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Capitolo IX
IMPRESA ED INDUSTRIALIZZAZIONE
IN GIAPPONE
1. Due diverse interpretazioni
Lo studio delle origini e dell’evoluzione dell’impresa
giapponese, ha visto nel tempo contrapporsi due letture della
industrializzazione giap-
ponese. L’una, che si sviluppò a partire dagli ultimi anni Venti
del XX secolo e che raggiunse la sua maturità nel corso del
riassetto postbellico
dell’economia, propone una interpretazione – definita in seguito
“orto-
dossa” grazie alla condivisione maggioritaria degli ambienti
accademici – che esalta, con argomentazioni anche suggestive ed
apparentemente
avvalorate da un imponente apparato documentale, la determinante
spinta modernizzatrice della “restaurazione Meiji” e dei funzionari
e-
spressi dalla classe dei samurai che la supportarono. Finendo
tuttavia
per concentrarsi più sulla riscoperta dei valori tradizionali
(da un in-trinseco “spirito dei samurai” all’etica confuciana, il
cui progressivo ab-
bandono nel periodo dello shogunato1 avrebbe determinato la
decadenza
del paese), che sui fenomeni innovativi che nell’economia
comunque si
stavano manifestando, indipendentemente dalle opzioni del
restaurato
governo imperiale e della sua burocrazia a base nobiliare.
L’altra – detta “revisionista”, e cresciuta a partire dagli anni
Sessanta – accentua l’ana-
1 Lo shogun (o generalissimo) era il capo militare-feudale cui
in Giappone, tra il
1191 e il 1868, fu delegato con poteri assoluti (ma in realtà
quasi mai gestiti
centralmente, bensì spartiti clientelarmente tra grandi e
piccoli feudatari) il governo
del paese, mentre alla figura divinizzata dell’imperatore era
riservata solo un ruolo
simbolico. La carica, ereditaria, fu detenuta da tre successive
casate (i Minamoto,
gli Ashikaga e, ultimi, i Tokugawa) fino a quando l’imperatore
Mutsuhito non
riuscì (appunto nel 1868) a ristabilire l’autorità imperiale e a
liquidare i potentati
feudali.
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Capitolo nono
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lisi sul ruolo delle distinte classi sociali, giungendo a negare
il primato dei samurai nel processo di industrializzazione e
valorizzando invece la
spinta dal basso, della gente comune, alla trasformazione dei
processi economici tradizionali.
Probabilmente, entrambe le letture estremizzano fenomeni più
arti-
colati e tra loro interdipendenti. Che, tuttavia, trovarono il
loro punto di coagulo (e di esplosione) proprio nella citata
restaurazione dell’autorità
imperiale (1868), e nella fine quindi della lunga età di
anarchia feudale. Subito dopo tale restaurazione, infatti, il nuovo
governo imperiale
cominciò a incoraggiare lo sviluppo di attività industriali di
tipo occi-
dentale sia importando macchinari e tecnologie straniere per
dotarne gli stabilimenti pilota che esso creò, sia chiamando
tecnici occidentali in
grado di fornire l’adeguata assistenza. Ma avviò anche una
politica di
incentivi o sussidi per i privati cittadini interessati ad
intraprendere attività manifatturiere: che emersero numerosi, tanto
che al volgere del
secolo appariva ormai chiaro che il Giappone stava entrando nel
novero dei paesi industriali.
Gli studi degli anni Venti e Trenta, primogenitori della c.d.
interpre-
tazione “ortodossa”, posero l’accento su questa rapida
industrializ-zazione individuandone le cause nel carattere
“peculiare” (e quindi
distintivo rispetto ai paesi occidentali) dell’imprenditorialità
giapponese,
considerata quale prodotto del particolare patrimonio culturale
e storico del paese.
2. L’interpretazione “ortodossa”
L’interpretazione “ortodossa”2 sostiene che la caduta
dell’ultimo sho-gun della casata Tokugawa, non infranse le rigide
barriere di classe pog-
gianti da un lato sui samurai (i guerrieri) e gli heimin (la
gente comune,
o in altri termini i contadini, i mercanti, gli artigiani), ma
finì per af-
fidare ai primi – che quasi mai avevano condiviso la
degenerazione del
potere feudale dello shogunato, e che anzi rappresentavano
l’élite morale
del paese, impregnati com’erano di etica confuciana e di senso
del do-
vere e devozione assoluta nei confronti dell’autorità
costituita, ovvia-
2 Cfr. la sintesi che ne fa K. YAMAMURA, L’industrializzazione
del Giappone. Impresa,
proprietà e gestione, in Storia economica Cambridge, vol. VII,
tomo II, Torino, Einaudi,
1980 [1a ediz. inglese, 1978].
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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mente a beneficio dell’intera società3 – un ruolo di guida nel
nuovo as-setto di potere centrato sull’autorità imperiale. Così,
dopo la restau-
razione imperiale, a reggere le redini del governo furono i
samurai. Secondo la tesi affermatasi nel Giappone prebellico, i
samurai furono
perciò destinati ad assumere il ruolo di guida, mentre i chonin
– i mer-
canti, che stando al modello occidentale, avrebbero potuto
legittima-mente aspirare alla leadership economica (e fors’anche
politica) – ne
accettarono la supremazia in sintonia con la tradizione della
loro so-cietà.
Il ceto mercantile sarebbe perciò rimasto passivo, attaccato ad
una
concezione statica dell’intermediazione minuta. Mentre sarebbe
stato dalle file dei samurai di basso o medio rango ad uscire –
oltre che il
personale politico – i mercanti di nuovo tipo, i banchieri, gli
industriali.
Con tali premesse, due generazioni di storici economici
giapponesi si prodigarono a fornire le prove che il ruolo di
imprenditori venne as-
sunto in modo largamente predominante dai samurai: che divennero
burocrati-imprenditori in quanto posti a capo degli stabilimenti
pilota
dello stato, imprenditori indipendenti quando intrapresero in
proprio,
banchieri patriottici nel momento in cui si trovarono a
finanziare l’in-terscambio con l’estero o lo sviluppo di nuove
attività manifatturiere, en-
fatizzando su tutto l’importanza delle imprese fondate dal
governo nel-l’aprire la strada all’industrializzazione del paese.
Le manifatture gover-
native fecero, in verità, la loro comparsa nei più svariati
settori: dalla
filatura della seta e del cotone, alla cantieristica, al vetro,
al cemento, al-l’industria dello zucchero, alle cartiere, alla
produzione di armi da fuoco
ecc.
Queste interpretazioni prebelliche, si focalizzarono sulle
figure dei samurai-burocrati e dei samurai-imprenditori nello
sviluppo delle ban-
che e dei cotonifici moderni. La creazione del sistema bancario,
uno degli elementi fondanti di
ogni processo di industrializzazione, venne attribuita quasi
interamente
ai samurai. A partire dal fatto che il governo, per assicurare
all’industria nascente il credito di cui aveva bisogno, e dopo
essere riuscito – grazie
alla legge bancaria del 1872, la prima del paese – a far nascere
quattro
banche di tipo occidentale (e, cioè, di deposito e
finanziamento) con
3 Gli heimin, la gente comune, sarebbero invece stati privi di
queste virtù, ovvero ad
essi non venivano richieste e dovevano invece impegnarsi nel
lavoro manuale, es-
sere parsimoniosa ed obbedire, com’era consono al loro (basso)
stato sociale.
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Capitolo nono
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l’imposizione ad altrettante grandi ditte mercantili compromese
con lo shogunato (gli Zaibatsu) di impiegarvi le risorse
necessarie, aveva poi
con una successiva legge del 1876 indirizzato i capitali di
molti samurai, originati dagli indennizzi statali per l’avocazione
dei loro privilegi, alla
costituzione di circa centosessanta istituti di credito minori
in cui gli
stessi samurai avrebbero assunto funzioni direttive. Per quanto
riguarda invece le attività cotoniere, gli storici prebellici
enfatizzarono – assieme alla già ricordata fondazione di
stabilimenti pilota la cui guida fu affidata a samurai-burocrati –
la cessione da parte
del governo (mediante concessione di un prestito decennale) di
dieci
lotti di fusi di filatura importati dalla Gran Bretagna ad
altrettanti imprenditori quasi tutti del ceto dei samurai, le cui
imprese sarebbero
poi state alla base dell’impianto in Giappone di una moderna
industria
del cotone. In queste attività e in questi sussidi, veniva
rinvenuta la prova che lo stato aveva svolto un ruolo essenziale
nell’avviare un
nucleo di attività manifatturiere destinate, già prima del nuovo
secolo, ad esercitare una funzione trainante nel processo di
industrializzazione.
Così come la esercitarono i molti samurai di basso rango o di
cam-
pagna, avviando, anche senza aiuti governativi, imprese private
poi ovviamente destinate a prosperare e a ingigantirsi.
Insieme a numerosi altri, questi esempi di imprenditorialità
congiunta
del governo e dei samurai, o quella indipendente dei samurai,
servivano a rafforzare la tesi che lo sviluppo economico del
Giappone era stato
diretto dall’alto: conseguenza inevitabile e del retaggio
socio-economico del paese, e dell’inizio tardivo della sua
industrializzazione.
Col medesimo intento, venivano proposte biografie di
imprenditori
“esemplari” che testimoniavano di questa azione congiunta.
Tipica quella di Eiichi Shibusawa, attivo a partire dalla seconda
metà degli
anni Sessanta del XIX secolo, e morto più che novantenne
all’inizio de-
gli anni Trenta del Novecento. Figlio di un ricco agricoltore,
Shibusawa divenne samurai di basso rango alla fine del periodo
dello shogunato,
passando dal ruolo di consulente finanziario (1867) dell’ultimo
shogun
ad alte responsabilità nel nuovo governo Meiji, sino a
raggiungere –
prima di dimettersi contro le tendenze militariste ed
espansionistiche da
questo assunte – il secondo posto per importanza gerarchica nel
po-tentissimo ministero delle finanze. Come privato cittadino, egli
fu pro-
motore di svariate iniziative economiche, a partire dalla
fondazione della prima Banca nazionale nel 1872 (Daiichi Ginko) del
quale assunse
la presidenza, via via fino ad arrivare alla creazione della
prima grande
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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cartiera di tipo “occidentale” del Giappone, e a partecipare
all’avvio del Cotonificio di Osaka, gigantesco secondo i criteri
dell’epoca e destinato
a svolgere un ruolo di guida del settore. I suoi biografi,
tuttavia, più che approfondirne le indubbie qualità
imprenditoriali, ne descrissero soprat-
tutto i tratti etici, ideologici: dalla sua preoccupazione per
il bene della
nazione, agli sforzi volti alla sostituzione delle importazioni
con pro-duzioni interne, alla teorizzazione di una
industrializzazione che non
negasse (ma che anzi costantemente vi si ispirasse) la dottrina
confucia-na. Ricordando, ad esempio, come per pungolare
l’intraprendenza degli
uomini d’affari giapponesi, Shibusawa fosse solito a richiamarli
ad in-
formare la loro attività allo “spirito dei samurai”, seguendo
perciò i prin-cipi di integrità personale, di giustizia, di
magnanimità, di cavalleria da
essi praticati. Giacché l’imprenditore era responsabile
innanzitutto nei
confronti della collettività: e, nell’assolvere ai propri
doveri, egli poteva conquistare non solo il rispetto dei
compatrioti, ma anche quello degli oc-
cidentali. Le citazioni dei suoi scritti e dei suoi discorsi,
servirono perciò ai pri-
mi storici dell’economia giapponese per suffragare la tesi che
egli fosse il
tipo perfetto dell’imprenditore, comprovando nel contempo la
validità della spiegazione che essi davano del rapido successo
economico del pae-
se.
