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Carlo Dossi lo scrittore il diplomatico l’archeologo a cura di Francesco Spera e Angelo Stella CENTRO NAZIONALE STUDI MANZONIANI MILANO 2014
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Dossi di fronte alle letterature classiche

Feb 05, 2023

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Carlo Dossilo scrittore il diplomatico l’archeologo

a cura di Francesco Spera e Angelo Stella

CENTRO NAZIONALE STUDI MANZONIANIMILANO 2014

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Giovanni Benedetto

«Nei bugigàttoli dell’erudizione» Dossi di fronte alle letterature classiche

Chi anche solo scorra le opere del Dossi, sia quelle pubbli-cate in vita sia le Note azzurre, non può non restare colpito dall’ampiezza e frequenza dei richiami alle letterature classi-che, tanto in veste di allusioni e rimandi variamente esplici-ti quanto, soprattutto nelle Note azzurre, in forma di vere e proprie citazioni, e discussioni, da una vasta gamma di autori. Se mancano contributi specifici su Dossi e l’influsso delle let-terature greca e latina rintracciabile nelle diverse fasi della sua produzione, si tratta comunque di un tema la cui rilevanza è da tempo evidente ai maggiori studiosi dello scrittore lombar-do. Tra le fonti della Desinenza in A alla cui indagine Dante Isella volle esplicitamente invitare, primi di necessità appaio-no «gli autori greci e latini», da Aristofane sino a «tanti altri, minori e minimi»;1 mentre a proposito di «quello straor-dinario Zibaldone dossiano rappresentato dalle quasi seimila Note azzurre scritte, per quattro quinti, prima dei trent’anni», Folco Portinari nota che l’autore delle Note azzurre chiara-mente vi si rivela «uomo di anomala cultura, che minaccia di sconfinare nell’erudizione […] esibendo spesso, specie per i classici antichi, autori di ardua se non impossibile frequenta-bilità, se non da specialisti».2

Risultando evidentemente improponibile in un singolo

1 Cfr. D. Isella, Introduzione, in C. Dossi, Opere, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1995, p. XXXIII.2 F. Portinari, Introduzione, in C. Dossi, Opere scelte, a cura di Folco Portinari, Torino, UTET, 2008 (2004), p. 10.

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contributo delineare in modo non generico consistenza carat-tere e significato della presenza dei classici greci e latini nell’o-pera di Dossi, o anche nelle sole Note azzurre, mio intento è limitarmi ad alcuni sondaggi volti a esperire l’incidenza delle letterature greca e latina in alcuni luoghi dossiani, scelti con riguardo anche al loro interesse ‘programmatico’ e alle prime prove narrative (o, se si vuole, ‘antinarrative’) del Dossi pre-cocissimo esordiente. Dalle Note azzurre è però bene prendere le mosse. Un’interessante riflessione affidata alla nota 3418 ci presenta Dossi appunto di fronte alle letterature greca e lati-na, di fronte cioè alla loro ineludibile e incombente presenza nella tradizione letteraria occidentale:

Lo scoglio in cui urtano i più distinti ingegni letterari dell’epoca nostra, è, strano a dirsi, formato dalle due classiche letterature, greca e latina, meravigliose […]. Giovani che promettono coi loro primi saggi cieli nuovi, invecchiando si lasciano sedurre da quelle due perpetue sirene, e ritornano a dormir nell’antico. Es. famosi ne sono gli ultimi lavori di Goethe e Rovani. Da questo punto di vista, Hobbes non ha forse torto di sconsigliare l’istruz. classica nelle scuole. Eppure io non l’oserei. Là si trovan bellezze, a nostro paragone, perfette. La lettura di Omero generò forse Virgilio, come Virgilio, Dante. Tutto sta nell’usarli con precau-zione – nel cibarsene in quella quantità che riesca a medicina, e non a veleno –.3

È un passo per più aspetti notevole. Se subito spicca l’accosta-mento, così dossiano, tra «gli ultimi lavori di Goethe e Rova-ni», segno di un ‘dossianesimo’ più profondo e di sostanza è il registro paradossale che permea queste righe, e l’approccio all’Antico che esse rivelano. Le due classiche litterature sono dunque, per ogni ingegno letterario, allo stesso tempo sco-

3 Facendo precedere al numero la sigla NA, ora e in séguito cito da C. Dossi, Note azzurre, a cura di Dante Isella con un saggio di Niccolò Re-verdini, Milano, Adelphi, 2010.

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glio e meraviglia, al pari di perpetue sirene, pronte a far pre-cipitare nel sonno del conformismo scolastico e accademico («dormir nell’antico») scrittori mossi in gioventù da audaci velleità di rinnovamento. Quelle due perfette e archetipiche letterature appaiono perciò simultaneamente medicina e ve-leno, sì che addirittura viene lecito interrogarsi, con Hobbes, sull’utilità dell’«istruzione classica nelle scuole». La menzione di Hobbes, autore peraltro di salda cultura classica e a cui si deve «la prima rigorosa traduzione di Tucidide in una lingua moderna»,4 sembra rivelare attenzione e consapevolezza cir-ca il paradosso immanente alla genesi e allo sviluppo della ci-viltà moderna, sorta dal ritorno agli studia humanitatis ma sin almeno dal XVII secolo voltasi a continuamente ripudiare e nuovamente recuperare l’eredità del mondo antico, in un’in-cessante e mai intermessa querelle des anciens et des modernes. Il cenno alla scuola, luogo decisivo dell’incontro con i classici, rimanda a un tema fondamentale nella narrativa dossiana, sin dagli inizi contraddistinta dal rilievo riservato a fanciullezza ed esperienze scolastiche. Soggetti per cui, con L’Altrieri, nella letteratura italiana Dossi «fu un po’ l’avanguardia, prima che

4 Che fu anzi la prima opera pubblicata dal pensatore inglese allora tren-tenne, nel 1629: cfr. L. Canfora, Hobbes e Tucidide, «Quaderni di storia», XVIII, 35, gennaio-giugno 1992, pp. 61-73 (poi con il titolo Il Tucidide monarchico di Hobbes in L. Canfora, Le vie del classicismo. 2. Classicismo e libertà, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 55-66); L. Iori, Thomas Hobbes traduttore di Tucidide. Gli Eight Bookes of the Peloponnesian Warre e le prime tracce di un pensiero hobbesiano sulla paura, «Quaderni di storia», XXXVIII, 75, gennaio-giugno 2012, pp. 149-93. L’avversione espressa nel Leviathan verso un’educazione per intero incentrata sui classici greci e latini, tipica delle classi dirigenti inglesi, si spiega soprattutto con la convinzione di Hobbes che essa fuorviasse i giovani inducendoli a credere «that liberty only existed in a democracy»: cfr. E. Rawson, The Spartan Tradition in European Thought, Oxford, Clarendon Press, 1991 (1969), p. 189.

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arrivassero Pinocchio e Cuore»,5 non senza influsso, alme-no da questo punto di vista, anche delle appena pubblicate Confessioni di un ottuagenario (1867), nonché forse del Nievo ‘campagnuolo’.6

Nel segno del binomio infanzia-scuola, e di un chiaro anticlericalismo, è l’esordio letterario del diciassettenne Car-lo Dossi, con Educazione pretina, il primo dei Due racconti pubblicati per il Natale del 1866 unitamente all’amico Luigi Perelli.7 Segue, due anni dopo, L’Altrieri, «piccolo portento»8 nel quale da tempo e concordemente si ravvisa, insieme con la Vita di Alberto Pisani (1870), l’esito più felice dell’intera pro-duzione letteraria del Dossi.9 Costruito sin dall’incipit sulla

5 F. Portinari, Introduzione, cit., p. 22.6 Circa la conoscenza da parte di Dossi delle Confessioni già nell’Altrieri vd. A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, Napoli, Liguori, 1995, p. 4 n. 2; particolare rilievo alla ‘tappa’ dossiana nella storia della ricezione del romanzo di Nievo riserva C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani. II: Dall’Arcadia al Novecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 724 («le Confessioni sono, con la loro politonalità e polifonia, l’eco della ‘crisi del romanzo’, che da Manzoni, attraverso Dossi, non potrà non muovere verso Gadda»).7 Li si veda riproposti in C. Dossi, Due racconti giovanili, con un raccon-to di Luigi Perelli, a cura di Paola Montefoschi, Roma, Salerno Editrice, 1994.8 Così G. Lucchini in C. Dossi, La Desinenza in A, Milano, Garzanti, 20092, p. VIII, sull’orma delle fondamentali pagine di D. Isella, La me-moria dell’«Altrieri», in Id., I Lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, Torino, Einaudi, 1984, pp. 240-44 (poi in D. Isel-la, Introduzione, cit., pp. XXI-XXVI), che si aprono appunto individuan-do nell’Altrieri «già il libro di un caposcuola».9 «A circa vent’anni dunque, quanti ne aveva all’epoca dell’Alberto Pi-sani, il Dossi ha già conchiuso il suo processo artistico. Dopo di allora non ci sarà più storia per lui, la sua avventura meravigliata nel mondo è compiuta. Già da quel tempo, esaurito il profumo prezioso dei propri ricordi, si sopravvive con sofferenza, da precoce cui sia negata (diverso in questo da altri enfants maudits) la precocità stessa della morte»: sono pa-

