dal corpo, il vento la soffi via e la disperda del tutto; massime poi chi si trovi a morire non già in un momento di calma, ma in mezzo a una grande bufera.

È singolare come il luogo si adatti alla situazione di Montale: la madre, infatti, non s’era trovata a morire «in mezzo a una gran-de bufera»? La poesia che apre Finisterre, intitolata La bufera, fu pubblicata su «Tempo» nel febbraio del ’41, e non voglio certo af-fermare che sia stato questo luogo del Fedone a ispirarne il titolo. È plausibile invece che l’incontro col dialogo sia avvenuto dopo la morte della madre, nell’inverno del ’42-’43, e che Montale l’abbia letto come chi cerca risposte proprio a quella «domanda»: «E la domanda che tu lasci è anch’essa / un gesto tuo, all’ombra delle croci» (A mia madre). Il dialogo è anche l’opera che, nella tradi-zione occidentale, fonda il genere della consolatio, e veramente, a pensarci, il momento non poteva richiedere a Montale lettura più intima e immediata.

Con l’accenno di Socrate al «vento» siamo però molto vicini, anche, alla situazione di Voce giunta con le folaghe:

Il vento del giorno confonde l’ombra viva e l’altra ancora riluttante in un mezzo che respingele mie mani…

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L’ombra è «viva» perché per lei – con la metafora di Sul limi-te – il guanto s’è rovesciato; eppure è scesa ancora sulla terra, a pronunciare il suo solenne ammonimento. L’altro, il padre, esita a compiere il «nuovo balzo»: è «riluttante», e per questo non an-cora veramente vivo. La sorte delle due ombre è legata al vento, un vento che chiude la scena inaugurando un nuovo giorno. Ed è simbolo originario, elemento che per il «fanciullino» soffia via e disperde un’anima intesa in senso materiale. Contro questo ir-razionale timore Platone introduce l’argomento dell’anima uni-versale, strettamente legato alla dottrina della reminiscenza. Il riassunto di Valgimigli in una nota dà quasi l’impressione di un canovaccio, su cui Montale abbia allestito la scena della propria poesia:

Ora dunque, se la conoscenza delle idee la portiamo con noi nascen-do, vuol dire che già codeste idee le conoscevamo prima di nascere; e sta bene; ma se, sùbito nati, codeste idee abbiamo bisogno di riapprender-le, e di fatti le riapprendiamo, mediante i sensi, per via di reminiscenza, vuol anche dire che in certo tempo le avevamo dimenticate. E così è: le avevamo dimenticate nel precedente processo del nascere e rivive-re, quando l’anima novamente si rincarna e riveste forma corporea; e le riapprendiamo nel processo del morire, che va dalla vita alla morte, in questo nostro graduale disincarnarsi e spogliarsi e dissolversi del corpo e ritornare pura anima nuda [nota a 75e].

Nascere e morire sono, scrive Valgimigli, due «processi» che s’inseguono «in un circolo senza fine»; e vi corrispondono, «nel medesimo circolo, i due processi del dimenticare e del ricordare». Il padre, «colui che lunghi anni d’oltretempo […] disincarnano», appare in Voce giunta con le folaghe (come in Sul limite) ancora a metà strada di «questo nostro graduale disincarnarsi» (e nel rac-conto si parlava proprio di «processo di smaterializzazione»).37 La sua memoria, tuttora a mezzo, è tentata dai luoghi che il corpo occupava, ma è destinata a quel Luogo dove riacquisterà la vera conoscenza.38

37 PR, p. 191.38 La figura che è discesa con le folaghe, che dice «ho pensato per te, ho ricor-

dato per tutti», ha però un valore cristologico che scardina questo sistema platonico di un «circolo senza fine». Altri riferimenti culturali, insomma, si addensano attorno al Fedone (si pensi anche solo a Beatrice, alle parole di duro rimprovero che nell’Eden rivolge a Dante); riferimenti cui andrà

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La paura elementare della morte, quella paura, dice Socrate, «che veramente, quando la vostra anima sarà lì per uscire dal cor-po, il vento la soffi via e la disperda del tutto», è il punto su cui ancora si può scavare nel Fedone. Consideriamo, nella seconda strofa di Voce giunta con le folaghe, quel «teme che» lasciato nel vuoto, uno dei punti in cui la tensione drammatica della scena si fa più carica:

l’ombra fidata e il muto che risorge, quella che scorporò l’interno fuocoe colui che lunghi anni d’oltretempo (anni per me pesante) disincarnanosi scambiano parole che interitosul margine io non odo; l’una forse ritroverà la forma in cui bruciava amor di Chi la mosse e non di sé, ma l’altro sbigottisce e teme chela larva di memoria in cui si scaldaai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

Vibra nell’inarcatura l’emozione di un argomentare che davve-ro si è fatto dramma vivo. Il primo verso della strofa, come fosse una didascalia, poneva l’uno di fronte all’altro i personaggi di un dialogo che l’io del poemetto non riesce a udire: «l’ombra fidata e il muto che risorge». La natura e la consistenza delle due figure prendono campo, dopo questo primo verso, in relazione diretta con le forme della sintassi e della versificazione: «quella che scor-porò l’interno fuoco / e colui che lunghi anni d’oltretempo / (anni per me pesante) disincarnano…».

