1 DOTTORATO DI RICERCA IN PEDAGOGIA E SERVIZIO SOCIALE SCUOLA DOTTORALE IN PEDAGOGIA XXVII ciclo IL PADRE TRA NORMATIVITÀ ED AFFETTIVITÀ. Ruolo e funzione paterna in rapporto alla disabilità del figlio: uno sguardo pedagogico. Settore Disciplinare M-Ped 03 Dottoranda Dott.ssa Francesca Maria Corsi A.A. 2013/2014 Docente Tutor Prof. Fabio Bocci Docente Co-tutor Prof.ssa Barbara De Angelis Coordinatore Prof.ssa Giuditta Alessandrini
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DOTTORATO DI RICERCA IN PEDAGOGIA E SERVIZIO SOCIALE
SCUOLA DOTTORALE IN PEDAGOGIA
XXVII ciclo
IL PADRE TRA NORMATIVITÀ ED AFFETTIVITÀ.
Ruolo e funzione paterna in rapporto alla disabilità del figlio: uno sguardo pedagogico.
Settore Disciplinare M-Ped 03
Dottoranda Dott.ssa Francesca Maria Corsi
A.A. 2013/2014
Docente Tutor Prof. Fabio Bocci Docente Co-tutor Prof.ssa Barbara De Angelis Coordinatore Prof.ssa Giuditta Alessandrini
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A te, a noi.
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INDICE
PROBLEMA DI RICERCA .................................................................................................. 6
CAPITOLO I - UN BREVE EXCURSUS SULLA FAMIGLIA ...................................... 15 1. CENNI SULLA NASCITA DELLA FAMIGLIA DALL’EPOCA MODERNA AD OGGI .......................... 15 1.2 PRESUPPOSTI PER ELABORARE UN PROGETTO DI COPPIA “SUFFICIENTEMENTE” EFFICACE .. 21 2. LA FAMIGLIA ........................................................................................................................... 30 2.1. IL RUOLO DEI GENITORI NELLO SVILUPPO DELL’IDENTITÀ DEL FIGLIO ................................ 35 2.2 LA FAMIGLIA SEPARATA ........................................................................................................ 38 2.2.2 LE CONSEGUENZE DEL DIVORZIO SUI FIGLI ........................................................................ 43 2.3 IL “TERZO” GENITORE ............................................................................................................ 49 3. LA MATERNITÀ OGGI ............................................................................................................... 52
CAPITOLO II - C'È ANCHE IL PAPÀ ............................................................................. 58 1. CENNI STORICI SULL’EVOLUZIONE PATERNA .......................................................................... 58 1. 1. LA PATERNITÀ OGGI ............................................................................................................ 62 2. LA FUNZIONE NORMATIVA PATERNA ...................................................................................... 70 2.1. IL PADRE E IL FIGLIO DISABILE ............................................................................................. 78 2.2. IL PADRE E IL FIGLIO DISABILE TRA NORMATIVITÀ E AFFETTIVITÀ ..................................... 88 2.2.1. IL DOPO DI NOI ................................................................................................................... 96 2.2.2. INSETTOPIA: UN FUTURO PER I RAGAZZI/E DISABILI ........................................................ 102 2.3.IL PADRE E IL FIGLIO DISABILE NELLE FAMIGLIE SEPARATE ............................................... 106
CAPITOLO III - I PADRI NEL CINEMA E IN LETTERATURA ............................. 115 1. IL PADRE NEL CINEMA ........................................................................................................... 117 1.1. I PADRI DI FIGLI DISABILI E LE AUTOBIOGRAFIE ................................................................. 125
CAPITOLO IV - LA PAROLA AI TESTIMONI: I PADRI DI FIGLI DISABILI SI
RACCONTANO ...................................................................................................................... 151 1. LA RICERCA ............................................................................................................................ 151 1.1. MOTIVAZIONI ED OBIETTIVI ................................................................................................ 153 2. LE INTERVISTE ....................................................................................................................... 156 2.1. I PADRI SI RACCONTANO ..................................................................................................... 160
CAPITOLO V - VERSO UN FUTURO CON I PADRI ................................................. 218 1. PROPOSTA PEDAGOGICA ....................................................................................................... 218
Mentre tenevo tra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante,
brutta e paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava
avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa fra le
mie braccia, da essa emanava una forza indicibile. E di più: era come se
in questo povero tenero corpicino si fosse accumulata tutta la mia forza,
come se tenessi in mano me stesso e il meglio di me
J. Roth
La Cripta dei Cappuccini
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Problema di ricerca
La nostra società è stata recentemente caratterizzata da profonde
trasformazioni che hanno condizionato, in particolare, l’evolversi
dell’istituzione familiare.
Il ruolo del padre, ad esempio, sino alla prima metà del ‘900 era
sottovalutato e subordinato alla primaria funzione educativa e di cura
della madre. Proprio per questo si riteneva che i danni causati
dall’assenza del padre nella vita del bambino fossero irrilevanti in
confronto a quelli causati dalla deprivazione materna. Solo dagli anni
’70 in poi, grazie al contributo di alcuni studiosi, si è iniziato a dare
attenzione al ruolo paterno nella vita del bambino e dell’adolescente e
alle conseguenze derivanti dalla sua assenza.
Il lavoro di ricerca prende avvio proprio da questa riflessione: che
ruolo ha il padre nella vita del figlio, oggi? Che funzione svolge ed è
chiamato a svolgere dalla società? Che tipo di evoluzione c’è stata sino
ad oggi in merito alla sua presenza/assenza? La sua funzione normativa
esiste ancora o è venuta a mancare? In particolare, nell’ambito del
percorso dottorale, abbiamo messo in luce cosa, come e se cambia la
funzione educativa paterna in relazione ad un figlio disabile.
Lo sguardo con cui ci si predispone, ora, ad analizzare l’immagine
paterna è quello inerente la prospettiva pedagogica e quindi le ricadute
che, a livello educativo, potremmo riscontrare nel rapporto padre-figlio
e padre-figlio disabile. Tale prospettiva è ovviamente supportata dalla
letteratura scientifica di riferimento che muove i suoi passi anche
all’interno di più discipline umanistiche, quali: la sociologia,
l’antropologia, la psicologia e la filosofia.
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In questo contesto risulta evidentemente essenziale il ruolo di
genitore, anch’esso influenzato dalle recenti trasformazioni sociali e
culturali, in base alle quali è sempre più chiara la responsabilità
educativa connessa al mettere al mondo dei figli. È dunque importante
domandarsi quale sia il motivo, la spinta propulsiva, il bisogno che
spinge ad interrogarsi sul padre.
Ogni epoca ha avuto un’immagine paterna a cui far riferimento e,
con l’evoluzione culturale e sociale, e quindi familiare, tale figura ha
subito una trasformazione in seno ai ruoli, alle aspettative e agli
immaginari che a questa si attribuivano.
Oggi è sempre più chiaro come la figura e la funzione del padre
siano essenziali nella vita di un bambino nello sviluppo dell’autonomia,
dell’identità, della relazione sociale e del funzionamento cognitivo.
Dunque: chi sono i nuovi padri, oggi? Sono padri assenti o sempre più
presenti nella vita coniugale e familiare? In che ambito intervengono
con maggiore forza e dove, al contrario, tendono a negarsi? Le
profonde trasformazioni sociali e culturali del secolo scorso hanno
condotto al declino dell’immagine paterna tradizionale, che per tanto
tempo ha fornito stabilità espressiva al ruolo del padre: tramonta la
figura autoritaria e normativa del padre forte, che sancisce le regole,
guida la famiglia ed accompagna i figli nel loro processo di
socializzazione. A poco a poco si è venuto ad affermare un modello
parentale di stampo materno, rafforzato da una presenza sempre più
consistente del femminile in tutti gli ambiti della società. I padri di oggi
sono alla ricerca di un ruolo nuovo, adeguato al contesto familiare e
sociale di cui fanno parte.
Appare chiaro come, da siffatte premesse, non sia possibile
tralasciare il discorso che racchiude in sé non solo le modifiche che la
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famiglia tradizionale ha subito, ma anche, e soprattutto, la nascita e la
presenza delle nuove forme familiari che vanno dalla famiglia divisa,
alla famiglia con un solo genitore, a quella ricomposta.
Il lavoro di ricerca si articola pertanto in tre sezioni teoriche che
hanno lo scopo di avviare il lettore alla comprensione delle dinamiche
relazionali che incidono sui cambiamenti che vivono i padri di oggi
fornendo, pertanto, una panoramica delle pluralità delle forme familiari
implicate negli attuali mutamenti sociali.
La prima parte cerca di definire l’identità della famiglia, prima, e la
pluralità delle famiglie, poi.
La prima questione da porsi riguarda cos’è e come si evolve il
concetto stesso di famiglia. Sicuramente la famiglia come nucleo
sociale è stato da sempre al centro dello sviluppo umano, e ha svolto in
esso una molteplicità di funzioni: luogo di sostentamento e di sicurezza,
ma soprattutto luogo di educazione privata, affettiva, relazionale e
sociale. Senza dubbio, però, l’obiettivo principale che caratterizza la
prima fase del ciclo di vita della famiglia è la costruzione dell’identità
di coppia1. Le forme di relazione tra due persone, che costituiranno, in
seguito, la famiglia, nascono fin dalle origini dell’uomo, come esigenza
primariamente biologica, funzionale alla sopravvivenza della specie2.
La famiglia rimane, pertanto, il punto/momento storico, culturale,
esistenziale, in cui la vita da meramente biologica, diventa umana3.
La seconda parte si occupa prettamente della figura paterna declinata
nelle diverse tipologie di famiglia sin ora citate. Emerge con forza che
1 P. Gambini, Psicologia della famiglia. La prospettica sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 118 2 F. Cambi, Dimensioni della pedagogia sociale, Carocci, Roma, 2010, pag. 88 3 P. Donati (a cura di), Identità e varietà dell’essere famiglia. Il fenomeno della “pluralizzazione”, San Paolo, Roma, 2001, pag. 25.
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il padre assente è l’immagine di oggi. Assente perché si rifiuta di
combattere nei rapporti; il padre non c’è anche quando abita nella
stessa casa. Il padre non fa anche quando agisce4. Il primo quesito è
difatto relativo all’impallidire dell’immagine paterna, per dirla con
Mitscherlich in Verso una società senza padre, che sembrerebbe
trovare la sua causa nell’essenza stessa della nostra civiltà, per quanto
riguarda la funzione educativa del padre che sembra scomparire o
quanto meno venire ignorata5. Fu evidenziato che il disagio della
persona può nascere da un eccesso così come da una carenza della
funzione normativa6. E poi, come scritto precedentemente, il suo ruolo
all’interno della vita familiare. Eugenia Scabini nel 1985 in L’immagine
paterna nelle nuove dinamiche familiari7 sottolineava la complessità
dei connotati della figura paterna esplicando come il padre rimanga il
nodo della normatività coniugale, genitoriale e familiare, ma in modo
latente, nascosto. C’è un bisogno ineliminabile del padre e tuttavia il
suo ruolo esplicito tende ad essere sottaciuto8. La società ha deciso di
spogliare Ettore, come esemplifica in modo illuminante Luigi Zoja,
perché non spaventi il bambino: quest’ultimo non avrà più paura, ma
avrà ancora un padre? La rinuncia dell’armatura lo renderà simile alla
madre, ma il bambino andrà alla ricerca di altre figure maschili dotate
di armi. Forse alla contraddizione del padre non c’è soluzione: essa
corrisponde proprio alla sua identità profonda. Il paradosso del padre,
che illustreremo in seguito, sta proprio in questo: egli può essere con il
4 L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollingati Boringhieri, Torino, 2003, p. 270. 5 M. Andolfi, Vuoti di padre, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato. Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 19. 6 C.M. Muttini, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, Arakne, Roma, 2009, p. 16. 7 P. Donati, E. Scabini, L’immagine paterna nelle nuove dinamiche familiari, Vita e Pensiero, Milano, 1985. 8 Ivi, 2009, p. 19.
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figlio quando sa anche stare con l’armatura, può essere padre quando è
anche guerriero. Non può fare una sola delle due cose, come la madre:
se lo vede solo con le armi non lo riconosce, se non lo vede mai con le
armi non lo riconosce come padre9.
La figura del padre cambierà connotati mano a mano che il lettore si
addentrerà nella terza parte del lavoro dove verrà affrontato il delicato
rapporto tra padri e figli disabili. Se, come abbiamo scritto, l’immagine
paterna come tradizionalmente viene intesa tende sempre più ad essere
confusa con quella materna, o ancor più, a scomparire, urge uno
sguardo ancora più analitico e dettagliato in merito al rapporto con un
figlio con esigenze e bisogni speciali. Se risulta scontato affermare che
un buon clima familiare sia la premessa per un buon rapporto genitore-
figli, si sono intensificati, a partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le
ricerche per rilevare le conseguenze che la presenza di un figlio con
handicap possa determinare a livello di vissuto dei genitori e di
dinamiche relazionali che intercorrono tra i membri della famiglia e
che si ripercuotono sulle modalità educative10. È in questo senso che la
ricerca, avvalendosi e arricchendosi di contributi letterari e
cinematografici, sonderà un terreno di difficile aratura.
Inoltre ci soffermeremo sulla pratica della “Pedagogia dei Genitori”11
che, dal 1995, propone di affiancare alla diagnosi la presentazione del
figlio a motivo della presa di coscienza che i genitori che hanno i figli
con disabilità devono essere più genitori degli altri, rispondere a sfide
9 L. Zoja, op. cit., p. 34. 10 S. Di Nuovo, S. Buono, Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento, Città aperta Edizioni, Enna, 2004. 11 A. Moletto, R. Zucchi, Con i nostri occhi. Un itinerario di Pedagogia dei genitori, Supplemento Handicap e Scuola, Torino, 2006.
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speciali, compiere scelte difficili, affrontare una realtà spesso
impreparati12.
È in questo orizzonte prospettico che intendiamo muoverci nei
capitoli appena sopra articolati: chi è il padre? Che ruolo e che
dimensione dovrebbe assumere: normativa o affettiva? Davvero il
padre per esistere deve scegliere se essere un mammo o mantenere
salda l’armatura di Ettore?
Siamo giunti dunque, ancora una volta, di fronte a quello che sarà il
nostro orizzonte di senso per comprendere i meccanismi relazionali e le
dinamiche evolutive connesse alla figura paterna: il paradosso del padre
che esiste solamente nell’abitare continuo tra la normatività e
l’affettività.
12 M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002.
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Introduzione
La storia dell’educazione e del costume ci ha abituato, nel tempo, a
differenti figure di padre. Sino a quasi ad una sua latitanza o pressoché
scomparsa, che non solo per suo limite o per difetto, hanno avuto
riflessi profondi e negativi sulla crescita dei figli e sul loro
comportamento quanto anche sulla società nel suo complesso.
Restringendo l’attenzione agli ultimi due secoli, a cominciare da quella
pagina importante che è stato l’avvento della psicanalisi.
Freud, nel sottolineare l’importanza di entrambi i genitori per la
formazione della personalità, lo sviluppo dell’infanzia e le successive
fasi evolutive, ha attribuito ruoli rigidi, pur se complementari, al padre
e alla madre. Con eccessiva enfasi nei confronti del ruolo materno.
Comprensibile per due ordini di motivi.
Innanzitutto, per ragioni squisitamente culturali, anche di matrice
marcatamente pedagogica.
Il XVIII e il XIX secolo hanno segnato il passaggio, in capo alla
donna e alla madre, da avvertenze puramente biologiche, nutrizionali e
di allevamento, al recupero e alla fondazione di un suo forte e incisivo
spessore educativo. L’attribuzione, dunque, alla madre, di un ruolo di
onnipotenza affettiva: la madre, donna e moglie, angelo del focolare,
premurosa verso il marito ed i figli, ottima padrona di casa, vigile
custode dei compiti pomeridiani, mediatrice eccellente tra cuore e
ragione, pensieri, sentimenti e valori, è stata una caratteristica notevole
che ha accompagnato almeno cento anni della nostra storia più recente,
con non pochi sensi di colpa in buona parte del pianeta femminile. Il
padre era tenuto, al contrario, ad incarnare, in questo bozzetto idilliaco
ma severo, la norma, la legge, il dover essere e il dover fare, il castigo e
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la punizione eccellente. Ma sempre un po’ in ombra, distante, lontano.
Si pensi a tutta una generazione, non molto in là nel tempo, che
potrebbe avere ancora nelle orecchie frasi del tipo: “lo dirò a tuo
padre”, “se non fai il bravo lo racconto a tuo padre quando ritorna”, e la
madre al padre “rimprovera tuo figlio che oggi non si è comportato
bene”.
A sottolineare, così, un padre richiamato più al bastone che alla
coccola, non intimo col figlio, e soprattutto assente: un padre che non
c’è, che lavora, sempre in procinto di tornare, ma tardi. Un ruolo (o
un’assenza) che dalla famiglia si sono poi estesi anche al tempo libero e
alla scuola. Giardini affollati di madri con bambini e udienze
scolastiche stracolme di donne con scarsi uomini. Parliamo,
naturalmente dell’Occidente europeo e del mondo capitalista, che tra
l’altro si conosce maggiormente ed è quello più indagato dalla cultura
pedagogica prevalente. Sino ad arrivare alla patologia o alla patogenesi
familiare, in cui il padre “grande assente” era incitato ad intervenire
educativamente, salvo ricacciarlo immediatamente nell’angolo e nella
zona buia tutte le volte che si dava il desiderio o il coraggio di
pronunciarsi, anatemizzando il suo comportamento come foriero di
maggiori disgrazie per le scelte e per l’avvenire dei figli. Dal
matriarcato e dal maschilismo si arriva così alla già citata crisi degli
anni ’60 e all’avvento del primo femminismo. E la scena familiare si
svuota, in molti contesti, di tante madri e di troppi padri, tutti affannati
e protesi verso l’ autorealizzazione di sé, il successo sociale e
professionale, il benessere psicologico. Cucine, figli e udienze
scolastiche, sono un intralcio o un’esperienza da prendere a piccole
dosi. Con un passaggio dall’intimità all’intimismo, dall’educazione al
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permissivismo, da una sana e corretta relazione complementare ad un
rapporto pseudosimmetrico devastante ed iniquo13.
I successivi anni ’70 e ’80 hanno significato, invece, in antecedenza
profetica o scatenante, di un secondo femminismo più quieto e
razionale, e l’entrata in scena di un padre premuroso, coccolone, che ha
deciso di imparare a destreggiarsi tra fornelli e pannoloni, biberon e
compiti pomeridiani, che ama stare con i figli e godere della loro
presenza, in reciproca intimità. Nasce, pertanto, una nuova figura di
padre in sintonia con una ritrovata figura materna.
I figli per crescere bene hanno bisogno di un padre e di una madre
efficaci ed efficienti, entrambi premurosi e cordiali, ma anche sempre
educanti e contrattuali, che propongono stili, scelte e valori, nel dialogo
e nella confidenza, riservandosi in corner il ricorso all’autorità e alla
norma, quando, in quel preciso momento, tutte le possibili parole
sembrano non volere e non poter essere ascoltate.
Sta venendo a galla un padre affettuoso o, come ha scritto Pino
Pellegrino, “un papà salmone”14, che sa andare controcorrente, come i
salmoni appunto.
Un papà, dunque, che sa anche dire di no.
13 P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma, 1971. 14 P. Pellegrino, Torna a casa papà, «Avvenire», 31 gennaio, 1999.
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CAPITOLO I
Un breve excursus sulla famiglia
In questo capitolo ci soffermeremo, in particolare, sull’evoluzione della
concezione di famiglia evidenziandone i tratti salienti che
contraddistinguono quella odierna da quella del passato. In seguito
analizzeremo l’identità di coppia come luogo degli affetti e delle relazioni
primarie, per giungere poi all’analisi della famiglia tradizionale e delle
nuove forme familiari esistenti. In ultima analisi ci soffermeremo,
brevemente, sul ruolo della madre nello sviluppo identitario e affettivo del
figlio, focalizzando l’attenzione sul cambiamento delle madri oggi,
meditando sul pensiero della filosofa Elisabeth Badinter, la quale afferma
che l'istinto materno non è un dato naturale e immutabile, che vive dentro
ogni donna, ma un dato culturale, dettato dall'evoluzione e dalle
organizzazioni sociali.
1. Cenni sulla nascita della famiglia dall’epoca moderna ad oggi
Nel corso del tempo la dimensione coniugale, e poi quella familiare,
hanno subito diverse modifiche a livello sociale e culturale.
La costruzione coniugale ha assunto differenti forme e funzioni rispetto
al periodo storico cui si fa riferimento: l’epoca moderna concepiva la
coppia come una via per creare alleanze tra famiglie, in seguito, con l’avvio
dell’industrializzazione, assume invece le caratteristiche di una sorta di
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impresa privata, per diventare alla fine, uno spazio per la propria
realizzazione personale15.
Il matrimonio non era quindi concepito come una possibilità di
conquistare una vita affettivamente piena, ma come una forma di alleanza
tra famiglie benestanti che potevano pertanto condividere un’ eredità
(compito della famiglia dello sposo) e una dote (compito della famiglia
della sposa). In quest’ottica si comprende quanto e in che misura il
matrimonio possedesse un carattere prettamente economico basato su
strategie di alleanze politiche in cui l’amore aveva ben poco spazio, per non
dire nullo. Naturalmente la ricchezza rappresentava il prerequisito
fondamentale perché l’unione matrimoniale avesse luogo: questo è tanto
più vero se si pensa alle molte famiglie sprovviste di dote (perché una volta
sposata la prima figlia non si aveva più a disposizione per le successive) la
cui conseguenza era quella di non poter far sposare la ragazza. Le famiglie,
pertanto, dovevano appartenere allo stesso ceto sociale per garantirsi,
reciprocamente, una duratura alleanza tra gruppi16.
Tra il XV e il XIX secolo si assiste, dunque, all’instaurarsi di forme
coniugali basate su un rapporto di scambio in cui la famiglia è intesa come
un’unità produttiva in grado di soddisfare il perpetrare delle generazioni:
questo è particolarmente vero per le famiglie contadine e artigiane come
per l’aristocrazia e la borghesia urbana. Il padre, in questo caso, funge da
amministratore sia dell’economia domestica che pubblica e finanziaria.
Per quanto riguarda l’Italia, lo studio di Barbagli17 fa risalire la comparsa
della famiglia moderna, o famiglia coniugale intima, come la definisce
15 P. Gambini, Psicologia della famiglia. La prospettiva sistemico relazionale, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 112. 16 C. Levi- Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 1984. 17 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2013.
17
l’autore, tra gli ultimi decenni del Settecento e l’inizio dell’Ottocento,
prima dell’avvento dell’industrializzazione18. Tale fenomeno guida a un
ridimensionamento della composizione familiare: dalla famiglia estesa si
giunge alla famiglia coniugale- moderna19. Non a caso, dato il fenomeno
dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, gli spostamenti sono
consentiti con maggiore frequenza amplificando quindi le possibilità di
sposarsi. Si giunge così a denominare i primi anni del Novecento: l’età
d’oro della nuzialità20.
Dunque, nella società post industriale si enfatizza la dimensione privata
della famiglia come luogo di affetto e di cura in cui le relazioni primarie
sono la base per la costruzione della vita coniugale e familiare. Di fatto la
famiglia, intesa non più come unità produttiva basata su un’alleanza
meramente economica e politica, diviene, secondo la definizione di
Parsons21, il luogo degli affetti e dei processi di socializzazione primaria e
secondaria. In questo modo la famiglia inizia ad assumere sempre più la
configurazione cui oggi siamo abituati a pensare: un luogo in cui le
relazioni di cura e di aiuto divengono centrali per il benessere della coppia
e dei figli che comporranno il nucleo familiare.
Per comprendere la famiglia, attualmente, ci si deve predisporre con uno
sguardo focalizzato sulla relazione di coppia, all’interno della quale
entrambi i partner possono sperimentare le proprie potenzialità e trovare
risposte alle proprie attese, a cagione del fatto che la realizzazione e la
felicità personale si realizzano altresì nel rapporto a due.
18 A.L. Zanatta, Nuove madri e nuovi padri. Essere genitori oggi, Il Mulino, Bologna, 2011, p.14. 19 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit., p. 114. 20 M. Segalen, Sociologie de la famille, Colin, Paris, 1981. 21 T. Parsons, R.F. Bales, Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano, 1974.
18
Per capire come sia avvenuto questo processo trasformativo di portata
esistenziale è auspicabile rintracciare nel rapporto di coppia la prima vera
legittimazione del matrimonio, inteso come amore romantico.
Di fatto, se dapprincipio il matrimonio era percepito primariamente
come la sicurezza di un’assicurazione economica e il conseguirsi della
naturale nascita dei figli, futura forza lavoro e conferma della prosecuzione
del cognome, adesso la motivazione principale per cui due persone
convolano a nozze è la realizzazione della propria felicità. Così fin da
ragazzi gli individui vengono socializzati ad innamorarsi e a farsi guidare
da questo sentimento nella scelta del coniuge22.
Anche per quel che riguarda la relazione di coppia, senza dovere andare
troppo in là con i ricordi, vi è stata una trasformazione tangibile nel
concepire la relazione: basti pensare che solamente nel secolo scorso i
matrimoni continuavano ad essere combinati, o, nelle migliore delle
ipotesi, il partner veniva scelto non in base a gusti e preferenze personali,
bensì a seconda della posizione familiare di quest’ultimo, alle credenze
religiose e politiche, e non da ultimo in merito alla posizione economica.
Sempre più, come scrive Scabini, il fidanzamento ha perso i suoi connotati
di alleanza ufficiale tra famiglie per divenire uno sfumato patto fiduciario
tra due individui che si scelgono senza la presenza di testimoni23. Questo è
tanto più vero se si pensa in che modo, e in che misura, sia mutato
e sociale dei partner in relazione alla famiglia di origine di ciascuno dei
due. In questo senso si apre, per i giovani d’oggi, una forma d’amore, e di
rapporto, libero e totalmente svincolata dalle famiglie di provenienza
22 W. Goode, The thereotical importance of love, American Journal of sociology, 24:38-47, 1959. 23 E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Boringhieri, Torino, 1995.
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anche, e soprattutto, per i forti connotati erotici e sessuali che sono inclusi
nell’ideologia dell’amore romantico. Lo spazio della coppia diviene, così,
un luogo autonomo e privo di qualsivoglia forzatura da parte di agenti
esterni, che siano la famiglia di lui/lei e/o fattori sociali e culturali che ne
ostacolano la relazione. Ancora, come caldeggia nuovamente Scabini, la
coppia sembra avere sempre maggiore preminenza sulla coniugalità24. Al
centro di questa viene posto, dunque, il legame di coppia basato sulla
reciprocità, sulla stima e sulla comprensione: le funzioni e i ruoli sono
stabiliti dagli stessi partner senza far entrare in gioco aspetti legati ad una
secolare tradizione. In questo modo la dimensione dell’amore resta l’unica
via privilegiata per accedere al matrimonio, dimensione dicotomica rispetto
a quell’ormai desueto “contratto formale” stipulato tra famiglie.
È evidente come intimità e formalità siano in antitesi tra di loro proprio
perché il polo affettivo viene scisso indiscutibilmente da quello etico:
l’impegno dell’uno nei confronti dell’altra, e viceversa, viene prima di ogni
patto stabilito da famiglie d’origine, comunità o stirpi d’appartenenza.
Non si tratta, però, di incontrare la persona giusta, precisa Montuschi,
ma di disporsi a costruirsi anima gemella, intenti a modificare se stessi per
rendersi adatti all’altro, compatibili per una reale ed efficace interazione
con la persona riconosciuta capace e interessata a condividere la propria
esistenza. Ciò significa imparare a dare e a ricevere con la stessa facilità e
naturalezza; significa sentirsi capaci di pensare, e anche di apprezzare i
pensieri del proprio partner, stimare se stessi e stimare l’altro: nella
reciprocità ciascuno è soddisfatto di com’è ed è soddisfatto di com’è
l’altro25.
24 Ivi, p. 45. 25 F. Montuschi, Costruire la famiglia. Vita di coppia, educazione dei figli con l’analisi transazionale, Cittadella Editrice, Assisi, 2004, p. 19.
20
Quanto emerso, però, non mette in luce uno dei fattori, purtroppo attuale
e in continua crescita, che mette a repentaglio proprio la durata e la stabilità
della coppia: le alte aspettative, facilmente soggette a delusioni, che i
coniugi hanno nei confronti del partner e della relazione; l’accresciuto
bisogno di autorealizzazione, caratteristica pregnante della nostra cultura,
lo sbilanciamento della relazione sul polo affettivo e, quindi, sull’intimità e
l’espressione di sé, non adeguatamente controbilanciato da quello etico,
cioè da un insieme di norme prestabilite, da un certo controllo sociale e da
una maggiore forza del vincolo matrimoniale, rendono più fragile l’attuale
coppia coniugale26. Come dichiara Saraceno,27 già si coglievano i primi
segnali delle separazioni e dei divorzi, in Italia come in altri paesi europei.
E’ chiaro, dunque, che ci sia bisogno, oggi, di una nuova e più attenta
formulazione di politiche sociali volte a garantire quel benessere socio-
economico che rappresenta lo sfondo integratore per una piena
realizzazione personale e, di conseguenza, di coppia.
Siffatta considerazione viene formulata alla luce, però, di una
consapevolezza che dovrebbe essere ben radicata in ognuno di noi: e cioè
che un matrimonio umanamente felice, nel quale ognuno dei due è tenuto a
veder rispettate le proprie esigenze di autonomia, di autoaffermazione e di
crescita personale, non è un matrimonio senza problemi28, ma è quello che
perdura nonostante i problemi. La speranza, intesa come risultato di una
vera e propria decisione- e si ricordi che crisi è uno dei tanti nomi delle
scelte e delle ridecisioni 29 -, di un atto della volontà che precede,
accompagna e segue il modo di sentire e percepire se stessi e la realtà30.
26 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit., p. 117. 27 C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2001. 28 M. Corsi, Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza, Vita e Pensiero, 2003, Milano, p.77. 29 Ivi, p 128. 30 F. Montuschi, Costruire la famiglia, op. cit., p. 81.
21
1.2 Presupposti per elaborare un progetto di coppia “sufficientemente”
efficace
In riferimento al concetto appena esposto, e dunque che i matrimoni che
durano non sono quelli senza problemi, ci preme sottolineare e definire in
termini concreti i ruoli e le funzioni che i due partner dovrebbero
auspicabilmene stabilire e negoziare per essere- e diventare- coppia.
Fino a qualche decennio fa non si sentiva il bisogno di concepire, in base
alle esigenze dettate di volta in volta dalla quotidianità, ruoli e funzioni che
non fossero già stati decretati dalla cultura di appartenenza. Alla donna,
angelo del focolare, spettavano la cura della casa e della prole, mentre
all’uomo, lavoratore onesto e stacanovista, il sostentamento economico
familiare. Oggi, invece, l’ideale della parità tra i sessi e l’allargamento
delle opportunità offerte alle donne hanno condotto a generare un nuovo
modo di interpretare la differenza di genere all’interno della coppia.
Sempre meno la costituzione della coppia coniugale è intesa come un
processo insieme fusionale e asimmetrico, in cui il benessere e la riuscita
dell’uomo diventano l’interesse della donna31.
Al contrario, oggi, mantenere intatta la propria individualità è diventato
sempre più un valore fondamentale da tenere a mente. Kalin Gibran, nella
sua celebre poesia sul matrimonio esemplifica egregiamente la strada per
costruire fondamenta solide che diano sicurezza al palazzo che, in questo
frangente, significa costruire la famiglia: riempia ognuno la coppa
dell’altro, ma non bevete da una coppa sola. Scambiatevi il pane, ma non
mangiate dalla stessa pagnotta. L’obiettivo del matrimonio è far risultare
ad 1+1 il numero 3. Neanche 2, ma 3. Non 2 perché altrimenti il tutto si
31 C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, op. cit., p. 106.
22
configura come un contratto commerciale o un’impresa dove ciascuno
porta le sue quote e il suo maggior profitto, bensì 3, in cui i coniugi,
mantenendo intatte le proprie radici sino allora cresciute distanti,
svilupperanno, da quel momento in poi, una terza quantità di foglie che si
stringeranno assieme per formare il noi, il terzo 1 di un processo di
autonomia che si nutre di sane distanze e altrettanto sagge e volute
prossimità32.
La coppia, come appena scritto, sperimenta la fase adulta e la pienezza
dell’esercizio della propria libertà quando i singoli membri scoprono il noi:
non più la somma di due singole manifestazioni di libertà, rese compatibili
da accordi e stratagemmi, ma una nuova modalità di esercitare la libertà in
comunione33.
Ma così come non si può improvvisare la costruzione della famiglia, non
si improvvisa neppure l’essere coppia. Essere coppia, come più volte
ribadito in questa sede, prevede una lotta continua tra il resistere e il cedere,
tra il negoziare e il contrattare, rispettivamente a situazioni ed eventi- che
siano essi improvvisi o quotidiani- che la coniugalità tenderà ad incontrare.
L’obiettivo del matrimonio, ribadisce Théry, è quello di concepire uno
spazio in cui ruoli e funzioni, all’interno della diade, vengano sottoposti a
continue modifiche in relazione a situazioni e contesti, così da garantire ad
entrambi i membri la piena espressione e valorizzazione di sè34.
Tuttavia, per la risoluzione di conflitti, passeggeri o profondi, vi è
l’esigenza costante di una comunicazione a tutto campo. È facile
comprendere come un buon dialogo e una comunicazione attiva siano i
32 M. Corsi, Il coraggio di educare, op. cit., p. 121. 33 F. Montuschi, Costruire la famiglia, op. cit., p. 33. 34 C. Théry, L’enjeu de l’égalité. Marriage e diférence des sexes dans la recherce du bonnheur par S. Covell, Esprit, 252, 1991.
23
presupposti cardine per elaborare un progetto di coppia sufficientemente
efficace.
Per approfondire quest’ultimo concetto è utile rifarsi alla teoria
introdotta dal gruppo di Palo Alto e in particolare da Paul Watzlawick e
altri nel libro La pragmatica della comunicazione35. Secondo questi autori
il primo assioma della comunicazione afferma, appunto, che non si può non
comunicare: tutto nell’individuo ha valore di messaggio. Il silenzio e la
postura fisica, che sia essa immobile o in tensione, comunica con l’altra
persona che, a sua volta, non può non rispondere a queste comunicazioni
con altrettanti messaggi verbali e non verbali. Pertanto numerose ricerche
rivelano che le coppie soddisfatte del proprio rapporto hanno un livello di
comunicazione migliore rispetto a quelle insoddisfatte. Per buona
comunicazione si intende la capacità di fare buon uso delle parole:
Montuschi nel suo libro Costruire la famiglia, illustra l’inganno che può
celarsi dietro alla convinzione che il dialogo si costruisca e si esaurisca in
uno scambio di parole, in un inesauribile, ininterrotto parlare36. In alcuni
casi rappresentano solamente un innocuo passatempo per nascondere ed
evitare parole che potrebbero scavare nella profondità di sé e dell’altra
persona causando incomprensioni, senza capire, altresì, che proprio quel
bel giretto di parole vuote ma doppiate, come canta Samuele Bersani in un
suo noto testo musicale intitolato Giudizi Universali37, rappresenterà, a
lungo andare, uno dei motivi che potrebbero rivelarsi letali per la fine di un
rapporto.
35 P. Watzlawick, D.D. Jackson, J. Beavin, Pragmatica della comunicazione umana, Astralabio, Roma, 1971. 36 F. Montuschi, op. cit. p. 45. 37 È il terzo album dell'artista ed è intitolato semplicemente con tre asterischi. Pubblicato nel 1997, l'album contiene Giudizi universali, uno dei brani più intensi ed emozionanti scritti da Samuele Bersani con il quale nel 1998 si aggiudica il Premio Lunezia come miglior testo letterario.
24
Inoltre, la comunicazione non si articola tramite messaggi poco chiari e
fraintendibili: non solo per non correre il rischio di essere travisati, ma
anche per evitare di provare sentimenti frustranti determinati dalla
condizione di non essere compresi dal partner.
Instaurare una conversazione, dunque, è la modalità migliore per
esprimere sentimenti, emozioni, paure e gioie: è proprio nel momento della
condivisione che le parole assumono un significato diverso e l’ascolto non
rappresenterà più un semplice sentire, ma richiederà una partecipazione
cognitiva e affettiva, ricercherà, cioè, un ascolto autentico.
L’ascolto attivo consta, a nostro avviso, di tre dimensioni collegate
imprescindibilmente tra loro e senza le quali non si potrà avviare alcun
processo di comprensione profonda dell’altro. La prima istanza che viene
sollecitata è quella affettiva: è evidente che per contribuire e collaborare
con la persona che sta manifestando un suo vissuto, una sua esperienza o
un suo pensiero la vicinanza emotiva è la prima chiave di volta; l’ascolto
empatico presuppone un’incompatibilità con sentimenti quali la
sopraffazione e la prepotenza, ma agisce attraverso la tenerezza che, illustra
Montuschi, significa condivisione e si conquista, difatti, con la pace, la
comunione, lo scambio affettuoso e paritario dei sentimenti di accettazione,
di valorizzazione, di gratitudine38.
Come seconda dimensione vi è sicuramente quella cognitiva che
prevede, per così dire, un’affinità di testa. Per realizzare una
comunicazione flessibile, non rigida, non egocentrica, è necessario un
decentramento emotivo: la flessibilità cognitiva ci aiuta ad assumere il
punto di vista dell’altro ed è infatti collegata a una disponibilità affettiva
che possa investire in egual misura il sé e l’altro. Per ascolto, pertanto, non
38 F. Montuschi, op. cit., p. 53.
25
intendiamo tacere per permettere all’altro di parlare; l’ascolto attivo è un
atto intenzionale che impegna la nostra attenzione a cogliere quanto l’altro
ci riferisce sia in modo esplicito che in modo implicito 39 . Di fatto
l’elemento centrale affinché l’ascolto possa instaurarsi risiede sempre nella
comprensione: il pregiudizio rispetto a quello che si sta ascoltando o la
volontà di convincere l’interlocutore a cambiare idea non possono- e non
devono- rientrare a far parte di un ascolto autentico. L’ultima dimensione,
che lega indiscutibilmente le prime due, abita nella relazione. La relazione,
come in ogni presa in carico di un soggetto, è la condizione necessaria
affinché si possa creare quel clima di fiducia e di abbandono all’altro che
sono la garanzia per un rapporto vero e umanamente sereno.
È da sottolineare, in ultima analisi che, come ricorda Pati, anche il
conflitto può essere utile allo stabilirsi di un vero rapporto di dialogo,
purchè esso rimanga sempre su di un piano accettabile in cui il rispetto per
l’interlocutore non venga mai meno40.
Ma il fenomeno dell’ “errore di persona” o i tanti impossibili
“imprevisti” della vita coniugale e familiare appartengono alla storia
umana, e talora fragile, delle persone41.
La coppia cova già al suo interno una realtà conflittuale in nome della
sua stessa costituzione: due persone che, giorno dopo giorno, devono
accordarsi sulle scelte e sulle soluzioni da mettere in atto, grandi o piccole
che siano.
La rabbia è un sentimento molto comune che si sviluppa quando uno dei
due partner mette in atto processi di prevaricazione e di prepotenza che,
39 C. R. Rogers, La terapia centrata sul cliente, La Meridiana, Molfetta (BA), 2007. 40 L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, La Scuola, Brescia, 2004, p. 53. 41 M. Corsi, Saper stare in famiglia: la democrazia come scelta procedurale, in M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia. Pedagogia delle relazioni educative familiari, Armando, Roma, 2009.
26
solitamente, fanno sperimentare un senso di frustrazione e di inadeguatezza
in che le riceve. Lampante è comunque l’idea che evitare la conflittualità
non comporti un miglioramento della relazione, anzi. Le famiglie che
hanno come mito quello della concordia e dell’unità, nelle quali è
condannato, anche se velatamente, l’alzare la voce o esprimere contrarietà
rispetto ad un dato evento o opinione, non svilupperanno mai un
sentimento che invece risulta utile per tutti gli esseri viventi perché
garantisce la sopravvivenza fisica e psichica42. Inoltre la paura di esprimere
sentimenti di rabbia corrisponde, quasi sempre, ad una comunicazione non
efficace: tacere e accumulare aggressività significherebbe poi esplodere di
fronte all’ennesima questione in cui i due partner litigano senza ricordare
l’oggetto e il motivo della discussione. Si perde così il valore dello scambio
di idee e perciò, ricollegandoci a quanto sinora scritto, il valore che ha il
costruire un progetto di coppia. Non concedersi la possibilità di
testimoniare le proprie emozioni e visioni della realtà elimina, a pieno
titolo, l’ascolto autentico ed empatico, personale e relazionale, mai critico e
pregiudiziale, che non assume mai in alcun modo i panni della condanna e
del rifiuto, nell’accettazione e nell’accoglienza, per discutere e dialogare
tutto il tempo necessario, per essere in grado, insieme, di risalire dai tanti
“tombini” di cui è disseminata la vita di ciascuno e per tornare,
metaforicamente, a “rimirar le stelle”43.
Sperimentare la rabbia, a ben pensarci, può essere anche un modo per
conoscersi meglio, per scavare nell’intimità dell’altro e per potere, in
seguito, attenuare o smussare atteggiamenti che possono risultare poco
piacevoli, per sostituirli, difatto, con comportamenti in cui ciascuno si senta
riconosciuto. Interessante è quindi capire il come affrontare la collera e
42 F. Montuschi, op. cit., p.47. 43 M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia…, op. cit. p. 56.
27
esprimere il proprio sentimento, anche con forza e determinazione, senza
però minacciare e/o aggredire l’interlocutore.
In linea generale la rabbia è accompagnata, come sostiene Johns44, da
una specifica forma di paura che, se non esplicitata, può avere conseguenze
anche molto distruttive. Nello specifico si configurano quattro tipi di paure:
La rabbia di impotenza, alimentata dalla paura di non essere capaci, da
un senso di inadeguatezza nei confronti dell’altro e da una percezione di
inferiorità e di insuccesso in rapporto alle situazione che si vivono;
• la rabbia di frustrazione è alimentata dalla paura di non riuscire,
di fallire di fronte ad una difficoltà, di non essere all’altezza e
quindi di essere giudicati negativamente dagli altri;
• vi è poi la rabbia di sfida, nutrita dalla paura che nulla abbia
senso e valore: né gli altri né gli eventi che accadono, tantomeno
la propria esistenza;
• in ultimo la paura chiamata di indignazione che risulta la più
costruttiva: è infatti in seguito a torti o ingiustizie che le persone
mettono in moto comportamenti di rivalsa per ristabilire uno
stato di equità, per sé e per gli altri.
La rabbia sana è dunque assertiva e permette ai partner di ascoltare/si per
meglio governare la vita insieme attraverso una democrazia coniugale che
sappia accogliere e rimodellarsi rispetto al nuovo e all’imprevisto che
incalzano, a vantaggio di persone perennemente creative e non rigide.
Inizia così, per mai più interrompersi, tutte le volte che ci si arena
nell’incontro scarsamente improduttivo, la fatica del confronto, del dialogo
44 H. D. Johns, Paura, collera nel quotidiano, Cittadella ed., Assisi, 1994.
28
sincero a tutto campo, della comunicazione interpersonale e della fedeltà
alle sue regole45.
È questa una sfida di vastissime proporzioni in merito tipicamente ai
coniugi, ma che si può, e si auspica deve estendere poi a tutta la famiglia:
avere il coraggio di uscire da una prospettiva autoreferenziale per aprirsi
alla generatività in senso lato46.
Ognuno di noi è un intreccio inesauribile di persone incontrate ed eventi
vissuti, più o meno favorevolmente nel corso dell’esistenza, e da cui siamo
intimamente influenzati.
Elaborare un progetto comune assume, pertanto, un significato
esistenziale di coppia poiché occorre ridefinire l’individuo adulto in nome
delle sue tante scelte personali, a monte pur ottimali, con la speranza che
non si rivelino fallimentari e prive di uno sguardo lungimirante e, in questo
senso, pedagogico. Occorre, cioè, una pedagogia della famiglia che sappia
orientare e promuovere scelte valoriali di senso atte a muovere la riscrittura
di regole, di stili e contenuti a favore di una condivisione di coppia
profonda e totale.
Abitare sotto uno stesso tetto non conduce di per sé a riconoscere una
visione globale d’insieme in cui ogni singolo componente ha la possibilità
di affermarsi e sentirsi sostenuto (quindi riconosciuto) in un’ottica
familiare partecipata e partecipante. Il troppo decantato tempo qualità
rischia, viepiù, di far soccombere, altresì, quella dimensione quantitativa
che invece svolgerebbe la funzione dell’ esserci, della permanenza e della
staticità- senza per questo irrigidirsi nei ruoli- che i coniugi, e i genitori poi,
dovrebbero avviare nell’idea di costruire una famiglia che aspiri al
45 M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia…, op. cit. p. 57. 46 P. Gambini, Psicologia della famiglia…, op. cit. p. 125.
29
benessere e alla felicità. Tornare, cioè, a scegliere la stanzialità47, intesa
non come immobilismo acritico, come paura del nuovo e del cambiamento,
ma come scelta di benessere personale, dunque: familiare. La stanzialità
percepita come istanza di miglioramento, per sé e per gli altri, e di
allargamento lungimirante che si compie dal me per approdare al noi.
Secondo il pedagogista Pati, nella coppia l’amore non si esplicita solo
come amore passione ma anche, e soprattutto, come amore progetto,
pensiero di una relazione unica e gratuita proiettata alla costruzione di un
nucleo familiare più vasto nel quale ognuno può trovare alimento per la
propria crescita48. L’alterità si trova al cuore del riconoscimento di sé come
soggetto capace: “è la considerazione altrui che creerà la nostra auto-
rappresentazione, cioè l’immagine, la stima che si ha di sé stessi ed è
questa che permetterà al giovane di sviluppare, o meno, i suoi progetti e le
sue aspettative”49. Il riconoscimento è, peraltro, attribuzione di valore,
forma d’amore che apre la strada all’incontro tra soggetti separati ma che
condividono una stessa origine, una medesima appartenenza: l’umanità50.
Oggi, e ci avviamo alla conclusione, per operare autenticamente nel
campo della formazione e dell’educazione si deve auspicare che
l’originalità dei singoli soggetti venga promossa, per ricominciare ad
analizzare e ipotizzare grandi scenari di cambiamento- e miglioramento-
dell’umanità come sistema formativo integrato, iniziando, appunto, dalla
famiglia.
47 M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia, op. cit. p. 43. 48 L. Pati, Progettare la vita, op.cit., p. 36. 49 J.P. Pourtois, H. Desmet, L’educazione implicita, Del Cerro, Pisa, 2007, p. 154. 50 P. Dusi, Il riconoscimento, in A. Mariani (a cura di), 25 saggi di pedagogia, FrancoAngeli, Milano, 2011, p. 34.
30
2. La famiglia
La realtà particolarmente complessa, che circonda e fa da sfondo al
concetto stesso di famiglia, implica, per chi la studia come fenomeno
sociale, culturale, politico e sociologico, un’attenta disamina a partire
proprio dalla sua identità. Da tempo le ricerche storiche e antropologiche
hanno messo in luce come non sia possibile slegare, dalla definizione di
nucleo familiare, il contesto storico- geografico a cui questo appartiene.
È risaputo, e scientificamente provato, che gli uomini sono esseri sociali
e culturali legati e radicati alla storia e alla tradizione51. Da qui emerge la
difficoltà, velatamente celata, di attribuire valore e riconoscimento alla
comparsa delle nuove forme familiari che caratterizzano, oggi, la società.
In questo paragrafo ci preme pertanto osservare la famiglia in maniera
meno descrittiva e più come sistema di valori poiché il profilo e l’orizzonte
di senso dentro al quale navighiamo rimane quello pedagogico-educativo.
Diamo avvio, dunque, al nostro discorso pedagogico attraverso uno
slogan diffuso velocemente in tutto il mondo: educazione ai valori.
Brezinka, teorico tedesco dell’educazione, riflette sul significato – a suo
parere poco chiaro – del termine valore, vocabolo che si presterebbe a
molteplici interpretazioni52. È evidente, comunque, che la famiglia, le
istituzioni e la democrazia rappresentano, nella nostra società, dei valori.
Che cosa si deve dunque intendere con educazione ai valori? E chi deve
educare ai valori?
Le domande, di natura provocatoria, paiono riflettere una crisi culturale
moderna che ci condurrebbe a costatare una crisi a partire proprio dalle
istituzioni. E, nello specifico, dell’istituzione famiglia. Eppure, proprio nel
51 W. Brezinka, Educazione e pedagogia in tempi di cambiamenti culturali, trad.it. Claudia Colombo, Vita e Pensiero, Milano, 2011. 52 Ivi, p.78.
31
momento storico in cui la famiglia raggiunge il punto più basso di stima
sociale, quando viene meno la sua compattezza, quando l’immagine del
nucleo familiare sembra sfilacciarsi sino a comporre trame intricate, ecco
che proprio allora la famiglia si riabilita, disvela la sua virtù53.
Affermare che la famiglia è un valore, dunque, non significa ignorare le
difficoltà a cui deve far fronte o illudersi che l’eterogeneità di
comportamenti che vanno dalla scelta di non fare famiglia, a quella di
interpretarla in forma omosessuale, a quella formata da un solo genitore e
ancora da un terzo genitore, non sia una realtà con cui fare i conti. Annota
Luciano L’ Abate: “Nonostante il fatto che le famiglie intatte stanno
diventando una percentuale sempre più piccola in rapporto ai singoli, ai
conviventi o alle famiglie monoparentali, molti di noi sono vissuti in
famiglia e ne hanno creata un’altra, […] intatta o meno […]”54.
