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Luigi Berzano La religione dei volti I volti della natura
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Dio nel volto della natura

Mar 28, 2016

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di Luigi Berzano La religione dei volti. Vol. 4
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Luigi Berzano

La religione dei voltiI volti della natura

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Dio nel voltodella natura

4La natura e il paesaggio che ci circonda sono anch’essi il volto del progetto divino della creazione. È un volto che è esistito centinaia di milioni di anni prima che comparissero gli animali e gli uomini...

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Il volto della creazione (1979)

Ancora una volta passeggiando in uno dei tanti sentieri delle nostre valli andonesi un amico geologo mi spiegava che le sabbie che calpestavamo e alcuni pezzi di roccia che qua e là affioravano potevano essere lontani fondali marini. Mi faceva capire che le teorie scientifiche relative alla paleontologia non erano solo delle teorie, ma riguar-davano il terreno che calpestavamo. Era come una magia, per cui il tempo si era sedi-mentato nel territorio; e ora il territorio si apriva ai nostri sguardi e si lasciava leggere ai nostri occhi.

La storia non è dunque solo prerogativa degli studiosi e degli eruditi; essa è anche il risultato di chi ha curiosità e piacere religioso nel ricercarla.

C’è questa dimensione di mistero anche nel nostro territorio, che assume un volto di-verso a secondo di chi lo osserva e di chi mantiene vivo ciò che la memoria cancella. È lo sguardo che dà un senso, e quindi dà vita, anche alla terra che ci circonda.

La natura e il paesaggio che ci circonda sono anch’essi il volto del progetto divino della creazione. È un volto che è esistito centinaia di milioni di anni prima che compa-rissero gli animali e gli uomini. La natura e il paesaggio esistevano già, ma per diven-tare un volto ebbero bisogno della presenza umana che li riconoscesse. Potremmo immaginare che gli oceani si facessero silenziosi e i venti si placassero la prima volta che un volto umano, l’elemento più stupefacente della creazione, apparisse sulla ter-ra.

Nel volto l’anonimità dell’universo si fa persona; il sogno dei venti e dei mari, il silen-zio degli astri e delle montagne ha raggiunto nel volto una presenza materna. Nel vol-to giunge a espressione il nascosto, il segreto calore della creazione. Non esistono due volti uguali, ma ciascuno porta in sé una variazione speciale: ogni volto esprime una particolare intensità di presenza umana. Dopo la lontananza, rivedere il volto di chi si ama è fonte di gioia misteriosa.

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Il volto è l’icona della creazione; per la prima volta, nella mente dell’uomo l’universo ha riecheggiato se stesso. Il volto è lo specchio della mente; nella persona umana la creazione ritrova l’intimità silenziosamente bramata e, nello specchio della mente, la natura senza fine può contemplare se stessa.

Un altro grande insegnamento che ci dà la natura è la sua continua ri-creazione. Viene sempre una nuova primavera. Le sementi che il vento del tardo autunno ha fatto cade-re nella terra dagli arbusti ormai secchi, dopo il riposo invernale, si risvegliano come d’incanto al primo sole e alle prime piogge primaverili. Così pure i campi seminati dal-l’uomo: in primavera tutto rivive. Sembra la ripetizione della primavera precedente; ma invece ogni foglia è nuova.

La vita non è mai ripetitiva: ma nemmeno è mai spontanea, poiché scaturisce da una vita precedente che l’ha partorita. Ogni primavera è nuova, ma è figlia della primavera precedente. I fiori sbocciano dai semi. Sempre mutevole nella sua immutevolezza, la vita è una forza divina che, abitando nell’intimo degli esseri, li plasma, li fa crescere, li porta alla maturazione e infine li conduce all’estinzione. La vita è tutta un grande albe-ro, come è tutta un piccolo seme. La vita è l’anima della materia, ma nello stesso tem-po necessita di un granellino di materia per essere conservata e trasmessa.

Anche il vivere dell’uomo è un continuo morire e risorgere. A noi pare che la vita sia un processo continuo, come le figure che compongono una sequenza filmica; ma nei fatti la vita è una continua creazione dal nulla. Tutto avviene come nel seme che mette un germoglio. Il contadino getta il seme nel terreno, lo copre con altro terreno e lo inu-midisce con l’acqua. Dopo qualche giorno: ecco il germoglio! Nessuno può permetter-si di osservare il miracolo della germinazione; anzi, se questo fosse osservato e distur-bato la germogliazione non avverrebbe più. Fra il tempo del seme e il tempo del ger-moglio c’è l’attimo della vita.