C’è però, marcata dal verso e dalla sintassi, una differenza fon-damentale tra l’«ombra fidata» e il «muto che risorge». L’essenza della prima si raccoglie in un’unica enunciazione, che non supera i confini del verso e della frase. Per il «muto che risorge», inve-ce, il discorso travalica, si stende su due versi, persino si apre al cambio di prospettiva: dall’«oltretempo» del padre morto all’io «pesante» del figlio vivo, per cui solo ha senso contare i «lunghi anni» (anche in A mia madre s’accoglieva, nella parentesi, una sorta di inversione prospettica). L’ombra è riuscita a scorporare l’interno fuoco, a renderlo puro fuoco libero dalle costrizioni cor-

dato il giusto peso in un’interpretazione complessiva della poesia.

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poree. Il padre sembra invece ancora legato più alla spoglia che a quel fuoco, una spoglia disincarnata e ridotta a larva, in una dimensione ancora misurata sul tempo dei vivi.39

Proviamo a seguire ancora l’opposta psicologia delle due figure nella forma dei versi, fino all’enjambement. «Amor di Chi la mos-se e non di sé» è un verso-concetto costruito sul modello dante-sco: «Amor ch’a nullo amato amar perdona», «l’Amor che move il sole e l’altre stelle»… Il verso successivo, attribuito al padre («ma l’altro sbigottisce e teme che»), ha esattamente le stesse percus-sioni, è in rima col precedente sul monosillabo finale, eppure non descrive un concetto finito, ma un movimento drammatico. Il verso spezzato dall’enjambement si pone tra la definizione di una figura esemplare («la forma in cui bruciava / amor di chi la mos-se…») e la messa in scena di un affetto, anch’essa inarcata su due versi («la larva di memoria in cui si scalda / ai suoi figli»). Così, mentre scandisce un passaggio concettuale, la clausola «teme che» è investita dallo scompiglio dei sentimenti.

Questo momento di rottura della voce, su cui insieme cade la pausa logica del ragionare, è tipico del Fedone di Valgimigli. Al-cune frasi subordinate, a volte anche una virgola, creano sospen-sione dopo un verbo che è, in quattro casi, proprio ‘temere’:

[Cebète:] – O Socrate, quanto al resto pare a me che si dica bene; ma quanto all’anima c’è negli uomini molta incredulità: perché temono che, quand’ella si sia distaccata dal corpo, non esista più in alcun luogo, e si guasti e perisca il giorno stesso in cui l’uomo muore; temono cioè che, nell’atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, sùbito come soffio o fumo si dissipi e voli via, e così cessi dall’esistere del tutto.40

L’anima di chi è filosofo […] pensa che […], terminando la vita, perve-nuta a quegli esseri che sono della stessa sua origine e a lei somiglianti, sarà libera finalmente da ogni male umano. E così, o Simmia e Cebète, alimentata di questo suo nutrimento, non c’è pericolo abbia a temere

39 Delle due relative, «quella che…» e «colui che…», i due determinati solo l’uno soggetto dell’azione (è l’ombra a scorporare, a spogliare dei residui corporei, l’«interno fuoco», con azione efficace e vittoriosa), l’altro oggetto (il padre è passivamente disincarnato dai «lunghi anni d’oltretempo»).

40 Si noti, nel seguito della battuta, il ricorrere dell’aggettivo ‘libero’: «Che se invece l’anima rimanesse in qualche parte tutta raccolta in se stessa e libera da codesti mali dei quali discorrevi or ora, grande speranza sarebbe, o Socrate, e bella, che sia vero quello che tu dici».

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che, anche strappata violentemente nel suo separarsi dal corpo, ella sia dai venti soffiata via e dispersa, e vanisca a volo per l’aria, e non sia più nulla in nessun luogo.

Simmia, se non sbaglio, dubita e teme che l’anima, pur essendo più divina e più bella del corpo, muoia prima del corpo, come quella che è una specie di accordo.