Il permanere della famiglia, afferma Stramaglia, è nella famiglia, a
prescindere dalla morfologia storicamente connotata dalla stessa55. Per
suffragare maggiormente tale tesi appare opportuno non tralasciare
l’elemento che si propone come costante nella definizione di famiglia e
cioè il suo essere relazione specifica e unica tra più persone. Gli studi
psicologici hanno evidenziato che, proprio nella relazione primaria
stabilitasi in famiglia l’individuo riuscirà a soddisfare i fondamentali
bisogni di intimità56, di carezza e di tenerezza. In tale analisi riguardante le
relazioni familiari Scabini57, attraverso un suo contributo, sostiene che la
specificità insita della famiglia consiste proprio nel fatto che essa è
53 C. Xodo, Dopo la famiglia, la famiglia. Indagine sui giovani tra presente e futuro, Pensa Multimedia, Lecce, 2008, p. 23. 54 L. L’Abate, Famiglia e contesti di vita. Una teoria di sviluppo della personalità, trad. it., Roma, Borla, 1995, p. 98. 55 M. Stramaglia, Transitorietà in divenire. Il primato della pedagogia familiare, in M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia…, op. cit. p. 19. 56 D. W. Winnicott, Dal luogo alle origini, Cortina, Milano, 1990, p. 47. 57 E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia., op. cit.
32
un’organizzazione di relazioni primarie tra persone, e non tra individui,
come riesce a sintetizzare, in poche preziose battute, una delle voci più
autorevoli del personalismo: «A volte si contrappongono tra di loro persona
e individuo per distinguerli. […] Persona, infatti, si sviluppa purificandosi
continuamente dall’individuo che è in lei, a ciò perviene non tanto con
l’attenzione continua a sé stessi, ma piuttosto col rendersi disponibile
quindi più trasparente, a sé stessa e agli altri»58.
Nonostante la crisi in cui versa la famiglia, è possibile pensare a
quest’ultima come luogo ancora deputato all’educare59? La risposta è
contenuta in un’espressione assolutamente veritiera: educare richiede
coraggio60. Coraggio nel testimoniare – con il cuore e con la mente – il
sapere, il potere e il volere guardare avanti verso un orizzonte comune,
caratterizzato da sentimenti che hanno il loro centro propulsivo nel bene,
inteso, quest’ultimo, come possibilità di realizzare il proprio progetto di
vita, a partire dal riconoscimento delle situazioni originarie per giungere,
attraverso obiettivi educativi definiti, al loro riconoscimento e, dunque,
raggiungimento.
Ancora: educare è educare a decidere, educare alla maggiore
consapevolezza e alla massima conoscenza delle opzioni esistenti e quindi
percorribili. Ebbene: l’educazione è un sistema di scelte. Il matrimonio non
si improvvisa, così come non si improvvisa un figlio senza prima averlo
accolto dentro di sé come idea e aver accettato il progetto del figlio con se
stessi61.
58 E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, p. 47-48. 59 G. Galli, Educazione familiare e società complessa, Vita e Pensiero, Milano, 1990. 60 M. Corsi, Il coraggio di educare, op. cit. p. 29. 61 Ivi, p. 30.
33
Il figlio diventa tale nella misura in cui l’adulto diviene e sa essere
adulto. Lo psicanalista Erickson62 identifica lo status dell’età adulta con
l’emergere di tre virtù: la generatività, la responsabilità, la gratuità. La
generatività è dunque lo spazio privilegiato in cui la coppia si apre al
nuovo, al terzo, al figlio, quando l’egoismo e il benessere personale
vengono post posti per dare luogo alla relazione che sancisce la nascita
della famiglia. Vi è poi la responsabilità, e educare alla responsabilità, che
significa promuovere la capacità di rispondere delle azioni compiute. La
consapevolezza per il bene rivestito dall’educazione muove dalla vita
apprezzata come una risorsa e la possibilità di interpretare la finitezza della
condizione umana rappresenta il principio della responsabilità educativa.63
E poi la dimensione della gratuità: la dimensione del dono, già cara alla
riflessione filosofica di Maritain64, rimane il primo strumento, talvolta
inconsapevole, di sostegno e guida nel processo di costruzione di
un’identità personale filiale che diviene così oggetto di un riconoscimento
autentico e disinteressato65.
I figli interpretati come soggetti della relazione genitoriale sanciscono la
novità essenziale della famiglia moderna: “Noi siamo attaccati alla nostra
famiglia perché siamo attaccati alla persona di nostro padre, di nostra
madre, di nostra moglie, dei nostri figli. Un tempo era totalmente diverso: i
legami che derivavano dalle cose primeggiavano su quelli che derivavano
dalle persone; lo scopo primario di tutta l’organizzazione familiare era
quello di mantenere nella famiglia i beni domestici, e rispetto a questi, ogni
considerazione personale appariva secondaria”66.
62 E. H. Erickson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando, Roma, 1999. 63 P. Malavasi, Vita, educazione, in “25 saggi di pedagogia”, op. cit. p. 50. 64 J. Maritain, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia, 1981. 65 M. Peretti, La pedagogia della famiglia, La Scuola, Brescia, 1969, p. 229. 66 E. Durkheim, Per una sociologia della famiglia, Amando, Roma, 1999, p. 131.
34
È vero che, rispetto al passato, i padri e le madri della contemporaneità
hanno come primo compito genitoriale la socializzazione primaria dei figli,
che consiste appunto nella costruzione della loro personalità attraverso
l’interiorizzazione della cultura della società in cui il bambino è nato67.
Dal pensiero sociologico di Parsons, che vedeva nel compiersi della
famiglia moderna una naturale differenza di funzioni – per cui la madre era
il leader espressivo e il padre il leader strumentale – approdiamo ad anni,
più recenti, in cui la sua teoria viene sottoposta a critiche perché riproduce
in modo assolutamente acritico gli stereotipi di genere considerati come
dati immutabili.
A partire dalla metà del secolo appena trascorso, i grandi cambiamenti
culturali e sociali avvenuti nell’Europa occidentale, hanno, ancora una
volta, coinvolto la famiglia. Tra questi, una particolare riduzione delle
nascite che, a fronte di motivi tipicamente di carattere economico, fa
presagire un radicale mutamento di prospettiva rispettivamente all’idea di
essere genitori: proprio perché avere figli non è più un destino obbligato, si
rileva un forte senso di inadeguatezza e di ansia di fronte alle responsabilità
legate al divenire padre e madre68, suffragate dalla comune sensazione che
stimoli e agenti esterni entrino in conflitto con le norme valoriali che si
cerca di trasmettere in famiglia.
In ultima ratio la genitorialità come scelta appare rischiosa, irreversibile:
senz’altro coraggiosa.
La principale sfida delle moderne famiglie di fronte alla società
complessa è, dunque, quella di legittimarsi quale luogo educativo di
67 A.L. Zanatta, Nuovi padri e nuove madri, op. cit. p. 26. 68 Ivi, p. 35.
35
“transizione”, e di “transizioni” maturative, pur essendo essa stessa
“transitante”69.
2.1. Il ruolo dei genitori nello sviluppo dell’identità del figlio
Un prezioso distillato di idee ed esperienze, maturate nel corso della sua
carriera professionale, provengono da uno dei padri della psicanalisi
austriaca, Freud, attraverso uno dei più celebri volumi sul rapporto tra
identità del bambino e ruolo genitoriale, in cui si afferma il fascino della
quasi perfezione.
Ricollegandoci ad una delle tre dimensioni di cui si narrava poc’anzi, la
gratuità si considera, nuovamente, alla base del progetto educativo e di
amore del genitore verso il figlio.
L’intenzione che sottintende, pertanto, la scrittura di tale paragrafo
muove dalla necessità di comprendere i meccanismi secondo i quali la
scelta di avere un figlio implichi la messa in atto di uno stile relazionale ed
educativo che possono praticare i genitori, che assuma i tratti
dell’autoritarismo, del permissivismo, e/o, di contro, dell’autorevolezza.
Al contempo occorre avere la consapevolezza del diritto di tutti i genitori
a essere sostenuti nel momento in cui iniziano a vivere l’esperienza della
genitorialità e cominciano a sviluppare la relazione con i loro figli. «E
aiutare la normalità significa sostanzialmente educare, educare secondo lo
stile della conoscenza reciproca, della fiducia, della cooperazione e del
coinvolgimento contro lo stile della delega, significa mettere in atto piani
d’azione condivisi contro lo stile onnipotente dell’istituzione che fa tutto da
sé, significa agire in una logica di partenariato, in un contesto di
69 M. Stramaglia, Transitorietà in divenire…, in M. Corsi, M. Stramaglia, Dentro la famiglia, op. cit., p. 20.
36
intersoggettività finalizzato a ridare senso di competetenza ai differenti
attori, che, soprattutto, renda possibili percorsi di promozione e autonomia
delle famiglie».70 In tutti i bambini sono presenti, già al momento della
nascita, le impronte di quella che sarà la loro futura personalità.
Occorreranno anni di vita e di esperienze perché questi primi accenni del
carattere futuro incomincino a emergere come contorni di una personalità, e
altri ancora ne dovranno trascorrere perché essa possa dirsi pienamente e
saldamente formata. La partecipazione attiva dei genitori risulterà pertanto
di fondamentale importanza perché, all’inizio, l’identità del bambino si
forma esclusivamente in relazione a se stessi; la sua identità potrà essere
positiva solamente se è in armonia con l’atteggiamento dei genitori verso di
lui71.
I due stili educativi prima citati ripropongono un’immagine fedele dei
contesti socio culturali di un periodo ormai auspicabilmente passato:
l’autoritarismo si riconnette all’immagine dell’educando e del bambino
come vaso vuoto da riempire o argilla da forgiare, nella negazione
dell’altro come persona con cui lavorare e crescere insieme; la non
discutibilità delle decisioni parentali, e in particolare la figura despota del
padre, si rifà a siffatto concetto. Di contro, in particolare negli anni del
boom del benessere economico, lo stile educativo improntato sul un laissez
faire si incarna bene nel permissivismo, concetto che evidenzia il silenzio
educativo dei genitori nei riguardi delle condotte più o meno responsabili
dei figli72.
70 P. Milani, Vecchi e nuovi percorsi per la pedagogia della famiglia, in «Studium Educationis», n. 1., 2002, p. 20. 71 B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, trad. it. Adriana Bottini, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 189-190. 72 M. Corsi, Il coraggio di educare, op. cit. p. 158.
37
La storia più recente ha messo in luce il primo comportamento e stile
educativo che, in termini di democrazia familiare, può trovare spazio
nell’autorevolezza che equivale a cercare di comprendere le ragioni dei
propri figli, mettersi nei loro panni, costruire con loro un rapporto di
comunicazione emotiva e affettiva. L’approvazione dei genitori porta il
figlio a viversi come un individuo riconoscibile, diverso da tutti gli altri, e
diventa così l’incentivo per formare la sua personalità individuale73. Lo
stile autorevole contiene in sé anche un altro sentimento che facilita il
processo di crescita individuale, e poi sociale, della persona: l’empatia. Per
comprendere ed entrare nella sfera intima che si cela nel profondo dei figli
-nel caso del genitore, ma potremmo allargare il ragionamento includendo
tutti i contesti in cui si educa,- dobbiamo affidarci alle nostre reazioni di
empatia: mentre con la ragione cerchiamo di tradurre quello che i figli
vogliono dirci attraverso le loro parole e azioni, il nostro inconscio cercherà
di coglierli in rapporto ai nostri vissuti personali, passati e presenti74.
La madre e il padre contribuiscono, in egual misura, al benessere psico-
fisico del figlio. Da Freud, sino agli odierni analisti, l’identificazione con
entrambi i genitori, per il valore delle prime fasi di vita nell’avventura
esistenziale di chiunque, ha assunto un significato di importanza primaria, a
motivo del fatto che sono i gesti e i comportamenti, più che le parole, che
educano, con il loro dire e il loro testimoniare.
Si è venuta delineando, dunque, una tendenza alla simmetria nelle
funzioni legata a modificazioni culturali e sociali come il lavoro femminile
e la maternalizzazione dell’atteggiamento paterno75.
73 B. Bettelheim, Un genitore…, op. cit., p. 190. 74 Ivi, p. 119. 75 C.M. Muttini, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, Aracne, Roma, 2009, p. 14.
38
2.2 La famiglia separata
Di quale famiglia parliamo? La domanda non è oziosa perché dalla
definizione che si fornisce dipendono risorse, aiuti e sostegni economici.
Dal 1950, sia in Italia, sia negli altri Paesi, il numero delle istanze di
separazione è in costante aumento. Secondo l’Istat nel 2011 in Italia si è
separata una coppia su 4, in 35 anni i matrimoni si sono dimezzati. La
separazione è un momento altamente traumatico, ancora di più rispetto al
divorzio: con la separazione avviene la grande rottura, la lacerazione, la
trasformazione del contesto di vita e l’esplosione della rabbia, dei conflitti
e delle paure. Le forme familiari divengono, quindi, sempre più variegate:
crescono i single, le coppie senza figli, le famiglie monogenitoriali, le
coppie non coniugate, quelle ricomposte in cui i coniugi provengono da
precedenti separazioni, le unioni omosessuali 76 . Per dirla con Donati
bisognerebbe parlare ormai di pluralizzazione delle famiglie77.
In crisi non è dunque la famiglia in sé, ma una sua visione monolitica.
Riportiamo, in merito a quanto appena scritto, una riflessione sulla
famiglia condotta da Carlotta Zavattiero78 in rapporto al dramma dei padri
separati. All’interno del volume “Poveri Padri” viene riportato un
contributo del sociologo Pietro Boffi tenuto ad un convegno svolto a
Verona nel 2010 ed intitolato “Sposarsi oggi: perché?”. Boffi ha il compito
di perorare la difesa dell’istituto matrimoniale, sostenendo che
cinquant’anni fa sposarsi “era nella natura stessa delle cose e lo si faceva
per un’unica ragione: fare una famiglia”. Nel corso del convegno lo
studioso ha comunque sottolineato che la famiglia, oggi, non è moribonda,
76 Fonte: ISTAT 2011. 77 P.P. Donati, La famiglia di fronte alla pluralizzazione degli stili di vita: realtà, significati e criteri di distinzione, in P. Donati (a cura di), La famiglia tra identità e pluralità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001. 78 C. Zavattiero, Poveri padri. Allontanati dai figli, discriminati dalla legge, ridotti in povertà: la prima inchiesta a tutto campo sul dramma dei padri separati, Salani ed., Milano, 2012.
39
ma tende a nascere sempre più tardi, con sposi che arrivano alle nozze
intorno ai trentadue anni e a quasi trent’anni le spose79.
Per comprendere la ragione di tale rallentamento nel formare una
famiglia, la motivazione economica appare sempre più l’ostacolo che si
contrappone tra i giovani e il matrimonio: spiegazione non plausibile per il
sociologo. Per Boffi è limitativo far ruotare alcune scelte solo attorno a
presupposti di carattere economico. Sarebbe invece lo stallo delle iniziative
coraggiose da parte delle nuove generazioni a fermare i giovani a sposarsi:
«Siamo formati anche dai problemi, che ci danno la voglia di superarli.
Crescere dei figli facendo di tutto per evitare loro difficoltà non crea
persone capaci. Ma è solo un’illusione, in quanto si rimanda più avanti e a
un’età molto elevata il momento in cui inevitabilmente uno andrà a
scontrarsi con i problemi»80.
Dunque, se da un lato il nostro immaginario ci spinge e ci porta ad avere
rappresentazioni positive legate all’idea di famiglia, sul lato pratico viene a
mancare quella spinta propulsiva che ci dà il coraggio di affrontare la vita a
due.
Di fatto dal 1970, anno in cui è stato introdotto l’istituto del divorzio per
la prima volta, stiamo assistendo ad un proliferarsi di separazioni, anche a
poca distanza dal matrimonio.
Pertanto siamo interessanti a capire che tipi di ricadute abbia il divorzio,
primariamente sulla coppia, emotivamente e psicologicamente, per poi
comprenderne le conseguenze sui figli.
Come ben sappiamo, la separazione e il divorzio non sono eventi che si
realizzano in tempi brevi. Essi comportano un vero e proprio percorso, una
successione di fasi, che permetta alle persone implicate di elaborare
79 Ivi, p. 245. 80 Ivi, p. 246.
40
interiormente quanto accade, di ristrutturare le proprie relazioni e di
raggiungere una nuova organizzazione familiare81.
Quando una coppia decide che è giunto il momento di separarsi, non va
incontro solamente ad una trafila burocratica importante dal punto di vista
legale e economico, ma attraversa, soprattutto, una serie di fasi emotive e
psicologiche che, se non superate correttamente, potrebbero comportare
gravi turbamenti per la persona che lo vive.
Paolo Gambini82 esplica, nel suo volume, il punto di vista di tre autori
che hanno descritto come si articola questo processo in ambito psicologico:
il modello di Kaslow (1991), il modello di Emery (1994) e il modello di
Bohannan (1970).
In una prospettiva psicosociale ciò che emerge dai tre modelli a cui si fa
riferimento è il distacco emotivo che si deve compiere dall’altra persona e
che, inevitabilmente comporta il passaggio di diverse fasi, che ad esempio
Kaslow riassume in fase dell’alienazione, fase conflittuale e fase
riequilibratrice. L’alienazione è il momento cruciale del rapporto e avviene
quando i partner constatano la loro incompatibilità: è un processo molto
delicato di riconoscimento della situazione, sia perché inizialmente si
tenderà a negare l’instabilità matrimoniale in nome di un periodo
passeggero di crisi o nervosismo naturale e congenito alla coppia, sia
perché il distacco emotivo può esserci anche quando l’altra persona
continua a rappresentare una fonte di sicurezza personale. I periodi che
sottintendono questa fase sono, per giunta, molto lunghi, dato che il
tentativo di giungere a compromessi e negoziazioni pur di salvare il
rapporto saranno una costante di suddetto momento. Si approda alla fase
conflittuale quando è introdotto l’aspetto legale e dunque, la necessità di ri-
81 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit. p. 233. 82 Ibidem.
41
organizzare in modo concreto la propria vita. Vedremo in seguito come, e
in che misura, la presenza dei figli potrà inasprire questo momento già così
denso e cruciale per i coniugi.
Il modello ben evidenziato da Emery, che mette in luce la dimensione
della perdita legata al divorzio, è ricollegabile al modello ciclico di lutto, e
dunque alle tre emozioni provate che vanno dall’amore, alla collera, e
quindi alla fase conflittuale descritta da Kaslow, in cui la frustrazione e la
rabbia verteranno sui sentimenti della colpa e della vergogna, da scaricare
vicendevolmente su l’uno o sull’altra persona. Questo produce una serie di
schieramenti da parte di amici e parenti a favore o contro uno dei due
coniugi che diventa, senza possibilità di appello, il capro espiatorio della
situazione. L’ira offuscherà i sentimenti che sorgeranno, spontaneamente,
all’ottenimento del divorzio: la tristezza, il senso di solitudine, la
depressione e il senso di fallimento costelleranno la mente degli ex sposi.
Affinché il processo del lutto possa dirsi compiuto i coniugi devono
concedersi del tempo per elaborarlo dentro di loro, senza avere fretta di
risollevarsi, ma vivendo a pieno ogni fase. Di fatto non accade sempre
così: «Benché l’esperienza del lutto comporti un’oscillazione tra sentimenti
d’amore, di rabbia e di tristezza, molte persone almeno apparentemente,
rimangono ‘fissate’ su una sola di queste emozioni. Dunque le difficoltà
che qualcuno incontra quando cerca di superare la perdita determinata dal
divorzio, possono essere distinte in base agli stili di risoluzione del
problema adottati. Alcuni, infatti, rimangono fissati sull’amore: sembrano
pertanto negare la realtà e continuano indefinitamente a sperare in una
riconciliazione. Altri, invece, rimangono fissati sulla collera e, senza
conoscere tregua, cercano di ottenere una vendetta o rivendicano a oltranza
42
i loro diritti Altri ancora rimangono fissati sulla tristezza e si attribuiscono
la colpa di tutti i fallimenti della famiglia, diventando depressi»83.
Anche nel modello di Bohannan il divorzio viene visto come un
processo multidimensionale che attraversa sei dimensioni: quella
emozionale, quella legale, quella economica, quella genitoriale, quella
comunitaria e quella psichica. Il mancato superamento di una di queste
potrebbe comportare per gli individui gravi disagi e mettere in crisi l’intero
percorso.
A questo proposito è facile constatare come tutto ciò non sia facile. Nel
loro tentativo di ridefinire la relazione gli ex coniugi vanno dal conflitto, al
tagliare completamente ogni comunicazione, al cercare di mantenere un
rapporto di amicizia, al provare gelosia dell’altro e, a volte, anche, ad
un’occasionale ripresa dei rapporti sessuali84.
Si dà per assodato, in definitiva, che la separazione dal coniuge porta i
partner a ri-definire compiti di sviluppo delicati in relazione anche ai figli.
Le diverse forme di intervento oggi disponibili per accompagnare la coppia
e i membri delle famiglie separate, pur differenziandosi per tipologia di
destinatari o per finalità, hanno come oggetto comune la cura dei legami
familiari e si focalizzano in particolare sulla relazione genitoriale, cioè
sull’anello più debole di tutto l’evento separativo e dal quale dipende la
sana crescita dei figli85
“Non perdere ciò che resta dell’essere stati famiglia, dunque, è una
prospettiva pedagogica che, nonostante il dolore della frattura, salvaguarda
83 R.E. Emery, Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, trad.it. FrancoAngeli, Milano, 1998. 84 Ivi, p. 57. 85 I. Montanari, Separazione e genitorialità. Esperienze europee a confronto, Vita e Pensiero, Milano, 2007.
43
per i figli il diritto ad un atteggiamento educativo responsabile e duraturo
da parte dei genitori”86.
2.2.2 Le conseguenze del divorzio sui figli
È stato ampiamente dimostrato che i figli di genitori divorziati o
cresciuti in famiglie altamente conflittuali presentano un elevato rischio di
incorrere in una varietà di problemi nell'età adulta come basso livello
socioeconomico, deboli legami con i genitori, sintomi depressivi e
instabilità nelle relazioni.
Questa ipotesi si basa sulla necessità di vicinanza affettiva dei figli ai
genitori e sul benessere soggettivo dei figli stessi, al fine di stimare gli
effetti del divorzio e del conflitto coniugale sulle relazioni genitore-figlio
tra i giovani adulti, in particolare sulla triade madre-padre-figlio
considerando gli effetti del divorzio e del conflitto coniugale non su ogni
singolo rapporto genitore-figlio, ma sulla vicinanza dei figli a entrambi i
genitori.
Affermando, dunque, che il buon funzionamento della coppia influisce
positivamente sul comportamento che il padre o la madre ha con i figli, e
viceversa87, diventa scontato dichiarare il disagio che procura, per un figlio,
la separazione dei genitori. Il bambino può credere che i genitori annullino
non solo i loro accordi reciproci, ma anche l’amore che hanno per lui88.
Esiste ormai un’imponente letteratura psicologica e sociologica sulle
conseguenze provocate dall’instabilità coniugale, che fanno convergere il
pensiero di molti studiosi sulla portata traumatica dell’evento, sia per i
86 V. Iori, I figli nelle separazioni coniugali e i compiti educativi dei genitori, «La famiglia», XXXV, 2001, p. 48-59. 87 O. Erel, B. Burman, Interrelatedness of marital relation and parent- child relations: A meta- analytic review, Pycological bullettin, 118, 1995, p. 108. 88 F. Dolto, Quando i genitori si separano, trad.it., Mondadori, Milano, 1995, p. 25.
44
genitori che per i figli. In ogni caso, la situazione più difficile da dover
sostenere dalla prole, non è rappresentato tanto dall’improvviso
allontanamento di uno dei due genitori, quanto dall’alta conflittualità che
accompagna spesso la separazione. Talune ricerche confermano, infatti, che
l’adattamento dei figli al divorzio dipende dallo stress subito da questi nella
fase precedente alla separazione, dalla frequenza e dall’intensità dei
conflitti tra i genitori in questo periodo89.
Questo momento è caratterizzato, dunque, da un grande sconvolgimento:
solitamente, mentre la madre può mantenere quasi totalmente immutato il
suo ruolo nel senso che può restare colei che coccola, che abbraccia e
consola, ma anche colei che veglia quotidianamente sulla loro educazione,
il padre è costretto ad assumere ruolo diversi, e a volte non strettamente
collegati a quelli precedenti la rottura dell’unione. Il padre, quindi, al
momento della separazione deve “inventarsi” un nuovo modo di stare con i
figli, non potendo più mantenere solo un rapporto “amicale” o di mera
complicità, né limitarsi solo ad esercitare un ruolo di autorità.
Da qui nasce spesso la difficoltà dei padri nel costruire un nuovo
rapporto con i figli basato anche su quella quotidianità che ora non è più
scontata e visibile, ma spesso lontana e non più veicolata dalla madre90.
Per le coppie con i figli la separazione è senza dubbio molto più faticosa
rispetto alle coppie senza figli, come sostiene Gigli «se le coppie senza figli
possono smettere di vedersi per lasciare ai sentimenti negativi il tempo di
trasformarsi, questo non è concesso ai genitori: contemporaneamente ad
eventuali stati emotivi di disagio essi devono mantenere un’immagine
89 R. A. Thompson, P.R. Amato, The post divorce family: children, parenting, and society, Sage, New Delhi, 1999. 90 L. Pisciottano Manara, La paura di essere padre, Magi, Roma, 2007, p. 148.
45
positiva del partner almeno per ciò che riguarda il suo ruolo genitoriale»91.
Difatti, «i genitori non divorziano dai loro figli e, per questo motivo, non
possono mai divorziare l’uno dall’altro in senso assoluto»92. Ovviamente
accettare che la rottura della coppia non corrisponda alla rottura della
genitorialità non è cosa semplice, soprattutto per i figli perché assistere alla
separazione dei genitori è senza dubbio disorientante in quanto
percepiranno comunque il dissolversi del legame. Le diverse ricerche
svolte sugli effetti del divorzio nei bambini hanno condotto alla
convinzione che le problematiche relative a questi eventi siano molto più
articolati di quanto si credesse all’inizio.
Uno studio autorevole sugli effetti del divorzio è stato condotto dalla
psicologa J.S. Wallerstein negli anni ‘8093 la quale ha indagato due aspetti
molto importanti:
1. la possibilità di un effetto assopito del trauma che potrebbe
manifestarsi manifestarsi nel periodo in cui i figli dovranno
prendere decisioni serie riguardo l’amore, il sesso e la famiglia in
un contesto adulto;
2. l’incapacità dei genitori di ristabilire una vita normale, gravando
molto spesso sui figli che vengono percepiti come contenitori
d’ansia.
È ugualmente importante sottolineare, però, che numerosi studi (condotti
prevalentemente negli Stati Uniti) affermano che inizialmente essi
incontrano serie difficoltà sotto il profilo sia dello sviluppo psicologico sia
del successo scolastico e dell’adattamento sociale, la maggior parte di loro
91 A. Gigli, Famiglie mutanti- pedagogia e famiglie nella società globalizzata, ETS, Pisa, 2007, p. 193- 194. 92 R. Emery, Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, in E. Zanfroni, Educare alla paternità tra ruoli di vita e trasformazioni familiari, La Scuola, Brescia, 2005. 93 J.S. Wallerstein, Divorzio: i figli non dimenticano, in E. Zanfroni, Educare alla paternità…, op. cit., p. 198.
46
riesce a riprendere il normale processo di sviluppo in tempi relativamente
brevi94. Difatto, la maggior parte di essi sono dotati di una buona capacità
di resilienza, ossia di mantenersi integri anche sotto stress, di conservare un
buon equilibrio personale nonostante la presenza di avversità e condizioni a
rischio95.
A tal proposito Vanna Iori96 risponde a una domanda cruciale in merito
alle famiglie che si separano: come salvaguardare il bisogno/diritto dei figli
di continuare a ricevere un’educazione da parte di entrambi i genitori. La
gestione del conflitto improntata alla cooperazione è una premessa
fondamentale, anche se non l’unica, per il benessere dei figli. Anzitutto è
necessario che i genitori non si ostinino nel loro conflitto, ad esempio
screditando davanti gli occhi del figlio l’immagine di uno o dell’altra
persona. Se entrambi riusciranno a mantenere un rapporto di stima e
comprensione reciproca, tenendo a mente che non si diviene mai ex-
genitore, la relazione con il figlio sarà salvaguardata. Ora, molti bambini si
sentono colpevoli del divorzio perché la loro esistenza fa pesare sui due
genitori una serie di complicazioni per quanto concerne gli obblighi e le
responsabilità. Questo fatto può diventare per loro una terribile prova.
Dicono: “Non avrei dovuto vivere. Non mi sposerò, così sarò sicuro che
non provocherò sofferenza ai miei figli”. Questo senso di colpa fa la sua
comparsa al momento della pubertà. È il senso di colpa che deriva
dall’essere nato da quella particolare coppia. Non ci si guarda mai
abbastanza dagli effetti deleteri del senso di colpa, non tanto a breve
94 A.L. Zanatta, Nuove madri e nuovi padri, op. cit. p. 73. 95 P. Gambini, op. cit., p. 241. 96 V. Iori, Separazioni…, op. cit.
47
termine, quanto all’epoca dell’adolescenza, cioè nell’epoca in cui il figlio si
impegna in prima persona in una relazione amorosa97.
Vi sono, a tal proposito, tre stili co-genitoriali individuati da Maccoby
che potrebbero essere messi in atto dopo un divorzio: lo stile cooperativo,
lo stile disimpegnato e, infine, lo stile ostile.
Il primo stile ha, naturalmente, le migliori ricadute a livello psicologico,
sia per il figlio che per i coniugi che lo sperimentano: siamo in presenza di
genitori che parlano quotidianamente con il figlio pur mantenendo una sana
comunicazione anche tra di loro, non si svalutano reciprocamente perché si
riconoscono, sempre e comunque, coppia genitoriale. È ben documentata
la correlazione positiva tra co-genitorialità e mantenimento regolare dei
rapporti dei figli con le figure genitoriali e tra questo e l’adattamento dei
figli alla separazione.
Lo stile disimpegnato, con il passare del tempo, tenderà ad essere quello
più comune ed ha come conseguenza quella di provocare nel figlio una
visione schizofrenica del rapporto con i genitori98: gli ex coniugi non
parlano tra di loro, cosicché il ragazzo tenderà a percepire la madre e il
padre come appartenenti a due mondi separati, non collegati e comunicanti
tra loro.
In ultimo, lo stile ostile appare lampante che siffatta dimensione sia
quella maggiormente nociva e dannosa per i figli che si vedranno costretti a
parteggiare per uno o per l’altro genitore e, senza poter amare liberamente
entrambi, saranno coinvolti in conflitti di lealtà. Chi paga, ancora una volta,
il prezzo più alto di una separazione conflittuale sono loro, vittime di quella
che lo psicologo Mario Andrea Salluzzo registra come sindrome di
97 F. Dolto, op. cit. p. 27. 98 F. Montuschi, S. Attanasio Romanini, A. Fornaro, Scoprire di esistere, decidere di vivere. Le molte facce della ingiunzione "non esistere", FrancoAngeli, Milano, 2011.
48
alienazione parentale (PAS), “un fenomeno in crescita, soprattutto negli
Stati Uniti: è la risposta del figlio che si allea con uno dei genitori contro
l’altro, iniziando ad alimentare l’odio verso uno dei due fino ad avallare le
false denunce di maltrattamenti e abusi. Una sindrome ancora
disconosciuta”99.
Di fronte alla crisi di coppia, pertanto, i genitori hanno difficoltà a
distinguere la funzione coniugale da quella genitoriale. Sia che il conflitto e
la rottura avvengano in maniera esplosiva, sia che vengano mascherati
soprattutto ai figli, questi si trovano immersi in un clima di tensioni e di
infelicità dannoso per lo sviluppo della loro personalità. È importante che
entrambi i genitori superino la conflittualità o il rifiuto che segnano la fine
della vita di coppia e possano riconoscersi come una risorsa educativa per i
figli e recuperare così una forma di relazione al di là dei percorsi
individuali che intraprenderanno100.
Inoltre, non bisogna sottovalutare l’importanza del sostegno garantito
dalle famiglie d’origine, dagli amici e, in particolare, dalla scuola.
Quest’ultima può aiutare i figli a superare l’esperienza dolorosa della
marginalità e dell’assenza di un genitore, favorendo l’incontro con figure
educative di riferimento che sopperiscano, in parte, alle carenze verificatesi
in famiglia101. Ancora molto lavoro deve essere compiuto per garantire una
rete di sostegno in grado di promuovere e sviluppare le competenze
genitoriali. Perché questo si realizzi, è auspicabile che ciascuna
professionalità che entra a far parte della vicenda separativa si impegni a
promuovere una cultura della responsabilità genitoriale, a prescindere dalla
fine del legame coniugale, che tuteli la possibilità di vedere i figli ad
99 C. Zavattiero, Poveri padri…, op. cit. p. 137. 100 V. Iori, Separazioni…, op. cit. pp. 34-35. 101 P. Gambini, Psicologia della famiglia…, op. cit., p. 241.
49
entrambi i genitori e soprattutto eviti che il minore divenga oggetto di
contesa, diretta o indiretta, tra i genitori102.
2.3 Il “terzo” genitore
Parlare di famiglie monogenitoriali all’interno del fenomeno della
pluralizzazione delle famiglie non risulta molto appropriato, a motivo del
fatto che le famiglie con un solo genitore non rappresentano una nuova
forma di famiglia. Queste infatti sono sempre esistite, anche in Italia, basti
pensare al caso di genitori vedovi, alle ragazze madri o alle mogli degli
emigrati103. Tutte queste tipologie di famiglie sono oggi molto frequenti e
all’apparenza possono sembrare inadatte per la cura e il benessere della
prole.
Di più difficile interpretazione e denominazione risulta invece il
fenomeno delle famiglie ricomposte dopo i divorzi o le separazioni che,
difatto, non hanno una nomenclatura univoca: si parla, infatti, di famiglia
ricostruita, aperta, estesa o di nuove costellazioni familiari.
Il termine ricostituita rimanda al senso del ricostruire, del riformare una
famiglia sulla base di quella tradizionale, ma con la consapevolezza che
non potrà mai essere uguale alla famiglia d’origine104.
La caratteristica peculiare di questo tipo di famiglia è la convivenza dei
figli con un genitore biologico e un cosiddetto genitore acquisito o genitore
sociale, di solito il secondo compagno o coniuge della madre, senza che
però vengano interrotti i rapporti con l’altro genitore biologico, di solito il
padre105. Se il padre è impossibilitato a occuparsi del figlio, meglio fare
102 B. Colombo, C. Spettu, Sostegno e tutela dei legami familiari durante la separazione dentro e fuori le aule del tribunale, «Psicologia e Giustizia», Anno 13, numero 2, Giugno-Dicembre 2012. 103 Ivi, p. 257. 104 S. Mazzoni, Nuove costellazioni familiari: le famiglie ricomposte, Giuffrè, Milano, 2002. 105 A.L. Zanatta, op. cit., p. 91.
50
ricorso, in sostituzione a modelli maschili della famiglia del padre, che non
a quelli della famiglia della madre e/p all’eventuale nuovo compagno della
madre. E lo stesso vale per la madre incapace o incapacitata: ricorrere a
modelli femminili della famiglia della madre. Perché il bambino posso
continuare a stimare, per questa via, il padre e la madre106.
Si tratta di una famiglia ricomposta proprio perché i nuovi membri che
ne entrano a far parte non si sostituiscono ai precedenti, ma allargano il
complesso di relazioni familiari. Dolto non è neppure contraria, anzi
tutt’altro, per via dei processi di identificazione sessuale dei figli, che il
bambino viva con la madre e il suo nuovo compagno. Così come il padre
viva con un nuova compagna. Del resto, questa nuova scelta di rinnovata
coppia è un messaggio di vita e di piacere per il figlio107.
Questo approccio teorico, in cui l’attenzione viene rivolta all’intero
meta- sistema familiare, nasce attorno alla sociologa francese Irène
Théry108, secondo cui non è più la nuova coppia a determinare la famiglia,
ma i figli. Questa nuova realtà familiare, composta da figli provenienti da
diverse relazioni e intrecci coniugali permette, da un lato, di mettere in luce
una molteplicità di rapporti che possono costituire una risorsa affettiva
molto importante, dall’altro fa sorgere problemi di varia natura. In effetti, i
confini delle famiglie ricomposte sono meno marcati rispetto a quelli della
famiglia tradizionale, per questo il sociologo Donati scrive che, anche se
per le famiglie ricomposte è possibile raggiungere un’identità stabile e
sicura, di fatto, tutto ciò riesce solo ad una minoranza di esse ed è
particolarmente difficile per chi nella sua storia individuale giunge al terzo
106 F. Dolto, op. cit., p. 41. 107 Ivi, pp. 41-42. 108 I. Théry, Familles recomposées: les raison de l’incertitude, in R. Steichen, P. De Neuter, (a cura di), Les familles recomposées et leurs enfants, Academia Erasme, Louvain-la-Neuve, 1995.
51
o quarto matrimonio, visti gli intrecci di parentela che si sommano nel
tempo109.
Dunque, in una prospettiva pedagogica, c’è da domandarsi quale tipo di
ruolo e di funzione venga richiesta a livello genitoriale, dato che questo
compito richiede al genitore di trovare le modalità più congrue per inserire
il figlio in una realtà familiare del tutto nuova.
La situazione è, chiaramente, di difficile accettazione- anche a seconda
dell’età del figlio- che, dopo aver elaborato la separazione dei genitori, si
trova a doversi adattare psicologicamente ed emotivamente ad una vita
familiare con un terzo genitore. La relazione più problematica risulta,
pertanto, essere quella tra il figlio e il genitore acquisito proprio a causa
della mancanza di un suo ruolo chiaro e stabilito sin dall’inizio, a partire
dalla sua definizione. In questo senso, da un punto di vista terminologico,
la lingua inglese ha risolto il problema aggiungendo il prefisso step ad ogni
tipo di parentela acquisita, così avremo step-father, step-mother, e così
via110. In effetti nell’accezione italiana vocaboli come patrigno, matrigna
sorellastra hanno assunto un ruolo talmente dispregiativo che si ricorre
semplicemente al nome di battesimo per rivolgersi al padre o alla madre
acquisiti. A questo proposito, Barbagli sottolinea che, se già il divorzio
mette in crisi l’identità e il senso di appartenenza delle persone, soprattutto
quella dei figli, questo stato di confusione aumenta quando i genitori si
risposano, perché in questo caso decresce il grado di sicurezza e integrità
dei bambini nei confronti dei rischi e delle minacce che il mondo esterno
comporta111.
109 P.P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma, 2006. 110 P. Gambini, op.cit., p. 272. 111 M. Barbagli, Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia e in altri paesi occidentali, Il Mulino, Bologna, 1990.
52
La difficoltà della famiglia ricomposta di definire i propri confini è
strettamente correlata alla mancanza di norme sociali di riferimento
riguardanti le relazioni tra i suoi membri.
L’inesistenza di normi culturali rappresentano, pertanto, per la famiglia
ricomposta un motivo in più per garantire ai figli una grande flessibilità e
disponibilità ad una continua negoziazione.
Ancora una volta, dobbiamo concludere però che è il funzionamento
familiare, più che la struttura della famiglia, l’elemento responsabile
dell’adattamento dei bambini. La drastica riorganizzazione che ha luogo in
una famiglia in seguito al divorzio dei genitori può anche generare effetti a
breve termine, ma è la qualità dell’ambiente familiare a produrre le
conseguenze più decisive e persistenti112.
È ben documentata la correlazione positiva tra co-genitorialità e
mantenimento regolare dei rapporti dei figli con le figure genitoriali e tra
questo e l’adattamento dei figli alla separazione.
3. La maternità oggi
L’uomo, sin dalla nascita, è un essere di parola e il suo più vitale bisogno
è quello di entrare in relazione con gli altri e di sentirsi riconosciuto da
loro113.
Dall’esame di tutti questi studi sull’influenza delle caratteristiche della
famiglia sullo sviluppo dei bambini emerge chiaramente un dato avvalorato
dalle prove raccolte e cioè che la struttura della famiglia ha un ruolo molto
meno significativo rispetto al suo funzionamento114.
112 H.R. Shaffer, Psicologia dello sviluppo, Raffaello Cortina ed., Milano, 2005, p. 111. 113 F. Dolto, Quando i genitori si separano, trad.it., Mondadori, Milano, 1995. 114 Ivi, p. 106.
53
La maternità e la paternità si presentano da sempre come condizioni
esistenziali profondamente diverse. Mentre il ruolo di madre si radica
nell’identità femminile, è biologicamente determinato e porta ad un
immagine di stabilità, il ruolo paterno nasce invece da un divenire: non si è
padre, ma lo si diventa. L’essere padre non coincide con l’identità
maschile, ma implica l’acquisizione di una funzione ulteriore. La
primissima relazione che un bambino costruisce è, generalmente, con la
madre e risulta particolarmente importante sotto vari aspetti, affettivi e
psicologici. Già con le prime formulazioni sulla teoria dell’attaccamento
Bowlby pone in evidenza come il bambino sia biologicamente predisposto
a interagire con l’ambiente sociale: le relazioni sono un fenomeno
estremamente complesso che implicano e dipendono dalle caratteristiche di
entrambi gli individui coinvolti115.
Tali legami emotivi hanno, sempre secondo Bowlby, una base evolutiva
e una funzione biologica che mirino a garantire la sopravvivenza e una base
sicura nei momenti che il bambino percepisce come pericolosi. Nel corso
del primo anno di vita, quindi, i bambini svilupperanno un attaccamento
emotivo nei confronti di uno o due individui per lui significativi che
saranno chiamati a rispondere positivamente al suo comportamento, così da
dare vita a relazioni sicure con gli adulti e i pari, e ciò permetterà al
neonato di sviluppare un’immagine positiva di sé e dei compiti cognitivi
che gli verranno successivamente richiesti nel gioco e a scuola.
Secondo Ainsworth116, la ragione principale per cui i bambini sono sicuri
o insicuri è da ricercarsi nella reattività e nella sensibilità della madre nei
riguardi del neonato nei primi mesi di vita. In relazione a tutto ciò, secondo
un’ottica socio- costruzionistica, madre e bambino sono impegnati, sin
115 J. Bolwby, Attaccamento e perdita, vol. I: Attaccamento alla madre, Bollati Boringhieri, Torino, 1983. 116 M.D.S, Ainsworth, Patterns of Attachment, Erlbaum, Hillsdale, 1978.
54
dalla nascita di quest’ultimo, in un discorso comune attendendosi,
reciprocamente, una risposta.
La genitorialità, e dunque la maternità, appare, suffragato da quanto
appena scritto, come una scelta che è allo stesso tempo irreversibile e
rischiosa: irreversibile perché, in un contesto in cui molte scelte della vita
individuale sono modificabili, essere genitori è invece per sempre;
rischiosa perché avviene in un contesto caratterizzato da una crescente
complessità e incertezza, che richiede quindi da parte dei genitori la
capacità di valutare l’adeguatezza delle proprie risorse materiali e
relazionali di fronte alle sfide provenienti dalle famiglie117. Le indagini
comparate degli ultimi anni hanno evidenziato uno squilibrio di genere
nell’assumersi le responsabilità familiari che spiegherebbero, difatto, il
perché della bassa fecondità.
Le donne vivono la maternità in un modo che si discosta molto dalla
norma tradizionale, ed è stata oggetto di accesi dibattiti, specialmente nel
caso di bambini molto piccoli. Secondo il sociologo François de Singly vi
sono tre elementi che distinguono l’identità delle donne contemporanee da
quelle delle generazioni precedenti e la avvicinano a quella maschile: il
possesso di un capitale scolastico, l’utilizzazione professionale di tale
capitale e la rivendicazione di un’identità personale118.
Questa ricerca di una nuova identità ha avuto conseguenze complessi, e
per certi versi contradditorie: le donne sono riuscite a conquistarsi un loro
potere e ruolo professionale, ma hanno difficoltà sempre maggiori per
riuscire a conciliare ruolo materno e lavoro fuori casa. L’occupazione della
madre è stata, più volte, non vista di buon grado, tuttavia le prove
attualmente disponibili derivate da numerosi studi indicano che le
117 A.L. Zanatta, op. cit., p. 38. 118F. de Singly, Séparée. Vivre l'expérience de la rupture, Armand Colin, Paris, 2011.
55
conclusioni sugli effetti non possono essere dedotte in modo netto per via
del gran numero di condizioni che esercitano influenze, anche moderate,
sul risultato: come la capacità della madre di affrontare le tensioni implicite
nel ruolo, il supporto offerto dal padre e dai parenti, la motivazione che
spinge la madre a lavorare fuori casa119.
Proprio quest’ultimo concetto richiama l’attenzione su un aspetto molto
importante della relazione madre- figlio, e cioè che la cura offerta
esclusivamente dalla figura materna non è da considerarsi un prerequisito
necessario per uno sviluppo psicologicamente sano del bambino, anche se
alcune ricerche mostrano che tale impegno continua a essere considerato un
compito materno, piuttosto che paterno. La madre è fortemente strutturate
per natura e sa adattarsi più facilmente del padre ai diversi tratti caratteriali
del bambino, modificando se stessa in funzione di tale diversità poiché
concretamente è lei che “fa famiglia”120, per utilizzare le parole di un
grande psichiatra, e i figli lo percepiscono.
Madre e figlio stabiliscono da subito un contatto carnale intimo e privato
e nel primo anno di vita sentimenti ed emozioni saranno l’alimento base
per la futura capacità del bambino di amare e di essere amato. Essere una
madre serena significa lasciare agire, dunque, gli istinti materni, essendo
consapevoli che ogni figlio è diverso e dall’altro e che il clima familiare
differente gioca un ruolo fondamentale per la crescita psichica ed emotiva
del bambino. Bollea ci introduce all’interno del mondo della madre
naturale, come a lui piace definirla, proprio perché sarebbe la perfetta
sintesi tra istinto, tradizione e cultura121. Nel suo celeberrimo volume lo
psichiatra evidenzia nove tipologie di figure materne ognuna delle quali si
119 H.R. Shaffer, op.cit. p. 104. 120 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 16. 121 Ibidem.
56
caratterizza per peculiari tratti distintivi; ne riporto di seguito alcune delle
principali:
o La madre ansiosa: insicura e costantemente paurosa di
sbagliare, lo abbraccia nervosa pronta a scrutare qualcosa che
non va;
o La madre disforica: alterna momenti di accettazione a
momenti di forte rifiuto del figlio dimostrandosi estremamente
ambivalente nel rapporto con il figlio;
o La madre ossessiva- perfezionista: solitamente è la madre
intellettuale che mette in pratica tutto quello che legge dai libri
seguendo morbosamente ogni consiglio medico; si dimostra
estremamente efficiente, ma molto poco affettiva;
o La madre passiva: permissiva sino ad assumere a tratti
depressivi, lascia che il bambino faccia quello che voglia per
non impegnarsi nel rapporto;
o La madre iperattiva, poco metodica, sempre caotica sino a
prevaricare lo stesso bambino con la sua attività frenetica; si
rivela stimolante, ma il suo atteggiamento può anche creare
estrema confusione: l’istinto e l’immaturità sono sicuramente i
principali fattori di disorganizzazione;
o La madre diva, concentrata su se stessa, non si modifica per
i figli, sono semmai quest’ultimi ad idealizzarla;
o La madre chioccia, disponibile e sempre presente, pensa lei
a tutto/i;
o La madre turbo: positiva, trasmette gioia e volge tutto al
positivo;
57
o La madre saggia: il perfetto connubio tra istinto e cultura:
legge i libri solo per migliorare quello che le ha trasmesso, a sua
volta, e in passato, la madre.
La madre che non sbaglia mai è colei che sa bilanciare le tre componenti
essenziali della cultura materna che ha le radici nella tradizione, si sviluppa
attraverso il tronco della cultura ed esplode nei germogli dell’istinto.
58
CAPITOLO II
C'è anche il papà
Nel secondo capitolo l’attenzione è rivolta, nello specifico, alla figura
paterna. Il periodo che stiamo vivendo ci appare sempre più caratterizzato
dall’evaporazione del padre, che altro non è, che il tempo
dell’evaporizzazione degli adulti. Dando avvio alla riflessione sul ruolo del
padre, e sulla funzione che oggi è chiamato ad esercitare, ci si chiede cosa
significhi la sua presenza per i figli, ma soprattutto in che modo tale figura
si articoli nelle famiglie dove abita la presenza di un figlio disabile. Il padre
funge da mediatore tra la madre, simbolo di protezione e accudimento del
neonato sin dai primi giorni di vita, e la realtà sociale. Cosa può accadere
se il padre rinuncia alla sua funzione di terzo nella diade madre-bambino?
Quali conseguenze può avere la presenza di una padre pallido, o ancor più,
assente, nella crescita di un figlio, per giunta in situazione di disabilità? Ci
si interroga a partire proprio dalla sua evoluzione, ovvero dal padre
padrone, detentore della Legge e quindi simbolo normativo per eccellenza,
sino al suo costituirsi alter ego della figura materna che, attraverso compiti
di cura e dedizione, diviene emblema dell’affettività. Diventare padre è
dunque un’esperienza che richiede in sé una complessa e scrupolosa
autoanalisi in rapporto ad una nuova definizione di sé, del proprio ruolo e
della propria funzione.
1. Cenni storici sull’evoluzione paterna
La famiglia nella sua forma può, in realtà, mutare nel tempo e nelle
culture, ma in essa non deve mai venir meno il dovere che la coppia
59
genitoriale ha di fare in modo che ogni figlio, a cui dà l’inestimabile dono
della vita, diventi un adulto autonomo e responsabile122.
Si dice che ogni figlio per poter arrivare, senza troppi problemi, alla
condizione di “adulto”, deve nascere due volte. Una prima volta dallo
sguardo carico d’emozione della madre e una seconda volta dallo sguardo
pieno di fierezza del padre. Dalla madre nascono i bambini, dal padre
nascono gli uomini123.