Anche i nostri sentimenti, pensieri, progetti se non si rinnovano, limitano la vita; diven-tano idee fisse, rancori, alienazioni. Morte e resurrezione sono davvero il grande sacra-mento della vita.

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Il paesaggio delle valli andonesi (1988)

Anche questo paesaggio andonese è ben di più di una espressione spaziale: è il pro-dotto di vite, di storie e di culture di lunga durata. È il risultato di esperienze collettive di uomini e donne, di eventi geologici e, nel caso delle nostre vallate andonesi possia-mo ben dirlo, di immense moltitudini di esseri marini dei millenni passati.

L’idea di luogo è quindi sempre associata a quella di una lunga storia e di una «cultu-ra localizzata nel tempo e nello spazio». Marc Augè nella sua ricerca Un etnologo nel metrò tratta dei luoghi come un vero e proprio universo di senso. In ogni luogo, e nel-la sua materialità stessa, è possibile rintracciare un «ordine» capace di sintetizzare la totalità delle regole sociali di ogni mondo vitale.

A Valleandona un tale luogo, ricco di significati, è l’anello delle due stradine del giorno e della sera (via Serale) dentro e attorno alle quali è stato costruito nel medioevo il pri-mo piccolo borgo abitato dalla gente andonese. Luogo è ogni borgo con le sue scan-sioni tra spazi sacri e spazi profani, con i segni delle stagioni, i rituali della vita e della morte.

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Secondo lo stesso Marc Augè le caratteristiche di ogni luogo sono l’identità, la relazio-nalità dei suoi componenti, la storicità. L’identità di un luogo si compone delle sue re-gole, prescrizioni e interdizioni che legano in un’unica appartenenza le identità indivi-duali, e ne costituiscono la diversità da altre identità collettive. La relazionalità è il tes-suto sociale di ogni luogo, composto di relazioni, di rapporti reciproci, di posizioni di potere dei singoli componenti; essa rappresenta un determinato ordine e l’equilibrio di tutte le cose che compongono il luogo. La storicità è l’incarnazione spaziale della lun-ga catena delle generazioni che si sono succedute su quel territorio e l’hanno reso il «mondo della vita» di tutti gli esseri viventi che lì hanno vissuto.

Questa idea e questa esperienza del luogo è messa oggi in crisi da alcuni «eccessi» della modernità. L’eccesso di tempo e la sua velocità incalza oggi l’identità dei luoghi; incalza l’idea del presente e del passato; spezza la fragile continuità delle durate stori-che. L’eccesso di spazio, con i mezzi di trasporto, la telematica e i satelliti, rende vici-no e familiare ogni luogo. L’eccesso di soggettività crea la sovrabbondanza di ogni Ego che interpreta da se stesso e per se stesso ogni condizione senza la mediazione della collettività situata in ogni luogo.

Oggi si producono in modo crescente luoghi astratti e impersonali non abitati da nes-suno, ma in cui tutti vi transitano o vi svolgono qualche funzione. Sono i «non-luoghi»: aree delle stazioni di ogni genere e delle catene alberghiere; grandi centri commerciali, sportivi, culturali; gli spazi on line, quelli delle reti cablate e senza fili. I «non-luoghi» hanno una sola condizione di accesso e di identità: la credit card di accesso. È la stes-sa condizione di accesso che richiede il mondo dei consumi.

Corriamo verso un mondo di «non-luoghi», asettici e tutti eguali da qui alla Nuova Ze-landa? Dove scompare il luogo-paesaggio, palcoscenico della vita e scolpito dai lavo-ri e dalle emozioni delle creature?

Non c’è alcun rimpianto in queste domande; ma c’è piuttosto l’interesse e l’attenzione a questo paesaggio locale, alla sua storia e cultura. Il paesaggio delle valli andonesi non appartiene a nessuno dei tipi culturali descritti dagli studiosi. Del territorio astigia-no non ha né la dolcezza del Monferrato né l’altezza produttiva e selvaggia della Lan-ghe. Il territorio valleandonese è soltanto un linotipo del fondo marino nel periodo del

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pliocene. Non ha particolare bellezza, ma solo sorprendenti caratteristiche. I romani di duemila anni fa lo chiamavano silva aspera. Queste anguste colline e piccole valli so-no state l’ambiente in cui si è svolto l’insediamento umano che ci ha preceduto.

Oggi stiamo assistendo al formarsi di un nuovo paesaggio in queste valli, nel quale coesistono piccole attività turistiche e agricole di auto-sussistenza, e particolari forme residenziali. Una rara combinazione che richiederebbe una qualche attenzione da par-te delle amministrazioni locali.