Il punto capitale della tua ricerca è questo: tu vuoi ti sia dimostrato che l’anima nostra è indistruttibile e immortale. Altrimenti, se uno che ha in vita professato filosofia, mentre è per morire, confida e crede che, dopo morto, sarà di là assai più felice che se morisse dopo vissuta una vita tutt’affatto diversa, costui, tu dici, si fa forte di una confidenza che è dissennata e pazza.41

Col verbum timendi l’immagine è per lo più quella del vento che disperde, che soffia via l’anima. E negli ultimi due casi incon-triamo delle coppie verbali, «dubita e teme che», «confida e crede che», analoghe a quella di Voce giunta con le folaghe, «sbigotti-sce e teme che». La traduzione di Acri varia in ognuno di questi passi, e soprattutto non isola, con quella momentanea sospen-sione della frase, le parole su cui si addensa la forza drammatica, «teme che». A guardare il testo greco, si scopre addirittura che nella prima delle citazioni il verbo φοβεῖν era assente: è la tra-duzione a esplicitare la conseguenza psicologica di quella «mol-ta incredulità» che «c’è negli uomini» (πολλήν πιστίαν παρέχει τοῖς ἀνθρώποις). Tale atteggiamento stilistico è certo determina-to dall’assunzione (consapevole nell’interprete-traduttore) del φοβεῖν del «fanciullino» a fonte di ogni credenza sulla morte, e quindi a polarità negativa delle argomentazioni socratiche. E mostra, nel caso particolare, la caratteristica di tutta l’interpreta-zione di Valgimigli, l’attenzione per il dato psicologico e umano elementare che è alla base del dialogo, e che ne assicura la vitalità nei secoli.

Ma il tratto di stile è anche, per noi, la conferma più decisa che in questo Fedone la poesia di Montale si è veramente immersa. Per uscirne poi, per seguire la sua strada: col segno, tuttavia, che lasciano gli incontri fondamentali.

41 I passi sono, rispettivamente, 69e-70b, 84a-b, 91c-d, 95b-c.

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5. Alcune questioni, per non concludere

Questioni di esegesi, e di critica: veramente non si cesserebbe mai di tornare su un testo, di porsi domande, di cercare risposte. Qualcosa ancora resta da dire, non tanto per esaurire il discorso su Voce giunta con le folaghe, o sulle prose, che sono uno dei ter-reni di studio per la critica di domani, ma per trarre da quanto s’è raccolto alcuni suggerimenti esegetici, e per svolgere qualche riflessione critica a partire da ciò che, al contrario, si sottrae alla raccolta dei dati e al dialogo fra i testi. Partiremo dagli accerta-menti, per concludere con una riflessione sullo statuto testuale dell’«ombra viva» di Voce giunta con le folaghe come personaggio e presenza significante.

Dal carteggio con Contini emerge un certo interesse di Montale per il giudizio dell’amico a proposito di Sul limite. Il 23 settembre 1946 gli scrive: «Vedesti la scena della mia morte nel racconto ‘Sul limite’? Mi ha procurato lettere di sdegno. Pare che io abbia offeso l’al di là»; e quindi, in un poscritto alla lettera successiva del 1° no-vembre: «Quel mio racconto sul limite ti capitò mai sottocchio? È uscito in agosto» (all’inizio della lettera Montale chiede a Con-tini della precedente, non avendo ricevuto risposta).42 La poesia dei morti di Finisterre, s’è detto, trae qualche alimento proprio dallo scambio epistolare con Contini, che il 19 novembre del ’42 parlava, nella sua lettera di condoglianze a Montale, di «anime come formae separatae», e in quella del 2 febbraio ’43 scriveva d’aver letto Personae separatae, ma che sospendeva il giudizio sentendosi «quasi una frazione di parte in causa».43

Era ben presente a Contini il duplice indirizzo di una raccolta come Finisterre: «a Finisterre comincia l’Oceano, comincia il ma-re-dei-morti (punta del Mesco) ecc., di lì si dice addio alla pro-prietaria dei primi e alla Proprietaria degli ultimi versi» (lettera del 30 aprile ’43).44 Ciò rende ancora più naturale la sollecitazio-ne di Montale a pronunciarsi sul racconto, che di fatto è uno dei primi esperimenti in cui lo stile ‘sublime’ di Finisterre subisce un rovesciamento ironico. Un passo della Visita a Fadin sarà perciò

42 D. Isella (a cura di), Eusebio e Trabucco, cit., pp. 141 e 148.43 Ivi, pp. 77 e 83.44 Ivi, p. 87.

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ancora da affiancare a parole di Contini, che nella citata lettera del 19 novembre 1942 scrive: «sento da Ferrata del lutto che ti ha colpito. Immagino che esso ti renda sempre meno ‘reale’ il mondo in cui ci muoviamo, una bella pazzia in verità!, specialmente se penso a quella morte anticipata di cui mi parlavi».45 E nella Visita, in un passo che abbiamo già letto:

Exit Fadin. E ora dire che non ci sei più è dire solo che sei entrato in un ordine diverso, per quanto quello in cui ci muoviamo noi ritardatari, così pazzesco com’è, sembri alla nostra ragione l’unico in cui la divinità può svolgere i propri attributi, riconoscersi e saggiarsi nei limiti di un assunto di cui ignoriamo il significato.46