La storia del padre, racconta Luigi Zoja, inizia dalle tribù, da quando
l’umanità non aveva ancora abbandonato lo stato ominide. È la
differenziazione dei ruoli tra maschio cacciatore e femmina occupata nella
raccolta e nell’accudimento dei figli a istituire la civiltà, con la nascita del
senso della casa, del ritorno al focolare. La curiosità e la voglia di esplorare
del maschio sono limitate dal ritorno. L’uomo che fa ritorno al focolare
domestico non è più semplicemente un maschio, ma padre, capace di
responsabilità, di accudimento, e quindi di adottare il figlio124.
Solo a partire dagli anni Settanta si può parlare di una ricerca continua e
articolata sulla figura paterna. Dapprima si è cercato di dimostrare che i
padri sono figure distanti e periferiche nell’educazione infantile. Anche
nella psicanalisi l’importanza del padre sarebbe stata riconosciuta solo con
notevole ritardo: per Freud la madre e il bambino costituiscono un’unità, e
la figura del padre emerge al compimento del terzo anno di età del figlio125.
Al termine del legame con la madre nascerebbe in lui un’autorità interiore
idealmente riferibile tanto a un dio-padre quanto al padre personale o ad
122 E. Zanfroni, Educare alla paternità…, op. cit. 123 I. Saini, Un senso per il padre. Oltre il clamore di un assenza, Unicopli, Milano, 2005, p. 70. 124 L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. 125 K. Gebauer, Padre cercasi, Ma.Gi, Roma, 2006, pp. 19- 20.
60
altre figure gerarchiche126. Melanie Klein ipotizzata, invece, che il super Io
si formi già nel primo anno di vita, all’interno del rapporto con il corpo
della madre. Così sottrae al padre il ruolo di chi insegna il senso morale e
sociale: la radice di ciò che è giusto ed è sbagliato, l’origine della
percezione dell’altro e del rispetto per lui, è fatta risalire ad una fase in cui
il bambino non parla. Mano a mano che l’attenzione veniva spostata dal
padre alla madre, la figura paterna è ridotta sempre più ad una
sovrastruttura sociale. Il padre, inteso come colui che destruttura la diade e
che permette il passaggio obbligato del figlio nella società, sembra aver
perso questa funzione sociale.
È importante, in questa sede, nominare il contributo di Maurizio Quilici
in Storia della paternità127 nel quale l’autore ripercorre l’evoluzione del
ruolo paterno dal pater familias a quello che oggi viene comunemente
definito mammo. La nostra attenzione si focalizza in particolar modo nel
periodo intorno alla metà degli anni ’70, epoca in cui la ribellione contro i
padri si fa sempre più vigorosa. A tal proposito si analizza la posizione di
uno psicanalista francese, Bernard Muldworf, che scriverà riguardo al
fenomeno della violenza giovanile, adducendo come motivazione la crisi
della paternità:
Se c’è una “crisi” della paternità, le sue origini stanno proprio qui: il
problema non sta nella presenza -presunta come coercitiva del padre-, ma
piuttosto nella sua assenza. Questa assenza è tanto più sentita in quanto, per
effetto di un’evoluzione a nostro giudizio positiva, la famiglia è divenuta nel
corso dei secoli un ambiente di arricchimento affettivo e la funzione del
padre è stata fortemente contrassegnata da un elevamento della sua portata
affettiva. […] Gli uomini che lavorano non hanno il tempo di essere “padri”.
126 L. Zoja, Il gesto…, op.cit. 127 M. Quilici, Storia della paternità. Dal pater familias al mammo, Fazi Editore, Roma, 2010.
61
[…] E per ignoranza, ciecamente, o per illusione ideologica, si considera
questa “abiura del padre” come effetto del rifiuto dei giovani a lasciarsi
schiavizzare dai valori delle generazioni passate.128
Da queste poche righe scritte nel 1972 ricaviamo un pensiero che sta
dilagando nelle menti degli studiosi dell’epoca: il padre non ricopre più
il ruolo del detentore della Legge della parola, ma, con il cambiare della
famiglia, è convolto in un radicale mutamento che lo trascina vieppiù
verso un ruolo affettivo, costituito da accudimento e cura nei confronti
dei figli. E la ribellione che i giovani manifestano è il sintomo di un
malessere dato dalla privazione paterna.
A quasi quarant’anni dal libro di Mitscherlich che esprimeva il timore
di una società orizzontale, composta principalmente da fratelli, “un
innumerevole esercito di fratelli rivali e invidiosi”, cui sarebbe mancata
la presenza del “predominio patriarcale” si parla, di contro, di papà.
“Gli uomini” riflette Chantal per mano di Kundera nel libro L’identità
“si sono «papaizzati». Non sono più dei padri, ma solamente dei papà,
ossia dei padri a cui manca l’autorità di una padre”129.
Che cosa è cambiato, dunque, nell’immaginario collettivo, e non solo?
A tal proposito appaiono oggi profetiche le parole del sociologo
Norberto Galli che, nel 1965, interpreta la crisi della figura paterna in
senso positivo, come un modo per aumentarne la dimensione relazionale
in seno alla sua autorità: più razionale, più giusta, meno dispotica130. Un
modo di concepire il padre davvero rivoluzionario che giunge sino a noi,
ovvero al periodo caratterizzato da una delle più radicali trasformazioni
che tale figura abbia mai conosciuto. Sarebbe riduttivo far risalire la
128 B. Muldworf, Il mestiere di padre, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 172-174. 129 M. Kundera, L’identità, Adelphi, Milano, 1997, p. 20. 130 N. Galli, Educazione familiare e società, La Scuola, Brescia, 1965.
62
genesi di questo fenomeno ad un particolare momento storico e sociale,
consapevoli che sono numerosi i fattori che hanno condotto al
mutamento della concezione paterna.
1. 1. La paternità oggi
L’immagine contemporanea del padre è ambivalente e contraddittoria
allo stesso tempo: da un lato sta emergendo, a livello europeo, una figura di
padre coinvolto affettivamente nella cura e nella gestione dei figli;
dall’altro si sta delineando, con la stessa insistenza, la figura di un padre
assente, debole, privo di qualsiasi autorevolezza (e autorità).
In genere questo fenomeno accade perché il sentimento paterno non ha
la forza primitiva e istintuale propria del materno, non può competere con
le sue radici biologiche, a fronte dell’aspetto sociale che il padre ha
rivestito da sempre all’interno della famiglia: «per questo motivo la crisi
della pedagogia familiare del Novecento, che è essenzialmente una crisi di
autorità, ha investito in particolare il ruolo del padre, scardinando i vecchi
schemi entro i quali si muoveva»131.
Più di sessant’anni fa, però, una filosofa come Simone de Beauvoir132
problematizza l’istinto materno133. «Perché le madri sono donne? Perché la
persona che svolge quotidianamente tutte le attività che costituiscono la
cura della prole non è un uomo?» si chiede di nuovo una psicanalista e
sociologa statunitense, Nancy Chodorow 134 , in riferimento alla
convinzione, assai diffusa, che sia l’istinto a regolare la funzione materna e
che nelle donne vi sia una componente biologica così forte da condizionare
131 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 18. 132 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Roma, 2008. 133 E. Badinter, Una madre in più, Fandango Libri, Roma, 2012. 134 N. Chodorow, La funzione materna. Sociologia e psicoanalisi del ruolo materno, Milano, La Tartaruga, 1991.
63
tale comportamento umano. Ella sostiene invece che il comportamento
umano non è condizionato dall’istinto, ma è mediato in gran parte dalla
cultura di riferimento ed è proprio a questa che bisogna far riferimento per
capire perché sono proprio le donne a svolgere la funzione materna135.
Occorrerebbe altresì distinguere e chiarire i due concetti di ruolo e funzione
paterna: per quanto concerne il primo, questo viene definito da un contesto
sociale e culturale determinante; la funzione invece «è ciò che il padre
sente di dover fare, è la sua risposta emotiva ai bisogni del figlio, è la
disposizione interiore precedente all’esperienza, che tuttavia si attiva
nell’esperienza. La funzione paterna è precedente all’esperienza e al ruolo,
anche se normalmente si attiva in ambedue»136.
Non esiste, dunque, una prova empirica per dimostrare che solamente
la madre possa compiere tale funzione: anzi, studi antropologici
mostrano che alla cura della prole possano occuparsi madri non
biologiche, nonni, padri. E sentirsi altrettanto adeguati. Vero è, tuttavia,
che tra la madre e il piccolo un legame si instaura sin dall’inizio, sin da
quando “viene portato” con sé nel grembo materno, per l’appunto. E che
il rapporto con il padre avviene sempre “dall’esterno”, quasi di supporto
alla madre, piuttosto che essenziale alla sopravvivenza del bambino137.
Per meglio intendere il significato di un rapporto che giunge
dall’“esterno” chiediamo aiuto alle biografie dei papà che si apprestano a
vivere la gravidanza della loro compagna/moglie:
ogni tanto appoggiando la mano sulla pancia di Monica riesco a sentire i
calcetti di Lisa; è un’emozione strana, del tutto nuova. Penso a che cosa
deve provare Monica che questi movimenti li sente dall’interno; io
135 A. L. Zanatta, Padri e madri, il Mulino, Bologna, 2011. 136 P. Brustia Rutto, Genitori una nascita psicologica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 24. 137 A.O. Ferraris, Padri alla riscossa, Giunti, Firenze, 2012.
64
accarezzo la pancia da fuori, mentre Lisa la accarezza da dentro, strusciando
le pareti dell’utero con mani, piedi, testa o schiena. Cerco di immaginarmi
questa stranissima situazione, ma alla fine rinuncio; credo che in futuro ci
saranno altre cose che farò fatica anche soltanto a immaginare: le
contrazioni, l’uscita della testa, l’attacco al seno e tanto altro. Avverto la
frustrazione di questi miei inutili sforzi, forse sto soltanto creandomi
problemi inesistenti, o forse sono invidioso e non riesco ad ammetterlo.138
La prima fase dell’uomo è di natura sostanzialmente mentale:
compartecipa alla gravidanza condividendo gli stati emotivi della sua
partner 139 . Il nuovo padre ha bisogno di maturare ed esprimere una
paternità che non imita quella materna, ma si mostra sinergica e
collaboratrice. È necessario prendere coscienza del cambiamento che sta
avvenendo sempre più velocemente. Molti studi140 dimostrano che nella
società contemporanea la funzione materna e paterna possa essere svolta da
entrambi i genitori, indipendentemente dal genere. Sembrerebbe che oggi il
padre, dopo aver abbandonato la sua funzione autoritaria che lo vedeva
pater familias e detentore della norma, si identifichi sempre più con la
moglie, ossia con la madre141. Il nuovo padre è cambiato, ma sarebbe
meglio, e probabilmente più giusto, ragionare in merito ad una “rivoluzione
della mentalità maschile”. Dagli anni Settanta del Novecento, dove gli
psicologi stentavano ad attribuire al padre un ruolo poco più che marginale
nella prima fase di vita del bambino, gli psicologi hanno poi cominciato a
modificare alcune posizioni assai radicate nella società, sino a riconoscergli
una rilevanza effettiva nella crescita cognitiva e affettiva del figlio. Oggi si
va via via sempre più affermando che vi è una sostanziale
138 A. Volta, Mi è nato un papà. Anche i padri aspettano un figlio, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 37. 139 M. Ammaniti, Pensare per due. Nella mente delle madri, Laterza, Bari, 2008. 140 S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg e Sellier, Torino, 2009. 141 E. Badinter, op. cit., p. 403.
65
“omogeneizzazione dei ruoli”: la madre assume sempre più su di sé dei
tratti normativi, mentre il padre si avvicina in maniera affettivamente
autentica al mondo del figlio. I sociologi sono oramai concordi
nell’evidenziare il declino del modello parsonsiano in cui le sfere di
competenza erano suddivise rigidamente in “ruoli strumentali” (ruoli
pubblici) e “ruoli espressivi” (ruoli affettivi e privati), per dare spazio alla
grande novità contemporanea: anche i padri possono manifestare affetto.
Le donne non hanno più il monopolio della tenerezza, inversamente i padri
non hanno più quello dell’autorità142.
È proprio in questa fase della storia dell’umanità che si sta assistendo,
quindi, alla nascita di una nuova figura genitoriale: “il mammo”.
Dalla fine degli anni Sessanta ad oggi la figura del maschio ha dovuto
fare i conti con una vera e propria rivoluzione culturale. L’egemonia
culturale e sociale dell’uomo si è confrontata con un’emancipazione
femminile sempre più espressa su vasta scala e su tutti i livelli sociali. Per
secoli la donna è stata subalterna all’uomo in funzione di dinamiche che
apparivano assolutamente radicate nella cultura e nella società dell’epoca, e
di difficile trasformazione. Tale cambiamento ha rappresentato una
trasformazione positiva ma, come per tutti i mutamenti storici e culturali, è
necessario un lungo arco di tempo perché il sistema si assesti su un nuovo
punto di equilibrio in grado di reggere a fisiologici scossoni e cominci a
entrare nella “convenzionalità del tradizionale”143.
Pertanto, da quanto sinora scritto, non sembrerebbe che i padri non
esistano più, semplicemente non sono più gli stessi. La paternità è
un’istituzione in ristrutturazione, come spiega Simone Korf- Sausse, che
risente del periodo di crisi che stiamo vivendo, in cui il vecchio modello di
142 Ivi, p. 405. 143 I. Baldassarre, C’è anche il papà, Erickson, Trento, 2006, p. 33-34.
66
paternità non funziona più144, ma dove gli stessi padri non si riconoscono
più. Il pater familias non rispecchia più i modelli educativi incarnati dai
nuovi padri che vorrebbero invece avvicinarci ad uno stile educativo basato
sull’affettività e sulla protezione, caratteristiche da sempre appartenute alla
madre. Ma allora perché continuiamo a definirli assenti, incorporei, liquidi:
padri ombra, per dirla con una calzante espressione di Maurizio Quilici. O
padri autoritari o papà chioccia: sembrerebbe questa la netta divisione che
si presta a definire la categoria dei padri. Sono percepiti come doppi,
replicanti, quasi dei concorrenti delle madri, oppure si dice che non
esistono.
Si direbbe che l’immagine del padre nella società attuale non dipenda
dalla realtà della sua presenza, ma sia fortemente influenzata dall’ideologia
che la modella. La società post moderna rifiuta da una trentina d’anni
l’onnipotenza paterna, che è stata il suo modello nel periodo della
modernità. Tradizionalmente il padre è colui che impedisce alla follia
materna145 di realizzarsi: introduce un terzo elemento nel mondo fusionale
madre/bambino. Se non conserva questo ruolo di separatore si risveglia il
timore arcaico di una donna onnipotente e di una madre divorante. C’è
l’idea che il padre debba essere presente solo come istanza arbitraria, senza
diventare una madre bis: “beati i bambini del Terzo Millennio, che avranno
due madri per cambiargli il pannolino” scrive Michel Schneider in Big
Mother146, un’opera molto critica verso questa modernità.
Entrambi i genitori fanno parte, quindi, di un processo che li lega
indissolubilmente in quanto «attingono al progetto di coppia e familiare per
dare quotidiana consistenza alla propria funzione educativa di padre e di
144 S.K. Sausse, In difesa dei padri, Alberto Castelvecchi editore, Roma, 2010. 145 Ivi, p. 57. 146 M. Schneider, Big mother. Psychopathologie de la vie politique, Odile Jacob, Parigi, 2002.
67
madre: nell’unità degli orientamenti valoriali prescelti e del progetto
educativo elaborato, sono diverse le modalità attraverso cui le informazioni
e i contenuti educativi sono singolarmente offerti»147.
Se volessimo inserire il padre, in una psicologia dello sviluppo, dobbiamo
necessariamente riconoscere l’intero sviluppo del bambino in una diversa
ottica. Il padre non è una qualunque figura di attaccamento, ma è
prioritariamente l’altra figura di attaccamento, altra in quanto
qualitativamente diversa dalla figura materna. Madre e padre non sono
intercambiabili, in quanto sono due differenti dimensioni affettive e
relazionali. Il padre è parte integrante della relazione primitiva del bambino,
anzi è colui che suscita la relazione del bambino con la madre; è l’ombra
che permette al bambino di individuare e di orientarsi, metaforicamente,
verso la luce.148
Lo psicologo Petter sostiene che una qualità fondamentale richiesta ad
entrambi i genitori è quella di «favorire un processo di divergenza nel
favorire nel figlio uno sviluppo personalizzato149», che gli permetta di
diventare “diverso” dagli altri in modo creativo, «se non altro perché
nessuno sceglie mai d’essere figlio. Mentre diventare padre è sempre una
scelta. Anche quando la paternità è il frutto di una distrazione o di un
incidente di percorso, come lo chiamano quelli che adorano gli
147 L. Pati, Padre e madre: chiamati a diventarlo, in R. Bonetti (a cura di), Padri e madri per crescere a immagine di Dio, Città Nuova, Roma, 1999, p. 114. 148 R. Quaglia, Il padre nello sviluppo del bambino, in C. Marocco Muttini, M. Fulcheri, C. M. Marchisio, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, Aracne, Roma, 2009, p. 45. 149 G. Petter, Il mestiere di genitore. I rapporti con i figli dall’infanzia all’adolescenza, Rizzoli, Milano, 1992.
68
eufemismi»150. Una famiglia sana, come la definiscono gli psicoanalisti
Meltzer e Harris, è caratterizzata dall’esercizio di funzioni positive, come:
o generare amore: all’interno del contesto familiare è importante
che i genitori favoriscano un clima di sicurezza e di protezione
capaci di garantire quella serenità e quella tranquillità interiore che
permette ai figli di crescere emotivamente e psicologicamente
sani;
o infondere speranza: ovvero quella capacità di mantenere la giusta
dose di realtà e di equilibrio anche dinnanzi ad eventi
imprevedibili e/o drammatici per garantire ai figli la possibilità di
acquistare sicurezza e voglia di staccarsi dal “cordone ombelicale”
senza paura di fallire;
o contenere la sofferenza: aiutare i figli, tramite l’esperienza diretta,
a comprendere l’esperienza del dolore senza però far si che questa
sconvolga l’esistenza personale;
o aiutare a pensare: compito principale dei genitori è quello di
incentivare sempre e in ogni circostanza la sana abitudine a
pensare, a ricercare la verità, a comportarsi in modo pulito e
trasparente perché questo significa diventare gli uomini e le donne
qualificati da spirito critico e onestà intellettuale151.
In questo orizzonte di senso prende vita, ancora una volta, il concetto del
‘prendersi cura’, «il motto intraducibile dei giovani americani migliori:
‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E’ il contrario del motto fascista ‘Me ne
frego’»152. In un rapporto di filiazione madre e padre contribuiscono a
150 M. Verga, Un gettone di libertà, Mondadori, Milano, 2014, p. 34. 151 Cfr. M. Pavone, Genitorialità-filiazione. La famiglia, un sistema relazionale in divenire, in La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, in C. Marocco Muttini, M. Fulcheri, C. M. Marchisio (a cura di), op. cit., p. 69. 152 L. Milani, Lettera a una professoressa, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze, 1996.
69
facilitare il poter-essere del figlio, la propria unicità e irrepetibilità del suo
essere Persona nel mondo.
La pedagogista speciale Marisa Pavone ci ricorda la reciprocità di
rapporto che si instaura tra genitori e figli sostenendo, in ultima analisi, che
anche i figli educano i genitori: «anche il primo sorriso, il primo balbettio,
il primo successo scolastico, le conquiste di cui strada facendo il figlio fa
provvista, l’esperienza condivisa di trascorrere il tempo in attività di gioco
o nella lettura di un libro per l’infanzia, costituiscono il presupposto e la
base per una comune crescita creativa, e per l’intesa mutualistica presente e
futura»153.
Generare un figlio inscrive, dunque, il giovane adulto nella filiazione in
quanto genitore, proprio perché:
nascendo, un bambino trasforma due adulti in genitori. Si può quindi dire
che è il bambino a creare i propri genitori. A partire dal suo concepimento,
egli li interroga con tutti i mezzi di cui dispone (prima con i movimenti, poi,
dopo la nascita, con crisi, collere, bronci, attacchi di vomito, insonnia…)
domandando loro: “Chi siete? Che cosa ci fate voi insieme? Perché mi avete
concepito?” Molto spesso queste richieste sono inopportune perché
obbligano a rispondere a domande che non sempre uno ha voglia di porsi,
eppure nessun genitore può sperare di sfuggirvi154.
Per diventare un genitore, ma anche e soprattutto un padre, non solo
affettivo, ma anche normativo, è necessario uscire da una modalità
egocentrica, che pensa solo al sé, per avvicinarsi autenticamente al
bambino fondando e radicando solidamente il suo bisogno di senso nella
vita.
153 M. Pavone, Genitorialità- filiazione. La famiglia, un sistema relazionale in divenire…, op. cit. p. 79. 154 F. Dolto, I problemi degli adolescenti, Longanesi, Milano, 1991 e TEA Pratica, Milano, 1998, p. 61.
70
2. La funzione normativa paterna
Dalla letteratura recente sul tema della paternità emerge che i padri sono
molto più presenti di un tempo, mentre la madre ha assunto sempre più
impegni di lavoro e sete di ambizione, cosicché i ruoli e le funzioni
materne e paterne sono maggiormente intercambiabili.
Alcuni autori quali Bowlby, Spitz, Winnicott hanno dato avvio ad
importanti contributi in merito alle relazioni di attaccamento tra la madre e
il bambino, e alle conseguenze patologiche che un attaccamento insicuro
e/o ambivalente avrebbero potuto scatenare. Queste teorie sono state
talmente enfatizzate che nella famiglia, come d’altronde in altri contesti
educativi, l’attenzione alla dimensione affettiva passò in primo piano
rispetto alla dimensione normativa della funzione genitoriale. È bene
ricordare, però, che le esigenze affettive non sono le uniche dimensioni di
cui un bambino ha bisogno per un positivo sviluppo psichico: il
contenimento dell’angoscia risulta efficace solamente tramite l’imposizione
di un limite che aiuta il bambino a separare la realtà esterna dal suo mondo
interiore. Lo sviluppo dell’individuo, a partire dalla nascita fino all’età
adulta, si compie attraverso una serie di relazioni nelle quali affetti e regole
sono parimenti fondamentali155.
Senza limite l’individuo non riesce a costruire un’identità stabile, autonoma,
sicura, rispetto all’angoscia di “andare distrutto”. Si tratta di un problema
basilare nella costruzione della personalità, di livello arcaico rispetto ai temi
edipici. […] Il limite viene imposto dall’esterno, prima che acquisito
autonomamente, viene dato dalle regole o norme, che indicano la linea di
condotta a cui attenersi quando funzioni come la stima di sé a livello
155 C.M. Muttini, La funzione paterna nelle relazioni di aiuto e di cura, op. cit., p. 23.
71
conscio, l’ideale dell’Io e del super- Io a livello inconsci, non sono ancora
consolidate.156
Se questo limite non viene imposto/concesso la possibilità che emergano
problemi clinici, come personalità borderline, cadute depressive,
comportamenti devianti, delinquenza, risulta davvero di facile frequenza:
diviene quindi indispensabile che «la famiglia e le agenzie educative
contribuiscano alla crescita offrendo i due poli di rapporto, affettivo e
normativo157».
Ormai è ben noto che, dopo la seconda guerra mondiale, i giovani non
abbiano più voluto reincarnare il classico modello paterno e l’apice di
questo mutamento lo abbiamo con un’opera fondamentale di
Mitscherlich158 che evidenzia come il disagio della persona può nascere da
un eccesso, come da una carenza della funzione normativa. Numerosi
studiosi riconducono l’insorgenza dei disturbi psichici che si manifestano
in età giovanile alla mancanza di contenimento e dall’impossibilità di
cimentarsi con le difficoltà di verificare le proprie capacità, altrimenti
l’adolescente potrà scegliere delle strade più facili per affermarsi
personalmente nel dubbio di non essere all’altezza dei compiti richiesti.
La realtà odierna è caratterizzata da episodi di cronaca che vedono come
protagonisti giovani che, non potendo più trasgredire, sfidare, opporsi al
padre, ormai diventato “morbido”, non riescono ad interiorizzare il
conflitto: non trovando più il contenimento nelle figure educative prossime
a sé, il giovane andrà a cercare il limite con atti sempre più violenti, come
156 C. Marocco Muttini, M. Fulcheri, C. M. Marchisio, La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto, op.cit., p. 14. 157 G. Chiosso, (a cura di), Nascere figlio, Utet Libreria, Torino, 1994. 158 A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano, 1970.
72
se si chiedesse quando sarà fermato e chi ha il potere di contenerlo159. È
certamente da sottolineare come l’immagine di adulto normativo ha subito
una revisione legata alle trasformazioni sociali e culturali:
L’autonomizzazione, come effetto di una socializzazione più libera tra i
pari, è divenuta più precoce; la fruizione di forme di intrattenimento come
quelle offerte da Internet e dai nuovi media avviene da parte dei
giovanissimi in modo svincolato rispetto al controllo degli adulti educanti.
La più prolungata scolarizzazione e soprattutto la cultura tecnologica hanno
creato un divario tra le generazioni assai più accentuato e rapidamente
incrementantesi. Da ciò deriva la necessità di un cambiamento nell’esercizio
della funzione normativa rispetto al passato: agli obblighi e ai divieti deve
subentrare più precocemente la concessione di una libertà sostenuta dalla
responsabilità. La funzione paterna rappresenta una componente prioritaria
dell’ambiente educativo, che deve però essere modulata sulla base di nuove
esigenze e stili di vita, derivanti dai processi di crescita fisica e cognitiva
accelerati e variati come tempi e modalità160.
Diventare padri è quindi un’esperienza profonda e complessa che si
accompagna alla necessità di acquisire un nuovo ruolo e una nuova
consapevolezza di sé. La stessa Maria Montessori, nonostante rimarchi la
preminenza della figura materna, afferma che «l’istinto di maternità non è
collegato solo con la madre, ma è nei due genitori»161.
Il padre, interponendosi tra la madre e il bambino introduce una distanza
simbolica tra loro, «impone una legge, che, da un lato, esprime interdizione
della madre al bambino, dall’altro lato, canalizza il desiderio del bambino
in ordine alla legge. Tutto lo sviluppo morale del bambino si situa
159 C. Marocco Muttini, Funzione paterna e benessere psichico…, op. cit. 2009. 160 Ivi, p. 24. 161 M. Montessori, Il segreto dell’infanzia, Garzanti, Milano, 1989, p. 282.
73
fantasticamente tra un “No!”, limite invalicabile, e il “Tu devi!”, traguardo
ideale»162. Seguendo la teoria lacaniana il padre non può dire “Sì” con il
rischio di screditarsi come figura paterna.
È interessante indagare come negli anni del boom economico la Legge
del pater familias si sia trasformata sia andata a declinare verso una legge
più bonaria a quella delle generazioni precedenti: il padre non si occupava
granché dei figli, si limitava a controllare l’andamento scolastico, a
rimproverare e a punire dove necessario, ascoltare le lamentele della
moglie, per il resto non voleva seccature. Ai figli voleva bene, ma in
famiglia comandava lui ed effettivamente la libertà di moglie e figli non era
molto estesa163.
Negli anni precedenti al boom economico, difatti, nessuno si permetteva
di avanzare un’ipotesi sull’istinto paterno:
Nella relazione genitore- fanciullo, la madre può essere considerata il punto
centrale. Non vi sono indizi nella nostra specie, di qualche cosa come
l’istinto paterno. Il gruppo padre- madre- bambino è tenuto insieme
dall’attaccamento del padre alla madre e dalla dipendenza fisica del
bambino da lei, rinforzata in seguito da legami d’affetto e di dipendenza
emozionale sviluppati durante il periodo infantile. L’associazione padre-
figlio è secondaria, e deriva dal comune interesse verso la madre e dalla
comune residenza con lei.164
Si prefigura qui un padre incline ad un certo tipo di consumismo,
impegnato nel lavoro e di un’autorità puramente formale che tacita i sensi
di colpa non negando mai nulla, soprattutto sul versante economico.
162 R. Quaglia, Il padre nello sviluppo del bambino, in…, op. cit., p. 52. 163 M. Quilici, Storia della paternità. Dal pater familias al mammo, Fazi Editore, Roma, 2010, p. 477. 164 R. N. Ashen, La famiglia, la sua funzione e il suo destino, Bompiani, Milano, 1955, pp. 36-37.
74
Dunque, nel corso degli anni, in un periodo che Giorgio Campanini
definirà “la famiglia a doppia carriera”165- riferendosi ad un femminismo
che rivendica sempre più la parità di diritti tra uomo-donna e padre-madre-
si abbandona definitivamente l’immagine del “padre- padrone” per dare
spazio ad un padre che, oggi, scopre che essere padre non basta, si può
anche fare il padre. Non solo, quindi, esercitare l’autorità e contribuire
economicamente per il sostegno della famiglia, ma anche possibilità di
arricchimento, maturazione, scoperta, gioia condivisa nel prendersi cura del
figlio. Ora i padri amano toccare, abbracciare, stringere, baciare il corpo
del bambino. Questa modalità insolita viene denominata «Fame paterna»
da Moses Herzog, protagonista del celebre e omonimo romanzo di Saul
Bellow:
Gli saliva in piedi sulle ginocchia per pettinarlo. I suoi piedini gli
pesticciavano le cosce. Lui si abbracciava quelle ossicine con fame paterna
mentre l’alito di lei sul suo viso lo commuoveva fin nel profondo.166
Vero è, spiega Quilici167, che il libro di Sellow riporta una realtà
americana degli anni ’60, mentre da noi bisognerà arrivare agli inizi degli
anni Novanta per parlare di “rapporto carnale” tra padre e figli. Sembrano
ormai lontani i tempi del padre autoritario: nascono ora, lentamente, «i
nuovi padri» che, abbandonando la loro virilità- proveniente dal modello
del macho- lasciano emergere la parte femminile, sensibile, tenera che è in
ogni uomo. Ma se il padre- padrone si estingue, ecco giungere all’estremo
opposto: “il mammo”. Il verdetto sembra essersi pronunciato: il padre
165 G. Campanini, Contestazione e riscoperta del padre, in «Famiglia oggi», settembre-ottobre 1992, p.18. 166 S. Bellow, Herzog, in Le Opere, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 69. 167 M. Quilici, Storia della paternità…, op. cit., 2010.
75
paterno non ha futuro, può essere solo materno, ovvero un padre che
sostituisce, per brevi periodi, la madre impegnata o assente168.
Quello che importa davvero è il rischio di maternizzazione paterna, una
vera e propria mutazione psicologica di cui dobbiamo tener conto. C’è
bisogno quindi di una nuova definizione paterna che corrisponda meglio al
cambiamento che i padri devono affrontare: sembrerebbe che non si
sopporti vedere padri affettuosi e premurosi poiché diverrebbero
immediatamente “papà chioccia”, replicanti e concorrenti delle madri169.
Il problema effettivo riguarda appunto il concetto stesso della funzione
normativa paterna: l’esercizio dell’autorevolezza è necessario, al contrario,
un’eccessiva maternizzazione dello stile educativo potrebbe protrarre la
dipendenza170 dei figli nei confronti dei genitori. Gli studi di Lamb171
mostrano come ad un ruolo maschile non tradizionale si affianchi un tipo di
padre molto più coinvolto nella cura del figlio, e che sempre di più ciò
accada nelle famiglie dove la madre lavora172, ed è per questo che,
presumibilmente, l’autorità non può più essere solo di competenza paterna.
La psicanalista francese Simon Korff Sausse muove una critica nei
confronti di una visione, per certi versi catastrofica, di una presunta
mancanza di autorità da parte dei padri:
Ci preoccupiamo molto per la mancanza di autorità. Cerchiamo, invano, di
ristabilirla. Molti intellettuali si fanno portavoce di questa inquietudine e di
questa visione allarmista del futuro. Li sentiamo rimpiangere l’epoca in cui
l’autorità veniva esercitata senza riserve, mentre non sembrano rendersi
168 C. Sellenet, Nuovi papà…bravi papà, Fabbri Editori, 2006, Milano. 169 S. K. Sausse, In difesa dei padri, Alberto Castelvecchi editore, Roma, 2010. 170 A. Battaglia, A. Canevaro, M. Chiurchiù, Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, Carocci, Roma, 2005. 171 M.E. Lamb, The emergent american father, in M.E.Lamb, The father’s role, Erlbaum, Londra, 1987. 172 G. Attili, Il padre come contesto di attaccamento nello sviluppo del bambino, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 41.
76
conto che l’autorità può essere condivisa con la madre, e soprattutto che la
ridiscussione della sua forma tradizionale può essere un fatto positivo. In
effetti potremmo essere felici di constatare che la rete relazionale della
famiglia non è più governata da obblighi imposti e che, al giorno d’oggi, le
relazioni all’interno del nucleo si svolgono soprattutto nella modalità del
consenso e della negoziazione.173
Poiché il padre non era il primo referente del bambino, bisognava
trovargli un ruolo: a lui l’autorità e il rapporto con la Legge, a lui il
compito di scindere la madre e il figlio, a lui la responsabilità di aprire il
bambino alla socializzazione, a lui il complesso di Edipo. Alle madri la
teoria dell’attaccamento. “Perché le donne non possono essere garanti della
Legge? Hanno forse coscienza civica insufficiente?” 174 Si chiede la
sociologa e psicologa Catherine Sellenet dissertando in merito alla
funzione normativa paterna.
Michael Schneider critica aspramente «l’aberrazione antropologica»
costituita dalla «paternità interattiva e relazionale» preoccupandosi del fatto
che «il padre paterno stia per essere cancellato simbolicamente» 175 a
beneficio del padre materno.
Oggi parlare di padre assente significherebbe lasciare i figli senza un
polo identificatorio solido, da un lato, e non permettere la scissione
madre/bambino, dall’altro176.
Il padre contemporaneo si trova nella situazione pirandelliana nella
quale il suo ruolo non è uno, si può essere centomila padri, tanto da
sentirsi nessuno177. Viviamo in un’epoca in cui chi decide di fare il padre
173 . K. Sausse, In difesa dei padri, op. cit., p. 43. 174 C. Sellenet, Nuovi papà…bravi papà, 2006, p.119. 175 M. Shneider, Big Mother..., op. cit. 176 C. Sellenet, Nuovi papà… bravi papà, op. cit. 177 International Journal of Psychoanalysis and Educacion- IJPE, n°3, vol. I, anno I, p. 208.
77
acquista un maggiore grado di consapevolezza basata sull’affettività e
sull’attaccamento al proprio bambino, il che porterebbe ad una perdita di
autorevolezza, che non va confusa con il concetto di autorità. I padri
odierni non impongono regole attraverso la minaccia e la punizione, ma
aiutano i propri figli a comprendere il perché di una scelta e la
motivazione ad un “no”.
Nelle prime fasi della crescita, le figure del padre e della madre tendono un
po’ a confondersi, per via del fatto che i padri cercano una comunicazione
più affettiva ed empatica, e si occupano di più della cura. Ma nel momento
dell’adolescenza, i figli si accorgono di aver bisogno di una figura
autorevole e competente che li aiuti sia ad uscire dall’infanzia che a scoprire
il loro vero sé.178
Di seguito riportiamo il decalogo del padre ideale che Bollea
sintetizza nel suo celebre volume “Le madri non sbagliano mai”179 e che,
a nostro parere, rappresenta l’esempio più fulgido di equilibrio e
affettività per un padre che si auspichi non sbagli mai:
• essere se stessi e non “sepolcri imbiancati”;
• essere disponibili nel gioco, nella discussione, nell’ascolto;
• dare esempio di autocontrollo e di intransigenza sul piano morale;
• dimostrare sicurezza nelle piccole e grandi cose, per insegnare
loro a vedere l’essenziale nei fatti positivi e negativi della vita
• non essere padre infallibile, ma padre che “alla fine” troverà una
soluzione ai problemi della vita
178 Ivi, p. 211. 179 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 25.
78
• mantenere il segreto delle confidenze dei figli dopo i dieci anni,
anche con la moglie, se i ragazzi lo desiderano
• essere autorevole e non autoritario, creando la stima con l’esempio
• controllare il proprio temperamento con i figli, esattamente come
con gli estranei
• mostrare armonia, stima e concordanza pedagogica con la moglie
davanti ai figli
• pensare la cena un punto d’incontro per la famiglia, dove si possa
conversare senza interferenze esterne.
2.1. Il padre e il figlio disabile
Il discorso pedagogico sulla famiglia si distanzia da una visione storica-
antropologica e/o psicologica perché l’intento pedagogico è, appunto,
quello di guardare con una prospettiva che mira ad indagare e promuovere
il ruolo educativo e formativo dei genitori180. Diventare genitori è una
scelta consapevole che trasforma la vita delle persone: implica un’adesione
profonda che inizia dal concepimento, si sviluppa per tutta la gravidanza e
si esprime completamente dopo la nascita.
La nascita di un figlio comporta, indubbiamente, molti cambiamenti che
riguardano diverse sfere della vita quotidiana di coppia, da un lato, ma
anche personale e individuale, dall’altro. Le modalità di risposta sono
diverse da coppia a coppia in quanto quest’ultima deve aprirsi al terzo
arrivato per inserirlo attivamente nello spazio domestico, ma anche, più in
180 L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia, op. cit. 181 G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, op. cit.
79
La riflessione sullo stile educativo risulta particolarmente attuale e
necessario, poi, nel campo della Pedagogia Speciale dove la valorizzazione
della figura paterna non ha sempre avuto il riconoscimento che merita.
Solitamente quando si parla di rapporto simbiotico madre- bambino, e
con maggiore intensità se si tratta di un bambino disabile, si fa sempre e
costante riferimento alla figura materna. A partire dagli anni ’70
l’attenzione dei ricercatori si inizia a focalizzare anche sui padri
dimostrando quanto anche quest’ultimi fossero coinvolti, al pari delle
madri, nel prendersi cura dei figli e della sofferenza che l’handicap del
bambino procurava loro182.
Dunque, nella famiglia di soggetti disabili l’intervento e la presenza
paterna si collocano in una dimensione piuttosto complessa: da un lato
potrebbero riproporre una madre bis, dall’altro avere invece un
atteggiamento troppo frustrante rispetto alle potenzialità del figlio.
Ciò che stabilisce il legame con il bambino è l’attaccamento affettivo che si
attua allo stesso modo in entrambi i genitori. Solitamente si dice che il padre
non si sente legato al figlio come la madre perché non ha portato il bambino
in grembo. […] In realtà l’idea della trasmissione che l’handicap sollecita
fortemente va ampiamente oltre la biologia, poiché mette in gioco una
dimensione fantasmatica che riguarda entrambi i genitori.183
Un modello unico di padre nel passato è esistito, e in questa sede
l’abbiamo evocato più volte: il padre padrone lontano dagli affetti e dalle
responsabilità di cura e di crescita della prole è ormai un ricordo lontano.
Non tutti i padri si somigliano, anzi, imporre un unico modello di paternità
182 S. Sausse, Specchi infranti. Uno sguardo psicanalitico sull’handicap, il bambino e la sua famiglia, Ananke, 2006, Torino. 183 Ivi, p. 45.
80
equivale a fingere che tutte le famiglie si assomiglino, il che non solo è
assolutamente falso, ma rischierebbe di negare il principio innegabile della
diversità, intesa nell’accezione più ampia di creatività. La paternità, ricorda
la Sellenet, «si inventa, si costruisce giorno dopo giorno, si modifica a
seconda dell’età del figlio»184 e a seconda del figlio.
Se per Bowlby 185 , più volte citato in riferimento alla teoria
dell’attaccamento, questo può essere solamente monotropico, con letture un
po’ diverse e con contesti di osservazione differenti, possiamo essere certi
di affermare che il bambino nasce già in una triangolazione186 e dunque
inscritto in una situazione già di per sé più estesa. Molti psicologi
continuano a cavalcare l’onda dell’assoluta superiorità della madre rispetto
al padre, creando ancora una volta una supremazia materna- che coincide
anche con una responsabilizzazione fortissima di quest’ultima in
riferimento alla prima infanzia del figlio- e provocando una serie di
ripercussioni alquanto negative sulla funzione attribuita al padre.
Quello che spaventa in questa gerarchizzazione nelle relazioni di
attaccamento riguarda proprio la predominanza della figura materna,
mentre la relazione con il padre resterebbe comunque secondaria: il ruolo
del padre rimane quello di una madre surrogata. A giudicare da alcune
ricerche, «sembrerebbe che, rispetto alla madre, il padre svolga un ruolo
minore, se non addirittura inesistente, nello sviluppo del figlio»187. Queste
considerazioni spingono Christiane Olivier ad assumere una posizione di
rottura rispetto ad altri psicoanalisti:
184 C. Sellenet, Nuovi papà… bravi papà, op.cit., p. 112. 185 J. Bowlby, Cure materne e sviluppo mentale del bambino, Giunti, Firenze, 2012. 186 S. Sausse, In difesa dei padri…, op. cit. 187 R. Miljkovitch, L’attachement au cors de la vie, Le fil rouge, PUF, Paris, 2001.
81
La bolla madre-figlio, definita primaria e duale, può essere plurale, e il
bambino può attaccarsi sin dai primi mesi alle varie persone che lo
accudiscono, tra cui il padre, se è presente. Perché nessuno vuole
riconoscere pubblicamente che l’introduzione del padre paterno impedisce
al bimbo di attuare una fissazione unica sulla madre, evitando questa
relazione esclusiva e talvolta fobica che fa di lei la sua sola interlocutrice
valida?188
Un’idea che caratterizza la rappresentazione delle famiglie dove è
presente un figlio disabile è quella che il padre svolga un ruolo pressoché
marginale rispetto a quello della madre. Se vogliamo però inserire il padre
nel rapporto con il figlio è necessario fare alcune nuove considerazioni in
merito allo sviluppo stesso del bambino: il padre, spiega Rocco Quaglia,
«non è una qualunque figura di attaccamento, ma è prioritariamente l’altra
figura di attaccamento, altra in quanto qualitativamente diversa dalla figura
materna. Madre e padre non sono intercambiabili, in quanto sono due
differenti dimensioni affettive e relazionali»189.
Anzi, dato che l’handicap evoca sempre un’idea di castrazione, scrive
Sausse, si può pensare che siano maggiormente feriti nella propria
immagine narcisistica, dal momento che l’handicap li attacca ancor più
specificatamente nella loro integrità maschile190.
Innanzitutto ci sembra di fondamentale importanza, per comprendere il
rapporto tra il padre e il figlio disabile, sbarazzarci dei vecchi modelli
imposti da psicologi, psicanalisti e sociologi, non per rifiutarli in blocco,
ma per mettere in luce le debolezze e le contraddizioni che hanno relegato,
per tanto, troppo tempo, i padri in un angolo. L’esigenza di guardare al
188 C. Olivier, Petit livre à l’usage des pères, Fayard, Paris, 1999. 189 R. Quaglia, Il padre nello sviluppo del bambino, in La funzione paterna nelle relazioni di aiuto e di cura, op.cit., p. 45. 190 S. K. Sausse, Specchi infranti…, op. cit.
82
padre come “arricchimento” nasce dall’idea che ognuno di noi è portatore
di esperienze che possono diventare una validissima risorsa per il
cambiamento, «tenendo presente che non si tratta solo di un cambiamento
personale, interiore, ma si tratta di mettere in atto capacità di co-
trasformazione. Di ascolto e di cura di sé, che diventano ascolto e cura
degli altri»191. Da questo assunto è possibile comprendere quanto, e in che
misura, lo studio delle relazioni tra genitori e figli disabili ci hanno
condotto ad un ripensamento sui concetti stessi di funzione, ruolo e istinto
paterno.
Ricerche192 in ambito psicologico confermano ormai da molto tempo che
il confronto con la disabilità traccia un confine temporale nella vita dei
genitori: affiora un sentimento paragonabile alla morte, metaforicamente
parlando, e il sogno del bambino idealizzato e perfetto viene meno.
Infatti la cicogna handicappata ti consegna un tempo che immediatamente si
accorcia. Altro che dilatarsi! Altro che si diventa immortali perché si
diventa padri (o madri)! La disabilità cancella il senso del tempo. A
qualcuno concede l’idea del futuro declinato in speranza. Ma il futuro è lì. E
già domani potrebbe essere troppo tardi.193
Lontani da “Sua Maestà il Bebè” di cui parlava Freud, il bambino
meraviglioso che doveva realizzare tutti i sogni segreti dei genitori e
riparare le loro antiche ferite e delusioni, ciò che segue è un cammino
parentale che può essere paragonato all’elaborazione di un lutto194: un
intenso dolore psichico e fisico, accompagnato da un costante desiderio di
191 L. Formenti, Pedagogia della famiglia, Guerini, Milano, 2000, p. 129. 192 C. Gardou, Diversità, vulnerabilità, handicap, Erickson, Trento, 2006. 193 M. Verga, Un gettone di libertà, Mondadori, Milano, 2014, p. 158. 194 E. Kubler-Ross, Les derniers instants de la vie, Labor et Fides, Ginevra, 1975.
83
morte del figlio: «è disumano, sarebbe meglio che morisse»195; a tal
proposito si trascrive qui di seguito il vissuto autobiografico di uno
scrittore giapponese, Kenzaburo Oe, a cui nasce un figlio con una grave
malformazione cerebrale:
Aveva scommesso sulla morte del suo bambino e l’aveva fissato
chiaramente nella sua coscienza. In quel momento era un autentico nemico
per il suo bambino, il primo e il più grande nemico della sua vita. Avvertì
un senso di colpa e pensò di esserlo, se mai c’era una vita eterna e un dio
che giudica. Ma quel senso di colpa, come la tristezza che l’aveva assalito,
quando nell’ambulanza, aveva immaginato il bambino bendato alla testa
come Apollinaire, gli dava il dolce gusto del miele. Tori-bird affrettò il
passo, come se andasse ad un incontro con l’amante, e camminò alla ricerca
della voce che gli avrebbe comunicato la morte del bambino. Dopo aver
ricevuto la notizia, avrebbe seguito varie pratiche il rifiuto del figlio, […]
quindi avrebbe pianto il bambino in solitudine e il giorno successivo
sarebbe andato a comunicare la disgrazia alla moglie. Le avrebbe detto che
il bambino, morto per un trauma cranico, costituiva un legame carnale tra
loro e che sarebbero riusciti in qualche modo a ricostruire la loro vita
familiare.196
Si percepiscono chiaramente, rispetto al brano appena sopra citato, due
emozioni: l’incredulità per quello che si sta vivendo e la speranza che
questo incubo svanisca per sempre. Si prende coscienza che qualcosa è
cambiato definitivamente e che la vita di prima già non esiste più.
La comunicazione della diagnosi di disabilità rappresenta un momento
delicato in ogni fase dell’età evolutiva poiché, quando viene riferita ai
195 C. Gardou, Diversità…, op.cit., p. 78. 196 K. Oe, Un’esperienza personale, Corbaccio, Milano, 1996, p. 85-86.
84
genitori, questa sconvolge l’organizzazione del ciclo familiare197. I vissuti
più comuni propongono una divisione dei ruoli genitoriali: la madre
diventa il perno della vita della persona con disabilità senza lasciarsi spazi
di libertà, né per sé né per il figlio e, insieme a questo ruolo materno
predominante, lo spazio relazionale tra padre e figlio sarebbe giocato
sempre dal ruolo materno 198 . In questo senso il padre rimarrebbe
intrappolato in un “travestimento materno”199che non gli consentirebbe di
sperimentare un ruolo differente da quello di un padre con una funzione
prevalentemente “curante”.
Nel momento in cui i genitori vengono a conoscenza della disabilità del
figlio si pone il problema di come riuscire a creare un legame tra questa
immagine ideale che per nove mesi ha nutrito la mente dei genitori e la
realtà di un neonato imperfetto, fragile, speciale. L’angoscia e il senso di
colpa sono i principali ostacoli da superare: «Qual è l’origine della
disabilità di nostro figlio? Se fosse colpa nostra? Colpevoli di cosa?200».
Alcuni recenti studi 201 hanno analizzato il rapporto interpersonale,
affettivo e relazionale che si instaura fra il genitore e il bambino con
disabilità. Tali ricerche hanno dimostrato quanto, soprattutto nei primissimi
mesi di vita, il padre e la madre vivano la disabilità del figlio come,
appunto, una colpa personale ed arrivino a creare un rapporto con il figlio o
iperprotettivo, da un lato, o eccessivamente distaccato e freddo dall’altro.
Soprattutto nel padre, riferendoci a quanto scritto poc’anzi, la nascita di un
bambino disabile suscita la percezione di sentirsi inadeguato, incapace di
197 Cfr. M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai, L’incontro con la disabilità: implicazioni pratiche ed emotive, in M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai (a cura di), La famiglia di fronte alla disabilità. Stress, risorse e sostegni, Erickson, Trento, 2002. 198 L. Bichi, op. cit. 199 P.P. Charmet, Un nuovo padre. Il rapporto padre-figlio nell'adolescenza, Mondadori, Milano, 1999. 200 Ivi, p. 85. 201 P.M. Kearney&T.Griffin, Between joy and sorrow: being a parent of chid with developmental disability, Journal of Advanced Nursing, 34(5), pp. 582-592.
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proteggere e accudire il figlio: ciò si presenta come uno degli eventi più
stressanti e traumatici nel corso della vita di una persona, tanto da mettere
in crisi l’equilibrio di coppia e, nei casi più gravi, generare violente
rotture202. Il lutto è impossibile:
Perdere questo oggetto, significa perdere una parte vitale di se stessi. La
rinuncia è impossibile, poiché rinunciare al bambino immaginario,
significherebbe rinunciare all’immagine di genitori in grado di mettere al
mondo un bel bambino, attraverso il bambino che hanno concepito viene
messa in gioco la concezione di sé stessi. Il bambino immaginario conserva,
di conseguenza, il proprio posto, come un’ideale inattaccabile o un doppio
malefico. Una presenza pesante, sia per i genitori che per il bambino
handicappato.203
Esplicativa è l’affermazione di un padre che troviamo sempre all’interno
del volume sopra citato: «Mi si dice di elaborare il lutto. Ma lutto, significa
che qualcuno è morto… Il mio bambino non è morto, è vivo; handicappato,
sì, ma qui presente». Continua la perenne dicotomia tra un bambino
immaginario che si dovrebbe cancellare dal proprio presente e l’esigenza di
far spazio al bambino reale che è entrato ormai a far parte della famiglia,
della realtà sociale, del mondo. «In quegli ultimi giorni gli era parso di
vivere al di fuori della sfera del tempo che regolava la quotidianità delle
persone non afflitte dai morsi di un bambino mostro. Nemmeno in quel
momento Tori-bird era rientrato nella sfera del tempo delle persone
normali»204.
