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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE
Corso di Laurea triennale in Storia
Tesi di Laurea
DINAMICHE FAMILIARI NEL CONTESTO DI
RELAZIONI FRA IVREA E CANAVESE.
UN BILANCIO PER PROBLEMI
Relatore Candidato
Giuseppe Sergi Alberto Sanna
Anno Accademico 2012-2013
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INDICE
INTRODUZIONE p. 5
CAPITOLO PRIMO ORIGINE E CONTINUITÀ: LE FAMIGLIE SIGNORILI
EPOREDIESI E CANAVESANE
1. Origine dell’affermazione signorile delle famiglie
eporediesi 8
2. Origine delle famiglie comitali del Canavese 15
3. Origine delle altre famiglie dell’aristocrazia militare
del Canavese 17
4. La particolarità del Canavese 19
CAPITOLO SECONDO CLIENTELE VASSALLATICHE E RAPPORTI DI SOLIDARIETÀ
1. Legami vassallatico-beneficiari e istituti feudali 23
2. La signoria vescovile in Ivrea 25
3. Vassallo o senior? L’indefinita posizione del comune
di Ivrea 32
4. L’aristocrazia militare del contado 39
CAPITOLO TERZO FRA CITTÀ E CONTADO: I PATRIMONI DELLE FAMIGLIE
SIGNORILI
1. Tipologie di ricchezza delle famiglie signorili eporediesi 43
2. Patrimoni fondiari in Canavese 56
CAPITOLO QUARTO STRATEGIE MATRIMONIALI E POLITICHE FAMILIARI:
APPROFONDIMENTO SU NOMI E PARENTELE
1. I conti del Canavese 71
2. Le altre famiglie del contado canavesano 76
3. Le famiglie cittadine 78
4. Conclusioni sull’analisi delle strategie matrimoniali 83
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CAPITOLO QUINTO DINAMICHE POLITICHE E CARRIERE FAMILIARI
1. Dinamiche politiche e carriere familiari: Ivrea e Canavese
tra Due e Trecento 85
2. Canavese ed Eporediese dopo la dedizione ai Savoia
del 1313 95
3. Conclusioni 97
BIBLIOGRAFIA 102
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Introduzione
Negli ultimi vent’anni nuove ricerche di carattere prosopografico-
ricostruttivo su Ivrea e Canavese sono state validamente condotte da studiosi che
hanno ricevuto una duplice accoglienza positiva, dal mondo della cultura locale e
dalla comunità scientifica. Medievisti dell’ultima generazione hanno saputo
aggiornare le soluzioni raggiunte dall’erudizione tardo-ottocentesca e primo-
novecentesca riempiendone i vuoti o, all’opposto, smontandone integrazioni
fantasiose, e infine arricchendone le trattazioni di spunti problematici molto
aggiornati. Questa tesi si propone un provvisorio tentativo di sviluppo di quegli
spunti: si colloca, dunque, a metà strada fra risultati già conseguiti e proposte di
ulteriori conclusioni di carattere problematico.
Sono gli interrogativi a essere avanzati, come risulta dalla struttura stessa
del lavoro. La suddivisione in cinque capitoli riflette altrettanti argomenti: a un
approfondimento di dinamiche patrimoniali e politiche sono state affiancate le
strategie matrimoniali – alle quali è stato dedicato un capitolo a parte –
protagoniste decisive di dette dinamiche, oltre a diversi suggerimenti utili per
illustrare il rapporto città-contado.
Il primo di questi capitoli offre una rapida ricognizione dei protagonisti
considerati all’interno di questo studio, ovvero i lignaggi cittadini e l’aristocrazia
militare rappresentata dai conti del Canavese e dai castellani e signori fondiari, nei
decenni compresi tra la metà del XII secolo e i primi tre decenni del XIV; con una
rassegna sia delle origini e dei presupposti che risultano essere alla base del loro
potere, della loro influenza e delle loro fortune, sia del contesto in cui operarono
questi gruppi familiari: un contesto – come si vedrà – dal punto di vista
ambientale, ma soprattutto sociale, decisamente particolare. Il capitolo secondo
affronta, invece, il tema dei rapporti vassallatico-beneficiari nella città di Ivrea,
dove senior indiscusso risulta essere, almeno fino alla seconda metà del Duecento,
il vescovo: con un sistema di relazioni in parziale contrasto con quello che in quei
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decenni vedeva il comune cittadino quale naturale vertice di raccordo territoriale e
sociale. È risultato invece ancora poco definibile il quadro di relazioni esistenti in
Canavese, dove tuttavia appare diffusa la pratica di concessioni feudali per
ottenere fedeltà e sostegno militare.
Seguono altri due capitoli: uno sul possesso e la natura dei patrimoni
familiari, l’altro sulle strategie matrimoniali che a quei possessi rinviavano o al
cui ampliamento spesso aspiravano. Per il primo di questi (capitolo terzo) si è
fatto affidamento ai tanti studi volti a delineare la ricchezza, l’influenza e il
prestigio dei gruppi familiari canavesani ed eporediesi, mentre il secondo
(capitolo quarto) tenta di aggiungere a dati raccolti e trasmessi dalle ricerche degli
ultimi anni pochi spunti e riflessioni elaborate da chi scrive per fornire alcune
soluzioni originali da affiancare ad alcune proposte già avanzate.
Infine, il capitolo quinto unisce ai dati più legati alla storia evenemenziale
altre informazioni, relative ai traguardi, in particolare politici, raggiunti all’inizio
del Trecento dalle famiglie di Ivrea e Canavese prese in esame. Si trovano inoltre
brevi cenni sulle vicende politiche di famiglie urbane da poco entrate a far parte
dell’élite cittadina, giunte in quegli anni a costruire un’influenza e una solidità
patrimoniale che nulla avevano da invidiare a quei gruppi che da decenni avevano
in mano il controllo della vita politica in città. In questo capitolo sono inoltre
riportati i travagli politico-militari incontrati nella seconda metà del Duecento e
all’inizio del secolo successivo da una regione come quella canavesana da tempo
divisa al suo interno: una regione che aveva ormai perso l’equilibrio di forze
eterogenee che l’aveva connotata nella prima parte del secolo XIII.
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Capitolo primo
Origine e continuità: le famiglie signorili eporediesi e canavesane
I nomi di personaggi appartenenti alle famiglie signorili di Ivrea o quelle
dell’aristocrazia militare del Canavese che compaiono nella vasta documentazione
eporediese sia laica sia ecclesiastica costituiscono, almeno sino alla fine del secolo
XI, dei ‘casi isolati’. Essi rendono «necessariamente indiziaria ogni riflessione»
sulla possibile continuità fra il «ceto militare» attestato tra la fine del secolo X e
l’XI e quello presente nel secolo XII che permetterebbe di ritrovare così, a
distanza di centocinquant’anni, alcuni dei gruppi che entrarono a far parte della
compagine comunale o che s’insediarono in tutto il territorio canavesano1.
Elemento peculiare dei primi anni del secolo XI fu la polarizzazione «dentro e
intorno alla città» di conflitti e schieramenti che coinvolsero attori politici con
radicamenti diversi e con buona mobilità militare2. Dopo la morte di re Arduino, i
seguaci del suo partito, insieme con i suoi discendenti, riuscirono «a mantenere
frammenti di potere in contrasto con il vescovo»3, trovando nel territorio
eporediese un terreno fertile su cui attestarsi poter prosperare a lungo in maniera
indipendente. Di per sé i vescovi, dall’inizio dell’XI secolo, videro riconosciuto
«de iure» un potere esistente «de facto» e che cominciarono a organizzarlo
sull’antico sistema amministrativo carolingio. Fu in questo periodo che le varie
famiglie signorili assunsero in quest’area un ruolo politico nuovo rispetto al
passato, concorrente con quello della chiesa vescovile, nel contado eporediese4.
La lunga permanenza nel territorio di questa potente aristocrazia militare
contribuì a rallentare l’affermazione del potere vescovile a Ivrea, contrariamente a
quanto avvenne in altre aree dell’antica marca eporediese, Vercelli e Novara ad
1 A. FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” al primo comune: scambi sociali con il territorio, in
«Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», CX (2010), 2, p. 431. 2 Op. cit., pp. 418-419; G. SERGI, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni
medievali, Torino 1995, pp. 328-343. 3 Op. cit., p. 157.
4 A. OREGLIA, Le famiglie signorili del Canavese nei secoli XII e XIII. Prosopografia,
genealogia, vicende patrimoniali e politiche dei “comites et castellani Canapicii” coinvolti nelle
vicende della “societas Canapicii”, Tesi di laurea inedita in Esegesi delle fonti di Storia
Medievale, Università degli Studi di Torino, Sezione di Medievistica e Paleografia, p. 3.
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esempio, dove fu più rapido5. La presenza nel Canavese di sacche di resistenza
alleate con gli eredi di Arduino complicò la situazione, notevolmente eterogenea e
difficilmente inquadrabile dal punto di vista territoriale: la regione canavesana è
stata di recente assimilata a «un’area del Piemonte settentrionale formata da
‘enclaves e discontinuità […] ambiti sovrapposti e mal definiti che ostacolarono le
formazioni di stabili quadri territoriali’»6.
Sebbene sia preferibile affrontare unitariamente il Canavese e la città di
Ivrea nell’analisi delle basi economiche, e quindi del profilo sociale di personaggi
e famiglie che la documentazione «fa intravedere con particolare avarizia»,
evitando inoltre definizioni aprioristiche come «cittadino» o «rurale»7, per meglio
esporne le caratteristiche e la fisionomia, d’ora in avanti si separeranno i diversi
lignaggi di ambito eporediese dai gruppi signorili canavesani.
1. Origine dell’affermazione signorile delle famiglie eporediesi
All’interno di uno spazio permeabile, dove la linea di confine fra città e
campagna si stava definendo progressivamente presentandosi «in qualche misura
plasmabile», nel corso dell’XI secolo si colgono, benché in numero inferiore
rispetto ai primi decenni del secolo successivo, scampoli di una società che
cominciò a concentrare i propri interessi all’interno della «civitas»: indizi di
potenziamenti familiari che suggeriscono, dalla metà del secolo XII, l’esistenza di
due diverse aristocrazie cittadine. Alla prima appartengono i nuclei familiari di
antica tradizione urbana8, attestati in prevalenza fra i collaboratori del vescovo e i
suoi vassalli, che verso la fine del secolo s’identificarono con i vertici delle
5 Op. cit., pp. 3-5.
6 A. FALOPPA, Percorsi familiari e convergenze istituzionali nel primo comune eporediese,
in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», CXI (2011), 2, p. 419, n. 98; l’autrice ritiene che
la situazione del Piemonte dei secoli XI-XIII sia assimilabile a quella descritta da A. GAMBERINI,
La territorialità nel Basso Medioevo: un problema chiuso? Osservazioni a margine della vicenda
di Reggio, in ID., Lo stato visconteo: linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, p.