Già qui, come in Sul limite, la vita di chi rimane in questo mon-do è quella di «ritardatari» rispetto al transito in un mondo diver-so, irrappresentabile, dove la «divinità» è quasi una sorgente: se si svolge e riconosce se stessa nel mondo di qui (e forse in questo «avrebbe bisogno di noi»), lo fa «nei limiti di un assunto di cui ignoriamo il significato»: tale assunto che ci sfugge anticipa il ca-rattere di oscurità di quel «senso reminiscente» in Voce giunta con le folaghe, dal quale tutto proviene e al quale tutto torna, se-condo la dottrina platonica dell’anima. Ma ancora una volta oc-corre precisare che a ricoprire quel «punto dilatato» Montale non pone la presenza di un Dio positivo. «La religiosità montaliana», scrive Angelo Marchese, «è religiosità dell’esigenza, non delle risposte, e tanto meno dei dogmi; della domanda inquietante e della ricerca non mai risolta in un approdo pacificato».47

Un’altra questione riguarda quel doppio genitivo del verso 30 di Voce giunta con le folaghe, «amor di Chi la mosse e non di sé»: è da intendersi come oggettivo o come soggettivo? E il padre, in che senso si scalda ai suoi figli in una larva di memoria? Qualche aiuto può giungere dalle pagine di Platone (e di Valgimigli). La «forma in cui bruciava / amor di Chi la mosse e non di sé» sarebbe allora la forma originaria di Lei. Il dio, diceva Platone, ha mosso le anime a

45 Ivi, p. 77. Corsivo mio. 46 Corsivo mio. «Pazzesco», peraltro, ha ulteriori occorrenze nelle prose di

Montale. Cfr. p. es. La donna barbuta: «Egli pensava che non fosse pazze-sco da parte sua aver evocato in corpo e spirito la defunta guardiana delle sue passeggiate infantili» (PR, p. 44).

47 A. Marchese, Amico dell’invisibile, cit., p. 205.

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venire su questa terra, e presso di lui esse torneranno. Montale evi-ta di nominare quel dio. È la puntualità dell’evento a circoscriverne la figura, quasi tautologicamente: Egli ha mosso lei, dunque Egli è «Chi la mosse». Ma quando l’anima era presso il dio (era: la no-stalgia è un tratto dei ragionamenti di Socrate), la sua forma viveva («bruciava») dell’amore per lui («amor di Chi la mosse»), e non dell’amore per sé («e non di sé»), il quale invece distoglie le anime dal tornare a Dio, dallo spogliarsi del carcere corporeo e dei rim-pianti di quella vita corporea. I due genitivi sono dunque oggettivi.

La «larva di memoria in cui si scalda» il padre sembra essere, così, la forma imperfetta di un amore male indirizzato. Il padre non torna a bruciare presso il dio, dell’amore riposto in quel dio, ma «si scalda ai suoi figli». Egli lega la forma imperfetta in cui lar-valmente sopravvive, fatta di memoria del terreno, a qualcosa di terreno: l’amore e la memoria dei suoi figli, unico debole ricordo, sulla terra, di sé. Ma Socrate gli direbbe che è proprio tale amore rivolto alla terra a confinarlo in quella «larva di memoria», e che la prospettiva deve essere capovolta: non si spegnerà, quella lar-va, al «nuovo balzo», o meglio non si spegnerà l’individualità del padre; ma sarà ancor più se stessa, si ritroverà.

A chi appartiene, infine, l’«ombra viva» di Voce giunta con le folaghe? La questione è importante per l’intelligenza del testo, se non la si pone in termini di riduzione a un referente biografico, ma, come scrive Giuseppe Savoca, come identificazione della sua «sostanza figurale», della «peculiare essenza umana e femmini-le» che la contraddistingue e che «va rispettata e decifrata».48

In molti punti mi trovo d’accordo con l’intelligente lettura di Sa-voca, ma fatico ad accettarne la tesi di fondo che l’«ombra» sarebbe quella della madre. A prescindere dal fatto che i tratti che la carat-terizzano la accomunano, come s’è visto, in maniera difficilmente contestabile alle epifanie di Clizia e alla sua funzione soterica (an-che se a loro volta tali caratteri sono condivisi da altri personaggi, come giustamente rileva Savoca), mi pare che la scelta di porre la figura della madre su una ribalta come quella di Voce giunta con le folaghe contrasti col riserbo di cui Montale vela la propria liturgia materna. Il padre, la cui semplicità materiale e un po’ stravagante si convertiva in ignaro dono profetico nell’ironia di Dov’era il ten-