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minuziosa, ‘catalogica’ evocazione dei ricordi d’infanzia:

I miei dolci ricordi! […] Io li evòco allora i mie’ amati ricordi, io li vòglio; li vòglio, uno per uno, contare come la bisnonna fa de’ suoi nipotini. Ma essi, in sulle prime, se ne tirano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo del mio cipollone, io li annojo, li stùzzico; quindi, è buon diritto, se danno in capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, càccia il capo di fuori; un secondo lo imìta: essi comìnciano ad uscire a sbalzi, ad intervalli, come la gorgogliante acqua dal borbottino.10

L’Altrieri riserva alla scuola il secondo dei tre bozzetti in cui si articola, Panche di scuola. Benché assai più maturo e scal-trito sul versante lessicale e stilistico, lo sguardo sul mondo scolastico vi è non meno crudo che in Educazione pretina. In relazione al nostro tema si può richiamare la descrizione dello studio del professor Giosuè Provérbio, direttore del Col-legio-convitto dove è condotto dai genitori il contino Guido Etelrédi:

Oh! che stùdio: il più lustro ch’io vedessi mai! Salvo che nel sop-palco, macchiato da certi segni che parevan di tappi, di zaffate di vino, io mi specchiava dovunque; e nelle pareti a stucco e nel pavimento alla Veneziana […] e nei mòbili a lùcido e in due gran busti di marmo Carrara (Cicerone ed Orazio) dal lusinghiero, in-nocentino sorriso… Ipocritoni!11

role ancora di Dante Isella nel volume ricciardiano del 1958 La lingua e lo stile di Carlo Dossi (p. 79), ora riproposto in edizione anastatica (Milano, Officina Libraria, 2010).10 Traggo L’Altrieri da C. Dossi, Opere, cit., pp. 5-6.11 C. Dossi, Opere, cit., p. 36; si ricordi che in un collegio si svolge la se-conda parte di Educazione pretina. Quanto al professor Giosuè Provérbio, arduo non cogliere in lui, e nel «peristìlio psèudo greco-romano» che ne adorna il Collegio-convitto, un malizioso cenno a Carducci, sui cui rap-porti sin dal 1867 con il giovanissimo Dossi vd. peraltro E. Paccagnini, Carducci e gli Scapigliati, «Otto/Novecento», 34, 1, gennaio-aprile 2010, pp. 26-34. Panche di scuola è compreso nella recente antologia Racconti

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Di questo ambiente così lustro, ma dove le tracce del disordi-ne esistenziale e morale non sfuggono allo sguardo del piccolo Guido, non è difficile scorgere la matrice nel cap. III dei Pro-messi sposi,12 nello studio (è parimenti termine manzoniano) del dottor Azzecca-garbugli, con i «due gran busti di marmo Carrara» di Cicerone e Orazio dalla funzione analoga agli sve-toniani «ritratti de’ dodici Cesari» distribuiti su tre pareti del-lo stanzone in cui il dottore riceve Renzo. La caratterizzazione di Cicerone e Orazio quali numi tutelari del tonitruante pro-fessor Provérbio non esaurisce il ruolo dei due autori latini nel passo de L’Altrieri, che ce li presenta altresì «dal lusinghiero, innocentino sorriso… Ipocritoni!». È qui già dato scorgere, nel diciannovenne Dossi, quell’approccio ‘umoristico’ all’An-tico, cioè fecondamente paradossale, nello specifico (e in ge-nerale) tipico delle Note azzurre. Se per Cicerone non manca, in NA 2374 (datata Roma 1872), la consueta assimilazione a un «professore pedante e sbajaffone»,13 altrove nelle Note az-zurre l’oratore latino appare con un inatteso, beffardo sorriso, simile a quello campeggiante sul busto nello studio del pro-fessor Provérbio: «Cicerone è uno tra i pochi che abbia saputo

scapigliati, a cura di Roberto Carnero, Milano, BUR Rizzoli, 2011.12 La opzione filo-manzoniana dello ‘scapigliato’ Dossi, al di là della «fred-dezza verso le soluzioni linguistiche toscaneggianti», è sottolineata da P. Gibellini, Gadda, la linea lombarda e le polemiche sul Manzoni, in L’an-timanzonismo, a cura di Gianni Oliva, Milano, Bruno Mondadori, 2009, pp. 326-30; torna sulla centralità dei temi dell’infanzia e dell’educazione nell’Altrieri C. Nutini, Oltranze espressive scapigliate a confronto: L’Altrieri di Carlo Dossi, Riflesso azzurro di Ambrogio Bazzero ed Emma Ivon al ve-glione di Paolo Valera, «La Rassegna della letteratura italiana», s. IX, 115, 2011, spec. pp. 70-76.13 «(Roma 1872) Nel Museo Capitolino, ciò che maggiormente mi ha interessato fu la raccolta dei busti degli uomini celebri di Roma e di Gre-cia. Come è vero il ghigno e il cranio cocciuto di Catone! Come ritrae la innata lavativaggine il viso di Aristotile! E Cicerone, il professore pedante e sbajaffone?».

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in latino sorridere. Ma Cicerone, borghese, voleva passare per patrizio e spesso cangiava il sorriso in sogghigno» (NA 1212). Riguardo a tale risus ciceroniano val la pena osservare che non mancano indizi circa la consapevolezza di Dossi della sostan-za ‘scettica’ del pensiero ciceroniano: apoditticamente in NA 2149 («Allo scetticismo appartengono Lucrezio e Cicerone»), dove l’accostamento a Lucrezio verosimilmente dipende dal ricordo della famosa e discussa notizia di Girolamo sulla mor-te del poeta e l’intervento di Cicerone nell’‘emendarne’ gli scritti («amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot li-bros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit»),14 ma anche rimanda a una particolare interpre-tazione di Epicuro, di cui è traccia in NA 1198 («L’umorismo è la letteratura dello scetticismo. Democrito e Epicuro sareb-bero i suoi fondatori»).

Quanto a Orazio, il «lusinghiero, innocentino sorriso» an-che a lui attribuito da Guido Etelrédi riemerge nelle numero-se Note dedicate al poeta latino riconducibili alla trattazione – fondamentale nell’àmbito dello zibaldone dossiano – del tema dell’Umorismo: si ricordi almeno la fulminea NA 1213 («L’umorismo di Orazio – la sua grand’anima disgustata»), che fa immediato seguito alla citata NA 1212 sul sorriso di Ci-cerone. Ancora all’Orazio caro al professor Provérbio sembra

14 Una rilettura dei rapporti tra Cicerone e Lucrezio confusamente riflessi nella notizia di Girolamo dà L. Canfora, Vita di Lucrezio, Palermo, Sel-lerio, 1993. Anche nella Giovinezza di Giulio Cesare del Rovani (1873) si attribuisce al personaggio di Cicerone «un perpetuo e filosofico sorri-so dell’intelletto»: si veda l’analisi del Cicerone rovaniano a opera di E. Narducci, Cesare e Cicerone. Da Napoleone III alla prima Scapigliatura Milanese, in Id., Cicerone e i suoi interpreti. Studi sull’Opera e la Fortuna, Pisa, ETS, 2004, spec. pp. 341-47: tenendo presente che La Giovinezza di Giulio Cesare originariamente apparve in appendice alla «Gazzetta di Milano» tra il giugno 1865 e il dicembre 1870 (cfr. C. Dossi, Rovaniana. Introduzione, trascrizione ed indice per cura di Giorgio Nicodemi, Mila-no, Edizioni della Libreria Vinciana, 1946, vol. I, p. 478).