25 sg.; Sergi legge l’intervento di Olderico Manfredi, «insieme con altri fattori», come un ostacolo
nei confronti di Ivrea nell’allineamento «agli sviluppi vescovili e precocemente comunali di altre
città del Piemonte settentrionale»: SERGI, I confini del potere cit., p. 84, n. 117 e p. 338; ripreso
anche in ID., La marca e i marchesi, in Ivrea. Ventun secoli di storia, a cura di G. S. PENE VIDARI,
Pavone Canavese 2001, pp. 89-122. 7 FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 419 sg.
8 Il riferimento è ai gruppi dei Solero, dei del Pozzo e dei de Civitate: la storia dei Solero è
così profondamente intrecciata a quella della città e dei primi consolati, da rappresentare «un
elemento di comprensione dei percorsi di ascesa del ceto dirigente eporediese», FALOPPA, Percorsi
familiari cit., p. 416.
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magistrature comunali. Nella seconda sono annoverabili famiglie con disponibilità
fondiaria consistente e grande liquidità, «forse di immigrazione più recente» o di
media estrazione sociale, che privilegiarono un rapporto con il capitolo della
cattedrale – spesso concretizzatosi attraverso l’ingresso al suo interno di uno o più
membri in veste di canonici – o con altri enti religiosi: ma la caratteristica di
questo secondo gruppo di «cives» è la loro estraneità rispetto alla vita politica del
comune, almeno fino agli inizi del secolo XIII9. L’identificazione di alcune
famiglie cittadine come ceto aristocratico va fatta rientrare all’interno dei diversi
progetti che s’intersecarono in variabili mosaici di potere – come la discendenza
dal ceto dei «secundi milites», la tendenza a instaurare legami interfamiliari e la
capacità di allacciare contatti, e saperli conservare, con i centri monastici, la
chiesa cittadina e il suo vescovo – e contraddistinsero la natura aristocratica di
alcune famiglie.
I membri della famiglia dei Solero10
discesero probabilmente dai seguaci
cittadini di Arduino, mentre l’appartenenza alla curia vescovile – che caratterizzò
dapprima i de Civitate, i del Pozzo11
e gli stessi Solero – rappresentò
indubbiamente una delle possibili vie d’affermazione, ma non l’unica: i Suriano di
Albiano, i Genetasio e i Salerano, ad esempio, monopolizzarono le magistrature
cittadine per alcuni anni nella seconda metà del XII secolo senza, tuttavia, entrare
a far parte della cerchia dei «fideles» del vescovo. L’appartenenza al capitolo, la
vicinanza agli enti religiosi e al vescovo – non nel ruolo di vassalli, ma di
collaboratori finanziari o gestori delle proprietà ecclesiastiche come furono i della
Torre – di volta in volta furono usate come «possibili erogatori di prestigio, di
concessioni fondiarie e, soprattutto, a partire del Duecento, di prerogative
signorili», come parte di un progetto che è innanzitutto di consolidamento della
propria posizione fra i notabili cittadini – l’esempio dei Caldera è calzante, poiché
9 FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 420 sgg.
10 «Bonfiglio de Solario de civitate Iporegie» fu seguace di Arduino ed è identificabile
come il capostipite della famiglia: questa testimonianza colloca questo lignaggio in ambiente
urbano già nel secolo X e lo definisce precocemente in senso aristocratico e militare, FALOPPA,
Percorsi familiari cit., p. 417. 11
«Le attestazioni del secolo XII non sembrano essere sufficienti per spiegare l’ingresso
precoce dei del Pozzo nella clientela vassallatica, avvenuto apparentemente senza una pregressa
politica di rafforzamento patrimoniale e, in assenza di comprovati legami di parentela acquisita, di
azione comune – con famiglie eminenti di estrazione cittadina oppure signorili rurali –, che
avessero avuto funzione di ‘promozione’ di un gruppo che cercava percorsi di ascesa», op. cit., p.
448 sg.
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i membri di questo lignaggio privilegiarono il rapporto con il capitolo cattedrale
acquisendo visibilità pubblica e considerevoli possedimenti fondiari – e che in
qualche caso ha caratteri imprenditoriali12
.
Fra i potenziali vassalli del vescovo eporediese è possibile collocare, inoltre,
un gruppo di personaggi appartenenti al ‘ceto intellettuale’ dei giudici e, in misura
minore, dei religiosi e dei notai, capace di adottare gli stessi canali di
affermazione intrapresi dagli altri individui delle famiglie di tradizione cittadina: i
giudici furono «possessores» del contado durante l’intero secolo XI e ciò
arricchisce di ulteriori elementi la fisionomia di questo ceto. Ma il territorio
canavesano è riconducibile a «un contesto più ampio, comune all’Italia
settentrionale dei secoli X-XI», dove le «famiglie che esprimono iudices si
muovono allo stesso livello sociale delle famiglie che esprimono vassi» e, in
generale, dove «il mestiere connesso con l’amministrazione della giustizia
costituisce uno strumento di ulteriore promozione sociale per le famiglie in
ascesa»13
.
L’elemento caratterizzante la società urbana eporediese della prima metà del
secolo XI è la presenza di individui o piccoli gruppi familiari che agiscono
all’interno del territorio urbano in prevalenza come acquirenti di immobili e di
terre: in particolare, i Grasso, i Brusato, i Rucamerdosa, i Poma, quindi i de Vita.
Verso la fine del secolo XI, si realizzò un «precoce fenomeno di specializzazione
commerciale delle strade», con una nutrita presenza di botteghe e attività
commerciali poste all’interno della città e alla centralità che stava assumendo in
questo secolo il territorio urbano rispetto a quello del contado14
. Il processo
d’inurbamento coinvolse categorie piuttosto eterogenee, personaggi di estrazione
sociale diversa15
: si tratta per lo più di «presenze isolate che non consentono
12
Op. cit., p. 493. 13
Si veda il cap. V. 14
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 446, n. 99; C. TOSCO, Ricerche di storia
dell’urbanistica in Piemonte: la città di Ivrea dal X al XIV secolo, in «Bollettino Storico-
Bibliografico Subalpino», XCIV (1996), 2, p. 487 sgg. 15
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 457; alcuni cognomi tratti dalla toponomastica
cittadina – come i de Mercato e i Rucarmedosa – denunciavano un’origine modesta di alcune
famiglie dell’aristocrazia consolare del secolo XII: «forse si trattava di gruppi che si inurbarono
durante la fase di espansione dell’abitato cittadino tra la fine del secolo XI e i primi decenni del
successivo», EAD., Percorsi familiari cit., p. 490 sg.
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costruzioni di genealogie»16
, ma di cui è tuttavia possibile individuare i percorsi di
affermazione e di promozione sociale per alcune generazioni; una presenza
crescente di artigiani e di un ceto medio con buone possibilità economiche17
,
probabilmente di recente immigrazione dal contado, i cui interessi sono rivolti in
primo luogo al territorio urbano e, in parte, a una ‘colonizzazione’ del contado18
.
Nella prima metà del XII secolo, la vocazione, tutta urbana, a intraprendere
una politica di acquisizione di case e di terre nel contado fu tendenza manifesta in
tutta l’Italia settentrionale. Se si paragona al caso delle famiglie cittadine di
Vercelli19
, quelle eporediesi non trovarono nelle acquisizioni patrimoniali un
elemento dinamico interno a un percorso che modificasse, almeno non da subito,
la loro «condizione di partenza»20
: proprio in questo periodo, infatti, si costituì a
Vercelli il primo «governo comunale istituzionalizzato»21
. Nel territorio cittadino
eporediese si mantenne sostanzialmente inalterata la fisionomia di un ceto medio,
sul cui reale milieu il silenzio documentario resta notevole22
.
16
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 456 sgg. 17
R. BORDONE, Potenza vescovile e organismo comunale, in Storia della Chiesa di Ivrea:
dalle origini al XV secolo, a cura di G. CRACCO, Roma 1998, p. 810. 18
Nella seconda metà del secolo l’abitato cominciò a espandersi: furono creati nuovi
borghi, nell’area compresa fra la sede vescovile e la Dora, e l’architettura religiosa visse un florido
periodo di sviluppo, FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 490, n. 446; A. CASTAGNETTI, Feudalità e
società comunale, in Medioevo, Mezzogiorno, Mediterraneo. Studi in onore di Mario del Treppo, a
cura di G. ROSSETTI e G. VITOLO, voll. 2, Napoli 2000, I, p. 209 sottolinea come siano le famiglie
«cittadine, antiche o di recente immigrazione quelle che poterono usufruire delle possibilità offerte
dalla crescita demica ed economica delle città». 19
A. DEGRANDI, Vassalli cittadini e vassalli rurali nel Vercellese del XII secolo, in
«Bollettino Storico-Bollettino Subalpino», XCI (1993), 1, pp. 6-7 e 14-21: i «cives» vercellesi
disponevano di grande liquidità che fu investita in acquisizioni e in attività finanziarie in favore del
vescovo e dei signori rurali, colpiti da difficoltà economiche proprio in questo periodo: si tratta di
«una nuova aristocrazia militare», un ceto in ascesa, «meno esclusivo» di quello del contado, che
attuò «una politica militare di penetrazione nel contado vercellese» attraverso lo strumento del
feudo oblato per costruire una rete di alleanze con i signori rurali e che mostrò interesse per i diritti
e i proventi legati al commercio. Il potenziamento di cui furono protagoniste, fu contraddistinto da
«acquisti frammentari» e, in seguito, da una fase di «costruzione di un possesso fondiario ricco di
potenzialità signorili». Inoltre, Degrandi ricorda i favoritismi compiuti verso i vassalli dai vescovi
vercellesi, in particolare da Guala Bondoni; negli anni in cui il comune e l’episcopato di Vercelli
appoggiarono l’imperatore Federico I nella guerra contro la Lega lombarda, vennero a convergere
le esigenze delle due parti: il presule cercava somme di denaro atte a finanziare la guerra che solo
le famiglie cittadine, bisognose di nuove opportunità di investimento, potevano offrirgli. 20
Nel corso del secolo XII, aree cittadine ben definite «furono oggetto di numerose
transazioni di case e terreni alienati o concessi a fronte di una fase di ripopolamento»; l’attenzione
dei gruppi familiari cittadini fu rivolta ad appezzamenti e case collocate all’interno del territorio
urbano, nell’area dove queste famiglie tendevano a insediarsi»: FALOPPA, Ivrea dalla “civitas”
cit., pp. 455-461; vedi anche EAD., Percorsi familiari cit., p. 491. 21
DEGRANDI, Vassalli cittadini cit., p. 16. 22
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 459.