202 F. Dettori, Identità smarrite e processi di riappropriazione: affido e adozione, in A. Mura, A.L. Zurru (a cura di), Identità, soggettività e disabilità. Processi di emancipazione individuale e sociale, FrancoAngeli, Milano, 2013. 203 S.K. Sausse, Specchi infranti…, op. cit., p. 39. 204 K. Oe, op. cit., p. 181.
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Una dimensione ormai nota che coinvolge le famiglie cui nasce un figlio
disabile è senz’altro quella del tempo. È stato più volte ribadito quanto sia
importante la comunicazione della diagnosi proprio perché da quel
momento in poi la vita individuale, di coppia e, di conseguenza, familiare e
sociale subirà un drastico cambiamento. Il tempo si ferma e paralizza ogni
slancio vitale che la gravidanza, e poi una vita che nasce, avrebbe portato
con sé.
Occorre partire dall’assunto che la nascita di un figlio con disabilità
provochi un arresto all’interno del ciclo familiare tanto da modificare
l’intero manage domestico205, a conferma del fatto che la storia di una
persona disabile ha dei tempi e dei ritmi che non possono essere quelli
dell’orologio, delle terapie, delle riabilitazioni. O perlomeno, non può
essere solo questo. L’educazione delle persone disabili si articola lungo le
trame del “tempo vissuto”, lento, ma capace di operare i riconoscimenti che
merita.
Dunque, che ruolo ha il padre nel rapporto, specifico, con il figlio
disabile? Sicuramente i padri tradizionali anche in questo caso hanno
lasciato il posto ai “nuovi padri”: quest’ultimi hanno la possibilità di vivere
momenti di tenerezza e affettività con il bambino partecipando in prima
persona ai piaceri dell’accudimento materiale: cambiare il pannolino, dare
da mangiare, lavarlo, vestirlo. Questo, tuttavia, conduce ad un’eccessiva
maternalizzazione del ruolo paterno per cui l’unica affettività esprimibile
pare essere quella di marca femminile con il rischio che uomini e donne
facciano le mamme e nessuno faccia più il padre206. Nondimeno, l’esercizio
dell’autorevolezza è necessario anche con bambini e ragazzi con disabilità
205 Cfr. B. Farber, Effects of severely retarded child on family integration, «Monographs of the Society for Research in Child Development», n°75, 1960, pp. 67-90. 206 S. Argentieri, Il padre materno da San Giuseppe ai nuovi mammi, Meltemi, Roma, 1999.
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intellettiva o disturbi psichici: la sollecitazione offerta dal codice paterno
può infatti condurre a notevoli miglioramenti. Al contrario un’eccessiva
maternalizzazione dello stile educativo protrae la dipendenza207.
Secondo Stern il padre diventa «il sostituto materno, fallito o
inadeguato»: sicuramente la polarizzazione sulla figura materna sembra
precludere spazi a quello “specifico paterno” che dovrebbe garantire la
possibilità di definire modelli normativi ed agire più serenamente nei
confronti del figlio 208 . In tal senso l’introduzione scritta da Andrea
Canevaro all’autobiografia di Igor Salomone, in riferimento al rapporto con
la figlia Luna affetta da sindrome de Angelmann in cui si vive un
"itinerario" legato unicamente, o quasi, alle cure ricorsive, ossia a tutte
quelle azioni inerenti alla cura dei/delle figli/e che si ripetono ogni giorno
senza grandi alterazioni.
La tragedia insegna moltissimo, insegna per esempio il valore della cura.
Insegna anche che la cura non è un impegno in vista di un tempo in cui sarà
possibile goderne i frutti. La cura riempie il presente dando senso a un
rapporto.209
La cura rivolta ai soggetti umani, intesa dunque come “aver cura”, si
esprime verso persone con cui si è in un rapporto di reciprocità esistenziale
che rende significativa la presenza dell’altro210. Si continua a sottolineare
l’aspetto della maternalizzazione del padre indicando che entrambi i
genitori sono indotti ad assumere ruoli omogeni e interscambiabili. La cura
207 A. Battaglia, A. Canevaro, A. Chiurchiù M., Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, Carocci, Roma, 2005. 208 P. D’Atena, A. d’Elia, S. Mignani, Padri di famiglie. Ruolo e funzione paterna in terapia, in M. Andolfi (a cura di), Il padre ritrovato, op. cit. 209 I. Salomone, op.cit. p. 56. 210 M. Heidegger, Essere e tempo, trad.it. Longanesi, Milano, 1976.
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non è solo una caratteristica femminile, si delinea infatti «una figura
paterna che ha accesso alla dimensione intima della relazione con il
bambino, che desidera esserci nei momenti importanti della vita e della
crescita del figlio, e forse, proprio per questo, sembra vivere quella
condizione che gli consente di svolgere con maggiore efficacia quella
funzione pedagogica di sostegno e promozione all’autonomia del
bambino»211.
Oggi è richiesto molto ai padri ed è per questo che, in circostanze di
fallimento, «spesso non riescono ad attivare risorse sufficienti di fronte ad
una genitorialità delusa rispetto agli standard di elevate aspettative»212.
La presenza paterna […] arricchisce il mondo esperienziale del bambino,
attraverso un contatto differente da quello offerto dalla madre: il padre ha un
aspetto, un odore, dei suoni diversi, così come diverso è il suo modo di
toccarlo. Questa varietà di esperienze senso-percettive stimola l’apparato
mentale del bimbo che, gradatamente, arriva a distinguere e riconoscere la
persona che in quel momento lo accudisce.213
2.2. Il padre e il figlio disabile tra normatività e affettività
La maternalizzazione della funzione affettiva paterna fa sì che il padre, pur
presente, finisca per essere inglobato nell’area materna e rinforzi quel
“codice materno” dominato dal principio dell’appartenenza. Il codice
materno privilegia la soddisfazione sollecita del bisogno e come tale è
deresponsabilizzante, legato allo stato di indigenza ed inettitudine del
211 C. Bove, S. Mantovani, Padri, bambini e servizi per l’infanzia: esperienze e rappresentazioni, in N. Bertozzi, C. Hamon, Padri e Paternità, Atti del V Convegno Internazionale, 4-6 dicembre 2003, Ed. Junior, Forlì, 2005, pp. 58-59. 212 V. Iori, op. cit., 2006, p. 26. 213 A. Ambrosini, R. Bormida, Lo spazio e il tempo del padre. Funzione e senso della paternità, Edizioni del Cerro, Tirrenia, 1995, p. 43.
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bambino. Il “codice paterno” si fonda sul privilegiare il principio di realtà e
di prestazione e si traduce nella valorizzazione delle capacità e
dell’autonomia, favorendo la graduale separazione del figlio dalla madre
prima e dalla famiglia poi.214
Da anni ormai le ricerche scientifiche si occupano di genitori nel
rapporto educativo con il/la figlio/a disabile: la madre continua ad essere la
principale figura di riferimento nonostante il padre abbia iniziato a farsi
sentire.
Nascono i nuovi padri, come abbiamo più volte ribadito in questa sede:
uomini più capaci e in grado di far uscire la loro parte femminile. Cambiare
pannolini, preparare le pappe, spingere una carrozzina, accompagnare i
figli a scuola sono atteggiamenti a cui siamo già abituati. Una volta il padre
era totalmente, o quasi, assente nell’educazione quotidiana: il padre
incarnava l’autorità, quella a cui si ricorreva per sanzionare un capriccio o
per far valere una punizione. Se un tempo al padre si ubbidiva, ora gli si
obbedisce al pari della madre.
Oggi si riscontra un eccesso di compagnonnage 215 che, all’opposto
dell’autorità, provoca sempre un’educazione il più delle volte sbagliata.
Forse, anche nel campo dell’educazione, occorrerebbe una presenza
paterna con un ruolo diverso e autonomo rispetto a quello della madre, con
il ripristino di una forma di autorità affettuosa che non sconfini mai
nell’autoritarismo chiuso e ottuso, ma che sia comunque autorità216. Nel
corso degli anni viene promulgata l’attenzione all’aspetto affettivo del
rapporto come se fosse l’unica modalità per sviluppare una buona relazione
214 P. D’Atena, A. d’Elia, S. Mignani, Padri di famiglie. Ruolo e funzione paterna in terapia, in F. Fornari (a cura di), Il padre ritrovato, op. cit. p. 198. 215 M. Oggero, Assenza/ presenza, in La funzione paterna nella relazione educativa e di aiuto, op. cit. 216 Ivi, p. 12.
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genitore- figlio217. È importante ricordare che lo sviluppo dell’individuo si
compie attraverso una serie di relazioni in cui affetto e regole hanno lo
stesso peso e valore. Certo, assistiamo ad una minore rigidità dei ruoli e ad
una flessibilità nell’esercizio quotidiano delle capacità genitoriali, in
particolare se ci avviniamo al mondo della disabilità, ma questo non deve
condurre a precludere spazi che sono “specifici paterni” e che dovrebbero
garantire la possibilità di definire modelli normativi per agire più
serenamente di fronte alle difficoltà dei figli.218 La funzione genitoriale, e
quella paterna in particolare, è proprio quella di portare il bambino a
percepire l’importanza di aderire alla realtà e alle sue regole. I “no”
diventano uno strumento di lavoro necessario e importante. Il “no” va
motivato ed espresso in modo chiaro. Un genitore che è in grado di offrire
e porre dei limiti ai propri figli potrà rappresentare una base solida, un
garante che fornisce la giusta unità di misura per interpretare e vivere in
modo sano la realtà.219
I dubbi riguardo l’effettiva positività di un rapporto basato quasi
esclusivamente sulla protezione aumentano, dunque, nel campo della
Pedagogia Speciale. Nelle famiglie in cui sono presenti figli/e disabili
l’intervento del padre può collocarsi in modo assai problematico a fronte di
una sostanziale ambiguità dei ruoli: da un lato eserciterebbe un ruolo
simmetrico rispetto a quello materno, dall’altro potrebbe divenire una
presenza frustrante perché richiederebbe di più al figlio/a rispetto alla sua
effettiva potenzialità. L’esercizio dell’autorevolezza, però, appare
necessario anche in soggetti deboli, come insufficienti mentali e/o psicotici,
217 G. Pietropolli Charmet, A. Maggiolini (a cura di), Manuale di psicologia dell'adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano, 2004. 218 P. D’Atena, A. d’Elia, S. Mignani, Padri di famiglie. Ruolo e funzione paterna in terapia, op. cit. p. 194. 219 I. Baldassarre, C’è anche il papà, Erickson, Trento, 2006, pp. 51- 53.
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al contrario un’eccessiva maternalizzazione dello stile educativo potrebbe
protrarre in loro la dipendenza220. Sicuramente il padre esercita un ruolo
sociale che permette, non solo, un’alternativa al rispecchiamento materno,
ma anzi, attraverso il conflitto e la frustrazione, sosterrebbe
l’organizzazione del pensiero favorendone l’autonomia personale e la
separazione come strumenti per comprendere la realtà.
Soprattutto negli ultimi anni sono emerse un gran numero di biografie
che riguardano storie di vita di papà con un figlio/a disabile. Da un punto di
vista prettamente pedagogico è interessante notare quanto le narrazioni
emerse manifestino un bisogno sempre più urgente di raccontare – e
raccontarsi – dei padri. La paternità che spesso viene bistrattata, riacquista
attraverso le parole dei padri una luce nuova, diversa. Come ricorda Cambi
la narrazione permette all’individuo di essere costantemente un soggetto a
identità aperta221, e questo conduce a mettere in ordine specifici tasselli
della propria esistenza con una consapevolezza maggiore.
Quando riflettiamo sulla disabilità, tuttavia, la carenza della funzione
normativa paterna viene rilevata. In anni recenti studi clinici ed empirici
hanno dimostrato che la relazione del bambino con il padre lo inserisce già
in una diversa relazione, triangolare, e che in questo modo il padre stimola
il bambino a percepire diversi bisogni e a ricercare oggetti diversi per
rispondere a quest’ultimi. Il padre, come si è accennato, favorirebbe quindi
l’indipendenza, ma nel contempo avrebbe una funzione di tipo normativo,
di guida e di limite, senza mai divenire troppo frustrante in quanto ama ed è
amato dal figlio222.
220 A. Battaglia, A. Canevaro, M. Chiurchiù, Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, op.cit. 221 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2002. 222 A. Pazzagli, D. Vanni, Psicologia della paternità e funzione paterna, op. cit., p. 35.
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Quando i padri sono ascoltati, hanno molto da dire, a fronte del fatto che
la loro sofferenza non è minore di quella della madri, anzi forse la loro
solitudine è ancora più grande a causa dell’immagine sociale di una virilità
che non avrebbe diritto alle lacrime223. In un racconto autobiografico, Dites
nous comment suivre à notre folie224, Kenzaburō Ōe racconta la relazione
fusionale di un padre di un figlio gravemente disabile di cui si è
completamente fatto carico. La dimensione normativa sembra, quasi direi
scontatamente, venire ignorata. Illuminanti sono alcune pagine scritte da
Massimiliano Verga che, dopo il successo di Zigulì225, ci propone un nuovo
capitolo della sua vita: Un Gettone di libertà, titolo emblematico.
Non voglio dire che Moreno non conosca l’esistenza di alcuna regola. Ma
tolte le pochissime che ci ostiniamo a fargli seguire (tipo: non infilare le
mani nel water o non dondolare quando ci salta in braccio), perfino il giorno
e la notte sono due categorie che gli è consentito confondere (con gli
inconvenienti e le arrabbiature del caso, s’intende). Per certi versi di tratta di
una libertà invidiabile. […] Indubbiamente anche Moreno deve imparare a
rispettare le regole come ogni bambino. Perché altrimenti il mondo
continuerà a guardarlo come un alieno. Lo so… Ma a Moreno è già stato
tolto davvero tanto, credo. Non me la sento di comprimere anche quel poco
che è rimasto. […] Non posso nascondere che nei suoi confronti si debba
essere molto più elastici nelle richieste sul fronte del dovere. […] Moreno è
un bambino completamente non autonomo. Quello che sa fare, può farlo
soltanto se ha qualcuno vicino.226
Il concetto di libertà, legato imprescindibilmente al concetto di
autonomia, imperversa con molta tenacia tra le pagine di diverse
223 S. Sausse, Specchi infranti, op.cit., 2006. 224 K. Oe, Dites-nous comment survivre à notre folie, Gallimard, Parigi, 1966. 225 M. Verga, Zigulì, Mondadori, Milano, 2012. 226 M. Verga, Un gettone di libertà, Milano, 2014, pp. 125- 126.
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autobiografie di papà con un figlio disabile. È chiaro che quando si ha a
che fare con gravi malformazioni fisiche e cerebrali educare alla regola
assume dei connotati paradossali.
Lo scrittore e pedagogista Igor Salomone sottolinea che:
c’è qualcosa che non quadra laggiù, dalle parti del problema autonomia. Ho
detto che sopporto quando mia figlia si rifiuta di fare ciò che le
permetterebbe di scegliere. […] Tu stai facendo qualcosa, e noi ti chiediamo
di fare una scelta, una qualsiasi: vuoi mangiare la pasta rossa o la pasta
verde? Vuoi giocare o fare il bagno? Peggio: vuoi continuare a fare quello
che stai facendo oppure fare questa cosa che ti propongo? In ogni caso
raccogli un’imposizione: quella di dover compiere una scelta, mentre eri lì
che stavi facendo i fatti tuoi. Il problema è che chiederti di scegliere, con il
piglio democratico e partecipativo che ogni manuale del perfetto genitore
consiglia a piene mani, significa impedirti di non scegliere. È questo il vero
paradosso. […] Dover guadagnare un pezzo di libertà rinunciandovi.227
Il libero arbitrio, per usare un «concetto filosofico e teologico secondo il
quale ogni persona è libera di fare le proprie scelte, tipicamente perseguite
tramite volontà, nel senso che la sua possibilità di scelta è liberamente
determinata»228, non funziona per Luna, come non funzione per Moreno o
per Tommaso, e per tutti/e i/le ragazzi/e che come loro sono costantemente
in bilico tra il paradosso esplicitato da Salomone e «immaginare l’autistico
come il prototipo della libertà assoluta»229. Ed è infatti la parola libertà che
si contrappone in maniera quasi, oseremo dire, viscerale, alla parola norma.
Sembrerebbero essere in antitesi, eppure, la condizione stessa dell’essere
disabile prevede di per sé l’attenersi ad una regola, ad una costrizione a cui
227 I. Salomone, Con occhi…, op. cit. pp. 45- 47. 228 http://it.wikipedia.org/wiki/Libero_arbitrio [ultima consultazione: 25/01/2015] 229 G. Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, Mondadori, Milano, 2013, p. 109.
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non ci si può ribellare. Si legge nel vocabolario online della Treccani230 che
«nell’uso comune, la regola è la norma suggerita dall’esperienza o stabilita
per convenzione». Sicuramente l’esperienza dell’essere disabile obbliga a
un modo specifico di essere, ma nello stesso tempo libera da qualsiasi
condizionamento:
Tommy, e quelli come lui, sono liberi […] a loro non interessa la
dimensione sociale della libertà, sono profondamente e geneticamente spiriti
liberi; forse proprio per questo hanno difficoltà a convivere con noi,
condizionatamente liberi, o meglio, artificiali cultori della libertà. […]
Tommy è sempre oltre la linea gialla che ossessivamente cartelli e annunci
ci ricordano di non oltrepassare, pena la fine della vita. […] Noi siamo stati
educati a rispettare le linee gialle, e quando le oltrepassiamo, lo facciamo
con la consapevolezza di disprezzare delle regole basilari a cui siamo stati
imbullonati sin dal concepimento. […] Tommy è come un daltonico, per lui
la linea gialla non c’è, o meglio, è affogata nel grigio incolore della
banchina. Non c’è la linea gialla e quindi non c’è una zona di sicurezza, non
c’è una regola che salvaguardi.231
Se lo spazio vitale dei figli viene forzatamente invaso dai genitori,
questo spazio si restringe, si avviluppa su se stesso, diviene uno spazio ad
una sola dimensione, non soltanto perché viene fruito nella sua limitatezza
determinata dalla mancata reciprocità di cura tra figli e padre, ma
soprattutto perché viene espropriato dalla possibilità stessa di proiettarsi nel
futuro. L’educazione, che prevede anche l’aspetto normativo, è
essenzialmente un tempo che si dilata in uno spazio, e in più spazi che
costituiscono l’ambiente globale di vita della persona; nella dimensione
230 http://www.treccani.it/vocabolario/norma/ [ultima consultazione: 02/02/2015] 231 G. Nicoletti, Una notte ho sognato…, op.cit., pp. 109- 110.
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della disabilità, a seconda ovviamente della gravità di quest’ultima,
vengono a mancare i presupposti per esercitare una piena autorità paterna.
Vi è cioè un problema nel «distanziamento educativo»232: la funzione
educativa con le persone disabili sembra non esserci. C’è una sorta di
«troppo vicino» che non finisce mai e che è sempre caratterizzato dalle
stesse carezze, spiegazioni, protezioni, ovvero delle modalità relazionali
che testimoniano un approccio educativo del non allontanamento233. Il
distanziamento, inoltre, non è facilitato dal conflitto adolescenziale che
solitamente conduce nel viaggio verso il mondo dei grandi. Con il figlio
disabile è difficile trovare il giusto distanziamento a motivo della mancata
autonomia. Uno degli impedimenti maggiori per l’evoluzione del figlio
disabile, infatti, è rappresentato dalla fissità, stereotipia e rigidità
comportamentale dei genitori nella cui mente non trovano posto le
prospettive emancipatorie e il cammino del bambino verso l’indipendenza.
Tale ragionamento prevede, ovviamente, la necessità di guardare al tipo di
disabilità del figlio, essendo consapevoli però che:
anche un bambino imperfetto cresce, può crescere, può rinforzare le
funzioni autonome dell’Io, può imparare a dominare le aree impellenti dei
bisogni trasformandola in capacità di desiderare, può creare un’aspettativa
rivolta al futuro e sorreggerla con una migliore autostima. E questo si
verificherà solo se i genitori saranno capaci di sostenere un rifornimento
affettivo costante e orientato verso l’approvazione dei progressi e
l’accettazione degli insuccessi, e non verso l’iperprotezione, la sostituzione
o la negazione.234
232 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale, Pregedit, Bari, 2012. 233 Ivi, p. 89. 234 S. Godelli, Il bambino con handicap e la sua famiglia, Laterza, Bari, 2002.
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È necessario dunque un cambiamento profondo nella prassi quotidiana
«che parta dalla convinzione che devono essere aperte a tutti le possibilità
di crescita e che ogni persona per svilupparsi deve essere innanzitutto
riconosciuta nella propria realtà, con le proprie caratteristiche, le proprie
abilità e anche i suoi limiti: allora ci sarà posto per tutti»235.
2.2.1. Il dopo di noi
La famiglia, come abbiamo più volte ribadito, è il primo ambiente in cui
il figlio/a disabile vive e in cui, parallelamente, manifesta i propri bisogni e
le proprie difficoltà, dunque, è anche il primo ambito in cui si attiva una
risposta all’eventuale problema.
È auspicabile, dunque ragionare, sul significato del termine “sostegno”
dal latino sustinere, tenere in alto, portare sopra di sé. In senso figurativo
potremmo interpretarlo come reggere, proteggere, mantenere. La parola ha
due accezioni significative: da un lato il portare aiuto e il sorreggere,
dall’altro si intreccia all’azione di contrastare e di resistere ad una
avversità. Accanto al vocabolo latino sustinere troviamo quello di projectus
che letteralmente indica l’azione del gettare avanti, di ciò che si ha
intenzione di fare in avvenire. Presuppone pertanto un’idea di futuro e la
motivazione a realizzare qualcosa236.
Negli ultimi anni l’approccio allo studio della famiglia del disabile sta
subendo delle modifiche: si sta abbandonando la logica che si concentra
maggiormente sulle difficoltà, per focalizzarsi invece sui punti di forza, le
competenze e le risorse. Scrive Pati:
235 M.G. Breda, E. Santanera, Handicap: oltre la legge quadro. Riflessioni e proposte, Utet, Torino, 1995, p. 209. 236 C. Gemma, La didattica speciale: il tratteggio per una delineazione, op. cit., pp 83- 93.
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tra gli ambienti che partecipano alla e della vita dell’uomo, la famiglia
occupa senza alcun dubbio un posto privilegiato. La trama dei suoi legami,
governata da regole, sotto l’aspetto pedagogico si costruisce come archetipo
relazionale, suscettibile o d’incanalare e incrementare o di svilire e
pregiudicare le potenzialità individuali.237
Spesso, in alcune famiglie, le risorse non vengono attivate
spontaneamente: è necessario, talvolta, un intervento finalizzato al
potenziamento e all’uso delle risorse intrafamiliari quali
la conoscenza del problema, la capacità di affrontare razionalmente le
situazioni problematiche, le abilità di risoluzione di specifici problemi nel
rapporto con i figli, come quelli educativi, la fiducia nelle proprie capacità,
le relazioni che permettono di creare un clima di benessere psicologico tra i
vari membri della famiglia.238
Un ambiente familiare supportato e sostenuto dalla rete sociale «mira a
dimostrare che la famiglia con disabilità in molti casi non solo sopravvive
alla situazione continuando a funzionare, seppure a “scartamento ridotto”,
ma la fronteggia attivamente, sviluppando al proprio interno valori positivi,
risorse vitali e coagulando aiuti esterni»239.
Lavorare con la famiglia, con la madre e con il padre, renderà possibile
anche arginare sin da subito l’ansia e la preoccupazione che si installano
nella mente dei genitori relativamente al dopo di noi. Quello che accade
“dopo”, ossia il momento in cui il figlio rimane senza i genitori, si carica di
angoscia.
237 L. Pati, Progettare la vita. Itinerari di educazione al matrimonio e alla famiglia, La Scuola, Brescia, 2004, p. 227. 238 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale, op. cit., p. 103. 239 M. Pavone, Progettualità familiare agli inizi difficili della vita, in M. Pavone (a cura di), Famiglia e progetto di vita. Crescere un figlio disabile dalla nascita alla vita adulta, Erickson, Trento, 2009, p. 28.
98
Con il miglioramento delle tecniche e cure mediche l’aspettativa di vita
delle persone disabili diviene sempre più lunga, e con essa però, coincide
l’avanzamento d’età dei loro genitori. La paura per il figlio, visto come
troppo fragile per affrontare autonomamente il futuro, finirebbe solamente
per incrementare un legame iperprotettivo che crea tensione e non produce
cambiamenti. Sarebbe grave pensare che la cura e la responsabilità verso
un figlio disabile sia una questione meramente privata: sarebbe preferibile
che fossero i genitori, insieme alla scuola, ai servizi, al territorio, a
preparare il dopo di loro.
In un contesto di complessità come quello sin ora descritto può assumere
un ruolo centrale, nella promozione della qualità di vita delle famiglie,
l’incontro con altre famiglie e/o nuclei che condividono analoghe difficoltà.
È interessante il paragone tra il ruolo delle associazioni a quello agito dalla
figura paterna:
come il padre favorisce il graduale superamento dell’egocentrismo infantile,
che spinge a concentrarsi esclusivamente sul proprio bisogno, ed insegna ad
aprire lo sguardo sul mondo, così l’associazionismo maturo non svolge un
mero compito di rivendicazione corporativa, ma funge da mediatore sia nei
confronti degli altri portatori di bisogno che nei confronti delle istituzioni.240
Grave sarebbe pensare che la cura e la responsabilità verso un disabile
sia una questione meramente privata. Sarebbe infatti auspicabile che il
tanto sofferto dopo di noi, fosse accompagnato con un programma del
durante noi, perché solamente in questo modo si avrebbe a disposizione un
tempo utile per verificare le scelte, calibrare gli interventi e intervenire
laddove si ritenga necessario.
240 C.M. Marchisio, Associazionismo famigliare e ruolo paterno, op.cit., p. 197.
99
Assai raramente si prende in considerazione il fatto che la persona disabile
oggi è un adolescente, domani diventerà un adulto con tutti i diritti e i
doveri che questo passaggio impone al singolo soggetto, ma con tutte le
responsabilità che una comunità sociale deve assumersi nei confronti delle
persone più deboli […] La famiglia a volte non è in grado di comprendere
l’importanza di comprendere l’importanza di un progetto educativo e sociale
da iniziare a scuola, durante gli anni dell’obbligo, e che deve con
lungimiranza proiettarsi in un futuro prossimo.241
Infatti, per quanto si possa pensare che i genitori seguano il proprio
figlio/a sino agli ultimi giorni della propria vita, è evidente che, prima o
poi, invecchieranno e il disabile sarà curato, inevitabilmente, da qualcun
altro.
Massimiliano Verga, sociologo del diritto e già citato in precedenza,
scrive nel suo primo romanzo autobiografico un commovente e
assolutamente incisivo paragrafo intitolato Ci vediamo alla prossima?, che
vorrei riportare per intero qui di seguito:
se morirai prima di me, soffrirò di meno. Non è un discorso da padre, lo so.
Un padre non dovrebbe nemmeno pensarle certe cose. Ma nel tuo caso è
così. Perché la ferita perderebbe un sangue più dolce, perché potrei soltanto
marcire nel mio dolore, senza però preoccuparmi del dopo di me. Se invece
morirò prima io, al pensiero del dopo si aggiungerà la mia paura per il tuo
dolore, che sarà quello di un figlio abbandonato senza capire perché. Non
trovo le parole per dirti che potrebbero succedere. E se anche le trovassi, tu
non riusciresti a capirle. Allora, me la gioco così, mettendo un po’ di panna
sulla torta della retorica. Se toccherà prima a te, un po’ comincerò a morire
anche io e può darsi che ci incontriamo presto. Se toccherà prima a me, se
241 L. d’Alonzo, Pedagogia Speciale per preparare alla vita, La Scuola, Brescia, 2006, p. 87.
100
credi che valga la pena, fai pure con comodo e tieni duro finché puoi. In
ogni caso, io ti aspetto. Non sei obbligato a venirmi a cercare. Ma se ti gira
di fare così, sarò contento di continuare a incazzarmi con te.242
E ancora:
c’è anche un dopo che prima o poi arriverà, fatalmente. Mi auguro il più
tardi possibile e, tutto sommato, spero che Moreno possa morire prima di
me. Ma non è escluso che sia io ad andarmene prima di lui. Ci sarà bisogno
di qualcuno che continui a dargli la pappa e a pulirgli il sedere. Più o meno,
è questa la mia ansia del dopo. Dico che non ci penso, ma è una bugia.243
Ancora una volta la dimensione del tempo è assolutamente prioritaria.
Così come la famiglia è un sistema di relazioni, anche il tempo in famiglia
e della famiglia è un tempo relazionale, quale sintesi dei tempi che i
genitori dedicano ai figli e di quelli che i figli passano con il padre e la
madre. Può essere utile, allora, pensare sin da quando i genitori sono ancora
in vita ad un progetto che veda i figli quanto più possibili indipendenti: la
famiglia non può essere lasciata sola, anzi, come caldeggia Andrea
Canevaro «l’educazione al distacco e all’autonomia e alla cura personale
dovrebbe cominciare già dall’adolescenza, attraverso periodi residenziali di
respiro per la famiglia e di training intensivo delle abilità del giovane alla
vita sociale e comunitaria»244.
Si va alla ricerca, dunque, di un tempo relazionale, che è anche un tempo
vissuto, e che rimane nella memoria e nei costumi profondi e sociali degli
individui. Negli adulti che sono gli eredi dei bambini che sono stati. Tant’è
242 M. Verga, Zigulì, Mondadori, Milano, 2012, p. 184. 243 Ivi, p. 93. 244 Cfr. A. Canevaro, D. Ianes, Diversabilità, Erickson, Trento, 2003, p. 136.
101
che in moltissimi approcci terapeutici, la spiegazione di molte condotte
recenti viene fatta risalire all’infanzia e si indaga in ordine a quei tempi, a
quegli spazi e a quelle esperienze lontane.
Il tempo relazionale però, non può essere solo un tempo qualità. Non può
darsi, infatti, una qualità specifica del tempo e dell’esperienza che lo
attraversa e lo coinvolge senza la ragionevole e necessaria quantità del
tempo occorrente: il “cosa” e il “quanto”. Il tempo relazionale in famiglia
esige pertanto sia un tempo qualità, sia un tempo quantità: la dimensione
della durata. Ed è proprio la dimensione della durata che, in rapporto al
figlio disabile, ha sicuramente un ruolo molto importante. Per troppi secoli
la grande tradizione culturale, particolarmente di ambito filosofico, ha
ragionato il tempo, in termini di mera soggettività. In opposizione ad una
letteratura naturalistica che lo misurava in secondi, minuti e ore. Come se si
trattasse di due tempi diversi, che toccava poi al singolo individuo ridurre o
riportare ad unità.
Pure in ordine al vissuto c’è da operare una preliminare chiarezza. È
vero che il vissuto è l’espressione di uno specifico ed autonomo
posizionamento del singolo in relazione alle esperienze che compie o a
quelle a cui assiste: una sorta di selezione mnestica ed affettiva o di
ricomposizione delle tante sfaccettature o dei molti reticolati di una storia
personale pure esperita o testimoniata. Ma è altrettanto inoppugnabile che
il vissuto non è il frutto di un’immaginazione individuale, è piuttosto
l’assunzione di un particolare punto di vista parimenti vero da mediare poi,
nel dialogo e nel confronto, con i vissuti di paritarie verità in possesso degli
altri singoli interessati.
Al fondo cioè di ogni interpretazione, e pertanto di ogni vissuto, anche in
merito al tempo, ci sono fatti, misure, concretezze, dati inequivocabilmente
oggettivi, riscontrabili, calcolabili e rapportabili tra loro come con tutti i
102
possibili elementi di realtà. Così come la famiglia è un sistema di relazioni,
anche il tempo in famiglia e della famiglia è un tempo relazionale, quale
sintesi dei tempi che i genitori dedicano ai figli e di quelli che i figli
passano con il padre e la madre245.
2.2.2. Insettopia: un futuro per i ragazzi/e disabili
La progettazione degli interventi viene ovviamente legata alle esigenze
delle persone, tenendo presente, oltre ai problemi contingenti e reali, le
potenzialità e le possibilità di auto- realizzazione dell’individuo disabile. I
servizi dovrebbero, pertanto, assicurare e garantire la presa in carico del
soggetto, definendo di volta in volta, i sostegni da attivare nelle diverse
tappe rivolte all’autonomia.
Occorre, dunque, mettere in atto azioni significative di cambiamento:
cosa può fare un padre per assicurare un futuro al figlio/a disabile? Una
delle tante, troppe, domande che assillano la mente di un genitore che sa di
non poter vivere per sempre accanto al figlio.
Se durante l’intero ciclo familiare l’acquisizione dell’indipendenza da
parte del/della figlio/a permette ai genitori la riconquista dei propri spazi,
nella famiglia con un/una figlio/a disabile si perde il possesso del tempo
«proprio nel momento in cui, una volta cresciuti, avrei pensato di poter
finalmente tornare ad esserne padrone»246.
È così che Gianluca Nicoletti, già autore del successo letterario “Una
notte ho sognato che parlavi” 247 , continua a trascinarci nella sua
vita/vicenda facendoci conoscere, ancora meglio Tommy, il suo ragazzone
245 B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, tr. It. A. Bottini, Feltrinelli, Milano, 1990. 246 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa ci inventeremo, op.cit., p. 42. 247 G.Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, op.cit.
103
riccioluto. “Alla fine qualcosa ci inventeremo”248 è la nuova autobiografia
del giornalista-papà nella quale, tra realtà e utopia, sintetizza il dramma di
tutti i genitori di ragazzi/e autistici/ autistiche, ma in generale disabili: il
“dopo di noi”. Una domanda che percorre l’intera esistenza dei genitori e
che si fa sempre più angosciante e pressante relativamente al trascorrere del
tempo.
Gli incubi sul “dopo di noi” vengono alimentati dalle piccole cose:
io devo fare i conti con le esigenze di mio figlio anche dopo lo svezzamento
o l’età in cui non si possono lasciar soli. Io avrò sempre bisogno di qualcuno
che faccia da baby sitter di un omone che non può rimanere solo in casa la
sera.249
Da qui nasce l’esigenza del cosa fare e del cosà farà:
finché un giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un
vecchietto che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso
pensare che sarò io. […] Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di
un mio possibile futuro.250
E quando le giornate trascorrono alla ricerca di uno spazio dove il figlio
possa muoversi senza farsi male, senza fare male, senza “disturbare”
significa che bisogna muoversi in direzione di qualcosa.
L’intento di Nicoletti è far nascere la consapevolezza che l’autismo non
è un mondo di ragazzi silenziosi dalle qualità eccezionali, anzi, l’autismo è
un disturbo che richiede cura costante e infinita:
248 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa ci inventeremo, op. cit. 249 Ivi, p. 47. 250 Ivi, p. 189.
104
e a volte è impietosamente necessario fare un punto di chiarezza, proprio
perché non si accenda all’istante la speranza in ogni altro genitore
d’autistico che il proprio ragazzo, magari incapace di dire “mamma”, possa
ambire all’inimmaginabile traguardo della laurea. […] Sarebbe altrettanto
grave del far credere che tutti gli autistici siano come il protagonista di Rain
Man, o come il prodigioso piccolo veggente matematico della serie
televisiva Touch.251
Tutto ciò che può rendere la vita più semplice e, se possibile, felice per
un ragazzo/a autistica risiede nella possibilità di costruire una piccola città
fatta su misura per lui/lei: la città ideale non esiste, Nicoletti però sta
cercando di immaginarla e di avviarne una costruzione. L'ha chiamata
“Insettopia”, la terra promessa degli insetti evocata in Zeta la formica252, ed
è il luogo dell’immaginario sognato da chiunque si prenda cura di ragazzi/e
autistici. È un universo contenuto in altri universi infinitamente più grandi
e quindi incommensurabili per delle povere formichine.
Insettopia rivendica la possibilità di far vivere dignitosamente i/le ragazzi/e
autistici/autistiche, soprattutto quando l’entrare nell’età adulta trasforma
quei ragazzi silenziosi in fantasmi, esseri invisibili e disperati.253
Gianluca Nicoletti, avvalendosi del sostegno di un pool di specialisti in
varie discipline, sta studiando il “format di insettopia”. Qualcosa di molto
concreto:
251 Ivi, p. 29. 252 Z la formica è un film d'animazione del 1998, diretto da Eric Darnell e Tim Johnson. È il primo film in CGI della DreamWorks. 253 http://insettopia.it [ultima consultazione: 05/03/2015]
105
non un modello di segregazione. […] Non è davvero facile immaginare
soluzioni sensate per i propri figli, quando si è sopraffatti dalla difficile
gestione del quotidiano, fatta di contrattempi, di incomprensioni, di
interlocutori sempre troppo distratti per convincerci di avere veramente
intenzione di adoperarsi per assicurare anche solo la dose minima di felicità
possibile ai nostri ragazzi.254
Sta emergendo una novità e una soluzione davvero reale: un modello che
possa consentire a
piccoli gruppi di sette otto famiglie al massimo, con similari problemi di
gestione di un figlio autistico (stessa fascia d’ età simile livello di disabilità)
di organizzarsi come se fossero a tutti gli effetti una piccola azienda,
mettendo in comune risorse pubbliche e personali, educatori, eventuali
seconde case disponibili per costruire un progetto di vita attiva e felice per i
propri figli.255
Come fa notare Donati, quella in cui ci si trova oggi è una rivoluzione
antropologica dell’idea di lavoro, che ne ridefinisce il significato e la sua
intenzionalità e che non può fare a meno di costituirsi non solo come
fattore economico, ma anche e soprattutto come fatto sociale256. Quando si
parla di formazione professionale ci si riferisce, dunque, ad uno dei pilastri
fondamentali per l’integrazione sociale delle persone disabili nel tessuto
della comunità. Certamente il presupposto da cui ripartire è la rivalutazione
del fattore relazionale, quale condizione necessaria alla autorealizzazione
254 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa…, op cit., p. 94. 255 http://insettopia.it [ultima consultazione: 05/03/2015] 256 Cfr. P. Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in un’economia post-moderna, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, pp. 20-27.
106
della persona e alla riconfigurazione del lavoro come attività propriamente
umana257.
Da dove cominciare allora un percorso significativo che apporti sviluppo
nei soggetti disabili? Sono molte le considerazioni che potremmo fare
intorno all’iniziativa sopra menzionata, e anche in circolarità virtuosa con il
punto da cui siamo partiti, ci consentiamo una constatazione: restiamo
colpiti nel rilevare come, ormai entrati da quasi tre lustri negli anni
Duemila, siano ancora le utopie e i progetti utopici ad aprire varchi ai
bisogni reali (quelli sì) delle persone. A dimostrazione che, come afferma
Filippo Trasatti, l’anelito utopico resta un motore ineludibile della
progettualità pedagogica 258 . Forse, l’educazione creativa 259 può
rappresentare un valido punto di partenza per inserire i soggetti disabili
all’interno del mondo lavorativo, poiché mira al riconoscimento e alla
promozione dell’autenticità del soggetto attraverso l’esaltazione e la
valorizzazione delle emozioni. I ragazzi/e disabili imparerebbero a far
propri stili relazionali positivi e produttivi con la possibilità di trasferire la
padronanza anche in contesti esterni, quali quelli lavorativi.
2.3. Il padre e il figlio disabile nelle famiglie separate
Oggi tutto, o molto, è sicuramente in crisi. La crisi delle persone di
ogni genere, età e fascia sociale. La crisi dei bambini di fronte ai loro,
troppi, genitori che si separano e divorziano. Che vengono sballottati da
molte mani (talora insicure e contraddittorie), in diverse case, da adulti
257 Cfr. P. Donati, Il lavoro e la persona umana, Vicariato di Roma, Roma, 2005. 258 F. Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, Eleuthera, Milano, 2004. Si vedano anche: F. Bocci, Letteratura, cinema e pedagogia. Orientamenti narrativi per insegnanti curricolari e di sostegno, Monolite, Roma, 2005; F. Bocci, Paul Robin. Un pedagogista libertario a cento anni dalla morte, in «Ricerche Pedagogiche», 183, 2012, pp. 23-29. 259 Cfr. B. Rossi, Educare alla creatività. Formazione, innovazione e lavoro, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 79.
107
poco adulti in conflitto tra loro, che li usano, magari inconsapevolmente,
quale merce di scambio, per continuare le proprie sciocche guerre di
posizionamento, facendo loro del male, colpevolizzandoli o
ignorandoli260.
Alla pedagogia e all’educazione, in reciprocità sinergica, è affidato il
compito, precipuo ed essenziale, di portarci fuori dalla crisi,
riconoscendo dunque la necessità di un cambiamento necessario e
ineludibile. Intendiamo quindi una crisi quale katastrofè261 positiva che
ci potrebbe condurre verso una società, diversa e migliore, aprendoci
pure a livelli di maggiore vivibilità umana e di più ampio rispetto
reciproco.
Ci riferiamo ad una famiglia quale tessuto sociale non più unitario, ma
frantumato e diviso, che però ha tenuto nel tempo, nonostante le sue
difficoltà e criticità, nelle differenti fasi storiche, trasformandosi da
patriarcale a nucleare, da autoritaria a progressivamente autorevole, se
non ancora autenticamente democratica, da numerosa, in termini
procreativi, al cosiddetto “figlio unico”: ecco giungere, oggi, alla
“galassia”, disarticolata e disomogenea, con tratti non lievi di conflitto e
di “opposizione” al proprio interno, delle “famiglie” attualmente
esistenti, e al caleidoscopio, talora poco luminoso e brillante, delle
odierne relazioni educative e familiari, ai molteplici “modelli storici”
vigenti in proposito, che le “sottendono” e le giustificano, alla sua crisi.
Che altro non è che la crisi evolutiva di una società in fortissima e rapida
trasformazione, sullo sfondo della globalizzazione e della società-
260 F. Dolto, Come allevare un bambino felice e farne un adulto maturo, Mondadori, Milano, 1992. 261 Cfr. R. Thom, M. Berry, R. Dodson, J. Passet, G. Petitot, G. Giorello, M. Caglioti, J. Mistri, La teoria delle catastrofi, tr. It. FrancoAngeli, Milano, 1985.
108
mondo di Edgar Morin262, dove passano e si contaminano, con una
velocità impressionante valori e disvalori. Ma, dopo la sua “pseudo-
morte”, non sappiamo bene quanto temuta, «non potrà esserci altro che
la famiglia», argomenta la pedagogista padovana263Carla Xodo. Il venire
meno della famiglia comporta, difatti, l’eclissi dell’educazione, di
un’educazione che riguarda sostanzialmente “l’aver cura”.
Nel contempo, e con sempre maggiore forza e insistenza, vi è il
desiderio del padre: non già del padre di ieri, talora autoritario, distante,
rigidamente prescrittivo. Ma di un padre nuovo, presente, dialogico,
tenero. Perché la famiglia non sia più declinata soltanto al femminile, ma
si avvicini al padre che “apre il figlio al mondo”, di contro ad una madre
che freudianamente sembra invece trattenerlo all’interno delle pareti
domestiche264.
Riferendoci alle ricerche ISTAT condotte nel biennio del 2006/2007 si
può osservare come, già da allora, il tempo che i padri trascorrevano
insieme ai figli fosse in aumento. Saremmo tentati di affermare, quindi,
che il padre non solo non è assente, ma anzi, non è mai stato così
presente. Innanzitutto quando si parla di assenza della funzione paterna,
è opportuno precisare che non si parla dei padri in carne ed ossa, ma
appunto di una funzione che può essere presente tanto nel padre, quanto
nella madre. In molte famiglie dunque il padre è molto più presente di un
tempo, anche grazie alla maggiore disponibilità di tempo libero, e le
funzioni materna e paterna sono diventate cosi pressoché
intercambiabili. I due genitori si incaricano di svolgere ambedue compiti
262 E. Morin, Il soggetto ecologico di Edgar Morin. Verso una società-mondo, Erickson, Trento, 2009. 263 C. Xodo, Dopo la famiglia, la famiglia…, op. cit. 264 M. Stramaglia, Dentro la famiglia, Armando, Roma, 2009.
109
di accudimento materiale, e sono entrambi impegnati nel sostegno
affettivo265.
Allo stesso tempo, però, cresce il numero dei divorzi. La separazione
e il divorzio non sono eventi che si realizzano in tempi brevi. Essi
comportano un vero e proprio percorso, una successione di fasi, che
permetta alle persone implicate di elaborare interiormente quanto
accaduto, di ristrutturare le proprie relazioni e di raggiungere una nuova
organizzazione familiare. Il divorzio genitoriale riguarda l’assunzione di
responsabilità nei confronti dei figli. Il divorzio mette fine al
matrimonio, ma non alla genitura. La Legge permette di dividersi dal
coniuge, ma non dai propri figli. E in taluni contesti diviene faticoso
suddividersi precisi compiti nell’accudimento dei figli. In circostanze di
“fallimento” matrimoniale, quindi, la relazione genitoriale potrebbe
precipitare nello scoraggiamento e spesso sono i padri che non riescono
ad attivare risorse sufficienti di fronte ad una genitorialità “delusa”
rispetto agli standard di elevate aspettative. Lo dimostrano chiaramente i
frequenti allontanamenti paterni successivi alla nascita di un figlio con
diagnosi di disabilità.
Si è molto dibattuto sulla questione della paternità dopo il divorzio, a
ragione del fatto che la separazione, almeno sino a pochi decenni fa, non
riguardava soltanto la rottura con la moglie, ma anche con i figli, che
venivano a perdere ogni contatto affettivo e sociale con il padre.
È interessante studiare da cosa viene provocato lo stress familiare e in
che modo si attui il suo eventuale superamento, spiega Eugenia
Scabini266, e ancora, quanto le abilità di coping, inteso come stile attivo e
265 J. Delumeau, D. Roche, Histoire des pères et de la paternité, Larousse, Parigi, 1990. 266 E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
110
spontaneo di affrontare ogni aspetto della vita familiare durante le fasi
del ciclo di vita, vengano esercitate da entrambi i genitori.
Come abbiamo più volte ribadito in tale sede, la nascita di un bambino
con un ritardo nello sviluppo o con qualche altro problema è un trauma
che ferma il corso del tempo e, quando il tempo si ferma, si blocca anche
la capacità di andare avanti con l’immaginazione, oltre il presente.
Improvvisamente il futuro diventa imprevedibile, emotivamente
inimmaginabile. Viene cancellato anche il passato, e con esso tutte le
speranze e le fantasie della gravidanza. I genitori diventano così
prigionieri di un presente che non ha mai fine. Si sono intensificati, a
partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le ricerche per rilevare le
conseguenze che la presenza di un figlio disabile può determinare a
livello di vissuto dei genitori e di dinamiche relazionali che intercorrono
tra i membri della famiglia e che si ripercuotono sulle modalità
educative.
Se è scontato affermare che la famiglia, quali che sia la sua natura e la
sua struttura, ricopre un ruolo importantissimo nella maturazione della
persona nel corso del suo sviluppo, quando è presente un figlio con
handicap essere genitori comporta una responsabilità complessa,
impegnativa e particolarmente onerosa.
La prima ricerca che ha indagato la reazione psicologica ed emotiva
dei padri con un figlio disabile è svolta da Santo di Nuovo e Serafino
Buono267 e ha riguardato, per l’appunto, i condizionamenti determinati
dal figlio con ritardo mentale nella struttura e nelle dinamiche familiari.
Le maggiori problematiche emerse riguardavano i ruoli parentali, la
relazione di coppia, i sentimenti dei genitori e quindi una situazione di
267 S. Di Nuovo, S. Buono (a cura di), Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento, Città aperta Edizioni, Enna, 2004.
111
più complessa gestione. Relativamente ai ruoli parentali si deduce
chiaramente che le madri hanno un particolare protagonismo nella cura
del figlio/a disabile.
Secondo l’ipotesi di Olson268, poi, quanto più un individuo, una
coppia, una famiglia, un gruppo di lavoro privilegiano, nei momenti di
stress, gli aspetti di vicinanza emotiva e di flessibilità circa le regole e le
strutture di potere e sviluppano una buona comunicazione, tanto più
l’evento o la situazione stressante hanno la possibilità di essere superati.
Un maggior coinvolgimento del padre, almeno come coscienza di
ruolo, se non certamente come impegno effettivo, è collegato al vivere in
città e/o a un buon livello culturale. Santo di Nuovo e Serafino Buono269
hanno indagato le trasformazioni che avvengono nella vita di coppia
dopo la nascita di un figlio/a con ritardo mentale e si domandano se il
divorzio potrebbe essere consequenziale alla nascita del figlio disabile.
La via di fuga più seguita, soprattutto dai padri, consisterebbe nel farsi
assorbire sempre di più dal lavoro extra familiare. Altro metodo di
allontanamento dalla situazione dolorosa è quello di trasferire su altri
(servizi, operatori, istituzioni, società) le colpe e il dovere di dare
risposte adeguate. O ancora, il sentimento emerso è la vergogna.
Dalla ricerca, condotta attraverso un colloquio con le famiglie, emerge
una netta suddivisione delle figure parentali: infatti, per il 75% erano
mamme, per il 17% vi erano entrambi genitori, per il 7% padri e infine
per l’1% altri, (fratelli maggiori) e come principali motivazioni che
andavano a giustificare un allontanamento paterno, spiccavano:
• l’impegno lavorativo del padre, vissuto come realtà o come fuga,
da non poter essere derogato neanche in momenti importanti come
268 P. Gambini, Psicologia della famiglia, op. cit., p. 245. 269 S. Di Nuovo, S. Buono, op. cit.
112
quello della valutazione delle difficoltà e delle potenzialità del
proprio figlio;
• l’idea che dei figli si debba interessare la madre in modo quasi
esclusivo;
• un eventuale atteggiamento di rifiuto, che si manifesta più nei
padri che nelle madri, a causa della delusione provata perché il
figlio non corrisponde alle proprie aspettative.