48 G. Savoca, L’ombra viva della “Bufera”, cit., p. 388.

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nis…, può ben ricevere il ‘rimprovero’ della «voce» («Ancora questa rupe / ti tenta?»): la prosa ne aveva fatto già, per la coscienza poe-tica di Montale, un ‘personaggio’. Ma la madre, che peraltro nella lirica a lei indirizzata mostra una fragilità che sarebbe in contrasto con la sicurezza dell’«ombra viva», occupa una sfera troppo perso-nale per assurgere a personaggio di una scena le cui figure stanno per il destino di noi uomini, e non più dei privati affetti del poeta – anche se dal suo privato mondo provengono gli attori di quella scena. Il titolo intermedio della poesia, Una voce ci è giunta con le folaghe (sulla «Fiera letteraria» del 12 luglio 1953), rende più espli-cita, del resto, tale dimensione universale. E, a proposito di dimen-sione universale, andrà pur riconosciuta la felicità di una soluzione drammatica come quella di far parlare l’ombra ex abrupto, senza alcuna preparazione e anzi dopo una scena svoltasi sotto gli occhi dell’io poetico quasi come un film muto («si scambiano parole che interito / sul margine io non odo»): il messaggio della voce acqui-sta così solennità, spessore, e la sua eco risuona – anche grazie agli accorgimenti del passaggio interstrofico, enjambement e ‘scalino’ – nell’animato movimento della sequenza finale, col sopraggiungere del «vento del giorno», lo sconvolgersi delle ombre, il «respiro» che «si rompe». Un trattamento tonale della scena che Montale eredita, se dobbiamo fare un nome, ancora da Dante, e che questi aveva appreso da Virgilio…

Per tornare alla sostanza di questa figura di donna, che sconta e ricorda per tutti: «certo, in origine, donna reale; ma qui e altro-ve, anzi dovunque, visiting angel, poco o punto materiale», dice Montale del personaggio di Giorno e notte, nella lettera del ’61 a Glauco Cambon che alla lirica aveva dedicato un articolo.49 In questa lettera, che Savoca non considera, è Montale stesso a sug-gerire l’identificazione dell’ombra di Voce giunta con le folaghe con Clizia (detto per brevità: ma il nome è solo una delle espres-sioni epifaniche del personaggio):

In sé la visitatrice non può tornare in carne ed ossa, ha da tempo cessato di esistere come tale. Forse è morta da tempo, forse morirà al-trove in quell’istante. Il suo compito di inconsapevole Cristofora non le consente altro trionfo che non sia l’insuccesso di quaggiù: lontananza, dolore, vaghe fantomatiche riapparizioni (vedi Iride pubblicata nel ’43

49 Si legge ora in OV, pp. 945-946 (citazione a p. 945), e in SMA, pp. 1497-1499.

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[cioè scritta nel ’43-’44 e pubblicata nel ‘45] e inclusa nella seconda edi-zione di Finisterre, pubblicata dal Barbèra), quel tanto di presenza che sia per chi la riceve un memento, un’ammonizione. La sua fisionomia è sempre corrucciata, altera, la sua stanchezza è mortale, indomabile il suo coraggio: se angelo è, mantiene tutti gli attributi terrestri, non è an-cora riuscita a disincarnarsi (cfr. con Voce giunta con le folaghe, scritta qualche anno dopo).50

A Macchia – autore, come s’è visto, della nota a Voce giunta con le folaghe su «L’immagine» – Montale chiederà, nel 1949, una prefa-zione al suo terzo libro, allora in gestazione con il titolo di Romanzo:

Da te vorrei una prefazione storica, di quelle che restano per lunghi anni. […] In parte potrai rifarti a quanto hai già scritto, magari utilizzare lo stesso testo; in ultimo dovrai centrare sul libro d’oggi. […] Non è che io voglia lodi; vorrei invece da te un tentativo di comprensione storica, di inserzione nel mio tempo, nei limiti in cui è possibile farlo.

Nel saggio dell’82 Il romanzo di Clizia, che contiene questa let-tera (datata 4 novembre 1949), Macchia scrive tra l’altro di aver preparato il «commento» a Voce giunta con le folaghe «senza il benché minimo ausilio da parte del poeta».51

Ora, nell’accogliere le ricostruzioni di Montale sulla propria poesia è bene tener conto della sua abitudine di tesaurizzare concetti ed espressioni della critica a lui più vicina. Nella lette-ra a Cambon, per esempio, ricorre a Contini quando parla degli «enigmatici annunzi dell’evento che sta per compiersi: l’istante ‘privilegiato’ (Contini), spesso la visitazione».52 La nota di Mac-chia, in un certo senso, ‘cattura’ l’ombra di Voce giunta con le fo-laghe, ne determina la sfuggente identità associandola a quella del personaggio conosciuto in altre poesie, «dalle più antiche L’Elegia di Pico o Nuove Stanze, alle recenti come La Primavera Hitleriana, attraverso Iride, Il tuo volo, ecc.».53

È vero, «l’ombra che accompagna il poeta ogni attento lettore non stenterà a riconoscerla».54 E alcuni ‘segni’ della figura fem-minile in Voce giunta con le folaghe convergono veloci, come a

50 OV, p. 946. Le integrazioni tra parentesi quadre sono dei Curatori.51 G. Macchia, Il romanzo di Clizia, cit., pp. 305 e 307.52 OV, p. 945.53 TP, p. 1098.54 Ibid.