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per antifrasi rimandare NA 477, dove un passo delle Epistole oraziane (II, 90-91: «quodsi tam Graecis novitas invisa fuisset / quam nobis, quid nunc esset vetus?») suggerisce a Dossi l’os-servazione «E pensare che Orazio, il flagello dei pedanti anti-chi, diventò il dio dei pedanti moderni». Quanto la recherche dossiana de L’Altrieri15 sia intimamente connessa alla scuola, e anzi alla ‘scuola classica’, il liceo, è confermato dalla chiusa del terzo e ultimo capitolo (La Principessa di Pimpirimpara), quando per Guido il risveglio alla realtà («io mi sdormen-to») coincide con il ritorno ai quotidiani doveri scolastici, e anzi al greco voluto obbligatorio dalla recente legge Casati («CONjugazione del verbo difettivo, gutturale e nutriente: φάγω = mangiare»).16

Oltre che alla scuola, gli autori greci e latini – e in genere l’erudizione classica – sono naturalmente connessi a un altro luogo topico dell’immaginario dossiano, la biblioteca, asso-luta protagonista del vivacissimo avvio della Vita di Alberto Pisani, che ex abrupto conduce il lettore nel pieno di uno sti-patissimo studio:

Degno di Paracelso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l’in-chiostro e la citazione latina. È a tramontana, a terreno; è a volta da cui die’ in fuori l’umidità. Tien le pareti, tutte a scaffali, con su spaventosi volumi in ramatina come il sospiro dei gatti. Ecco i dieci schienali arabescati di oro della rarìssima òpera «de nùmero atomorum»; presso, è la completa voluminosa serie delle gramàti-che (gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il montare a cavallo); poi, raccolta delle più massiccie disputazio-ni… e quella sulla parola culex, e l’altra intorno alla lèttera e con-siderata siccome còpula, e la arcifiera «sulla natura dell’aurèola del Monte Tàbor». Ed ecco, in un tratto dell’ùltimo palco, il famoso trattato «de nuce beneventana» quaranta tomi in-octavo, vestiti di

15 Immagine spesso evocata per la ‘prosa di memoria’ dossiana: cfr. ad es. A. Saccone, Carlo Dossi, cit., p. 10. 16 In C. Dossi, Opere, cit., p. 75.

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pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera priva di un dente occhiale; ecco – tagliando corto – una infinita turba di libraccioni, e nelle scansìe e fuori… spècula, theatra, convìvia, thesàuri… di astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa – tutta marròca.17

Il capitolo quarto posto a principio dell’Alberto Pisani18 è tra le pagine più studiate dalla critica, che vi ha riconosciuto «una vera e propria prefazione al romanzo», e la chiave per illumi-nare gran parte dell’identità di Dossi scrittore.19 La satira del-la πολυμάθεια libresca, efficacemente giocata sulla consueta tecnica dell’accumulazione e del paradosso, certo si rifà a più o meno ovvi modelli – viene in mente la biblioteca di don Ferrante – ma in Dossi si nutre altresì, e sin dai primordi della sua attività letteraria, di una vera fascinazione per quella stessa erudizione eruditamente dileggiata, in accordo con il rove-sciamento paradossale tante volte da lui stesso indicato come necessario accesso alla sua opera: «D. è l’ultima espressione dello scetticismo: tutto in lui è negazione, meno appunto l’af-fermazione del negare»,20 e infatti «D. tende continui calappi al suo lettore. Con lui il lettore procede su di un infido terre-no. D. è come certe scale – meccaniche bizzarie – in cui par di scendere appunto quando si sale e viceversa». Sono ben note sententiae dalle Note azzurre (2307), non a caso introdotte dall’affermazione dell’ineludibile confronto con la tradizione

17 C. Dossi, Opere, cit., p. 83.18 Soluzione probabilmente ispirata a Sterne, uno degli auctores di riferi-mento dell’‘umorismo’ dossiano.19 Mi limito a rimandare ai rilievi di L. Sasso, Prefazione, in C. Dossi, Vita di Alberto Pisani, Milano, Garzanti, 20082, pp. XXV-XXVI.20 Sulla centralità della negazione in Dossi quale sfida alla «possibilità stes-sa della comunicazione» si vedano le osservazioni di F. Spera, La letteratu-ra del disagio: Scapigliatura e dintorni, in Storia della civiltà letteraria italia-na diretta da Giorgio Bárberi Squarotti. Volume quinto: Il secondo Ottocento e il Novecento, t. I, Torino, UTET, 1994, pp. 152-53.

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classica quale base per le innovazioni da Dossi realizzate o im-maginate: «Importanza di Dossi nella letteratura umoristica spec. italiana. Piantò nuovi fiori sul suolo d’Italia; colti nelle campagne straniere, e prudentemente innestati nel vecchio ceppo greco-latino». Dossi è peraltro ben consapevole che quello stesso venerando ceppo facendo ‘classica’ la letteratura italiana l’ha al contempo per secoli isolata dagli sviluppi delle maggiori letterature europee, intrise del caustico e irriverente spirito dei ‘moderni’ (NA 2269):

L’umorismo in Italia ebbe assai pena a manifestarsi. Le tradizioni gloriose di una famiglia traggono spesso la famiglia in rovina. L’I-talia credette sempre e troppo in Grecia ed in Roma […]. Per con-tro l’Umorismo, non inceppato da questa esagerata venerazione al passato procedette più svelto negli altri paesi e specialmente in quelli che stavano fuori dalle tradizioni del genio greco-latino. –21

con riferimento cioè soprattutto all’Europa settentrionale di-venuta protestante, giacché

Per le stesse ragioni, [l’Umorismo] penò assai anche in Francia. Rabelais e Montaigne rimasero per lungo tempo senza figli. La notte di S. Bartolomeo e la revoca dell’Editto di Nantes, soffocan-do il libero esame ecc., stroppiarono in fascie l’humour, compri-mendo l’inquietudine della ricerca.

È opportuno ribadire che i sarcasmi sull’erudizione, dalla mo-dalità grottescamente ‘colta’, denotano la produzione dossia-na sin dai precocissimi albori, ai quali del resto s’intona un

21 Con spunto analogo Dossi annota altresì che «La lingua latina era poco pieghevole all’umorismo. Poiché anticamente mancava la borghesia, che oggidì è tutto, e di cui l’umorismo è la letteratura» (NA 982: seguono richiami e estratti da Ovidio, che «sfiora qua e là i nuovi tempi, ma la maestà romana gli è sempre d’impedimento»), passo su cui richiama l’at-tenzione G. Vigorelli, Il romanzo epigrafico di Carlo Dossi [1965], in Id., Nel sangue lombardo, Samedan (CH), Munt Press, 1975, p. 31.

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adolescenziale gusto della caricatura ‘scolastica’. In Racconto (1867) la presentazione di Narpea, la città dove approda il giovane pittore Roberto Marini e che dovrebbe risultare «em-blema della metropoli dispersiva e corruttrice»,22 si fa in realtà spunto di surreale divertissement tra glottologico e antiquario:

Narpea è un’antica città sulle di cui origini i dotti discussero e discutono continuamente divisi in moltissimi campi. Chi la vuole pelasga, chi greca e il commendatore Lucchesi, preside della so-cietà archeologica, difende la prima opinione con mille prove ir-refragabili basate sulla storia e sulle tradizioni, mentre il cavalier Lampadio, direttore degli scavi, sta per la seconda ed appoggian-dosi all’idioma del paese, rovina in quattro semplici paginette tut-to l’edificio innalzato dal pelasgico confratello. – Né basta – Altri minori scienziati emettono centomila opinioncine e, non venendo mai a una qualsiasi transazione, in centomila opuscoletti, scritti in quella lingua che sfida il pudore, si dicon roba da chiodi vicende-volmente. Ma forse non lontanissimo è il tempo in cui verrà sciol-to il problema perciocché (anche a costo di tradire una confidenza) vi diremo, o carissimi lettori, che il prof. di linguistica Luigi Perelli sta raccogliendo i materiali per un’opera colossale – in greco – di 50 volumi, atta a provare a tutto l’orbe terracqueo la germanicità di Narpea [...]23

mentre in Lisa, primo episodio dell’Altrieri, finanche l’idillio tra i due fanciulli – destinato a cupo esito – s’apre con il picco-lo Guido incongruamente paragonato a un dotto archeologo:

22 P. Montefoschi, Introduzione. Carlo Dossi: «Primi vagiti letterari», in C. Dossi, Due racconti giovanili, cit., p. 36; la città di Narpea compare anche ne La Principessa di Pimpirimpara, terzo episodio dell’Altrieri (C. Dossi, Opere, cit., p. 64). Il riferimento va evidentemente a Milano: cfr. G. Rosa, La narrativa degli Scapigliati, Milano, CUEM, 20102, pp. 135-36.23 In C. Dossi, Due racconti giovanili, cit., p. 138: Luigi Perelli è l’amico cui si deve Istruzione secolare, il racconto che insieme a Educazione pretina di Dossi venne a costituire il volumetto Due racconti, stampato a proprie spese dai due giovanissimi autori nel 1866.