Norberto Galli nel suo volume Pedagogia della famiglia ed
educazione degli adulti definisce un ruolo genitoriale presente
fisicamente, ma assente emotivamente:
Molti, anche se fisicamente presenti in famiglia, non sono vicini ai figli
sotto i profili affettivo ed empatico. Non condividono le loro gioie e pene,
non s’interessano dei loro problemi, trascurano le loro attività, non
partecipano alla loro vita né scolastica né extrascolastica. Sono convinti che
occorra proteggere la loro salute fisica, ignari come sono che c’è una salute
psichica, sociale, spirituale da tutelare in pari misura per attingere il pieno
benessere.270
Ed è la stessa questione a cui fa riferimento Vanna Iori271 quando
scrive del “prendersi cura incurante”, ovvero quando i genitori cucinano
per i figli, li vestono, li aiutano a fare i compiti, ma sembrano compiere i
gesti meccanicamente senza accompagnarli da un sorriso, da una parola,
da un contatto corporeo.
In questi casi la madre sembrerebbe avere, ed esercitare, una posizione
di forza nei confronti della figura paterna, la quale, a volte viene
270 N. Galli, Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Vita e Pensiero, Milano, 2000, p. 197. 271 V. Iori, Separazioni…, op. cit.
113
addirittura screditata e denigrata proprio per evitare ogni contatto tra
padre e figlio/a. A causa di questi comportamenti sono nate molte
associazioni di padri separati che rivendicano il diritto di esercitare la
paternità dopo la rottura dell’unione di coppia.
Elio Cirimbelli, direttore dell’ ASDI (Associazione separati e
divorziati), centro istituito a Bolzano nel 1986, spiega che:
l’importanza del padre nello sviluppo del bambino va ricercata nella sua
capacità di mantenere sempre il suo ruolo di coniuge per evitare l’instaurarsi
di un rapporto privilegiato tra madre e figlio. Nel contempo una madre
orientata verso il marito può permettere al figlio di liberarsi di lei, cioè ex-
sistere, essere fuori. In maniera speculare il padre è una figura la cui
genitorialità può essere influenzata dalla caratteristiche della moglie e dalla
qualità della relazione che ha con lei.272
Il contributo paterno è un elemento costruttivo essenziale per
l’educazione e la crescita sana di un figlio. La difficoltà maggiore che
riscontrano i padri di oggi risiede proprio nel ridisegnare una figura
educativa opposta e lontana dai vecchi modelli patriarcali, ma che non ha
ancora acquisito del tutto i nuovi tratti caratterizzati, in primis, dalla
dimensione della tenerezza.
In conclusione, si può affermare che si delinea una prima importante
differenza nella rappresentazione dei padri, rispetto alle rappresentazioni
tradizionali che si sono appiccicate loro addosso (l’autorità, la distanza,
la superiorità). I padri di oggi si sono liberati dalle costrizioni e dalle
aspettative imposte loro. La novità sta, perlopiù, nell’espressione della
paternità: i nuovi padri osano manifestare le loro emozioni, ma anche, e
272 C. Zavattiero, Poveri padri, op. cit.
114
soprattutto, viverle con i figli, il che conferisce loro una nuova
immagine, quella di padri affettivi.
115
CAPITOLO III
I padri nel cinema e in letteratura
La cinematografia, insieme alla letteratura e alle autobiografie, ha
proposto nel tempo numerose figure paterne, più o meno positive, alle
quali è possibile attingere per ricostruire percorsi di riflessione e
discussione. Un filone interessante di ricerche sulla figura paterna
permette di individuare il cambiamento e l’evoluzione positiva che può
apportare il comportamento di un padre per favorire la crescita sana del
figlio/a.
Mario Dal Bello nel suo testo I ricercati. Padri e figli nel cinema
italiano contemporaneo273 si interroga su chi siano davvero i ricercati: i
padri o i figli? Nel mondo occidentale, spiega sempre l’autore, la figura
paterna sembrerebbe aver perso il proprio ruolo e identità, destinando la
società prima, e la famiglia poi, a vivere un senso di orfanezza.
La figura del padre, oggetto di contestazione dagli anni Sessanta e poi di
rimozione, languisce, è vanificata. Oppure, cerca a fatica di ritrovare il
proprio ruolo e di imparare la propria difficile arte274.
In Italia e, ancor prima, in America, si affronta l’indagine sulla figura
paterna attraverso la cinematografia. Attraverso i film, difatti, è possibile
studiare le rappresentazioni della paternità in maniera particolarmente
profonda proprio perché ci forniscono uno spaccato di vita che
rispecchia in maniera fedele i tempi, le abitudini e gli stili paterni.
273 M. Dal Bello, I ricercati. Padri e figli nel cinema italiano contemporaneo, Effatà Editrice, Torino, 2011. 274 Ivi, p. 11.
116
Per diversi pensatori e pedagogisti avvalersi del cinelinguaggio in
ambito educativo, formativo e familiare consente di approfondire gli
aspetti salienti che caratterizzano le dimensioni psicologiche e
pedagogiche proprie dell’esperienza cinematografica. È vero,
effettivamente, che film, cortometraggi, cartoni animati e quant’altro si
possa osservare da spettatore esterno costituiscono un medium
interessante in ambito pedagogico. Si attivano, difatti, nella visione del
film, due meccanismi psicologici fondamentali:
• Il processo di identificazione, attraverso il quale ci si appropria
degli stati d’animo altrui e li si vive come propri;
• il processo di proiezione, in virtù del quale attribuiamo ad altri
sentimenti, impulsi e stati emotivi che sono soltanto nostri.
In effetti il cinelinguaggio è in grado di suscitare nello spettatore
quella modificazione della condizione psichica riscontrabile nelle
persone che si trovano in situazioni di apprendimento. Secondo
Dieuzeide, si tratta di un orientamento aspettante, che genera interesse e
incrementa lo stato di allerta. Per lo spettatore- giovane e adulto-
l’intensità emotiva suscitata dalla partecipazione alla visione del film si
configura, dunque, come un evento significativo e motivante,
pedagogicamente utilizzabile in campo educativo. Questa posizione è
condivisa da Lumbelli, la quale, assumendo la prospettiva di Kracauer,
sottolinea le caratteristiche tipiche del cinelinguaggio che ne
determinano la connotazione psicopedagogica: «il mezzo
cinematografico può favorire una ristrutturazione percettiva della realtà
quotidiana, smembrando le schematizzazioni concettuali attraverso le
quali essa viene banalizzata e ripetitivizzata, e così facendo acquistare
caratteristiche figurali di primo piano ad aspetti che si è abituati a lasciar
passare inosservati: soprattutto operando l’ingrandimento del “piccolo”
117
con primissimi piani o riuscendo a comprendere il “grande” in tutte le
sue angolazioni, non solo con i campi lunghissimi, ma anche e
soprattutto contrapponendo campi lunghi e campi ravvicinati o
sottolineando “aspetti non familiari contenuti nel familiare” mediante
l’uso di angolazioni insolite”. In ultima analisi, si può rilevare come il
cinelinguaggio attivi negli spettatori una modalità piuttosto interessante
di incontrare e di elaborare le informazioni. Seguendo un’intuizione di
Maragliano 275 , tale fenomeno è rappresentabile in questi termini:
inizialmente le persone privilegiano una via corporale per accedere ai
saperi; successivamente a questa prima fase, in cui prevale la
sospensione del giudizio, esse lasciano aperto uno spazio sempre
maggiore a una seconda via d’analisi definita dall’autore cerebrale.
1. Il padre nel cinema
Il cinema occidentale presenta una lunga serie di opere significative in
cui il tema della ricerca paterna viene affrontata ed analizzata. Come si
spiegava nell’introduzione, non si può prescindere dalla cinematografia
americana per diversi motivi. Primo fra tutti per quel che riguarda
l’influenza di pensiero, di comportamento, di ideologia, e non da meno, la
quantità filmica che la produzione americana ha riversato in Europa. È poi
scontato affermare che, su diversi piani e livelli, l’analisi della figura del
padre in America risulta sicuramente diversa dalla figura paterna a cui
siamo stati, e siamo, abituati in Occidente.
Come scrive Fabio Bocci «al pari della letteratura, anche il
cinelinguaggio costituisce un generatore dinamico di conoscenza. Si tratta
di un mediatore narrativo che, in una prospettiva interpretativa dei
275 R. Maragliano, Manuale di didattica multimediale, Laterza, Bari, 1994.
118
fenomeni esistenziali definita da Lurija Scienza Romantica (Rondanini e
Longhi, 2003), favorisce l’attivazione di uno sguardo sottile»276.
Scopo della presente capitolo è quello di offrire una visione d’insieme
dei prodotti filmici che hanno offerto rappresentazioni dell’immagine
paterna nel rapporto con il figlio. Inoltre, sulla base di una ipotesi in merito
alle ragioni che potrebbero aver determinato lo sviluppo della filmografia
sul padre, è presentata una breve analisi dei repertori identificati con
l’intento di porre in rilievo alcuni aspetti apparsi particolarmente
significativi.
Le fonti utilizzate per il reperimento dei dati sono:
• IMDB Internet Movie Data-Base (www.imdb.com) il più noto e
completo motore di ricerca sul cinema.
• My Movies (www.mymovies.it/database/), cineteca on-line con
informazioni sui film dal 1895 ad oggi.
• L’archivio dei film della Mediateca Ledha, specializzata in materiale
filmico sulle disabilità (www.informahandicap.it/mediateca);
• Alcune Video-guide specializzate (Rifilato, 1998), Mereghetti
(edizioni dal 2000 al 2006), Farinotti (2007).
• Altre fonti (schede di film, sinossi, analisi critiche, ecc…)
individuate nella rete per mezzo di Google.
Le parole chiave utilizzate per la ricerca dei prodotti filmici nei motori di
ricerca specializzati sono: father, son, dad, child (per la rilevazione in siti o
portali italiani si è utilizzata la corrispettiva traduzione oppure la parola
chiave “padre e figlio”).
276 F. Bocci, Cinelinguaggio, letteratura e autismo a scuola. Proposte di progetti educativi e didattico-speciali, in A.M. Favorini, F. Bocci, Autismo, scuola, famiglia, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 125.
119
Per quel che concerne l’organizzazione e la sistematizzazione dei dati si
è fatto riferimento ad un sistema già utilizzato da Fabio Bocci, (2005,
2006a, 2008) che comprende le voci: anno; titolo; regista.
L’industria televisiva e cinematografica ha trattato la figura del padre da
vari punti di vista e attraverso prodotti diversi.
Una prima differenziazione utile per comprendere al meglio le modifiche
avvenute nella rappresentazione paterna è la divisione tra cartoni animati
per bambini, trasmessi in televisione, e film per adulti e famiglie nati come
prodotti cinematografici.
Analizzando alcuni cartoons e serie televisive degli ultimi trenta anni, i
ricercatori Coggi e Ricchiardi, hanno elaborato una categorizzazione delle
figure paterne rappresentate. Principalmente la figura del padre è assente, i
bambini sono quasi sempre orfani o comunque soli, altre volte la funzione
del padre viene svolta da altri soggetti (padri sostitutivi), oppure è poco
presente, in altri casi è presente ma poco affidabile (padri pasticcioni), o del
tutto negativi. Infine esiste anche la classificazione di padri positivi, anche
se l’identificazione è stata difficile, in quanto soprattutto nei cartoons, i
bambini non hanno genitori affidabili e presenti proprio per permettere alla
storia di evolversi in modo avventuroso e senza troppi limiti che la
presenza adulta imporrebbe277.
Tra i tanti esempi di cartoons e serie televisive che identificano le varie
tipologie di padre278 troviamo:
! per la categoria “padri assenti”:
• Pippicalzelunghe (1970), ragazzina che vive da sola in una grande casa
senza nessuna figura adulta di riferimento e priva di preoccupazioni.
• Dolce Candy (1979), orfana di entrambi i genitori e affidata ad un
277 C. Coggi, R.Ricchiardi, La figura paterna a scuola, op.cit., p.108. 278 Per la regia si veda la bibliografia.
120
orfanotrofio; verrà adottata da una famiglia che non si occuperà di lei e la
lascerà in balia di sé stessa, fino a quando, grazie ad un misterioso mentore
Candy riuscirà a riprendere in mano la sua vita e a sviluppare un proprio
equilibrio.
• Occhi di gatto (1986), è la storia di tre sorelle rimaste orfane che
conducono una doppia vita, bariste di giorno e ladre di notte. Rubano i
quadri del padre morto cercando così di ricostruire la famiglia distrutta.
Attraverso l’analisi di questi cartoons emerge che l’assenza del padre
non preclude ai protagonisti la possibilità di costruirsi una vita e
raggiungere i propri obiettivi, anche se questo comporta maggiori
difficoltà.
! Per la categoria “padri sostitutivi” troviamo:
• Hello Spank (1982), che racconta di Aika una ragazza rimasta senza
padre che si trasferisce con il suo cagnolino Spank dallo zio, che assumerà
il ruolo paterno.
• Mila e Shiro due cuori nella pallavolo (1984), narra le vicende di Mila,
abbandonata dalla madre e data in custodia al padre che, però, non si
cura di lei a causa del suo lavoro. Mila cerca la figura paterna e normativa
nel suo allenatore di pallavolo, con cui riuscirà progressivamente ad
instaurare un rapporto di stima e di fiducia.
• Holly e Benji (1981), è incentrato sul mondo del calcio. Anche Holly
come Mila non può avere una buona relazione con il padre, in quanto
assente spesso per lavoro, così lo sostituirà con la figura dell’allenatore,
che attraverso le regole dello sport, gli insegnerà le regole della vita.
• Sailor Moon (1992) racconta la storia di un gruppo di ragazze dove la
figura paterna c’è, ma è poco presente o coreografica così come per le
attualissime Winks dove il padre è solo una figura di sfondo. I protagonisti
di questi cartoons cercano la figura paterna che non hanno in famiglia
121
all’esterno, lanciando il monito agli adulti di non trascurare i rapporti con i
propri figli, in quanto un bambino per crescere ha bisogno di adulti di
riferimento e se non li trova in famiglia li cercherà all’esterno.
• Mary Poppins (1964). Nel film una coppia di genitori super occupati
assume una governante per prendersi cura dei bambini. Il padre, in un
primo momento, si mostra rigido nell’imporre norme di buona condotta ai
figli e risulta poco coinvolto nella loro vita quotidiana. Appare, invece,
alquanto preso dagli impegni di lavoro. Impiegato alla banca, pensa di
coinvolgere i figli nelle logiche economiche, facendo aprire loro un conto
per i risparmi. I bambini, però, non si lasciano trascinare dalle ragioni del
capitalismo e a queste contrappongono i valori della cura nei confronti
degli animali e dei bisognosi, principi condivisi e stimolati dalla
governante. Il rifiuto dei bambini di aprire il conto in banca innesca a
catena comportamenti di difesa nei risparmiatori e costa il posto di lavoro
al padre. Il trauma della perdita dell’occupazione e dello status che essa
garantiva, porta l’adulto a ripensare la vita secondo una prospettiva diversa
e a recuperare la relazione con la moglie e con i figli: diventa capace di
dedicare del tempo ai bambini e di divertirsi con loro.
• Tutti insieme appassionatamente (1965), una figura eccezionale è la
novizia Maria che riesce a cambiare lo stile educativo del comandante
austriaco Georg Von Trapp. Quest’ultimo, che utilizzava una disciplina
autenticamente militare nella gestione dei suoi sette figli, assume
progressivamente una forma di relazione con i ragazzi connotata da
maggiore umanità e affetto. La scoperta della paternità avviene anche
grazie alle vicissitudini , alle sofferenze e al timore di perdere la vita
durante la fuga dai nazisti. Nelle difficoltà e nei pericoli il padre si trova
a dover proteggere i figli e ad abbandonare il suo stile militare di
educazione degli stessi e le abitudini consolidate nel tempo.
122
• Una moglie per papà (1994). Grazie ad una governante eccezionale,
Corrina, che il padre impara a comprendere i sentimenti e le difficoltà
della figlia, Molly, dopo la scomparsa improvvisa della moglie. La
bambina, diventata muta dopo la morte della mamma, riconquista la
parola solo quando sente che le persone che le stanno accanto accettano i
suoi ritmi di elaborazione del lutto.
! Alla categoria “padri intrusivi o negativi” appartengono;
• Lady Oscar (1979) ambientato nella Francia del ‘700, narra le vicende
di Oscar, allevata dal padre come se fosse un uomo e che proprio per
questo motivo sarà condannata ad una lotta interiore tra la sua naturale
parte femminile e l’imposizione paterna del comportamento maschile.
• I Simpson (1986), racconta le vicende di una famiglia americana dove
il padre Homer, incarna tutti i difetti possibili di uomo e di padre.
! Per la categoria "padri pasticcioni” troviamo:
• I Flinstones (1960) dove vengono descritte due figure di padri, Fred e
Barney, poco affidabili e decisamente pasticcioni.
• Kiss me Licia (1984) racconta di una ragazzina, Licia, orfana di madre
che vive e lavora con il padre, Marrabbio, confusionario, goffo e
pasticcione, ma sinceramente legato alla figlia.
• L’asilo dei papà, con Eddie Murphy (2003). I due protagonisti, Charlie
e Phil, sono padri che hanno perso il lavoro. Non trovandone uno di
rimpiazzo, decidono di aprire a casa di uno dei due una specie di asilo,
dove si improvvisano baby-sitter. Inizialmente l’esperimento risulta
disastroso, in quanto a dominare sono i bambini che si divertono molto
in condizioni, però, di scarsa sicurezza. Progressivamente, con
l’esperienza, i papà riusciranno a trasformarsi in educatori normativi e
competenti. Questi genitori non solo non riescono ad imporsi sui figli,
ma spesso, necessitano del loro aiuto pur mantenendo saldo l’affetto nei
123
loro confronti.
! Infine alla categoria “padri presenti” appartengono:
• Barbapapà (1978) illustra la storia di una famiglia in cui il padre è
protagonista attivo della cura dei bambini e della protezione della casa e
della famiglia. Come già accennato le figure paterne positive nei cartoons
non sono molte a differenza delle serie televisive dove possiamo trovare:
Beverly Hills 90210, La casa nella prateria e Settimo cielo che narrano le
vicende di famiglie in cui il padre è presente, attivo nella educazione dei
figli e un buon compagno per la moglie.
Un esempio della condizione attuale di molti padri separati o divorziati, ma
desiderosi di provvedere ai figli, è ben rappresentato dal film Un giorno per
caso (1996). Jack è divorziato e si occupa in maniera occasionale della sua
bambina. In una giornata eccezionale, un disguido lo porta a doversene fare
carico senza il supporto della scuola, pur dovendo fronteggiare anche gli
impegni lavorativi. Proprio in questo frangente, però, emerge il grande
affetto e l’attenzione che porterò questo padre, maturato dall’esperienza, a
progettare una maggiore permanenza della bambina presso di lui.
• Ne La vita è bella di Roberto Benigni (1997), è descritta la vicenda di un
padre con il proprio figlio durante la seconda guerra mondiale. Guido, sua
moglie Dora e il figlio Giosuè vengono rinchiusi in un campo nazista. Il
padre riesce a tutelare il figlio dagli orrori del lager, utilizzando la fantasia
e creando intorno a lui un clima ludico. Racconta, infatti, al bambino che si
trovano in un lager per partecipare ad un gioco a premi, dove chi ottiene
più punti vince un carro armato. In questo modo riesce a proteggere il figlio
dal dramma che stanno vivendo.
Per quello che riguarda l’ambito cinematografico è abbastanza palese
come i temi narrati abbiano subito notevoli modifiche in base anche ai
cambiamenti sociali avvenuti. Negli anni cinquanta il cinema racconta
124
principalmente di padri in conflitto con i figli maschi, a causa di uno
scontro edipico mai risolto279.
Con il passare degli anni il cinema ha cercato di modificare l’iconografia
paterna per avvicinarla sempre più al ruolo nuovo che gli uomini
ricoprivano nella società.
Il film Mrs Doubtfire diretto da C.Columbus nel 1993 è certamente il
simbolo del cambiamento e del nuovo tipo di padre che si sta lentamente
imponendo nella società quello che Argentieri definisce “Mammo”280.
Il protagonista non è di certo un buon padre, secondo i canoni classici,
non dedica tempo ai figli e alla moglie e non ha un lavoro fisso, però ama
profondamente la sua famiglia. Mrs Doubtfire è il suo alterego femminile
che verrà da lui creato per rimanere vicino ai figli e alla moglie dopo la
separazione, svolgendo il ruolo di governante. Essa rappresenta tutto quello
che lui non è mai stato, come se il suo essere donna fosse un requisito
essenziale e imprescindibile per occuparsi dei figli in maniera diversa da
quello che faceva come uomo.
Il film non ha un lieto fine, classico o standardizzato, in quanto, scoperto
l’inganno, la famiglia non si ricostituisce ma viene semplicemente sancito
il diritto del padre ad occuparsi dei figli nel modo a lui più congeniale.
Infine il cinema ha proposto anche la figura del padre solo che in modi
diversi impara ad essere padre riscoprendo così una parte della propria
identità fino a quel momento celata.
Nel film Tre Scapoli e un Bebè del 1987, remake di Tre uomini e una
culla del 1985, viene rappresentata la storia di tre scapoli che si ritrovano a
dover crescere un bambino. Dopo lo stupore e il rifiuto iniziale, il regista
del film Leonard Nimoy, è abile nel fare emergere in ognuno dei
279 S. Argentieri, Il padre materno, op. cit. p. 109. 280 Ivi, p. 104.
125
protagonisti la voglia di tenerezza e di famiglia che l’arrivo di questo
bambino aveva provocato.
Ancora più esemplificativo è il film Solo un padre diretto da Luca Lucini
del 2008, tratto dal romanzo di Nick Earls Le avventure semiserie di un
ragazzo padre.
Qui viene narrata la storia di Carlo, professionista trentenne, rimasto
vedovo con una figlia, Sofia, appena nata. Carlo ama profondamente la
figlia e cerca di sopperire alla mancanza della moglie – madre
acquisendone ruolo e funzione, ciò però porta ad una confusione nel suo
stile di vita e ad un’inibizione del suo essere padre.
Solo attraverso l’incontro con una giovane donna che andrà a ricoprire il
ruolo materno, Carlo riuscirà a capire il senso profondo della paternità. In
conclusione posso affermare che sia cinema che televisione sono strumenti
importanti per definire e delineare la trasformazione del ruolo paterno nel
tempo.
La pubblicità con la sua caratteristica di stereotipia dà del padre
un’immagine più superficiale, ma comunque necessaria, mentre il cinema
attraverso i film cerca di definirne gli aspetti più profondi e psicologici.
1.1. I padri di figli disabili e le autobiografie
L’autobiografia come pratica utilizzata per “la cura di sé” ha origini
lontane. Si basa, infatti, sulla scia di una tradizione molto antica e la si può
indagare come un genere letterario con caratteristiche proprie che fanno
riferimento a forme narrative come il diario, le confessioni, le memorie, le
epistole. Diversa dalla biografia, l’autobiografia prevede che sia lo scrittore
stesso a parlare di sé in prima persona ponendo l’accento su particolari e
curiosi aspetti della propria esistenza. La storia, la letteratura, la sociologia,
126
la psicanalisi, la psicologia sociale, e non ultima, la pedagogia si cimentano
senza posa con il discorso autobiografico, rinvenendovi sempre nuovi
confini tematici nonché spunti e materiali molto preziosi per le loro
ricerche281.
Una definizione quanto mai appropriata è sicuramente quella del
saggista Philippe Lejeune che prima di tutto propone una definizione di
autobiografia come "il racconto retrospettivo in prosa che un individuo
reale fa della propria esistenza, quando mette l'accento sulla sua vita
individuale, in particolare sulla storia della propria personalità"282. Lejeune
ha inoltre teorizzato il concetto, appunto, di patto autobiografico che
prevede introspezione da una parte ed esigenza di verità dall'altra: un
diritto all’autobiografia283 che prevede la possibilità per tutti di entrare
nella parte più intima del proprio sé. E’ necessario distinguere la pratica
autobiografica che prevede un uso meramente privato di questa- e quindi
quello di valersi del racconto di sé in senso formativo e autoformativo,
come pratica per crescere, riflettere e migliorarsi- da quella che invece
aiuta il lettore a entrare empaticamente in contatto con una storia diversa
dalla propria, ma nella quale può ugualmente apprendere, valutare e
pensare alla propria condizione. Il pensiero pedagogico, però, si dedica
all’autobiografia non tanto in questo senso, quanto per il suo potenziale
autoformativo, grazie a cui lo scrivente ha la possibilità di pensare
all’esperienza trascorsa e pertanto orientarsi al meglio, così da rinvenire
una nuova direzione e un nuovo slancio per vivere284.
Come ricorda Cambi:
281 M. Zedda, Scrivere di sé: autobiografia e formazione, in 25 saggi di pedagogia, op.cit., p. 74. 282 P. Lejeune, Patto autobiografico, Il Mulino, trad. it., Bologna, 1986. 283 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996. 284 M. Zedda, Scrivere…, op. cit. p. 75.
127
la narrazione si è manifestata anche, e sempre più, come lo statuto chiave
del soggetto, la sua forma specifica. Un soggetto a “identità aperta” è in
quanto si fa, ma si fa solo nella narrazione: in quel dialogo con il proprio
vissuto che lo riesamina, lo interpreta, lo riorienta. Senza questo lavoro
narrativo di sé, l’io si riduce a puro vissuto e perde identità […] e senso (e
direzione). Solo il narrarsi produce, nel magma, identità e senso, poiché il
narrare implica un dare- ordine (qualunque sia) e fissare nuclei, passaggi se
non traguardi, poiché questo complesso lavoro sta nella narrazione stessa.285
È evidente, quindi, quanto il lavoro autobiografico assuma un valore di
senso e di formazione in quanto si ha l’occasione di riflettere sulla propria
vita nel momento presente ed ha un grande valore catartico e formativo per
chi legge e per chi scrive286.
Le narrazioni autobiografiche non sono da considerare come sfoghi o
semplici testimonianze, ma piuttosto come strumenti pedagogici perché
cambiano il modo con cui osserviamo il mondo diventandone, così,
testimoni privilegiati287. Questo appare tanto più vero se consideriamo i
genitori di figli disabili come persone coinvolte a pieno titolo nella scrittura
autobiografica: le competenze genitoriali elaborate attraverso l’esperienza
diretta vanno infatti ad arricchire le conoscenze tecniche, acquisite
attraverso lo studio e l’interiorizzazione di approcci scientifici288.
Appare chiaro e va posto in particolare evidenza che esperienze
qualitative di integrazione si possono costruire solo attraverso reti di
sostegno e supporto con le principali agenzie educative, quali la famiglia, i
285 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma- Bari, 2002, p. 81. 286 L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia. Madri e padri di figli speciali, Edizioni ETS, Pisa, 2011. 287 A. Moletto, R. Zucchi, Se i genitori salgono in cattedra, “Animazione sociale”, Anno XXXIV, agosto-settembre 2004, n. 185 fascicolo 8/9. 288 E. Barone, E. Cecchini, Pedagogia dei genitori. La metodologia attraverso le esperienze, Ed. ETS, Pisa, 2009, p. 18.
128
servizi specialistici e gli enti locali289. La famiglia, prima di tutti gli altri,
diventa un elemento prezioso proprio perché a contatto quotidiano con la
disabilità e ha la possibilità di sperimentare le migliori strategie e tecniche
efficaci di intervento.
In ultima analisi, l’educazione deve essere intesa come il principale
agente di trasformazione culturale.
Mettersi in relazione con l’altro significa guardarsi allo specchio e
riconoscersi. Riconoscersi in una uguale diversità.
Ricoeur ci insegna che noi viviamo grazie all’altro:
la persona ci appare come una presenza volta al mondo e alle altre persone,
senza limiti […] Le altre persone non la limitano, anzi le permettono di
essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto rivolta verso gli
altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è
l’esperienza della seconda persona: il tu; quindi il noi viene prima dell’io, o
perlomeno, l’accompagna.290
L’educazione è cosa del cuore, affermava Don Bosco291. Amare implica
la capacità di attribuire senso e significato agli eventi, una capacità
fondamentale in ordine al benessere della persona adulta. Nel momento in
cui un adulto, all’interno di un rapporto affettivo, narra al bambino, con il
linguaggio della verità, la sua storia, lo aiuta ad attribuire un significato agli
eventi, che divengono, in siffatta maniera, comprensibili e accettabili. E il
bambino costruisce così la sua identità narrativa, in cui anche i traumi sono
letti attraverso uno sguardo di tenerezza.
289 L. Cottini, L’autismo a scuola. Quattro parole chiave per l’integrazione, Roma, Carocci, 2011. 290 P. Ricoeur, Sé come un altro, Feltrinelli, Roma, 2011. 291 Dall’Epistolario di S. Giovanni Bosco, Torino 1959, 4, 204-205.
129
La famiglia, prima fra tutte, non può essere considerata come entità
disfunzionale intrappolata perennemente nella “crisi”, né in una posizione
di subordine e inferiorità a cagione del suo polimorfismo culturale292. In
termini specifici, la famiglia con persona disabile è a contatto quotidiano
con il problema della diversità, e possiede, quindi, la possibilità di
sperimentare le migliori strategie e le tecniche più efficaci di intervento.
Nota Bruner: “l’educazione non è a sé stante e non può essere progettata
come se lo fosse”293.
Da tali presupposti si evince come la dimensione relazionale sia la
chiave di volta del sostegno alla disabilità.
Don Milani ci ricorda, in un’ottica ecologica, come non si possa fare a
meno di amare la scuola, senza amare il ragazzo, la famiglia del ragazzo e
il mondo che li circonda: “non si può far scuola senza amare e non si può
amare un ragazzo senza amare la sua famiglia e non si può amare la sua
famiglia senza amare il suo mondo”294.
Sembra quasi un gioco di parole, ma esprime, invece, una verità
fondamentale. Quando un bambino compie poi il suo ingresso a scuola
sperimenta, comunque, per la prima volta, l’altro, diverso dalla sua
famiglia.
Troppo poche sono ancora le ricerche relative ai programmi di
educazione prosociale nelle scuole. Indubbiamente, la prosocialità non può
dipendere unicamente dall’applicazione di specifici programmi educativi.
Vi concorrono infatti, diverse variabili di tipo situazionale e personale,
come il modello di comportamento offerto dall’insegnante, il clima
292 Cfr. A. M. Favorini, F. Bocci, Autismo, scuola, famiglia, FrancoAngeli, Milano, 2008. 293 J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Roma, 2002, pag. 42. 294 J.L,.Corzo Toral, Lorenzo Milani. Analisi spirituale e interpretazione pedagogica, Servitium, Città di Castello, 2008, pag.147
130
emotivo-affettivo della classe, il livello di sviluppo morale e sociale del
soggetto 295.
Il nodo principale della questione è da rintracciare nella fase, per certi
versi critica, in cui gli insegnanti si confrontano con un bambino disabile.
Questa situazione crea disagio, primariamente perchè con la diagnosi si
riesce a rilevare solo l’aspetto deficitario dell’allievo, ma non la persona.
Sono nati, proprio per la ragione che esplicavamo poc’anzi, molti
progetti che hanno lo scopo di aiutare, ascoltare, sostenere e rassicurare i
genitori nel momento in cui viene loro comunicata la presenza di un deficit
nel figlio che sta per nascere.
Vi è, ad esempio, il progetto «A casa con sostegno», frutto a sua volta di
una più ampia progettazione denominata “Superare l’handicap”, promossa
nel 1995 dal Comune di Parma, che prende vita da alcune domande
esistenziali sottoposte ai diretti interessati: i genitori. Una mamma,
intervenendo al convegno che introduceva il progetto, esordì in questo
modo:
Il momento della comunicazione della diagnosi è fondamentale, segna la
vita, le dà un significato diverso da quello che ha avuto fino a quel
momento. Per questo non può essere affidato al caso, alla più o meno buona
volontà, alla sensibilità più o meno marcata del medico.
O ancora un’altra mamma:
Quando nasce una bambina o un bambino e quella nascita viene comunicata
come diversa, perché ne viene diagnosticato un deficit, è importante la
funzione di chi dovrà comunicarlo e degli operatori del territorio
295 Cfr. Lickona T., Moral development in the elementary school classroom. In W.M. Kurtines e J.L. Gewitz (a cura di), Handbook of moral behavior and development, vol. 3, Hillsdale, Erlbaum, 1991.
131
nell’accogliere e nel sostenere le madri e i padri in questo evento.
L’impegno che viene chiesto alle madri, ai padri e alle figure professionali
preposte alla nascita di un bambino o di una bambina, va al di là ed oltre il
loro deficit. A questo impegno viene aggiunto qualcosa in più che significa
attenzione, ascolto, risposte concrete a bisogni altrettanto concreti.
Creare un gruppo di narrazione significa, allora, entrare in contatto non
con il deficit, ma con la persona: si tratta di offrire l’opportunità di
costruirsi persona, come suggerisce Maria Teresa Romanini con questa
efficace e sintetica espressione296.
Persone, infatti, non si nasce, ma si diventa.
Ed è nella famiglia, luogo precipuo degli affetti, come nella scuola, che
la persona sperimenta il proprio valore e la propria rilevanza297.
Nell’ambito di Pedagogia dei genitori, (un volume che racconta le
esperienze di genitori di bambini disabili) è stato concepito, ad esempio,
uno strumento di presentazione “dal vivo”, denominato “Con i nostri
occhi” che, per iniziativa individuale di una mamma, ha subito riscosso un
grande successo per la sua efficacia e valenza. Difatti, le narrazioni, che i
genitori forniscono agli insegnanti, offrono informazioni pratiche, concrete
e emotivamente coinvolgenti, che serviranno, successivamente, alla messa
a punto di piani educativi individualizzati. I genitori, d’altro canto, invitati
a raccontare “il figlio”, si sentiranno parte di un sistema educativo che li
vede, giustamente, protagonisti: fortificati e valorizzati per e nel loro ruolo.
296 Cfr. M.T. Romanini, Costruirsi persona, La Vita Felice, Milano, 1999. 297 Cfr. M. Stramaglia, Amore è musica. Gli adolescenti e il mondo dello spettacolo, SEI, Torino, 2011, pag. 147.
132
Le narrazioni, che adesso riportiamo, sono di due genitori del gruppo
misto di lavoro gentitori/insegnanti, su richiesta del gruppo di lavoro GLHI
dell’istituto comprensivo di Pisa:
Luca ha iniziato a dire le prime paroline verso i nove mesi e poi un
lunghissimo silenzio; quel silenzio che io non giustificavo e non capivo,
forse proprio perché accompagnato da un’assenza di sguardi e da pochissimi
sorrisi. Per fortuna, da questo punto di vista, sono una persona che non si dà
giustificazioni fasulle e di fronte alla frase «tutti hanno i loro tempi poi
parlerà…» ho preferito insistere con il domandarmi perché mio figlio non
mi guardava e non mi sorrideva e ho avuto l’opportunità di far visitare Luca
presso l’istituto. La prima diagnosi è stata «disturbo persuasivo dello
sviluppo», mi hanno parlato di «autismo».
E, ancora:
Ho due bimbi gemelli di 27 settimane: Niccolò è stato operato all’intestino a
soli tre giorni di vita e da qui per lui sono nati problemi. Infatti, nella
crescita, aveva difficoltà nella postura non riuscendo a stare seduto, perché
cascava da un lato. Da neonato non è mai riuscito a gattonare, ma si
trascinava le gambe appoggiandosi sugli avambracci. Per Niccolò, Mattia è
sempre stato il suo punto di riferimento in quanto era più agile e libero nei
movimenti. Ci avevano detto che Niccolò avrebbe presentato problemi nel
camminare e forse non sarebbe mai riuscito a camminare e ciò è durato fino
ai due anni. In seguito gli è stata regalata una macchinina che gli permetteva
di essere più indipendente e, mentre Mattia correva e giocava per la casa,
Niccolò lo rincorreva per la sua macchinina. Niccolò ha camminato molto
tardi: a tre anni e […] con molte difficoltà nell’equilibrio, ma grazie alla sua
133
forza di volontà, alla sua tenacia e all’incoraggiamento, ha migliorato il suo
cammino.298
La Pedagogia dei genitori riconosce pertanto alle narrazioni genitoriali
un consistente “valore aggiunto”.
Vero è che la scuola, difatto, incarna due facce della stessa medaglia: da
un lato, rappresenta il contesto privilegiato per lo sviluppo sociale,
comportamentale ed emotivo; dall’altra, però, può provocare un forte
disagio nel bambino che vi sperimenti un insuccesso sia di tipo relazionale
che prettamente scolastico il quale, nella peggiore delle ipotesi, può indurre
il bambino a rifiutare la scuola.
Perciò, la presenza della famiglia diventa indispensabile.
Anzi è proprio la consapevolezza che non viviamo da soli, che c’è un
altro oltre a noi, e che esiste sempre un qualcuno che ci permette di
diventare Io, nel rapporto con il Tu. E questo, in primis, con i genitori, in
famiglia. E poi nella scuola.
È nostra intenzione, pertanto, dare qui ulteriore spazio al fiorire sempre
crescente di numerose biografie genitoriali, in particolar modo biografie
scritte da padri, che vogliono raccontare la loro esperienza con la disabilità.
Come evidenziano Zanobini, manetti e Usai299 i numerosi ormai studi
sulle relazioni che si instaurano tra genitori e figli disabili evidenziano,
spesso, dati discordanti. Ciò è spesso dovuto al tipo di analisi che si
costruisce: le ricerche quantitative, ad esempio, sono caratterizzate da una
griglia, il più delle volte, ristretta rispetto alla molteplicità delle situazioni e
298 E. Barone, E. Cecchini, Pedagogia dei genitori. La metodologia attraverso le esperienze, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pag. 98. 299 Cfr. L. Bichi, Disabilità…, op. cit.
134
delle variabili presenti in ogni singola dinamica, ma anche nel dare per
scontato alcuni vissuti personali di dolore e sofferenza300.
L’enfasi sul dolore che la disabilità porta con sé è dovuta principalmente
all’ottica con cui la affrontiamo: all’opposto della disabilità si palesa la
normalità, ed ecco che, per forza di cose, nella prima viene accentuato il
carattere negativo. Ancora si fatica ad accettare che cambiare il punto di
vista nei riguardi della disabilità, ci aiuterebbe a non focalizzare
l’attenzione sulla malattia, ma su come la società si prepara ad accogliere la
persona disabile. Così, quando la disabilità sopraggiunge in famiglia,
seguendo il senso comune e i pregiudizi ostici a morire, non può che creare
relazioni patologiche. La famiglia con un bambino/a disabile si ritrova,
molto più delle altre, ad essere osservata e studiata: messi sotto i riflettori
sono sicuramente i genitori. E il più delle volte la figura assente o troppo
presente del padre. Ogni decisione dei genitori viene considerata, molto
spesso, come un’accettazione o meno del figlio/a, colpevolizzando in
questo caso padri e madri che non si ritengono all’altezza di costruire un
valido processo educativo. Collegandoci in maniera oserei dire scontata
alla teoria dei Disabilities Studies, secondo i già citati Zanobini, Manetti e
Usai la scissione netta tra disabilità e normalità sarebbe dovuta
prevalentemente «all’analisi di tipo medico con la quale viene affrontato il
deficit301. Non è casuale, difatti, che in questi ultimi anni l’OMS alla
classificazione del 1980 (ICHD) abbia fatto seguire l’ICF per sottolineare il
lato sociale della disabilità, poiché questo approccio parla di salute e di
funzionamento e non di patologie o disabilità»302.
300 Cfr. E. Malaguti, Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Erickson, Trento, 2005. 301 Cfr. M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Usai, La famiglia…, op. cit. 302 Cfr. L. Bichi, Disabilità…, p. 55; Cfr. OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento, 2002.
135
L’idea della famiglia normale coincide con l’idea di una famiglia sana
che non presenta problematiche, dunque «tale concezione ci induce ad
abbracciare l’assunto erroneo secondo cui qualsiasi problema è sintomo o
conseguenza dell’esistenza di un contesto familiare disfunzionante»303.
Talvolta questa idea ha prodotto un pregiudizio molto forte nel giudicare le
famiglie con all’interno un figlio/a disabile perché ritenute patologiche, e
dunque bisognose di aiuto e cure costanti.
Dalle autobiografie e dalle interviste condotte con i genitori, ed in modo
particolare con i papà, emerge invece una grande forza, determinazione e
coraggio. Come si scriveva in precedenza, gli studi più recenti
sull’argomento pongono in evidenza il cambiamento di paradigma che non
si basa più sul deficit, ma sulle risorse. Gli studi si sono intensificati e
orientati sull’analisi di alcuni meccanismi che consentirebbero un buon
adattamento della famiglia alla disabilità, anche perché l’organizzazione
familiare che si presenta come nuova dipenderebbe in larga misura dalle
caratteristiche dei genitori e degli eventuali fratelli e/o sorelle che dalla
disabilità della persona. L’attivazione di strategie familiari specifiche
dipendono da diversi aspetti, quali quelli cognitivi, emotivi e relazionali,
infatti i genitori che riescono a dare un nuovo significato all’esperienza che
stanno vivendo sono anche quelli che sul piano cognitivo riescono a fornire
una nuova rilettura di quanto si è verificato. Salvatore Soresi chiarisce che,
all’interno dell’aspetto cognitivo, vi sono sicuramente anche le strategie di
problem solving e di decision making, che si rivelano assai importanti per
una flessibilità di pensiero che permette di trovare sempre nuove e diverse
soluzioni al problema304. Inoltre ricorda sempre Soresi «le famiglie che
ricorrono con elevata frequenza a queste strategie si differenziano da quelle
303 F. Walsh, La resilienza familiare, tr. It. Cortina, Milano, 2008, p. 20. 304 S. Soresi, Psicologia della disabilità, Il Mulino, Bologna, 2007.
136
che vi ricorrono solo sporadicamente per come affrontano le difficoltà sin
dall’inizio, per gli atteggiamenti che intendono assumere nel corso del
tempo, per i valori ai quali sembrano aderire, per le attività che svolgono,
per la partecipazione alla cura del figlio e per come vivono il rapporto
sociale che ricevono […]: questi genitori sembrano più abili nel trovare un
maggior numero di soluzioni e lo fanno insieme, fornendosi sempre
comprensione e supporto reciproco»305. Inoltre questa concezione si lega
indissolubilmente a quello di resilienza che nelle scienze umane ha non
solo il significato di resistere ad un urto, ma anche la possibilità di uscire
da una situazione che potenzialmente poteva risultare paralizzante. È da
considerare, comunque, che la resilienza non è un processo che può
definirsi concluso una volta per tutte: è invece un percorso dinamico ed
operoso dove ogni componente familiare ha il suo ruolo ben preciso. È
chiaro che ogni genitore attribuisce un personale significato all’evento
accaduto, in base alle proprie credenze culturali, religiose, sociali:
i sistemi di credenze rappresentano un nucleo funzionale essenziale in tutte
le famiglie e sono forze potenti in termini di resilienza. Affrontiamo
momenti critici e avversità attribuendo un significato alla nostra esperienza:
connettendola al nostro contesto sociale, ai nostri valori culturali e spirituali,
alla nostra storia multigenerazionale e alle speranze e alle aspirazioni per il
futuro. Il modo in cui le famiglie valutano i problemi e le opportunità
determina la differenza tra la capacità di affrontare e padroneggiare le
difficoltà e il precipitare nella disorganizzazione funzionale e nello
sconforto.306
305 Ivi, p. 231. 306 F. Walsh, La resilienza familiare, op. cit., p. 61.
137
Ogni genitore attribuisce un senso estremamente personale ed intimo alla
nascita del proprio figlio/a disabile e spesso commenti da parte di altri che
si riempiono la bocca di parole solenni che denotano un buon senso,
Perché, per parlare di disabilità, non si può, e non si ha, il diritto di restare
sul cristale dei buoni propositi, dove, dall’alto di una presunta superiorità,
si dettano consigli “per il bene” della persona coinvolta (cosa si intenda,
poi, con il bene della persona non è dato sapere). E si ha il dovere di
“sporcarsi” con il contesto ambientale, sociale, politico, familiare, quando
pensiamo al mondo della disabilità. Un velato egoismo ci induce, invece, a
ritenere lontano da noi tutto quello che non ci tange da vicino. Come se
fossimo immuni da ciò che potrebbe sconvolgere la nostra esistenza.
Eppure è così che, nella maggior parte dei casi, si entra in contatto con un
mondo che, fino all’attimo prima, si stentava persino a riconoscere come
reale e possibile. Riportiamo di seguito poche righe scritte da due genitori
con una figlia disabile:
A volte, ci capita di parlare con persone ipocrite al massimo che ci dicono
frasi del genere: “Siete due genitori bravissimi, Francesca è stata proprio
una bambina fortunata, se fosse capitato a me non so come avrei fatto!”
(della serie per fortuna è capitato a te); oppure: “Ma come siete bravi, la
vestite come una principessa e poi le parlate molto!” (perché un
handicappato non merita niente? Non ha diritto ad essere bene vestito o ad
avere quello che hanno gli altri “venuti bene”?); oppure “Dio vi ha fatto una
grazia!” (sì proprio così. Mi è stato detto anche questo, da un conoscente
molto religioso che ha persino un altare in casa, fa il digiuno due volte la
settimana e a Medjugorje ha pure visto la Madonna! Lui però ha un figlio
138
“venuto bene”, quindi io gli ho domandato a mia volta se per caso mi stesse
invidiando, ma non mi ha risposto.307
Basta leggere, per altro verso, poche righe scritte, ad esempio, da
Massimiliano Verga, per entrare nella mente di un genitore che ha appena
appreso che la sua vita subirà una svolta totalmente inaspettata e rimanerne
sconvolti. La sensazione, cioè, che tutte le speranze, le attese, i desideri, le
aspettative siano tragicamente svanite. E per sempre. Con la scoperta di un
qualcosa di eterno con cui si dovrà, peraltro, convivere: la malattia.
Proponiamo, a questo punto, un passo ripreso proprio da Zigulì, scritto
da Verga:
Che cosa è successo a tuo figlio? Che cos’ha? La risposta dovrebbe essere la
diagnosi. Ma non sempre puoi conoscerla, anche perché non è detto che,
anche volendo, i medici siano in grado di formularla. […] Però la diagnosi
non mi restituisce il futuro che mi è stato rubato. E, in fin dei conti,
comincio a pensare che sia un falso problema. Perché il mondo reale non
cambia. E comunque non è migliore per il solo fatto che qualcuno mi dica
cosa è successo. Il quadro clinico è il mondo reale, non quello diagnosticato.
E il quadro clinico mi dice che Moreno è handicappato.308
«C’è un momento nel corso della nostra vita», asserisce Duccio
Demetrio, «in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal
solito. Capita a tutti, prima o poi, da quando forse, la scrittura si è assunta il
compito di raccontare in prima persona quanto si è vissuto e di resistere
all’oblio della memoria...»309.
307 M. Portolani, L.V. Berliri, E’ Francesca e basta, La Meridiana Editrice, 1998, pp. 15-16. 308 M. Verga, op.cit., 2012, pag. 7. 309 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987, pag.1.
139
Il pedagogista milanese ora citato si occupa da sempre di autobiografia,
intesa quale unica via di fuga da qualsiasi forma di emarginazione: è noto,
ad esempio, il suo intervento nelle carceri. Eppure, non si può ridurre
siffatta necessità nel volersi raccontare, nel volersi liberare da uno stato
d’ansia così pervasivo da paralizzare l’anima, riconducendolo
semplicisticamente a una fase particolare della vita. C’è dell’altro, a nostro
avviso, che trabocca dalle pagine colme di vita che nessuna ricerca potrà
mai sostituire.
Il sottotitolo del libro Zigulì, che abbiamo già preso in prestito per aprire
il saggio, è emblematico: la mia vita dolceamara con un figlio disabile.
Le ricerche scientifiche hanno, per ovvie ragioni, un altro obiettivo:
quello di verificare che tipo di vita conducono i disabili, quali e quanti
supporti vengono forniti alle famiglie, qual è il rapporto che intercorre tra
genitori e figli disabili, ma anche tra sorelle e fratelli di disabili. Ovvero, i
topics di ricerca affrontati non possono prescindere da supporti teorici e
metodologici.
Le biografie, d’altro canto, respirano libertà, vivono di emozioni segrete,
di amori esclusivi, di segreti inconfessabili e di realtà, il più delle volte,
drammatiche. E parlare con la voce del cuore risulta davvero complesso,
perché la voce del cuore non è solo quella dei buoni sentimenti e
dell’amore smisurato a tutti i costi. La voce del cuore è anche, e oseremo
dire, soprattutto, quella della verità più antipatica, odiosa, e sicuramente
non politicamente corretta. Mettere nero su bianco la disabilità significa
abbattere i muri dell’ipocrisia e raccontare i sentimenti che inevitabilmente
questa suscita.
Un intimo pensiero, adesso, svelato dal papà di Moreno:
140
è proprio così: sono tuo papà. Ti piaccia o no, mi devi prendere per quello
che sono. Anche tu, del resto, non sei proprio quello che avevo pensato,
prima che nascessi.
Non è vero che i figli sono tutti uguali e che l’importante è che arrivino. Chi
lo pensa mangia tutti i giorni i biscotti del Mulino Bianco e crede anche di
viverci nel Mulino Bianco. Io ti volevo diverso e quei biscotti non mi sono
mai piaciuti.310
Schierarsi è difficile, e spesso schierarsi non ha senso. Non ci si schiera
pro o contro la disabilità, dunque ancor meno ci si può schierare pro o
contro i sentimenti di un genitore. Semmai si può esprimere, più o meno,
un accordo rispetto a ciò che si legge, ma non ci si può sostituire al
genitore, e tantomeno entrare nella sua mente.
Il nostro intento, quindi, è quello di ragionare in un’ottica pedagogica
cercando di trovare una chiave di lettura oggettiva e priva di inutile
retorica.
