16.04.2012 Anatomia patologica Prof. Marzullo Andrea SBOBINATA DA: Giuliano Mersini CORRETTA DA: Francesco Spione PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI L'aterosclerosi Prima di parlare dell'aterosclerosi bisogna richiamare velocemente alla memoria quella che è l'anatomia dei vasi sanguigni; la parete della arterie è costituita fondamentalmente da tre strati o tonache: • tonaca intima : in essa troviamo l'endotelio (una componente fondamentale implicata in tutti i processi fisiologici e patologici che coinvolgono la parete vascolare) e il connettivo sottoendoteliale; • tonaca media o muscolare : è costituita da cellule muscolari lisce ed è separata dalla tonaca intima da una lamina elastica detta lamina elastica interna , che, essendo completa e senza soluzioni di continuità, separa nettamente le due tonache; la costituzione della tonaca media varia a seconda del calibro vascolare: le arterie di grosso calibro sono dette arterie elastiche perché nella loro tonaca media la componente di fibre elastiche supera quella di fibrocellule muscolari, mentre le arterie di medio calibro sono dette arterie muscolari perché presentano una più ampia componente fibrocellulare; man mano che il calibro delle arterie diminuisce fino ad arrivare ai capillari, la tonaca media si assottiglia fino a perdere la sua identità di tonaca; • tonaca avventizia : è uno strato di connettivo separato dalla tonaca media tramite la lamina elastica esterna (più discontinua e incostante rispetto alla lamina elastica interna); la sua importanza sta nel fatto che accoglie i vasa vasorum e i nervina vasorum, strutture importanti, rispettivamente, per il trofismo e per l'innervazione dei vasi stessi, e tanto più rappresentate quanto maggiore è il calibro del vaso. Visto questo, possiamo ora parlare dell'aterosclerosi. Il termine più generico è quello di arteriosclerosi che, etimologicamente, vuol dire “indurimento delle arterie”. Nell'ambito dell'arteriosclerosi, poi, individuiamo almeno 3 forme: 1. Aterosclerosi : indurimento delle arterie attribuibile all'accumulo di lipidi costituenti un ateroma nell'intima delle arterie di grosso e medio calibro. 2. Arteriolosclerosi : sclerosi delle arterie di piccolo e medio calibro (a differenza della sclerosi 1
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16.04.2012
Anatomia patologica
Prof. Marzullo Andrea
SBOBINATA DA: Giuliano Mersini
CORRETTA DA: Francesco Spione
PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI
L'aterosclerosi
Prima di parlare dell'aterosclerosi bisogna richiamare velocemente alla memoria quella che è
l'anatomia dei vasi sanguigni; la parete della arterie è costituita fondamentalmente da tre strati o
tonache:
• tonaca intima : in essa troviamo l'endotelio (una componente fondamentale implicata in tutti
i processi fisiologici e patologici che coinvolgono la parete vascolare) e il connettivo
sottoendoteliale;
• tonaca media o muscolare : è costituita da cellule muscolari lisce ed è separata dalla tonaca
intima da una lamina elastica detta lamina elastica interna, che, essendo completa e senza
soluzioni di continuità, separa nettamente le due tonache; la costituzione della tonaca media
varia a seconda del calibro vascolare: le arterie di grosso calibro sono dette arterie elastiche
perché nella loro tonaca media la componente di fibre elastiche supera quella di fibrocellule
muscolari, mentre le arterie di medio calibro sono dette arterie muscolari perché presentano
una più ampia componente fibrocellulare; man mano che il calibro delle arterie diminuisce
fino ad arrivare ai capillari, la tonaca media si assottiglia fino a perdere la sua identità di
tonaca;
• tonaca avventizia : è uno strato di connettivo separato dalla tonaca media tramite la lamina
elastica esterna (più discontinua e incostante rispetto alla lamina elastica interna); la sua
importanza sta nel fatto che accoglie i vasa vasorum e i nervina vasorum, strutture
importanti, rispettivamente, per il trofismo e per l'innervazione dei vasi stessi, e tanto più
rappresentate quanto maggiore è il calibro del vaso.
Visto questo, possiamo ora parlare dell'aterosclerosi.
Il termine più generico è quello di arteriosclerosi che, etimologicamente, vuol dire
“indurimento delle arterie”. Nell'ambito dell'arteriosclerosi, poi, individuiamo almeno 3 forme:
1. Aterosclerosi : indurimento delle arterie attribuibile all'accumulo di lipidi costituenti un
ateroma nell'intima delle arterie di grosso e medio calibro.
2. Arteriolosclerosi : sclerosi delle arterie di piccolo e medio calibro (a differenza della sclerosi
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da ateroma, lesione che si sviluppa principalmente nelle arterie di grosso e medio calibro).
3. Sclerosi calcifica di Monckeberg : di questa non parleremo.
Fattori di rischio
Si possono distinguere due tipologie di fattori:
• Non modificabili o costitutivi :
1. Età: non è vero che l'aterosclerosi sia una malattia dell'età senile, anzi: le lesioni ateromatose
compaiono molto precocemente nella vita di un individuo e hanno una progressione
variabile a seconda dei fattori di rischio che ad esse si associano.
1. Sesso.
2. Familiarità.
• Modificabili o controllabili:
1. Dieta e ipercolesterolemia.
2. Disordini metabolici.
3. Fumo.
4. Ipertensione.
5. Alterazioni del flusso sanguigno (da laminare a turbolento).
La placca ateromatosa si forma prevalentemente in determinate aree:
-aorta (in tutto il suo decorso ma particolarmente nel tratto addominale);
-coronarie (un loro interessamento è alla base delle patologie ischemiche cardiache);
-carotidi extracraniche;
-arterie degli arti inferiori (in particolare le biforcazioni delle iliache, con l'iliaca esterna e quella
interna, e le arterie ipogastriche inferiori).
Guarda caso sono proprio le aree che subiscono un maggiore stress meccanico a presentare una più
elevata insorgenza di lesioni: le forze meccaniche di tensione a carico della parete sono talmente
accentuate da favorire la formazione di placche in sede locale. Quindi quando cercheremo delle
lesioni aterosclerotiche correlate a determinate patologie, andremo ad indagare soprattutto nei
suddetti distretti corporei.
Patogenesi dell'aterosclerosi
L'aterosclerosi costituisce una patologia perché l'accumulo del materiale lipidico
nell'intima vasale determina una riduzione del lume del vaso e, conseguentemente, una riduzione
del flusso vascolare. Certo, soprattutto nei vasi di grosso calibro come l'aorta, la formazione di una
placca riduce il flusso solo relativamente; in questo caso sono altre le complicanze legate alla
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formazione di una placca:
• la placca modifica le proprietà anticoagulanti dell'endotelio, provocando la comparsa di una
trombosi che si sovrappone alla placca e può determinare una riduzione critica del lume
vasale;
• complicanze ateroemboliche: nel processo di crescita del materiale ateromatoso si possono
distaccare, per fatti occasionali traumatici o infettivi, dei piccoli frammenti di materiale
trombotico che può dar luogo ad eventi embolici nei distretti tissutali più a valle;
• complicanze locali della placca: un'emorragia, ad esempio, nel contesto della placca può
causarne la dilatazione improvvisa con occlusione acuta del lume vasale.
In genere, l'aterosclerosi vive con noi; possono però
intervenire nell'evoluzione della placca una serie di complicanze
che determinano riduzione del flusso in particolari distretti.
Nella figura in sezione trasversa si può osservare come già nella
prima e seconda decade cominci ad accumularsi nel contesto del
vaso del materiale che determina una minima riduzione del
lume; i8n seconda e terza decade si formano le prime placche
fibrose, degli ispessimenti non particolarmente rilevanti ma che
a lungo andare riducono progressivamente il lume vasale. Se nelle prime due decadi la distribuzione
delle placche è concentrica e omogenea lungo tutta la parete, col passare dell'età le placche si
dispongono eccentricamente nel lume. Tra terza e quarta decade c'è una placca molto più rilevata
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con significativa riduzione del lume; a seconda del tessuto in cui ci troviamo possiamo avere esiti
diversi: se la placca impegna una coronaria si può avere infarto miocardico (che inizia
caratteristicamente appunto nella 4° e 5° decade di vita), se coinvolge le carotidi l'esito può essere
un infarto encefalico (compare più tardivamente a causa dell'anatomia delle carotidi), se interessa i
vasi degli arti può dare lesioni ischemiche delle estremità (tipiche di soggetti con disordini
metabolico-ormonali come il diabete), se collocata in aorta può provocare patologie aneurismatiche
(caratteristiche anche se non esclusive dell'età adulta avanzata).
La storia dell'aterosclerosi si avvale di una terminologia generale che indica vari tipi di
lesioni:
1. Le placche intimali di tipo gelatinoso si ritrovano solo in età estremamente precoce, ma il
loro significato è dibattuto: non è detto che siano lesioni aterosclerotiche vere e proprie
anche perché impegnano regioni dell'albero vascolare che normalmente non sono coinvolte
nell'aterosclerosi avanzata; sembrerebbero perciò più un fenomeno di rimaneggiamento
della parete vasale.