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Infine, è stato impossibile per gli storici definire un ceto urbano eporediese
dedito ad attività commerciali: nemmeno l’importante commercio e trasporto
delle pietre da macina dalla Valle d’Aosta verso i mercati milanesi e d’oltralpe ha
dato luogo all’individuazione di gruppi familiari. Tale attività sembrava costituire
«una sorta di monopolio spartito fra vescovo e comune», con tentativi d’ingerenze
esterne da parte delle grandi famiglie e di rivali politici23
. Ne è un esempio la
«carta concordie» del 1180 un documento che ricomponeva la lite, fra il marchese
del Monferrato e i consoli eporediesi, sorta per il controllo dei diritti sui transiti e
il commercio delle mole e la «mercandia grani» di cui furono protagonisti, in
tempi diversi, oltre al comune di Ivrea e al marchese del Monferrato, il vescovo di
Ivrea, il potente comune di Vercelli e i conti di Biandrate24
. Va ricordato, inoltre,
che il 1180 è l’anno che segna l’ingresso dei signori di Bard nella documentazione
di Ivrea25
. Anche questa famiglia fu coinvolta nella lite che sfociò nella stesura
della «carta concordie»: con tale documento, infatti, fu regolata la condotta che
questi signori dovevano tenere riguardo al pedaggio e al transito delle pietre da
macina che avveniva sulle terre da loro controllate26
. La zona in cui sorge il
23
Op. cit., p. 420, n. 5. 24
Il libro rosso del Comune di Ivrea, a cura di G. ASSANDRIA, Pinerolo 1914 (Biblioteca
della Società Storica Subalpina, LXXIV), p. 168, doc. 178; per accenni su questo argomento:
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 411-415; BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 804 sgg.; M. C.
DAVISO DI CHARVENSOD, I pedaggi nelle Alpi occidentali nel Medioevo, Torino 1961 (Miscellanea
di Storia italiana, s. IV, 5), pp. 373-379; P. GRILLO, Il commercio delle mole in Piemonte nel basso
Medioevo (inizi XIV inizi XV), in Mulini da grano nel Piemonte medievale, a cura di R. COMBA,
Cuneo 1993, pp. 215-230; per gli eventi che ne derivarono: G. S. PENE VIDARI, Vicende e problemi
della “fedeltà” eporediese verso Vercelli per Bollengo e Sant’Urbano, in Vercelli nel secolo XIII
(Atti del primo congresso storico vercellese), Vercelli 1984, pp. 28-63; P. MAINONI, Un’economia
cittadina nel XII secolo: Vercelli, in Vercelli nel secolo XII cit., pp. 332-337; sull’importanza
commerciale dei centri canavesani si veda R. BORDONE, Fisionomia di un territorio medievale, in
Tracce di un percorso medievale: chiese romaniche nella diocesi di Ivrea, a cura di R. IENTILE,
Torino 1998, pp. 13-21. 25
A. FALOPPA, Tracce di aristocrazia valdostana nella documentazione eporediese: i
signori di Bard, in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», C (2002), 2, pp. 658-659: la
presenza di questa famiglia in un’area esterna, seppur di confine, quale era Ivrea, è elemento
«originale»; sul fronte eporediese non si hanno notizie precedenti a questa data, mentre in ambito
valdostano si sa che i Bard condivisero il ruolo di «advocati» del vescovo di Aosta con il conte
Umberto II di Savoia. Questa famiglia vantava «solide radici nella regione valdostana»; al tempo
stesso, fu attratta per almeno un trentennio dall’esperienza comunale italica più vicina, quella
eporediese. Questi «domini» forniscono un buon esempio di pluralità d’interessi, al cui interno è
possibile distinguere la normale strategia familiare, caratterizzata dai rapporti con il vescovo di
Aosta e con il conte di Savoia, e la tendenza «a curare interessi legati ai proventi del commercio,
in questo caso quello delle pietre da macina fra Aosta e Ivrea». 26
Op. cit., p. 659 e n. 4.
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castello di Bard fu un’«area di confine incastellata27
, caratterizzata da uno dei
punti di riscossione di pedaggio più cruciali d’Europa»28
, che influì sulle scelte
politiche di questa famiglia e che le permise di instaurare un potere signorile
locale in quei luoghi, al confine fra i regni di Borgogna e d’Italia e fra «due
regioni storicamente ben definite»29
, la valle d’Aosta e il Canavese.
Si può dunque notare come al principio dei processi di affermazione
signorile presenti nella città di Ivrea fra XI e XII secolo si trovasse una buona
parte di lignaggi e individui di estrazione urbana30
che, da un lato fu presente «nei
più importanti centri di controllo del potere»31
– la curia vescovile, il governo
comunale, il capitolo cattedrale – considerati come importanti fonti di prestigio,
dall’altro mantenne, fino a inizio Duecento, un «radicamento costante nella
collettività cittadina e nelle sue iniziative autonome»32
. Le diverse famiglie
appartenevano «a un certo mondo cittadino non necessariamente dotato di diritti
signorili» e quasi del tutto alieno da legami con il mondo rurale, non paragonabile
a quello del contado di stampo signorile, per estensione del proprio patrimonio
fondiario e per fisionomia sociale, né con quello dei gruppi che entrarono a far
parte delle prime magistrature consolari33
. Nello scambio fra la città e contado
sono individuabili fasi cronologiche: a un primo insignorimento di alcune famiglie
urbane, seguì l’ingresso nelle magistrature comunali di «domini» il cui carattere
27
Si veda A. FALOPPA, La connessione strada-castello in un’area alpina: Bard al confine
della Valle d’Aosta (secoli IX - XIII), in «Archivio per l’Alto Adige», vv. 99/100 (2005/06), p. 144
sg. dove si sottolinea la continuità che questo insediamento aveva col sistema di chiuse
tardoromane e longobarde che col tempo trasformarono il «loro carattere esclusivamente strategico
e militare» per svolgere la funzione di barriere doganali, luoghi di riscossione dei pedaggi posti
nelle zone alpine e, «come nel caso di Bard», in quelle di confine; cfr. con E. MOLLO, Le chiuse:
realtà e rappresentazioni mentali del confine alpino nel medioevo, in «Bollettino Storico-
Bibliografico Subalpino», LXXXIV (1986). 28
DAVISO DI CHARVENSOD, I pedaggi cit., p. 46 sgg. e p. 373; cfr. P. CANCIAN, Le Alpi
confine permeabile, in Valle d’Aosta porta del Giubileo, a cura di G. SERGI e D. TUNIZ, Cinisello
Balsamo 1999, pp. 13-23, in particolare pp. 17-23. 29
FALOPPA, Tracce di aristocrazia valdostana cit., pp. 657-658. 30
«Vi fanno parte i ceti eminenti tradizionali, mercanti e personaggi che esercitano uffici
pubblici – è il caso dei giudici – che acquistano nuova importanza nel mondo urbano», DEGRANDI,
Vassalli cittadini cit., p. 15. 31
Op. cit., p. 21. 32
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 394-395. 33
Op. cit., p. 493.
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14
aristocratico risulta fuori discussione proprio per l’assestato esercizio di potere
sugli uomini34
.
In epoca carolingia e post carolingia, potere fondiario e comando «erano
categorie patrimoniali piuttosto che signorili, segnalavano ‘ricchezza’ più che
‘potere nobile innato’ o ‘dominio proprio’» ed era attraverso la «consapevolezza
di rango» che la ricchezza ereditaria consentì di creare una «fama di nobiltà»35
. La
«coesione politica e ideologica» della militia derivava dalla pratica del
combattimento a cavallo e dai conseguenti privilegi, ma anche da uno stile di vita
che ne sottintende la superiorità sociale e le conferisce lo status di nobiltà36
. Il
rango di «miles» cominciò a indicare un ceto a evidente carattere militare solo
dopo l’allentamento degli ordinamenti regi e la concentrazione del potere nelle
mani dell’aristocrazia. Dopo un periodo in cui i «milites» erano chiamati a
garantire la «defensio ecclesiae» e l’ordinamento giuridico «all’interno della
comunità cristiana», furono appunto la possibilità di creare un dominio personale
con i propri mezzi e uno stile di vita cavalleresco a far sì che il «significato
cetuale» soppiantasse il «riferimento funzionariale» che fino ad allora il termine
aveva avuto in Italia37
. Per questo si distingue fra aristocrazia, una forma di
eminenza sociale ed economica «riconosciuta in modo informale nel complesso
della società», e nobiltà, un gruppo sociale la cui supremazia è sancita e definita
giuridicamente e si trasmette per via ereditaria38
.
Per questo si vedono le famiglie di «cives» della classe dirigente del primo
comune eporediese cominciare a trarre ispirazione dal modello signorile incarnato
34
Op. cit., p. 495, n. 459. 35
H. KELLER, Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XII), Torino 1995, p. 332 e
sgg. 36
J.-C. MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini. Guerra e conflitti e società nell’Italia
comunale, Milano 2004, pp. 269-357, in particolare pp. 347-350: nel XIII secolo cominciarono a
circolare «termini che fanno riferimento più alla superiorità sociale che alla competenza militare
dei membri della classe dominante», o in grado di mettere in risalto la nobiltà o «l’antichità» delle
famiglie, accanto ai più diffusi milites e militia, i quali, talvolta, passano a indicare il combattente
nel «senso strettamente tecnico» del termine (p. 349); cfr. FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 404,
n. 41. 37
KELLER, Signori e vassalli cit., pp. 335; l’autore inoltre si domanda se le radici della
«coscienza di gruppo della cavalleria occidentale» non siano da ricercare nella «militia» diocesana
e urbana della «nobiltà italiana», op. cit., p. 336. 38
G. ALBERTONI, L. PROVERO, Il feudalesimo in Italia, Roma 2004, p. 91; sull’argomento
dell’ideale cavalleresco nelle città si veda anche R. BORDONE, I ceti dirigenti urbani dalle origini
comunali alla costruzione dei patriziati, in R. BORDONE, G. CASTELNUOVO, G. M. VARANINI, Le
aristocrazie dai signori rurali al patriziato, Roma-Bari 2004, pp. 50-54.