Molti blog di discussione sul libro presentano commenti, per lo più di
genitori con figli disabili, che puntano il dito contro lo scrittore,
rinfacciandogli una gratuita brutalità. Del resto viene affermato dallo
stesso, con una nota di cinismo, che non si può, quantomeno, volere un
figlio disabile. L’amore è un’altra cosa, il libro trasuda amore, ma non si
può credere che un figlio disabile sia un dono, come dice qualcuno.
Tutti rimangano spiazzati di fronte a una sincerità così disarmante: un
genitore non può permettersi di dirlo? È un affronto nei confronti di tanti
uomini e donne che non possono avere figli? Meglio un figlio disabile
piuttosto che non averli? Sono domande di forte spessore esistenziale, e, si
sa, l’esistenza è un mistero che, per sua natura non dà molte risposte. Però
310 M. Verga, op.cit., 2012, pag. 83.
141
ci si può interrogare se, per dire la verità, sia necessario essere diretti nel
descrivere, ad esempio, un rito fisiologico dell’essere umano:
«nella mia testa «pulire il culo» si accompagna alla dolcezza delle
spiritualità, al ripetersi di un gesto quotidiano che regala sempre una
sorpresa; all’intimità che si crea fra noi due, ogni giorno, più volte al
giorno. Ma non nascondo che ci sia anche l’idea della fatica e del
«preferirei farne a meno, grazie».
Lo scrittore, nel testo, si esprime attraverso un urlo di verità e di
liberazione. I paragrafi sono brevi, concisi; le poche righe scritte per
descrivere squarci di vita quotidiana non possono essere sottaciuti. Per chi
conosce e studia il mondo della disabilità da pedagogista, da operatore
socio-sanitario e da insegnante, è un monito: non lasciare che l’oblio del
tempo e della memoria cada sopra le famiglie con figli disabili, e sugli
stessi disabili.
“Però sai urlare”, si dice di Moreno. Non sa parlare, non vede,
cammina a fatica. Ma urla. Magari sono versi senza senso, è vero, solo per
far rumore, unicamente per destare l’attenzione di qualcuno,
esclusivamente per essere considerato. Moreno urla soprattutto quando ha
fame, ha sete, o il pannolino è sporco da una giornata. È assurdo pensare
che un padre debba urlare nelle orecchie di chi non sa ascoltare per avere
un briciolo di attenzione. Eppure, al mondo che non vuol sentire, o fa finta
di non sentire, o non ha orecchie abbastanza grandi per contenere un dolore
dilaniante, si deve, inevitabilmente, urlare.
142
Sulla stessa linea d’onda troviamo il libro vincitore del prestigioso
premio francese Prix Femina, del 2008, di Jean Louis Fournier: “Dove
andiamo, papà”311?
Alzi la mano chi non ha mai avuto paura di avere un figlio anormale. Non
l’ha alzata nessuno. Ci pensa chiunque, come si pensa a un terremoto, come
si pensa alla fine del mondo, a qualcosa che succede una volta sola. Di fini
del mondo io ne ho avute due.312
Lo scrittore, umorista e autore televisivo, sconvolge il pubblico francese,
ma non solo, facendo della sua vita speciale un caso internazionale.
Nuovamente ci si interroga sui motivi, che più di altri, lasciano interdetti
i lettori. Ritorna il leitmotiv secondo cui per parlare di disabilità sia
necessario assumere un tono greve accompagnato dalla classica “faccia di
circostanza”, altrimenti non è auspicabile affrontare l’argomento, onde
evitare di offendere qualcuno. Forse, la chiave di volta che entrambi gli
scrittori menzionati hanno escogitato per scrivere di handicap è l’ironia.
Prendere in giro la disabilità equivale a esorcizzarla, a renderla vera,
concreta.
Jean Louis Fournier, al contrario di Massimiliano Verga che si concentra
maggiormente nel raccontare la quotidianità di Moreno, introduce un altro
aspetto, rilevante per comprendere l’importanza attribuita alle
autobiografie: Fournier è un uomo di spettacolo e come tale ha una cassa di
risonanza talmente elevata da poter parlare a chiunque abbia la necessità, e
la voglia, di rispecchiarsi in lui, o semplicemente di confortarsi insieme a
Interessante, a tal proposito, un suo passo all’interno del libro:
In quanto padre di due bambini handicappati, sono stato invitato a
partecipare a una trasmissione televisiva per portare la mia testimonianza.
[…] Ho guardato la trasmissione, era in differita. Avevano tagliato tutto ciò
che avevo detto sul riso. Gli autori, evidentemente, avevano preferito non
rischiare di offendere la sensibilità della gente. Le mie provocazioni
avrebbero potuto sconvolgere qualcuno.313
Una citazione attribuita a Victor Hugo asserisce che la libertà comincia
dall'ironia314.
Ed è solo in un’ottica di libertà che si possono conciliare due mondi
apparentemente molto distanti tra loro: la disabilità e l’ironia, per
l’appunto. Attraverso tale connubio, le parole scritte da Verga e da Fournier
si vestono di un significato ancora più profondo e toccante, incarnano cioè
la possibilità di esprimersi senza dover mantenere un controllo forzato, ma
abbandonandosi puramente alle emozioni.
L’autobiografia, così intesa, non è il risultato di un percorso fatto di
leggerezza, come blandamente si potrebbe credere, ma, parafrasando
Proust, è un percorso fatto di sofferenza, che a sua volta è un bisogno
dell'organismo di prendere coscienza di uno stato nuovo315.
Questo scenario fa riflettere sull’importanza che ricoprono le reti sociali
per lo sviluppo di un percorso di vita di un soggetto che abiterà il futuro316.
313 Ivi, pag. 39. 314 Cfr. V. Hugo, I Miserabili, Raffaello Editore, Cortina, 2010. 315 Cfr. M. Proust, Alla Ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, Mondadori, Milano, 2005. 316Cfr. A. Canevaro, Tante diversità per una prospettiva inclusiva, in R. Caldin (a cura di), Alunni con disabilità figli di migranti. Approcci culturali, questioni educative, prospettive inclusive, Liguori, Napoli, 2012, pag. 17.
144
La profonda e autentica sinergia tra famiglia e operatore socio-sanitario,
ricercatore, insegnante, pedagogista, in una prospettiva inclusiva,
favorirebbe il benessere di tutti e di ciascuno.
Tessere una rete sociale tra famiglie e associazioni, in conclusione, non
solo alimenterebbe il sostegno reciproco, ma significherebbe, in primo
luogo, abbattere il muro del pregiudizio che si erge tra il mondo esterno e le
famiglie coinvolte nella disabilità.
Si eviterebbe così il rischio di riempirsi la bocca soltanto di buone
intenzioni. Nella migliore delle ipotesi317.
Come scrivevamo poc’anzi, per sfatare i miti che aleggiano intorno
all’autismo Gianluca Nicoletti prova ad immaginare una nuova strada da
percorrere che possa aprire le porte del futuro a tutti i ragazzi disabili,
Insettopia, per l’appunto.
«Tommy cresce» scrive Nicoletti nel suo ultimo libro «e diventa sempre
più serio, come se iniziasse a pensare: “sto diventando un adulto, e
adesso?”. In verità questo non lo pensa minimante, forse sta solo capendo
che il tempo passa anche per lui. […] Mi serve ancora tempo, devo
costruire qualcosa per lui, perché Tommy è ancora dipendente da me in
tutto e per tutto»318.
Le paure legate al futuro sorgono molto presto nella mente di un
genitore. Uno specifico filone di indagine ha indagato i vissuti genitoriali in
rapporto all’età adulta del figlio: con il miglioramento delle tecniche e delle
strumentazioni mediche l’aspettativa di vita è molto aumentata e questo fa
emergere nuove e sempre più complesse problematiche di gestione del
figlio ormai grande:
317 M. Verga, op.cit., 2012, pag. 105. 318 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa…, op. cit., p. 35.
145
i familiari si trovano più spesso di una volta ad interagire con una persona
adulta che, però, solo difficilmente riesce ad organizzare autonomamente la
propria esistenza. Nella maggior parte dei casi queste persone vivono con i
genitori pur continuando a frequentare centri diurni occupazionali o
laboratoriali e cooperative protette e a causa del loro precoce
invecchiamento, tendono a sperimentare più intensi sentimenti di solitudine
e depressione.319
Va da sé che l’invecchiamento dei figli disabili corrisponda
all’invecchiamento anche per i genitori stessi che si trovano, ormai anziani,
a doversi occupare quotidianamente di una persona non autonoma, e che
vivono dunque una situazione di forte stress emotivo e fisico. Vero è che
per proteggere il figlio da un mondo che non è ancora pronto ad accoglierlo
i genitori riducano al minimo ogni possibilità di contatto con l’esterno,
rinchiudendo il ragazzo sotto una campana di vetro da cui non sarà
semplice uscirne. Un importante ostacolo, dunque, lo rappresentano
proprio i padri e le madri che pur di preservare il figlio da difficoltà e
angosce lo privano del rapporto con i coetanei, così che, finita la scuola, i
possibili rapporti saranno solo con altre persone in difficoltà come lui.
La paura per il dopo si contrappone, però, alla convinzione che si
possano costruire delle solide basi su cui fare emergere autonomie
possibili.320
Secondo Ianes è importante analizzare la qualità della vita dei soggetti
adulti e l’analisi degli ecosistemi nei quali vivono, in modo da poter
individuare quali competenze permettono di alzare il livello della qualità
della vita321: ad esempio saper utilizzare il telefono, gestire il denaro, saper
319 S. Soresi, Psicologia delle disabilità, op. cit. p. 227. 320 Cfr. L. Bichi, Padri e madri…, op. cit., p. 59. 321 Cfr. D. Ianes, F. Celi, S. Cramerotti, Il piano educativo…, op. cit.
146
prendere un mezzo pubblico.
Accanto alle ansie e alle paure dei genitori c’è dunque la determinazione
e la consapevolezza di dovere e volere far rispettare i diritti dei figli.
Gianluca Nicoletti è uno di quei padri che non si arrende: tutto ciò che
può rendere la vita più semplice e, se possibile, felice per un ragazzo
autistico sarebbe la possibilità di costruire una piccola città fatta su misura
per lui. La città ideale non esiste, Nicoletti però sta cercando di
immaginarla e di avviarne una costruzione. L'ha chiamata “Insettopia”, la
terra promessa degli insetti evocata in Zeta la formica322, ed è il luogo
dell’immaginario sognato da chiunque si prenda cura di ragazzi autistici. E'
un universo contenuto in altri universi infinitamente più grandi e quindi
incommensurabili per delle povere formichine. «Insettopia rivendica la
possibilità di far vivere dignitosamente i ragazzi autistici, soprattutto
quando l’entrare nell’età adulta trasforma quei ragazzi silenziosi in
fantasmi, esseri invisibili e disperati»323.
Acquisire l’indipendenza tipica dell’età adulta e, come scrive Lisa Bichi,
essere autonomi
non significa soltanto acquisire alcune abilità, ma significa saperle gestire in
prospettiva del superamento dell’età infantile per abbracciare l’età
adolescenziale prima e quella adulta poi.324
Infatti,
322 Z la formica è un film d'animazione del 1998, diretto da Eric Darnell e Tim Johnson. È il primo film in CGI della DreamWorks. 323 http://insettopia.it [ultimo accesso: 02/02/2015] 324 L. Bichi, Padri e madri…, op. cit., p. 167.
147
non basta far le cose da grandi per sentirsi grandi, per educare all’autonomia
è necessario intervenire anche sulla costruzione di un’identità di adolescente
e poi di adulto, sul “saper essere” una persona grande. Per questo è
importante lavorare sul possesso di abilità, ma anche sulla percezione di se
stesso come una persona grande e riconosciuta tale da altri.325
Questo è quello che Nicoletti vorrebbe dimostrare costruendo Insettopia.
Interessante, inoltre, il sito dove il giornalista dichiara apertamente che
Insettopia non ha nessuna fonte di sostegno economico, ma che sia
l’infrastuttura tecnologica che le persone che ci lavorano direttamente sono
il «prodotto di generosità e spirito solidale di cari amici che si impegnano
di persona». Il blog ha diverse sezioni articolate precisamente in: Insettopia
News, Vivere Insettopia, Scelti per noi, I viaggi di Insettopia, Supporta
Insettopia e Insettopia live. Cosi facendo si tenta di creare una sorta di
mutuo aiuto nei confronti di tutte quelle famiglie che con un ragazzo
autistico in casa pensano di non poter più assaporare la libertà di uscire o di
farsi un viaggio. Attraverso “scelti per noi” e “i viaggi” i cittadini della
piccola grande città consigliano ristoranti, agriturismi, località da
frequentare senza sentirsi osservati e giudicati nonostante la certezza che
possa avvenire qualche comportamento bizzarro da parte del figlio.
Per concludere voglio riportare per intero il vissuto scritto da Gianluca
Nicoletti dopo aver accompagnato Tommy ad una gita fuori porta: la
sensazione, mentre si leggono queste righe, è quella di un padre che sente e
vede il proprio figlio crescere.
Forse è giunto il momento di liberarsi dal pregiudizio e dallo stereotipo
che la disabilità sia una trappola da cui l’eterno bambino non possa uscire.
325 A. Contardi, Verso l’autonomia. Percorsi educativi per ragazzi con disabilità intellettiva, Carocci, Roma, 2004, p. 29.
148
Ero partito da casa una settimana fa con un bambino, sono tornato ieri sera
con un uomo. Non è che lo scriva sull’onda emotiva di chi ha seguito di
persona la Grande Cavalcata dei ragazzi autistici. Lo scrivo proprio perché
Tommy è diventato grande, non è certo guarito dall’autismo, ma è fuori per
sempre da quell’area di fragilità presunta che impedisce a un genitore di
ammettere che suo figlio sia cresciuto.
Ho avuto questa certezza quando l’ho visto dormire, sudato e puzzolente,
sopra un mucchio di fieno, usando la sella come cuscino. Aveva cavalcato
più di sei ore, lo aveva fatto assieme ai suoi amici, autistici come lui. Era
stato seguito e accompagnato da persone tutto sommato estranee alle sue
abituali frequentazioni familiari. Soprattutto io non c’ero quella mattina a
dargli una manata ogni tanto, a porgergli la bottiglietta d’ acqua, a
mandargli un saluto e chiedergli come stesse. Tommy ce la faceva anche da
solo, erano quasi le 16, ancora doveva mangiare, faceva un caldo infernale,
accanto a noi c’erano maiali, galline, mucche e altri animali che
sguazzavano nel loro strame. Tommy era indifferente a tutto come se quello
fosse stato da sempre il suo habitat, si riposava perché era giusto che lo
facesse, ma non si lamentava, non chiedeva nulla, aspettava che dopo aver
rifocillato i cavalli, qualcuno facesse girare i panini anche tra i cavalieri.
Dove sono finite le penne rigate? L’unica pasta che sembravo possibile
cucinargli? Dove è finito il sughetto filtrato e senza pellicine che gli
preparavano come unico condimento che sembrava tollerasse? Dove è finita
l’abitudine di stravaccarsi sul divano all’ora dei Simpson? Dove è finito il
suo cuscino? Il suo letto ultra dimensionato? L’aria condizionata nella
cameretta? L’ipad sempre pronto sennò guai…Chissà cosa potrebbe
succedere…
Soprattutto dove sono le crisi oppositive, se qualcuno (che non fossi io) lo
avesse contraddetto, dove è finito quel saltare a perdifiato, il mangiarsi le
mani, il graffiare, mordere e menare? Non dico che sia guarito, non
immagino che tutto questo non tornerà presto a far parte del mio quotidiano.
Da lunedì inizia la penosa domanda: “Cosa facciamo fare oggi a Tommy?
149
Chi può occuparsene? Lo porti tu a fare una passeggiatina? Me lo porto io a
studio? Viene due ore quello del comune e lo mandiamo a prendere il
gelato?” Ordinarie domande di lancinante quotidiano di ogni famiglia
d’autistico che sa di avere in casa un essere umano “da assistere”, perché
non si faccia male, non si innervosisca, perché il suo tempo sia meno atroce
possibile.
Ho visto in una settimana Tommy e i suoi amici passare giornate come non
avrei mai creduto possibile, ma non solo per un ragazzo “disabile”, ma
anche e soprattutto per qualsiasi adolescente neurotipico. Hanno lavorato
tutti assieme consapevoli di far parte di un team, hanno attraversato boschi,
guadato fiumi, cavalcato lungo strade asfaltate sotto al sole, viottoli pieni di
rovi, strade di campagna tra mosconi e insetti d’ogni tipo. Hanno mangiato
quando si poteva, riposato solo a fine giornata. Eppure non ho mai visto un
gruppo di autistici così diligente e reattivo per un tempo così prolungato. I
ragazzi ridevano, evento rarissimo per un autistico, parlicchiavano pure,
erano rilassati, rompevano le palle in percentuale minima rispetto alla
norma.
Non voglio tirare conclusioni, non ne ho gli strumenti necessari per farlo.
Vorrei solo aprire una riflessione sul termine “inclusione” su cui tanto ci
stiamo arrovellando. Premesso che i ragazzi autistici abbiamo una
fondamentale difficoltà a gestire alcune complessità della vita
contemporanea, dei suoi irrinunciabili obblighi di ipersocializzazione, delle
sue evoluzioni sociali, urbanistiche, ambientali. Il recupero di abilità
necessarie ad affrontare queste difficoltà potrebbe avvenire facendo far loro
un cammino a ritroso attraverso modalità di vita quotidiana sicuramente più
arcaiche, ma fondamentali per riallacciare patti sicuri e rassicuranti tra
l’essere umano e l’ambiente in cui vive? E’ possibile che un autistico debba
essere guardato a vista nel corridoio di una scuola, senza altro risultato che
renderlo infelice e spaventato, ma possa invece passare una settimana a
spasso per le campagne cavalcando e faticando come uno stalliere per tutta
la giornata e alla sera sia palesemente raggiante di soddisfazione? Qualcuno
150
che abbia strumenti scientifici dovrebbe cominciare a studiare seriamente su
questa strampalata riflessione.326
326 http://insettopia.it/i-viaggi-di-insettopia
151
CAPITOLO IV
La parola ai testimoni: i padri di figli disabili si raccontano
1. La ricerca
Il contesto all’interno del quale ha preso avvio il progetto di ricerca
coinvolge tre università italiane e una straniera327. Lo sguardo con cui ci si
è predisposti ad analizzare l’immagine paterna è quello inerente la
prospettiva pedagogica con le ricadute che, a livello educativo, sono
possibili riscontrare nel rapporto padre-figlio e padre-figlio disabile.
Seguendo un approccio che va dai modelli educativi generali a quelli
speciali/specifici, il gruppo di lavoro ha sentito l’esigenza di cogliere le
similitudini, piuttosto che le differenze, tra le famiglie con figli disabili e le
famiglie senza figli disabili. Già Séguin affermava: quando funziona il
modello educativo generale, ci sono ricadute/riscontri positive/i anche nel
modello educativo specifico328.
L’immagine paterna come tradizionalmente viene intesa tende sempre
più ad essere confusa con quella materna, o ancor più, a scomparire: urge,
dunque, uno sguardo ancora più analitico e dettagliato in merito al rapporto
tra padre e figlio con esigenze specifiche. Se risulta scontato affermare che
un buon clima familiare sia la premessa per un buon rapporto genitore-figli,
si sono intensificati, a partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le ricerche
per rilevare le conseguenze che la presenza di un figlio con deficit possa
327 Il progetto di ricerca coinvolge i dipartimenti di Scienze dell’educazione di Bologna, Padova, Roma e Lione. Rispettivamente a Bologna con la Professoressa Roberta Caldin e la dottoranda Alessia Cinotti; a Padova con il dott. Simone Visentin; a Roma con il Professore Fabio Bocci e la dottoranda Francesca Maria Corsi; a Lione con la Professoressa Margherita Meucci. 328 R. Caldin, Introduzione alla pedagogia speciale, Cleup, Padova, 2007.
152
determinare nei vissuti dei genitori e nelle dinamiche intrafamiliari che si
ripercuotono sulle modalità educative329. Dando avvio alla riflessione sul
ruolo del padre, e sulla funzione che oggi è chiamato ad esercitare, ci
domandiamo cosa significhi la sua presenza per i figli, ma soprattutto in
che modo tale figura si articoli nella e con la famiglia. Il padre funge da
mediatore tra la madre, simbolo di protezione e accudimento del neonato
sin dai primi giorni di vita, e la realtà sociale. Cosa può accadere se il padre
rinuncia alla sua funzione di terzo nella diade madre-bambino? Quali
conseguenze può avere la presenza di una padre pallido, o ancor più,
assente, nella crescita di un figlio? Ci è apparso significativo interrogarci a
partire proprio dalla sua evoluzione, ovvero dal padre padrone, detentore
della legge e quindi simbolo normativo per eccellenza, sino al suo
costituirsi alter ego della figura materna che, attraverso compiti di cura e
dedizione, diviene emblema dell’affettività.
Pertanto, uno dei temi che ha accompagnato la nostra riflessione
riguarda le declinazioni familiari delle funzioni affettiva e normativa. Quel
che si constata, al giorno d’oggi, è che la funzione affettiva si traduce,
semplicisticamente, in una mera soddisfazione dei bisogni del figlio,
mentre è assodato che il percorso verso la costruzione di un’identità sicura
e autonoma si gioca nel campo dello sperimentare nuove esperienze, nel far
i conti con i propri limiti e con la frustrazione che ne scaturisce330. Dunque,
qual è il ruolo del padre? E qual è il ruolo che la società si aspetta che il
padre giochi?
329 S. Di Nuovo, S. Buono, Famiglie con figli disabili. Valori, crisi evolutiva, strategie di intervento, Città Aperta, Enna, 2004. 330 C. Sellenet, Bravi papà…, op. cit., 2005.
153
1.1. Motivazioni ed obiettivi
Presentiamo in questo capitolo i risultati della ricerca qualitativa sulla
figura del padre nella specifica situazione di una famiglia in cui è presente
un bambino disabile. Due motivazioni principali sono alla base di questo
lavoro: portare evidenze contro i pregiudizi e gli stereotipi ancora presenti
nei confronti delle persone con disabilità e delle loro famiglie; ribadire
l’importanza dell’esperienza come fonte e strumento di conoscenza. Gli
stereotipi e i pregiudizi cui si fa riferimento riguardano soprattutto:
1. l’identificazione della persona disabile con la patologia, che
porta a esaurire l’intero individuo in un nome e nella definizione
corrispondente;
2. la credenza diffusa di un nucleo familiare chiuso e pronto a
nascondere la disabilità del figlio sino a negare il problema,
3. il mito dell’assenza paterna che presenta un uomo non capace
di trovare alternative diverse all’apatia e alla fuga.
Fino ad oggi, e tuttora è così, la nascita di un figlio disabile ha
comportato, e comporta, un grande dolore e una perdita immediata di quel
bagaglio di sogni, aspettative, desideri e immaginari che popolano la mente
di due genitori331. Si fa sempre riferimento al momento della diagnosi come
evento spartiacque che segna un prima e un dopo e che, in maniera
irreversibile, trasforma e sconvolge radicalmente la vita individuale,
familiare e, di conseguenza, sociale di ogni persona.
In tale prospettiva si inseriscono i Disability Studies 332 che hanno
un’area di studio e di ricerca interdisciplinare e che traggono origine
dall’attivismo delle persone con disabilità. In questo senso, favoriscono un
331 C. Gardou, Diversità, vulnerabilità, handicap. Per una nuova cultura della disabilità, Erickson, Trento, 2006. 332 R. Medeghini, S. D’Alessio, A. D. Marra, G. Vadalà, E. Voltellina, Disability Studies, Erickson, Trento, 2013.
154
cambiamento di prospettiva alquanto rivoluzionario, nel senso che se nella
più ampia accezione la disabilità costituisce un campo di ricerca e di
intervento dominato in larghissima parte dal paradigma bio-medico
individuale, la loro prospettiva si basa sul delineare un progetto di vita
all’interno del quale la persona disabile ri-acquisisca la propria dimensione
spazio-temporale ed evolutiva, e con essa la natura sociale che comprende
il diritto all’adultità, all’autonomia e all’indipendenza. Rompere lo
stereotipo significa comprendere che conoscere una patologia non significa
conoscere la patologia di quel bambino; significa inoltre riconfermare e
valorizzare l’unicità di ogni individuo e lo specifico di ogni situazione
familiare.
Nell’approccio empirico alla ricerca si sono seguiti due principali filoni:
quello quantitativo e quello qualitativo. Nello specifico, l’Università di
Bologna ha provveduto alla costruzione di un questionario che è stato
distribuito nel territorio ai papà con un figlio/a disabile in un’età compresa
tra gli 0 e i 6 anni. A Roma, per contro, si è ricorsi all’utilizzo delle
interviste semi strutturate ai padri con figli sempre in situazione di
disabilità, dai 6 ai 10 anni.
L’intervista, nello specifico, è stata scelta per una serie di motivi.
Innanzitutto, a differenza di una conversazione occasionale in cui il
contatto con l’interlocutore non viene preventivamente organizzato,
l’intervista è stata utilizzata miratamente per raccogliere informazioni e/o
opinioni sul particolare argomento, definendo chiaramente i ruoli dei
soggetti in gioco.
La scelta del tipo di intervista da adottare è dipeso da una serie di fattori:
la fase della ricerca, i dati che si volevano raccontare, il tempo, il numero di
persone da intervistare, la facilità nel codificare, analizzare e interpretare le
informazioni raccolte. Difatti, un’intervista semi strutturata ci ha consentito
155
di raccogliere informazioni “nascoste”, ossia non conosciute direttamente e
che nella nostra fase iniziale di ricerca ci hanno offerto un insieme di
variabili su cui indagare, aiutandoci a definire gli obiettivi e consentendoci
di ricavare le informazioni utili per poter mettere a punto un’intervista
maggiormente strutturata.
Attraverso l’impiego di tali strumenti si è voluto dunque registrare le
impressioni che i padri hanno rispetto al loro ruolo all’interno della
famiglia, le proprie personali esperienze e i loro compiti educativi. La
questione sulla quale si pone maggiormente l’accento riguarda le
percezioni che i padri hanno rispetto al proprio ruolo all’interno della
famiglia.
Secondo tale prospettiva non si terrà in considerazione una specifica
disabilità del figlio, a motivo del fatto che non si tratta di una ricerca
compensativa, bensì di un’indagine che intende comprendere in che modo
sostenere e rinforzare le competenze paterne in una situazione di forte
vulnerabilità.
Successivamente al questionario e all’intervista, e in una seconda fase
post ricerca, potrebbe essere interessante procedere con interviste che
chiamano in causa contemporaneamente più persone al fine di raccogliere
valutazioni, giudizi e opinioni arricchite dall’interazione tra i membri del
gruppo, ovvero, i focus group. La filosofia che sta alla base delle interviste
di gruppo risiede proprio nelle stesse dinamiche interne che favoriscono
una maggiore produzione di idee e una maggiore disponibilità a parlare e
ad analizzare in profondità un problema.
Dunque, in riferimento a quanto sopra esplicitato e in merito agli
obiettivi da raggiungere si è prediletta una linea di intervento che ha
permesso di comprendere quali fossero i reali bisogni dei padri e in che
misura e intensità fossero realmente coinvolti nella cura del figlio disabile.
156
2. Le interviste
Per indagare questo argomento si è proceduto con una metodologia
qualitativa attraverso un’analisi lessicale di 14 interviste condotte con padri
di bambini disabili. È stato utilizzato il software N-vivo. Questo
programma ci ha offerto la possibilità di estrarre informazioni relative alla
caratteristiche lessicali di ogni intervista. Si è potuto inoltre condurre
l’analisi su due livelli:
• analisi lessicale e successiva individuazione delle parole
chiave, ossia dei termini maggiormente ricorrenti e significativi
(nodi). Scorrendo la lista delle forme grafiche in ordine di sequenza
si sono eliminate le parole con funzione grammaticale o locuzioni
generiche (ad esempio fatto, cosa) in quanto non indicative delle
tematiche presenti nei testi;
• individuazione delle sequenze di parole caratteristiche di
ciascun testo, attraverso l’analisi dei segmenti ripetuti.
Da quanto emerso dalle interviste si può dedurre che la nascita di un
figlio disabile rimette in discussione una felicità essenziale ed esistenziale
che è quella di dare la vita ad una persona: un bambino con disabilità
colpisce, nella quasi totalità dei casi, una coppia o una famiglia in un
momento del ciclo di vita caratterizzato da “una dinamica espansiva e
gioiosa, generativa appunto, che la rende impreparata alla dimensione del
lutto e della perdita delle aspettative”333.
Nei modelli educativi come quelli che si attuano in situazione di
disabilità, i genitori sono i principali caregiver del figlio: la “disabilità”
sembra comportare un’attenzione accentuata ai “bisogni primari” del
333 A.M. Sorrentino, Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap, op.cit.
157
bambino a scapito di una relazione genitori/figli basata anche
sull’affettività, sulle emozioni, sul gioco e sulle esperienze emancipative
per la crescita e lo sviluppo.
Le attività di cura nei confronti del figlio disabile rivestono una
centralità educativa che, durante la crescita del figlio dovrebbe essere
sostituita anche con altre modalità educative, come quelle volte
all’emancipazione e alla crescita del bambino.
Secondo quest’ottica avere un figlio disabile è un’esperienza che
richiede ad entrambi i genitori una costante attenzione ai bisogni primari,
con il rischio però di cristallizzare il rapporto ad un’età in cui il figlio è
percepito piccolo, anche quando cresce334.
In questo scenario, il padre appare la figura che, in misura maggiore
rispetto alla madre, rischia di rimanere “intrappolato” in un “travestimento
materno”335 che non gli consentirebbe di sperimentare un ruolo differente
da quello di un padre con una funzione prevalentemente “curante”336.
Il padre nelle famiglie con un/una figlio/a disabile rimane, nella
letteratura scientifica, fino a pochi decenni fa, una figura secondaria
rispetto alla madre. A partire dagli anni ’70, i ricercatori hanno iniziato a
focalizzare la loro attenzione anche sulla figura del padre, indagandone la
situazione psicologica, le reazioni alla nascita del/della figlio/a, come era
già stato fatto per la madre.
Inoltre, definire il ruolo del padre, nonché il suo profilo e le sue funzione
educative sembra essere molto più complesso rispetto alla definizione del
ruolo della madre.
334 E. Montobbio, C. Lepri, op. cit.; D. Carbonetti, G. Carbonetti, op. cit., 2004, 1996. 335 P.P. Charmet, op. cit., 1999. 336 A. Cinotti, F. M. Corsi, L’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca, in “Italian Journal of special education for inclusion”, Vol. 1, n°2, Pensa Multimedia, Lecce, 2013, pp. 133-145.
158
Nei modelli educativi che si sperimentano in situazione di disabilità,
scrive Caldin337, i comportamenti volti alla cura, all’accudimento e alla
soddisfazione dei bisogni, non fanno altro che accrescere la dipendenza del
ragazzo con disabilità ad entrambi i genitori. Sono andate perse, d’altro
canto, le modalità cosiddette paterne – esperienze di frustrazione, spinte
esplorative, valorizzazione delle autonomie, capacità di scelta e di pensiero
critico, ecc. – che risultano enormemente indispensabili per la crescita delle
persone disabili e della loro formazione identitaria338.
Il confronto con la disabilità pone la famiglia di fronte alla difficoltà di
svolgere le proprie funzioni educative: traccia un confine temporale nella
vita dei genitori, il tempo si ferma e il sentimento dell’irrimediabile e l’idea
di un “mai più come prima” assorbono l’esistenza. Proprio per questo le
madri e i padri hanno bisogno di essere accompagnati in questo faticoso
percorso per coltivare la loro “capacità generativa”339, intesa come la
capacità di prendersi cura e legarsi ai figli.
Può seguire, se non correttamente supportati, anche una fase di
disidentificazione e desocializzazione, derivata da un’impressione di
pochezza, crollo psichico e annullamento sociale. Il distacco dal mondo
esterno li porta spesso a ritirarsi in uno spazio protetto, nel quale si
richiudono insieme al bambino per tutelarsi tutti: si mette in qtto, cioè, quel
processo di dis-empowerment nei genitori. Il livello di adattamento dei
genitori di un bambino disabile consiste anche nel saper trovare “uno
spiraglio” di libertà che non li faccia rimanere imprigionati in una nicchia
337 R. Caldin, op. cit., 2007. 338 A. Cinotti, F.M. Corsi, op. cit. 339 A.M. Sorrentino, Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap, Raffaello Cortina, Milano, 2006.
159
familiare chiusa e senza spazio per altre relazioni, coniugali, affettive,
amicali e lavorative340.
Tale processo che Gardou341 definisce come nidificazione è ben descritto
da Primo Levi in Se questo è un uomo:
la facoltà posseduta dall’uomo di scavarsi una nicchia, costruirsi una
conchiglia ed erigere intorno a sé una barriera di protezione nelle
circostanze apparentemente più disperate è assolutamente stupefacente. È un
prezioso lavoro di adattamento, in parte passivo e inconscio e in parte attivo.
Grazie a questo lavoro, nel giro di alcune settimane, si arriva a ritrovare un
certo equilibrio e un certo grado di sicurezza di fronte all’imprevisto. Il nido
è costruito e si è arrivati a superare il trauma causato dal cambiamento.342
In questo scenario, la madre corre il rischio di essere totalmente assorbita
dalla gestione e dalla cura del figlio, e il padre, allo stesso tempo, rischia
una progressiva chiusura in un ruolo che tende ad imitare quello materno.
L’interscambiabilità dei ruoli e dei compiti, oggi, non dovrebbe portare ad
un appiattimento e ad una omogeneizzazione dei ruoli genitoriali, bensì ad
una maggiore valorizzazione di una pluralità di modi di educare e
prendersi cura dei figli da parte della madre e del padre343.
La responsabilità parentale è senza dubbio la più impegnativa e difficile
che gli esseri umani devono affrontare e quella dei genitori di un figlio
disabile è ancora più delicata e complessa: dunque l’importanza che riveste
il padre nella dimensione educativa è ancora più rilevante a motivo delle
ricadute psicologiche e sociali riguardo lo sviluppo e la crescita del figlio.
340 M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 43. 341 Cfr. C. Gardou, Diversità, vulnerabilità…, op. cit. 342 P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005, pp. 62-63. 343 A. Cinotti, F.M. Corsi, op. cit.
160
Come indica Carbonetti “la situazione peggiore può verificarsi quando il
padre fugge dalla situazione di impegno e di sofferenza: allora la madre
resta sola con il suo bambino e accentua il legame di dipendenza con
lui”344.
Riflettere sul ruolo dei padri, da un punto di vista educativo-pedagogico,
significa iniziare a ri-pensare agli interventi educativi tradizionali a
supporto della genitorialità, attraverso uno sguardo critico, attento ai
cambiamenti del contesto e disponibile al confronto delle differenze.
2.1. I padri si raccontano…
Nell’indagare il connubio padri/figli con una menomazione ci si è
avvalsi sia dell’approccio quantitativo sia di quello qualitativo. Nel nostro
caso (Roma Tre) abbiamo scelto di avvalerci dell’intervista coinvolgendo
padri con figli tra i 6 ai 10 anni. L’intervista, infatti, è stata da noi ritenuta
una modalità efficace per attivare un dialogo autentico e dinamico in grado
di consentire un approccio flessibile a un tema così delicato ed intimo. Il
ricorso a tale strumento, poi, ha permesso di raccogliere una notevole
quantità di informazioni e di impressioni che i padri hanno rispetto al loro
ruolo all’interno della famiglia, le proprie esperienze personali e i loro
compiti educativi.
La sfida, che appare una delle più importanti e, allo stesso tempo, più
complesse in ambito socio-educativo, è quella di trasformare la risposta
“specialistica” in “ordinaria”, laddove la focalizzazione sul “bambino
disabile” di stampo bio-medico individuale sembra ancora prevalere a
discapito di un approccio globale alla famiglia e al suo benessere.
344 D. Carbonetti, G. Carbonetti, Vivere con un figlio down, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 54.
161
Anche per questa ragione non si è scelto di “posare lo sguardo” su un
tipo specifico di impairment, a motivo del fatto che lo scopo della nostra
azione di ricerca non quello di fornire supporti compensativi meramente
strumentali (che rinforzano l’azione di delega all’esperto e allo specialista)
ma di co-costruire con i padri l’azione da intraprendere, a partire dai
repertori di competenza di cui sono possessori e portatori, i quali sono
troppo spesso sottaciuti o non valorizzati poiché schiacciati dal peso delle
interpretazioni derivate dai modelli socio-culturali imperanti.
La prima fase di questo lavoro ha visto il coinvolgimento attivo di 14
padri provenienti da diverse zone di Roma (Tor de’ Cenci, Appio-
Tuscolano, Boccea). Nel reperimento delle persone disposte a essere
intervistate e a partecipare all’attività di ricerca-azione è stata fondamentale
la collaborazione di alcune associazioni e Scuole345.
Si è proceduto, poi, all’analisi delle interviste per mezzo di N- Vivo.
Tra i nodi maggiormente interessanti che sono emersi vi sono quelli
inerenti:
o l’elaborazione del “lutto impossibile” (Gardou, 2006) e della
ferita narcisistica (Korff Sausse, 2006).
o il difficile equilibrio tra normatività e affettività;
o la propensione alla funzione di accudimento rispetto a quella
propriamente educativa;
o la differente percezione tra il ruolo (essere padre) e la funzione
(esercitare la paternità) in merito alla qualità e alla quantità di
collaborazione con la madre nell’esercizio della genitorialità;
o i vissuti esperiti in tutte le dimensioni ora indicati
345 In particolare si ringraziano l’associazione “Una breccia nel muro” (Boccea), l’Istituto Comprensivo “Via Santi Savarino” (Tor de’ Cenci), l’Istituto Comprensivo “Rita Levi Montalcini” (Appio-Tuscolana).
162
Di seguito si trascrivono le interviste.
Intervista 1
Forse è un caso un po’ anomalo il mio. Vedendo altri papà le dico che
con mia moglie siamo molto legati, quindi fin da prima che nascesse
Adamo e gli altri figli che abbiamo, avevamo riflettuto sull’ipotesi che il
bambino fosse disabile. “E se dovesse accadere che il bambino non è sano?
mica lo possiamo buttare!” ci dicevamo. Siamo di carattere positivi e
ottimisti. Io lavoro nell’informatica, mi piace la vita molto ordinata,
sistematica. Quando è arrivato Adamo l’abbiamo affrontato pensando
“comunque è tuo figlio”. Il nostro approccio al bambino è stato quello di
volerne capire di più. La diagnosi c’è stata comunicata dal Bambin Gesù
che ha anche aggiunto: “vi ritroverete a vivere il prossimo anno
nell’assenza totale delle istituzioni, c’è un tempo burocratico, la scuola ha
tempi tecnici che sembrano non porre l’attenzione sul bambino, ma sulle
regole, come se l’individuo non venisse prima della regola”.
Dei problemi di Adamo si è resa conto mia moglie. Intorno all’anno e
mezzo si incantava a vedere i film, qualunque cosa gli davi da mangiare
non lo accettava dalle mani di un altro, lo lasciava cadere nel box e poi lo
riprendeva, non guardava negli occhi, non lallava, era schivo. Verso i due
anni abbiamo avuto una visita neuropsichiatrica, una visita per capire se
sentiva, ed effettivamente sentiva, terapia relazionale e logopedia. Terapia
di gruppo con l’intera famiglia. Tre mesi, un po’ una perdita di tempo. Non
aveva, a pelle, simpatia per la logopedista, così siamo andati ad Aprilia e
già la seconda volta che la dottoressa lo visitava ci ha indirizzati al Bambin
Gesù. Abbiamo fatto la visita intramenia, poi attraverso un canale
privilegiato abbiamo preso l’appuntamento dopo poco: disturbo autistico
163
con ritardo psicomotorio, confermata la diagnosi. “Dopo avrete un lutto” ci
dissero. Abbiamo consegnato a scuola la diagnosi, ma a settembre e quindi
stette senza sostegno per un anno. Non siamo stati molto fortunati alla
scuola infanzia: le maestre e l’Aec (Assistente educativa culturale) lo
assecondavano, piuttosto che educarlo: noi a casa cercavamo di evitare che
giocasse con l’acqua, a scuola solamente con l’acqua lo facevano giocare,
poi abbiamo deciso di trasferirlo in una scuola più consona. C’è il sostegno,
ma c’è l’inefficienza della scuola. Ottenuta la 104 e presentate le carte a
scuola, non avevano mandato la comunicazione. Cosi in modo urgente a
settembre gli assegnarono otto ore di sostegno e per il resto c’era l’Aec. Poi
abbiamo avuto storie per inserire mio figlio nel servizio del pulmino per
portarlo a scuola: all’inizio non c’era posto, poi magicamente sì. Ho fatto
ricorso che fu congelato perché il giudice andava in pensione e… scuola
nuova, stesso preside. Assurdo!
Intanto iniziò a fare psicomotricità a due anni e mezzo, il centro dove sta
ora è venuto a fare glh a scuola, e lo psicologo, molto valido, si mise in
contatto con la Breccia nel muro (associazione per bambini autistici).
Adamo ora ha 7 anni e dalla prima elementare ha il sostegno completo,
abbiamo fatto un anno in più di asilo per il suo ritardo psicomotorio e
cognitivo. In quest’anno di “Breccia” ha compiuto un salto enorme, ha
recuperato il ritardo psicomotorio, ed ora lo definiscono “solo autistico”.
Non si relaziona con gli altri, anche se ha la coscienza che esistono, mentre
con i bambini più piccoli entra in sintonia, li tratta con rispetto, con
delicatezza. Lo psicomotricista sfruttava le stereotipie per entrare in
contatto, lo assecondava. Adamo sente le routine e svolge la terapia a casa.
Una settimana al mese veniamo alla “Breccia”: l efficacia nel trattamento
sta nell’inclusione delle famiglie. I primi terapisti sono i genitori, l’anno
scorso dei genitori si sono separati e alla mamma non accettava la terapia,
164
invece credere nella terapia e seguire le indicazioni ha un’efficacia
effettiva. Un giorno fa la terapia mia moglie e un giorno io, anche se a casa,
poi, la fa più lei. La seconda figlia è dislessica e quindi la accompagno a
logopedia. Mia moglie ha deciso di dedicarsi alla casa da quando ci siamo
sposati, dunque io lavoro solo: vado in trasferta per guadagnare di più, però
puoi seguire meno i ragazzi. Avere un bambino autistico ti stravolge i
tempi e i modi con cui ti dedichi anche agli altri. Bisogna trovare gli spazi
anche per gli altri. Con Adamo non si tratta solo di cambiamenti di ritmo:
noi lo consideriamo speciale, ha il suo modo di fare. Ad esempio sono 5
anni che non andiamo in pizzeria insieme, anche perchè ha la fissa degli
ascensori, non glieli devi far vedere. È un continuo cercare strategie nuove,
un continuo adattarsi ai suoi comportamenti. È una limitazione della tua
libertà, pesante, frustrante. Facciamo anche i volontari alla “Breccia. Anche
la suocera è coinvolta. Abbiamo anche organizzato una raccolta fondi su
“ruzzle for autism”. E poi, comunque, ci siamo riservati spazi per noi. Mia
moglie cucina la pasta di zucchero ogni momento in cui Adamo non c’è. Le
cose sono due: o non fai nulla o dedichi del tempo per te.
Intervista 2
Ho un altro bambino, oltre a lui. Il suo è un Disturbo persuasivo dello
sviluppo, con tratti autistici.
Ma per me anche lui è normodotato.
R. Al momento della diagnosi era con sua moglie?
R. In pratica era quello grande che non parlava: nostra suocera lavora qui
a scuola, il grande a iniziato a parlare tardi. Ha iniziato a fare logopedia e
proprio per questo abbiamo scoperto che il piccolo aveva problemi più
importanti. La neuropsichiatra l’ha preso in cura a due anni e mezzo, ha
165
fatto dei test alla clinica Sant’Alessandro collegata con l’università di Tor
Vergata ed è uscito fuori che ha tratti autistici. A un anno e mezzo non
parlava, era sempre agitato. All’inizio pensavo fosse una questione di
carattere. Il momento della diagnosi è cruciale.
In cuor mio penso, prima o poi, di risolvere questo problema.
L’importante è che riesca a fare una vita normale.
Abbiamo anche fatto altre visite mediche per capire se ci sentiva, e
infatti così fu. Ero rimasto più colpito del fatto che forse poteva non
sentire, che per la diagnosi di autismo.
Non mi piace svegliarmi presto, quindi a scuola lo accompagna mia
moglie. Quando sono disponibile faccio quasi tutto, i ruoli sono equiparati
ovviamente. Per mia moglie è più impegnativo perché lo vive nel
quotidiano, ma quando ci sono lo accompagno a nuoto e a logopedia.
Davide è impegnato 4 volte a settimana, andiamo anche privatamente. Ci
sono miglioramenti, sì. Segue il programma normale della classe, bisogna
insistere, non è che non sa fare le addizioni, bisogna entrare nel modo
giusto per farlo concentrare. Io non ho metodo: la logopedista e mia moglie
sono più brave. Io sono bravo a usare il computer, gli ho insegnato ad
andare in bicicletta, gli ho fatto il corso di nuoto e gli ho tolto la paura
dell’acqua: ora sa nuotare.
Sicuramente mia moglie esercita di più la funzione normativa, però
quando poi pure per me si supera il limite, basta. Però, certo, con me ci
provano di più.
Adesso sono molto a casa molto, (cassa integrazione) ed essendo
pensieroso la qualità del tempo che trascorro con i miei figli è peggiore.
Se io mi ricordo come era mio papà, io sono completamente diverso.
Infatti i figli sanno riconoscere quando non riesco ad essere autoritario e
autorevole. Io sono la parte ludica, per la scuola lo segue mia moglie, io per
166
inglese o per il computer. Quello grande è bravissimo. Io sono pigro di
mio, quindi i compiti non mi va di farli, la mamma è più rigida. Io non ho
mai parlato con le insegnanti, io sono più addetto agli spostamenti. Anche
per andare all’Inps… Fa tutto mia moglie, se non ci fosse stata lei sarei
impazzito. Anche io faccio cose che mia moglie non farebbe mai: andare al
parco tutto il pomeriggio, ad esempio. Ci siamo divisi i compiti
naturalmente. Lei poteva fare l’insegnante.
Per quattro volte deve seguire logopedia quindi non sta con gli altri
amici di scuola. Gli altri sport non gli piacciono. Gli piace il nuoto, ma lo
fa con me.
Certo siamo limitati con le vacanze. I primi anni sono stati tosti: lo
chiamavi e non rispondeva, urlava, si buttava per terra, però da qualche
anno a questa parte è bravo. E’ tra i più bravi. Anche portarlo a fare la
visita medica visita audiometrica non è più un dramma. Davide ha unito
ancora di più mia moglie e me. Ogni tanto io provo a dire di fargli fare
sport, ma lei dice che è troppo stressato. Frequentando LM vedo casi di
altri bambini. Io lì sono fortunato, ci sono casi anche più tosti. Davide è
buono, tranquillo, fa progressi. Sicuramente ci sono più donne ad
accompagnare i bambini, ma vedo anche i papà. Poi ci sono i genitori
separati…
Prima c’era mia cognata che ci aiutava. Ora si è trasferita al nord, quindi
tocca a me. Alle tre usciamo e andiamo a logopedia.
Da grande, ho paura per il futuro. Se può avere un lavoro una famiglia
sua, se potrà essere indipendente. Col fratello ha un buon rapporto, quello
maggiore non lo percepisce tanto, sì, ha difficoltà linguaggio, ma non se
rende conto. Sta anche in una classe dove lo trattano bene.
L’unica cosa è che io considero il problema di mio figlio non così grave.
C’è stato un periodo in cui pensavo “potevamo fare diversamente”, però
167
poi io i risultati ce l’ho avuti. Leggendo i forum io penso che ogni caso è a
sé. Un attimo mi è preso lo sconforto e ho avuto un po’ di tensione con mia
moglie, però ora abbiamo rifatto i test e pare migliorato. C’è da lavorare,
ma i progressi ci sono stati. Tutto è abbastanza gestibile.
Intervista 3
Non nascondo che all’inizio mi sono trovato sprovvisto con due bambine
piccole e da solo. Mi sentivo perso. Mia moglie stava male e inseguito ha
deciso di andare a vivere con un altro uomo. Mia moglie non stava bene da
quando sono nate le bambine. Valentina e Martina si tolgono un anno e
mezzo. Sin dall’inizio sono state affidate a me al 100%. Inizialmente era
molto difficile, poi con l’aiuto dei miei genitori e dei servizi sociali che mi
hanno affidato due educatrici la situazione è migliorata. Entrambe le
bambine hanno una diagnosi. La più grande ha un disturbo d’ ansia di
natura importante causato dalla presenza della mamma. La mamma non era
in grado di prendesi cura di loro. È vero che ora l’affettività materna le
manca, “la mamma è la mamma”, ma quando la vede, ogni due mesi,
cambia. Io la vedo che torna e non è serena. Ora è seguita da una psicologa
infantile e ha il sostegno a scuola. Sta migliorando, ma il suo disturbo
compromette in maniera forte ogni attività quotidiana. La piccola ha lo
stesso tipo di disturbo, ma in maniera più lieve. Anche lei ha il sostegno,
ma sono state le maestre di un’altra scuola a non sapersi relazionare con lei.