2. Le strie lipidiche sono la prima lesione che ci fa pensare effettivamente ad una placca
aterosclerotica: sono delle strie, piccoli rilievi quasi impercettibili, giallastri, che sono
espressione dell'accumulo di lipidi, specialmente colesterolo ed esteri del colesterolo,
all'interno delle cellule muscolari lisce; sono, perciò, accumuli intracellulari generalmente
reversibili: in questo tipo di placche si osserva un fenomeno dinamico, con cellule che
accumulano lipidi e cellule che li perdono o li degradano. Le cellule ricolme di materiale
lipidico vengono dette “foam cells”.
3. Edema gelatinoso : lo nominiamo ma lo tralasciamo.
Il concetto essenziale che bisogna ricordarsi è che finché il materiale lipidico è contenuto
all'interno della cellula non costituisce un dato molto significativo perché le cellule sono comunque
in grado di metabolizzarlo; il problema insorge quando l'accumulo intracellulare determina la morte
cellulare per danno diretto o per apoptosi, inducendo il rilascio degli esteri del colesterolo
all'esterno, nell'interstizio della placca: essendo i lipidi particolarmente irritanti dal punto di vista
metabolico, una volta fuoriusciti evocano una serie di risposte endoteliali tra cui una reazione
fibrogenica con la formazione del cappuccio fibroso, una sorta di guaina che ha il senso di inglobare
e circoscrivere il materiale lipidico fuoriuscito. Di conseguenza la
4. placca aterosclerotica vera e propria sarà così costituita: un core lipidico circondato da
un cappuccio fibroso; la formazione del cappuccio non significa che il fenomeno si
fermi a questo punto: l'accumulo stesso di lipidi richiama cellule infiammatorie in loco,
quali monociti-macrofagi e istiociti, che determinano fenomeni di necrocsi, di
rimaneggiamento della placca.
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Del resto, l'ipotesi che l'aterosclerosi sia una patologia degenerativo-infiammatoria è ormai
da tempo consolidata: nei pazienti con aterosclerosi importante si è osservato un aumento della PCR
e ciò ha portato alla formulazione di una “teoria infettiva”, che correla la formazione di placche ad
eventi infettivi importanti. Le cellule infiammatorie richiamate nel tentativo di degradare i lipidi
rilasciano una serie di enzimi che, essendo però aspecifici, degradano assieme ai lipidi anche le
componenti della parete endoteliale e della placca stessa, erodendola dall'interno. Oltre a ciò
bisogna considerare che l'ispessimento della parete vascolare determina ipossia delle cellule della
parete con rilascio di fattori angiogenici in seguito all'attivazione dell'HIF: i fattori angiogenici
stimolano la formazione di nuovi vasi, piccoli e dalla parete sottile, che dovrebbero supplire alle
richieste di ossigeno della parete vasale(il processo prende il nome di ricanalizzazione della placca):
nei fatti, però, il tentativo di vascolarizzazione si può definire abortivo perché la parete dei neovasi,
in quanto sottile, va facilmente incontro a rotture; di conseguenza non solo non è permessa
un'opportuna ossigenazione dei tessuti ma il sangue che viene così rilasciato nel core della placca
contribuisce, assieme ai lipidi extracellulari e all'eventuale materiale necrotico già ivi presenti,
all'ingrossamento della placca stessa e quindi all'occlusione del vaso in cui la placca si è formata.
La progressiva erosione del vaso, di cui si è parlato prima, causa inoltre alterazioni a carico
dell'endotelio, con il conseguente suo distacco e la formazione di fenomeni trombotici che possono
occludere il vaso localmente o distaccarsi come emboli e occludere vasi disposti più a valle.
Per riassumere, la placca aterosclerotica è quindi una lesione focale; in una placca “classica”, cioè
ben definita o matura, che dir si voglia, è possibile riconoscere tre componenti fondamentali:
1. il core, l'area centrale contenente lipidi, colesterolo e suoi esteri, aree necrotiche;
2. il cappuccio fibroso, costituito da fibre collagene e rare fibre elastiche;
3. un'area più periferica molto eterogenea.
Qual'è la patogenesi dell'indurimento arterioso? La formazione focale di una placca
aterosclerotica determina un decubito, cioè un accumulo di materiale poggiante sulla parete
vascolare: ciò causa un rimaneggiamento della parete stessa, in particolare della tonaca media, le
cui fibrocellule muscolari vanno incontro ad atrofia progressiva, fino ad essere in parte o del tutto
sostituite con tessuto fibroso; la perdita della componente muscolare liscia determina una riduzione
della tonicità ed elasticità vascolari, quindi un indurimento della parete, come il termine stesso
etimologicamente suggerisce (questo fenomeno, associato alle variazioni in senso turbolento del
flusso ematico, può portare a sfiancamento della parete vascolare e ad aneurismi); ecco spiegato
come mai, benché la lesione sia localizzata nella tonaca intima, l'indurimento riguardi la parete in
toto.
Vista la generalità dell'aterosclerosi, ora vediamo alcune situazioni specifiche in cui
intervengono le lesioni ateromatiche.
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L'aterosclerosi coronarica
È responsabile delle cardiopatie ischemiche e può essere sia monodistrettuale, ovvero
interessare solo una delle diramazioni coronariche, oppure pluridistrettuale, e interessare due o più
diramazioni.
Generalmente può interessare uno qualsiasi dei rami: la coronaria destra, coi suoi rami
marginale destro e interventricolare posteriore, o la sinistra, con i suoi due rami circonflesso e
interventricolare o discendente anteriore. Poiché le coronarie rappresentano dei vasi di medio
calibro (nei loro rami più grossi le coronarie raggiungono un diametro di appena 5 mm) una placca
determina notevole riduzione del lume e del flusso. Vari sono i meccanismi di riduzione del lume
vascolare :
− per ulcerazione o trombizzazione della placca;
− per disseccamento e rottura della placca;
− per emorragia intramurale ed espansione della placca;
− per aneurismi
− per spasmo indotto da sollecitazioni di natura irritativa da parte della placca sulle
fibrocellule muscolari lisce della tonaca media, laddove conservata.
Prima di parlare diffusamente dell'aterosclerosi coronarica bisogna focalizzare l'attenzione sulla
arteriolosclerosi: essa fa parte delle patologie aterosclerotiche (come tale è, quindi, una patologia
degenerativa della parete vascolare) e consiste in un indurimento della parete delle arterie di piccolo
calibro. È correlata prevalentemente con l'ipertensione e ve ne sono diverse forme: la più comune è
l'arteriolosclerosi cosiddetta ialina, caratterizzata da accumulo nell'intima e nella media di materiale
omogeneo, eosinofilo (si colora in rosso con la colorazione ematossilina-eosina). È localizzata
soprattutto in quegli organi che soffrono maggiormente l'ipertensione, quali il rene: le arteriole
afferenti glomerulari e le arterie arciformi sono particolarmente colpite da fenomeni di
ialinizzazione. È un processo benigno, nel senso che progredisce lentamente e dà segno di sé solo in
una fase avanzata: nei soggetti predisposti, come gli anziani, può dar luogo ad una insufficienza
renale cronica. Nei soggetti diabetici le alterazioni arteriolosclerotiche sono più precoci e danno un
quadro noto come microangiopatia diabetica, che, sebbene coinvolga in particolare il rene, in realtà
interessa vari organi ed è alla base dei fatti ischemici alle estremità, con conseguenti ulcerazioni.
Al contrario dell'aterosclerosi, nel caso dell'arteriolosclerosi il coinvolgimento di vasi di
piccolo calibro rende più difficoltoso l'intervento terapeutico e più difficile un compenso
emodinamico: quando sono ostruite le grosse arterie è più frequente che si realizzino circoli
anastomotici vicarianti, mentre se l'ostruzione riguarda il microcircolo le anastomosi si instaurano
più difficilmente.
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Esistono altre due forme di arteriolosclerosi, meno frequenti:
− l'arteriolosclerosi iperplastica, in cui c'è iperplasia concentrica “a bulbo di cipolla” delle
fibrocellule muscolari della tonaca media;
− l'arteriolosclerosi necrotizzante, in cui, nel contesto di una parete in cui vi è già un quadro di
arteriolosclerosi ialina, si formano delle aree di necrosi fibrinoide; quando si osserva in una
arteriolosclerosi ialina renale è indice di una rapida progressione del danno renale con
un'accelerazione verso l'insufficienza renale (il quadro associato di arteriolosclerosi ialina e
arteriolosclerosi necrotizzante prende il nome di nefroangiosclerosi maligna).
Cardiopatie ischemiche
Con il termine di cardiopatie ischemiche intendiamo le malattie ischemiche del miocardio,
cioè tutte quelle malattie dovute a riduzione o arresto completo del flusso arterioso a livello del
miocardio. La situazione clinica più comune legata a queste patologie è l'angina pectoris (dolore di
petto), ma non ne parleremo perché non ha un correlativo anatomo-patologico (anche perché
nessuno muore di angina pectoris). Poi c'è l'infarto miocardico: la distinzione con l'angina è dovuta
al fatto che nell'infarto la riduzione del flusso ha avuto un'entità tale o una durata tale da causare un
danno necrotico a i tessuti.