E cioè del ruolo primario dello stato, che oltre a intervenire
attiva-mente nella creazione delle infrastrutture di base
(telegrafo, ferrovie,
strade) necessarie ad una moderna economia, aveva favorito
l’introdu-zione della tecnologia occidentale, creato banche e
imprese, ma soprat-
tutto promosso la crescita di un efficiente ceto burocratico
(prevalentemen-
te composto da ex samurai) in grado di supportare la
modernizzazione, anche con l’opera di persuasione o dissuasione nei
confronti dei com-
portamenti tradizionali delle case mercantili d’ancien régime, o
della gen-
te comune.
Nell’industrializzazione, in sostanza, l’azione del governo fu
diretta e
onnipresente, tanto che anche le banche nacquero per sua volontà
e con il capitale dei samurai.
Il punto focale della storiografia “ortodossa” prebellica (ma
anche
postbellica) fu in sostanza di offrire una spiegazione unitaria
del rapido sviluppo del Giappone moderno, coerente con la cultura,
la storia e le
tradizioni del paese. Cosicché il tardivo avvio
dell’industrializzazione ne giustificava anche i rapidi successi, e
il fatto che le sue vicende non
avessero riscontri in alcun altro paese asiatico.
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Capitolo nono
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Una lettura a tutto tondo, ed autosostentantesi, che anche i
primi stu-diosi occidentali interessati (a partire dagli anni
Cinquanta) alle origini
industriali del Giappone, non ebbero difficoltà a condividere4.
Ciò che soprattutto li convinceva era la nuova legittimazione che –
dal restau-
rato potere imperiale, pur con l’abolizione di tutti i privilegi
feudali e
quindi anche dei privilegi dei samurai – molti di questi avevano
tratto entrando nella pubblica amministrazione, in taluni casi
giungendo a ri-
coprire posizioni di vertice nei ministeri finanziari: posizioni
che sem-bravano avvalorare la tesi del loro determinante ruolo nel
processo di in-
dustrializzazione .
3. La storiografia “revisionistica”
La storiografia “revisionistica”, che si sviluppò a partire
dagli anni Ses-santa, mise in discussione tale impostazione. E
sulla base di una metico-
losa rivisitazione della documentazione originale (registri e
libri aziendali ecc.) delle prime imprese ottocentesche, delle
banche, della stessa at-
tività della amministrazione governativa, oppose
all’interpretazione clas-
sica altre “verità”. Innanzitutto, che il ruolo imprenditoriale
dei samurai andava rime-
ditato alla luce del fatto che molti fondatori di imprese di
successo, con-
siderati samurai, erano tali solo formalmente: giacché molti –
in genere mercanti di media dimensione, o piccoli proprietari
terrieri – avevano ac-
quistato il titolo rilevandolo da samurai in miseria nell’ultimo
periodo dello shogunato. Per cui le loro attitudini di classe, i
loro interessi, i loro
valori, erano altri. La stessa spinta ad intraprendere non era
dettata da
motivazioni etiche, o dal desiderio di perseguire il vantaggio
della na-zione, bensì dalla più concreta spinta al profitto,
all’arricchimento per-
sonale.
Inoltre, che la pur effettiva prevalenza del capitale degli ex
samurai indennizzati all’interno delle molte delle banche nate in
seguito alla
legge bancaria del 1876, era andata ben presto attenuandosi
(anche grazie a vendite parziali o totali delle azioni da questi
possedute) a
4 Anche per l’ostacolo della lingua, che costrinse gli autori
occidentali (soprattutto
americani, o inglesi) a lavorare su traduzioni degli studi
giapponesi, piuttosto che a
indagare direttamente le copiose fonti documentarie
esistenti.
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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vantaggio del capitale sottoscritto da mercanti e da
imprenditori non samurai.
E, ancora, che gli stabilimenti pilota impiantati dal governo (e
diretti da funzionari di origine samurai, o comunque da burocrati
statali) erano
stati scarsamente efficienti, sia nell’organizzazione produttiva
che nei
risultati d’esercizio, questi ultimi alterati nei rendiconti
annuali al fine di nascondere le perdite.
La stessa funzione di diffusione delle tecnologie importate
mancò, perché spesso i direttori di tali opifici si opposero alle
visite di impren-
ditori privati che vi volevano apprendere i rudimenti del
mestiere. Tanto
che questi dovettero non poche volte ricorrere a sotterfugi per
conoscere il tipo dei macchinari impiegati, le caratteristiche
delle caldaie che
fornivano l’energia motrice, l’organizzazione interna ecc.
Dagli studi “revisionisti” si trae l’impressione che il decollo
in-dustriale avvenne piuttosto per l’azione di una miriade di
imprenditori
privati di origine mercantile che, con proprie risorse, spesso
senza ausilio dello stato, tentarono vie nuove, in parte collegate
a quanto delle
tecnologie occidentali si riusciva a copiare, in parte originate
da un
autonomo sforzo innovativo. Su cui senz’altro influì l’azione
statale, ma più rivolta – come era
avvenuto nel mondo occidentale – a dotare il paese (mediante un
mo-
derno sistema di infrastrutture) di un considerevole stock di
capitale fisso, piuttosto che a dirigere dall’alto lo sviluppo
dell’economia. In-
dubbiamente un’azione-chiave, che tuttavia la tesi “ortodossa”
dell’in-dustrializzazione “guidata” aveva finito per sottovalutare
e, a volte, per
dimenticare.
Questo filone di ricerca, cui si indirizzarono presto anche gli
studiosi occidentali, finì per focalizzare il problema del
finanziamento indu-
striale quale strumento cardine della modernizzazione.
Individuandovi
una delle caratteristiche peculiari del rapido sviluppo
giapponese, più di quanto fossero convincenti le tesi sullo
“spirito dei samurai” o sull’etica
del confucianesimo. Che tale problema fosse essenziale, lo si
ricava dall’attenzione che
alla creazione di un sistema bancario altrimenti inesistente fu
riservata
dal potere imperiale con le due menzionate leggi bancarie del
1872 e del 1876. Queste operazioni si inserivano su un terreno
imprenditoriale, sì
limitato ma tuttavia esistente, sviluppatosi negli ultimi
decenni dello shogunato.
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Capitolo nono
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Esso consisteva da un lato in poche imprese (più corretto
sarebbe definirle “manifatture”) possedute e gestite dagli han (i
domini feudali),
e dall’altro nelle attività commerciali – di natura e portata la
più varia –delle grandi ditte mercantili, controllate
esclusivamente dalle rispettive
famiglie. Se le prime vennero avocate dallo stato, e gestite da
samurai
divenuti funzionari dell’amministrazione, proprietà e controllo
delle seconde rimasero immutate.
Le maggiori di queste antiche ditte – che (originatesi a partire
dal XVII secolo) da tempo venivano chiamate Zaibatsu, intendendo
con que-
sto termine un complesso di interessi economici (mercantili,
manifat-
turieri e finanziari) incentrato su una famiglia via via
estesasi attraverso una accorta politica di matrimoni e/o alleanze
vincolanti con altri
gruppi familiari operanti in analoghe o contigue attività –
erano dirette, almeno negli affari correnti, dai cosiddetti bantü
(una sorta di dirigenti
stipendiati d’età preindustriale), anche se non furono rari i
casi di bantü
responsabili di importanti decisioni imprenditoriali. Il
concetto relativo ad un “complesso di interessi economici” è in
realtà soltanto una delle
possibili definizioni tentate per descrivere questa istituzione
tutta
giapponese, che – come rilevato – precede nella sua formazione
la mo-dernizzazione avviata dal rinnovato potere imperiale.
Nell’accezione corrente dopo la rivoluzione industriale
giapponese, il termine Zaibatsu assunse il significato di “gruppo
d’interessi finanzia-
rio”.
Annota infatti Yamamura che «in generale agli Zaibatsu
prebellici [quelli degli anni Venti e Trenta, che comunque
discendono dal modello
sei-settecentesco] vengono attribuite le tre seguenti
caratteristiche: 1) un
carattere semifeudale, in quanto una famiglia centralizza il
controllo, estendendo il proprio potere mediante matrimoni
strategici e altre forme
personali di relazione, analoghe a quelle esistenti tra il
signore e il vassallo; 2) relazioni serrate e strettamente
controllate tra le aziende af-
filiate mediante società holding, legami a livello di consiglio
di ammini-
strazione, partecipazioni incrociate; 3) grandissima potenza
finanziaria nella forma di credito commerciale, utilizzato quale
strumento centrale
per l’estensione del controllo in tutti i rami dell’attività
economica»5. Una natura, questa, che era la conseguenza diretta
delle trasformazioni
finanziarie (e creditizie) intervenute durante e dopo il
processo di
industrializzazione.
5 YAMAMURA, op. cit., p. 323
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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Resta assodato che le case mercantili feudal-familiari non
scom-parvero con la “restaurazione”, ma ne accompagnarono le
trasforma-
zioni economiche: cogliendo anche le possibilità offerte da una
legge del 1890, che di fatto consentiva la costituzione di persone
giuridiche
(kabushiki kaisha) basate su un capitale frazionato in
azioni.
Benché gli studiosi giapponesi non concordino sulla data di
nascita delle moderne società a capitale azionario, una sorta di
anticipazioni de
queste è rinvenibile già nei primi atti governativi successivi
alla restau-razione del potere imperiale.