Da quando ha cambiato scuola ha tutti 9 e 10, forse l’anno prossimo non
avrà più il sostegno. La grande, invece, ha parecchie problematiche, anche
per addormentarsi la sera, è molto in ansia. Rispetto all’età che ha sta molto
indietro, sembra molto più piccola. Ha quasi undici anni. Ha grandi
problemi di socializzazione, difficoltà ad avere amicizie. A scuola mi
168
dicono che parla e scherza con le compagne. Si inserisce nei lavori di
gruppo. Io la invito a far venire qualche compagna a studiare con lei, ma
non sembra molto contenta. Certo avere l’affetto di papà e di mamma è
un’altra cosa. Nella mia stessa situazione siamo pochi. Su Roma siamo
nove papà ad avere l’affidamento al 100%. Su tutta Roma. Il tribunale dei
minori quando accadono casi del genere o affida i bambini alle case
famiglia o consente l’affido al 50%. Da quello che vedo io i ragazzini con i
genitori separati tutti hanno un problema emotivo. Tutto sta all’intelligenza
dei genitori che devono essere bravi a riconoscere il problema: la psicologa
di mia figlia è andata in classe a seguire Valentina per osservare il suo
comportamento in classe e mi ha riferito che molti bambini, compagni di
mia figlia, avrebbero bisogno di un sostegno psicologico. Ma se i genitori,
per vergogna o per ignoranza, non vogliono accorgersene fanno solo
peggio. Il problema si amplifica, non diminuisce. Io me ne sono accorto in
tempo, per fortuna. Ripeto, è difficile: sono solo. Per fortuna ho mio padre
che è molto serio (ride). Il nonno fa la parte del cattivo: “stai composta,
ferma, quello non si fa, questo si, ecc…”. Viviamo in case separate. Io
devo ringraziare i miei genitori e le educatrici: se non avessi loro! Gli
fanno fare compiti, le portano in piscina… I sevizi sociali funzionano e mi
hanno dato un grandissimo aiuto.
È chiaro, devi sapere quando dare affetto e quando essere duro. Ma a me
riesce difficile essere duro. Capisco la situazione che vivono le mie figlie e
l’affetto di un papà non sarà mai quello di una mamma. Essendo femmine,
poi… se fossero maschietti… Però la mamma serve sempre. Lei, la grande,
me lo chiede perché la mamma non c’è mai. Pensi, alla cena di classe per la
fine della scuola c’erano tutte mamme. “Papà ci sei solo tu!” Sono stato
molto attento in tutto: se la mamma non fa la mamma e fa danni è peggio.
È meglio che non ci sia per niente. È dura, alcune sere vado a letto e mi
169
viene da piangere. Arrivo distrutto dal lavoro: lavoro 12 ore al giorno,
torno a casa alle sette di sera stanco, ma la devi mettere da parte la
stanchezza e dare retta a loro. Devi dare quello che vogliono, mio padre mi
dà una grande mano, ma quando arrivo io vogliono me. Io devo
concedergli i loro spazi. La mamma, quando ci siamo separati, ha
peggiorato la situazione. Prima stavano con lei, poi tramite la segnalazione
al tribunale, sono riuscito a prendermi le bambine. Io gliele faccio vedere
solo tramite i servizi sociali. Secondo la sua ottica sono stato io a
portargliele via, invece non è andata così. Lei le mandava a letto senza
cena, senza colazione per la scuola, non le mandava vestite pulite, non gli
faceva fare i compiti, le faceva mangiare a orari sballati. Non ce la faceva
lei a vivere dignitosamente, si figuri prendersi cura di due bambine.
Io le dicevo: “dalle a me, senza farmi rivolgermi al tribunale, quando stai
meglio le riprendiamo insieme”.
Per ora non ho nessun pensiero. Vorrei che dimostrassero l’età che
hanno. La grande è indietro, quella piccola meno, ma ha bisogno di aiuto.
Sono molto unite, si cercano, si spalleggiano. Hanno molte difficoltà, è
vero. Alla grande manca la mamma, non vede l’ora di vederla. La piccola
meno, anche perché la mamma non la cerca molto. Prima si dispiaceva,
adesso non chiede neanche più di parlarci. Io le spiego che la mamma gli
vuole bene comunque, ma ora sta male e non può stare con loro. Sarebbe
peggio colpevolizzare la mamma, non farebbe bene a loro, ed io cosa
risolverei? Nulla. La grande non vorrebbe il sostegno a scuola, le dà
fastidio. Io neanche avrei voluto, ma la psicologa ha insistito…Infatti è
stata vittima di atti di bullismo: l hanno presa in giro, “sei ritardata
mentale” le dicevano. Siamo andati dalla preside a parlare e ora sembra
vada meglio. Ha dei ritardi nell’apprendimento, ma sta facendo passi da
leone. Il trauma c’è stato e ora va recuperato.
170
Intervista 4
Il dubbio e il sospetto che c’era qualcosa che non andava è arrivato ad
un’età in cui mio figlio avrebbe dovuto parlare e invece non parlava, non
emetteva suoni, o meglio: stava cominciando. La prima parola che ha detto
è stata “Papà”, ma dopo un po’ ha smesso. Il fatto che non parlava era
strano. Poi ci sono i familiari e gli amici che ti dicono: “ah, ma quello pure
ha iniziato a parlare tardi, quello a 5 anni… Figurati”. Si, ok, perfetto: c’è
quello e c’è quell’altro, però poi il dubbio ti viene. Intorno ai 18 mesi
l’abbiamo portato da una parte per farlo visitare, poi ovviamente non
accetti il primo responso e provi da un altro. E poi capisci che il responso
era quello…
Per quanto riguarda la quotidianità allora, è vero, anche nella nostra
famiglia, come tipicamente, è mia moglie che è più attiva perché noi
lavoriamo nello stesso ufficio: cassa assistenza sanitaria. Con le terapie uno
dei due doveva decidere di prendere un part time, nonostante la 104. Lei s’è
presa il part-time ed esce alle tre di pomeriggio. Gioco forza è lei che lo
porta alle visite, a logopedia sulla Tuscolana, impiega un’ora ad arrivare…
A lui piace tutto… E’ fissato con i treni, gli piace prendere la metro…
Siamo stati in America e ha preso l’aereo. Da poco tempo parla. Tutti gli
anni facciamo un test di controllo alla Sant’Alessandro, un distaccamento
di Tor vergata… Da questa serie di test hanno detto che è irriconoscibile.
Lui parla così da un anno, ma fino a un anno fa parlava solo con le
vocali… Ha avuto uno sviluppo velocissimo. Tutti sono rimasti veramente
colpiti: loro, (le educatrici dell’associazione), la neuropsichiatra. Siamo
sempre stati qui a Be&Able: prima faceva la terapia a casa e poi da
quest’anno scolastico ha iniziato a fare laboratorio, forse ha fatto due, tre
171
incontri quando stavano a viale Trastevere… Qui una volta a settimana fa
tre ore, poi lui si diverte, lui è bravissimo… Lunedi judo, martedi
logopedia, mercoledi viene qui, giovedi logopedia, venerdi pomeriggio
libero, sabato nuoto: però gli piace tutto… Si con i compagni sta
benissimo, lo cercano quando non c’è: fa parte del tessuto sociale, è
inserito benissimo all’interno del gruppo, le educatrici sono soddisfatte…
E’ figlio unico, con il tempo che richiede non ce la sentiamo ad avere un
altro figlio. Un aiuto enorme proviene da mia suocera perché abita vicino…
I miei sono lontano e nonna Luigina è la nostra salvezza…
D. futuro? Il dopo di noi?
R. Questo è uno dei punti di dibattito con mia moglie. Lei dice: “un
domani chi penserà a sto ragazzino, magari un fratello o una sorella…”
D. magari il fratello piccolo viene utilizzato come risorsa…
R. Io ho una fiducia enorme che diventi autonomo. E anche prima
quando parlava solo con le vocali, o non parlava proprio… Io non ho mai
avuto un momento in cui dicevo “ma chissà”, poi magari sarò io a essere
troppo ottimista, ma io la penso cosi. Mi è capitato di vedere altre
situazioni in cui mi dico “sono fortunato”. Veramente meglio, sta molto
meglio. E poi, ripeto, io sono convinto che lui abbia le potenzialità per
diventare indipendente, “normale”. Io ho visto che ci sono dei ragazzini
autistici, che se li incontri per strada, manco te ne rendi conto.
Intervista 5
Quando è nato è stata grande festa. Un bellissimo bambino. È figlio
unico. Non aveva nemmeno due anni che ho cominciato a vedere i primi
segni di qualcosa che non andava: non si girava subito quando lo chiamavi,
metteva in atto delle stereotipie. Un papà nella sua mente inizia a dire:
172
“bella mazzata”. Lo stato d’animo di un papà? Tu fai progetti, gli posso
insegnare questo, quello… e poi ti crolla il mondo addosso. Sicuramente
c’è stato un attimo di sbandamento, poi ti devi resettare: con mia moglie il
rapporto si è rafforzato. Noi ci siamo sposati perché ci vogliamo bene, il
rapporto è ottimo e questo anche affinché Francesco possa vivere sereno ed
essere autonomo, il più possibile. Ora ti racconto un pensiero che ho
maturato tramite l’esperienza di amici e colleghi: io sono ferroviere, mi
occupo della manutenzione delle linee elettriche, controllo a distanza le
centrali dove il treno prende la corrente. Siamo cinque colleghi, cinque con
bambini autistici. Secondo me c’è un fattore ambientale forte: l’arco di
tempo in cui sono nati i bambini… Noi abitiamo a Scalea (Calabria). […]
(mi parla di un tasso d’incidenza molto elevato di bambini autistici nel suo
paese).
Francesco è un bambino a basso funzionamento, ha sette anni. Ora si
iniziano a vedere i progressi. Abitiamo una settimana a Roma così
possiamo partecipare ai corsi per bambini autistici della Breccia nel muro.
Mi sono anche preso l’aspettativa per non caricare mia moglie di troppo
lavoro da sola. Mia moglie per forza è casalinga.
Le nostre famiglie ci aiutano molto, da entrambe le parti. Se abbiamo
necessità di spostarci, ci sono gli zii. Pensa, mio fratello ha sposato la
sorella di mia moglie, c’è un vincolo d’affetto molto forte.
Io sono un padre presente, ci sono sempre per tutte le cose che servono a
Francesco.
Scuola? In Calabria non ti fanno ripetere l’asilo, quindi quest’anno
frequenta di nuovo la prima elementare. Ha avuto un’ottima insegnante di
sostegno l’anno prima, quest’anno invece no. La scuola non vuole
collaborare con i terapisti che vengono da fuori, si sentono controllati.
L’insegnante di sostegno è un’ignorante, ma non per colpa sua, ma per
173
come sono fatte le linee guida. Abbiamo bisogno di insegnanti con
formazioni specifiche, almeno per lavorare con l’autismo. A scuola stiamo
attraversando una crisi. Si mettono paletti stupidi per non confrontarsi.
Io, nel mio piccolo, cerco di combatterla sempre l’ignoranza nei
confronti dell’autismo: io intervengo in queste battaglie perché anche con
gli altri genitori abbiamo fondato una nostra associazione.
Noi sappiamo vedere se chi lavora con i bambini autistici, lavora bene.
Abbiamo fatto amicizia tra genitori qui alla Breccia nel muro e siamo
rimasti in contatto anche con gli altri che hanno finito e che non vengono
più qui.
I genitori, e i papà, che collaborano con questa Associazione sono tutti
quanti presenti. La terapia è efficace perché parte da noi. Questa terapia
implica la presenza del genitore: Francesco è cambiato. È vero, non è
verbale, ma qualche parola gli “esce” e a livello cognitivo è migliorato,
come anche il contatto oculare.
Noi pensiamo al domani. Dobbiamo cercare di creare delle situazioni in
cui i nostri bambini dovranno e potranno essere autonomi, anche quando
noi non ci saremo più.
Bisogna crearle ora le condizioni per il futuro, anche a Scalea.
Intervista 6
Claudio ha una sorella più grande, ha sette anni e mezzo e ha una
sindrome genetica non ereditaria: una sindrome orfana. Non si come
succede, ma tutto avviene al momento del concepimento con l’unione del
dna, si chiama cardio facio cutanea. Lui è così dalla nascita.
Anche la sorella soffre di una disabilità congenita di tipo meccanica: è
nata con una deficit ad un braccio, anche lei sta qui nella stessa scuola.
174
Claudio ha un forte ritardo neuropsicomotorio: non cammina, non parla,
non si alimenta da solo, ma artificialmente con alimenti ricomposti. Ero
presente al parto, mia moglie ha avuto una gravidanza perfetta e solo al
momento del parto cesareo si sono resi conto che il liquido amniotico era
scuro. Come genitore ho capito che c’era qualcosa che non andava. Non si
riusciva subito a fare una diagnosi. Claudio è nato a maggio del 2006 e la
scoperta del gene è stata fatta a dicembre dello stesso anno. Non si sapeva
assolutamente da che gene dipendesse. Da lì è iniziato un’odissea. Due
anni dopo abbiamo avuto la certezza della diagnosi. Il bambino ha avuto un
ospedalizzazione molto marcata, è stato molto spesso ricoverato in
ospedale per una malformazione cardiaca. È stato operato al cuore a tre
mesi, dopo un mese è stato ricoverato d’urgenza perché non si alimentava
col biberon, rigurgitava e non cresceva e quindi gli è stato inserito un
sondino nello stomaco. Inoltre ha ipotensioni nella postura e non
deglutisce: non sa che cosa fare con il bolo, soffocherebbe. A tre anni ci fu
il primo esordio di crisi epilettiche molto forte, contestualmente l’altra
bambina stava subendo degli interventi chirurgici per far funzionare la
mano attraverso un trapianto di tessuto muscolare. La bambina è normale,
ma ha questo ispessimento al braccio dovuto alla posizione al momento del
parto in cui rimase schiacciata.
Rapporto con bambina molto attaccata, più coccolata. Con Claudio ci
sono stati molti progressi: è più presente, comunicativo. All’inizio aveva
anche difetto visivo per cui lui vedeva solo al margine, faceva fatica a
riconoscere, ora è molto più partecipe, presente, ride, scherza.
Sicuramente nel rapporto con mia moglie la disabilità di Claudio ha
influito e ha pesato. C’è stata una vera trasformazione. Noi pensavamo di
essere felici. Io non mi sento felice, nonostante abbia molti motivi per
esserlo, ma ora non lo siamo. Per me è cambiato tutto. Mia moglie è più
175
positiva, ci vogliamo bene. Io non mi stancherò mai di dirlo: questo
bambino è nato per amore. Ci ricordiamo quando è stato concepito. È
andata male. Siamo esasperati. I primi mesi non dormivamo e anche i primi
anni, tutto è molto faticoso: da quando è stato operato la seconda volta allo
stomaco non si addormenta spontaneamente, ma solo con i farmaci, ora è
cambiata la terapia e dorme. Adesso dorme un po’ meglio. Il bambino va
molto volentieri a scuola, si trova benissimo con i bambini, soprattutto i
piccolini, c’è una forte empatia con i bambini di tre anni e notiamo piccoli
miglioramenti.
D. Il suo rapporto con Claudio?
R. Adesso la situazione è cambiata. Durante la settimana lavoro. Il
bambino sta fino alle 4 a scuola. La mattina lo prepariamo insieme. Per
motivi personali abbiamo ritenuto più opportuno che fosse lei (la moglie) a
beneficiare per entrambi i figli della 104. Mia moglie ha avuto un tumore
alla mammella, ora sta bene. Poi quando esce da scuola viene preso in
carico da un assistente domiciliare. Sta con lei, fa terapia riabilitativa, una
parte della giornata sta a scuola e una parte a casa. La sera torniamo a casa.
La terapia la svolge quattro volte a settimana e il fine settimana sta o con
noi o con i nonni.
D. rapporto con altri familiari?
R. Da coppia era essenziale viaggiare, ascoltare musica… Tutto questo è
finito. Da due, tre anni abbiamo ripreso a fare le vacanze. Il materiale che ti
devi portare dietro è immenso. Ci trasferivamo a Fregene, ma non in un
albergo. Avevamo paura delle crisi epilettiche, quel primo episodio è stato
traumatico. Siamo andati in Calabria. I viaggi come li facevamo prima non
li abbiamo più fatti, la musica gli da fastidio, alcune frequenze lo
disturbano, su alcune piange. I miei genitori sono molto anziani, e oltre al
dispiacere che hanno avuto, richiedono cure.
176
Da parte della moglie sono affettivi, ma non possiamo contare su di loro,
bisogna contare su aiuti esterni. Non abbiamo supporti familiari pratici,
sono più affettivi, non è un supporto che può risolvere un problema
quotidiano.
D. Funzione normativa?
R. Claudio non ha bisogno di regole, non è questo il caso. Se sta male è
insofferente, non ha altro canale comunicativo. È autolesionista, si dà le
botte in testa, deve superare il momento di crisi poi torna ad essere sereno.
Soffre di problemi respiratori.
D. Futuro?
R. Mi preme molto il suo futuro, sono molto preoccupato. Non c’è
soluzione: né familiare né sociale. Non riesco a immaginare un aiuto e ci
spaventa il non avere soluzioni. La sorella non è neanche propriamente
abile, noi siamo genitori anziani: ci siamo incontrati dopo due matrimoni
falliti. Io ho 55 anni e, ammesso che sopravviva a noi, verrà messo in un
Istituto. Non c’è una soluzione concreta, nel dopo di noi… Sì, ci sono i
fratelli, ma la sorella non è pienamente abile dal punto di vista fisico.
Sostanzialmente chi si occupa di questi aspetti è la famiglia. E noi non
possiamo condizionare la vita della sorella. In passato succedeva che questi
soggetti venivano a mancare prima, o venivano messi in istituto.
D. A lei aiuta legger ei blog?
R. Non mi interessa a stare in mezzo a persone che hanno lo stesso
problema, mi conforta solamente leggere le soluzioni nella gestione pratica
del problema. Per il benessere della sorella cerchiamo di stare con famiglie
normali, non siamo portati a stare con persone con lo stesso problema. Ti
accadono cose per cui, poi, la vita non è più la stessa.
177
Intervista 7
Il suo rapporto con il figlio, la giornata, il suo percorso dalla diagnosi
alla giornata.
Ti premetto che io ho fatto dieci anni di volontariato con i bambini
down. Manuel non è stato accettato, di più. Manuel è un bambino down. Io
sono innamorato di Manuel, Aurora è la prima figlia, poi Manuel… Se mi
togli Manuel… E’ eccezionale! Mi fa arrabbiare, per carità. Fa la quarta
elementare. E’ il classico tipo che ti prende in giro, ma per fortuna ha
un’insegnante di sostegno in gamba… E’ nato il 1 dicembre del 2002.
Quando mia moglie era incinta abbiamo fatto tutto, tranne l’amniocentesi.
Io sono contro l’aborto, quando mi domandano stupidamente: “tu che
avresti fatto?” gli rispondo “a me, se Manuel manca 15 giorni è finita,
nonostante sia pesante”. Io lavoro precariamente, lei (la moglie) lavora
all’ospedale e come orari ha dalle 7 alle 19, o anche dalle 7 alle 21, e
Manuel qualche volta è ingestibile. Io qualche volta gliel’ha do vinta, lo so.
Una volta eravamo a Cinecittà2, vicino c’è quel parco… Siamo stati un
pomeriggio intero e lui stava con la bicicletta… Attraversiamo la strada
“Manuel non togliere i gommini dal manubrio!”. Non le dico: cade con il
manubrio sotto l’occhio, una paura! Fortunatamente passa una signora con
un ghiacciolo, qua sotto, (indica lo zigomo) non le dico il sangue… E qui a
scuola ti fanno le domande… Qualche sculacciata se la prende…
Me l’ha mandato Gesù Cristo, io adesso non saprei proprio… La sera:
“nel lettone, papà?” Adesso è uscito da terapia e non vedo l’ora di tornare a
casa… “Papà? Bici?” Mi vedo il tg alle 8 e mezza e alle nove dormo, anzi
adesso un po’ meno perché lavorando meno assiduamente, io uscivo alle
sei e rientravo alle otto… E poi non mi sono mai tirato indietro. Io e mia
moglie, naturalmente. Adesso lo accompagna più mia moglie a terapia, ci
diamo i compiti…
178
D. Manuel è autonomo?
R. Manuel è molto furbo… Io mi sono trovato un giorno a vedere lui che
mangiava a mensa con gli altri bambini: entro nel refettorio e lui mangiava
solo. “Guarda sto paravento!”, a casa l’altra volta gli ho detto: “o mangi da
solo, o non mangi”. S’è messo là e m’ha guardato. Gli ho tagliato la carne,
“dai mangia!” Nelle sue cose è molto astuto, poi da quello che ho capito
avendo anche avuto contatto con altri diversamente abili, penso che la
sindrome di down sia quella meno “diversamente abile” che c’è, se presa a
cuore… L’altro giorno mi è capitato di stare con un mio amico che ha un
bambino autistico, che adesso sta diventando anche violento. Il mattino
prima- lui (l’amico) fa il falegname e stava a Firenze-, ha chiamato il
fratello perché il ragazzo stava menando la madre. E’ come se adesso io sto
parlando con lei e inizio a menarla… “scusate, scusate” dice il mio amico
“che scusate?! De che ti devi scusare?” Io ho iniziato ad accarezzare
Daniele… Più che grosso, è alto… Hanno una forza… Ma anche Manuel
ha una forza impressionante… Io Manuel me lo porto dappertutto: andiamo
al parco, in bici, andiamo alle giostre, andiamo da qualunque parte voglia
andare lui, se ne approfitta, a volte. A me sente di più, rispetto a mia
moglie: “mo’ basta, mettiti là, stai zitto…”. Come successe due mesi fa:
siamo usciti e gli dico: “sempre con la macchina usciamo, andiamoci a fare
una passeggiata…”, e lui niente, non gli andava… A un certo punto gli ho
detto: “oh, o andiamo a piedi o rimaniamo a casa”. S’è girato! “Benissimo,
ora andiamo a casa, non fai nulla, stai fermo, non ti muovi, adesso
facciamo pranzo, vai a dormire e se mi va…” Il pomeriggio ha aperto la
camera, io facevo finta di dormire, ha preso la bicicletta e l’ha portata
vicino a me, (che poi è raro che dormo il pomeriggio), mi ha fatto così -(mi
fa vedere il gesto del bambino che lo chiama)- “e ‘mo che vuoi?” “Bici…”
“No, stamattina ti sei comportato male…”. Poi mi si compra…
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Guardi, io sono molto contento di questa maestra, ci sta dando una mano
in tutti i sensi e poi c’è una signora che la accompagna a scuola. Qui in
Italia non siamo gestiti bene: parlando con una dottoressa le ho detto “io
non ho mai conosciuto un bambino sfortunato come Manuel…”. Lui,
nell’arco di un anno, cambia due, tre, quattro, cinque volte maestre, il
bambino, poi, non ci capisce niente. Un giorno ci sta lei, un giorno ci sto
io… Io ho fatto la Giornata Internazionale dei ragazzi down, mio figlio
adesso ha 10 anni e mezzo, nel 2008, lui era piccolino… E ci siamo trovati
con tutti i paesi europei e con i bambini con diverse disabilità e con quel
poco di inglese che so, parlando con altri paesi, Svezia, Norvegia, mi
dissero: “voi non siete da terzo mondo, ma da sesto mondo…”. Mi ha
spiegato questa dottoressa… Tipo lei, bionda, occhi chiari: “da noi, quando
nasce un bambino diversamente abile, è lo stesso ospedale che avvisa il
comune di appartenenza che c’è questo Bes… E già forniscono un percorso
loro…
Le racconto questo episodio: nel 2011 sono venuti alcuni signori dei
servizi sanitari, dopo che nel 2005/2006 ho richiesto i domiciliari. Si è
presentata una signora che mi dice: “siamo venuti a fare un’altra volta la
domanda perché è scaduta” e io “scusi, ma lei quando c’è venuta qua
dentro casa mia?” “Perché non so mai venuta?” “mai!” Io so che c’è un
pulmino che passa e devo dare 500 euro al pullmino che porta a scuola
Manuel, e adesso mi pesa perché la pensione di Manuel me la dividevo:
250 euro per Manuel e 250 euro per Aurora. Adesso non ce la faccio e non
me ne vergogno…
Ora poi gli hanno chiuso il progetto a Villa Fulvia e quindi stiamo
vedendo di farlo riaprire. Non so se lei conosce Albertini del San Raffaele,
un professore che ha studiato da sempre la sindrome di down. Ci ha detto
“guardate che questo ragazzo ha bisogno, da un punto di vista
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comportamentale, di un supporto psicologico”. Sa da quanti anni è che lo
chiediamo a Villa Fulvia? Ce l’hanno data a pagamento, privato, a Grotta
Ferrata: noi ogni venerdì sera prendiamo e andiamo, 40 euro a seduta… Io
dico, perché tu a qualcuno lo fornisci il servizio e a lui no… “Ah, ma non
ha bisogno”, ci dicevano. Dove mi mandano gli altri non va bene perché
non me l’hai detto tu. Io sono allibito, ma comunque vado avanti perché a
me, mio figlio, non me lo leva nessuno… Finché sto in piedi e c’ho ragione
di essere.
Aurora ha preso psicopedagogia per questo…
Intervista 8
Luca ha otto anni e mezzo. Di lui ce ne occupiamo o io o la madre, ma
più io, perché la madre esce presto. Lo sveglio, gli preparo la colazione, a
lui e alla sorellina di 3 anni e mezzo, lo accudisco nelle mansioni mattutine,
lo aiuto a lavarsi e a vestirsi, vedo se va in bagno. Poi lo accompagno a
scuola, mentre nel pomeriggio se ne occupa il Comune ad accompagnarlo
alle attività extrascolastiche. Nei fine settimana andiamo in bicicletta nei
parchi: quest’anno un po’ di meno perché il pomeriggio è sempre molto
impegnato. O andiamo da soli o con la sorella. Comunque mi prendo cura
di Luca sia da un punto di vista pratico, ma anche in altri modi: ad esempio
con lui gioco e gli insegno ad usare il tablet oppure con la wii, o anche al
gioco dell’ oca. Cerco, cioè, di fargli fare i giochi di socializzazione, così
come li svolge in altri contesti scolastici e non. Non c’è quindi una mia una
funzione specifica: nel nostro caso non c’è una divisione netta dei ruoli.
Ovviamente la mamma ha delle caratteristiche imprescindibili, ad esempio
la mamma organizza di più le cose di casa. Casco bene da questo punto di
181
vista! (ride). Si, si, le regole gliele do continuamente, anche perché le
richieste da parte sua sono sempre di più, quindi bisogna imparare a dire di
no o a convogliare la sue attenzione in altre cose. Cosi come fare i compiti.
Io lo aiuto, senz’altro. Il pediatra dell’asilo ci comunicò che qualcosa non
quadrava. Il pediatra di base pensava che il bambino avesse determinate
caratteristiche caratteriali, ma non credeva altro. E anche noi a casa non ci
rendevamo bene conto. Poi, dopo l estate, il pediatra dell’asilo ce l’ha detto
di nuovo di portarlo a visitare. Quindi ci siamo indirizzati verso una
struttura pubblica e qui hanno fatto la diagnosi. A 2 anni è stato dato
l’allarme e a due anni e mezzo la diagnosi vera e propria. Non
conoscevamo nulla dell’autismo, come qualunque altro. I primi mesi, ma
direi anni, uno non si documenta neanche perché non ti viene detta una
cosa specifica, all’inizio la diagnosi è generica. Dopo ti cominci a
documentare, più avanti, quando il disturbo è permanente e quando la
diagnosi inizia a essere più dettagliata. Uno dei padri che veniva in questa
struttura, disse: “tanto se ne occuperà mia moglie”, però forse non aveva
capito che era un problema generale che avrebbe riguardato lui, la moglie e
l’eventuale fratello o sorella. Penso molto al futuro, ma anche all’oggi:
soprattutto da una certa età in poi si comincia a pensare il futuro, ma non in
negativo, uno inizia a pensare al futuro migliore, però so che ci sono le case
famiglie ed altre si strutturano. Poi dipende anche che adulto sarà, se
acquisirà un’indipendenza o meno. Anche se non ci pensi al futuro, tanto
viene fuori lo stesso.
182
Intervista 9
Lorenzo è un bambino di dieci anni. Fino alla seconda elementare
siamo vissuti a distanza, nel senso che i primi anni della sua vita li ha
vissuti con la mamma, il nonno e la nonna.
Dopo di che, 4 anni fa, abbiamo deciso di riavvicinarci visto che erano
subentrate delle condizioni economiche favorevoli, ma soprattutto perché
abbiamo deciso di stare tutti insieme: io i figli li vivo veramente dagli
ultimi quattro anni perché prima li vedevo dal venerdi, quando scendevo a
Pozzuoli, alla domenica. Ripartivo lunedi mattina presto. Io dal 2000 sono
a Roma perchè prima lavoravo nel nord Italia. Mi sono sposato con Chiara
nel 2001. Nel 2002 è nato Umberto, il nostro primo figlio e nel 2003
Lorenzo. Fino al 2010 siamo vissuti uno a Roma e loro a Pozzuoli. Io
facevo il pendolare: l’ho fatto per dieci anni, poi non ce l ho fatta più.
Il problema di Lorenzo è stato identificato qui a Roma. Nella scuola a
Napoli abbiamo avuto parecchi problemi: per una serie di motivi che mi
hanno portato… Cioè, voglio dire, il bambino veniva indicato come
irrequieto, svogliato, senza voglia di apprendere. Io ho avuto anche uno
screzio molto forte con la maestra. Inoltre continuavano a chiamare in
continuazione mia moglie per andare a prenderlo a scuola perché il
bambino si rotolava in terra e cose di questo genere. Finché un giorno dissi
a mia moglie: vado io a parlare con la maestra al colloquio. Ribadii alla
maestra che io mi occupo dell’educazione di mio figlio al di fuori delle
mura scolastiche, quando lo affido “alle mura scolastiche” per me la
responsabilità dell’educazione e della formazione di mio figlio è delle
insegnanti. Insomma, abbiamo avuto una litigata importante. Io, poi, i
primi tempi ho punito Lorenzo. Mi dicevano che era svogliato: io per
cercare di fargli capire l importanza delle cose lo punivo. Poi ho scoperto…
(momento di commozione). Da quando siamo venuti a Roma abbiamo
183
affrontato questo tipo di problema, ma lo abbiamo capito molto dopo. Da
quando sono a Roma ho orari variabili. Inoltre ho problemi di salute
personale: cerco di seguire il bambino cercando di invogliarlo a lavorare e
a studiare. “Guarda che se vuoi, puoi! Hai visto che dicevi di non farcela e
ora, invece, ce l’hai fatta?” gli dico spesso. Sicuramente è poco il tempo,
però la vita è fatta di mille impegni e responsabilità: lavorare fino a tardi mi
permette di curare Lorenzo. Lori è un bambino dolcissimo che ogni tanto
ha i suoi “momenti no”, ma se impari a prenderlo, lo convinci… Bisogna
giocare un po’ sullo “psicologico”!
Le preoccupazioni di un papà con un bambino come Lorenzo… Anche
io penso cosa succederà nel futuro. Oggi vediamo gente molto brava che fa
fatica ad ottenere un lavoro. Anche perché noi non siamo eterni: è vero noi
siamo giovani, ma io a maggio ho avuto anche… (altro momento di
commozione ricordando l’infarto che lo ha costretto a casa per un po’ di
tempo). Il pensiero c’è. Il non riuscire in qualche modo garantirgli un
futuro sicuro mi dà ansia, anche perché il bambino ha capacità, però
viviamo in una società in cui le cose le vuole subito e tempestivamente.
Non siamo un società di pensiero, anzi. Vogliono tutto e subito, per cui la
mia preoccupazione è questa. Io ora cerco di invogliarlo ad imparare
benissimo una lingua, perlomeno una lingua, perché male che vada, è vero,
si è distanti, io sono distanti 600 km dai miei, però oggi con gli arei, con i
mezzi, si arriva dappertutto. Per cui… Sicuramente penso che Lorenzo sia
un bambino con cui credo di avere un debito.
Io in matematica andavo bene: cerco di trasformare le spiegazioni di
matematica su un piano figurato; cerco di accompagnare le visioni
matematiche: cosa significa da un punto di vista pratico, ma questo lo
faccio in maniera indipendente dalla diagnosi di Lorenzo. E’ la prima volta
che parlo di Lorenzo con tutta la sua storia. Mi sento responsabile perché
184
comunque, indipendentemente dalle parole, io ho un ruolo, esercito un
ruolo, gioco un ruolo e io del problema di Lorenzo non me ne sono accorto.
Punto. Mio suocero me lo diceva: “guarda che forse Lori ha dei problemi,
mi sembra lento” e io pensavo che c’è il bambino più sveglio e quello
meno. Magari Umberto, il fratello, è più “veloce”, poi lui in un colpo
esplode. Non ho ascoltato il segnale che mi è arrivato, ma non collegavo
neanche quello che mi diceva la maestra. Io non conoscevo la malattia fino
a quando non me l’hanno spiegato. Poi ho imparato che ci sono questi
bambini. La cosa che mi faceva incazzare era quando mi “girava” i numeri.
Io non capivo perché mi girava i numeri, allora io pensavo che lo facesse
apposta. Era un attaccabrighe Lorenzo. “E io ti faccio fare un’altra riga”.
Forse gli è servito, ma comunque ha avuto uno stress emotivo incredibile.
Ora Lorenzo ha molto chiaramente in mente quelli che sono i suoi limiti e
le sue difficoltà. Io glielo dissi molto apertamente: “quando sei stanco ti
riposi un attimo, poi si ricomincia”. Non mi aspetto che sia Einstein. Io
vorrei per lui una vita vissuta con dignità, che abbia una famiglia e che sia
felice. Poi se vuole fare il pittore, lo scrittore o il parrucchiere non mi
interessa. Io voglio un figlio contento, non laureato o altro. Mio padre era
autista e mi diceva “studia se non vuoi fare la mia vita”, e poi a volte mi
chiedo a cosa mi sia servito studiare. Poi magari si, ti piace il lavoro, ma
non hai soddisfatto i tuoi sogni. La vita è una, non esiste il rewind. Poi sono
contento se sarà parrucchiere o panettiere, l’importante è che riesca a
vivere la sua vita, coni suoi alti e bassi, ma serenamente. Non in mezzo a
lusso o ricchezza, poi se fosse: buon per lui. “Aiutati che Dio t’aiuta.
Adesso, poi, neanche li inverte più i numeri”.
185
Intervista 10
Fabiano è nato con una malformazione all’occhio e in una parte non
vede. Poi questo ha portato anche a disturbi dell’attenzione ed è iperattivo.
Il rapporto con mia moglie è rimasto invariato anche perché siamo una
famiglia numerosa. Abbiamo cinque figli.
Il suo tipo di disabilità ci permette comunque di dargli regole anche se
siamo molto tolleranti. Ha un carattere molto testardo.
I fratelli hanno un bel rapporto, anche se tra maschi e femmine c’è
sempre qualche discussione. Io sveglio tutti i figli, facciamo colazione tutti
insieme e aiuto Fabiano a vestirsi: devi stargli appresso sennò lui si mette
sul divano. Devi andare lì e motivarlo. Poi io devo andare a lavoro e mia
moglie li accompagna a scuola. Poi lei li riprende e io arrivo alle 18:30. Lui
fa ippoterapia, gli piace molto. Il cavallo fa tanto per chi ha problemi. Va
d’accordo con gli amici, ci gioca a pallone…
Lui non ha un grande handicap, per fortuna, quindi è abbastanza
autonomo e non avrà grandissimi problemi. Uno ci pensa sempre: che farà
un domani quando non ci staremo più noi? Però per fortuna non è un
grande handicap. C’avrà delle disabilità ma qualcuno gli darà una mano.
Grandi preoccupazioni non ce ne sono: tranne pensare a quando porterà
la macchina che avrà qualche problema di vista… ma sennò non abbiamo
grandi preoccupazioni per lui.
Lui la parte affettiva la fa sempre con la mamma. È più abbraccione con
la mamma. Io lo accompagno a terapia, lo porto in giro, eccetera. Ma con la
mamma è più coccolone.
Essendo così tanti, mi dispiace non riuscire a dedicare a ognuno il tempo
che merita. C’è sempre piaciuta la famiglia numerosa. Abbiamo fatto
quello che volevamo. La realtà è questa, ci devi convivere! Bisogna essere
186
intelligenti e non ci si deve nascondere: ognuno c’ha una cosa che Dio gli
dà.
Intervista 11
Mia figlia è nata nel 2003. Ha un fratello di 6 anni più grande. Io ero
molto preoccupato. I primi mesi dalla nascita la bambina sembrava
normale. Poi dopo 3-4 mesi ha cominciato a irrigidirsi, la notte c’erano
pianti disumani… io e mia moglie abbiamo vissuto dei periodi assurdi.
Notti interamente dedicate al pianto. Alla fine siamo andati anche al pronto
soccorso. Lì ci stavano per dimettere ma io mi sono imposto perché non mi
sembrava possibile. Approfondendo hanno visto che c’era un problema
cerebrale molto grave: una distroencefalia. Le cellule che lei dovrebbe
avere nell’encefalo sono sparse per il corpo. Crisi epilettiche…
Lì il mondo è finito. È finito tutto. Io non ne parlavo… aveva già quasi 5
mesi.
Da lì è crollato tutto e abbiamo cercato di portare su le macerie. Il
fratellino non poteva capire fino in fondo. Anche a lui questo ha portato
gravi problemi emotivi che abbiamo sottovalutato.
È imploso dentro ed era naturale che accusasse questo. Il clima in
famiglia era cambiato. Con una bambina così devi rivoluzionare tutto.
Viene tutto concentrato su di lei. E un bambino di 6 anni questa cosa la
digerisce a fatica…
Durante la gravidanza non ci siamo accorti di nulla perché non si vede
nemmeno con l’amniocentesi. Quando l’hanno diagnosticata, abbiamo
visto di tutto... ci avevano detto che la bambina non avrebbe mai provato
emozioni, non avrebbe mai sorriso, niente. Però quello che vedevamo noi
non era questo! Un genitore come fa ad accettare una cosa così?! Era
187
meglio se mi avessero ammazzato. Dire così a un genitore è devastante!
Non sarei capace anche se fossi uno specialista: abbiamo visto le eccellenze
in Italia ma ormai per loro è una routine e non hanno tatto. Tornati a casa ci
siamo messi lì e…
Il rapporto tra di noi è stato ovviamente danneggiato perché la tensione
che c’era in casa si tagliava col coltello. Crisi ripetute, poi una cosa del
genere non la digerisci mai. Io ancora non l’ho digerita. Adesso mi faccio
le stesse domande del 2003: non è possibile, dico! Comunque ci siamo un
po’ appoggiati l’uno all’altro. Addirittura Chiara ora viene a scuola qui, la
conoscono tutti… quando c’ha le crisi gli insegnanti la portano via in
pompa magna… la conoscono tutti! Ha anche insegnanti molto brave,
soprattutto quella di sostegno. Si prestano oltre il loro dovere.
Io non so perché noi non abbiamo ceduto. Io ho sentito gente che ha
detto: io non ce l’ho fatta più e non mi sento neanche di giudicarli perché è
dura. È una cosa che non riesco neanche a descrivere. Non c’è neanche un
discorso da affrontare.
È una bomba che ti capita tra capo e collo. Non so nemmeno per quanti
mesi non ho dormito. Ti porta al limite.
Poi è cresciuto anche l’altro figlio e abbiamo cominciato a rivolgerci
anche a lui come altro soggetto della famiglia. Non è stato trattato come
doveva. Adesso per esempio lo affronta diversamente, ma per lunghi
periodi non accettava la sorella. La rifiutava. La mamma lo forzava ma io
le dicevo che aveva bisogno di tempo per capire. Poi dopo qualche anno
già ci diceva: io come faccio con Chiara quando voi non ci siete più? E
come fai a dire a un bambino… non lo so come siamo riusciti a tirare
avanti.
A parte proprio la programmazione di niente: non abbiamo più potuto
programmare niente. Noi stiamo sul minuto. Anche a scuola, magari dopo
188
mezzora mi chiamano perché le è venuta una crisi. È soggetta a crisi
epilettiche anche abbastanza importanti… stiamo andando avanti.
Tra qualche mese il fratello farà 18 anni. Noi abbiamo sempre fatto
affidamento su mia suocera anche perché mia mamma ci ha lasciati… io ho
anche un sospetto… che non abbia retto a questa cosa. È stata una cosa
devastante. Devastante dentro. Ti cambia il modo di vedere il mondo… ci
sono corse che ora mi fanno ridere e prima… cambia l’ottica, cambia tutto.
Anche dentro casa! Anche il grande, magari è preoccupato per la scuola e
io gli dico stai tranquillo.
La gestibilità della bambina adesso l’abbiamo quasi inquadrata.
Abbiamo dei segni e lei ci comunica delle cose. Quando è nervosa fa delle
cose e ce lo fa vedere. Quindi siamo sull’attenti. Comunica quando ha sete,
fame, sonno: cose che non avrebbe mai dovuto fare. Lei riconosce tutti e
non avrebbe dovuto riconoscere nessuno. Si abbraccia la nonna quando ha
fame e le fa capire che vuole sedersi là. Non parla, ma… ci avevano detto
che non avrebbe potuto mangiare, invece… se ha fame lei si avvicina come
se dicesse “è ora…”.
Si può dire che non le manca mai il sorriso: una cosa inaspettata per il
quadro che ci avevano prospettato. Non lo so, quello che verrà, verrà.
Grandi aspettative non ne posso avere.
Io pensavo di morire in quell’ospedale dopo la risonanza. Usciti dalla
risonanza mi hanno chiamato: mi ricordo tutto, anche i nomi dei medici.
Ero solo e mi hanno detto così: “guardi, questo, questo, questo”. Io stavo lì
e dicevo: non sono io! Non sta parlando di me. Non è possibile! Una
persona non può sopportare una cosa del genere! Un evento tragico nella
vita di una persona c’è sempre, ma così è proprio un... ti strappa… è una
cosa micidiale. Io sono stato per non so quanto tempo seduto. Non sapevo
che fare. Non sai che dire… poi se le dici a una persona che non capisce…
189
ma io alle prime tre parole avevo già capito cos’era. Ho detto: è finito qui.
Mi poteva anche prendere un colpo. Non riuscivo più a parlare. È una cosa
inimmaginabile. Nemmeno una bomba atomica. Mi dà fastidio solo il
ricordo. Però è successa…
Adesso Chiara fa fisioterapia a casa. Fa piscina. Sta seduta, ma non
riesce a stare in piedi perché le gambe non la sorreggono più.
A scuola la fanno anche lavorare: abbiamo un libro e ci fotografano
quello che riescono a farle fare. I bambini la coccolano tutti e lei lo sente.
Sente tutto. Sente anche il cambio di voci. Quando poi lo manifesta, lo fa
con nervosismo. Perché capisce che sta succedendo qualcosa di diverso. Il
fratello adesso la spupazza. Io non sono sicuro fino in fondo che lui la
abbia accettata. Qualcosa mi fa capire di sì, perché più di una volta ha
portato qualcuno a casa: prima la nascondeva.
Io e mia moglie ci siamo presi questo fardello… come fai a spiegare
anche ai nonni che non puoi fare niente?! Non c’è nessuna soluzione. È
così.
Anche con gli amici c’è stata una sorpresa vera: pensavo di essere
circondato da persone diverse. C’è stato l’allontanamento di tutti. Un taglio
drastico. In quei momenti non potevo stare dietro agli amici, ero tramortito.
E non c’è stato l’aiuto che ti aspetti da un amico. Anche per mia moglie è
stato così. Ora c’è gente che non vedo più da anni. Secondo me è una cosa
gravissima. Io me ne vergognerei.
Quando siamo solo io e mia figlia, e lei mi sorride, c’è sempre una parte
di me che dice: “ma com’è possibile?”. Io me la immagino sempre come
sarebbe stata se fosse stata normale… e questo ti dilania completamente.
Questo mi accompagnerà per il resto della mia vita. Non è possibile
accettare. Non è superabile. Tu puoi solamente gestirla, ma non superarla.
190
Mia moglie non lavora anche perché sarebbe impossibile. C’è anche mia
suocera che ci dà una bella mano. È sempre presente.
L’immagine è quella di un albero sotto un temporale: tu stai lì e quello
che arriva ti prendi. Se torna il sole, bene… l’immagine è solo quella.
Io la mattina mi alzo e non so come andrà la giornata. Magari mentre mi
preparo poi non posso più andare in ufficio. Minuto dopo minuto. Ormai ci
sono abituato.
Intervista 12
Emanuele è il più piccolino dell’associazione. Io e Catia, la mia
compagna, anche se il figlio era stato voluto, non avevamo né istinto
materno né paterno. Devo dire che fino ai due anni e mezzo non gli
stavamo molto dietro, lo lasciavamo fare. Stava molto con la baby- sitter.
Poi dai due anni e mezzo con il fatto che ebbe la diagnosi, iniziammo a
seguirlo. A 23 mesi diceva solo mamma, papà e acqua, mi sembra. E poi
abbiamo parlato con la pediatra che ci ha indirizzato dalla neuropsichiatra.
Sì, vedevamo che era solitario. Nel giro di due mesi ha fatto la diagnosi:
disturbo multisistemico di sviluppo, che poi è diventato autismo. Catia è
andata in aspettativa: è stata lei il traino dal punto di vista delle terapie, io
mi sono accodato: prima abbiamo scelto il Teach. Lei ha una marcia in più,
come tutte le donne, e aveva più tempo. Riuscivamo a organizzarci in
questa maniera: lei faceva le ricerche con l’Abba e teneva i contatti con i
terapisti, io mi documentavo, nei ritagli di tempo, e poi quando abbiamo
deciso di andare alla “Breccia nel muro”, va beh lì partecipano i genitori,
cercavamo di dividerci le terapie, anche se faceva più Catia la terapia, sia al
centro che a casa. Poi anche io mi attengo ai target che ci danno: per
chiamarlo sostenendo lo sguardo, e anche dal punto di vista verbale è
191
migliorato. Lei ha fatto di più, poi io sono stato un ottimo collaboratore, ho
supportato sempre, ogni cosa ne discutevamo insieme. Con Emanuele…
Allora praticamente 70% Catia e 30% io, per motivi di lavoro. Oppure ci
alterniamo: martedì lo porto io cosi lei ha la possibilità di riposarsi o fare
qualcosa per casa. Emanuele fa saltare i nervi più a me che a Catia. Lei
riesce ad avere la pazienza necessaria, è più lucida e ha la freddezza e la
calma per rispondere, io invece lo sgrido, e a volte non riesco ad aver un
tono di voce tranquillo affinché il comportamento venga estinto. Ti faccio
un esempio: ha imparato ad accendere il gas. Se io sto giocando con lui e
sente Catia che accende il gas mentre cucina, lui va là che deve spegnere il
fuoco. A me, dopo un po’, mi viene da prenderlo e alzar la voce
chiamandolo “Emanuele cosa stai facendo”, mentre lei ha la pazienza e la
calma per riprenderlo. Non so fino a che punto perché siamo umani. Allora
quando arrivo al massimo ci cambiamo di ruolo. Ci sono varie difficoltà,
ma questa è la linea che ci siamo dati. A scuola si trova bene, ci vuole
andare, la classe è carina soprattutto le compagne lo proteggono, lo
cercano. Inizialmente abbiamo pensato a fare un altro figlio, però poi
abbiamo deciso di no. La percentuale che ricapiti è elevata quindi non
vogliamo intraprendere questa strada. Io del futuro non ne parlo. Non ci
pensiamo e quando ci pensiamo cerchiamo di dirci “vedremo, ora
concentriamoci sul presente”. Speriamo di renderlo autosufficiente: i
presupposti ci sono, le potenzialità dovrebbero esserci. Io non penso
neanche a quando avrà 15 anni, al massimo penso alla prima elementare.
Ho molta speranza che diventi autonomo. Il nostro rapporto, con Catia, è
solido e stabile. Noi abbiamo sempre tutelato il tempo di coppia chiamando
la baby sitter, ma negli anni successivi non è stato possibile. Affidavamo
Emanuele ai nonni dalle cinque alle otto e mezza per un aperitivo, ma poi
di corsa a casa. Però ci manca molto questo tempo per noi. Quest’ultimo
192
mese stiamo cercando di recuperare questi spazi, ci servono. C’è tanta
stanchezza. Abbiamo ricominciato la scorsa settimana con la baby- sitter.
Io sono di natura anaffettivo, quindi, a prescindere dalla diagnosi. I
progressi ci sono stati, questo ci da forza e speranza. C’è un abisso con i
bambini di 4 o 5 anni normali, ma anche più piccoli. Però c’è anche forte
dislivello con bambini autistici dell’età sua. Emanuele è migliore.
Il ruolo della mamma è primario, il mio è altamente collaborativo.
Intervista 13
Appena nata, mia figlia ha rigurgitato sangue ed è stata trasferita in
terapia intensiva al Bambin Gesù. Le hanno diagnosticato un ritardo
psicomotorio. Poi ogni tre mesi andavamo in ospedale per un controllo
all’orecchio e la logopedista ci disse che non indicava.
A due anni, dopo il nido, ha iniziato la logopedia. Nel 2010 a Tor
Vergata e dopo un day hospital le hanno diagnosticato un disturbo
generalizzato dello sviluppo. Da quella diagnosi abbiamo iniziato la
psicomotricità oltre alla logopedia.
Lei ha fatto passi da gigante. Ha iniziato con le parole e da poco anche i
discorsi. È figlia unica.
Con me ha un ottimo rapporto. Quando torno dal lavoro la porto al parco
giochi o ai gonfiabili… lei si relaziona bene con gli altri, è molto solare.
Io sono un po’ elastico con le regole, perché lei non le rispetta molto. Fa
anche una terapia comportamentale e a scuola si trova bene. I primi tempi è
stata dura e ora va meglio. È molto dura riuscire a dirle di no. Ma in linea
di massima ce la faccio. A volte per non sentirla…
Per il futuro di Giulia noi ragioniamo giorno per giorno. Un domani,
casa ce l’ha e cerchiamo di costruirle un futuro. Per ora non ci
193
preoccupiamo più di tanto. L’appuntamento per l’intervista l’ha preso mia
moglie. Ha fatto tutto lei.
Intervista 14
Il mio ruolo non è così ben definito. Francesco ha 7 anni, e abbiamo un
altro figlio di 5 anni e mezzo. La mamma è più morbida con lui. Io con
Francesco sono un po’ più coerente.