Dove sono dunque i territori sognati dalle nostre nostalgie, dai nostri stupori, dai nostri ricordi? Dove sono i territori in cui è disegnata ancora la geografia dell’anima? C’è una risposta nelle tante iniziative, seppur esili e spontanee, che si sono succedute qui, in questi ultimi anni. Ricostruzione delle memorie delle origini, descrizione di nicchie di bellezza, di storia di «angoli» di vita e di tradizione, difesa di valori ecologici in cui pos-sono coesistere natura, cultura e società.

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Un anno sabbatico per le valli andonesi (1993)

Tra i tanti documenti comparsi sulle pagine di Storia di Comunità negli anni della mo-bilitazione a proposito del progetto di una seconda grande discarica per rifiuti nelle nostre valli, uno aveva per titolo «Un anno sabbatico per le valli andonesi» (1982). È bello rileggerlo dopo dieci anni.

La Bibbia degli Ebrei comandava che ogni sette anni si proclamasse un Anno Sabbati-co. Era un anno di riconciliazione tra gli uomini, di liberazione per i prigionieri e anche di riposo per la terra. Anche i campi non dovevano essere coltivati. Quando nell’anti-co linguaggio religioso si diceva che la terra è di Dio questo si voleva dire, che il pote-re dell’uomo sulla natura ha un limite e tale limite va rispettato. E per incentivare e ma-nifestare questo rispetto fu data al popolo di Israele una legislazione sabbatica di cui solo oggi, spentosi sulle nostre labbra il sorriso illuministico, possiamo comprendere il significato profondo.

I sabati settimanali e gli anni sabbatici valevano sia per gli uomini che per gli animali. Particolarmente importante era il sabato della terra: ogni sette anni la terra doveva ri-manere incolta perché potesse rigenerarsi. È questo il diritto della terra. Chi rispetta il sabato della terra vivrà in pace, dice la Bibbia, ma chi lo disprezza verrà assalito dalla febbre e dalla fame, perché ha compromesso la fertilità del terreno.

Secondo quell’antica storia biblica, Israele viene abbandonato da Dio per settant’anni alla schiavitù di Babilonia «finché il paese, terra di Dio, non abbia scontato i suoi saba-ti» (2 Cronache, 36). Oggi viene ampiamente disatteso il diritto di rigenerazione della terra e del suo mondo di vita. I fertilizzanti chimici e i pesticidi costringono la terra ad una fecondità incessante e innaturale. La conseguenza è l’erosione irreparabile del terreno, con inevitabili e catastrofiche carestie. Chi non rispetta il diritto della terra rap-presenta una minaccia per le future generazioni e compromette la sopravvivenza stes-sa dell’umanità.

È troppo chiedere un anno sabbatico per le valli andonesi che da 20 anni sono sfrutta-te da un perverso sistema di discariche provinciali?

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La nuova alleanza

Un grande scienziato moderno ha definito questa nuova pace da fare tra l’uomo e la terra «la nuova alleanza»: stabilire sotto l’arcobaleno un nuovo atto di pace tra noi e la natura.

Una vicenda avvenuta tra di noi fino ad oggi (1993), a proposito del progetto di una nuova grande discarica per rifiuti nelle nostre vallate, accanto a quella già sorta nel 1972 e ormai in fase di esaurimento, è stata davvero paradossale. Paradossale, per-ché ha condotto sotto processo normali cittadini che protestavano per un diritto sa-crosanto, come ha poi sentenziato lo stesso processo penale celebrato presso il Tri-bunale di Asti.

Aldilà della cronaca, tutta la vicenda richiama lo straordinario messaggio di un capo indiano, che nel 1854 alla richiesta che gli fu fatta dal presidente degli Stati Uniti di comprare una parte del territorio del suo popolo indiano rispose con una lettera pie-na di saggezza e di grande suggestione. Ecco la conclusione di quel messaggio:

Non è l’uomo che ha tessuto la trama della vita; egli ne ha soltanto il filo. Tutto ciò che egli fa alla trama, lo fa a se stesso. Lo stesso uomo bianco, con il quale il suo Dio si accompagna e parla con lui come due amici insieme, non può sottrarsi al desti-no comune. Dopotutto, forse noi siamo fratelli. Vedremo.