Allo scopo, infatti, di convogliare il credito verso le imprese
impe-
gnate nel commercio internazionale, il governo creò in alcune
città por-tuali otto kawase kaisha, dividendone il capitale su base
azionaria. Lette-
ralmente, kawase kaisha significa “società di cambiali”: ma si
trattava
semplicemente di un tentativo di traduzione del termine inglese
che
designa la banca, privo di un equivalente esatto in giapponese.
Esse
avevano le caratteristiche degli istituti bancari, ed erano
autorizzate ad emettere propria carta moneta. Il loro capitale fu
fornito quasi alla pari
da ricchi mercanti, grandi agricoltori, e cambiavalute che
avevano
creato grandi ditte nell’ultimo periodo dello shogunato da un
lato, e dal governo dall’altro. Sette su otto di queste kawase
kaisha fallirono a causa
dei controlli eccessivi, e male ispirati, del governo e delle
sue interfe-renze, oltre che per la congiuntura economica in quel
momento sfavo-
revole.
Gli Zaibatsu furono probabilmente i primi soggetti privati a
posi-tivamente approfittare di questa nuova legislazione,
riversando in perso-
ne giuridiche appositamente costituite gran parte dei loro
capitali.
Mentre il governo finanziava proprie iniziative industriali (gli
stabili-menti pilota), tentava la strada delle kawase kaisha ed
emanava le men-
zionate leggi bancarie, le aziende private si trovarono ad
affrontare il non facile compito di trovare capitale sufficiente
per dare l’avvio a
imprese di dimensioni troppo grandi perché le risorse
individuali della
maggioranza degli imprenditori bastassero a finanziarle. Esse
dovettero perciò ricorrere ad altre fonti di
approvvigionamento.
Per indagare quali queste fossero, è necessario – spiegano i
“revisio-nisti” – distinguere tra tre distinte fasi, nelle quali
emersero forme diverse
di proprietà e controllo delle imprese industriali.
Nel primo periodo, compreso tra la restaurazione imperiale e la
metà
degli anni Ottanta, e fase di preparazione del decollo
industriale vero e
proprio, il finanziamento delle imprese statali era ovviamente a
carico
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Capitolo nono
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del governo, mentre per le aziende private avvenne quasi
esclusiva-mente mediante il ricorso a risorse personali degli
imprenditori, o a
prestiti raccolti nella cerchia familiare ed amicale. E non
poche volte l’idea imprenditoriale poteva concretarsi solo se
l’aspirante imprenditore
riusciva ad unire altri operatori economici, in genere
mercantili, attorno
ad una qualche combinazione societaria. Furono perciò gli anni
dei pionieri dell’industria, con pochi capitali ma molta
determinatezza.
A poco a poco, tuttavia, nelle combinazioni societarie
cominciarono ad entrare anche le kabushiki kaisha costituite dagli
Zaibatsu, che non
solo rafforzavano così la tendenza ad espandere la natura dei
propri
interessi, ma che finivano per attrarre le imprese partecipate
nella propria orbita. Per cui si può affermare che già cominciava a
verificarsi
una crescente divaricazione tra un vasto numero di imprenditori
in-
dividuali o associati, alla perenne ricerca di capitali, e
quindi più esposti alle crisi, e un nucleo ristretto di imprese che
in qualche modo se ne
sottraevano più facilmente grazie al riferimento finanziario
degli Zai-batsu.
La seconda fase intercorre tra la metà degli anni Ottanta e la
prima
guerra mondiale, e fu segnata da significativi cambiamenti che
modi-ficarono la situazione sotto il profilo della proprietà e del
controllo. Di
particolare importanza fu l’azione delle principali ditte
mercantili, raf-forzatesi finanziariamente dopo i prestiti forzosi
al governo imperiale e
dotatesi di floride banche.
Sin dagli anni successivi al 1880, in particolare, le più grosse
tra esse cominciarono a rilevare imprese governative, sia nel
settore manifat-
turiero che minerario. Gli Zaibatsu trassero dallo sviluppo che
riusci-
rono a dare a tali imprese, stimolo alla creazione, all’acquisto
o al più stretto controllo finanziario di altre iniziative
industriali, tanto che già
all’inizio del Novecento si configuravano come veri e propri
imperi finanziario-industriali. La complessità e l’articolazione
dei loro interessi
portarono alcuni di questi a dar vita a delle vere e proprie
holding di
tipo occidentale, in grado di esercitare un rigoroso controllo
finanziario sulle varie attività.
Le prime a ricorrere a questa nuova istituzione finanziaria,
furono tra
il 1911 e il 1917 le case Mitsui e Mitsubishi. La Casa Mitsui ne
aveva, in particolare, sentito l’esigenza per poter meglio
coordinare il rapporto tra
le svariate attività mercantili, industriali e minerarie e
l’attività della grande banca, ramificata in tutto il Giappone, di
cui si era dotata fin dal
1876.
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Impresa e industrializzazione in Giappone
263
Fu in questa seconda fase che le banche cominciarono a concedere
al-le aziende industriali crediti a breve e a lungo termine, e al
tempo stesso
a sottoscrivere capitale azionario di numerose imprese. Ma,
contraria-mente alla tesi classica (quella “ortodossa”) secondo la
quale le banche,
e specie quelle più grandi, avrebbero rappresentato un fattore
essenziale
nella provvista di capitale industriale, gli studiosi
revisionisti sono arrivati a dimostrare (comparando i dati dei
bilanci delle banche relativi
a prestiti garantiti da azioni e al loro portafoglio azionario
di proprietà, con il totale del capitale industriale azionario
esistente in Giappone nei
vari anni) che l’importanza delle grandi banche quali dirette
finanzia-
trici, e proprietarie di singoli pacchetti azionari, è stata
largamente so-pravvalutata. Ad esempio, l’incidenza dei prestiti
bancari garantiti da a-
zioni sul totale del capitale azionario industriale passò dal
22% del
1899, al 18% del 1900, al 12% del 1901, all’11% del 1902: una
incidenza che potrebbe essere addirittura inferiore, considerando
che parte dei pre-
stiti garantiti da azioni avrebbe riguardato non aziende
industriali ma al-tre banche, compagnie di assicurazione o ditte
commerciali ugualmente
organizzate come società azionarie. È bensì vero che una quota
dei pre-
stiti garantiti da azioni non industriali finivano poi per
tornare di benefi-cio all’attività industriale, e che il complesso
degli investimenti diretti
delle banche in azioni (industriali o meno) ammontavano a poco
più
della metà dei prestiti garantiti da azioni: ma da ciò che è
stato possibile ricavare dai dati aggregati, il finanziamento alle
ditte industriali fu limi-
tato. Per il periodo cruciale del 1899-1902 esso, ad esempio,
non superò il
15% del capitale versato delle aziende industriali, smentendo la
tesi che
al volgere del secolo le banche sarebbero state la principale
fonte di fi-nanziamento dell’industria.
Le indagini compiute sul rapporto tra banca e industria in
Giappone,
rivelano inoltre come molti dei prestiti a lungo termine
concessi dai maggiori istituti andassero a un numero ristretto di
aziende, stretta-
mente legate agli istituti stessi o ai gruppi (e cioè agli
Zaibatsu) di cui queste facevano parte: ossia alle imprese
possedute da questi nel settore
industriale, nella cantieristica, nel settore minerario o in
altri rami.
Le aziende non legate agli Zaibatsu dovettero arrangiarsi: e lo
fecero sfruttando le possibilità offerte dal nascente mercato dei
capitali, con la
collocazione al pubblico delle proprie azioni. Uno dei settori
in cui la presenza degli Zaibatsu fu marginale, è rappresentato dal
cotonificio. In
esso già prima della fine del secolo, la partecipazione del
pubblico
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Capitolo nono
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all’acquisto di azioni si era notevolmente incrementato,
passando tra il 1893 e il 1898 da un numero medio di azionisti per
azienda da 163 a
457. L’incremento maggiore si ebbe tuttavia – in un contesto in
cui il numero totale degli azionisti era passato dai circa 108 mila
del 1886 ai
244 mila del 1890, e ai 684 mila del 1898 – nei settori più
moderni delle
costruzioni ferroviarie e navali. Nel terzo periodo, e cioè nei
circa vent’anni che dividono le due guerre
mondiali, la proprietà e il controllo delle imprese industriali
subì una concentrazione decisiva, che segnò il destino stesso del
paese con la
spinta espansionistica e bellicista. Va innanzitutto ricordato
il definitivo
consolidarsi delle banche degli Zaibatsu nel controllo
finanziario (ma anche proprietario) delle imprese, lo sviluppo
delle società holding, la
pratica portata all’eccesso delle partecipazioni incrociate, la
conseguente
presenza di un ristretto numero di uomini nei posti-chiave di
una miriade di consigli di amministrazione. Fu il boom della prima
guerra
mondiale l’elemento scatenante: le banche più grandi – quelle
degli Zaibatsu – intensificarono i finanziamenti, sia con prestiti
a lungo ter-
mine che mediante sottoscrizioni azionarie, alle aziende
industriali di
settori ad elevata intensità di capitale come le industrie
pesanti, chimi-che, elettriche o telefoniche. Solo che le imprese
coinvolte in queste
operazioni non furono più, come un tempo, il ristretto numero di
quelle legate agli Zaibatsu per le origini dei loro capitali o
perché da essi
sviluppate a partire dagli impianti acquistati dal governo dopo
il 1880.
Le banche assumevano così le caratteristiche delle banche
d’investi-mento di tipo tedesco.
Questa evoluzione fu resa possibile dalle capacità di
autofinanzia-
mento raggiunte già prima della fine della guerra dalle aziende
legate agli Zaibatsu, un tempo dipendenti dalle banche di ciascun
gruppo6, e
dall’irrobustimento dei depositi di queste ultime nel terzo
decennio del secolo: irrobustimento in grossa parte dovuto ad uno
spostamento verso
di esse dei risparmiatori impauriti dalla serie di crolli
bancari degli
istituti di credito minori7.
6 Questa tesi è sostenuta dal più volte menzionato YAMAMURA, op.
cit., che la
corrobora di numerosi casi aziendali, e di documentazioni di
fonte bancaria, dai
quali risulta che molte imprese degli Zaibatsu, fin dagli anni
Dieci del Novecento,
e per tutti gli anni Venti e Trenta, non iscrissero più a
bilancio debiti a medio-lungo
termine con le banche dei loro raggruppamenti (né, tantomeno,
con banche terze). 7 Tra il 1919 e il 1927, la percentuale dei
depositi detenuta sul totale dagli istituti di
credito degli Zaibatsu passò dal 25 al 31%.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
265
Le caratteristiche prevalenti nel terzo decennio del Novecento
videro, perciò, una sostanziale scomparsa della dipendenza
finanziaria delle im-
prese degli Zaibatsu dalle banche da questi controllate, e per
contro una loro autonoma capacità di approvvigionarsi di capitale
fresco mediante
aumenti di capitale aperti alla pubblica sottoscrizione senza
che questi
compromettessero i vincoli con i gruppi di appartenenza. Alla
fine degli anni Venti del resto – e pur in presenza di un
allargamento della base a-
zionaria – le famiglie, le banche e le altre aziende connesse,
possede-vano una larga parte del capitale delle imprese di ciascun
gruppo.