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Tuttavìa, siccome Lisa mi era stranamente andata a pelo e siccome di parlantina non ne mancavo, così dièdimi ad illustrarle a guisa degli orti di Babilònia la suaccennata grillaja, con tanta sicurezza e con una tal gerla di frasche che, lo stesso cèlebre penetrabuchi Whatdyecallum (l’autore dei brevi cenni crìtici – in un in-fòlio di 400 pàgine – sopra un naso di marmo scoperto nel colombarium dei Giulj e attribuito a una scomparsa stàtua di Augusto) mi avreb-be invidiato.24

Quanto però, anche da questo punto di vista, L’Altrieri dav-vero sia «il libro di memorie (o di memoria) da parte di un ragazzo»25 ben lo indica una delle ultime tra le Note azzurre, databile sul finire del 1907, e come altre dedicate a un amaro bilancio dell’esistenza da parte dell’incompleto e precocemen-te invecchiato Dossi, che «alle scienze specialmente archeolo-giche» forse più che alle lettere sembra ripensare come alla sua vera vocazione inattuata (NA 5783):

Ho 58 anni (e ne avrò 59 ai 27 marzo) e sono in un continuo peggioramento […]. Tra poco, forse questione d’anni o di mesi, mi dissiperò, e ridarò le mie spoglie alla terra, speriamo per una rinnovazione, e per riprendere la mia vita, sott’altre forme, e com-pletare le precedenti esistenze. Questa volta ero venuto al mondo chiamato «terra» con una buona dote, ma gli avvenimenti non mi furono favorevolissimi, o forse non ebbi sufficiente virtù di domar-li al mio servizio. – Ero nato alle lettere, alle scienze specialmente archeologiche, ma non ebbi il coraggio di tendere ad un unico scopo l’arco della mia mente.

Una polverosa biblioteca ricca di valore simbolico s’accampa anche nella scena terza dell’atto secondo della Desinenza in A, dal titolo Idillio. L’episodio è costruito intorno al ‘verecondo’ Nino Fiore, sorta di alter ego dell’autore26 nella sarabanda di

24 In C. Dossi, Opere, cit., p. 13.25 F. Portinari, Introduzione, cit., p. 16.26 Cfr. D. Isella, Introduzione, cit., pp. XXVII-XXVIII. La scena seconda,

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situazioni e caratteri in cui si struttura (o destruttura) il più famoso degli ‘antiromanzi’ del Dossi. Sfruttando l’infinito gioco di specchi caro alla narrativa dossiana, a un certo punto Nino parla in prima persona. Sofferta la prima di molte delu-sioni d’amore e dossianamente «riparando a quel covo d’ogni ambizioso fallito, che è la campagna», Nino scrive infatti una lettera all’io narrante («amico») dall’ampia biblioteca di uno zio curato, aperta da «una arrugginita chiavaccia» e collocata «in un camerone, dove [lo zio] metteva una volta la frutta a marcire». Va detto che la trascuratezza e l’ambientazione ec-clesiastica caratterizzanti quest’altra dilavata librerìa dossiana («messa insieme dal pàrroco predecessore che la legò al presbi-tero») non poco contribuiscono a evocare la biblioteca dove Mattia Pascal si trovò «per circa due anni non so se più cac-ciatore di topi che guardiano di libri», quella biblioteca «che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune» e che al tempo di Mattia è in custodia di don Eligio Pellegrinotto, pervenutagli dopo che il Comune «i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Ma-ria Liberale». La biblioteca dello zio curato dove si addentra Nino Fiore pare insomma potersi accostare alla Boccamazza di don Eligio Pellegrinotto meglio dello «studio degli studi» nell’incipit della Vita di Alberto Pisani,27 e può forse utilmente

in cui è introdotto Nino Fiore – «giovinetto fuor del comune» di cui «niu-na fanciulla più vereconda» – reca il priapeo titolo Quo mèntula mens (per cui cfr. anche NA 2377).27 Richiamato a proposito della duplice Premessa in apertura de Il fu Mat-tia Pascal da A. Saccone, Carlo Dossi, cit., p. 59, che pensa «ad un co-mune retaggio dai grandi archetipi settecenteschi e primo-ottocenteschi»; cfr. anche A. Saccone, La biblioteca del «Fu Mattia Pascal», in Luoghi e paesaggi nella narrativa di Luigi Pirandello. Atti del Convegno di Roma 19-21 dicembre 2001, a cura di Gianvito Resta, Roma, Salerno Editrice,

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contribuire ai punti di contatto tra Dossi e Pirandello28 qua e là messi in luce dagli studiosi, a partire dalla comune rifles-sione sull’umorismo come strumento euristico volto a svelare l’assurdità e la disgregazione del reale (e tenendo presente ov-viamente che una prima parziale e purgata edizione delle Note azzurre si ebbe solo nel 1912).29

Particolarità e pregio della biblioteca dove Nino Fiore vien stendendo la sua lettera è che vi si trovano riuniti «quanti scrittori dissero chiodi in femminile materia, dall’òpera più massiccia al più bizzarro pamphlet».30 Tema comune a quei libri è cioè la misoginia, la fabula – per così dire – della De-sinenza in A, e anche qui non mancano curiose analogie con Il fu Mattia Pascal, che – come è noto – è soprattutto un’autorappresentazione dello scrivere giacché «non racconta la vita dell’eponimo protagonista bensì ne mette in scena la

2002, pp. 195-207 (in particolare pp. 198-99).28 G. Davico Bonino, Prefazione, a C. Dossi, Il Regno dei Cieli. La Colo-nia felice, Napoli, Guida, 1985, p. 7, si chiede ad esempio se La Colonia felice, l’opera dossiana di maggior successo editoriale con sei edizioni tra il 1874 e il 1895, non possa essere stata «‘la fonte’ di un’altra utopia, stavolta teatrale, quella della Nuova Colonia di Luigi Pirandello». Colpisce nell’a-pertura della lettera a Benedetto Croce da Milano del 4 dicembre 1905, a un anno dunque dalla duplice pubblicazione de Il fu Mattia Pascal sulla «Nuova Antologia» e in volume, trovare Dossi affermare «quando (e sarà circa una ventina di giorni) il presidente del Circolo filologico milanese mi disse che Benedetto Croce aveva scritto di me e de’ miei libri in una sua rivista, io – che mi credo morto da un pezzo – subito pensai che si trattasse di pubblicazioni antiche, dell’epoca forse della mia giovinezza letteraria...» (la lettera è riportata tra le Testimonianze in appendice a G. Pacchiano, Introduzione, cit., p. 48).29 Una dettagliata storia editoriale delle Note azzurre ora offre Niccolò Reverdini nell’ampia appendice alla citata edizione integrale del 1955, riproposta da Adelphi nel novembre 2010 in occasione del centenario dossiano.30 C. Dossi, Opere, cit., p. 780.

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scrittura».31 Nel prosieguo della lettera Nino descrive il suo accostarsi a quei testi

E però cominciai, alzando le veneràbili legature, vere pietre di tomba, con gran disturbo delle tarme e dei ragni, e rimovèndone di tanto in tanto qualche topo crepato (altro effetto di scienza) a leggere i miei misògini autori, a ridonarli, almeno per pochi giorni alla vita [...]

e svela l’effetto che su di lui esercitarono, fino a spingerlo a immaginare di scrivere un libro che sfruttando tutto quel ma-teriale esprimesse l’ira sua verso «l’altra nostra metà»:

Tutte quelle ideone e ideuccie, succhiate da Giovenale e Lucrezio, da Pope e Luciano, da Tertulliano e Grisòstomo e vievìa, si accop-piàvano fra di loro, moltiplicàvansi nel mio cervello e lo affogàvan nel nùmero. ¿Come mai liberàrmene? Fermai di sfogarle in un libro […].32

31 Cfr. M.M. Pedroni, La biblioteca di Mattia Pascal. Fonti, funzioni e figure, «Studi novecenteschi», XXXV, 76, luglio-dicembre 2008, pp. 377-99 (spec. pp. 383-84), dove, circa il retroterra del Fu Mattia Pascal, si sot-tolinea l’ímportanza del racconto fantastico diffuso nell’Italia del secondo Ottocento, e in particolare la «cornice di tanti racconti di Tarchetti, Zena, Boito ecc.», e si individua nel racconto Il Monte Santo di Dio di Olindo Guerrini (1883) un sicuro punto di riferimento per Pirandello nelle pagi-ne sulla biblioteca Boccamazza. Nessun cenno a Dossi.32 In C. Dossi, Opere, cit., p. 781. Si noti ne Il fu Mattia Pascal che a causa della confusione indescrivibile della biblioteca Boccamazza «si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose», e in particolare tra un «tratto molto licenzioso Dell’arte di amare le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571» e la biografia secentesca di un beato Faustino Materucci, Benedettino di Polirone è accaduto che «per l’u-midità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate»: nel citato passso della Desinenza in A non manca una particolare attenzione alle «veneràbili legature», anche a proposito del fatto che i libri ammon-ticchiati dallo zio curato «non si son salvi, che per amore della legatura». A ciò che resta della dispersa biblioteca di Pirandello è dedicato il volume di A. Barbina, La biblioteca di Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni, 1980.