C’è una cosa che noi sappiamo. E che forse l’uomo bianco scoprirà presto: il nostro Dio è il suo stesso Dio. Voi forse pensate che adesso lo possedete, come volete pos-sedere le nostre terre, ma non lo potete. Egli è il Dio degli uomini e la pietà è uguale per tutti: tanto per l’uomo bianco, quanto per l’uomo rosso. Questa terra per lui è pre-ziosa. Nuocere alla terra è come disprezzare il suo Creatore. Anche i bianchi spariran-no, forse prima di tutte le altre tribù. Contaminate i vostri letti e una notte vi troverete

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soffocati dai vostri rifiuti. Dove è finito il grande bosco? È scomparso. Dove è finita l’aquila? È scomparsa. È la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.

Le parole del capo indiano richiamano un messaggio antico: che gli uomini sono i fi-gli della terra (gli antichi egizi dicevano: figli del matrimonio tra la terra e il sole) e che la vita dell’uomo è incastonata come le perle in un anello, in una sfera vitale che gira attorno alla terra e che è costituita da equilibri delicati, nessuno dei quali è inutile. La responsabilità è di non rompere e sovvertire questi equilibri. Noi dobbiamo rispettare la terra, i fiumi, l’albero; dobbiamo pentirci se li abbiamo feriti. Dobbiamo insegnarci a vicenda questa morale ecologica.

Gli scienziati parlano della legge dell’entropia come della progressiva perdita di ener-gia che avviene nel passaggio da una forma di vita ad un’altra. Aver cura della terra significa non sprecare la sua energia. Pensiamo allo spreco di energia che avviene du-rante una guerra o nella preparazione delle armi. L’unica forza che dispiegandosi non produce entropia, cioè speco di energia, è l’amore.

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La memoria del territorio

Valleandona: una manciata di case disperse tra i boschi, poche decine di abitanti e altri che vi ritornano come a una seconda casa, a volte con la mente e gli occhi anco-ra lontani nella metropoli, a volte con il richiamo e le suggestioni di radici antiche. Una forma della natura ancora incontaminata con immagini che, al sorgere del giorno e nelle ore del tramonto, hanno l’alone del sogno.

Il sogno si fa realtà se, scavando nel terreno di queste colline che si accavallano co-me onde del mare, si scopre una o cento conchiglie marine, ancora intatte come se il tempo ne avesse solo sfrangiato i margini delle valve. Così, camminando tra queste vallate boschive e selvagge che si inseguono con ritmo discontinuo, è facile immagi-nare il tempo, all’inizio del Pliocene, in cui il mare ricopriva ogni cosa e tutto il «Baci-no astigiano» formava un’insenatura delimitata a sud dai rilievi delle Langhe e a nord da una bassa isola corrispondente all’attuale Monferrato settentrionale.

Di quel periodo di circa cinque milioni di anni fa, queste vallate conservano la testimo-nianza con un’enorme quantità di depositi marini contenenti fossili di organismi. Ver-so la fine del Pliocene, due milioni di anni fa circa, il paesaggio iniziò ad assumere un aspetto lagunare con terre paludose e una grande varietà di animali continentali di ogni dimensione. Anche di questa millenaria transizione il territorio conserva tuttora una ricca memoria.

Gli strati di conchiglie, a volte situati a parecchi metri di profondità l’uno dall’altro, in-dicano successive fasi di trasformazioni marine. Soprattutto, nella zona di Valleando-na e Villafranca d’Asti, le sabbie marine si sono ricoperte di uno strato di argille rossa-stre continentali, rappresentanti un’intera epoca geologica denominata «Villafranchia-no».

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È con questa argilla rossa, adatta all’impasto e facilmente essiccabile, che i co-struttori di chiese e di palazzi formavano i mattoni e, ancor prima, modellavano i lo-ro vasi, secondo la testimonianza dello scrittore romano Plinio.

I più antichi insediamenti antropici in questo territorio risalgono ad oltre 10.000 anni fa. In base al ritrovamento di raschiatoi, coltellini bifacciali, fondi di capanne, resti di fuo-chi, parte di piroghe ed altri oggetti, si presume che i primi uomini siano arrivati nel no-stro territorio seguendo il corso del fiume Tanaro. Forse erano Liguri, ma molti sosten-gono che venissero dall’Iberia, seguendo il corso dei fiumi e vivendo di caccia, di pe-sca e di quanto la natura offriva a loro.

Allorché i Romani arrivarono in queste zone trovarono i nostri antichi progenitori e do-vettero lottare a lungo per sottometterli e rendere Asti da piccolo borgo dei Galli-Liguri una colonia romana con il nome di Hasta. Abbiamo testimonianze scritte di quanto fe-cero i consoli romani per fare uscire i Liguri dalle fitte boscaglie che circondavano Asti: appiccarono il fuoco alle selve così che gli abitanti che vi si nascondevano dovettero uscire dalle strette vallate. Asti divenne colonia romana solo nell’89 avanti Cristo.