Valga un esempio per tutti: a quella data, la percentuale del
capitale
versato fornito dalle rispettive honsha (e, cioè, la società
holding e la ban-
ca) dei quattro maggiori Zaibatsu variava, per le aziende
associate, dal
90,2% della casa Mitsui e del 79,1% della casa Sumitomo, al
69,4% e al
32% per cento della Yasuda. Se si aggiungevano le partecipazioni
in-crociate all’interno dei singoli gruppi, le percentuali salivano
al 90,6%
per Mitsui, all’80,5 per Sumitomo, al 77,6 per Mitsubishi e al
48 per Ya-suda.
Le banche degli Zaibatsu finirono perciò, tra gli anni Venti e
Trenta,
a rivolgere sempre più i loro prestiti a medio e a lungo termine
ad azien-de che non facevano parte dei loro gruppi. Lo strumento
privilegiato fu
l’assunzione in portafoglio di quote consistenti delle molte
emissioni
obbligazionarie cui ricorsero in quel periodo le imprese
industriali. Già alla fine del 1929, i quattro maggiori Zaibatsu
detenevano – attraverso le
loro banche – il 27,1% di tutte le obbligazioni in circolazione
(29,1% se si comprendevano anche le quantità possedute dalle
compagnie di assi-
curazione degli stessi gruppi).
La rapida concentrazione del mercato finanziario, di cui il dato
appe-na citato è solo uno degli indici, fu dovuta ad un insieme di
fattori, tra i
quali alcuni fallimenti bancari dell’immediato dopoguerra e la
già citata grande ondata di fallimenti degli anni successivi.
Fu il 1927 l’anno cruciale, in cui arrivarono al pettine tanto
le conse-
guenze finanziarie del terremoto del 1923 (e, cioè,
l’impossibilità da quel momento di molti debitori di far fronte al
pagamento delle cambia-
li emesse) quanto la consuetudine di numerosi istituti di
credito minori
di fungere da “banche organiche”. Questa consuetudine consisteva
nella reciproca dipendenza che legò certi istituti di credito e la
loro clientela
industriale: i primi costretti a prorogare (e/o a intensificare)
i prestiti ad aziende in gravissime difficoltà finanziarie, la
seconda impossibilitata a
causa di esse a differenziare la propria provvista di capitali.
Poiché il cre-
-
Capitolo nono
266
dito già concesso alle aziende era tale che la bancarotta di
queste avreb-be comportato il fallimento della banca stessa, nuovi
crediti non suffi-
cientemente (o per nulla) garantiti divenivano inevitabili: con
conse-guenze a catena, che alla fine portarono a clamorosi crolli
delle banche
e delle imprese.
Tale situazione indusse molti risparmiatori a trasferire i
propri de-positi alle banche più grandi e più solide. Le banche
degli Zaibatsu per
le quali queste crisi si risolsero in qualche corsa agli
sportelli subito bloccata, furono naturalmente le principali
beneficiarie dei menzionati
trasferimenti.
Nel corso del periodo, d’altra parte, il governo intervenne a
stabiliz-zare il mercato finanziario promuovendo la fusione o
l’associazione del-
le banche più deboli.
Ad accentuare la tendenziale struttura oligopolistica del
settore cre-ditizio, contribuì in pari misura l’aggressiva
propensione alle fusioni e
agli assorbimenti presente negli istituti bancari più grandi.
Tipico fu il caso della Banca Yasuda, dell’omonimo Zaibatsu, che a
partire dal 1923
assorbì dieci altre banche sparse in tutto il paese, divenendo
un orga-
nismo di gigantesche dimensioni. La potenza finanziaria dei
grandi gruppi continuò a crescere nel
quarto decennio del secolo, tanto che nel 1942, l’anno
successivo all’at-
tacco giapponese alla base americana di Pearl Harbor, il
controllo eser-citato dai quattro maggiori Zaibatsu era
onnipresente. Nel campo diret-
tamente finanziario, essi detenevano il 49,7% di tutto il
capitale versato di banche, assicurazioni e società di credito
varie; nel settore industriale
possedevano il 24,5% di tutto il capitale versato, con punte del
32,4%
nelle industrie pesanti, e cioè quelle direttamente investite
dalla con-giuntura bellica.
Considerando tutti gli Zaibatsu, il livello di concentrazione
risultava
ancora più consistente: all’incirca il 70% nel settore
finanziario, e poco meno del 50% di quello manifatturiero. Ma in
realtà il controllo eserci-
tato dalle holdings degli Zaibatsu era ancora maggiore di quello
riferito
al capitale versato da esse detenuto; la sua estensione nei vari
settori era
infatti considerevolmente accresciuta dal potere di concedere o
meno
crediti, dalle presenze nei vari consigli di amministrazione
conseguente ad una esasperata (ancorché sofisticata) politica delle
partecipazioni in-
crociate. A che livello giungesse il loro potere, è
esemplificato dal fatto che nel
pieno dello sforzo bellico, nel 1944, il 74,9% di tutti i
prestiti concessi in
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
267
Giappone fossero erogati dalle banche dei quattro maggiori
Zaibatsu, e dalla rete di interrelazioni da essi creato nei vari
consigli di amministra-
zione delle aziende a qualsiasi titolo con essi connessi. La
sola casa Mitsui riusciva così a controllare a cascata le sorti di
circa duecento tra le mag-
giori imprese del paese.
Ci sono altre cifre che possono sottolineare l’elevatissimo
livello della concentrazione proprietaria: alla fine della seconda
guerra mondiale, il
2,59% di tutti gli azionisti del paese (e cioè poco meno di
40.000 sogget-ti fisici o giuridici) possedevano più del 64% del
capitale totale delle im-
prese a base azionaria, e il 10% di essi (3.762 azionisti, in
genere espo-
nenti degli Zaibatsu, o questi stessi) deteneva il 48,74% del
totale.
4. Il secondo dopoguerra
Dopo la resa incondizionata del Giappone seguita alle
devastazioni dei due ordigni atomici lanciati dagli americani su
Hiroshima e Naga-saki, il Comando d’occupazione statunitense
preposto alla ricostitu-
zione nel paese di un potere legale, impose un complesso di
misure di
“democratizzazione economica” incentrato sullo smantellamento
degli Zaibatsu, ed in particolare delle loro holdings, individuati
come i trinci-
pali responsabili dell’avventurismo espansionista e militarista
del paese.
In particolare vennero poste fuori legge le società holding, e
le parteci-
pazioni incrociate tra aziende e tra queste e le banche; le
aziende gigan-
ti, virtualmente monopoliste, vennero smembrate in più imprese;
la proprietà delle degli Zaibatsu venne sottratta alle rispettive
famiglie, le
quali dovettero anche cedere i pacchetti azionari di cui erano
proprietari
attraverso una Commissione che cercò di collocarli nella più
vasta pla-tea del pubblico; i legami tra i vari consigli di
amministrazione vennero
proibiti, mentre infine numerosi esponenti dell’Alta direzione
delle a-ziende degli Zaibatsu subirono l’epurazione e furono
allontanati.
Le caratteristiche della proprietà e del controllo delle imprese
all’in-
terno dell’economia giapponese (che, tra l’altro, usciva dal
conflitto con un potenziale produttivo ancora consistente) ne
risultarono profonda-
mente modificate. La vendita forzata delle azioni, ma anche le
nuove
imposte sul capitale e sulle eredità volute dal Comando alleato,
ridus-sero la ricchezza delle famiglie cui appartenevano gli
Zaibatsu a un
ventesimo circa di quella di un tempo. Il possesso delle azioni
divenne molto più diffuso, e di rado si verificò che del 5% di una
grande im-
-
Capitolo nono
268
presa, o di una banca, si trovasse concentrata nelle mani di una
sola persona.
In seguito, gli effetti politici della guerra di Corea
attenuarono il disegno globale di democratizzazione economica sino
ad allora per-
seguito, e col recupero della sovranità (1952) il governo
giapponese ro-
vesciò progressivamente la linea seguita durante l’occupazione
ame-ricana, sostenendo che essa ostacolava una rapida ricostruzione
econo-
mica. Senza ripercorrere le evoluzioni postbelliche, basti
osservare che a
metà degli anni Sessanta le modalità di proprietà e controllo
prevalenti
nell’industria giapponese erano molto diverse da quelle che
aveva cer-cato di instaurare il Comando militare americano.
Esistevano senz’altro differenze sostanziali con la situazione
prebel-
lica nella ripartizione della proprietà azionaria: se fallì
l’obiettivo del Comando militare di giungere a larges corporations
di tipo americano, e
nonostante le quantità crescenti di azioni concentrate nelle
mani di un numero ristretto di persone, l’attuale ripartizione
della proprietà azio-
naria è radicalmente diversa da quella che caratterizzò l’ultimo
periodo
degli Zaibatsu, giacché oggi più o meno un giapponese su cinque
è in possesso di azioni, ed è considerevolmente aumentata la quota
in mano
al ceto medio a discapito delle vecchie concentrazioni. Alcuni
esempi
fra i molti possibili: le industrie Mitsubishi, un tempo
controllate dal-l’omonimo Zaibatsu, sono oggi proprietà di circa
400mila azionisti; la
Hitachi, impresa del settore elettrico ed elettromeccanico,
peraltro mai dominata da alcun Zaibatsu, appartiene a circa
420/430mila azionisti;
le grandi banche hanno una proprietà ancor più frazionata, ed è
raris-
simo che un singolo azionista (o persona giuridica) possegga
oltre il 3% del loro capitale.
E, tuttavia, non mancano gruppi economici che in parte
richiamano allo strapotere degli Zaibatsu, senza peraltro riuscirne
a integrare la per-
vasiva invadenza. Si tratta dei cosiddetti Keiretsu,
letteralmente “lignag-
gi”, che costituiscono una sorta di apparentamento tra imprese
giuridi-camente distinte. Essi possono essere “verticali”, o più
spesso “orizzon-
tali”, ma non mancano quelli “distributivi”.