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Non molto diversamente ne Il fu Mattia Pascal ci è detto che don Eligio, arrampicato tutto il giorno tra gli scaffali della biblioteca, è solito di volta in volta gettare i libri dall’alto, che Mattia afferra, mettendosi a leggiucchiare e così a poco a poco facendo il gusto a tali letture, tanto che il sacerdote – ricorda Mattia Pascal – «mi dice che il mio libro dovrebbe essere condot-to sul modello di questi ch’egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolare sapore».33 Tornando alla Desinenza in A, è evidente che Dossi tiene ad apparire pienamente consapevo-le di ricollegarsi a una specifica tradizione letteraria (cioè dal proprio particolare sapore), che ha decisive radici nell’antichità classica. I misògini autori citati appartengono tutti – greci e latini, pagani e cristiani – alle letterature antiche, con l’ecce-zione di Pope, la cui produzione però fu notoriamente assai legata ai classici greci e latini. Attraverso le scoperte di Nino Fiore34 nella dimenticata librerìa, Dossi fa mostra di squader-nare ai lettori genesi e fonti della Desinenza in A, nonché in certo modo l’ispirazione di tutta la sua produzione, intrisa di recondita dottrina e di strani studi (NA 2368),35 ma mossa dal bisogno di liberarsene attraverso l’attività creativa al fine di at-

33 Corsivo mio.34 «Il suo ‘doppio’»; lo dice G. Pacchiano, Introduzione, a C. Dossi, La Desinenza in A, Milano, BUR Rizzoli, 20022, p. 32.35 Nota in cui Dossi di sé dice, toccando un tasto dalle molte variazioni nei suoi scritti: «La vena della pazzia, che permea ne’ suoi scritti e nelle sue azioni – in parte ereditaria – in parte aquisita dagli strani studi e dall’ingegno eccezionale (Nullum ingenium sine mixtura dementiae)». Significativa anche la chiusa della nota, dove Dossi evoca in sé una latente Desinenza in A, con espressioni e allusioni cui non mancano certo analo-gie nel romanzo: «Inoltre, io doveva nascere donna. La particula di divina aura che spirò nel grembo della mia mamma era bipartita. Ma il diavolo giocò a Dio o piuttosto a me un malignissimo tiro. Abbiamo da attac-carcelo? chiese a sé stesso. E me lo attaccò. Ed io non ho di maschio che quello. I miei sentimenti, i miei pensieri, i miei languori, i miei desideri, femmineggiano tutti».

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tingere una vagheggiata e sempre esorcizzata naturalezza: non a caso immaginata soprattutto come «ridiventare ignorante» (NA 4432), in una fatica di Sisifo su cui spesso riflettono le Note azzurre:

3533. Fu una grande impresa in mia vita quella di pormi tabula rasa a lunghissimi studi, e d’ingozzare voglia o non voglia tanta nausea di scienza; ma ancor più grande fu quella… di sbarazzar-mene per ritornare alla smarrita spontaneità.

È insomma il (vano) anelito a «essere erudito» e «nasconde-re l’erudizione», secondo il dettato di NA 1246 («fu erudito, e quanto e più, nascose la erudizione»). Nel citato Capitolo quarto, all’esordio della Vita di Alberto Pisani, si fa impulso a rifugiarsi in un altro studio, un luminoso ambiente dove l’amore per la classicità non si identifica con «l’ànimo di fabri-care un in-folio, grande, grosso, e zeppo di erudizione, cioè di roba furata»,36 ma è atemporale culto del bello (il Partenone):

E si ripari in un altro studio; ben grazioso, bellino, n’è vero? Quì, la scienza non teme la luce; questa, entra a larghìssime onde. Sul-le pareti, dalla tappezzerìa gris-perla ammarezzata, vedi fotografìe con alto màrgine bianco, incorniciate leggermente d’oro... il Par-tenòne... il Pandròsio... tutte cose che tèrgon la vista; sul lustro intavolato, sedie dall’elegante profilo, fàcili a mòvere; sul tavolino, niente libri, sì bene una rosa non aperta del tutto, in un bicchiere d’àqua. No, quì non ci ha pericolo d’instupidirsi a furia di sgobbo, quì bisogna pensare col proprio cervello [...].37

In realtà Carlo Dossi è ben conscio, e vuole che lo sia il lettore attento, della necessità di entrambe le biblioteche, di entram-bi gli studi: di quello monumentale «degno di Paracelso», che «sente il tabacco, l’inchiostro e la citazione latina», e dell’al-

36 Vita di Alberto Pisani, in C. Dossi, Opere, cit., p. 84.37 C. Dossi, Opere, cit., p. 85.

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tro, lo studiolo dove i libri «chiusi in una breve scansìa di àcero rimpetto al franclìno, son, quasi tutti, vivi, vivìssimi. Pochi, ma con i baffi. E vàlgono una biblioteca di centomila vo-lumi…».38 Come Nino Fiore dopo essersi infatuato dei suoi misògini autori presto si volge speranzoso all’amore della pa-stora Cherubina, «fiore gagliardo dell’Alpi» e soprattutto lun-gi dal «cimitero di libri» dello zio curato,39 così i classici greci e latini, e l’erudizione che necessariamente li accompagna, sono da Dossi nel contempo e di continuo evocati e negati, conformemente al carattere del suo pensiero e del suo narrare, dove «ogni tesi chiama, inevitabilmente, il suo contrario».40

Credo però si possa suggerire che questa tecnica del para-dosso cara al Dossi e al suo ‘umorismo’, nel caso dell’attitudi-ne verso l’erudizione classica sia essa stessa frutto, almeno in parte, di indagine erudita. Grazie alla gentilezza e alla dispo-nibilità di donna Carola Pisani Dossi ho avuto occasione di avere accesso alla biblioteca di Dossi conservata a Corbetta.41 Consultando il catalogo ci si imbatte come nell’ordito delle Note azzurre. Notevole è ad esempio la presenza di edizioni, commentari e studi provenienti dal mondo dell’erudizione europea della Res publica litterarum tra XVI e XVIII secolo, appunto quella «infinita turba di libraccioni […] spècula, the-atra, convìvia, thesauri… di astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa»42 richiamata all’inizio della Vita di Al-

38 Ibid. 39 La Desinenza in A, in C. Dossi, Opere, cit., p. 782.40 M. Serri, Carlo Dossi e il «racconto», Roma, Bulzoni, 1975, p. 43.41 Visita per cui ringrazio l’amichevole supporto di Gianni Antonini.42 L’espressione ritorna in una recensione del 1879 poi raccolta, con il titolo Cesare Vignati e il Codice diplomatico laudense, nella Fricassea critica di arte, storia e letteratura, la miscellanea di prose varie erudite e letterarie pubblicata dal Dossi nel 1906. A proposito della crescente specializzazio-ne nelle scienze filologiche e storiche che rende definitivamente sorpassate le compilative storie universali alla Cesare Cantù (che Dossi soprattutto a