Il nome di Valleandona, che come altre parole terminanti in «ona» ricorda un’origine pre-celtica, compare per la prima volta in un documento dell’anno 969, nel quale l’im-peratore Ottone I confermava, oltre la regione di Andona, diversi altri beni alla Chiesa Astese guidata dal vescovo Rozone.

La valle di Andona aveva solo l’aspetto della selva e con tale nome veniva indicata: sil-va aspera. Un secolo dopo, nell’anno 1041, in un diploma di Enrico III in favore del ve-scovo di Asti Pietro II, si conferma, fra gli altri possessi, la selva di Andona con le sue pertinenze, la selva detta «Aspera» della valle Colombaria, fino al rivo Andona e Borbo-re, con le sue adiacenze e pertinenze (L. Vergano, Storia di Asti, Asti, 1951, vol. I).

Solo nel 1345, nel Registrum ecclesiarum diocesis astensis, si nomina la Chiesa di An-dona, soggetta alla cattedrale di Asti. La condizione economica della Chiesa era espressa in sei lire astesi; non poco, visto che altre chiese venivano dotate solo con lire 2 ed anche con lire 1. Se nel 1345 esisteva la Chiesa di Andona, esisteva anche un nucleo abitato.

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Gli Status animarum, che indicano dal 1609 la costituzione di una parrocchia con il par-roco Marco, documentano una relativa espansione di insediamenti abitativi sia attorno al nucleo più antico circondante l’attuale Chiesa, sia in vallate più lontane, quali: Case Boschi, Località Castello, Bricco delle Capre, Valle Cipollina. Un antico castello, posto a picco su una parete naturale al fondo della quale scorre tutt’ora il rio Andona, sulla destra orografica del paese, dominava tutta la vallata.

Agli inizi di questo secolo la popolazione complessiva raggiungeva le 900 persone. Il paese però, che pur distava da Asti meno di 10 km., mantenne sempre l’aspetto di ciò che gli antropologi definiscono un «gruppo corporato chiuso»: rigide tradizioni interne, progetti collettivi comuni, delimitazione di frontiere esterne ben precise.

In epoca recente il progressivo depauperamento demografico, fattosi più sensibile nel periodo della industrializzazione e realizzatosi in forme selettive con l’emigrazione, ha prodotto un ulteriore drastico calo della popolazione. La riduzione demografica, ag-giunta all’alta percentuale di abitanti anziani e orientati secondo valori tradizionali, ha fatto sì che aumentasse ancor più la connotazione di marginalità di questa zona.

In questo contesto l’interesse per i fossili ha ormai una lunga tradizione. Lo storico asti-giano Nicola Gabiani nella sua opera Asti nei principali suoi ricordi storici scrive: «Nella regione denominata Valle Andona, ad ovest della città nostra, i molti resti fossili, che da alcuni si ritengono antidiluviani, resero ormai famosa quella località la quale forni-sce tutt’ora ricca ed abbondante messe di svariatissime conchiglie di ogni genere e d’ogni grossezza. In quella regione si scoprirono pure, alla profondità di pochi metri, alcuni scheletri fossili di animali preistorici». Lo stesso Gabiani racconta di una spedi-zione scientifica condotta nel 1905 da una numerosa comitiva di geologi stranieri e del «fervido ed entusiastico amore con cui quel dotto gruppo di professori si appassiona-va alla ricerca di quegli antichissimi fossili, di cui fece largo bottino».

Da allora i fossili sono divenuti, anche per la popolazione locale, un «luogo della memo-ria». Se le caratteristiche ambientali hanno una diretta incidenza sull’esperienza stori-ca, sulla tradizione, nel senso che gli uomini hanno del tempo e della vita, la millenaria presenza dei fossili affioranti nell’area valleandonese suggerirà, forse, che l’uomo non è la sola misura di tutte le cose.