Emersi sul finire degli anni Cinquanta, i Keiretsu perseguirono
forme di finanziamento industriale, che in parte (ed almeno
idealmente) si
richiamano agli antichi Zaibatsu. La parola Keiretsu significa
“serie”,
“ordine”, “sistema”, ed è composto dai termini kei (sistema) e
retsu (li-
nea). Nella terminologia economica, essa sta ad indicare
un’organiz-
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
269
zazione o gruppo d’imprese che non ha una struttura gerarchica,
ma è formato da numerose imprese in parte (ma non sempre) legate da
una
struttura azionaria di partecipazioni incrociate, da incarichi
direttivi interconnessi e da un senso di reciproche
obbligazioni.
I Keiretsu non sono né gruppi industriali, poiché non hanno un
con-
siglio d’amministrazione centrale, né cartelli, essendo le
imprese spesso impegnate in settori diversi. Tra le aziende-chiave
di ogni gruppo ci so-
no una banca, una compagnia di assicurazioni, una compagnia
mercan-tile, un’impresa specializzata in transazioni,
un’acciaieria, un cantiere
ecc. Ognuna di queste aziende dispone di consistenti riserve di
liquidità
che possono essere messe a disposizione degli altri membri del
gruppo, dato che tra i loro scopi vi è anche quello di aiutarsi a
vicenda e reperire
i fondi per gli investimenti. L’elemento di coesione più forte
per il grup-
po è costituito dalla rete di rapporti bilaterali sorretti da
vincoli di tipo morale e relazionale.
Dal punto di vista storico e della loro nascita, questi
agglomerati si sono formati gradualmente dopo la fine
dell’amministrazione militare
americana. Le quote azionarie dei precedenti Zaibatsu erano
state di-
chiarate nulle nel 1945; così, all’inizio le aziende giapponesi
furono finanziate quasi interamente da prestiti forniti dalle
grandi banche di
Tokio e garantiti dal governo americano. Fino a quel momento
quindi
le aziende disponevano solo di questi prestiti, e delle loro
attività tan-gibili, per cui il loro patrimonio netto era molto
modesto.
Con il decollo dell’economia, molte aziende cominciarono a
dimo-strarsi redditizie e quindi a temere di poter essere contese
sul mercato
dal capitale straniero tanto che, al fine di scongiurare tale
rischio, le a-
ziende in crescita degli anni Cinquanta e Sessanta escogitarono
il siste-ma di vendersi reciprocamente quote azionarie, spesso
senza uno scam-
bio effettivo di denaro. Così ogni membro dei vecchi gruppi del
periodo
prebellico, insieme ad altri nuovi, si unirono a formare i
Keiretsu in cui le quote azionarie si intrecciavano a vicenda. Le
azioni di tali gruppi ve-
nivano trattate solo in quantità minima sul mercato della borsa
di To-kio, mentre i pacchi azionari che veramente contavano non
erano mai
oggetto di transazione borsistica
Gli americani e gli altri operatori stranieri percepirono questa
si-tuazione solo dopo il 1971, anno in cui in Giappone fu
liberalizzato il
mercato azionario. Tale liberalizzazione permise anche agli
stranieri di avere quote di maggioranza nelle aziende giapponesi,
ma quasi nessuno
dei membri dei Keiretsu fu disposto a vendere le proprie azioni
vinco-
-
Capitolo nono
270
late, anche in presenza di offerte d’acquisto vantaggiose8.
Cosicché fu-rono ben poche le aziende che passarono di mano. In
effetti esisteva da
un lato un senso di reciproca obbligazione che scaturiva dal
fatto che ogni membro del medesimo Keiretsu teneva in portafoglio
le azioni degli
altri membri in una sorta di amministrazione fiduciaria, mentre
dal-
l’altro, qualora fosse venuto tale senso di obbligazione
“morale”, suben-trava un altro fattore importante che provvedeva ad
impedire la vendita
delle azioni: la sensazione che i propri titoli fossero “tenuti
in ostaggio”. Se un’azienda avesse preso in considerazione l’idea
di vendere la pro-
pria quota in un’altra azienda ad un estraneo che cercava di
acquistare il
controllo di quest’ultima, la seconda azienda avrebbe potuto
effettuare una ritorsione vendendo anch’essa ad estranei le azioni
della prima
azienda. Per tali motivi nessuno vendette.
A differenza degli antichi Zaibatsu, i Keiretsu sono privi di
una so-cietà holding al vertice dell’organizzazione a cui sia
affidato il controllo
di tutte le attività del gruppo. Le imprese dei nuovi gruppi
infatti sono entità indipendenti che elaborano autonomamente le
proprie strategie,
anche quando cooperano con le altre società affiliate9.
I Keiretsu si dividono in tre tipologie fondamentali: Keiretsu
verticali;
Keiretsu distributivi, e Keiretsu orizzontali.
I Keiretsu verticali sono costituiti dal raggruppamento di
aziende mi-
nori sotto la guida di una grande impresa leader generalmente
operante
nel settore manifatturiero. Tali aziende minori sono centrate
sulla rete
dei sub-fornitori e delle altre imprese collegate all’impresa
“madre” tra-mite rapporti di produzione, distribuzione e fornitura
di servizi.
Al centro del gruppo si pone una grande impresa produttrice che
ha stretti legami con le società facenti parte della propria rete
di fornitori,
distributori e clienti con cui vengono generalmente mantenuti
rapporti
d’affari di lungo periodo. Il numero di imprese che prendono
parte ai Keiretsu verticali come sussidiarie e affiliate varia
secondo i casi ma in
genere è assai elevato. Nel sistema manifatturiero, ad esempio,
le reti di
sub-fornitura dei Keiretsu verticali per le produzioni di
assemblaggio comprendono imprese posizionate a diversi livelli
secondo una struttura
8 J.P. WOMACK, D.T. JONES, e D. ROOS, La macchina che ha
cambiato il mondo,
Milano, Rizzoli, 1993. 9 R. DORE, Taxing Japan Seriously. A
confucian Perspective on Leading Economic Issue,
London, Athlon, 1987 [trad. it. Bisogna prendere il Giappone sul
serio. Saggio sulla va-
rietà dei capitalismi, Bologna, Il Mulino, 1990].
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
271
piramidale. L’impresa principale, collocata al vertice, ha
rapporti diretti con un numero relativamente ristretto di fornitori
che a loro volta pos-
siedono una propria rete di sub-fornitori e così via. Man mano
che au-menta la distanza dall’impresa principale, diminuisce in
genere la di-
mensione delle società per cui il primo livello di fornitori
include
numerose grandi imprese, mentre il secondo e il terzo livello
riguardano imprese sempre più piccole. Il settore automobilistico e
quello dell’elet-
tronica di consumo sono tipici esempi di questo tipo di
relazioni di sub-fornitura.
L’impresa principale è azionista “di riferimento” (pur
detenendone
quote di minoranza) delle aziende minori, ed è in grado di
esercitare un’influenza decisiva nelle scelte manageriali e nel
reperimento delle
risorse finanziarie. Già nel 1962, la Commissione giapponese
“per la
lealtà nel commercio”, accertò che le 256 imprese più grandi
avevano ciascuna una media di 16 società “figlie” (basandosi per la
definizione
di queste ultime sul possesso di almeno il 10% delle azioni da
parte dell’impresa principale). In testa alla lista risultava la
Società elettrica
Matushita, che poteva contare su ben 193 aziende
sussidiarie.
Le grandi aziende, o aziende leader, forniscono appoggio alle
affiliate
come assistenza tecnica, investimenti in macchinari ecc.,
esercitando un
forte controllo sulle stesse, soprattutto su quelle che si
collocano negli
strati più bassi. Le aziende minori, ad esempio, devono essere
disposte ad accettare pagamenti inferiori per i prodotti forniti
all’”azienda ma-
dre” qualora questa, in situazione di recessione, lo ritenga
necessario per far fronte a problemi di tipo finanziario. L’impresa
leader inoltre può
anche chiedere alle aziende più piccole di conservare scorte più
ingenti,
o di accogliere proprio personale in esubero. Tali imprese
minori devono attenersi alle direttive delle grandi azien-
de le quali decidono cosa devono produrre, quanto possono
vendere ed a quali prezzi. L’azienda leader può imporre l’acquisto
di nuovi macchi-
nari per incrementare la produttività della piccola azienda: se
quest’ul-
tima rifiuta, ne può derivare l’immediata sospensione delle
commesse di sub-fornitura.
L’imposizione secondo la quale ai fornitori e ai sub-fornitori
viene
garantita una continuità di lavoro nel tempo, a patto che questi
si ade-guino alle linee guida dettate dalla società principale, fa
capire come la
maggior parte dei fornitori sia completamente assoggettata al
potere del-l’azienda leader. Non sono rari i casi in cui queste
continue pressioni
esercitate dalle imprese maggiori abbiano portato al fallimento
molte
-
Capitolo nono
272
pic-cole aziende affiliate. Lo scopo prioritario di tutto il
sistema è, infatti, di mantenere in “buona salute” l’impresa leader
con l’intento più
complessivo di proteggere le grandi banche e le più importanti
aziende del paese10. Il rapido sviluppo dei Keiretsu verticali è
stato favorito da
una serie di concause, presenti anche nel mondo occidentale,
quali i dif-
ferenziali salariali tra le grandi e piccole aziende che hanno
incentivato il ricorso al decentramento produttivo di molte
lavorazioni dalle impre-
se maggiori a quelle minori, oppure l’alto livello degli
investimenti in condizioni di penuria di credito, o infine le
esigenze di una tecnologia
più complessa.
I Keiretsu distributivi sono, in parte, una estensione di quelli
“verticali”,
ma possono essere presenti in forma pura. Essi sono costituiti
da gruppi
industriali e/o commerciali tesi al controllo di particolari
canali distr-ibutivi, o di reti integrate di marketing11, al fine
di garantire il più efficace
flusso distributivo dei prodotti e dei relativi accessori dal
produttore al
consumatore. Questi Keiretsu comprendono quei produttori che
hanno propri grossisti e anche propri dettaglianti, ed il controllo
su di essi di-
pende proprio da tali strette relazioni, che è poi alla fine
anche dipen-
denza finanziaria di questi ultimi rispetto la casa produttrice.