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15
dalla tradizione cavalleresca e dall’aristocrazia signorile del contado – un esempio
indicativo in questa direzione è offerto dalla politica intrapresa dalla famiglia dei
Grasso. Quest’adesione a un modello di stampo signorile rurale atteneva a un
habitus mentale che caratterizzava i gruppi in ascesa, là dove il modello di
riferimento doveva essere necessariamente offerto da chi maturò un prestigio
sociale e un potere socialmente indiscutibile anche se oggetto di concorrenze
politiche. I patrimoni tesero ad arricchirsi – negli anni fra la fine del XII secolo e
il primo ventennio del successivo – di prerogative signorili, spesso legate a nuove
acquisizioni fondiarie nel territorio circostante la città39
. Si trattò di un processo di
«neosignorilizzazione», nel nostro caso, precedente la fase di inurbamento di
alcuni signori rurali e riguardò in modo particolare le famiglie più importanti della
classe dirigente del comune, che colonizzarono in maniera più consistente parte
del contado40
. I nobili del contado, dal canto loro, si affacciarono alla vita
cittadina solo a partire dai primi decenni del secolo XIII, entrando anch’essi a far
parte di un rapporto dialettico con il comune, perché all’interno del territorio
cittadino l’appartenenza alle magistrature fu sempre più uno degli elementi
fondanti dell’élite urbana41
, e condizione di quello che è stato ribattezzato
l’«equivoco nobiliare»42
.
2. Origine delle famiglie comitali del Canavese
È probabile che tra X e XI secolo vi fosse stata una cooptazione fra le fila
dell’aristocrazia di recente ascesa, per la quale la revocabilità dei benefici
concessi era attuabile più facilmente e per cui la ricattabilità era maggiore, anche
se, complessivamente, le origini sociali dei sostenitori di Arduino sono da
considerare eterogenee: tant’è che, alla fine del secolo X, le famiglie radicate in
39
Si veda ad esempio MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini cit., pp. 314-319. 40
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 494. 41
Op. cit., p. 493. 42
R. BORDONE, Introduzione, in Le aristocrazie cit., pp. VIII-IX. Questo ‘equivoco’ o
«paradosso» si presentò quando, da una fase iniziale (secoli XI-XII) in cui il potere esercitato sugli
uomini – si è visto – era dato sufficiente per essere considerati signori, si giunse a una situazione,
un secolo più tardi, in cui i domini del contado, se non possedevano cariche cittadine e non
mantenevano uno status nobiliare «ambiguo», non potevano essere considerati tali, G.
CASTELNUOVO, L’identità politica delle nobiltà cittadine (inizio XIII-inizio XVI secolo), in Le
aristocrazie cit., pp. 226-228.
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16
senso signorile sul contado dovevano essere ancora numericamente limitate43
.
Una parte dell’aristocrazia militare trasse notevole vigore dalla propria
partecipazione alla causa di Arduino: la famiglia dei conti di Pombia44
e, in
particolare, la sua divisione – avvenuta fra il 1034 e il 1070 – in tre rami
(Canavese, Biandrate, da Castello) rivestono un ruolo importante per chi intenda
rintracciare le origini dei gruppi parentali che furono protagonisti nel panorama
politico del Piemonte nord-occidentale durante il periodo che va dalla caduta di
Arduino d’Ivrea alla prima metà del XIII secolo. Coloro che si dissero «conti del
Canavese» non fecero più uso del predicato tradizionale, ma mantennero
comunque il titolo comitale, usato come una sorta di ‘distintivo sociale’45
.
Anche la famiglia dei conti «del Canavese» – predicato che dal 1141
cominciò a indicare tutto l’insieme delle famiglie signorili della zona e non
soltanto una di esse – tra il 1170 e il 1190 si divise in rami. Tale discendenza per
quelli che si dissero conti di Valperga, di San Martino, di Masino e di
Castellamonte sarebbe suggerita dall’uso dell’attributo comitale, nel possesso di
parte del loro patrimonio – «con i castelli sempre in primo piano»46
–, toponimi
dei predicati che, «a seconda della residenza o dell’area di principale interesse
fondiario o del luogo in cui si trovavano ad agire al momento»47
, furono adottati
da queste famiglie. Il Canavese fu teatro dei loro processi di affermazione: in
mano a questi conti si trovava un vasto dominio prediale48
e, soprattutto, «il
43
SERGI, I confini del potere cit., p. 289, n. 1; KELLER, Signori e vassalli cit., pp. 238 e 240
respinge l’interpretazione di vassalli aderenti alla politica di Arduino e appartenenti al ceto dei
valvassori sostenendo, invece, che fossero discendenti della nobiltà fondiaria di epoca carolingia: i
piccoli vassalli facevano parte di quel progetto esclusivamente perché al seguito dei loro signori,
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 429, n. 37. 44
G. ANDENNA, Grandi patrimoni, funzioni pubbliche e famiglie su di un territorio: il
“comitatus Plumbiensis” e i suoi conti dal IX all’XI secolo, in G. ANDENNA, M. NOBILI, R.
PAULER ET ALII, Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo. Marchesi conti e visconti
nel regno italico (secc. IX-XII) (Atti del I Convegno di Pisa 10-11 maggio 1983), Roma 1988, p.
214: seguace di Arduino contro i vescovi di Ivrea, Novara e Vercelli, ed erede di una lunga
tradizione di funzionariato pubblico al servizio dei marchesi anscarici, questa famiglia deteneva
forti presenze patrimoniali nella circoscrizione; si veda anche OREGLIA, Le famiglie signorili cit.,
p. 6. 45
Si veda SERGI, I confini del potere cit., p. 52, ma soprattutto p. 144, in cui si parla di
«maggior utilizzabilità del comitato, distretto meno esteso, e più tradizionale, come elemento
portante di processi di ristrutturazione territoriale e amministrativa» rispetto a un «distretto
maggiore», come la marca; per le vicende legate ai Pombia e ai de Canavese, OREGLIA, Le
famiglie signorili cit. p. 7-106. 46
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 348. 47
Op. cit., p. 94. 48
Cfr. op. cit., p. 7 sgg.
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17
controllo della maggior parte dei castelli» dislocati capillarmente nella regione; il
loro possesso, insieme con il controllo di un’ampia clientela vassallatica che a essi
faceva capo, conferì a questi signori «la possibilità di organizzare e controllare il
territorio»49
.
Nel giro di una generazione, esito probabilmente della crescita numerica dei
componenti di queste famiglie, si verificò una seconda ramificazione. Nel primo
decennio del Duecento troviamo così i conti di Rivarolo, di Front e di
Castelnuovo (legati ai San Martino), quelli di Montalenghe, di Agliè e di Brosso
(legati ai Castellamonte), e infine quelli di Rivara (legati ai Valperga). Tuttavia si
dubita sull’effettiva divisione in altri rami, poiché questi potrebbero indicare la
semplice «adozione di predicati differenti per distinguere membri omonimi di una
stessa famiglia»50
.
3. Origine delle altre famiglie dell’aristocrazia militare del Canavese
Sin dalla metà degli anni Venti del XIII secolo apparvero nelle fonti – in
modo analogo alle famiglie comitali – alcuni personaggi dotati di patrimonio,
castelli e clientele vassallatiche, i ‘castellani’: essi risiedevano in luoghi fortificati
che possedevano insieme ai diritti e alle terre che componevano le relative
castellanie. Le affermazioni signorili percorrevano «molto spesso» la strada della
«fortificazione spontanea di terre allodiali». I castelli, «patrimonializzati dai
custodes pubblici o edificati su terre allodiali possedute in piena proprietà dai
signori fondiari», determinarono attorno a sé la formazione di «ambiti egemonici
militari e giurisdizionali»51
. A contraddistinguere questi «semplici signori rurali»
fu la condizione sociale, più bassa rispetto ai conti: detenevano un diritto privato
spesso identico a quello dei conti del Canavese, ma inferiore per quanto
riguardava la coercizione e la giurisdizione del territorio52
. Nelle fonti, infatti,
sono indicati con il predicato di «castellanus» – o «dominus» – e non quello di
«comes», poiché «non discendevano da famiglie di antiche tradizioni
49
Op. cit., p. 347. 50
Op. cit., p. 349; cfr. L. PROVERO, L’Italia dei poteri locali. Secoli X-XII, Roma 2011, pp.
160-161. 51
L. BERTOTTI, La pianticella di canapa. Signori antichi e usurpazioni nel Canavese del
medioevo, Ivrea 2001, pp. 12-13. 52
Op. cit., p. 15: secondo Bertotti il titolo da essi vantato «era esibito come un’insegna
‘dell’alta giurisdizione che è appannaggio dei conti’», per cui si veda anche G. TABACCO, Dai re
ai signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Torino 2000, p. 72.
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funzionariali»: tuttavia, ricoprivano un ruolo politico e militare determinante e
possedevano patrimoni sostanzialmente uguali e obiettivi comuni ai conti del
Canavese53
. Bisogna distinguere fra l’«honor» esercitato «direttamente sui
possessi fondiari ai quali è legato» e l’«honor» esercitato «su un territorio rurale
omogeneo dal signore che protegge questo territorio»54
: il primo apparteneva ai
castellani, il secondo ai conti.
L’individuazione nelle fonti di questi castellani è possibile coglierla «per
esclusione»55
: nel caso si fossero trovati i conti del Canavese accanto ad altri
individui che, almeno all’apparenza non fossero cittadini dei comuni di Ivrea o di
Vercelli o abitanti di altri luoghi estranei al Canavese, potremmo ritenere di essere
di fronte a dei castellani del Canavese»; ciò non toglie, però, che essi fossero
vassalli dei conti e proprietari di «castra», quindi detentori dei «beni
economicamente più redditizi, oltre che di primaria importanza sul piano politico
e militare». I predicati adottati dalle famiglie suggeriscono quale castello
possedessero: è dunque sufficiente compiere lo stesso ragionamento fatto per le
famiglie comitali del Canavese56
.