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berto Pisani. Tra i molti volumi di quel mondo conservati nel-la biblioteca di Dossi e aventi un chiaro legame con le Note azzurre vi sono ad es. i Menagiana ou les bons mots et remar-ques critiques, historiques, morales et d’erudition de Monsieur Ménage…, I-IV, Paris 1729, raccolta di detti e motti del dotto francese Gilles Ménage (1613-1692) e espressione di un vero genere letterario nell’àmbito dell’erudizione europea del XVII secolo (con fortunate opere quali gli Scaligerana, i Thuana, i Pithoeana ecc., cioè detti celebri dello Scaligero, del de Thou, del Pithou): a questa edizione fa esplicito rimando NA 5558 dove si cita la «Menagiana vol. III pag. 258 della mia edizio-ne – v. in Libreria di Corbetta».43 Nella biblioteca di Dossi è poi presente il De charlataneria eruditorum del Menckenius (Johann Burckard Mencke, 1674-1732),44 erudita satira, che all’epoca godette grande fama, della vanità, delle manie e del-le follie di grandi e piccoli esponenti della operosissima filolo-gia e polimazia della Repubblica delle lettere, dove prendersi gioco dell’erudizione facendo ricorso alle stesse modalità e convenzioni espressive che la governavano, e ad opera degli

lui pensi è assicurato dai molti sarcastici riferimenti nelle Note azzurre al «letterario ciabattino») vi si legge: «L’epoca delle storie universali è finita [...]. Qualunque frequentatore di biblioteca, purché ciabattino nell’ani-ma, poteva fabbricar le vicende di tutti i popoli della terra [...]. Oggidì invece, questa cuccagna è spiantata. Archeologia, filologia ed altre scienze in ia hanno portato nel campo tale un ammasso di materiali e di dubbi che a voler fare de’ primi il puro inventario e dipanare gli altri, uno c’in-vecchierebbe» (ora in C. Dossi, Opere, cit., pp. 1326-27).43 I quattro volumi di Menagiana nella biblioteca di Corbetta recano la segnatura dal 577 al 580.44 Dell’opera, originariamente pubblicata nel 1715 (De charlataneria eru-ditorum declamationes duae auctore J.B. Menckenio), è presente a Corbetta una edizione di una decina d’anni dopo (segn. 449): Jo. Burch. Menckenii De charlataneria eruditorum declamationes duae, cum notis variorum. Ac-cessit epistola Sebastiani Stadelii ad Janum Philomusum De circumforanea literatorum vanitate, Lucae, typis Leonardi Venturini, 1726.

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stessi che ne facevano parte, divenne tra XVII e XVIII secolo un vero genere letterario.45 È lecito ritenere che nel suo ap-proccio all’erudizione Dossi sia stato influenzato da questa tradizione, in misura forse significativa. Il Menckenius non è menzionato nell’Indice alle Note azzurre, compilato da Dossi e (solo per i nomi propri) integrato da Isella: vi compare però la voce ciarlataneria dei dotti (V. imposture dotte etc.), con ri-mando a NA 4573, dedicata a Paolo Mantegazza, «un misto di vero ingegno e di malcelato ciarlatanesimo»,46 appunto il tipo di dotto preso di mira nel De charlataneria eruditorum, testo tra l’altro che in abbondanza offre passi non dissimili dalle beffarde catalogazioni dossiane delle «inutili occupazio-ni» di molti (così NA 434, con rimando a Rabelais).47

45 Cfr. L. Forster, «Charlataneria eruditorum» zwischen Barock und Aufklärung in Deutschland, in S. Neumeister-C. Wiedemann (Hrsg.), Res Publica Litteraria. Die Institutionen der Gelehrsamkeit in der frühen Neuzeit, Wiesbaden 1987, vol. I, pp. 203-21. Forse il migliore esempio del genere, benché ormai piuttosto tardo, è la Oratio de doctore umbratico pronunciata dal grande filologo olandese di origine tedesca D. Ruhnke-nius (1723-1798) nell’assumere nel 1761 la «ordinariam Historiarum et Eloquentiae professionem» presso l’Università di Leida (la si può leggere in D. Ruhnkenius, Opuscula varii argumenti, oratoria, historica, critica. Editio altera, t. I, Lugduni Batavorum, Luchtmans, 1823, pp. 114-41). 46 Per la versatile figura di P. Mantegazza (1831-1910) nell’àmbito della cultura positivistica italiana del tempo vd. F. Spera, La civiltà letteraria del secondo Ottocento, in Storia della civiltà letteraria italiana, cit., p. 64; ripro-pone la figura del Mantegazza, «fervente divulgatore delle più disparate fisiologie dei piaceri» e «problematico scienziato dell’esperienza umana», l’efficace profilo che ne dà G. Marcenaro, «Tuttolibri/La Stampa», 12 febbraio 2011, p. IX, dove anche si ricordano varie sue opere di recente ristampate.47 Si confronti ad esempio con l’incipit della Vita di Alberto Pisani il se-guente passo dall’opera del Menckenius, dove si ridicolizzano i librorum tituli: «Hinc tot videas antiquitatum ac elegantioris Latinitatis Thesauros, quos cum evolves pro thesauris carbones inveneris; tot Philosophiae ac reliquarum scientiarum Nucleos absque nucleo, arenam sine calce [...] tot

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Elementi della medesima tradizione hanno probabilmente contribuito al ritratto della «celebre Sofonisba Altamura del Connecticut, laureata in medicina, filosofìa, botànica e astro-nomìa», la protagonista di In càttedra, la scena ottava dell’atto terzo della Desinenza in A, nella quale Dossi intende ridico-lizzare i movimenti di emancipazione femminile, al tempo ormai in chiara crescita nel mondo anglosassone.48 Nel corso della conferenza tenuta appunto in càttedra Sofonisba a un certo punto menziona la Lisistrata di Aristofane:

¿Sapete voi chi fosse Lisìstrata? Una ateniese, che è quanto dire, una parigina dell’antichità; una donna tutto risorse, la quale, im-precando alla guerra civile che desolava la Grecia e volendo tron-carla, avèa imaginato il più nuovo e più efficace spediente che mai si potesse. ¿Cioè a dire? Cioè a dire, chiamava celatamente a sé le mogli e le amanti delle due parti nemiche e, dopo un discorso che non par scritto da un uomo, tanto è pieno di lògica, le persuadeva e stringeva coi sacri orrori della religione a non far pace coi pro-pri mariti, finché i mariti non l’avèssero prima tra essi. E il “no” delle donne rumoreggiò allora per tutta la Grecia. Così la guerra fu sciolta.49

denique Atlantes et Theatra historica, de quibus merito exclames Catul-lianum illud: Annales Volusi, cacata charta! Taceo tot claves aureas, metho-dos regias, gradus ad Parnassum, Oceanos macro-micro-cosmicos, clypeos veritatis, fortalitia scientiarum, inventaria cerebri humani et libros alios sexcentos...» (J.B. Menckenius, De charlataneria eruditorum declamatio-nes duae, Amstellodami 1715, pp. 19-20).48 Sofonisba terrà una conferenza «intorno alla più ardente piaga del gior-no, “la schiavitù delle bianche”», e gli introiti saranno «a tutto profit-to della grand’òpera “della Emancipazione”» (C. Dossi, Opere, cit., pp. 872-73). Sulla probabile conoscenza da parte di Dossi della pubblicistica femminista contemporanea, anche italiana e soprattutto milanese, vd. F. Caputo, Sintassi e dialogo nella narrativa di Carlo Dossi, Firenze, Accade-mia della Crusca, 2000, pp. 152-53.49 C. Dossi, Opere, cit., p. 879; circa l’esatto tenore della proposta di Li-sistrata ben più esplicito Dossi è in NA 1109. Tra i rarissimi studi sull’uso di autori classici nella Desinenza ricordo C. Gigante, Marziale in Dossi:

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Quel che più conta ai nostri fini rilevare è l’inciso di Sofo-nisba, subito dopo aver nominato Aristofane: «(che io leggo in originale né più né meno di una Dacier)». Il riferimento è a Anna Dacier (1647-1720), figlia del filologo Tanaquil Le-febvre, moglie del dottissimo André Dacier e filologa lei stes-sa: normalmente ricordata soprattutto per il suo ruolo nella seconda fase della Querelle des anciens et des modernes e per la traduzione in prosa francese di Iliade e Odissea, curò molte edizioni di classici, occupandosi anche di Aristofane.50 Ebbe universale fama come doctissima, e certo per questo Dossi la cita, in straniante associazione con Sofonisba, la illustre Dot-trice. La sua menzione è un altro indizio dell’attenzione e del-la curiosità che Dossi spesso dimostra per l’universo della Res publica litterarum, epoca che oltre a perseguire l’obiettivo e il miraggio di una sconfinata erudizione sviluppò un’apposita produzione volta a ridicolizzare quell’inesausta passione eru-dita, interessante anche come premessa per i più tardi strali contro le femmes savantes.51

Aristofane è tra gli autori classici su cui più si sofferma Dossi nelle Note azzurre, in relazione soprattutto al materia-le raccolto per la progettata Storia dell’Umorismo, con molte osservazioni e citazioni da numerose commedie aristofanee

un episodio della «Desinenza in A», «Esperienze letterarie», XX, 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 55-59.50 Su di lei G.S. Santangelo, Madame Dacier, una filologa nella crisi: 1672-1720, Roma, Bulzoni, 1984; J.M. Levine, The Battle of the Books. History and Literature in the Augustan Age, Ithaca, Cornell UP, 1991, pp. 133 sgg. Circa l’interesse di Dossi verso la grande erudizione europea se-centesca si ricordi anche il richiamo al De jure belli et pacis di Grozio nella Diffida premessa alla quarta edizione della Colonia felice, del 1883 (C. Dossi, Opere, cit., p. 525), nonché in NA 4709 dove anche è citata una nota del Gronovio.51 Tra le satire sulla charlataneria eruditorum non mancarono titoli come De malis eruditorum uxoribus e De misogynia eruditorum: si veda l’elenco in L. Forster, «Charlataneria eruditorum», cit., pp. 212-15.