La mag-gior parte di tali gruppi industriali possiede un alto
numero di punti
vendita sparsi in tutto il mondo, la Toyota ad esempio ne
possiede più di 42.000, e questo riduce notevolmente la possibilità
di accesso al mer-
cato da parte di operatori stranieri (barriere all’entrata nella
distribu-
zione commerciale). La lealtà verso il produttore è così
garantita; in tal modo dettaglianti e grossisti continuano a
rimanere fedeli alla casa
produttrice, sia che siano legati da un contratto di concessione
di ven-
dita o da altri tipi di contratti più informali. Alla base del
rapporto tra i dettaglianti e Keiretsu c’è un preciso
accordo: i negozi si impegnano a vendere esclusivamente (o
quasi) solo i prodotti di una certa marca, ed al prezzo suggerito
dalla casa madre; in
cambio il gruppo Keiretsu garantisce loro protezione e supporto
attra-
verso una mirata distribuzione delle concessioni di vendita sul
territorio, e campagne pubblicitarie gratuite che fanno espresso
riferimento ai pro-
pri venditori.
10 M. AOKI, La microstruttura dell’economia giapponese, Milano,
Angeli, 1991. 11 P. HERBIG, The future of Japanise Keiretsu in a
global market, “Journal of Interna-
tional Marketing”, 2/1994; ID., Marketing Japanise style, New
York, NY Press,
1995.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
273
Le caratteristiche dei Keiretsu distributivi possono essere
riassunte nei seguenti punti: 1) presenza di accordi esclusivi che
proibiscono al det-
tagliante di vendere prodotti di altre grandi imprese (esclusiva
commer-ciale); 2) esistenza di precisi limiti e restrizioni
geografiche relativi alla
zona dove operare (diritti di esclusiva geografica); 3)
indicazioni ai det-
taglianti di quali particolari grossisti da cui rifornirsi, e
divieto per questi ultimi di rifornire dettaglianti diversi da
quelli indicati dall’impresa lea-
der.
I Keiretsu sono generalmente organizzati dai produttori assieme
alle
associazioni di commercianti per promuovere una maggiore
cooperazio-
ne tra gli stessi, e per favorire le politiche di marketing
volute dal produt-
tore.
Quest’ultimo trattiene una parte del ricavato delle vendite,
restituen-dola al commerciante solo in un secondo momento: o
tramite politiche
si sconto o tramite altri particolari agevolazioni. Lo scopo
ultimo di que-
sti tipi di Keiretsu è di stabilizzare i prezzi, di innalzare
delle barriere all’entrata di operatori terzi su un particolare
mercato e di limitare l’in-
dipendenza dei dettaglianti.
I Keiretsu orizzontali sono così definiti perché raggruppano,
attraverso
un fitto legame di partecipazioni azionarie incrociate, ancorché
mino-
ritarie, imprese operanti in diversi settori dell’economia. Si
tratta di grandi aziende, un tempo legate al medesimo Zaibatsu,
ed
ora unite da una non meglio definita (né definibile) comunanza
di in-
teressi “morali”, ma senza che vi sia una impresa che funzioni
da “casa madre” ed eserciti il potere di controllo sulle altre.
Tali raggruppamenti sono facilmente identificabili, sia perché i
loro
presidenti si riuniscono periodicamente ed i rapporti d’affari
tra le varie imprese che li compongono sono privilegiati rispetto a
quelli con azien-
de terze, sia perché le imprese collegate sono accomunate dagli
stessi fornitori delle principali materie prime, dalle medesime
fonti di approv-
vigionamento finanziario e spesso da comuni reti di vendita.
I Keiretsu orizzontali arrivano a comprendere più di cinquanta
azien-de affiliate collocate nei settori strategici del paese, e
generalmente sono
organizzate intorno alle principali banche e alle Trading
Companies. Il
principio è quello di un impresa leader per ogni settore.
Il legame che fondamentalmente unisce le imprese dei Keiretsu
oriz-
zontali risiede nelle partecipazioni azionarie tra le varie
società. La banca di riferimento svolge un’importante funzione per
il finanziamento
delle attività produttive condotte dalle società appartenenti al
gruppo,
-
Capitolo nono
274
ed è supportata in questo ruolo da varie altre istituzioni
finanziarie, in particolare da società fiduciarie e da associazioni
imprenditoriali. Oltre
alle partecipazioni incrociate, la funzione di coordinamento tra
le im-prese è condotta anche attraverso rapporti commerciali,
finanziari e di
personale direttivo.
Risultano infatti considerevoli infatti il grado di
indebitamento delle imprese affiliate verso gli istituti finanziari
dello stesso gruppo, la quota
delle transazioni commerciali all’interno del gruppo e la
mobilità di ma-
nager tra le varie società collegate.
Al contrario dei Keiretsu verticali, quelli orizzontali appaiono
più le-
gati alla specificità giapponese sia dal punto di vista storico
che dal pun-to di vista economico.
Dal punto di vista storico esisteva una consuetudine
ultradecennale di
cooperazione e di relazioni interaziendali all’interno degli
antichi Zai-batsu, che nel tempo ha portato numerose imprese a
continuare tale
pratica anche dopo la scomparsa di quelle antiche
concentrazioni. Dal punto di vista economico, che rappresenta la
vera specificità
giapponese, è attribuito un valore di mercato
all’identificazione di un
determinato numero di imprese in un gruppo; per cui, all’interno
dei Keiretsu esistono dei vincoli che in virtù dei vecchi legami
con gli
Zaibatsu sono difficili da ignorare. Secondo la mentalità
giapponese un’impresa rischia addirittura la
propria immagine sul mercato se, nel perseguimento di un
interesse
egoistico, viola il principio di solidarietà del gruppo. Tale
principio, più che provenire da strategie dei vertici aziendali, è
molto spesso originato
dal basso, dalla comunità dei lavoratori che si sentono legati
da una
sorta di identificazione di gruppo. I vertici aziendali devono
piuttosto adeguarsi per non compromettere i vincoli di solidarietà
e cooperazione
che legano i dipendenti all’azienda. Anche se gli Zaibatsu non
esistono più, e nella proprietà e nel control-
lo delle imprese molto è cambiato, l’identità dei Keiretsu e i
loro legami
informali rappresentano il segno di una permanente eredità del
passato rendendo originali ed unicamente giapponesi le modalità
attraverso le
quali si manifesta il controllo economico sulle imprese12.
12 H. SEKI, Beyond the full-set industrial structure; the
Japanise industry, New York,
Pergamon Press, 1994.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
275
5. Paternalismo di fabbrica, sistema “ringi” e strategia del
miglioramento continuo (“Kaizen”)
Sotto questo aspetto, appaiono in particolare interessanti tre
momenti della gestione postbellica dell’impresa giapponese: due
perduranti fin
quasi a metà degli anni Ottanta del Novecento, e fondati su una
par-ticolare eredità storica (il “paternalismo di fabbrica”) e
sull’”armonia”
(o cooperazione collettiva) integrate nel sistema di
elaborazione delle decisioni chiamato ringi; la terza, chiamata
“strategia del miglioramento
continuo” (Kaizen), basata su una reinterpretazione locale delle
acquisi-
zioni gestionali e manageriali statunitensi. Un vero sistema
paternalista era sorto in Giappone solo dopo il 1911,
quando – dopo un lungo periodo in cui le imprese giapponesi
avevano
goduto di una libertà assoluta nei rapporti con i dipendenti che
ricorda quanto si era verificato in Gran Bretagna fino ad un secolo
prima –
venne varata sulla scia di fondamentali innovazioni
costituzionali anche una “Legge sulle fabbriche”. Essa suscitò una
vivace opposizione delle
aziende industriali, sostenendo i loro dirigenti che la legge
(ed altre di-
sposizioni di tipo occidentale che in quegli anni venivano
introdotte) non erano adatte alla società giapponese fondata su una
secolare tra-
dizione di rapporti personali e di vincoli di appartenenza
solidale ad un
“gruppo”. Per cui le impersonali relazioni contrattuali
introdotte dalla nuova legislazione, avrebbero provocato la
disgregazione del tessuto so-
ciale, nonché minato l’accumulazione di capitale necessaria allo
svi-luppo e la competitività internazionale del paese. I metodi
tradizionali
nel rapporto di lavoro erano invece ritenuti più efficaci delle
dispo-
sizioni legislative a garantire il benessere dei lavoratori. Se
le disposizioni legislative comunque rimasero, gli imprenditori
a
partire dal dopoguerra si garantirono da loro ulteriori
ampliamenti (e dalla sfida che cominciava a salire dai primi
movimenti organizzati
della sinistra, e della loro ideologia) con l’avvio di
costruzioni pater-
naliste – soprattutto sul piano dell’assistenza, della
partecipazione ai profitti e dell’identificazione del singolo
dipendente con il gruppo in-
dustriale-familiare cui apparteneva – che, se poggiavano le loro
radici
nel passato, erano tuttavia ben consapevoli del livello di
moder-nizzazione e di concentrazione raggiunto dall’economia,
teorizzando il
-
Capitolo nono
276
principio che l’impresa è una “famiglia” in cui tutti si deve
essere soli-dali13.
Se questa fu la pratica concreta del paternalismo giapponese,
convie-ne interrogarci su cos’è storicamente il paternalismo? Il
“paternalismo”
appartiene ad una concezione altamente gerarchica della società,
già
presente nell’età precedente la restaurazione dell’autorità
imperiale, do-ve l’apprendistato era sottoposto a regola rigide e
molto formali. Lunghis-
simo e obbligatorio, esso durava almeno un decennio; le
relazioni tra maestro artigiano e apprendista erano definite con
rigore, e su base stret-
tamente personale, tanto che il primo esercitava sul secondo
un’autorità
totale col diritto di attendersi da questi lealtà e obbedienza
complete. In cambio gli apprendisti venivano iniziati ai segreti
del mestiere, man-
tenuti interamente, ed aiutati poi ad intraprendere una attività
autono-
ma. Analogamente, l’organizzazione delle grandi case mercantili
era model-
lata sul principio gerarchico. Grazie ad essa, una casa
mercantile somi-gliava straordinariamente ad una famiglia costruita
attorno alla figura
del capo. La relazione tra questo ed i suoi dipendenti era
analoga a quel-
la intercorrente tra il maestro artigiano e l’apprendista, ma
presentava una dimensione ulteriore: una “casa” costituiva
un’entità vera e propria,
un “nome” che doveva essere da tutti i suoi appartenenti onorato
e di-
feso, e in cui questi erano chiamati a identificarsi totalmente.
Le case più grandi (ad esempio quelle Mitsui, o di Sumitomo)
di-
sponevano di regole scritte e minuziose che codificavano le
relazioni personali interne, i doveri e gli obblighi dei dipendenti
e del capo stesso,
via via fino ai modi in cui le promozioni nell’ordine gerarchico
po-
tevano avvenire. Il principio fondante l’ordine gerarchico era
che i membri più elevati delle varie classi sociali fossero tenuti
a garantire
la sicurezza economica dei loro inferiori, in cambio della
lealtà
e dell’obbedienza totale di questi. L’abilità e l’aggressività
personali
13 Quella dell’azienda come “grande famiglia” è una formulazione
che si riscontra
anche nel paternalismo occidentale. Dove, tuttavia, per
“famiglia” si intende una
eufemistica – e tutta ideologica – “famiglia del lavoro” (si
veda, per l’Italia, il caso
dei Marzotto, probabilmente l’esempio più compiuto di
paternalismo industriale
novecentesco del nostro paese, e per certi versi europeo: cfr.