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Vallandona fra storia e preistoria

«Quasi ogni notte nel sogno apparivano i profili familiari delle colline quali li avevo vi-sti nella prima infanzia, finché quel mondo verde, vegetale, si andava trasformando in una distesa d’acque ribollenti; i filari di vite diventano i cavalloni d’assalto di sponde marine, non più fianchi di greppi argillosi. Di quel sovrapporsi di una imprevedibile di-stesa marina al paesaggio astigiano, (…) scoprii il senso e l’origine solo più tardi, quando potei tornare nella casa sulla collina, dove hanno abitato generazioni della mia famiglia, e dove pure io sono nato. Ricordai, d’un tratto il giorno in cui, grattando con mani di ragazzo la terra grassa della vigna, ne trassi una conchiglia marina, intat-ta; e alla mia stupita meraviglia, mio padre mi spiegò che era naturale che in quella ter-ra si trovassero delle conchiglie, perché un tempo, mille o un milione di secoli prima, quello era il fondo del mare, e le colline che ci circondano, le sponde di un golfo».

Così Guido Artom, poco prima di lasciare questa città per sempre, parlava di Asti in un articolo comparso sul numero 69 della rivista Weekend.

Il sogno si sovrappone al vero e si confonde, nella storia delle colline di Guido Artom, poco distanti da Valleandona, come nella storia delle nostre colline. Anche qui le sab-bie e i fanghi antichi ci forniscono l’itinerario verso il nostro passato.

Colli e conche si inseguono con un ritmo discontinuo, casuale, ricoperti da una vege-tazione ridondante, quasi selvaggia. E intorno, l’orizzonte è simile al mare, ampio e fra-stagliato. Camminando fra boschi e brevi vuoti improvvisi, è facile immaginarsi di nuo-tare tra reliquie di esseri vitali, in quella che fu la dimora delle acque, delle conchiglie, delle selve primigenie. Si ha la sensazione che tutta la terra fu concepita dal mare e che è ancora impregnata dal mare.

All’inizio del Pliocene (5 milioni di anni fa), il periodo del quale il «bacino astigiano» è testimone con un’enorme quantità di organismi fossili immersi fra le sabbie e le argil-le, le nostre terre erano coperte dal mare e formavano un’ampia insenatura delimitata

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a sud dai rilievi delle Langhe e a nord da una bassa isola rappresentata dall’attuale Monferrato settentrionale.

Lentamente la terra prendeva possesso del mare. Verso la fine del Pliocene (2-3 milio-ni di anni fa) il nostro paesaggio doveva essere del tutto simile a quello lagunare del nord Adriatico, con terre e paludi, a costituire un vasto ambiente continentale.

Strati di terra racchiudono strati di storia e anche il tesoro di un passato romano. E forse, molto prima che da queste parti si andasse per la romana via Fulvia verso Tori-no, un uomo moriva sull’orlo del Rivo Andona. E dovunque, nei nostri paesi i cui nomi riconducono, a volte, ad origini celtiche e liguri, era probabile che i romani costruisse-ro le strade e le vie lungo i sentieri battuti, prima, dai pastori.

Il desiderio di andare molto indietro nel tempo e di sapere quando le nostre colline an-donesi hanno iniziato ad essere abitate rimane insoddisfatto, come se la terra fosse gelosa della propria storia. In ogni caso, se pure il nome, come altri termini in «ona», ci ricorda un’origine addirittura pre-celtica, è solo nell’anno 969 che troviamo citato per la prima volta il nome Andona.

In quel periodo questa periferia boschiva a nord-ovest della città di Asti era una fitta boscaglia, all’interno della quale, dopo il Mille, si ebbero su alcuni punti più alti i primi insediamenti abitativi attorno a piccole chiese campestri: Valleandona, Casabianca, San Grato, Montegrosso, ecc.

Questi primi borghi, soggetti religiosamente alla Chiesa cattedrale di Asti, diedero vita in seguito agli attuali insediamenti. La loro origine all’interno della medioevale foresta «aspera» trova conferma ancora oggi nei tanti e suggestivi toponimi che compaiono tuttora nella cultura orale dei contadini residenti. Sono nomi di bricchi, di valli, di sen-tieri: mon-falcon, di gabbian, del fuin, der pej, di merlu, cà di bosch, der tass, quar-naiera, da quaia, cravera, der scriò, d’iusei, ecc.

Nel medioevo un antico castello, posto a picco su una parete al fondo della quale scorre tuttora il rio Andona, dominava tutto il paese. La stessa collina si chiama anco-ra oggi «regione castello». Col tempo questa fitta foresta ai confini di Asti divenne

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sempre meno impenetrabile per successivi disboscamenti e sempre più percorsa da sentieri e radure utili per piccole coltivazioni agricole. Fino a inizio Novecento una grande estensione boschiva apparteneva alla famiglia astigiana degli Ottolenghi.