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(vd. NA 1089 sgg.). Un adeguato esame della presenza e della funzione degli autori greci e latini nelle Note azzurre sarebbe lavoro utile e benemerito e offrirebbe senz’altro occasione e spazio per una monografia. Mi limiterò a un paio di rilievi, sulla linea del discorso sin qui svolto. Il primo scrittore an-tico che troviamo citato nelle Note azzurre, e anzi il primo autore tout court, è Gellio (NA 3),52 certo non il più scon-tato e ‘scolastico’ degli autori latini. Sin dall’inizio si palesa una delle principali caratteristiche riguardanti l’utilizzo dei classici antichi nel journal dossiano, cioè la predilezione per «scrittori che sono magazzini, cave di pensieri, come per es. Plutarco – Montaigne – Richter» (NA 685), e la passione per autori ‘collettori’ quali gli assai citati Ateneo, Plinio il Vec-chio, lo stesso Gellio. Notevole è l’interesse di Dossi anche per l’erudizione antica, significativamente associata nei suoi pregi e nei suoi difetti agli ‘eroi’ della Res publica litterarum cinque-secentesca, come in NA 2200 («Gli antichi etimolo-gisti. – Varrone, Aulo Gellio, Festo – Menagio, Mureto, Sal-masio Budeo, Screvelio...») e NA 2240, dove nel «progetto del libro “Note umoristiche di Letteratura alta e bassa”» ci si propone di dedicare il primo capitolo a «Antica e nuova filologia. Varrone, Aulo Gellio, Menagio ecc.». Rientra nel medesimo alveo la curiosità attestata dalle Note azzurre per autori e opere antiche in frammenti (ad es. i frammenti dei tragici e dei comici), nel senso di ‘frammento’ proprio della filologia classica: grandi depositi di frammenti, cioè di autori e passi trasmessi per tradizione indiretta, sono appunto «gli scrittori che sono magazzini» di cui si è detto. Pur con le opportune precisazioni non è chi non veda la relazione con il ‘frammentismo’ di Dossi tante volte messo in rilievo dalla

52 NA 3 suona: «Per la Satira a Roma. V. Gellio – notti attiche (L. IV cap. V) – (Lib. XV IV)»: in relazione a Gellio sono anche le successive note 5, 6, 7, 8, 9.

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critica a proposito sia della sua tecnica narrativa sia della Wel-tanschauung che la ispira, nonché riguardo a «quel capolavoro dell’enciclopedismo per frammenti narrativi e aforismi saggi-stici che sono le Note azzurre».53

È opportuno, in conclusione, brevemente tornare alla De-sinenza in A: titolo geniale, non a caso costruito su un termi-ne, desinenza, che rimanda alla scuola e alle lingue classiche. Alla seconda edizione del libro (Roma 1884) è apposta una nuova prefazione, il Màrgine alla «Desinenza in A», datata «Roma, 27 settembre 1883», il più ampio e impegnato inter-vento dossiano di riflessione sulla sua produzione narrativa,54 volto a rispondere alle critiche suscitate dalla prima edizione (Milano 1878). Pochi mesi prima, alla riedizione di un altro suo romanzo, La Colonia felice, Dossi aveva fatto precedere una nuova prefazione, a mo’ di palinodia, dal titolo Diffi-da, datata «Roma, 1 aprile 1883». È interessante ricordarla ai nostri fini perché Dossi vi informa il lettore che suo primo intento era stato ambientare il romanzo nella Roma di Marco Aurelio, probabilmente sul modello della Giovinezza di Giu-lio Cesare del Rovani,55 aprendolo con un colloquio tra Marco Aurelio e Lucio Vero: senonché, aggiunge Dossi,

girando e frugando nei bugigàttoli dell’erudizione per procurarmi la supellèttile archeològica che mi occorreva, mi si affacciàrono

53 C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, cit., p. 705.54 «Una vera e propria ars poetica, un lucidissimo bilancio di autochiari-ficazione del dossismo, delle sue ragioni teoriche e tecniche» si spinge a definirla A. Saccone, Carlo Dossi, cit., p. 69; è stato anzi osservato che le varie prefazioni dossiane degli anni 1880-1884 «costituiscono nel loro insieme una complessa ars poetica» (L. Barile, Postfazione, a C. Dossi, Autodiàgnosi quotidiana. Prefazione, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1984, p. 28).55 Cfr. D. Isella, Note ai testi, in C. Dossi, Opere, cit., p. 1461. Su Giu-seppe Rovani storico della Grecia moderna vd. ora L. Gallarini, «Otto/Novecento», XXXV, 1, gennaio-aprile 2011, pp. 25-53.

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da ogni parte gravi difficoltà, insuperàbili anzi a chi non voleva dissimulàrsele. E, davvero, qualunque oggetto di quella ammuf-fita congerie, stentatamente raccolta, mancava di qualche pezzo [...]. Né a persuadermi al delitto, giovàvano i clamorosi successi ottenuti da altri recenti colpèvoli, che, sulle scèniche tàvole o nel-le pàgine letterarie, avèvano, al dire de’ loro turiferari, risuscitato l’antico mondo. Quel mondo, per risuscitato che fosse, puzzava orribilmente di morto.56

Donde la decisione di rinunciare «agli scenari di architettura romana», con il contemporaneo sforzo di eliminare quanto del primitivo progetto era transitato nello stile e nel lessico dell’opera: «un allappante pulviscolo, un sapor ràncido di la-tinismi», frutto – si noti – non «dello scolàstico beverone vir-giliano e oraziano», ma «derivati da Claudiano e dagli altri ba-rocchi del classicismo»,57 gli autori della décadence antica cari al Jean Des Esseintes di À rebours, prossimo a apparire (1884). Anche il Màrgine alla «Desinenza in A» è ricco di richiami alla classicità, né manca financo di citazioni greche. Dossi vi affronta i suoi avversari, «i postillatori scontenti» della pri-ma edizione del romanzo, dividendoli in tre schiere, disposte come gli hastati, principes e triarii della legione romana. I tria-rii sono l’ultima fila, quella dei critici più preparati ed esperti:

E, ora ¡avanti i signori triari ! stavo per dire “trepiedi”. Sono la schiuma… ¡pardon! la panna dei critici. Hanno, pressoché tutti, fatto studi profondi – di che non si sà – fuori d’Italia, là nei paesi in cui le vocali cedono alle consonanti e l’uva al lùppolo; le loro sentenze le sputan dall’alto delle càttedre o di que’ mucchi di resi-dui cibari che hanno nome «riviste o rassegne» mensili o quindi-

56 C. Dossi, Opere, cit., p. 528.57 C. Dossi, Opere, cit., p. 529. In appendice a C. Dossi, Il Regno dei Cieli. La Colonia felice, prefazione di Guido Davico Bonino, a cura di Tommaso Pomilio, Napoli, Guida, 1985, pp. 129-36 è raccolta un’utile scelta dai pensieri delle Note azzurre «che testimoniano la passione e la pratica dossiana dell’archeologia».