G. ROVERATO, Gaeta-
no Marzotto Jr: le ambizioni politiche di un imprenditore tra
fascismo e postfascismo, cit.:
ben più limitata – e assai meno coinvolgente – del concetto
sotteso all’espressione
giapponese, che recupera in età industriale quel codificato
insieme di doveri (e di
diritti) sviluppatosi nell’antico modello della “casa” o
“famiglia” mercantile.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
277
potevano procurare un miglioramento della posizione individuale,
ma solo nell’ambito della classe di appartenenza data la “naturale”
impos-
sibilità di una mobilità individuale da classe a classe. Solo
verso la fine dello shogunato, la situazione parzialmente mutò,
essendo divenuto im-
possibile mantenere rigide le barriere di classe. L’esempio più
clamoroso
fu la compravendita del titolo di samurai. E fu in questo
ambiente so-ciale in movimento che irruppe l’industria moderna. Ma
se la mobilità
da classe a classe poté cominciare a manifestarsi, e ad
accelerarsi dopo la restaurazione imperiale, le pervasive relazioni
gerarchiche tra datori
di lavoro e manodopera rimasero pressoché inalterate salvo la
ovvia
constatazione della fine del regime feudale. È con una tale
introiezione da parte dei nuovi lavoratori di fabbrica, che il
Giappone della prima (e
in parte della seconda) rivoluzione industriale quasi non
conobbe il
conflitto sociale nonostante l’abbietta situazione in cui la
manodopera meno qualificata versava.
Oggi, pur caduti gli Zaibatsu, queste costruzioni sono rimaste,
come è rimasto il livello di identificazione del lavoratore
nell’azienda. Lo stesso
sviluppo dei moderni Kereitsu orizzontali (e la loro
sopravvivenza alle
critiche che le volevano bandite in base alla loro affinità con
gli Zai-batsu) costituiscono, in parte, la riprova che la tenace
insistenza dei
dirigenti prebellici sull’azienda quale grande famiglia, faceva
leva su un
tasto vincente: il valore attribuito dalla cultura giapponese
all’iden-tificazione di un individuo in un gruppo, all’interno del
quale solo sem-
bra utile spendersi fino al massimo dell’efficienza e del
risultato. Un tasto sconosciuto anche ai più pervasivi sistemi
paternalisti dell’indu-
stria occidentale14, dagli anni Cinquanta del XX secolo
indirizzati ad
altre tecniche del consenso piuttosto che a mantener viva – come
fu in-vece in Giappone – la pratica del paternalismo di
fabbrica.
Quanto vaste e tenaci siano le radici che l’orientamento verso
il grup-po affonda nella cultura giapponese, è evidente nel sistema
di decisioni
praticato nelle imprese e chiamato ringi. Come ricorda K.
Yamamura
nel suo studio sull’industrializzazione giapponese, «si tratta
di una delle parole composte del giapponese più difficili da
tradurre [...]: rin significa
l’atto di trasmettere una proposta a un superiore per ottenerne
l’approvazione, e gi significa discutere, o deliberare». Il che gli
serve per
14 Penso all’esperienza di talune grandi imprese tessili
italiane dell’Otto-Novecento:
i Crespi d’Adda, i Rossi, i Marzotto. Esempi simili si ritrovano
tuttavia anche
nell’industria francese e tedesca.
-
Capitolo nono
278
concludere che «il sistema ringi è [...] un modo di prendere
decisioni
nell’ambito di un gruppo [ma anche di un’impresa], dando la
propria
sanzione a proposte espresse dai subordinati»15. Il sistema, già
diffuso all’interno degli organi burocratici che si dipartivano
dall’ultimo shogun,
venne formalizzato nell’amministrazione dei Meiji, e da lì
riversato an-
che nelle imprese private della prima industrializzazione. Esso
si basava sulla valorizzazione di tutti gli anelli di un
sistema
burocratico esteso, anche di quelli più lontani dalle decisioni
finali. In una impresa funzionava grosso modo così: un gruppo di
impiegati di un
determinato settore proponeva al superiore diretto, dopo averne
a lungo
discusso, una determinata misura. Questo consultava i propri
colleghi di pari grado eventualmente coinvolti nella questione. Se
venivano sol-
levate obiezioni, la proposta o veniva semplicemente lasciata
cadere o
veniva ritornata a coloro che l’avevano formulata per un
riesame. Se invece essa era condivisa, veniva trasmessa per via
gerarchica ai
dirigenti di livello superiore, finendo – se non vi erano
ostacoli – al Comitato esecutivo dell’azienda che, se l’approvava,
la passava per l’ac-
cettazione definitiva al Presidente.
Il processo, tuttavia, poteva essere anche rovesciato. Anzi,
negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo fu generalmente tale:
e cioè basato sul
“suggerimento” (o sulla richiesta) rivolti da parte dei livelli
superiori dell’impresa a funzionari di grado inferiore affinché
elaborassero una
proposta su un determinato problema. In realtà questi
“suggerimenti”
altro non erano che ordini, ma dal livello inferiore non
venivano av-vertiti come tali, ma anzi stimolavano in essi un senso
di (presunto)
coinvolgimento nelle scelte aziendali. A questo percorso i
dirigenti della
grande impresa di tipo “impersonale” pervennero gradualmente,
nella convinzione che era meglio evitare – ove non indispensabile –
l’eserci-
zio diretto del comando, dato che esso implicava l’assunzione di
una diretta responsabilità individuale. Assumere una determinata
scelta
operativa (organizzativa, di processo, di prodotto), implicava
identi-
ficarsi in essa, col rischio che se alla fine si fosse rivelata
un insuccesso ciò avrebbe determinato in capo al “decisore” una
inaccettabile perdita
di prestigio, e financo una retrocessione dal ruolo
ricoperto.
Sostanzialmente deresponsabilizzante, questo sistema evidenziò
nel tempo vantaggi e difetti. I primi sembrano, nello specifico
contesto giap-
ponese, nettamente prevalenti sui secondi. Le decisioni (spesso
anche
15 YAMAMURA, op. cit.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
279
quelle strategiche) diventavano infatti impersonali, e il loro
successo o fallimento non comprometteva il prestigio di alcuno,
avvenendo in no-
me e nell’interesse della compagine aziendale o societaria. Sin
dal primo passo di questo complicato processo, infatti, i dirigenti
si assicuravano
con estrema attenzione che il gruppo coinvolto nella formazione
di una
proposta gestionale fosse unanime: cosicché, una volta che essa
dive-niva esecutiva, apparisse il prodotto di una scelta
dell’intera azienda,
cosicché tutti si sentivano spinti ad attuarla nel migliore dei
modi af-finché raggiungesse lo scopo prefissato. L’auspicabile
successo sarebbe
stato di tutti, così come in caso di insuccesso non vi sarebbero
stati né
vinti (coloro che l’avevano promossa), né vincitori (quelli che
l’avevano criticata od osteggiata). Tutto il contrario di quanto da
quasi un secolo
avveniva nelle larges corporations americane, dove sul successo
o sul
fallimento di strategie (o di singole scelte operative) i
dirigenti costrui-vano (costruiscono…) o distruggevano
(distruggono…) le loro carriere,
in uno scontro continuo e talora destabilizzante. Si spiega
anche da questo punto di vista la lunga minore conflittualità (e
quindi “ricam-
bio”) al vertice delle società giganti giapponesi rispetto agli
omologhi
gruppi impersonali occidentali. I difetti furono essenzialmente
rappresentati, oltre che dalla “dere-
sponsabilizzazione” dell’Alta direzione, dalla farraginosità (e
lentezza)
del processo decisionale. Le idee innovative rischiavano di
essere soffocate nella fase di discussione prima ancora di giungere
al livello
superiore; e chi decideva al massimo livello era di fatto
costretto a valutare quanto gli veniva proposto con una forte
presunzione positiva,
mancandogli gli espliciti riscontri contrari di chi aveva
cercato di op-
porsi a proposte ritenute sbagliate. Ciononostante, il sistema
ha fun-zionato per interi decenni, giacché nella loro stragrande
maggioranza le
imprese giapponesi hanno dimostrato di dover privilegiare la
regola del consenso, e la preservazione dell’armonia all’interno
dell’organizzazio-
ne.
La situazione è andata successivamente evolvendosi. Pur cercando
di preservarne ugualmente, almeno dal punto di vista formale, le
carat-
teristiche fondamentali (consenso, impersonalità delle
decisioni, armo-
nia del gruppo), un numero crescente di aziende è andato
superando (o aggirando) il sistema ringi.
La capacità di reazione di un’impresa deve essere oggi molto più
tempestiva di un tempo. La crescente interdipendenza tra scelte
gover-
native e vita economica, con particolare riferimento ai piani di
sviluppo
-
Capitolo nono
280
delle aziende, hanno imposto alle imprese delicate scelte
strategiche non sempre affrontabili con l’empirismo del ringi.
Nell’economia industriale
odierna, le decisioni devono essere rapide ed efficaci: e non vi
è efficacia senza un coordinamento continuo tra quelle che
riguardano il breve
periodo e quelle che proiettate al medio-lungo periodo. La
nascita anche
nelle imprese giapponesi di sofisticati uffici finalizzati alla
program-mazione di lungo periodo, risponde a questa esigenza.
Accanto alla verticalizzazione della decisione strategica, si è
tuttavia generalizzato il decentramento del processo decisionale
nelle varie unità
(produttive, amministrative, divisionali ecc.) per rendere
maggiori l’au-
tonomia e la rapidità delle scelte non strategiche: ed è a
quella scala che il sistema ringi viene mantenuto, pur se snellito
e velocizzato. Si pensi
ad esempio ai c.d. “circoli di qualità” su cui si è fondata la
sfida del
miglioramento qualitativo della produzione: e dove
l’elaborazione di una ottimale decisione comune è presupposto del
successo dell’opera-
zione. Al di là, comunque, delle diverse accentuazioni sul modo
di pervenire
alla decisione strategica, rimane un fatto che in Giappone la
gestione
d’impresa presenta una singolare commistione tra metodi della
tradi-zione e quelli del management scientifico di scuola
americana, introdotti
nel dopoguerra. Tale commistione si è tuttavia manifestata negli
ultimi decenni con intensità e gradi diversi a seconda della
congiuntura, e dei
settori: talvolta valorizzando i metodi autoctoni, talaltra
privilegiando i
principi sviluppati nella large corporation statunitense. In una
simbiosi cre-
scente, che ha avuto i suoi ritorni nella stessa industria
occidentale:
dove i “circoli di qualità”, o la sfida della “qualità totale”,
sono stati
accolti come una autentica rivoluzione sia nell’esito
tecnico-economico che si prefiggono, che nel particolare modo di
costruire la decisione. E
sempre più spesso sono state le imprese occidentali a studiare i
particolarissimi metodi di gestione giapponesi, cercando di trarne
utili
insegnamenti: anche questo uno dei tanti aspetti della
internaziona-
lizzazione dell’economia, e dell’interdipendenza tra le varie
culture in-dustriali.