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calamita, verso il «forte imperio» di Clizia. Né le mitografie del poeta, quando commenta se stesso, mancano di assecondare tale movimento: ma forse sono scritte per chi non è in grado di ac-cettare l’indeterminato per quello che è, e il vuoto ha bisogno di ricoprire con un nome, con una parola.

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Acri, F., 205, 205n, 206, 225Alain (E.-A. Chartier), 204Alessandro Magno, 98Alighieri, D., v. Dante Anceschi, L., 57, 57n, 58n, 72, 72n,

74n, 85, 85n, 86n, 95nAndersson, G., 83, 83nAndreoli, A., 98nAnnetta, v. ArlettaAntonielli, S., 85n Apollinaire, G., 12, 39, 39nAristofane, 111nAristotele, 205Arletta, Annetta, 17n, 33, 35, 35n, 40,

43n, 69, 69n, 74, 90, 103, 122, 122n, 123, 130, 132, 133, 134n, 135, 136, 141n, 142, 144, 146, 147, 147n, 148, 148n, 149, 151, 151n, 152-156, 156n, 157, 158, 161, 170n, 191, 192

Arvigo, T., 59n, 97nAsor Rosa, A., 45nAymone, R., 93n

Baldacci, L., 49n, 86n, 92Baldini, A., 12, 86nBanfi, A., 208, 208nBanville, Th. de, 98nBarański, Z., 163, 163n, 178nBarbuto, A., 95n

Barile, L., 107n, 110n, 131n, 202nBarilli, R., 58nBaroncini, D., 85nBattistini, A., 45nBaudelaire, Ch., 12, 26-28, 28n, 29-31,

31n, 37, 37n, 87n, 106nBausi, F., 110nBeatrice, 123, 130, 139, 139n, 143-146,

148, 161, 164, 167, 181, 183-186, 188, 190, 192, 222n

Beccaria, G. L., 17n, 49n, 53, 53n, 54, 54n, 55n

Becherini, O., 22n, 23n, 26nBettarini, R., 11, 122n, 133n, 143n, 145n,

155, 155n, 194nBenjamin, W., 37, 38nBlake, W., 145Blasucci, L., 47n, 54n, 59n, 116n, 138,

138n, 139n, 143n, 165, 165n, 179n, 184, 184n, 191n, 204n

Bonconte da Montefeltro, 23n, 182Bonfiglioli, P., 45, 45n, 58n, 59n, 64,

64n, 66n, 86n, 87n, 91, 165, 165nBonora, E., 122n, 156, 156nBranca, V., 155nBrandeis, I., 164, 164nBrowning, R., 31n, 35n, 87n, 106n

Calypso, 104

INDICE DEI NOMI

I nomi di personaggi biblici, mitologici, letterari (anche quando già storici) sono riportati in corsivo. Si diversifica fra Dante e Virgilio autori e personaggi della Commedia. Per Giovanni Pascoli, i numeri di pagina si riferiscono alla sola seconda parte del libro.

Page 234: E. Tatasciore, "Di ombre e cose salde. Studio su Montale", Mimesis, Milano-Udine 2015

234 Di ombre e cose salde

Cambon, G., 131n, 229, 230Campana, D., 103nCaproni, G., 58, 58n, 84, 84n, 85, 85n,

86, 88, 88n, 95, 95n, 96, 113, 115, 117Cardarelli, V., 103nCarducci, G., 25n, 59n, 65, 67, 81, 84,

93, 101n, 110nCarena, C., 205nCaro, A., 104nCasella, 196Cataldi, P., 97n, 107n, 115Catullo, 15n, 163nCebète, 200, 202, 206, 214, 221, 224Cencetti, C., 97n, 111nCentrone, B., 201nChaucer, G., 163nCibele, 138Clementelli, E., 140nClements, R., 155nClizia, 33, 69, 79, 103, 122, 123, 130,

133, 133n, 137, 137n, 138, 139, 139n, 141n, 144, 145, 147, 148, 148n, 150-152, 152n, 153, 157n, 161, 164, 167, 181, 183, 185-189, 191-193, 193n, 194n, 195, 198, 228-230, 230n, 231

Conte, G. B., 15n, 57nContini, G., 11, 19n, 34, 34n, 38, 48n,

62n, 73, 73n, 74n, 86n, 92, 112, 151, 151n, 157, 157n, 162, 162n, 165, 165n, 190, 197n, 211, 211n, 218, 226, 227, 230