A inizio 1900 la popolazione raggiungeva ancora le 900 persone. In epoca recente, dopo il 1945, oltre il 15% della popolazione è emigrata a Torino, occupandosi nei set-tori dell’edilizia, della macelleria, dell’auto. Questo improvviso depauperamento demo-grafico con l’esodo di intere parentele ha accresciuto ancor più l’aspetto di marginali-tà di Valleandona, connotandola di elementi di immobilismo, di distanza culturale e so-cio-economica.

Le terre, poco tempo fa tutte coltivate, ora sono ridate ai boschi, quasi che l’antica identità di silva aspera riprendesse di nuovo il sopravvento. Gran parte della popola-zione ha lasciato il paese per Torino e per la ricerca di un benessere nuovo. Da tutto ciò si sono formati su queste popolazioni alcuni pregiudizi e stereotipi, sulla ingenuità della popolazione che le stesse commedie di Macario hanno ripetuto. Si tratta di ste-reotipi infondati se si considerano gli avvenimenti che in questi ultimi decenni hanno caratterizzato il territorio valleandonese; ultimo tra i quali è l’istituzione della Riserva Naturale Palentologica. La popolazione ha saputo trarre da tale convivenza e collabo-razione stimoli e opportunità per nuove micro-attività: agriturismi e bed and breack-fast, promozione di prodotti locali, attività culturali, pubblicazioni. Tutti, (se ne ha la ri-prova aprendo i rispettivi siti on line) utilizzano l’immagine e il logo del Parco Naturale per promuovere la loro attività.

L’identità di questo territorio e comunità saprà evitare il pericolo di diventare una sem-plice periferia urbana, per rappresentare anch’essa una piccola sfida per il prossimo millennio?

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Vallandona: mille anni di storia

«Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi»

(Marcel Proust).

La storia di un territorio e di una popolazione è diversa a seconda di chi la osserva e di chi mantiene vivo ciò che il tempo cancella. È lo sguardo che dà un senso, e quindi dà vita a ciò ci circonda. La storia diventa così il racconto fatto per curiosità e per ne-cessità. Necessità, perché senza memoria non ci si muove. La storia è appunto il tem-po che ha un senso e una memoria.

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Una comunità diventa tanto più matura quanto più riflette sulle sue proprie fonti stori-che e sui tempi e luoghi in cui è nata; diventa tanto più civile quanto più dedica atten-zione alla sua storia e alla conservazione della sua memoria. Alla ingenua immagine che il «fare storia» sui propri «mondi vitali» sia un inutile elenco di date e di nomi, si so-stituisce, invece, l’utilità di ricostruire le antiche forme dell’abitare, del lavorare, del credere, del riprodursi, del lottare. Ricostruire oggi l’identità della comunità passata di Valleandona è come rifondare la comunità attuale nell’immaginario privilegiato delle sue origini.

Il bel libro di Giovanni Remonda sulla storia di Valleandona è appunto il frutto di un nuovo sguardo, che invita a una grande passeggiata nel tempo e nel territorio delle genti andonesi. È un invito a rivisitare tempi e spazi lontani e in parte dimenticati. Ogni pagina del volume è pervasa dalla curiosità di chi ha vissuto i luoghi che descri-ve e ora tenta di darsene ragione ricercandone la voce e la memoria. Il tutto fatto con lo spirito di una affettuosa riconoscenza verso questo piccolo e antico borgo e verso i suoi abitanti.

Le colline e vallate andonesi documentano così non solo una loro ricca storia geologi-ca e paleontologica, ma anche una loro tipica storia sociale. La vita quotidiana di que-sta popolazione, raccontata senza veli e senza rimpianti, fa rivivere in modo crudo la fatica, i diverbi, le violenze, il duro mestiere di vivere, ma anche le feste, le solidarietà, le tradizioni e i rituali religiosi. Nella rievocazione di tanti fatti e nella descrizione dei luoghi trapelano affanni, drammi e liricità.

La ricostruzione che ne fa l’autore è poi tanto intrigante e illustrata con tanti volti e fo-tografie da sembrare una «bella storia» che tutti vogliono che «si conti ancora», come dice sempre l’inizio di ogni fiaba. Ancor più, se si pensa che questa storia è il risultato non solo di esperienze collettive di uomini e donne, ma anche di eventi geologici e, in questo caso possiamo ben dirlo, di immense moltitudini di esseri marini dei millenni passati.