Soffermiamoci, concludendo, su quella che abbiamo prima definita
una reinterpretazione autoctona delle acquisizioni gestionali e
mana-
geriali statunitensi, riguardante la cosiddetta strategia del
“migliora-
mento continuo” (Kaizen). Con il termine Kaizen sono infatti
identici-
cate, nella lingua giapponese, le attività di miglioramento.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
281
Dopo la seconda guerra mondiale, la maggior parte delle aziende
giapponesi dovette ricominciare da zero la loro attività, con
dirigenti,
impiegati ed operai costretti ad affrontare nuove e continue
sfide quotidiane. Fu in questo contesto di “rincorsa” rispetto ai
competitori
internazionali che maturò il concetto di Kaizen applicato alle
attività
produttive. Il primo passo compiuto fu quello di “imitare” i
sistemi di produzione americani in maniera sistematica e puntuale,
attraverso
analisi che conferirono la maggior parte delle basi teoriche
dalle quali scaturì, dopo un periodo di assimilazione e
adattamento, quello poi fu
chiamato “modello giapponese”. Questo processo di rielaborazione
e
reinterpretazione ha riguardò principalmente le aree della
“tecnologia e del management”, tanto che il Giappone può essere
definito come un
paese in gran parte basato sulla tecnologia, ed in grado di
creare e svi-
luppare tecnologie sempre d’avanguardia. La sintesi di tutto
questo è rappresentata proprio dalla continua ricerca di un’elevata
qualità finale
dei prodotti. I giapponesi iniziarono a mutare la loro filosofia
aziendale spostando
il baricentro d’interesse sul lato delle vendite e delle quote
di mercato,
sviluppando altresì – in alternativa ai modelli occidentali – i
concetti del “Just in time”16 e della “Total Quality”. Nei tardi
anni Cinquanta e nel-
la decade successiva fu proprio attraverso strumenti come il
controllo statistico, ed il controllo totale della qualità, che la
strategia Kaizen andò
elaborandosi in una sorta di filosofia della produzione, dove il
concetto
di Kaizen si sostanzia dal semplice miglioramento del
significato etimo-
logico del termine in un miglioramento “continuo” che coinvolge
tutti i
componenti una medesima struttura produttiva (Alta direzione,
quadri
intermedi, manodopera di linea). Nel concetto di Kaizen è
riassumibile gran parte delle pratiche gestio-
nali “tipicamente giapponesi”, spesso studiate e (non sempre al
meglio) replicate dalle imprese occidentali: orientamento al
cliente; produzione
“Just in time”; controllo totale della qualità; miglioramento
della
qualità e della produttività; creazione di nuovi prodotti;
disciplina sul posto di lavoro; attività in piccoli gruppi;
autoattivazione; relazioni in-
dustriali basate sulla cooperazione; sistema dei “suggerimenti”.
Nella mentalità giapponese, è radicata la convinzione che i
miglio-
ramenti non hanno di per sé una fine compiuta. Considerariamo
l’esem-
pio dello sviluppo di un nuovo prodotto come una tipica
situazione
16 T. OONO, Lo spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993.
-
Capitolo nono
282
interfunzionale17, così definita perché comporta la
collaborazione e gli sfor-
zi congiunti di coloro che si occupano del marketing, della
progettazione
e della produzione. Mentre in Occidente i problemi
interfunzionali vengono spesso consi-
derati in termini di conflitto e soluzione dello stesso, la
strategia Kaizen
invece ha permesso al management giapponese di adottare un
approccio
sistematico e collaborativo che smorza alla radice il conflitto,
spostando-
ne le energie alla rapida soluzione del contrasto. Questo modo
di affron-tare i problemi rappresenta uno dei segreti del vantaggio
competitivo del
management giapponese.
Il punto di partenza per produrre un miglioramento, è
riconoscerne la necessità, e tale riconoscimento deriva
dall’individuazione di un “proble-
ma”. Tipico della mentalità giapponese è un atteggiamento
positivo verso i
problemi, per cui qualsiasi difficoltà deve essere vista come
un’opportu-
nità di miglioramento e non come una situazione di per sé
negativa e fo-riera di danno.
L’essere considerati soddisfatti della propria condizione va
contro il principio Kaizen, per cui, se nessun problema viene
individuato, nessun
miglioramento interverrà. Tale approccio poggia sulla necessità
di es-
sere consapevoli della naturale esistenza di problemi, e
fornisce contem-poraneamente all’individuo gli strumenti adatti per
procedere alla loro
individuazione: una volta individuati, i problemi devono essere
risolti
ed il miglioramento raggiunge un livello più alto ogni volta che
viene ri-solto un problema.
Generalmente quando ci si trova di fronte ad un problema, il
primo im-pulso è di nasconderlo, ignorarlo o procrastinarlo,
piuttosto che affron-
tarlo direttamente. Tale atteggiamento è tipico del dirigente
occidentale,
che teme che qualcuno (un collega, un superiore) possa pensare
che lui sia parte di quel determinato problema con il rischio di
perdere prestigio
e “potere” dirigenziale.
Secondo la mentalità giapponese, invece, la cosa peggiore che
una persona possa fare è di ignorare o “nascondere” un qualche
problema,
quando invece il primo passo dovrebbe essere quello di
affrontarlo, con-dividerlo e risolverlo. È importante condividere
il problema con i propri
superiori, ed ottenere l’appoggio di tutta l’azienda dato che
spesso non
17 I. KOBAYASHI, Le venti chiavi del Kaizen, metodi graduati per
il miglioramento con-
tinuo, Torino, Isedi, 1992.
-
Impresa e industrializzazione in Giappone
283
si hanno le risorse per risolverlo da soli. In particolare nella
filosofia del “Controllo totale della Qualità”, in Giappone il
lavoratore viene in-
coraggiato ad individuare ed a parlare dei problemi, ed il capo
indiriz-zato ad apprezzare il fatto di esserne informato in quanto
il problema è
stato messo in luce quando è ancora di minore importanza in modo
da
poterlo considerare una importante opportunità di miglioramento.
L’in-dividuazione dei problemi ed il coordinamento delle
informazioni con
gli altri reparti, sono quindi una normale componente
dell’approccio produttivo giapponese.
Termini come “Qualità” e “Controllo della qualità” hanno giocato
un
ruolo vitale nello sviluppo del Kaizen. Quando si parla di
qualità si tende
a pensare soprattutto in termini di qualità di prodotto, mentre
in Giap-
pone la preoccupazione principale è la qualità delle persone:
l’elemento
umano rappresenta, oltre ai programmi ed agli impianti, uno
degli ele-menti costitutivi fondamentali dell’attività
imprenditoriale. Nel contesto
del miglioramento, quindi, il termine qualità non è associato
esclusiva-mente ai prodotti ed ai servizi ma anche ai modi in cui
la gente lavora,
all’uso che si fa dei macchinari e al modo di affrontare sistemi
e pro-
cedure: in altre parole il miglioramento è connaturato a tutti
gli aspetti del comportamento umano. Nel contesto occidentale,
invece, il termine
miglioramento è connesso piuttosto al miglioramento
impiantistico e di
processo. Anche il Kaizen, ovviamente, è mirato ai processi
produttivi, ma essi
non sono il suo obiettivo esclusivo. Nel corso degli anni le
aziende giap-ponesi hanno sviluppato un modo di pensare ed
elaborare strategie
“orientate ai processi” sostenendo e riconoscendo gli sforzi
individuali
mirati al loro miglioramento. Essendo il Kaizen orientato alle
persone,
preliminare per il mi-glioramento complessivo è la messa a punto
di
processi che favoriscano il coinvolgimento di tutti i livelli
gerarchici dell’organizzazione produttiva.
Talvolta i managers occidentali hanno la tendenza a considerare
que-
ste strategie come “diversità culturali”, senza coglierne gli
aspetti sa-lienti e studiarne le modalità di trasferimento nelle
loro aziende. In
Giappone si suole dire che “anche una strada lunga mille
chilometri è, di fatto, l’accumulo di un passo dopo l’altro”: per i
giapponesi ciò
significa che la forza è rappresentata dalla continuità e dalla
perseve-
ranza dello sforzo di miglioramento. Il concetto di Kaizen
sottolinea il ruolo del management nel sostegno e
nello stimolo degli sforzi fatti dalle persone per migliorare i
processi.
-
Capitolo nono
284
Tali sforzi significano spesso anche cambiamenti nel
comportamento, per cui i criteri orientati ai processi richiedono
tempi mediamente più
lunghi di quelli orientati ai risultati che invece sono di
breve-medio ter-mine. Vale la pena di ricordare come un dirigente
orientato ai processi
si occuperà sia della gestione del tempo come dello sviluppo
delle capa-
cità individuali; ma anche della comunicazione interna, della
partecipa-zione e del coinvolgimento.
Nonostante la primaria importanza attribuita ai processi
all’interno dell’industria giapponese, sono ovviamente importanti
anche i criteri
orientati ai risultati: con la distinzione che mentre le
ricompense per i
criteri orientati ai risultati sono di natura economica, quelle
per i criteri orientati ai processi sono più spesso di
riconoscimento morale e di onore
riferiti allo sforzo compiuto.
Per comprendere l’importanza del modo di pensare orientato ai
pro-cessi è opportuno sottolineare come esso non sia presente solo
all’inter-
no dell’industria, ma permei l’intera vita degli individui
giapponesi, ad esempio nell’ambito dello sport e della
religione.
In sostanza il Kaizen altro non è che una sofisticata, ed a
volte “impal-
pabile”, evoluzione del sistema ringi: che integra un sistema
premiale in
qualche modo paragonabile a quello dello sport nazionale
giapponese, il
Sumo. Nei tornei di tale disciplina, ci sono sempre tre
premi