Contorbia, F., 107nCorazzini, G., 103nCorrado Malaspina, 181nCorti, M., 95n, 162nCremante, R., 86nCristo, 122n, 138, 141, 193Croce, B., 92, 108Curi, F., 10, 57n, 58n, 113n

D’Amely, F., 97n, 107n, 115Dante, 9, 12, 15n, 17n, 20n, 26, 47, 58n,

71, 122n, 138, 142-144, 145n, 148, 161, 162, 162n, 163, 163n, 164, 164n, 165, 165n, 166n, 169, 170, 170n, 172, 172n, 175, 176n, 178, 178n, 179, 180, 182n, 184-186, 188, 195, 195n, 197, 199, 229

Dante, 23n, 123, 136, 143, 148, 161, 167, 177, 182-188, 192, 196, 222n

D’Annunzio, G., 17n, 30n, 38n, 47, 47n,

53n, 58n, 59n, 65n, 66n, 70, 74n, 75, 84, 85n, 91-93, 93n, 94n, 97, 98, 98n, 100, 100n, 101n, 103, 103n, 104, 106, 106n, 112, 134n, 163, 173, 173n

Debenedetti, G., 49, 49n, 92, 108De Bosis, A., 189nDe Caro, P., 122n, 124, 124n, 170nDegli Uberti, A. (Annetta), 122n, 170nDe Lancastre, M. J., 199nDe Rogatis, T., 47nDufy, R., 12

Eliot, T. S., 57n, 142, 162, 186Eschilo, 205Esiodo, 111nEzechiele, 130, 131, 136, 139, 140, 140n,

141-143

Fadin, S., 156, 208-211, 226, 227Fedone, 210Felici, L., 24nFerrata, G., 211, 227Forti, M., 11 Fortini, F., 54n, 95nFoscolo, U., 163, 163nFracassa, U., 11Fred, 215

Garboli, C., 65, 65n, 69, 69n, 92Garin, E., 208nGenetelli, C., 97nGinzburg, L., 108Giona, 138Giovanna, 212, 215Giovanni, 143Giove, 138, 187nGirardi, A. M., 15n, 59n, 97, 100n, 101nGiudici, G., 95nGiusti, G., 172nGivone, S., 40nGobetti, P., 107, 108Gori, G. M., 45nGovoni, C., 59n, 66n, 103n, 113, 173nGozzano, G., 30n, 31n, 58n, 59n, 74,

74n, 75, 85n, 87n, 91, 103n, 106n, 112, 163

Grignani, M. A., 107n, 122n, 134n, 144n, 150, 156, 156n

Page 235: E. Tatasciore, "Di ombre e cose salde. Studio su Montale", Mimesis, Milano-Udine 2015

Indice dei nomi 235

Guarnieri, S., 35, 35n, 40, 40n, 141, 142, 155

Haywood, E., 163nHuffman, C., 156n, 178n

Iacopo del Cassero, 182Iri, Iride, 138, 139, 153, 156, 157n, 203,

229, 230 Isella, D., 17, 17n, 43n, 47n, 48, 48n,

141n, 162n, 179n, 204n, 211, 211n, 226n

Isotta, Isolda, 105n

Jack, 215Jacomuzzi, A., 163, 163n, 165, 165n,

203, 203nJones, B., 163n

Kavafis, C., 106n

Laurano, R., 49, 49n, 54nLavezzi, G., 86nLeonelli, G., 66nLeopardi, G., 24, 24n, 58n, 108, 115, 116,

163Lonardi, G., 35, 35n, 36n, 113n, 147n,

150, 150n, 157nLorenzini, N., 10, 57n, 58, 58n, 91, 91nLucifero, 138Luperini, R., 122n

Macchia, G., 12, 152n, 181, 207, 207n, 230, 230n

Macrì, O., 122n, 198nMallarmé, S., 98nManacorda, G., 105nManfredi, 182Manghetti, G., 194nManzoni, A., 176nMarchese, A., 201n, 227, 227nMaria, 185Mariano, E., 94nMatteotti, G., 107, 117Mattioli, E., 58nMauro, W., 140nMazzotta, C., 45nMengaldo, P. V., 45, 45n, 47n, 58n,

59n, 65n, 66n, 73, 73n, 74n, 76n,

85n, 91, 91n, 99, 99n, 100, 100n, 101n, 103, 103n, 134n

Momigliano, A., 12, 145, 145n, 175, 176, 176n, 182, 182n

Montale, Domingo (padre di Eugenio), 173

Montale, Marianna (sorella di Euge-nio), 131, 201n

Montesano, G., 12Monti, V., 104nMoretti, M., 103nMosca, 71, 151, 203Mussolini, B., 107

Nascimbeni, G., 155nNassi, F., 19n, 21n, 22n, 23n, 26n, 59n,

66n, 80nNava, G., 50n, 86n, 98Nencioni, G., 15, 15n, 57, 57nNesso, 187nNietzsche, F., 44 Nosenzo, F., 122n, 151n