Nella cardiopatia ischemica cronica invece c'è una riduzione del flusso non acuta ma cronica, tale
da non determinare la morte dei tessuti ma da stimolarne un rimaneggiamento in senso
degenerativo, per cui il miocardio si adatta ad una condizione ipossica cronica: riduce il proprio
metabolismo, riduce le proprie fibre con fenomeni di atrofia e, infine, può comunque andare
incontro a fenomeni fibrotici o sviluppare piccole aree disseminate di necrosi infartuale; si può
giungere ad una condizione di cardiopatia ischemica cronica in seguito a una situazione di ipossia
cronica o per accumulo di più infarti, che riducono l'area di miocardio funzionale, ma nessuno dei
quali ha determinato l'exitus.
L'ultimo evento associato a cardiopatia ischemica coronarica è la morte improvvisa coronarica: in
questo caso l'occlusione coronarica è seguita dalla generazione di una aritmia che impedisce il
regolare ciclo cardiaco e provoca morte subitanea: il cuore dell'individuo all'esame autoptico non
presenta segni macroscopici di infarto perché semplicemente non hanno avuto il tempo di
manifestarsi. La cardiopatia ischemica coronarica rientra nel capitolo delle morti improvvise
cardiache (come quelle dovute a cardiomiopatia ipertrofica), le quali rientrano nel capitolo delle
morti improvvise, cioè non preventivate, per cause non cardiache (ad esempio, la rottura di un
aneurisma aortico).
Infarto del miocardio
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È la prima causa di morte nei paesi sviluppati dell'Occidente; ha una maggiore incidenza nel
maschio già nella quinta, sesta decade, mentre nelle donne l'incidenza maggiore si ha dai 70 anni, in
virtù della protezione dagli eventi ischemici del miocardio offerta alle donne dagli estrogeni
prodotti durante la vita fertile (addirittura si parla di due organi diversi: un cuore maschile e uno
femminile). I fattori di rischio sono gli stessi dell'aterosclerosi, con particolare importanza al fumo
di sigaretta, alla dieta lipidica ipercolesterolemica, all'ipertensione arteriosa e anche alla familiarità.
L'associazione di tutti questi fattori determina una maggiore precocità degli eventi infartuali.
L'infarto è dovuto ad una discrepanza tra il fabbisogno di ossigeno del miocardio e l'afflusso
di ossigeno. La coronarosclerosi è responsabile del più dell'80% degli eventi di infarto, il che vuol
dire che è la causa più frequente ma non l'unica; altre possibili cause sono:
-l'embolia coronarica, ovvero la possibilità che un embolo che si è formato all'interno del cuore, per
esempio nel caso di una endocardite valvolare, possa imboccare la via delle coronarie;
-l'ipoperfusione da ipotensione generalizzata;
-arteriti: i vasi coronarici, in particolare quello del nodo atrioventricolare, possono essere, anche se
raramente, sede di panarteriti nodose;
-vasospasmo: di quest'ultimo non è possibile individuare un correlato anatomico, a differenza delle
altre cause di infarto miocardico, che lasciano un segno anatomicamente rilevabile (placca, embolo,
tessuto infiammato). Il vasospasmo deve essere persistente e prolungato per poter dare la morte per
infarto.
Un infarto può essere differenziato in:
• transmurale: quando coinvolge tutto lo spessore della parete cardiaca risparmiando nel
migliore dei casi una sottile rima di tessuto endocardico, che riceve ossigeno per diffusione
diretta dal sangue contenuto nelle cavità cardiache, e una sottile rima epicardica, che riceve
sangue da rami coronarici superficiali pervi; generalmente è voluminoso e si estende per 2-
3,5 cm2 ; di solito coincide con la distribuzione coronarica;
• subendocardico: colpisce la metà o il terzo interno della parete perlopiù in maniera
circonferenziale; spesso è molto esteso e non ripete la distribuzione coronarica. Solitamente
la sede più colpita è il ventricolo sinistro.
Si tratta di due infarti completamente diversi: quello transmurale è da attribuire all'occlusione di un
grosso ramo epicardico o di una sua ramificazione minore; quanto più prossimale è l'occlusione
tanto più ampia è l'area colpita, che coincide con l'area di distribuzione della coronaria. Questo è un
infarto per occlusione, ma vi possono anche essere infarti in cui l'ischemia non è dovuta ad
occlusione di un ramo coronarico (infarti non dovuti ad occlusione) bensì ad una forma diffusa di
aterosclerosi coronarica: in condizioni fisiologiche, quando si passa da un battito a livelli basali a
uno accelerato per aumentata richiesta di ossigeno, la elasticità e tonicità dei capillari permette una
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risposta adattativa più rapida ed efficace; quando però tutti i capillari sono interessati da
aterosclerosi, questa funzione viene meno e un deficit, che a riposo passa inosservato, può tradursi,
sotto sforzo, in una discrepanza tra fabbisogno del miocardio e rifornimento di ossigeno (ischemia
relativa) che porta ad un infarto subendocardico estremamente diffuso.
Dal punto di vista terapeutico questa distinzione ha una elevata importanza: nel primo caso si può
agire con terapia trombolitica localizzata, nel secondo l'unica soluzione è il bypass autocoronarico.
In linea generale ormai, almeno dal punto di vista autoptico, la forma di infarto più frequente è
quello non dovuto ad occlusione, perché l'altro tipo ha più chances di essere risolto.
Nell'infarto c'è una sorta di “cronologia”: il danno si distribuisce, secondo un'onda
ischemica a partire dall'endocardio per poi risalire nello spessore della parete; è quindi importante
circoscrivere l'evento ischemico, agendo per tempo in maniera da evitare la diffusione dell'onda
ischemica.
Modelli di circolo coronario
Il tipo di infarto dipende
molto dal tipo di distribuzione
anatomica coronarica; a questo
proposito distinguiamo tre
modelli di distribuzione del
circolo coronarico:
• dominanza dx (nel 60%
della popolazione):
l'arteria interventricolare
posteriore origina dalla
coronaria di destra; una
occlusione di questa
arteria determina un
infarto esteso alla parete
posteriore del ventricolo
sx, al setto
interventricolare, a parte
della parete posteriore
del ventricolo dx;
• dominanza sx (nel 25%
della popolazione):
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l'arteria interventricolare posteriore origina dalla coronaria di sinistra, perciò un'occlusione
della coronaria destra provoca infarto essenzialmente in una piccola porzione del setto
interventricolare e della parete posteriore del ventricolo destro)
o Ci arrivano dall’ambiente che contiene particelle di polveri, o particelle batteriche o
virali.
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o ci si contagia a vicenda (goccioline di flugge) e gli agenti patogeni inalati raggiungono le
vie respiratorie.
o Ci può essere anche un’aspirazione dell’agente patogeno:per esempio il focolaio
infettivo è a livello dell’apparato buccale o delle tonsille o a livello della porzione superiore del
faringe.
o Oppure i patogeni possono raggiungere l’apparato polmonare per via ematica. ci può
essere una batteriemia o una viremia con raggiungimento del patogeno a livello polmonare
attraverso il sangue come accade per esempio in corso di malattie virali: per es i neonati
sviluppano processi infettivi bronco-polmonari, soprattutto polmoniti virali, in corso di morbillo,
pertosse, varicella.
o Oppure il polmone può essere coinvolto per continuità o contiguità: il focolaio flogistico
è presente in una sede vicina al polmone come per es una pleurite che si estende al polmone; una
mediastinite; una perdicardite; un processo tubercolare che coinvolge il linfonodo mediastinico
(o peribronchiale o periesofageo )e da qui si espande a livello polmonare;un processo flogistico
trans murale dell’esofago. quindi ci possono essere una serie di processi infiammatori di organi
vicini che per continuità o contiguità possono trasmettersi al polmone.
NB: la via di diffusione più importante è la via inalatoria.!!!
Ritornando alla classificazione:
Abbiamo visto che da un punto di vista topografico questi processi flogistici possono essere ad
insorgenza broncopolmonare o polmonare ab initio.
Se facciamo riferimento topograficamente alle polmoniti in senso stretto ,in base
all’inizio di sviluppo del processo infiammatorio, le polmoniti possono essere
endo-alveolari
interstiziali.
Secondo il criterio eziologico si distinguono
polmoniti infettive
polmoniti non-infettive.
POLMONITI INFETTIVE che sono quelle più frequenti abbiamo:
- le polmoniti batteriche,
-le polmoniti virali,
-le polmoniti da micobatteri (micobatteri tipici quale quello della tubercolosi e micobatteri
atipici), --polmoniti protozoariche.
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Un conto è avere una polmonite batterica, un conto è avere una polmonite micotica; contro i
miceti dobbiamo fare terapia antimicotica che è diversa dalla comune terapia antibiotica.