La mamma porta a scuola Francesco, poi lo va a prendere e lo porta qui
(in un associazione per bambini autistici Be&Able) perché lei ha il part
time a lavoro e poi io vengo a prendere Francesco all’uscita. La mattina li
prepariamo insieme: lo aiuto a vestire e preparo la colazione. Mentre il fine
settimana lo portiamo a fare una passeggiata, una gita. Non c’è una
divisione netta dei ruoli, ma ci organizziamo così solo per motivi pratici.
D. Cosa intendi quando dici di essere più coerente?
R. Le mamme, come le nonne, cedono più facilmente, sono molto più
morbide, ci sono molte minacce, ma non le mantengono mai.
Con Francesco questa cosa non è percorribile. È affezionato ai bambini
di scuola, ha fatto un anno in più all’infanzia, diciamo che va bene, per
quanto possibile.
D. Momento della diagnosi?
Ha avuto un evoluzione normale fino ad un anno e mezzo. Era un
bambino molto sveglio, lo chiamavano “sorriso”, “raggio di sole” all’asilo.
Stava tendenzialmente più solo, rispetto agli altri bambini. Così abbiamo
parlato con lo psicologo del nido per farlo vedere: siamo andati dal
neuropsichiatra che, all’inizio, non ha detto nulla, poi è scaturita la
diagnosi, anche se il medico era titubante, quindi non lo so, avrà avuto due
anni e mezzo, tre. All’inizio noi ci rendevamo conto, non era cosi evidente,
194
quindi convincerci che effettivamente era così seria la situazione non è
stato facile. Poi è peggiorato. Ha avuto un periodo in cui andava
peggiorando sempre più: perdeva competenze, iniziò a regredire anche il
linguaggio, ma nel frattempo cresceva, quindi anche se le competenze
rimangono uguali, tu dovresti migliorare, visto che cresci. Allora siamo
andati a cercare qualche tipo di riabilitazione. E ti dico che li possiamo
buttare tutti i medici, o quasi, non tutti, ma quasi… Il medico della Asl ci
ha costretti a fare una riabilitazione ridicola per un anno e mezzo, per poi
scaricarci e dirci che non avevano più posto. In seguito siamo andati in un
centro dove facevano ABBA: “La Breccia nel muro”. Lo facevano il loro
lavoro, anche se era uno stress pauroso perché lì è previsto che una
settimana al mese lavorino i genitori. E soprattutto la cosa massacrante e
che sono seguiti dal Bambin Gesù, che per quanto riguarda l’autismo è
assolutamente incompetente. Danno solo i farmaci… Ora siamo a Tor
Vergata… Il primario non l’ho mai visto però è un centro molto
scrupoloso. Io non vedo l’utilità del neuropsichiatra nell’autismo, tanto i
farmaci non li do. Se mi dicessero fai psicomotricità e lascia Abba, io farei
Abba comunque… Si fanno le valutazioni che secondo me lasciano un po’
il tempo che trovano perché sono valutazioni che sono fatte in un
determinato periodo, per cui il bambino può essere annoiato, stanco,
infastidito. La valutazione può essere anche sovrastimata, non
necessariamente sottostimata, anche se dopo ci sono le valutazioni
sistematiche, quelle che fanno loro qui. Se il bambino è agitato me ne
rendo conto anche io. È un bambino oppositivo, furbo… Conta molto chi
trova dall’altra parte, una volta ogni sei mesi ci sono le valutazioni… sono
stressanti… per la mamma…per me no…
D. Pensa al futuro?
195
R. Mica una volta sola. Io non ho una risposta… Pensiamo a mille cose,
al fratello anche come possibile supporto. Speriamo di avere un supporto
dal fratello che ha solo diciassette mesi in meno… Che poi la paura che
riaccada è altissima… L’idea che ho è che se c’è la possibilità di riparare i
danni, il momento è questo. Questa è l’ora. Non crediamo nella
riabilitazione completa, bisogna lavorare e investire adesso.
2.2. Analisi con il software N- Vivo
La letteratura scientifica inerente il tema della disabilità e attinente, in
particolare, il rapporto educativo che intercorre tra padre e figli disabili, ci
rende consapevoli di alcune delle tante supposizioni errate che si hanno
nell’interpretare diversi comportamenti paterni. Innanzitutto, afferma
Sausse, i padri non sono assolutamente meno coinvolti nei confronti dei
loro figli e della sofferenza che comporta la loro disabilità346.
Per quel che concerne l’analisi qualitativa, abbiamo evidenziato
attraverso i nodi le parole chiave rilevanti ai fini della ricerca. La scelta
delle categorie è avvenuta tramite un approccio induttivo, senza griglie
concettuali predefinite. I risultati ottenuti dall’indagine evidenziano dei
padri molto attenti e presenti nella vita dei figli.
La tabella sotto riportata illustra in quante interviste, le sources appunto,
(i materiali di ricerca -documenti word, PDF, set di dati, audio, video,
immagini, tweet-) e in quante frasi ricorrono le parole, secondo la nostra
ipotesi di ricerca, più importanti.
346
S. Korff Sausse, Specchi infranti, Ananke, Torino, 2006.
196
SOURCES REFERE
NCES
regole 7 10
affetto 5 7
crisi 2 9
cura 7 10
diagnosi 8 13
diff icoltà 2 2
disabil i tà 2 4
divisione
ruoli
7 9
domani 1 1
educazio
ne
1 1
famiglia 7 8
f igl io 6 7
fratello 6 7
futuro 9 14
genitori 5 6
ist into
materno e
paterno
1 1
mamma 6 11
moglie 12 24
papà 11 22
presente 1 1
scuola 4 7
197
socializz
azione
1 1
sorella 2 6
sostegno 3 5
stanco 6 8
tempo 3 3
terapia 7 8
vita 4 5
Dall’analisi dei nodi ci accorgiamo che non possiamo continuare a
ridurre l’attaccamento a parametri meramente biologici, per cui la madre,
avendo avuto in grembo il bambino, sarebbe predisposta naturalmente a
prendersi cura in modo simbiotico del/della figlio. Ciò che stabilisce il
legame con la madre e il padre è sicuramente l’attaccamento affettivo che
si attua e si realizza nello stesso modo in entrambe le figure parentali. È
bene ricordare che il figlio nasce già in una triangolazione: la sociologa
Évelyne Sullerot347 si domanda se sia ora di smettere di immaginare i
rapporti madre-bambino su una base duale, escludendo dunque il terzo
elemento. I padri, che definiamo assenti o troppo presenti, replicanti delle
madri, ci sono sin dall’inizio. Pertanto la paternità, ai giorni nostri, scopre
che essere padre non basta, si può anche fare il padre. Non solo ridursi
quindi a principio di autorità o a sostenitore economico, ma vivere la
paternità come tenerezza, empatia, vicinanza fisica ed emotiva.
Se la disabilità provoca una rottura, perlomeno inizialmente
immaginaria, di desideri, sogni e aspettative in entrambi i genitori, 347 É. Sullerot, Aspects sociologiques de la fonction paternelle, Group haut normand de
pédopsychiatrie, Rivages, Parigi, 2000.
198
«l’immagine di castrazione che questa provoca ferisce ancor più i padri
nella loro immagine narcisistica, dal momento che li attacca maggiormente
nella loro integrità maschile»348. Bisognerebbe chiedersi, invece, come mai
i padri vengono lasciati quasi sempre in disparte rispetto alla
considerazione che si ha nei confronti delle madri: potrebbe esservi la
paura per l’aspetto sommerso e inconscio della “maternizzazione” paterna,
la quale scatenerebbe la comparsa del tanto temuto “mammo”349. La donna,
biologicamente e psicologicamente legata ai figli, deve essere attaccata a
loro senza eccezioni, «dato che storicamente sono state le primi nutrici, e
agli occhi di molti sono divenute le principali responsabili dell’educazione
della prole; in altri termini, ciò che era descrittivo è divenuto
prescrittivo»350.
Il ruolo educativo del padre, e del padre con figlio disabile, ha assistito
ad un percorso evolutivo piuttosto lungo che, oggi, si trova al centro di una
ri-scoperta fondamentale. In ambito pedagogico è importante distinguere i
due principali codici, materno e paterno, che hanno modi particolari e
peculiari di esistere: non si tratta di distinguere le due funzioni secondo il
genere maschile e femminile, anzi, si tratta solamente di riconoscere due
modalità differenti di approccio educativo da cui non possiamo
prescindere. Entrambi i codici si rivelano fondamentali per una sana
crescita psichica ed emotiva dei figli. Se inizialmente il bambino ha
bisogno per sopravvivere di cure parentali orientate alla protezione, alla
soddisfazione di bisogni e alla gratificazione immediata, man mano che
cresce e si sviluppa avrà bisogno di regole, limiti e confini entro cui
sperimentarsi ed elaborare la strada verso l’autonomia e l’indipendenza. In
348 S. Sausse, Specchi infranti, op. cit. p. 45. 349 Cfr. M. Quilici, Storia della paternità, Fazi Editore, 2010, Roma. 350 N. Marone, Padri e figlie, Frassinelli Editore, Milano, 1989.
199
questo senso si presenta come altro dalla madre e non come un “fac-simile”
materno.
Di seguito si riporta una tabella 351 nella quale si descrivono
sinteticamente i tratti salienti dei codici materno e paterno:
CODICE PATERNO CODICE MATERNO
Dare responsabilità Compiacenza
Stimolare alla conquista
dell’autonomia
Gratificazione
Dare regole e norme Soddisfare i bisogni
Porre limiti e confini
chiari
Proteggere
La pedagogia speciale ha ben presente la difficoltà che risiede nel
pensare all’educare paterno. Riteniamo che il padre, in base alle evoluzioni
storiche e culturali prima accennate, debba ancora trovare una precisa
definizione. Il cambiamento delle relazioni tra padri e figli disabili ha
condotto dall’istituzionalizzazione alla presa in cura della persona disabile,
comportando quindi una serie di ripensamenti in seno alle tematiche della
disabilità e al lavoro con le famiglie. L’obiettivo che fa da sfondo ad una
nuova idea di pedagogia dei e per i genitori, in riferimento soprattutto al
padre, è quello di rendere il nucleo familiare competente e responsabile nei
confronti del figlio disabile352, poiché «si ha la necessità di far sì che i
membri del nucleo domestico acquisiscano capacità, indipendenza e
351 Z. Formella, A. Ricci, Bambini facili o difficili? Dal carattere all’educazione familiare da 0 a 6 anni, Anicia, Roma, 2013, p. 103. 352 Cfr. L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia, op. cit.
200
autosufficienza nelle interazioni esterne ed interne, in modo da poter
soddisfare i bisogni e le mete auspicate»353.
Facendo riferimento ai DS si potrebbe riflettere circa un ulteriore
passaggio che comporterebbe un capovolgimento in seno al concetto di
indipendenza: il movimento per la vita indipendente rappresenterebbe la
risposta positiva per controbattere l’egemonia proposta dal modello medico
per la gestione della disabilità. Tale ribaltamento di prospettiva andrebbe a
scontrarsi con un pensiero, duro a morire, per cui la nascita di un bambino
disabile, soprattutto se grave o gravissimo, condurrebbe i genitori, e nello
specifico il padre, ad abbandonare ogni spinta educativa e propulsiva verso
l’autonomia.
«Ora, ho pochi strumenti per condurre una danza filosofica intorno alle
parole “libertà” e “autonomia”»354 scrive Massimiliano Verga, padre di tre
figli, di cui uno, Moreno, nato sano e diventato gravemente disabile nel
giro di pochi giorni.
C’è un’enorme problematicità nel poter comprendere in che modo una
persona disabile grave possa essere indipendente, eppure per le persone
disabili appare una proposta radicale:
è un concetto radicale perché pone una sfida diretta al pensiero corrente
sulla disabilità e individua una soluzione pratica e ideologica ai problemi
culturali e ambientali che le persone disabili e le loro famiglie si trovano ad
affrontare. Di più, la nozione di vita indipendente manifesta il potenziale
non solo di migliorare la qualità della vita di persone direttamente affette da
disabilità, ma anche di altre minoranze svantaggiate.355
353 R. Viganò, Ricerca educativa e pedagogia della famiglia, La Scuola, Brescia, 1997. 354 M. verga, Un gettone di libertà, Mondadori, Milano, 2014, p. 125. 355 C. Barnes, G. Mercer, Disability, Polity Press, Cambridge, 2003, p. 89.
201
Rispetto a questa analisi, la quale mette al centro le persone con
disabilità che combattono sempre più con le strutture deprivanti la
possibilità di controllare le proprie vite, noi adottiamo il punto di vista
paterno. Cosa significa per un padre educare alla norma se poi la vita del
figlio risulta già, in qualche modo, prefissata all’interno di alcune regole
imposte dall’esterno?
Se le persone disabili dipendono costantemente da altre risultano, loro
malgrado, vittime di un circolo vizioso che le vede costrette a non poter
mai intraprendere una vita indipendente. Come rileva Brindesen: «non
usiamo il termine indipendente per intendere che si deve far tutto da sé, ma
per indicare una persona che abbia preso controllo su tutta la sua vita e
abbia scelto come condurla»356.
D’altronde, questa sarebbe la speranza di ogni padre e di ogni madre
nell’immaginare la vita adulta del/della figlio/a disabile:
«speriamo di renderlo autosufficiente: i presupposti ci sono, le
potenzialità dovrebbero esserci. Io non penso neanche a quando avrà 15
anni, al massimo penso alla prima elementare. Ho molta speranza che
diventi autonomo» 357.
La dichiarazione del padre, che esplica il suo desiderio di autonomia per
il figlio, ci aiuta ad esplorare una dimensione propria dell’essere persona: il
diritto, perlomeno, a poter raggiungere, nella vita di ogni giorno, un
356 S. Brisenden, Disability, Handicap and Society, tr. It. 1986. 357 Dall’intervista a un padre di un bambino disabile. Le interviste riportate in questo contributo sono
tratte dalla ricerca “La figura del padre con un/una figlio/a disabile”. Si tratta di un progetto condotto da chi scrive nell’ambito del Dottorato di ricerca in Teoria e ricerca educativa e sociale svolto presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Roma Tre (referente scientifico Prof. Fabio Bocci). La ricerca − tutt’ora in corso – prevede il coinvolgimento dell’Università di Bologna (Dottoranda Alessia Cinotti, referente Prof.ssa Roberta Caldin) e la collaborazione dell’Università di Padova (Dott. Simone Visentin) e dell’Università Cattolica di Lione (Prof.ssa Margherita Merucci).
202
controllo rispetto alle proprie decisioni. «Il grado di disabilità non
determina il grado di indipendenza che una persona raggiunge»358.
L’essere padre comprende ancora funzioni di tipo normativo perché
rappresenta, idealmente, l’autorità, il pensiero razionale e logico essenziali
per la crescita del figlio, sebbene le modalità di tipo emancipativo (come il
fornire regole) continuino ad essere particolarmente difficili, in particolare
rispetto ad alcuni casi di disabili più gravi:
«Claudio non ha bisogno di regole, non è questo il caso. Se sta male è
insofferente, non ha altro canale comunicativo. È autolesionista, si dà le
botte in testa, deve superare il momento di crisi poi torna ad essere sereno.
Soffre di problemi respiratori».
In questo senso il padre non riesce a svolgere le funzioni tipiche del
codice paterno, ma al contrario sarà obbligato ad avvicinarsi a modalità
prevalentemente “curanti” nei confronti del proprio figlio, essendo
coinvolto nella cura, nella protezione e nella soddisfazione dei bisogni
primari, insieme alla madre, sin dalla nascita.
Il padre rimarrebbe, comunque, il centro della normatività, malgrado
ormai i ruoli genitoriali siano bilanciati e considerando poi che l’autorità,
oggi, è sempre più condivisa con la madre:
«A me sente di più, rispetto a mia moglie: “mo’ basta, mettiti là, stai
zitto…”. Come successe due mesi fa: siamo usciti e gli dico: “sempre con
la macchina usciamo, andiamoci a fare una passeggiata…”, e lui niente,
non gli andava… A un certo punto gli ho detto: “oh, o andiamo a piedi o 358
S. Brisenden, Indipendent living and the medical model of disability, op. cit.
203
rimaniamo a casa”. S’è girato! “Benissimo, ora andiamo a casa, non fai
nulla, stai fermo, non ti muovi, adesso facciamo pranzo, vai a dormire e se
mi va…” Il pomeriggio ha aperto la camera, io facevo finta di dormire, ha
preso la bicicletta e l’ha portata vicino a me, (che poi è raro che dormo il
pomeriggio), mi ha fatto così -(mi fa vedere il gesto del bambino che lo
chiama)- “e mo’ che vuoi?” “Bici…” “No, stamattina ti sei comportato
male…”. Poi mi si compra…».
Il modo di incarnare concretamente la funzione paterna dipende in larga
parte dal tipo di relazione vissuta all’interno della coppia genitoriale.
Difatti, uno degli aspetti tipici del mutamento della nostra società sta
proprio nella redistribuzione dei ruoli tipici dell’uomo e della donna: i
padri sconfinano in alcuni campi destinati solitamente alla donna. Le cure
parentali, come abbiamo scritto, in particolare nei confronti del/della
figlio/a disabile, sono sempre più orientate alla soddisfazione dei bisogni
primari del/della bambino/a, a fronte della nuova e sempre maggiore
quotidianità lavorativa della moglie:
«Di lui ce ne occupiamo o io o la madre, ma più io, perché la madre esce
presto. Lo sveglio, gli preparo la colazione, a lui e alla sorellina di tre anni
e mezzo. Lo accudisco nelle mansioni mattutine, lo aiuto a lavarsi e a
vestirsi, vedo se va in bagno. Poi lo accompagno a scuola». (padre)
Il padre, comunque, non può, e non deve, sostituirsi completamente alla
moglie, ma gradualmente deve trovare degli spazi in cui inserirsi nel
rapporto madre-bambino per non permettere a quest’ultima di legarsi
204
simbioticamente al/alla figlio/a. Il padre, afferma Quaglia 359 , non
rappresenta l’elemento opzionale per cui se c’è è un bene, altrimenti se ne
fa a meno, ma ritrae l’altro polo identificativo di cui i figli hanno bisogno
per crescere in modo equilibrato, e la riuscita non sta nell’annullare il
maschile e/o il femminile, ma nella loro comune destinazione.
Al padre è affidato il compito di traghettare il figlio dal territorio
materno, simbolo di protezione e di accudimento, a quello della società in
cui il confronto con la realtà condurrebbe il/la bambino/a a socializzare e
ad emanciparsi sino a diventare autonomo/a.
I padri continuano, anche nei casi più complessi, a fornire al/alla figlio/a
quel bagaglio esperienziale che è prettamente di loro competenza:
«Anche io faccio cose che mia moglie non farebbe mai: andare al parco
tutto il pomeriggio, ad esempio».
La società postmoderna ormai rifiuta la figura del padre onnipotente, per
fare spazio al padre ludico, al padre affettivo. È noto, infatti, come la figura
paterna dagli anni Settanta abbia vissuto una vera e propria rivoluzione
antropologica attraversando diversi stati tra cui la parità dei sessi,
l’affiliazione affettiva che governa la coppia e la possibilità di sposarsi
senza vincoli o obblighi prestabiliti:
«Se io mi ricordo come era mio papà, io sono completamente diverso.
Infatti i figli sanno riconoscere quando non riesco ad essere autoritario e
autorevole. Io sono la parte ludica, per la scuola lo segue mia moglie, io per
inglese o per il computer».
359 R. Quaglia, Il “valore” del padre. Il ruolo paterno nello sviluppo del bambino, Utet, Torino, 2001.
205
Oggi i giovani papà invadono il campo della maternità permettendo
l’affiorare delle critiche rispetto al loro ruolo e alla loro presenza, secondo
un pensiero che li svilisce e li denigra: è possibile pensare che non ci sia
più bisogno del padre e che quindi lui si prenda «cura del/della bambino/a
per non perdere il suo posto? Che, di fronte al nuovo potere delle donne, gli
uomini tentino di impadronirsi di una parte della maternità? »360. E quanto
vale questo tipo di discorso nei confronti di papà di figli/e disabili in
riferimento al fatto che si tende sempre di più a privilegiare il ruolo delle
madri a discapito dei padri?
In tal senso S. K. Sausse si chiede: «Perché gli scritti teorici danno
sempre più importanza alla madre? Perché le pratiche istituzionali si
indirizzano così poco al padre? Nei centri specialisti, ci si lamenta
costantemente di non vedere i padri. Ma li si sollecita veramente? Ci si
regola su orari compatibili con la loro vita professionale? Se i padri sono
meno visibili nelle istituzioni, ci si può chiedere quanto spazio venga loro
concesso da équipe spesso essenzialmente femminili. I padri non si
sentiranno un po’ a disagio in un universo femminile votato all’infanzia?
Quale ascolto si dà al suono di una voce maschile?»361.
Per Cirimbelli362 il ruolo paterno, collocato in un quadro di riferimento
più ampio, nasce proprio all’interno della famiglia dove ciascun membro
può costruire la propria identità, dunque le funzioni padre, madre, figlio
sono di tipo relazionale e sono in continuo mutamento/movimento. Il sano
funzionamento della famiglia deriva dalla coppia e, di conseguenza,
360 S.K. Sausse, In difesa dei padri, op.cit. p. 17. 361 S.K. Sausse, Specchi infranti, op. cit. p. 45. 362 E. Cirimbelli, Divorziati e risposati in cerca di Dio, EDB Edizioni, Bologna, 2003.
206
emerge quanto sia importante per la coesione di un nucleo familiare la
presenza congiunta di responsabilità maschile e femminile363.
La dimensione temporale, che rappresenta uno dei nodi pedagogici più
importanti in ogni situazione educativa364 , viene però a mancare nel
momento in cui si affronta una separazione. Anche in questo caso la madre
sarebbe la favorita, mentre il padre, per avere l’affidamento, deve mostrare
a qualsiasi costo di essere speciale, in particolare nelle situazioni di
famiglie con figli/e disabili. Secondo Ceccarelli, però, sta emergendo una
nuova generazione di padri migliori del passato: «sono sotto i trentacinque
anni e sono più affettuosi, buoni, ci tengono ai/alle figli/e, danno il biberon,
cucinano, stirano, li vanno a prendere a scuola»365.
Insomma, la cura rivolta ai/alle figli/e, ma in generale alla persona,
intesa come l’aver cura significa essere in un rapporto esistenziale con
l’altro366:
«Mia moglie non sta bene da quando sono nate le bambine. Sin
dall’inizio sono state affidate a me al 100%. Inizialmente era molto
difficile, poi con l’aiuto dei miei genitori e dei servizi sociali che mi hanno
affidato due educatrici, la situazione è migliorata. Entrambe le bambine
hanno una diagnosi. La più grande ha un disturbo d’ansia di natura
importante causato dalla presenza della mamma. La mamma non era in
grado di prendersi cura di loro. È vero che ora l’affettività materna le
manca, “la mamma è la mamma”, ma quando la vede, ogni due mesi,
cambia. La mamma, quando ci siamo separati, ha peggiorato la situazione.
363 F. Montuschi. Costruire la famiglia. Vita di coppia, educazione dei figli con l’Analisi Transazionale, Cittadella, Assisi, 2006. 364 Cfr. V. Iori, Separazioni e nuove famiglie, Raffaello Cortina Editore, 2006, Milano. 365 G. Ceccarelli, Soli e sul lastrico, la crisi morde i papà separati, N°1, Anno 11, genn/apr 2012. 366 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Tr. It. Longanesi, Milano, 1976.
207
Prima stavano con lei, poi tramite la segnalazione al tribunale, sono riuscito
a prendermi le bambine. Io gliele faccio vedere solo tramite i servizi
sociali. Secondo la sua ottica sono stato io a portargliele via, invece non è
andata così. Lei le mandava a letto senza cena, senza colazione per la
scuola, non le mandava vestite pulite, non gli faceva fare i compiti, le
faceva mangiare a orari sballati».
La cura non è più una caratteristica prettamente femminile. Anche, e
soprattutto, nei casi di bambini/e disabili. Vanna Iori367 ci ricorda che i temi
legati all’educazione e alla presa in carico della persona con disabilità sono
stati largamente trattati da filosofi e psicologi, uomini che non hanno
rinnegato la loro identità maschile per avvicinarsi, invece, a quelle
particolari abitudini che sono, in genere, delegate alla donna.
Paradossalmente, quindi, proprio nel momento della separazione, il
rapporto paterno ha la possibilità di emergere e di esplorare le dimensioni
tipiche della sfera affettiva che gli consente di attivare modalità differenti
da quelle esercitate all’interno della coppia: ogni padre è in grado di
assolvere ai principali compiti educativi per assicurare un benessere
psichico ed emotivo al figlio. Vero è che l’elemento critico nel rapporto
educativo tra il padre e le figlie riguarda il genere, per l’appunto, perché
mancherebbe il lato identificatorio femminile. Sebbene, proprio nel
rapporto padre/figlia, gli uomini sarebbero invogliati a riscoprire il loro lato
femminile, imparando a riconoscerlo, valutarlo e apprezzarlo368.
La necessità che i padri hanno di andare a ricercare nella donna le
modalità tipiche del prendersi cura, ha indotto alcuni studiosi a parlare di
367 V. Iori, Separazioni e nuove famiglie, op. cit. 368 L. Ballabio, Virilità. Essere maschi tra le certezze di ieri e gli interrogativi di oggi, Franco Angeli, Milano, 1991.
208
“maternalizzazione del padre”: in realtà il padre ha delle sue risposte
affettive che riescono a superare il semplice “ricopiare” dalle madri. I padri
stanno riscoprendo e mostrando le loro dimensioni affettive e da soli
ripropongono e recuperano l’istinto paterno che «solo oggi trova spazio
organico nell’identità maschile, meno arroccata monoliticamente attorno a
un Io razionale, più disposta ad accogliere parti di sé diverse ed
eterogenee»369.
«Ripeto, è difficile: sono solo. Per fortuna ho mio padre che è molto
serio (ride). Il nonno fa la parte del cattivo: “stai composta, ferma, quello
non si fa, questo si, ecc…”. È chiaro, devi sapere quando dare affetto e
quando essere duro. Ma a me riesce difficile essere duro. Capisco la
situazione che vivono le mie figlie e l’affetto di un papà non sarà mai
quello di una mamma».
Una riflessione specifica meritano le famiglie patricentriche. Negli
ultimi anni il fenomeno dei padri affidatari è in crescita, sebbene siano
ancora molto pochi in Italia:
«su Roma siamo nove papà ad avere l’affidamento al 100%. Su tutta
Roma. Il tribunale dei minori, quando accadono casi del genere, o affida i
bambini alle case famiglia o consente l’affido al 50%».
I pochi affidamenti paterni sono il risultato di situazioni con origini del
tutto differenziate, spesso legate a motivi di salute mentale e/o fisica della
369 V. Padiglione, Maternità e paternità: note antropologiche in margine al mutamento in atto, in V. Melchiorre (a cura di), Maschio e femmina: nuovi padri e nuove madri, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1992, p. 77.
209
madre, per cui questa è considerata incapace di accudire i figli. In questi
casi la preoccupazione per una sana riuscita emotiva dei figli risulta ancora
maggiore. Spesso i nonni, nel caso delle famiglie separate e/o ricostituite,
rappresentano una ricchezza e un valore inestimabile: riescono infatti,
laddove il genitore da solo non può o non arriva, a sopperire a delle
mancanze di tipo affettivo e/o normativo. I bambini con difficoltà saranno
poi quelli che instaureranno relazioni future più efficaci ed emotivamente
coinvolgenti, proprio per l’intensità dei rapporti stabili con i nonni.
Rivolgersi nei momenti di crisi a questi ultimi significa per i figli trovare il
conforto necessario sia per affrontare l’allontanamento da casa di uno dei
due genitori, sia per ritrovare il limite, la regola, la norma che, a volte, un
solo genitore non riesce a fornire.
Un aspetto particolarmente importante che tra le famiglie con un figlio
disabile ha un’incidenza molto elevata riguarda la presenza di
fratelli/sorelle, delle volte anche più piccoli, che vengono percepiti come
una possibile risorsa per il futuro del/della fratello/sorella con difficoltà. In
molte interviste i padri tendono a sottolineare:
«Pensiamo a mille cose, al fratello anche come possibile supporto.
Speriamo di avere un supporto dal fratello che ha solo diciassette mesi in
meno…».
O invece:
«È figlio unico, con il tempo che richiede non ce la sentiamo ad avere un
altro figlio».
210
La preoccupazione maggiore dei padri esplora proprio la dimensione del
dopo di noi: il pensiero per il futuro talvolta diventa ossessivo, tanto da non
permettere ai padri e alle madri di vivere il presente, giorno per giorno. Di
fronte alla disabilità il futuro assume connotati sfocati e spaventa perché
apre scenari troppo complessi per cui i genitori faticano a vedere i propri
figli intraprendere la strada dell’autonomia.
Per Massimiliano Verga immaginare il futuro del figlio vuol dire fare i
conti con l’idea di quel «per sempre» che non verrà mai sostituito con un
«grazie, ma oggi faccio da me. Come mi diranno i suoi fratelli a
breve»370.
Dunque il discorso autonomia, che va a di pari passo con quello sulla
libertà, per molti padri assume una veste talmente angosciante che rischia
di paralizzare il progetto di vita che, invece, proprio in un’ottica
lungimirante inizia a formarsi proprio nelle prime fasi di vita del figlio e
che vedrà, piano piano, sfumare la presenza della figura genitoriale per
conquistare la sua indipendenza.
Nelle autobiografie dei papà, e nelle interviste, emerge sovente la paura
del futuro, accompagnata sempre dalla consapevolezza che quello che
saranno i bambini un domani dipenderà anche, e soprattutto, da ciò che
sanno apprendere nel presente. Sempre Verga afferma:
«A Moreno ciò non è consentito. Moreno dovrà sempre chiedere. E
dovrà sempre trovare qualcuno che voglia rispondergli. Non sono questi i
vestiti della libertà che può indossare per ripararsi dal freddo. Moreno sarà
370 M. Verga, Un gettone di libertà, op. cit. p. 128.
211
sempre nudo. O avrà vestiti diversi. Che saranno altre persone a scegliere
per lui»371 .
Essere autonomi, comunque, non significa solo acquisire alcune delle
abilità più importanti (provvedere alla propria cura/igiene personale, avere
un lavoro, uno stipendio, crearsi una famiglia), ma anche saper gestire
alcune abilità nell’ottica del superamento dell’età infantile, al fine di
abbracciare serenamente l’età adulta. Molti padri, infatti, guardano il figlio
già con una prospettiva adulta e questo aiuta il/ bambino/a ad immaginarsi
“grande” e a intraprendere, anche solo mentalmente, un percorso
indirizzato al personale progetto di vita.
«Non mi aspetto che sia Einstein. Io vorrei per lui una vita vissuta con
dignità, che abbia una famiglia e che sia felice. Poi se vuole fare il pittore,
lo scrittore o il parrucchiere non mi interessa. Io voglio un figlio contento,
non laureato o altro».
Accanto a padri che con ottimismo e fiducia affrontano il dopo di loro,
pensando ad alcuni movimenti progettuali che contribuiscono a tenere
insieme il presente e il futuro, ve ne sono altri che hanno timori molto forti
riguardo anche agli aiuti provenienti dall’esterno (scuola, servizi
territoriali):
«Mi preme molto il suo futuro, sono molto preoccupato. Non c’è
soluzione: né familiare né sociale. Non riesco a immaginare un aiuto e ci
spaventa il non avere soluzioni. La sorella non è neanche propriamente
371 Ivi, p. 129.
212
abile e noi siamo genitori anziani. Io ho 55 anni e, ammesso che sopravviva
a noi, verrà messo in un Istituto. Non c’è una soluzione concreta, nel dopo
di noi… Sì, ci sono i fratelli, ma la sorella non è pienamente abile dal punto
di vista fisico. Sostanzialmente chi si occupa di questi aspetti è la famiglia.
E noi non possiamo condizionare la vita della sorella. In passato succedeva
che questi soggetti venivano a mancare prima, o venivano messi in
istituto».
La capacità che ogni padre ha di fronte alla disabilità del figlio risiede
nell’attuare strategie di coping, ovvero di individuare delle risorse
individuali, e dunque familiari, per poter affrontare le diverse
problematiche inerenti la vita quotidiana, o di resilienza, ovvero la capacità
di resistere alla nuova situazione stressante e dolorosa. Coping e resilienza
si attuano dopo l’evento traumatico e sta ad ogni famiglia trovare le energie
per orientare tali qualità372.
Oltre alle risorse familiari, da cui ogni individuo dovrebbe attingere, la
famiglia necessita di un supporto più ampio per far fronte a talune
problematiche tipiche della quotidianità. Le associazioni a carattere
informale, ad esempio, rivestono un ruolo assai importante per i/le
ragazzi/e con disabilità perché contribuiscono allo sviluppo autonomo della
persona e la aiutano a gestire in modo ottimale il proprio tempo373. È
fondamentale, per poter avere un confronto e un supporto dal basso, la rete
che si crea tra i genitori che vivono la medesima condizione: il mutuo aiuto
è costituito da «persone che vivono la malattia o una difficoltà, che cercano
da se stessi, attivandosi direttamente e in prima persona, di “aiutarsi”, di
fronteggiare al meglio le situazioni della propria esperienza, di 372 Cfr. L. Bichi, Disabilità e…, op. cit. 373 Ivi, p. 236.
213
autodeterminarla, di umanizzare l’assistenza sanitaria portandola il più
vicino possibile alla realtà dei bisogni, che loro conoscono perfettamente,
vivendola dall’interno. Si tratta quasi di una “riappropriazione” di un ruolo
attivo nei confronti dei problemi, in qualche caso anche in un rapporto di
chiaro antagonismo e rifiuto nei confronti degli esperti ufficiali»374.
Grazie a tali supporti il genitore si rende conto che non è solo ad
affrontare la disabilità del figlio, ma che ci sono molti padri e molte madri
che vivono le stesse emozioni, per cui si passa da uno stato di isolamento,
in cui sembrerebbe di essere soli e abbandonati da società, istituzioni,
servizi territoriali, alla condivisione piena, ricca, e soprattutto, che ciò
avviene al di fuori di ambientazioni prettamente mediche. Per il papà
condividere le esperienze quotidiane con altri padri lo aiuta nel mettere a
fuoco le abilità del figlio:
«ho paura per il futuro. Mi domando se potrà avere un lavoro, una
famiglia sua, se potrà essere indipendente. […]C’è stato un periodo in cui
pensavo “potevamo fare diversamente”, però poi io i risultati ce l’ho avuti.
Leggendo i forum penso che ogni caso è a sé. Un attimo mi è preso lo
sconforto e ho avuto un po’ di tensione con mia moglie, però ora abbiamo
rifatto i test e pare migliorato. C’è da lavorare, ma i progressi ci sono stati».
O ancora:
«I progressi ci sono stati, questo ci dà forza e speranza. C’è un abisso
con i bambini di 4 o 5 anni normali, ma anche più piccoli. Però c’è anche
forte dislivello con bambini autistici dell’età sua. Emanuele è migliore». 374 D. Ianes, Il mutuo aiuto, in M. Tortello, M. Pavone (a cura di), Pedagogia dei genitori. Handicap e
famiglia. Educare alle autonomie, Paravia, Torino, 1999, p. 187.
214
Dunque, il confronto apre la porta alla speranza, sebbene attivare la rete
sociale non sia sempre facile, soprattutto perché la disabilità spaventa e
richiede l’uscita dal proprio isolamento per condividere le difficoltà
individuali: è un atto di fiducia molto grande. Difatti, non tutti i padri
sperimentano positivamente un percorso fatto insieme:
«Non mi interessa a stare in mezzo a persone che hanno lo stesso
problema, mi conforta solamente leggere le soluzioni nella gestione pratica
del problema. Per il benessere della sorella cerchiamo di stare con famiglie
normali, non siamo portati a stare con persone con lo stesso problema».
Il rifiuto da parte del papà nel non voler stare con persone che hanno lo
stesso problema, ci interroga sul lavoro che c’è ancora da fare; il buon
senso e la buona volontà da sole non bastano: «è necessario che le reti
sociali di cittadini e associazioni siano sostenute da un indirizzo di politica
sociale che dia risultati duraturi»375. In un’ottica collaborativa, pertanto,
non basta pensare alla famiglia come possibile risorsa a se stante che grazie
all’aiuto di altre famiglie trova la strada per affrontare i problemi, ma
bisogna coinvolgere anche le agenzie del territorio e la scuola.
L’attivazione dei gruppi di mutuo aiuto è molto complesso e richiede una
forte messa in gioco del padre e della madre, ma anche delle figure
professionali che li accompagnano. Tutto il percorso dipenderà da quanto si
è disposti a rischiare.
375
F. Fortuna, La disabilità. Manuale per operatori socio-sanitari, Carocci, Roma, 2003, p. 91.
215
Certo, per molti versi, i gruppi di mutuo aiuto sembrano ancora essere di
predominio femminile: sarebbero più le madri a trovare un senso profondo
in questo tipo di condivisione:
«Uno dei padri che veniva in questa struttura, disse: “tanto se ne
occuperà mia moglie”, però forse non aveva capito che era un problema
generale che avrebbe riguardato lui, la moglie e l’eventuale fratello o
sorella».
Però, abbiamo visto che la realtà è più complessa e che sotto la cenere
cova in realtà il fuoco.
Avere approfondito la tematica dei padri con un/una figlio/a disabile ci
ha infatti permesso di rilevare che gli uomini nel nostro Paese sono molto
diversi dalla rappresentazione stereotipata con cui sono stati descritti per
decenni.
Oggi è richiesto anche alla prospettiva pedagogica di sperimentare e di
formare nuovi contesti in cui la condivisione, il sostegno reciproco e il
confronto possano contribuire allo sviluppo di una genitorialità sociale e
diffusa che allarga lo spazio educativo familiare, inteso husserlianamente376
come “mondo circostante della vita”, “mondo situazione” al cui centro si
colloca la persona con le sue esperienze comuni e condivisibili.
Le genitorialità, e nello specifico l’educare paterno, preoccupa
corresponsabilmente del benessere di tutti i figli, al fine di costruire una
genitorialità intesa come bene sociale che riguarda tutti377.
376 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Tr. It. Il Saggiatore, Milano, 1965. 377 V. Iori, Spazio e tempo: fulcri educativi della pedagogia familiare, in L. Pati, Ricerca pedagogica ed educazione familiare, Vita e Pensiero, Milano, 2003, p. 279.
216
Ecco perché ci sembra opportuno concludere con una frase alquanto
emblematica, che rispecchia in modo autentico il sentire paterno con tutta
la sua forza e la sua fragilità:
«Il ruolo della mamma è primario, il mio è altamente collaborativo».
Cosa può fare un padre per assicurare un futuro al figlio disabile? Una
delle tante, troppe, domande che assillano la mente di un genitore che sa di
non poter mai vedere realizzata l’autonomia del figlio.
Se durante l’intero ciclo familiare l’acquisizione dell’indipendenza da
parte del/della figlio/a permetterà ai genitori la riconquista dei propri spazi,
nella famiglia con un/una figlio/a disabile si perde il possesso del tempo
«proprio nel momento in cui, una volta cresciuti, avrei pensato di poter
finalmente tornare ad esserne padrone»378.
È così che Gianluca Nicoletti, autore già del suo primo successo
letterario “Una notte ho sognato che parlavi”379, continua a trascinarci nella
sua vita facendoci conoscere, ancora meglio, Tommy, il suo ragazzone
riccioluto. “Alla fine qualcosa ci inventeremo”380 è la nuova autobiografia
del giornalista- papà nella quale, tra realtà e utopia, sintetizza il dramma di
tutti i genitori di ragazzi/e autistici/ autistiche, ma in generale disabili: il
“dopo di noi”. Una domanda che percorre l’intera esistenza dei genitori e
che si fa sempre più angosciante e pressante relativamente al trascorrere del
tempo.
Gli incubi sul “dopo di noi” vengono alimentati dalle piccole cose: «io
devo fare i conti con le esigenze di mio figlio anche dopo lo svezzamento o
378 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa ci inventeremo, Mondadori, Milano, 2014, p. 42. 379 G.Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, Mondadori, Milano, 2013. 380 G. Nicoletti, Alla fine qualcosa…, op. cit.
217
l’età in cui non si possono lasciar soli. Io avrò sempre bisogno di qualcuno
che faccia da baby sitter di un omone che non può rimanere solo in casa la
sera»381. Da qui nasce l’esigenza del cosa fare e del cosà farà: «finché un
giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un vecchietto
che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso pensare che
sarò io. […] Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di un mio
possibile futuro»382. E quando le giornate trascorrono alla ricerca di uno
spazio dove il figlio possa muoversi senza farsi male, senza fare male,
senza “disturbare” significa che bisogna muoversi in direzione di qualcosa.
L’intento di Nicoletti è far nascere la consapevolezza che l’autismo non
è un mondo di ragazzi silenziosi dalle qualità eccezionali, anzi, l’autismo è
una malattia che richiede cura costante e infinita: «e a volte è
impietosamente necessario fare un punto di chiarezza, proprio perché non
si accenda all’istante la speranza in ogni altro genitore d’autistico che il
proprio ragazzo, magari incapace di dire “mamma”, possa ambire
all’inimmaginabile traguardo della laurea. […] Sarebbe altrettanto grave
del far credere che tutti gli autistici siano come il protagonista di Rain Man,
o come il prodigioso piccolo veggente matematico della serie televisiva
Touch»383.
381 Ivi, p. 47. 382 Ivi, p. 189. 383 Ivi, p. 29.
218
CAPITOLO V
Verso un futuro con i padri
1. Proposta Pedagogica
Al termine del percorso dottorale si avverte l’esigenza di esprimere delle
riflessioni che guardino al futuro del pensare paterno, ma che, ancora una
volta, emergono sotto forma di domande: cos’è dunque la genitorialità?
Come si colloca il diventare padre o madre nella storia di vita del soggetto
adulto? Quali storie ci racconta il divenire genitore? Quali azioni educative,
soprattutto, sono utili al diveniente genitore? In parte ci siamo risposti, ma
essendo la genitorialità in continua evoluzione, non possiamo permetterci,
in quanto pedagogisti, di accontentarci di una risposta, una volta e per
sempre.
La genitorialità è un’avventura squisitamente umana, appartiene
all’individuo e alla specie. Oggi come ieri è strettamente intrecciata con la
nostra umanità o forse sarebbe più corretto, abbandonando una logica
antropocentrica, parlare della nostra animalità umana.
Come emerso dalle interviste i due codici materno e paterno,
nell’esperienza familiare, passano attraverso il quotidiano, il concreto e
risultano fondamentali per una sana crescita di ciascuno individuo. «Se in
merito allo sviluppo psicoaffettivo si dà per scontato che l’introiezione
positiva del principio paterno e materno permette all’individuo di sostenere
creativamente la tensione tra Eros e Logos, tra le forme del desiderio e la
necessità della ragione, senza che l’una predomini sull’altra e viceversa,
creando quei blocchi nevrotici che impediscono uno sviluppo armonico
219
della personalità, è facile vedere come una figura paterna evanescente sia
causa di taluni tra i più eclatanti malesseri sociali»384.
Ancora oggi la nostra cultura tende a lasciare largo spazio al materno, al
femminile, alla donna, senza capire che creare un’alleanza genitoriale è la
vera svolta per diventare famiglia. Compito della coppia per assolvere al
mestiere di genitore è quello di acquisire nuovi ruoli, far entrare la
dimensione della genitorialità all’interno della coniugalità. Gestire tale
dimensione, scrive Elena Zanfroni, significa negoziare nuovi ruoli materni
e paterni non tanto della madre e del padre, quanto delle funzioni di cura
che «portano alla costruzione della fiducia, ma anche delle funzioni di
contenimento che portano alla costruzione delle dimensioni etiche»385. La
letteratura scientifica sinora studiata ci induce a pensare, non in modo
totalmente sbagliato, che il rapporto privilegiato, in particolare nei primi
mesi di vita del bambino, sia con la madre. Ma bisogna anche fare
attenzione a non privare il padre della giusta considerazione e ad
attribuirgli il giusto ruolo e peso nell’ambito della vita familiare.
In particolare quando parliamo di papà con figli disabili: questo ci
induce, ancora di più, a pensare il padre come elemento assolutamente
insostituibile, sia come parte fondamentale della coppia sia come terzo che
impedisce alla madre e al bambino di fondersi in un’unica entità. Il
profondo cambiamento sociale, culturale, e dunque affettivo del padre,
come sostengono illustri studiosi (Badinter, Gianini Belotti, Ferri, Del Bo
Boffino, Quilici), ci ha resi inclini a vedere come “normali” azioni che
prima venivano affidate esclusivamente alla cura femminile: il cambio del
pannolino, la preparazione delle pappe, l’accompagnare il figlio a scuola.
Significativo risulta, a tal proposito, il contributo di Pati quando afferma
384 I. Saini, op.cit., p.48. 385 E. Zanfroni, op. cit, p. 261.
220
che «padri e madri si diventa non per istinto, per disposizione sentimentale,
o per semplice attribuzione di ruolo, bensì in virtù dell’iter educativo
intrapreso dalla persona alla scopo di precisare e di manifestare la sua
scelta vocazionale»386.
La paternità è già in un divenire: non si nasce padre, lo si diventa. La
paternità è stata, ed è, strettamente collegata al contesto sociale e culturale:
a epoche storiche diverse corrispondono forme di paternità differenti.
Durante il percorso letterario e scientifico che ha visto protagonista la
figura del padre, si è tentato, attraverso la voce dei diretti interessati, di
comprendere alcune delle difficoltà che, in particolare sul piano
psicologico, sono costretti ad affrontare. Non è facile per i papà di figli
disabili trovare un giusto equilibrio tra la necessità di svolgere una
funzione normativa, di imposizione della disciplina, e l’esigenza di trovare
un contatto più intimo, un legame più marcatamente affettivo ed empatico
con i figli.
La trasformazione che ha interessato la paternità sembra deporre per un
indebolimento del ruolo paterno, sia a livello giuridico che sociale. Si
direbbe quasi che l’influenza del materno si estenda a macchia d’olio
assorbendo al suo interno anche il paterno. Ci siamo domandati, al
principio della nostra ricerca, se la funzione normativa abbia ancora
ragione d’essere. La figura del padre autoritario è tramontata, o perlomeno,
una sua visione monolitica: gli uomini oggi vorrebbero svolgere il loro
mestiere di padre in modo differente da quello dei loro genitori, ma spesso
rimangono privi di un modello paterno chiaramente definito. I padri
intervistati sono molto vicini ai figli e si preoccupano di instaurare
un’ottima e soddisfacente comunicazione e relazione con loro. A volte,
386 L.Pati, La funzione del padre, Milano, Vita e Pensiero, 1981.
221
però, si collocano in una dimensione orizzontale che li vede come
compagni di gioco, alla pari, lasciando pertanto la regola esclusivamente
alla madre.
Dati tali presupposti crediamo sia necessario avviare con i padri di
bambini disabili un lavoro educativo precoce che, sin dall’inizio, li
accompagni, attraverso un progetto educativo specifico che li porti a
sentirsi padri. La pedagogia speciale ha il compito di interrogarsi
costantemente sul chi sono i padri di figli disabili? Che aspettative hanno?
Quali interventi e azioni educative sono volti a creare opportunità nella loro
vita quotidiana? Tutto questo in una dimensione attiva dove i padri sono i
reali protagonisti della loro storia. Zanobini e Freggiaro sostengono che i
padri «sono combattuti talvolta tra un iniziale istinto di protezione,
sicuramente esacerbato dalla situazione di minorazione del bambino, e un
eccesso di aspettative, ma i padri hanno ben chiaro che il loro compito è di
favorire lo sviluppo dei propri figli nel senso di una sempre maggiore
autonomia e indipendenza»387.
È inutile pensare che ci sia un modello di padre valido e giusto da
seguire tout court, certo però, si può auspicare ad un modello equilibrato:
non più autoritario, ma autorevole, non brusco, ma fermo, non permissivo,
ma paziente, non sdolcinato, ma dolce.
«Nessun uomo potrà considerare la sua opera conclusa, ma dovrà
pensarsi aperto al possibile, a un ulteriore accrescimento mediante un alter
ego che riprenderà le sue idee per riconsegnarle all’infinità della vita, in
387 M. Zanobini, D. Freggiaro, Una nuova immagine della paternità: autobiografie di padri con figli disabili, In M. Zanobini et al. (a cura di), La famiglia di fronte alla disabilità. Stress, risorse e sostegni, Erickson, Trento, 2000, pp. 149.
222
una perenne dimensione escatologica. In fin dei conti questo è questo
l’unico modo per cui i pensieri diventano immortali»388.
388 I. Saini, op. cit. p. 44.
223
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Film e cartoni d’animazione
“I Flinstones”, regia di C. Nichols (1960)
“Mary Poppins”, regia di R. Stevenson (1964)
“Tutti insieme appassionatamente”, regia di R. Wise (1965)
“Pippi Calzalunghe”, regia di O. Hellbom (1970)
“Barbapapà”, regia di A. Takagy (1978)
“Dolce Candy”, regia di T. Imazawa (1979)
“Lady Oscar”, regia di O. Dezaky (1979)
“Holly e Benji”, regia di H. Mitsunobu ( 1981)
“Hello Spank”, regia di S. Yoshida (1982)
“Kiss me Licia”, regia di O. Kasai (1984)
“Mila e Shiro. Due cuori nella pallavolo”, regia di K. Okaseko (1984)
“Tre uomini e una culla”, regia di C. Serrau (1985)
“I Simpson”, regia di J. L. Brooks (1986)
“Occhi di gatto”, regia di Y. Takeuchi (1986)
“Tre Scapoli e un Bebè”, regia di L. Nimoy (1987)
“Sailor Moon”, regia di N. Takeuchi (1992)
“Mrs. Doubtfire. Mammo per sempre”, regia di C. Jones e C. Columbus
(1993)
“Una moglie per papà”, regia di J. Nelson (1994)
“Un giorno per caso”, regia di M. Hoffman (1996)
“La vita è bella”, regia di R. Benigni (1997)
“Z la formica”, regia di E. Darnell e T. Johnson (1998)