Odisseo, v. UlisseOmero, 104, 205Orelli, G., 48nOrlando, R., 17n, 32nOvidio, 15n, 21, 145

Palazzeschi, A., 103nPampaloni, G., 84nPascoli, G., 163, 165n, 169, 173, 180,

180n, 201, 202n, 205, 220Pascoli, Ida (sorella di Giovanni), 20nPascoli, Maria (sorella di Giovanni),

11, 20n, 93nPascoli, Ruggero (padre di Giovanni), 72Pasolini, P. P., 22n, 23n, 27, 27n, 29,

29n, 30, 45, 45n, 58n, 59n, 63, 73, 86, 86n, 87, 87n, 88, 89, 103n

Pasquali, G., 112, 112nPasquini, E., 59nPavese, C., 103nPedroni, M. M., 59n, 110nPessoa, F., 199, 199nPetrarca, F., 163nPiccarda, 198Piccoli, R., 189nPier della Vigna, 23n, 177, 180

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236 Di ombre e cose salde

Pindemonte, I., 104, 104nPintor, G., 107nPlatone, 199, 199n, 201n, 202n, 204,

205, 205n, 206n, 207n, 209n, 210n, 216, 216n, 218, 219n, 220, 222, 227

Previtera, L., 11Polito, P., 59nPound, E., 57n, 186Properzio, 163n

Quasimodo, S., 57n, 103n

Raboni, G., 12, 117nRagusa, O., 155nRaimondi, E., 15n, 94nRamat, S., 52nRebay, L., 155, 155nRebora, C., 103nRella, F., 37nRicci, Giuseppina (madre di Montale),

173Richter, M., 28n, 31nRilke, R. M., 106n, 107nRoccatagliata Ceccardi, C., 99Roda, V., 59nRomolini, M., 17n, 166n, 168n, 193nRossi, L., 58nRusso, C. F., 112n

Saba, U., 37n, 103nSalibra, E., 10Sanguineti, E., 59n, 74n, 86nSantagata, M., 98nSapegno, N., 108Savoca, G., 103n, 166n, 172n, 187n, 228,

228n, 229Sbarbaro, C., 62n, 103nScaffai, N., 151, 152, 152n, 195n, 213nScartazzini, G. A., 12, 145, 177, 196Schiaffini, A., 84nSchopenhauer, A., 109, 202n, 210Scialoja, T., 207nSegre, C., 15nSereni, V., 95, 95n, 117, 117nShakespeare, W., 17nShelley, P. B., 35, 35n, 189n

Silio Italico, 105nSimmia, 200, 214, 217, 221, 224, 225Sisco, J., 15nSiti, W., 203, 203nSocrate, 200-202, 206-210, 216-218,

220, 221, 223, 224, 228Solmi, S., 108, 116, 116n, 117, 117n, 204Sommaruga, R., 154nStazio, 9, 195, 196Stelio Effrena, 134Strazzeri, G., 117nSurdich, L., 84n, 88n

Tabucchi, A., 199nTasso, T., 163nTatasciore, E., 38n, 93nTobia, 138Traina, A., 98nTristano, 105nTuroldo, D. M., 103n

Ulisse, Odisseo, 95, 98, 100, 102, 104-106, 109, 111, 112, 117, 169, 180

Ungaretti, G., 103n, 116

Vacante, N., 166nValgimigli, M., 84n, 201, 201n, 202-

206, 206n, 207-210, 216n, 217-219, 219n, 220-222, 224, 225, 227

Vandelli, G., 12, 145, 177, 196Verdino, S., 201nVerga, G., 176nVicinelli, A., 11, 26n, 84n, 111nVirgilio, 15n, 229Virgilio, 9, 164, 177, 181, 186-188, 190,

195, 196Volpe, 68n, 69, 133n, 151-153, 167

Wagner, R., 105n

Zabagli, F., 194nZampa, G., 11, 205nZanella, G., 71, 113nZanzotto, A., 95, 95nZennaro, S., 163nZollino, A., 59n, 173n

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I SENSI DEL TESTOCollana di critica e storiografia letteraria diretta da Fausto Curi

1. Fausto Curi, Il corpo di Dafne. Variazioni e metamorfosi del soggetto nella poesia moderna

2. Marco Gatto, L’umanesimo radicale di Edward W. Said. Critica letteraria e responsabilità politica

3. Fausto Curi, Struttura del risveglio. Sade, Benjamin, Sanguineti, Teoria e modi della modernità letteraria

4. Fausto Curi, Il critico stratega e la nuova avanguardia. Luciano Anceschi, i Novissimi, il Gruppo 63

5. Pier Luigi Ferro, La penna d'oca e lo stocco d'acciaio. Gian Pietro Lucini, Arcangelo Ghisleri e i periodici repubblicani nella crisi di fine secolo

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