Nelle forme virali abbiamo poco a disposizione. O si fanno degli antivirali (se il soggetto è
immuno- depresso) o terapia antibiotica per scongiurare sovra infezione batterica.Per le inf
protozoarie si utilizzano altri farmaci specifici. quindi in base all’eziologia noi avremo un
trattamento specifico.
In base all’eziologia noi possiamo risalire alla topografia :
-le forme di polmoniti batteriche sono anche topograficamente polmoniti essudative- alveolari.
un batterio quando si localizza nel parenchima polmonare(sia che si localizzi ab initio nel
parenchima polmonare sia che scenda dal bronco)la flogosi che ne consegue è di tipo purulento;
le polmoniti di origine batterica sono sempre endoalveolari.
-Quando invece la causa è un virus, questo raggiunge l’albero respiratorio e induce un danno a
livello endoalveolare ma NON darà mai delle reazioni flogistiche purulente !l’infezione virale
darà delle reazioni infiammatorie linfocitarie linfoplasmacellulari ; quindi le polmoniti virali,
topograficamente, non saranno mai essudative endoalveolari ma saranno a sviluppo interstiziale
anche se il danno virale è partito dai pneumociti! La reazione flogistica noi la cogliamo
nell’interstizio polmonare.( vedremo che le polmoniti interstiziali sono soprattutto virali)
I soggetti più colpiti da polmoniti interstiziali sono neonati e anziani. (Nel neonato l’interstizio
polmonare non è ancora fibroso, non è ancora un sottile strato connettivale, gli alveoli non sono
ancora espansi come l’adulto. Solo con la crescita si assottiglia lo strato di connettivo
interstiziale e aumenta il rapporto diretto dell’alveolo con il capillare vascolare.)
Quindi quando il bambino contrae il morbillo, la varicella o altre malattie esantematiche si teme
lo sviluppo di flogosi interstiziali e quindi è opportuno saper effettuare correttamente
l’auscultazione del torace dei bambini; è vero che le infezioni virali di risolvono in 4 5 giorni ma
si possono complicare per infezioni batteriche a causa della stasi in questi dei bambini allettati
che comporta una complicanza batterica molto frequente. quindi vi è la necessità ,dopo due
giorni ,di somministrare la terapia antibiotica per evitare complicanze che potrebbero peggiorare
lo stress respiratorio e che possono portare a morte
Riassumendo: in base all’eziologia questi processi infiammatori possono essere distinti in
infettivi e non infettivi ; a sua volta ,in base alla topografia, le forme batteriche polmonari sono
essudative ed endoalveolari e quelle virali sono interstiziali.
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Nell’ambito delle forme batteriche :
• i batteri possono essere gram-positivi. tra questi il Pneumococco che ,insieme allo
stafilococco, è l’agente patogeno più frequentemente responsabile di polmoniti essudative
endoalveolari batteriche).
• Seguono poi i gram-negativi; per es le Klebsielle, in molti individui, nell’espettorato o
nel sangue c’è la positività alle Klebsielle
• Nelle situazioni più severe ci sono i batteri anaerobi (la cui presenza è molto
preoccupante perché è difficile eradicare infezioni da microrganismi anaerobi proprio perché
crescono e proliferano in qualunque condizione tanto poi da portare allo sviluppo di gangrene
polmonari).
• Altri agenti patogeni sono funghi o batteri emergenti come Clamidia o Legionella che
hanno un ruolo importante nello sviluppo di processi infettivi polmonari data la promiscuità
delle popolazioni e soprattutto l’arrivo in certe nazioni di gente proveniente dai paesi più poveri
non controllata da un punto di vista sanitario.
Nell’ambito delle forme virali
• più comuni sono quelle da virus respiratori, sono le infezioni più comuni delle stagioni
soprattutto nelle stagioni invernali che si risolvono in 4-5 giorni. ma le polmoniti virali vanno
ricordate perché in certe fasce d’età, soprattutto nel neonato e nell’anziano, possono sovra
infettarsi(a causa della stasi o di turbe circolatorie)e complicarsi con infezioni batteriche e
portare anche all’exitus dell’individuo se non si interviene.
• In più ci sono poi delle forme virali ,da virus sistemici come Citomegalovirus o di
Epstein-Barr o virus di morbillo, varicella o il Corona virus( responsabile di quella forma
necrotizzante di polmonite che è la SARS )che colpiscono l’individuo immunodepresso e non
quello in buone condizioni con un sistema immunitario adeguato che non ha problemi di fronte
a questi agenti patogeni. Quando in questi pz immunodepressi( immun.depr.congenita;indotta da
farmaci antiblastici ,da HIV ecc..) c’è un’infezione da Citomegalovirus, da Epstein-Barr, da
Herpes Zoster ecc si tratta sempre di situazione terminali e quando queste infezioni subentrano
non si riesce mai con antivirali a tamponare la situazione tant’è che quando questi virus si
localizzano a livello cerebrale o polmonare in genere c’è sempre il decesso dell’individuo. Il
decesso avviene non per l’immunodepressione ma per infezioni ricorrenti che sono soprattutto
virali o da funghi(micotiche):es quelle sistemiche da Criptococchi ; questi sono terribili perché
si localizzano a livello cerebrale nella maggior parte dei casi e le criptococcosi nel sistema
nervoso cerebrale danno la formazione di focolai necrotici a forma di buchi : il cervello presenta
delle aree necrotiche(aspetto simile a formaggio con buchi) dove all’interno prolifera il
83
Criptococco.
Le Polmoniti infettive batteriche sono poi distinte in
• comunitarie
• nosocomiali.
Le polmoniti comunitarie:
Sono le più comuni e sono quelle che si contraggono per le abitudini sociali per il fatto che si
frequentano ambienti affollati. Parliamo di polmoniti comunitarie quando si tratta di individui
non ospedalizzati.
Le polmoniti nosocomiali :
riguardano tutti gli individui ospedalizzati presenti in un reparto di lungodegenza o in un
reparto per almeno due settimane perché si devono creare una serie di situazioni che
favoriscano l’infezione. Soprattutto in certi reparti(come
rianimazione,degenza,oncologia..)l’igiene è importante per evitare la diffusione di patogeni
nell’ambiente .Bisogna es evitare che i pz affeti circolino liberamente. Nei reparti i degenti sono
immuno compromessi, oppure sono pz in cui la stasi favorisce lo sviluppo dei batteri, oppure
sono cardiopatici e la cardiopatia favorisce la stasi e la compressione ecc: in ogni caso bisogna
prestare attenzione affinchè non ci sia la divulgazione dei batteri all’interno dei reparti.
Cambia il tipo di agente patogeno (dal p.d.v della incidenza) a seconda che si considerano le
forme comunitarie o nosocomiali .
-E’ chiaro che le polmoniti comunitarie abbiamo le stesse forme predisponenti e cioè colpiscono
individui che sono o anziani o neonati o immunodepressi o anche soggetti giovani. soggetti che
hanno fattori predisponenti o soggetti in pieno benessere.
Nelle polmoniti comunitarie fa da padrone come agente eziologico lo Pneumococco.
-Nelle polmoniti nosocomiali, oltre ai batteri emergenti, fanno da padroni la Klebsiella, lo
Pseudomonas ,Stafilococco, enterobatteri ecc.
ANDAMENTO CLINICO DELLE POLMONITI
Se facciamo riferimento all’andamento clinico della malattia, le polmoniti batteriche essendo
processi infiammatori possono avere un andamento clinico ACUTO o CRONICO.
La flogosi può essere acuta e possiamo quindi avere una polmonite essudativa endoalveolare.
Ma se l’agente patogeno è il Micobacterium Tubercolosis ,il processo flogistico che ne consegue
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è cronico granulomatoso proprio perché l’agente infettivo una volta penetrato nell’organismo
persiste,è di difficile eliminazione e viene isolato\neutralizzato attraverso la formazione di
granuloma che può andare in necrosi caseosa se le difese immunitarie si abbassano. La necrosi
caseosa comporta la fuori uscita di altri batteri che raggiungono altri organi attraverso il sangue
oppure vengono espettorati attraverso la tosse (e si contagiano altri individui.)
Mentre nelle flogosi di tipo essudativo l’agente patogeno è distrutto (Pneumococco,
Streptococco, Klebsiella)dai fagociti mononucleati, il micobatterio invece una volta penetrato
nell’organismo non va più via quindi si va incontro a una flogosi cronica.
Quando parliamo di polmonite acuta essudativa endoalveolare facciamo riferimento alle
polmoniti batteriche. Questo tipo di polmonite è detta anche LOBARE :è un processo flogistico
acuto essudativo endoalveolare tipico delle polmoniti comunitarie .
colpisce massivamente un ampio territorio polmonare quindi un lobo intero polmonare. le più
comuni sono quelle batteriche comunitarie da diplococco, streptococco. Queste flogosi
essudative massiva lobare colpisce soggetti giovani .perché deve colpire tutti quei soggetti?