I castellani sarebbero stati – secondo l’analisi fatta da Oreglia – «domini
loci» del tutto indipendenti, forse definiti tali per il fatto che possedevano sia la
fortezza sia il circuitus castris in allodio57
: ciò spiegherebbe perché le fonti non ci
parlano in modo esplicito del loro possesso e ammetterebbe così che i castellani
siano stati dei «domini loci» che usarono l’attributo «castellanus»58
– oltre al
predicato toponimico – per differenziarsi nel caso fossero stati elencati al fianco
dei «comes». L’uso di definirsi castellani «de Canapicio», ad esempio,
indicherebbe la condizione di appartenenza di questi dòmini all’organismo
politico-economico detto «consortile de Canapicio», che legò politicamente e
militarmente diverse delle famiglie signorili canavesane tra il XII e l’inizio del
53
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 352 sg. e n. 1; «il fatto che i castellani del
Canavese fossero dotati di un potere analogo a quello dei conti» trasse in inganno gli studiosi nel
passato: questi «non fecero mai distinzioni tra conti e castellani, ritenendo semmai in modo
sottinteso che questi ultimi appartenessero a rami cadetti delle famiglie comitali o trascurando
completamente di parlarne». 54
TABACCO, Dai re ai signori cit., p. 82: il primo viene definito «honor privatus et
specialis», mentre il secondo corrisponde a un «communis honor curie et castri». 55
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 265. 56
Si veda sopra n. 47. 57
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 266 sgg. 58
Per il significato del termine Canavese nei secoli XI e XIII, si veda op. cit., p. 269, n. 7.
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19
XIV secolo59
. L’ipotesi che considera i castelli alla stregua di oggetti d’investitura
da parte dei conti canavesani in cambio del giuramento di fedeltà oppure quella
che giudicherebbe i castellani come parenti diretti o acquisiti dei conti del
Canavese, sarebbero da accantonare: per la prima mancano fonti documentarie di
atti d’investitura e, soprattutto, questi castellani non rappresenterebbero dei
«gestori straordinari» delle castellanie, poiché sembrarono avere il controllo
costante e tutt’altro che straordinario delle proprie castellanie60
come se avessero
ricevuto la gestione di certe castellanie per via ereditaria o allodiale.
4. La particolarità del Canavese
L’eccentricità dell’area canavesana, insieme con il controllo su essa
esercitato dalle famiglie comitali61
– spinte poco per volta «ai margini dei processi
di redistribuzione clientelare innescati dai principati territoriali nei confronti dei
dòmini locali» –, convinse i soggetti politici esterni a «non intervenire
direttamente» nelle vicende che portarono all’affermazione in quei territori dei
«de Canavise»62
. Gli stessi comuni urbani si disinteressarono del controllo della
regione: ciò risulta anche dalla mancata fondazione di nuovi insediamenti nel
volgere del secolo XIII. L’assenza di pressioni da parte del comune di Ivrea,
infatti, «non rese necessario un adattamento a nuovi equilibri di potere degli
assetti insediativi», diversamente da altre zone dell’Italia centro-settentrionale63
: a
ciò va ricondotto il «carattere rurale del Canavese», non soggetto ai movimenti di
popolazione e ai mutamenti sociali e demografici che interessarono in questo
periodo «in misura più o meno massiccia» la maggior parte dell’Italia nord-
59
Op. cit., pp. 269-273. 60
Cosa che per i castellani Vercellesi – facendo eccezione per i San Martino possessori
della castellania di Castelletto – non avveniva, che «restavano semplici cittadini del comune», op.
cit., p. 270. 61
Cfr. A. FALOPPA, Società e politica alle origini del Comune di Ivrea, tesi di dottorato in
Storia medievale, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, p. 272 sgg. 62
P. BUFFO, Lessico e prassi dell’affermazione signorile entro l’area d’influenza dei
Valperga. Il caso Busano, in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», CVI (2008), 2, pp.
401-402. 63
Per il Piemonte si veda R. BORDONE, P. GUGLIELMOTTI, M. VALLERANI, Definizione del
territorio e reti di relazioni nei comuni piemontesi nei secoli XII e XIII, in Ansätze und Befunde
zur Geschichte der Städte in honen und späten Mittelalter, Mainz 2000 (Trierer historische
Forschungen, 43); cfr. F. PANERO, Villenove medievali in Italia nord-occidentale, Torino 2004.
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20
occidentale64
, e organizzato territorialmente secondo forme di potere vecchie di
secoli, in cui il «castrum» era il cardine dell’organizzazione territoriale65
.
64
BUFFO, Lessico e prassi cit., pp. 400-401. 65
Op. cit., p. 412.
Page 22
23
Capitolo secondo
Clientele vassallatiche e rapporti di solidarietà
1. Legami vassallatico-beneficiari e istituti feudali
Una capillare presenza signorile costellava il territorio su cui i conti del
Canavese, e i «domini» locali pervenuti alla custodia di un castello, esercitavano il
potere: essa poteva rientrare sotto il loro coordinamento feudale (o economico),
ma poteva anche rimanerne estranea66
. Persa memoria del significato militare
originario, nei secoli XI e XII i rapporti vassallatici, e la terminologia feudale,
cominciarono a legarsi al carattere patrimoniale ereditario, di qualità signorile, dei
poteri regionali e locali67
. Nella ricomposizione dei poteri, che da questa fase
cominciò a muovere i primi passi, la trasmissione per via feudale divenne la sola
in grado di garantire la giusta legittimazione dei possessi fondiari e dei diritti
acquisiti: il carattere feudale implicava un legame formale con poteri superiori,
spesso di dimensioni regionali, e metteva al sicuro «da contestazioni circa la
legittimità d’esercizio dei poteri signorili»68
. Vescovo e conti del Canavese
rappresentavano i vertici di un ceto eminente attivo su un territorio, in questi
secoli, molto frammentato, che fin dal XII secolo vide svilupparsi relazioni
vassallatiche interne a un’aristocrazia «che adottava abitualmente gli strumenti
feudali, applicandoli a tutti i livelli sociali e a tutti gli usi giuridici ed
economici»69
: il tessuto aristocratico canavesano «con i suoi articolati intrecci
feudali» fu segno di vivacità sociale, ma denunciava allo stesso tempo quella
«intrinseca debolezza politica di un’area di difficile assestamento», ripercossosi su
ogni tentativo, signorile e cittadino, di costruzione a più vasto raggio70
.
66
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 806. 67
Sull’acquisizione di un significato politico del patrimonio ereditabile ed ereditato,
TABACCO, Dai re ai signori cit., pp. 67-87; per il mutamento nei rituali di sottomissione feudale,
ALBERTONI, PROVERO, Il feudalesimo cit., pp. 91 e 99; G. SERGI, Lo sviluppo signorile e
l’inquadramento feudale, in La Storia: i grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, II:
Il Medioevo. Popoli e strutture politiche, a cura di N. TRANFAGLIA/M. FIRPO, UTET, Torino 1986-
1989, p. 387. 68
Op. cit., p. 388; si veda a proposito quello che in sede storiografica si suole chiamare
feudo di signoria («feudum rectum et nobile»), R. BORDONE, L’aristocrazia territoriale tra impero
e città, in Le aristocrazie cit., p. 7. 69
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 807 e n. 24. 70
Op. cit., p. 807.
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24
A livelli sociali superiori, il vassallaggio serviva invece a dare «forma
giuridica» a rapporti poco vincolanti71
. Tra i «domini» che entrarono a far parte
della clientela vassallatica del vescovo Gaimaro Solero, nel 1182 – Nicolao di
Montalto, Ardizzone conte di Cavaglià, Rainaldo di Azeglio, Meardo di Vercelli,
Guala Bicchieri – ce n’erano alcuni (i Montalto o i vercellesi Meardo e Guala
Bicchieri) posti, «per vocazione o interessi economici, al di fuori di un rapporto
esclusivo con Ivrea e il suo vescovo»72
. Talvolta, l’aspetto politico del rapporto
vassallatico si traduceva nell’impegno a non danneggiare o non muovere
militarmente contro l’altra parte, impegno cui poteva corrispondere la concessione
di un beneficio alla parte che si legava vassallaticamente. Per esempio, nel
documento del 1227 con cui il vescovo Oberto promuoveva la ricognizione dei
feudi della chiesa eporediese73
, il marchese di Monferrato, Bonifacio, riconosceva
nel vescovo di Ivrea il signore dei feudi di cui era stato investito, ma il rapporto
che li legava era per lo più politico. Questa ipotesi è avvalorata dalla presenza
come testimoni, di personalità importanti, tra cui Aimone, figlio del conte di
Savoia, i conti Pietro di Masino e Pietro di San Giorgio, i «domini» Oberto di
Magnano e Pietro di Barone74
. Altra pratica molto diffusa era il feudo oblato: il
proprietario di uno o più allodi o feudi lasciava (tramite werpitio) a un signore
tutto o parte del proprio patrimonio; successivamente, diventava, se già non lo era,
suo vassallo giurando fedeltà e omaggio; infine, riotteneva in feudo tutto ciò che
aveva affidato al signore. Le motivazioni che potevano spingere a questo atto
erano plurime: il nuovo vassallo poteva aver bisogno di protezione, oppure esser
71
Un signore di castello riconosceva la superiorità di un soggetto o un ente più forte e
potente o se ne dichiarava alleato, ALBERTONI, PROVERO, Il feudalesimo cit., p. 95. 72
La formulazione di un organismo vassallatico attorno alla figura del vescovo è stata di
recente vista come strumento necessario, atto a controllare il territorio a nord e a est di Ivrea e a
organizzare la difesa del passaggio di uomini e di merci provenienti o diretti verso la Valle
d’Aosta: una «costruzione ad hoc» della rete vassallatica, che troverebbe conferma nella presenza
dei signori del contado (i Montalto, gli Azeglio e i Cavaglià), i quali avevano il «controllo di aree
poste sulla direttrice Ivrea-Vercelli» FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 398-400. 73
Le carte dell’archivio vescovile di Ivrea fino al 1313, a cura di F. GABOTTO, Pinerolo
1900 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, V-VI), pp. 163-165, doc. 118; pratica
documentaria diffusa sia in ambito comunale sia in ambito signorile, più razionale nel primo meno
nel secondo, la «recognitio feudi» rifletteva la volontà del signore o del comune di registrare e
consolidare il sistema di controllo sul territorio, ALBERTONI, PROVERO, Il feudalesimo cit., pp.
110-111. 74
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 165, doc. 118; furono convocati, oltre a Bonifacio
di Monferrato, i rappresentanti delle famiglie di Valperga, San Martino, Montalto, de Castello,
Cavaglià, Barone, Mercenasco, «Arundello», Castellamonte, Fiorano, Torre e altri.