L’autore ha ricercato tutto l’esistente negli archivi locali e nazionali, fin dal primo docu-mento datato 969; ha parlato con la popolazione; ha classificato centinaia e centinaia

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di fotografie, documenti, diari, ecc. Se la terra parla di un linguaggio da decifrare, gli archivi comunali ed ecclesiastici raccolgono la contabilità del quotidiano e rivelano una sorprendente attualità: carte, spesso fuggite al destino della polvere, atti di com-pra-vendita, denunce, sentenze di tribunali, lettere anonime conservate in qualche fal-done, ecc. Ma ogni documento è in grado di indicarci un ordine di lettura, mai obietti-vo, ma rispondente in ogni caso ad un percorso del reale. In questa ricostruzione, frut-to di anni di ricerche, scompare la differenza tra storia «alta», scritta e colta, e storia «bassa», orale, popolare, folk.

Giovanni Remonda ricostruisce lo sviluppo del senso di appartenenza, quasi etnica, degli abitanti e delle famiglie andonesi; lo fa attraverso la rappresentazione attenta e documentata delle vicende della scuola, della parrocchia, delle guerre, delle emigra-zioni, della cronaca quotidiana; il tutto con una ricca rappresentazione fotografica. Ri-esce a mettere a fuoco anche i rapporti che questo piccolo borgo ha avuto con le isti-tuzioni statali, militari, economiche, italiane e, in alcuni casi, anche oltre l’Italia, come nelle vicende emigratorie verso l’Alta Savoia e la Francia durante la costruzione della Galleria del Freius.

Che tipo di paese e di cultura emerge da questa storia? Gli studiosi parlerebbero di una sub-cultura tradizionalista, definita non nei termini del tradizionalismo romantico, ma di quello descritto dagli antropologici, cioè di cultura localistica tesa al manteni-mento delle istituzioni, dei modelli di vita sociale e religiosa. È il tradizionalismo dei gruppi corporati-chiusi, cioè di quelle realtà contadine o montane, a base territoriale delimitata in cui è elevato il senso di appartenenza locale e minimo il senso di apparte-nenza universalistico. L’identità della comunità valleandonese quale emerge da que-sta ricostruzione presenta tutti gli aspetti di questa tradizione introversa e schiva, fat-ta di esperienze e modi di vita tramandati, fino a qualche tempo fa, solo con contatti locali e personali; e perciò difficili da cogliere dall’esterno.

Così descritto, anche questo paesaggio andonese è dunque ben di più di una espres-sione spaziale: è il prodotto di vite, di storie e di culture di lunga durata. Un luogo è sempre anche una cultura localizzata nel tempo e nello spazio. Il luogo valleandonese è l’anello delle due strade del giorno e della sera (via Serale) dentro e attorno alle qua-li è stato costruito nel medioevo il piccolo borgo abitato.

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Ogni luogo è sempre segnato da sue tipiche scansioni tra spazi sacri e spazi profani, segni delle stagioni, rituali della vita e della morte, forme del lavorare e del divertirsi. Il paesaggio delle valli andonesi non appartiene a nessuno dei tipi culturali descritti da-gli studiosi. Del territorio astigiano non ha la dolcezza del Monferrato né l’altezza pro-duttiva e selvaggia della Langhe. È soltanto un linotipo del fondo marino del periodo del pliocene. Non ha particolare bellezza, ma solo sorprendenti caratteristiche.

Le valli andonesi sono state indicate fin dal tempo dei romani come silva aspera. Ma è in queste anguste colline e piccole valli che è avvenuto il primitivo insediamento umano che ci ha preceduto.

Stiamo assistendo, oggi, anche a Valleandona, al formarsi di un nuovo paesaggio nel quale coesisteranno nuove piccole attività turistiche e agricole e nuove forme residen-ziali? Stiamo forse assistendo alla nascita di una nuova piccola economia e di nuovi rapporti sociali?

Nell’epoca attuale tendente al disincanto e alla secolarizzazione, lo spaesamento è un terreno fertile per il formarsi di culture tutte rivolte verso i valori tradizionali e locali-stici, verso un passato che si vorrebbe interiorizzare come unica radice del presente. Queste visioni diventano marginali e negative, quando si trasformano in manie folklori-stiche rivolte verso il tempo andato.

Nel libro di Remonda, al contrario, non c’è alcun rimpianto né la mania del «bel tem-po che fu»; ma piuttosto l’interesse per questo territorio, per la storia e cultura del suo futuro. È l’interesse per le tante iniziative, seppur esili e spontanee che si sono succedute qui, in questi ultimi anni, in particolare dalla nascita della Riserva Naturale Speciale Paleontologica.

Questa storia e questi «angoli» di vita e di tradizione, nessuno finora li aveva racconta-ti, se non in brevi cenni. E questo è un ultimo pregio del libro di Giovanni Remonda.

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