Perché sono soggetti in pieno benessere, hanno un sistema immunitario ben funzionante,
addirittura un sistema immunitario iper-reattivo che è stato magari già sensibilizzato dallo
Pneumococco (per es da precedente faringite o tonsillite pneumococcica) ,ed essendo già stato
sensibilizzato, risponderà a una carica batterica elevata( come quella presente nell’ambiente
comunitario )e quindi il secondo contatto con il batterio crea una reazione iperergica
all’infezione tanto da colpire massivamente un intero lobo polmonare. Questa infezione è
importante da un punto di vista semiologico, è opportuno riconoscerla perché è la più frequente
delle infezioni invernali. Colpisce soggetti giovani in buone condizioni con un sistema
immunitario competente, per esempio bambini in età scolare dopo i sei anni perché devono
avere un sistema reattivo e devono aver avuto già un contatto con l’agente patogeno e giovano
adulti, soggetti dai 6 ai 30 anni.
Lo stesso agente patogeno, se nel soggetto giovane adulto crea un processo massivo essudativo
endoalveolare di un intero lobo, in soggetti di età >30-50 (in cui il sistema immunitario è in
declino, più vecchio e compromesso) scatenerà invece una flogosi non cosi massiva, ma sempre
endoalveolare e con coinvolgimento iniziale del bronco poi la flogosi andrà nell’alveolo. Questi
pazienti di maggior età e con un sistema imm meno efficace svilupperanno quindi una
broncopolmonite essudativa A FOCOLAI MULTIPLI . Si hanno gli stessi sintomi riscontrati
nei soggetti giovani ma il quadro flogistico nel polmone è a focolai multipli.
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Polmonite batterica essudativa endoalveolare o lobare franca
Vediamo Come si manifesta una polmonite lobare franca nel giovane secondo la sua classica
evoluzione e che segue anche un criterio terapeutico corretto.
(Se somministro l’antibiotico precocemente faccio un danno perché creo un’anomala evoluzione
del processo che può complicarsi fino al decesso).
La polmonite lobare franca è una malattia che dura un periodo limitatissimo, una settimana, cioè
l’evoluzione di questo processo flogistico è di una settimana.
La malattia dura una settimana nella quale si susseguono i diversi stadi evolutivi e ciascuno
stadio evolutivo (dalla durata ben precisa di alcuni giorni) avrà clinicamente dei segni e dei
sintomi che sono peculiari.
• 1° stadio è quello dell’ingorgo ematico o della congestione . il soggetto si corica
spossato ma si alza con la febbre alta, brividi scuotenti e tosse produttiva e dolore puntorio al
torace. E’ questa la fase di inizio della malattia. E’ di breve durata, 24h, ed è la fase nella quale
non bisogna fare antibiotico ma procedere con l’antipiretico. In tale fase il lobo polmonare
(soprattutto medio e medio inferiore sono quelli più colpiti) è aumentato di volume, è aumentato
di consistenza e appare di colorito rosso scuro perché c’è congestione, vasodilatazione dei
capillari alveolari con migrazione delle emazie negli alveoli. Se noi dovessimo tagliare questo
lobo, alla spremitura fuoriesce sangue a causa dell’iperemia(come in tutti i processi flogistici).
Se c’è iperemia abbiamo anche migrazione dei g.r. dal capillare nell’elveolo data la vicinanza.
In questa prima fase all’interno dell’alveolo noi troveremo molti batteri, ma gli elementi
cellulari della flogosi, cioè i macrofagi e i granulociti neutrofili sono ancora pochi!
Il quadro sintomatologico: la febbre alta scende sotto l’effetto dell’antipiretico ma tende
a risalire a 39-40;forti brividi; nel primo stadio la tosse c’è ed è detta produttiva con
espettorazione abbondante e possibili striature di sangue perché ci sono tante emazie
nell’alveolo. Se il lobo polmonare è avvolto dalla pleura anche questa sarà
inevitabilmente coinvolta dal processo flogistico tanto da determinare il dolore del
torace. Il pz ha dolore puntorio al torace e lo indica. Se poniamo il fonendo sulla schiena,
sentiamo i rumori crepitanti durante l’inspirazione.
• 2° stadio è detto stadio dell’epatizzazione rossa, dura 2 -3 giorni. In questo stadio il lobo
polmonare ha la stessa consistenza del parenchima epatico, è di colorito rosso scuro, è compatto,
e al taglio e alla spremitura escono poche gocce di sangue. perché? Nel momento in cui il
processo infiammatorio continua , dal capillare arterioso all’alveolo passano non soltanto le
emazie ma anche la fibrina che riempie gli alveoli e va ad intrappolare le emazie, i batteri, i
granulociti che nel frattempo sono arrivati recluatati in gran numero e le cellule macrofagiche.
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Si creano allora dei veri e propri tappi compatti di fibrina all’interno dell’alveolo.
Il pz in questo secondo stadio avrà un cambio di sintomatologia e si può intervenire con
terapia antibiotica:
Nel secondo stadio la tosse persiste ma è secca,non è più produttiva ;persiste il dolore
;non si sentono più i rantoli all’auscultazione perché la fibrina ha compattato gli alveoli.
A questo punto si interviene con una terapia antibiotica seria fatta con dosaggi pieni
perché i sotto/sovradosaggi fanno male (in media 2g di antibiotico ogni 12 ore, in base al
peso). In questo caso si usa la penicillina o altri antibiotici di seconda generazione.
• 3° stadio : Nel 4°-5° giorno il lobo polmonare passa dalla fase di epatizzazione rossa alla
fase di epatizzazione grigia.
Il lobo polmonare ha ancora la consistenza epatica compatta ma il colorito da rosso vira
al grigio perché è iniziata la lisi delle cellule, sia dei batteri sia delle cellule (granulociti
sfaldati e danneggiati) per cui lo sfaldamento e la degradazione degli elementi cellulari
porta al viraggio del colore del lobo dal rosso al grigio. un’ulteriore degradazione dei
granulociti può inoltre far virare il colore dal grigio al giallastro.
Siamo già ad una fase avanzata(5giorno avanzato) .I sintomi sono quelli della fase di
epatizzazione rossa.
Prima di descrivere l’ ultima fase volevo aggiungere qualcosa: Nella fase dell’ingorgo gli
alveoli sono dilatati e presentano aria, c’è dispnea ma non è ancora cosi severa. Il
soggetto nella prima fase respira ma con difficoltà ma non con difficoltà importante
come nell’epatizzazione rossa e in quella grigia quindi possiamo dire che un altro
sintomo del primo stadio è la dispnea ingravescente aumenta col passaggio dall’ingorgo
ematico all’epatizzazione rossa a quella grigia. Nella fase di ingorgo gli alveoli
contengono aria e tanti elementi che sono batteri, granulociti, macrofagi ecc.
Nell’epatizzazione rossa si compatta tutto questo essudato endoalveolare perché la
fibrina che è passata imbriglia gli elementi, si creano dei tappi all’interno dell’alveolo
che spiegano questa dispnea severa.
• 4°stadio: A questo punto, dalla fase di epatizzazione grigia si arriva finalmente alla
settima giornata cioè alla fine della malattia ed è lo stadio della risoluzione (6^-7^ giornata).
è la fase in cui gli enzimi litici prodotti da granulociti e macrofagi realizzano la
fluidificazione della fibrina che viene quindi sciolta enzimaticamente e buttata fuori con
la tosse insieme a tutti gli elementi di degradazione in essa imbrigliati. Dalla 6^-7^
giornata il pz (giovane) ha nuovamente tosse produttiva con espettorato fangoso
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verdastro denso e spesso maleodorante (perché è tutto ciò che è stato degradato negli
alveoli.)
La febbre cade improvvisamente. ricordate però che parte della fibrina viene riassorbita
per via linfatica. Quindi nella fase di risoluzione si ha la fluidificazione di questi tappi di
fibrina e di materiale necrotico buttati all’esterno con la tosse o riassorbiti per via
linfatica. In questa fase riprende reazione degli alveoli, la dispnea scompare: al fonendo
ricompaiono i rumori umidi quindi quella crepitatio che questa volta non sarà più nella
fase di inspirazione ma di espirazione, quando l’aria viene buttata fuori.
Se diamo una terapia incongrua nelle prime 24 h o sotto dosata nelle fasi dei giorni successivi si
rischiano le complicanze di una polmonite essudativa lobare franca che sono molto gravi.
COMPLICANZE
-formazione di ascessi. Se diamo una terapia non adeguata il focolaio non si risolve, addirittura
ci possono essere delle sovra infezioni batteriche con sviluppo di ascessi e la situazione diventa
critica.
-Possiamo avere una terapia troppo precoce che spegne rapidamente la reazione flogistica
granulocitaria cioè che riduce l’arrivo di granulociti nel focolaio dove sono presenti gli agenti
patogeni favorisce la non fluidificazione della fibrina (processo che invece richiede una quantità
sufficiente di granulociti e di macrofagi); se invece spegniamo la risposta con una terapia
antibiotica data troppo presto avremo una quantità insufficiente di questi elementi e il rischio
che la fibrina si possa compattare tanto da creare delle vere e proprie masse fibrose. quindi si ha
la cosiddetta carnificazione della fibrina, masse fibrose dense. Immaginate un lobo polmorare
sostitutito da tessuto fibroso con conseguenti complicanze ventilatorie.