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stato obbligato a sottomettersi, o ancora poteva ricorrervi in seguito alla vendita di
un allodio. Ma molto spesso, il feudo oblato corrispondeva a un accordo fra le due
parti (politico, a titolo oneroso, ecc.) 75
. In Canavese troviamo molti esempi, in
particolare nell’azione politica portata avanti dal comune di Vercelli: nel 1141, i
conti del Canavese giurarono fedeltà, rapporto ereditato dalle famiglie dei San
Martino e dei Masino76
; mediante feudo oblato si legò a Vercelli anche Guglielmo
di Mercenasco nel 114277
.
Anche in area canavesana era diffuso l’uso di prestare omaggio a più
signori78
: il nuovo impegno, sostanzialmente, individuava un «dominus» fra gli
altri e lo poneva al di sopra degli altri, insieme alla fedeltà o al legame di alleanza
che il vassallo aveva con lui; così un signore territoriale del Canavese qualora
giurasse fedeltà vassallatica a una forza regionale superiore, questo, di seguito ai
propri doveri, si riservava il diritto di osservare gli impegni stretti in precedenza
con propri alleati o altri soggetti più potenti. Spesso si trattava di altre stirpi
comitali, per cui il motivo principale era il legame parentale tra loro esistente
(quando si trattava di castellani, sovente si trattava di alleati più potenti e propri
seniores); altre volte si trattava di forze superiori (l’imperatore, il vescovo di
Ivrea, il marchese di Monferrato, il comune di Ivrea, talvolta quello di Vercelli, o
il conte di Savoia).
2. La signoria vescovile in Ivrea
La figura attorno alla quale si raccolse l’aristocrazia militare canavesana,
nonché le élites cittadine fu quella del vescovo, l’unico in grado, di fatto, di dar
vita (grazie al potere signorile posseduto nelle sue mani e rimasto invariato
pressoché per un secolo) a rapporti feudali duraturi ed estesi a tutta l’area
75
F. L. GANSHOF, Che cos’è il feudalesimo?, Torino 2003, pp. 135-137; cfr. BORDONE, I
ceti dirigenti urbani cit., p. 40. 76
Vedi supra cap. I; all’origine dello stretto legame che unì le sorti di quest’ultima famiglia
con la città di Vercelli ci fu l’accordo stipulato nel maggio del 1224 dal conte Pietro, che fu redatto
in tre documenti, I Biscioni, a cura di G. G. FACCIO, M. RANNO, vol. I, Torino 1934 (Biblioteca
della Società Storica Subalpina, CVL) pp. 329-332, docc. 154 e 157, pp. 347-353, doc. 162;
l’obbligo di rinnovo quinquennale preteso da Vercelli fu costantemente rispettato dai suoi
successori, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 155-156, n. 21; 167-168, nota 43, 171-172. 77
Op. cit., p. 281; anche altri personaggi strinsero negli stessi anni un patto con questo
comune: nel luglio del 1142 i signori di Bollengo, e parecchi anni più tardi i domini di Burolo.
Inoltre, può darsi che il comune di Vercelli equiparasse i conti ai castellani: in questo caso la
differenza di status sembrerebbe «consistere soltanto nell’attributo comitale», op. cit., p. 283. 78
Cfr. GANSHOF, Che cos’è cit., pp. 112-114.
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canavesana. Infatti, laddove il vertice ecclesiastico esercitava poteri di
«distrettuazione»79
, la curia cittadina fungeva da punto di convergenza per
famiglie eminenti urbane e poteri feudali del contado. Erano partecipi tutti i
vassalli – maggiori e minori80
–, i quali erano coordinati dall’apparato
organizzativo vescovile (advocati, vicedomini, signiferi)81
. Nel 1212, a un placito
tenuto dal vescovo Oberto82
, è presente, e menzionata per la prima volta, una
«curie vassallorum intrinsecorum et extrinsecorum», che poneva una separazione
fra i vassalli cittadini («intrinseci») e i vassalli rurali («extrinseci») della chiesa
eporediese83
. Diversamente da altri casi84
, un limite riscontrabile nella
documentazione eporediese si ritrova proprio nella terminologia adoperata per
designare i vassalli vescovili: infatti, solo dal 1211 comparvero locuzioni come
«nobiles» o «capitanei»; altrove «non è possibile individuare una specificità
terminologica», poiché i documenti testimoniano quasi esclusivamente il
momento di concessione o di remissione di un feudo. Del tutto assente e il termine
«vassus»; per di più, i vassalli non sono mai, in nessun caso, detti «fideles»85
.
79
PROVERO, L’Italia dei poteri locali cit., p. 113 sg.; G. G. MERLO, I vescovi del Duecento,
in Storia della Chiesa di Ivrea cit., p. 258 sgg. La riunione del marzo 1227 – di cui si parlerà tra
poco – fu un chiaro segno del suo agire da «signore cittadino e territoriale»: in particolare, egli si
mostrò attento nel difendere la temporalità del suo episcopato e nell’esercitare i suoi poteri, agendo
in collaborazione sia con i «pares curiae», con la «curia vassallorum intrinsecorum et
extrinsecorum» e con i «vassalli Yporiensis ecclesiae», e ottenendo il supporto del clero cittadino
(canonici del capitolo cattedrale, abate di S. Stefano, preti delle chiese di S. Donato, di S. Maurizio
e di S. Pietro), G. S. PENE VIDARI, Vescovi e comune nei secoli XIII e XIV, in Storia della Chiesa
di Ivrea cit., pp. 927-929 e Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 120-123, docc. 85 e 87; 175,
doc. 127; cfr. MERLO, I vescovi del Duecento cit., p. 264 sg. 80
Si veda, per esempio, il caso di Milano in KELLER, Signori e vassalli cit.; cfr. BORDONE,
L’aristocrazia territoriale cit., p. 5. 81
Rispettivamente l’incaricato ai compiti giurisdizionali, l’amministratore del patrimonio
dell’episcopato e il comandante della milizia: BORDONE, I ceti dirigenti urbani cit., p. 44. 82
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 80-88, docc. 59-60; pp. 93-95, docc. 64-65. 83
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 277-279; una caratteristica che contraddistingue
questi ultimi, ad eccezione delle grandi famiglie di origine comitale, sembrò essere l’estraneità
all’ambiente cittadino, «un’estraneità ribadita dall’assenza, fra i pari di curia, di vassalli rurali che
collaborino con il vescovo in città o nel contado», op. cit. 263-264. Le origini dei membri
appartenenti a questo seguito, in tutto e per tutto vassallatico, sono di difficile riscontro a causa
dell’assenza di una documentazione che permetta di delinearne la fisionomia, aspetto reso ancor
più complicato dall’eterogeneità del lessico giuridico adottato in ogni sede; si veda, ad esempio,
La vassallità maggiore del Regno Italico. I capitanei nei secoli XI-XII (Atti del Convegno Verona
4-6 novembre 1999), a cura di A. CASTAGNETTI, Roma 2011. 84
«Se si confronta la situazione eporediese con quella vercellese, è chiara fin dalle prime
attestazioni, la differenza»: nei documenti vercellesi «già dalla metà del secolo XII compaiono
attestazioni di capitanei, valvassores, pares curie», FALOPPA, Società e politica cit., p. 264, n. 737;
cfr. DEGRANDI, Vassalli cittadini cit., pp. 21-22. 85
Se nel secolo X, prima e durante Arduino, il termine «miles» era usato come sinonimo di
«vassus», questo cadde in disuso, tranne in momenti particolari, come nei documenti del 1211
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Attingere al patrimonio episcopale per redistribuire diritti e proventi
ecclesiastici all’interno della società aristocratica cittadina e rurale divenne prassi
comune, tanto da poter condizionare gli assetti locali del potere86
. A Ivrea, la
concessione beneficiaria di terre ecclesiastiche fu strumento per ottenere consenso
e appoggio militare nel contado; ma, una volta consolidata la propria presenza
(anni Sessanta del XII secolo), l’episcopato diede inizio a un recupero dei diritti
feudali, esigenza sorta dopo l’avvio, da parte di enti ecclesiastici e del comune, di
erosione di tali diritti e di autonomia. L’azione dei vescovi, portata avanti
mediante procedure d’investitura remunerativa (ultimo decennio del XII) nei
confronti di beneficiari – non solo eporediesi – e riacquisti di terre e diritti (primi
decenni del XIII secolo)87
, acquisì finalità politiche con il presule Oberto
attraverso l’instaurazione di rapporti vassallatici e concessioni patrimoniali,
proseguendo ben oltre la metà del XIII secolo con i successori Corrado e
Giovanni88
. Alla morte di quest’ultimo, l’episcopato aveva la disponibilità diretta
del palazzo vescovile in città e dei castelli di Albiano, Chiaverano, Montalto,
Pavone e Vische e della riscossione del pedaggio alle porte urbane89
. Ma la
valorizzazione del patrimonio e dei diritti della chiesa di Ivrea non raggiunse più i
livelli del genere: nel 1279, dopo aver proseguito l’opera dei suoi predecessori, il
(ampiamente trattati in A. BARBERO, Vassalli, nobili e cavalieri fra città e campagna. Un processo
nella diocesi di Ivrea all’inizio del Duecento, in «Studi Medievali», XXXIII (1992), pp. 620-644;
disponibile anche su www.retimedievali.it), «in cui la natura stessa del documento […] introduce
nella terminologia la necessità di un grande rigore», FALOPPA, Società e politica cit., p. 265. 86
Queste clientele esprimevano la duplice natura del potere ecclesiastico: erano cittadine,
perché il centro verso cui convergevano era un potere urbano; ma erano anche rurali, in quanto i
beni oggetto del beneficio, quindi del rapporto clientelare, erano situati – in massima parte – nel
contado, PROVERO, L’Italia dei poteri locali cit., p. 114 sg. Beni feudali concessi a vario titolo
sono quelli concessi all’aristocrazia militare: «domini» di Agliè (1181), di Perno (1204) e di
Bollengo (1209), Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 31, doc. 16; p. 56 sg., doc. 37; p. 75 sg.,
doc. 55; ebbero carattere beneficiario anche i diritti di riscossione della decima sacramentale: si
veda F. PANERO, La grande proprietà fondiaria della Chiesa di Ivrea, in Storia della Chiesa cit.,
pp. 846-847; furono investiti di diritti pubblici anche i del Pero, i del Pozzo, i Grasso, i Vadenotte,
i Solero, Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 132-134, doc. 93; si veda anche op. cit., pp. 140-
148, doc. 403. 87
PANERO, La grande proprietà cit., p. 847 sgg.; cfr. Le carte dell’archivio vescovile cit., I
e II. 88
Questo progetto politico trovava ispirazione e sostegno dal controllo operato dalla Santa
Sede; riguardo a questo si veda L. BAIETTO, Una politica per le città. Rapporti fra papato, vescovi
e comuni nell’Italia centro-settentrionale da Innocenzo III a Gregorio IX, in «Bollettino Storico-
Bibliografico Subalpino», CII (2002), 2, pp. 482-506; si veda anche Regesto del «Libro del
Comune» d’Ivrea, a cura di F. GABOTTO, Pinerolo 1900 (Biblioteca della Società Storica
Subalpina, VI), pp. 228-229, docc. 12-14. 89
PANERO, La grande proprietà cit., p. 863.