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cinali; non abbassàndosi che raramente a ragionare spropòsiti ne’ fogli quotidiani.58

Si tratta dunque della critica accademica, la più agguerrita e attenta («costoro non pèrdonsi nelle scaramucce delle parole né si formalizzano di qualche frase che mostri il rosato ginoc-chio più delle altre. Unica loro preoccupazione è lo stile, sono gli intenti dell’autore»). Particolarmente interessante è l’im-magine usata da Dossi per indicare l’appartenenza di quest’ul-tima schiera di critici al mondo universitario: «Hanno, pres-soché tutti, fatto studi profondi – di che non si sà – fuori d’Italia, là nei paesi in cui le vocali cedono alle consonanti e l’uva al lùppolo». Si tratta cioè di studiosi specializzatisi in gioventù nei Paesi del Nord Europa, normalmente in Germa-nia.59 L’ironica e irridente parafrasi usata da Dossi si riferisce a una realtà importante per la storia universitaria e culturale nei primi decenni dell’Italia unita: l’impulso dato ai migliori laureati dalle università del nuovo Regno perché con borse di studio del Governo italiano completassero la loro formazione in Germania, il Paese con il più avanzato sistema universitario e scientifico d’Europa. Fu un fenomeno riguardante tutte le discipline, dalle scienze esatte a quelle naturali, agli studi sto-rici e filologici, antichi e moderni, e va visto nell’àmbito dello sforzo di adeguare al ‘modello tedesco’ il sistema universitario italiano dopo l’Unità (e specialmente dopo il 1870).60 Pur tra

58 Dossi, Opere, cit., pp. 675-76.59 L’interpretazione, già chiara per il contesto, è confermata da NA 2430 («Nei paesi dove le vocali cedono alle consonanti… (per indicar il Nord)»).60 Per un inquadramento del tema vd. S. Polenghi, La politica universi-taria italiana nell’età della Destra storica 1848-1876, Brescia, La Scuola, 1993, spec. pp. 140-61 (L’università italiana e l’Europa: il modello tedesco); A. La Penna, Modello tedesco e modello francese nel dibattito sull’università italiana, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di Simonetta Soldani e Gabriele Turi, I. La nascita dello Stato nazio-

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le difficoltà e i limiti della realtà italiana postunitaria, quei giovani una volta tornati in Italia costituiranno l’ossatura del rinnovamento della scienza italiana, e del suo aprirsi al nuovo secolo, anche e soprattutto nelle discipline dedicate allo stu-dio del mondo antico. Le vicende della tormentata carriera diplomatica offriranno un giorno a Carlo Dossi l’occasione di accostarsi direttamente, di persona, all’Altertumswissenschaft, la scienza dell’antichità ‘tedesca’ alla base della rifondazione postunitaria degli studi italiani di antichistica, in campo fi-lologico storico e archeologico. Accadrà durante il soggiorno ateniese, tra 1895 e 1896. Presso l’Archivio Pisani Dossi nella villa del Dosso,61 sono conservate molte carte risalenti a quel periodo. Tra esse numerosi inviti al Ministro italiano, e alla sua sposa, per assistere alle frequenti conferenze dei più bei nomi dell’archeologia del tempo, organizzate presso gli Istitu-ti archeologici britannico, francese e tedesco di Atene, lezioni alle quali non si può dubitare che Dossi abbia partecipato con interesse e passione. Sono gli anni che ad opera soprattutto di tedeschi e francesi conoscono «la più feconda stagione di scavi e di ricerche che si sia mai avuta nell’archeologia greca», dalla Grecia continentale sino alla costa egea dell’Anatolia, mentre si opera «per colmare il divario tra antichistica accademica e archeologia d’assalto alla Schliemann», come ha osservato di recente Luigi Lehnus in alcuni lavori su Wilhelm Dörpfeld, già collaboratore di Schliemann e primo segretario dell’Im-periale Istituto Archeologico Germanico di Atene dal 1887 al 1912.62 I cartoncini di invito a Alberto Pisani Dossi sono

nale, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 171-212.61 Per la cui consultazione ringrazio l’aiuto di Gianni Antonini e la dispo-nibilità di Niccolò Reverdini.62 Si vedano in particolare i saggi Dalle Memorie di Otto Kern, ovvero «Peloponnesreise 1890» e Nel Peloponneso con Wilhelm Dörpfeld, ora in L. Lehnus, Incontri con la filologia del passato, Bari, Dedalo, 2012.

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appunto firmati da Dörpfeld, con il quale è bello immaginare che l’ambasciatore italiano possa aver parlato di Schliemann, improvvisamente morto a Napoli pochi anni prima, il 26 di-cembre 1890.

La figura di Heinrich Schliemann aveva potentemente colpito i contemporanei, e riempito di sé l’immaginario eu-ropeo dell’ultimo venticinquennio dell’Ottocento, per le sue straordinarie scoperte ma anche per la famosa autobiografia, dove si narra del piccolo Heinrich che a otto anni promette al padre che un giorno avrebbe ritrovato la scomparsa Troia, così dimostrando che Omero «aveva ragione».63 Negli stessi anni di fine secolo in cui Dossi conobbe Dörpfeld, lesse l’au-tobiografia di Schliemann il poco più che quarantenne dot-tor Sigmund Freud, a Vienna, rimanendone fortemente e durevolmente impressionato, come risulta tra l’altro da una sua lettera del 28 maggio 1899: «Ho acquistato Ilios di Schlie-mann, e mi ha assai interessato il racconto della sua infanzia. Lui ha trovato la felicità con il tesoro di Priamo, poiché la felicità deriva solamente dalla realizzazione di un desiderio infantile».64 La riflessione sull’infanzia quale momento deci-

63 La Autobiographie des Verfassers und Geschichte seiner Arbeiten in Troia apparve per la prima volta in H. Schliemann, Ilios. Stadt und Land der Trojaner, Leipzig, Brockaus, 1881, pp. 1-78: a p. 4 è il famoso colloquio con il padre («“Vater”, sagte ich darauf, “wenn solche Mauern einmal dagewesen sind, so können sie nicht ganz vernichtet sein, sondern sind wol unter dem Staub und Schutt von Jahrhunderten verborgen”. Nun behauptete er wol das Gegentheil, aber ich blieb fest bei meiner Ansicht, und endlich kamen wir überein, dass ich dereinst Troja ausgraben sollte» (molte volte tradotto in italiano, ad es. in H. Schliemann, Alla scoperta di Troia. La rivelazione archeologica del mondo omerico, Roma, Newton Compton, 1995). Lascio qui da parte le contestazioni da più parti rivolte negli ultimi quarant’anni, a partire dagli studi di W.M. Calder III, all’at-tendibilità degli episodi della sua infanzia e giovinezza narrati da Schlie-mann.64 Lo ricorda S. Cassirer Bernfeld nell’importante articolo del 1951

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sivo dell’esistenza ci riporta a Dossi uomo e scrittore: all’im-magine dell’Altrieri come «titolo emblematico [...] sotto cui si lasciano riunire molte delle pagine migliori del Dossi»,65 e alla percezione del misterioso legame tra infanzia e fascinazione dell’Antico che non poche di quelle sue pagine suggeriscono.

Freud and Archaeology, in traduzione italiana in S. Bernfeld – S. Cassi-rer Bernfeld, Per una biografia di Freud. Saggi, a cura di Ilse Grubrich-Simitis, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 185-203 (in particolare p. 189): già però nella Vorrede di Rudolf Virchow a Ilios si diceva «Und darum dreimal glücklich der Mann, dem es beschieden war, als gereif-ter Mann den Traum seiner Kindheit zu verwirklichen und die verbrannte Stadt zu entschleiern!» (p. XVIII, corsivo mio). Se notissima è l’importan-za che ebbe per Freud la riflessione sulla mitologia greca, generalmente poco nota è la passione che egli ebbe per l’archeologia, sia come colle-zionista sia nella visione della psicanalisi come ‘archeologia della psiche’: assai ricco in proposito il catalogo Freud de sfinx van Wenen. De archeolo-gische collectie van Sigmund Freud, Amsterdam, Boom, 1994. Sul rapporto di Freud con l’antichità classica torna il capitolo Moses on the Acropolis: Sigmund Freud, nel recentissimo M. Leonard, Socrates and the Jews. Hel-lenism and Hebraism from Moses Mendelssohn to Sigmund Freud, Chicago and London, University of Chicago Press, 2012, pp. 177-216 (cui pe-raltro avrebbe giovato la conoscenza dei saggi raccolti in S. Timpanaro, La «fobìa romana» e altri scritti su Freud e Meringer, a cura di Alessandro Pagnini, Pisa, ETS, 2006).65 D. Isella, Introduzione, cit., p. XXXI; sull’autodiagnosi vagheggiata e tentata da Dossi, a fronte del metodo psicoanalitico di lì a pochi lustri svi-luppato da Freud, vd. le osservazioni di L. Barile, Postfazione, cit., p. 42.

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Atene: Alberto Pisani Dossi sull’Acropoli.