-Un’altra complicanza può essere una batteriemia cioè una diffusione dei patogeni per via
ematica e localizzazione in altre sedi, tra le quali, quelle più gravi sono a livello cardiaco: si
possono avere endocarditi o pericarditi batteriche, un soggetto può morire per uno scompenso
cardiaco infettivo, oppure la batteriemia può portare ad una localizzazione dello pneumococco a
livello cerebrale, soprattutto a livello delle meningi e creare un coagulo di meningite
pneumociccica.
Quindi il soggetto può morire per una batteriemia quindi una diffusione dell’infezione dal
polmone al cuore e alle meningi.
Quando c’è polmonite lobare e contemporaneamente endocardite batterica e meningite batterica
si definisce la triade di Marchiafava: ai sintomi polmonari si aggiungono quelli
dell’endocardite(alterazioni funzionali elettrocardiografiche) e della meningite.
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Broncopolmonite batterica essudativa endoalveolare a focolai multipliSe abbiamo capito come evolve la polmonite batterica infettiva essudativa endoalveolare, è
facile capire la differenza con una broncopolmonite essudativa batterica endoalveolare.
Clinicamente la semeiotica ci aiuta a fare tale distinzione. Le modificazioni di un intero lobo
come si ha nella polmonite lobare sono più evidenti rispetto ai focolai multipli per i quali
bisogna avere “l’orecchio fino”.La polmonite lobare è invasiva aggressiva ma da un punto di
vista clinico si riconosce più facilmente e si può curare. Broncopolmonite è più insidiosa:
Il sistema immunitario di un soggetto adulto o con altre malattie da immuno deficienza o
cardiopatie o trattato con terapie antiplastiche non risponde adeguatamente all’infezione, ma
risponderà quasi a fatica facendo in modo che il processo infettivo possa coinvolgere altri
territori del polmone . Anche se il patogeno è lo stesso…
- polmonite colpisce un solo lobo,
- la broncopolmonite è una condizione a focolai multipli.
Nella broncopolmonite i soggetti colpiti sono pz debilitati(cardiopatico, diabetico, con infezioni
ecc.)e hanno un sistema immunoincompetente (invecchiato o non ancora maturo) e sono
obbligati a restare a letto.
La stasi favorirà subito lo sviluppo di focolai broncopolmonari in corrispondenza delle docce
paravertebrali = E’li che bisogna porre il fonendo per sentire se i rumori respiratori cambiano
nei vari punti a partire soprattutto da queste aree che sono le aree più esposte alla proliferazione
dei batteri.
Quindi la broncopolmonite riconosce lo stesso agente eziologico della polmonite ma che si
sviluppa in soggetti con sistema immunitario anergico o ipoergico ed è un quadro a focolai
multipli che possono però confluire tra di loro tanto che il deteriorarsi delle condizioni
dell’individuo, se non si interviene rapidamente con terapia adeguata, può portare anche al
decesso.
Quando c’è una broncopolmonite come sono i focolai da un punto di vista morfologico?
La broncopolmonite riconosce gli stessi stadi evolutivi della polmonite!!!
Però, siccome è una malattia ipoergica o anergica , si avrà la coesistenza di focolai in fasi
evolutive diverse: quindi all’auscultazione si sentono focolai con crepitatio indux, focolai con
crepitatio redux, focolai con silenzio respiratorio.
La tosse non sempre ci sarà, non sarà mai una tosse secca proprio perché i focolai avranno
diverse fasi evolutive.
Anche in questi soggetti mai partire con la terapia antibiotica nelle prime 24 h.
Le complicanze della broncopolmonite sono le stesse e con un rischio maggiore di
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carnificazione, si rischia di fare più focolai carnificati non lisati.
Anche la clinica può ingannare perché non si trovano quelle fasi a step della polmonite lobare.
Polmoniti ViraliPer quanto riguarda il concetto delle polmonite virali, abbiamo compreso che i virus influenzali
colpiscono i soggetti di tutte la fasce d’età, ma a seconda della fascia d’età il virus influenzale
può dare danni differenti.
Se colpisce il neonato che ha un sistema immunitario ipoergico e un interstizio polmonare
molto ampio rispetto all’adulto, è chiaro che il virus da una polmonite desquamativa
endoalveolare. Il virus prolifera negli pneumociti di tipo I o II danneggiandoli. (ci può essere un
danno anche a livello della funzione di surfattante.)
Se il virus moltiplica negli pneumociti non sarò riconosciuto da una componente granulocitaria,
non ci sarà mai pus durante un’infezione virale!ci sarà un infiltrato linfocitario. Il virus dà un
danno endoalveolare desquamativo, distruggerà le cellule endoalveolari ma la reazione
infiammatoria linfocitaria sarà estrinsecata nell’interstizio.
Questo è tipico nel neonato ,con un quadro di polmonite interstiziale che compromette in
maniera severa la funzionalità alveolo-capillare perché la flogosi nell’interstizio non farà altro
che deteriorare lo scambio alveolo-capillare che sarà anche alterato per il danno a livello degli
pneumociti soprattutto quelli di II tipo che producono il surfattante.
o da una parte la flogosi può causare l’allontanamento del capillare dall’alveolo
o dall’altra c’è una tendenza al collasso alveolare ,per ridotta produzione del surfattante,
con migrazione di fibrina dai capillare nell’alveolo. Viene a mancare l’effetto antiedema del surf
trattante.
Le polmoniti virali sono facili da ricordare perché partono tutte con un danno endoalveolare
che può cambiare di entità se il soggetto è un neonato o un giovane adulto con un sistema
immunitario competente in l’influenza provoca lo stesso danno alle cellule alveolari ma viene
riparato in 4-5 giorni grazie all’intervento del sistema immunitario.
In corso di influenza si fa la terapia sintomatica per la febbre, per la tosse ma nessun tipo di
antivirale, al massimo l’antibiotico per le sovra infezioni batteriche; questo è obbligatorio nei
bambini. Nell’anziano possiamo avere un danno sovrapponibile a quello del neonato ,perché c’è
un sistema immunocompetente non adeguato, spesso l’interstizio dell’anziano è fibrotico quindi
ci possono essere altre condizioni che favoriscono danno endoalveolare, flogosi interstiziale e le
complicanze possono portare a morte.
Le forme virali da virus sistemici vengono diagnosticate grazie al dosaggio del virus nel sangue,
90
si fa l’emocoltura per la presenza del virus.
Queste forme particolari di virus sistemici se giungono al tavolo autoptico, producono nello
pneumocita infettato o in qualsiasi cellula infettata inducono modifiche citopatiche o alterazioni
citologiche caratteristiche che sono la cellula a occhio di civetta nell’infezione da
citomegalovirus o la cellula a nuclei bilobati nell’herpes o plurilobati nell’herpes zoster e cosi
via…
A volte i virus creano immagini cellulari caratteristiche per cui è facile identificarlo.
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16 – 05 – 2012
SBOBINATA DA: Luigi ANATOMIA PATOLOGICA
CORRETTA DA: Mariano Prof.ssa G.Serio
INTERSTIZIOPATIE
PROCESSI NON INFETTIVI DEL POLMONE AD EZIOLOGIA PARTICOLARE, CHE SI
ESTRINSECANO A LIVELLO DELL’INTERSTIZIO POLMONARE
Essi sono processi cronici interessanti il polmone, che danno generalmente origine a delle
trasformazioni fibrotiche. Questi processi infiammatori presentano un esordio acuto, cioè, quando
sono clinicamente evidenti, si manifestano in maniera violenta, tanto da creare quadri di evidente
insufficienza respiratoria di tipo restrittivo. Dalla pneumologia sappiamo che esistono 2 tipi di
insufficienza respiratoria: una di tipo ostruttivo, causata da un ostacolo al flusso di aria attraverso
gli alveoli; una di tipo restrittivo, causata da una difficoltà degli alveoli ad espandersi (meccanismo
ab-extrinseco), come per esempio nel caso di fibrosi polmonare interstiziale che comprime e
schiaccia gli alveoli, altera la struttura dei capillari arteriosi con conseguenti alterazioni e danno
delle unità alveolo-capillari.
Tali patologie sono progressive ed irreversibili, e si presentano spesso bilaterali, ovvero
coinvolgono entrambi i polmoni; radiologicamente sono caratterizzate da infiltrati diffusi nodulari,
che creano un’immagine a vetro smerigliato (a nido d'api).
Classificazione delle interstiziopatie
Possiamo classificare, dal punto di vista eziologico, tali patologie in:
• interstiziopatie da causa sconosciuta;
• interstiziopatie da causa nota;
• particolari malattie interstiziali, che possono essere confuse con le 2 precedenti pur avendo
caratteristiche peculiari che meritano attenzione.