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28
vescovo Federico90
ordinò di redigere una copia dell’atto del 1227; ma ormai una
congiuntura politica sfavorevole aveva colpito la chiesa eporediese, la quale vide
svanire le sue anacronistiche pretese signorili sulla città91
.
2.1. Vassalli e feudi vescovili
Tra i «fideles» vescovili di metà XII secolo troviamo i Solero – il vescovo
Gaimaro apparteneva a questa famiglia – , i de Civitate e i del Pozzo92
. A essi si
aggiunsero con gli anni famiglie quali i Picoto, i del Pero, i della Porta93
, i
Rucamerdosa insieme ai Poma94
, i Montalto95
, i Delfino, i da Scarmagno96
. I
Grasso furono a lungo collaboratori vescovili, sin dagli anni Sessanta del secolo
XII97
, ma iniziarono a essere vassalli vescovili solo dall’inizio del XIII secolo98
,
come i della Torre, collaboratori finanziari o gestori delle proprietà ecclesiastiche
e vassalli vescovili dal 121199
. I Suriano di Albiano, i Genetasio, i Salerano e i de
Mercato non sono attestati fra i vassalli vescovili100
.
Anche le famiglie rurali, che tradizionalmente concentravano nel contado
tutti i loro interessi, strinsero rapporti di fedeltà vassallatica col vescovo
ottenendone in cambio un importante legame con la città, le sue istituzioni e le
possibilità offerte dalla dimensione sociale che si stava costantemente delineando
al suo interno. Tra i vassalli extrinseci del placito del 1212101
erano presenti
90
Menzionato già nel 1249 come «dominus Fredericus de Fronte» in un investitura di beni
in Pavone; nello stesso anno è in ospita nella propria casa la stesura dell’atto con cui i suoi parenti,
i conti di San Martino, vengono investiti di una decima in Romano («actum in domo in qua stat
dominus Fredericus de Fronte»), occasione in cui viene indicato come «Yporiensis canonicus». Gli
atti sono editi rispettivamente in Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 273-275, docc. 196-197;
cfr. PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 944, n. 94. 91
Si veda oltre cap. V. 92
Il nome è altre volte indicato diversamente: Faloppa adotta una traduzione in «Pozzo»,
Panero opta invece per «Dalpozzo». In questa sede si userà un’accezione diversa, più fedele al
toponimico «de Puteo», riportato nella documentazione; cfr. FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp.
448-449, PANERO, La grande proprietà cit., p. 857 sgg. 93
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 408-409. 94
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 464, n. 169. 95
Una famiglia inurbatasi probabilmente in un periodo precedente la nascita del comune,
FALOPPA, Società e politica cit., p. 249, n. 694. 96
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 444. 97
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 432: l’esempio è quello di Evrardo Grasso op. cit., p.
433. 98
FALOPPA, Società e politica cit., p. 248, n. 690; cfr. EAD., Ivrea dalla “civitas” cit., p.
458. 99
FALOPPA, Società e politica cit., p. 212 sgg. 100
Op. cit., p. 248, n. 690. 101
Si veda supra, p. 26.
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Guglielmo conte di San Martino, Giacomo conte di Castellamonte, Oberto e
Giacomo conti di Castelnuovo e ad altri castellani. Già nel 1195, Guglielmo conte
di Masino prestò giuramento al vescovo Gaido per un feudo102
, ma ancora nel
1263, Oddonino ricevette investitura di vari beni feudali, prima appartenuti a
personaggi di Settimo103
. Nel 1210104
i conti di Castellamonte detenevano feudi
dalla chiesa eporediese: di investitura feudale se ne ha notizia ancora nel 1249105
e
nel 1274106
. Oberto conte di Rivarolo giurò fedeltà nel 1255107
: un suo parente,
Federico di Front verrà eletto vescovo di Ivrea; Guglielmo di Rivara conte di
Valperga doveva fedeltà per l’investitura di un feudo ecclesiastico
108. Si è visto
che anche la famiglia dei marchesi di Monferrato fu legata per via feudale109
;
inoltre, un ramo della famiglia comitale dei Biandrate, i conti di San Giorgio,
ricevette da questi marchesi un feudo della chiesa eporediese110
. È difficile
stabilire se i beni feudali in possesso dell’aristocrazia militare canavesana
mantennero intatto il loro valore di remunerazione beneficiaria di un servizio, o se
i giuramenti di fedeltà fossero piuttosto il risultato di un compromesso che
permettesse di sanare antiche vertenze per il possesso di terre e di castelli111
, o se
avessero un «valore simbolico più che concretamente operante»112
. Il valore
simbolico del giuramento prevaleva sull’aspetto ‘costruttivo’: il rango di questi
vassalli era probabilmente tale per cui «risultasse naturale l’applicazione, anche
102
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 44, doc. 27; si trattava di un riconoscimento
formale di un rapporto vassallatico esistente de facto, acceso dal vescovo probabilmente per
risolvere i contrasti, FALOPPA, Società e politica cit., pp. 267-268: per tale feudo nel 1220 si vedrà
ancora il conte Pietro disputare con il vescovo Oberto, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 152,
n. 15. 103
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 32-34, doc. 322. 104
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 234; nel gennaio 1181 i «domini» di Agliè, a cui
in seguito sarebbero stati legati da parentela, possedevano beni feudali del vescovo. 105
Op. cit., p. 228. 106
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 113-114, doc. 376. 107
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 122-123 e nn. 11 e 12. 108
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 392, doc. 287; un legame passato, però, sarebbe
suggerito dal carattere ligio del giuramento di «cittadinatico» del 1213 fatto dai conti nei confronti
di Ivrea; si veda infra, pp. 37-38. 109
Si vedano i giuramenti contenuti in op. cit., pp. 339-340, doc. 237; 369-370, doc. 265. 110
Rimasto «pressoché intatto» per oltre centosessant’anni, OREGLIA, Le famiglie signorili
cit., p. 260. 111
PANERO, La grande proprietà cit., p. 845. 112
FALOPPA, Società e politica cit., p. 267.
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sui feudi ottenuti dalla chiesa eporediese, di una consolidata pratica di esercizio di
poteri signorili»113
.
Fra i signori fondiari non appartenenti a stirpi comitali numerosi erano i
vassalli vescovili. Vassalli erano coloro che detenevano un castello nelle località
sotto diretto controllo della chiesa (Chiaverano, Albiano, Pavone, Vische);
dovevano fedeltà anche coloro che erano investiti di diritti ecclesiastici su siti
fortificati (sui quali si estendeva il compito di custodia) come quelli di Settimo,
Montestrutto, Montalto114
, Torrazzo, Unzasco, Loranzè, Rueglio con la
Valchiusella, San Giorgio, Romano, «Caraonum», Chivasso, Verolengo,
Castagneto, Rondissone115
, o di feudi ecclesiastici (Candia, Strambino,
Montanaro116
, Azeglio, Castellogno, Barone, Orio, Mercenasco, Torre, Fiorano117
,
Burolo118
, Scarmagno), in cui il controllo delle fortificazioni fu dinastizzato dalle
famiglie investite.
Un importante documento con cui l’episcopato determinò la consistenza del
proprio patrimonio e dei relativi diritti, cercando di stabilizzarne il controllo, fu la
ricognizione dei feudi ecclesiastici (10 maggiori, 4 medi e 24 minori) del 1227,
che permette di individuare parte dei vassalli vescovili. Detentori di feudi maiora
erano il marchese di Monferrato (per Chivasso, Castagneto, San Giorgio e parte di
Verolengo), i conti di Cavaglià (per Erbario, Areglio, «Meolo», Settimo Rottaro,
Vestigné, Caravino e parte di Cavaglià), i Montalto e i de Castello (per la Valle di
Montalto); altri feudi dello stesso tipo si trovavano in Cavagnolo, Candia,
113
Op. cit., p. 278. La ricorrenza, in molti dei feudi citati, del fodro regale riscosso, rende
plausibile ritenere che i signori esercitassero diritti signorili: ma non si può escludere che le
famiglie grazie alla loro intraprendenza avessero costruito i loro poteri su feudi puramente
fondiari, o che il legame vassallatico l’avesse legittimata. Non è inoltre sicuro che il legame avesse
come esito o motivo «un compenso per una fedeltà militarmente definita», perché nel periodo fra
XII e XIII secolo «si era disponibili all’homagium per raggiungere un obiettivo di terre e di diritti
beneficiari», SERGI, Lo sviluppo signorile cit., p. 387. 114
Località situate nella Valle di Montalto. 115
Questo luogo, che non compare nella bolla pontificia del 1223 con cui la Santa Sede
confermava i diritti e i feudi della chiesa eporediese, op. cit., pp. 149-151, doc. 108, ma compare
solo nel documento ricognitivo del 1227; questo dettaglio è trattato in A. A. SETTIA, Chiesa e
territorio nelle «Rationes» eporediesi, in ID., Chiese, strade e fortezze nell’Italia medievale, Roma
1991 (Italia sacra, 96), pp. 300-301. 116
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 149-151, doc. 108. 117
Op. cit., pp. 234-236, doc. 170; sulla vicenda del castello di Fiorano in cui furono
coinvolti episcopato e comune si vedano M. P. ALBERZONI, Da Guido di Aosta a Pietro di
Lucedio, in Storia della Chiesa di Ivrea cit., p. 225 e PANERO, La grande proprietà cit., p. 856; cfr.
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 303-304. 118
Sull’annosa questione relativa al castello di Burolo si veda op. cit., pp. 34-41.