Per quanto riguarda l’ultima di queste classi, un esempio è il Linfangioleiomiomatosi (LAM): tale
patologia è molto frequente nelle donne e negli uomini giovani e prevede l'abbondanza di tessuto
leiomuscolare nell'interstizio polmonare; tale condizione è molto frequente nelle donne sotto
stimolazione estrogenica associata a leiomiomi multipli anche a livello uterino (infatti inizialmente
si pensava si trattasse di metastasi).
Un altro esempio è l’istiocitosi a cellule di Langherans, che è una particolare forma di istiocitosi
(presenta un esordio brusco nei soggetti giovani) che necessita di una terapia cortisonica oppure di
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chemioterapia per evitare ulteriori danni, eventualmente coinvolgenti anche il cuore. Infine la
polmonite eosinofila, ovvero una polmonite che può mimare una interstiziopatia fibrosante.
A parte queste forme particolari, le prime 2 classi sono quelle di maggiore interesse clinico.
Nelle intersitiziopatie ad eziologia sconosciuta (sono sclerodermie interstiziali, fibrosanti,
croniche, progressive, irreversibili, idiopatiche) distinguiamo ‘forme diffuse’, che colpiscono quasi
sempre soggetti giovani e sono sempre progressive ed irreversibili, e ‘forme nodulari’, tra cui la
‘sarcoidosi’, ovvero una malattia conosciuta, ma di cui non si conosce l’eziologia.
Nelle interstiziopatie ad eziologia nota, invece, ricordiamo quelle causate da farmaci, quali
antiaritmici come il cordarone. Tale farmaco, particolarmente usato nel pronto soccorso, è ottimo
per controllare il normale ritmo cardiaco, ma a lungo andare può andare ad incidere sulla tiroide,
con quadri di ipotiroidismo, e sul polmone, con fibrosi polmonare interstiziale; pertanto sono
necessari controlli annuali sul paziente. Qualora si riscontrino quadri di fibrosi, allora si sospende
subito la terapia con cordarone, il quale viene sostituito da altri farmaci, meno efficaci, ma
comunque in grado di scongiurare un’eventuale fibrillazione ventricolare.
Altri farmaci in grado di causare interstiziopatie sono i sali di oro, usati per le malattie reumatiche o
il metrotrexate, usato sempre per malattie reumatiche croniche.
Ci sono poi una serie di malattie legate a cause immunitarie, come la sclerodermia, il lupus (LES),
che possono portare a quadri di fibrosi polmonare.
Pneumoconiosi
Le malattie polmonari più frequenti sono quelle causate da inalazione di inquinanti atmosferici
presenti nell’aria in senso generale, oppure nell’aria di particolari ambienti di lavoro: si parlerà
allora di pneumoconiosi, cioè malattie da polveri inquinanti.
Quando parliamo di ‘pneumoconiosi’, intendiamo quelle malattie/patologie tipiche delle aree
industrializzate in cui vi è inalazione di polveri, trattenute nel polmone ed in grado di innescare una
reazione fibrosante, sclerogena, cronica, fino ad arrivare all’insufficienza cronica restrittiva.
Queste pneumoconiosi dipendono molto dal tipo di particelle inalate, dalla quantità di polvere, dalle
loro dimensioni e dalla durata dell’esposizione all’inalazione:
4. quantità di polvere e durata dell'esposizione : se io faccio un episodio sporadico ad alta
concentrazione di particelle di polveri di piccole dimensioni che raggiungono l'alveolo, non
avrò la pneumoconiosi (mentre invece l'avrà un soggetto che respira polveri con
concentrazioni minori ma per un tempo prolungato).
5. Dimensioni delle particelle :
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• Particelle con dimensioni superiori a 5μ vengono bloccate dalla Clearance Muco-
Ciliare e poi espulse con un colpo di tosse;
• Particelle fino a 5μ invece, possono raggiungere l'albero bronchiale ma attraverso il
muco o attraverso la via linfatica possono essere drenate all'esterno.
• Particelle più piccole, con dimensioni inferiore ai 5μ, sono le più dannose perchè
riescono a sfuggire ed a raggiungere gli alveoli polmonari.
6. Tipo di particelle inalate: la polvere non deve essere di tipo allergizzante (es. il polline è
solo allergizzante, e non causa fibrosi), ma deve essere di tipo fibrosante, sclerogeno, come
per esempio, la silice (polvere di quarzo), carbone, ferro, bario, stagno e asbesto. La
pneumoconiosi più diffusa in Italia è la ‘silicosi’, frequente in tutti i laboratori della pietra,
del vetro, della ceramica, dell’edilizia o tra i minatori.
In generale, però, queste polveri difficilmente le troviamo in forma pura, ma riscontriamo con più
frequenza pneumoconiosi miste, cioè causate da più polveri, visto che l’aria risulta variamente
contaminata (il minatore, per esempio, non respira solo carbone, ma può anche respirare silice).
Queste polveri possono creare nell’interstizio polmonare pneumoconiosi diffuse o nodulari, anche
se la maggior parte sono di tipo fibroso diffuso, ad eccezione della silicosi, che è nodulare.
La silicosi può dare origine a Noduli Fibrotici Interstiziali che via via si fondono per dare un quadro
di Fibrosi Interstiziale. Ma quando all'inizio compare il danno da quarzo, il Nodulo Interstiziale che
si viene a formare deve necessariamente essere messo in Diagnosi Differenziale con altre malattie
nodulari interstiziali quali Sarcoidosi e Tubercolosi. Inoltre la silicosi può complicarsi con una
tubercolosi: questo accade perché la polvere crea dei danni immunitari, riaccendendo un focolaio
tubercolare. In questo caso, il medico non può somministrare il cortisone normalmente dato per le
silicosi, poiché altrimenti andrebbe ad immuno-deprimere il paziente, con diffusione del batterio
tubercolare; si preferisce allora dare una terapia con antibiotici di attacco, sperando di spegnere il
focolaio tubercolare, per poi procedere con la terapia cortisonica per la silicosi; diventa ovviamente
necessario un costante monitoraggio del paziente (possibile ricorso all’ossigenoterapia).
La patogenesi delle pneumoconiosi è comune per tutte: la fibrosi polmonare è dovuta all’azione
delle polveri sugli elementi della flogosi. I macrofagi sono incapaci di degradare la polvere una
volta fagocitata, ma la fagocitosi procede fino a quando è lo stesso macrofago a sopperire per
accumulo di polvere al proprio interno: ciò fa rilasciare dei fattori chemiotattici che attivano i
fibroblasti, innescando un meccanismo che non porta a nulla, se non a fibrosi, oppure, si pensa che
il minerale possa attivare direttamente i fibroblasti, inducendo il rilascio di fattori fibrogenetici.
È interessante notare come una polvere possa causare fibrosi nodulare o diffusa. La silice provoca la
fibrosi nodulare perché una volta giunta nell’alveolo attiva immediatamente i macrofagi alveolari,
con liberazione di fattori fibrogenetici: già all’inizio il nodulo è tale, proprio perché inizia a livello
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alveolare. Le altre polveri (es. asbesto), invece, passano subito a livello interstiziale, a causa della
loro forma, e qui attivano i macrofagi e con essi gli agenti fibrogenetici.
Il nodulo fibroso comunque si modifica nel tempo, perché man mano che vengono attivati i
fibroblasti, noi assisteremo alla comparsa di un nodulo istiocitario (Macrofagico) con i macrofagi
che circondano la polvere; man mano che vengono richiamati i fibroblasti (che circondano gli
istiociti) avremo la trasformazione del Nodulo Macrofagico in Nodulo Fibro-Istiocitario fino a che
i macrofagi muoiono, a causa della polvere (vi sarà la sola presenza dei fibroblasti), e avremo un
nodulo fibrotico. Questo processo evolutivo del nodulo è anche influenzato dal tempo di
esposizione: una prolungata esposizione facilita la formazione del nodulo.
Nel caso delle pneumoconiosi diffuse, come per esempio l’’asbestosi’ (oppure particelle di
carbone), il quadro di fibrosi circonda gli alveoli, sacchi alveolari, bronchioli,via via diffonde
nell'interstizio schiacciando progressivamente le strutture respiratorie, fino ad un quadro di
insufficienza respiratoria.
Tuttavia, il danno respiratorio sarà più precoce nelle forme silicotiche, visto l’immediato
coinvolgimento alveolare.
Diagnosi e Terapia delle Pneumoconiosi
Quindi in caso di Silicosi dobbiamo escludere, tramite una diagnosi differenziale, un quadro di
Sarcoidosi e Tubercolosi per poi arrivare a una diagnosi di Malattia Professionale che avrà un
riconoscimento di invalidità oltre che dobbiamo allontanare il soggetto dall’area lavorativa, perché
queste pneumoconiosi possono solo essere tamponate con cortisone, ossigeno-terapia, farmaci che
controllano l’attività cardiaca; ci deve essere pertanto un riconoscimento lavorativo del danno.
Risulta poco utile la resezione di una parte del polmone, perché in questo modo non si farebbe altro
che portar via anche una percentuale di polmone funzionante, che magari può aiutare il paziente nel
decorso della malattia.
Magari può essere necessario effettuare una biopsia polmonare, perché richiesta dal datore di lavoro
al fine di permettere il risarcimento e la quiescenza del paziente. Devono poi naturalmente
intervenire i patologi, che sono in grado di classificare il tipo di fibrosi e l’agente eziologico (la
silice cristallina, ad esempio, è rifrangente al microscopio con luce polarizzata). Spesso è necessario
inviare il tessuto all’istituto superiore della sanità, dove viene incenerito: la polvere naturalmente
non subisce danni e quindi può essere isolata. Infine ci sarà un esame spettrofotometrico che ci dice
la tipologia di polvere; in alcuni casi si può ricorrere al microscopio elettronico, utile soprattutto per
le fibre di amianto.
SILICOSI
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È la più frequente pneumoconiosi in Italia, con 2000 casi nuovi all’anno, vista la diffusa
lavorazione della pietra; nello specifico, la forma di silicosi più diffusa in Italia è la ‘silice
cristallina’. Si tratta di una pneumoconiosi nodulare, con possibile evoluzione fino alla fibrosi
diffusa. La fusione dei noduli ci permette di fare diagnosi differenziale con tubercolosi e sarcoidosi.
Inoltre l’area di polmone danneggiata dalla fibrosi è poi circondata da un’area di polmone
enfisematoso per compensazione: si avrà rottura dei setti alveolari. La silicosi si può complicare con
tubercolosi, infezioni micotiche, batteriche, sarcoidosi, malattie del collageno, tra cui la
pneumoconiosi reumatoide ( Sindrome di Caplan) con lesioni simil-reumatoidi.
ASBESTOSI
È una pneumoconiosi diffusa anche in puglia, perché regione ricca di fabbriche che lavorano
l’amianto. L’asbesto è una polvere mineraria costituita da un gruppo di silicati inorganici
polianionici che sono presenti in natura sotto forma di fibre spirali (‘serpentino’ o ‘crisofilo’) o
fibre aghiformi (‘anfibolo’). Il più pericoloso è l’ ‘anfibolo’, che riesce con più facilità a
raggiungere sia l’interstizio polmonare sia la pleura. Tuttavia nell’industria è maggiormente
utilizzato il ‘crisofilo’ per le sue migliori caratteristiche di lavorazione. Le dimensioni dannose
riguardano un diametro inferiore a 0,25μ e una lunghezza maggiore di 8μ: sono pertanto fibre
lunghe e sottili ed al microscopio a scansione appaiono con la caratteristica forma ‘a bacchetta di
tamburo’ (immagine peculiare): la fibra è avvolta da materiale ferroso perciò la forma è determinata
dal rilascio di Fe da parte della meta-Hb.
L’asbesto è pertanto una fibra fortemente cancerogena, ma è tuttavia utilizzata perché in realtà può
risultare innocua con le dovute misure preventive, quali mascherine, occhiali, tute di protezione o
evitando una prolungata esposizione all’inalazione (un ambiente con una buona manutenzione non
comporta danni alla salute).
Inoltre l’asbesto ha importanti caratteristiche che lo rendono eccezionale dal punto di vista
industriale: è un ottimo isolante acustico e termico, usato per le vasche idriche nei paesi con climi
più rigidi, oppure negli uffici postali o per le tute dei pompieri; il problema resta la manutenzione.
Si ritiene che anche l’ingestione dell’amianto possa causare problemi a causa del drenaggio
linfatico e possibile infiltrazione del peritoneo e della pleura con, quindi, conseguente mesotelioma
(eventi rari).
Le espressioni patologiche dell’asbestosi sono la fibrosi interstiziale, la fibrosi pleurica circoscritta
o diffusa ed anche il cancro sia polmonare sia laringeo, sia il mesotelioma prima citato.
Un soggetto esposto può sviluppare la malattia anche dopo 20-30 anni dalla sospensione
dell’attività lavorativa, quindi il tempo di latenza può essere abbastanza lungo. Lo sviluppo della
malattia è tempo-dipendente ma anche dose-dipendente: esiste una dose soglia (non nota) tale che
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una volta superata si innesca il processo neoplastico; tuttavia si ritiene che in soggetti geneticamente
predisposti, tale soglia possa risultare più bassa. Questo ci induce a dire che l’asbesto comporta
alterazioni cromosomiche come a livello dei cromosomi 6q,9q,10p, che sono le più frequenti
osservate nei mesoteliomi.
Complessivamente possiamo dire che la manifestazione clinica di una pneumoconiosi dipende da:
• tipo di minerale;
• dose inalata;
• tempo di esposizione.
Le malattie che ne derivano comprendono anche tumori che si sviluppano prima ancora che si
manifesti un quadro fibrotico.
Restano sempre ‘malattie professionali’ da risarcire: è importante il grado di gravità della malattia e
ne consegue una variazione dell’invalidità riconosciuta dall’INPS.
SARCOIDOSI
Si tratta di una patologia che si presenta con un quadro di fibrosi nodulare, che rientra nell’ambito
delle interstiziopatie ad eziologia sconosciuta; di questa malattia è ben nota la morfologia del
granuloma sarcoidosico.
È una malattia dall’impegnativa diagnosi clinica, perché vi sono malattie che possono mimare la
sarcoidosi come l’enterite di chron, ma anche neoplasie allo stomaco o alla mammella (in questi
ultimi 2 casi avremo reazioni granulomatose simil-sarcoidosiche a livello linfonodale); la
confusione deriva dal fatto che la sarcoidosi è una malattia sistemica.
I soggetti particolarmente colpiti sono di sesso femminile, di carnagione chiara, con capelli biondi
(maggiore diffusione della malattia nelle aree scandinave); sono colpiti soggetti dai 20 ai 40 anni.
Gli organi colpiti dalla sarcoidosi sono:
• polmoni
• linfonodi mediastinici e peribronchiali
• milza
• fegato
• reni
• midollo osseo
• cute
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• ghiandole lacrimali
• ghiandole salivari.
Il coinvolgimento di queste 2 ghiandole è tipico della ‘sindrome di Siomen’: i soggetti lamentano
una notevole secchezza nelle secrezioni.
La localizzazione ossea determina alterazioni osteolitiche con aumento relativo della calcemia:
infatti uno dei primi segni ricorrenti è la presenza di calcoli renali.
È importante, quindi, fare subito un prelievo di sangue in cui andiamo a richiedere la calcemia ed il
dosaggio dell’enzima ace-inibitore.
La diagnosi di conferma è la biopsia, che ci permette di osservare il granuloma sarcoidosico con i
macrofagi, contenenti al loro interno corpi asteroidi.
Il granuloma sarcoidosico non va mai incontro a necrosi caseosa, ma a fibrosi; la patogenesi è un
disordine immunitario, cioè una risposta immunitaria esagerata da parte dei linfociti T-helper contro
Ag esogeni o auto-Ag di cui non si conosce la struttura. Ciò vuol dire che ci sarà accumulo di T-
helper e quindi formazione di un granuloma. Allora è importante valutare il rapporto CD4+/CD8+,
con una netta prevalenza dei primi in questo tipo di malattia.
MESOTELIOMA
È importante studiare i tumori del polmone e della pleura. In caso di tumore primitivo allora
sicuramente si tratterà di un mesotelioma: questo tumore può interessare la pleura, il pericardio, il
peritoneo e la vaginale del testicolo (più raro, ma in un soggetto particolarmente esposto può
avvenire).
Il mesotelioma può creare grossi problemi dal punto di vista diagnostico, perché prendendo origine
da un epitelio celomatico, questo può andare incontro a modificazioni, come proliferazione in senso
epitelioide o sarcomatoide della cellula sierosa:
2. il mesotelioma epitelioide (o epiteliomorfo), (è il più frequente) può mimare
metastasi, strutture ghiandolari, papillari tipiche di un’altra neoplasia come il cancro
mammario. La diagnosi è dunque molto complicata e procede per esclusione.
3. Il mesotelioma sarcomatoide può mimare una pleurite fibrosa, perché quest’ultima
inspessisce la pleura. La sopravvivenza media dei soggetti con mesotelioma è di solo un
anno.
4. i mesoteliomi misti, cioè con componenti epiteliali e sarcomatoidi.
Spesso è necessario escludere la metastasi e fare diagnosi esclusiva di mesotelioma. Tuttavia manca
un marcatore tumorale di immunoistochimica specifico; questo perché esprimerà marcatori sia
epiteliali, sia connettivali. Allora l’OMS obbliga ad utilizzare un pannello di anticorpi per poter
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riconoscere il mesotelioma: questo infatti è positivo alle citocheratine, alla vimentina, alle caderine,
alla calretinina. Quest’ultima è ritenuta uno dei marcatori più sensibili per il mesotelioma.
Si usa anche l’anticorpo di WT1, che però è poco efficace e utile nelle forme anaplastiche. Quando
si perde l’espressione di WT1, il quadro è più grave e, quindi, parliamo di un marcatore di prognosi.