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31
Castiglione, Torre, Barone con Orio, Rivarolo e Mercenasco. I quattro feudi
media erano quelli di San Martino, Alice, Romano e Bairo. Due dei quattro feudi
minora erano quelli detenuti dagli avvocati di Strambino, mentre i restanti erano
dei «domini» della villa di Strambino e dei Baldissero. Altri feudi erano tenuti dai
Castellamonte (in Barbania, Parella, Loranzé, Torrazzo, Rondissone, Burolo,
Lessolo), dal consortile di Rondissone, dai Candia, dagli Azeglio, dai Solero,
dagli Abonesi, dai Fanuelli, dal «dominus» Bovolo, dai della Porta, dai del Pero,
dai Grasso, dal «dominus» Iporeo Balbo, dai Bollengo, dal consortile dai Burolo,
dai Mercenasco in Valchiusella. L’azione dei vescovi acquisì finalità politiche con
il presule Oberto attraverso l’instaurazione di rapporti vassallatici e concessioni
patrimoniali proseguendo su ispirazione e con il sostegno della Santa Sede ben
oltre la metà del XIII secolo con i successori Corrado e Giovanni119
. Alla morte di
quest’ultimo, la valorizzazione del patrimonio e dei diritti della chiesa di Ivrea
non raggiunse più i livelli del genere.
Al censimento di questi feudi, si devono sommare i numerosi possedimenti
concessi in forma patrimoniale e vassallatica lungo tutto il restante XIII secolo120
.
Al novero feudale non vanno poi dimenticati i beni patrimoniali di cui furono
titolari il capitolo cattedrale e i canonici121
e, in egual misura, il monastero di S.
119
BAIETTO, Una politica per le città cit., pp. 228-229, docc. 12-14. 120
PANERO, La grande proprietà cit., p. 847 sgg.; i nomi più rilevanti di cives attestati
sono: Picoto, Poma, Solero, Fabro, Tagliandi, Stria, della Porta, de Mercato, Grasso, Carta,
Delfino, del Pozzo, de Civitate, del Pero, Suriano d’Albiano, Pandolfo, de Vita, Salerano; si
trovano molti individui attivi sul territorio canavesano: i conti di Castellamonte, di Brosso, di
Agliè, di San Martino (ossia Martino, che si dice «de Castelleto», Le carte dell’archivio vescovile
cit., pp. 122-123, doc. 385), di Masino e vari castellani («Arundello», Settimo, Candia, Vische,
Burolo, Droenghi di Valperga); parecchi «domini» e detentori di feudi ecclesiastici (a Pavone,
Albiano, Lessolo, Montalto, Montestrutto, Palazzo, Torrazzo, Agliè, Castelfranco, Bard, Viverone,
Fiorano, Tonengo, Romano, Pertuso, Azeglio, i de Benedetti di Vercelli, i Gattinara di Montalto, i
de Villa di Strambino, i Vadenotte); singoli individui tra cui i consoli del comune di Pavone,
Obertino di Biella, Enrico di Rosso di San Martino, Margherita contessa di Monferrato con suo
figlio (il futuro Guglielmo VII), «dominus» Ranieri di Mazzè, Guglielmo di Rivara conte di
Valperga e diversi detentori di feudi in Mercenasco (op. cit., pp. 328-330, doc. 229) e possidenti
nel territorio del castello di Romano (op. cit. pp. 304-311, doc 212); residenti di diversi centri del
Canavese; e, infine, altri per i quali è sovente tralasciata la provenienza; queste investiture sono
edite in op. cit., I-II. Gli intellettuali investiti per feudo di terre vescovili appartenevano alle
famiglie Solero, del Pero, Suriano, del Pozzo, de Civitate, Delfino, Carta e altre, PANERO, La
grande proprietà cit., p. 857. 121
Per cui furono accensati, tra gli altri: Poma, della Rocca, Brusato, Vadenotte, de
Mercato, Salerano (op. cit., p. 858); Caldera, Rucamerdosa, de Civitate, de Vita, Grasso, Solero,
Tagliandi, Valdano, Suriano d’Albiano, Bard, Challant, Arnaz, i castellani di Burolo, di
Mercenasco, di Montalto, di Fiorano, di Romano, di Azeglio, i conti di Rivarolo e quelli di San
Martino, Le carte dell’archivio capitolare d’Ivrea fino al 1230 con una scelta delle principali fino
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Stefano122
, nonché i vassalli vescovili attestati nel terzo quarto del XIII secolo, i
quali dovevano fedeltà e omaggio al vescovo Giovanni per i beni posseduti123
. Del
1248 è, invece, l’accordo stipulato fra comune e rappresentanti del vescovo per
l’affitto dato a privati di beni appartenenti ai «comunia» eporediesi124
.
3. Vassallo o senior? L’indefinita posizione del comune di Ivrea
3.1. Dalla subordinazione vescovile alla signoria laica
I ceti dominanti della città, appartenenti in massima parte – non
esclusivamente – a quei gruppi gravitanti attorno alla clientela vassallatica
vescovile, elaborarono al loro interno comportamenti politici e istituzionali che
portarono alla formazione del comune125
. Nel 1182 erano membri della curia
al 1313, a cura di E. DURANDO, Pinerolo 1902 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, IX), pp.
6-225. 122
Per il quale si rimanda ad A. FALOPPA, Un insediamento monastico cittadino: S. Stefano
di Ivrea e le sue carte (secoli XI-XIII), in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», XCIII
(1995), 1; in rapporti vassallatici o censuari con questo ente furono le seguenti famiglie: della
Torre, Solero, Salerano, del Pozzo, Genetasio, Grasso, de Civitate, Brusato, di Bollengo, de
Romano e Guido conte di Valperga (op. cit. pp. 23-37); della Rocca, Suriano d’Albiano, da
Scarmagno, EAD., Percorsi familiari cit., p. 476 sgg. Di ambito comunale, ma «dalle finalità
religiose ed umanitarie», fu la fondazione della Confraria di S. Spirito: Cartario della Confraria
del Santo Spirito d’Ivrea (1208-1276), a cura di G. BORGHEZIO, G. PINOLI, Torino 1925
(Biblioteca della Società Storica Subalpina, LXXXI), II, p. 213. Mantennero un rapporto stretto
con questo ente soprattutto i Solero, i Tagliandi, di Fiorano, i de Mercato, FALOPPA, Società e
politica cit., p. 207, n. 567. 123
Si riportano solo i nomi di famiglie contemplate in questa tesi: Giacomo Galvagno di
Candia, Giacomo della Villa di Strambino, Guglielmo del fu Guglielmo di Orio, Guglielmo
Punzone conte di Castellamonte, Bonifacio conte di Castelnuovo, Giacomo di «Arundello» e suo
fratello Pietro, Guglielmo e Pietro di Fiorano, Nicolino di «Arundello», Drous di Valperga, Oberto
fratello del fu conte Rofino di Castelnuovo, Rotefredo del fu Filippo di Burolo, i consorti e i
domini della Valle di Montalto, i fratelli Ardizzone e Guiberto di Mercenasco, Guglielmo conte di
Castelnuovo, Manfredo del fu Guido di Orio, Enrico figlio di Ponzio (di Castellamonte?) e Oberto
di Agliè con suo fratello Bonifacio, Giacomo di Ranieri conte di Castellamonte, Giovanni del fu
Giacomo «de domina Iulia» di Castellamonte, Ottavio della Villa di Strambino, Guido di Agliè,
Raimondo di Orio, Alberto del fu Calvo di Strambino, Filippo del fu Ottone della Villa di
Strambino, Raimondo del fu Guiberto di Agliè, Ardizzone conte di Front, Antonio del fu Giacomo
dei Droenghi di Valperga e suo fratello Pietro, Raimondo di Candia, Alberto conte di San Martino,
Oberto figlio del fu Enrico conte di Rivarolo, Raimondo di Montalenghe, Ranieri e Pietro figli del
fu Giacomo di Torre, Ranieri di Loranzè, Enrico conte di San Martino, Tommaso figlio del fu
Ardizzone di Torre, Oberto di Brosso, Manfredo figlio del fu Giovanni di Brosso e suo fratello
Guiberto, Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 284-299, doc. 207.
Nel marzo del 1250 i figli del «dominus» Ardizzone Tagliandi, Giacomo e Giovanni,
prestarono fedeltà, per sé e per loro padre, al neo eletto vescovo d’Ivrea Giovanni, per il feudo
tenuto dalla chiesa e di cui furono investiti, mentre nel 1253, in una consegna fatta al vescovo
Giovanni, Gregorio di Pasqualengo di Pila, cittadino di Ivrea, si disse vassallo del «dominus»
Tommaso di Torre, figlio del signore «de Canapicio» Ardizzone: op. cit., p. 281, doc. 202; p. 327,
doc. 228. 124
Op. cit., pp. 268-272, doc. 194. 125
La cooptazione all’interno dell’élite signorile pervenne in seguito all’intrecciarsi «di
124 Op. cit., pp. 268-272, doc. 194.
125 La cooptazione all’interno dell’élite signorile pervenne in seguito all’intrecciarsi «di
ricchezza, intraprendenza imprenditoriale – spesso perseguita per diverse generazioni –, attività
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vescovile126
di Gaimaro Solero127
alcuni cittadini eporediesi (Giacomo Solero,
Filippo del Pozzo, Bongiovanni de Civitate, Giacomo Delfino)128
, notabili
appartenenti a famiglie che espressero nel 1171 il primo comune129
: a dire la
verità un «piccolo comune», guidato da «antiche famiglie legate al vescovo» più
propense a collaborare con lui in forme tradizionali, «essendo coinvolte nella
riscossione della curadia e dei pedaggi», e nell’amministrazione vescovile130
.
A Ivrea non fu la tarda formalizzazione delle istituzioni del comune, bensì il
contesto regionale all’interno del quale nacque e maturò tale esperienza a
rappresentare un fatto discriminante del fallimento del pieno sviluppo comunale.
Altre realtà piemontesi erano nate già da parecchi anni (Vercelli quaranta, Asti da
creditizia e basi fondiarie», a cui poteva affiancarsi la «presenza nella curia vassallatica»,
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 400-401. 126
Si veda supra p. 24. 127
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 398. 128
Alcuni come i del Pozzo, o gli stessi Delfino, non rivestirono negli anni in cui sono
vassalli, cariche consolari, né sembrano avere un patrimonio cittadino o sul contado, non hanno
ricevuto in concessione né in affitto terre, eppure, essendo parte della clientela vassallatica del
vescovo, dovevano in qualche modo essere parte di quell’aristocrazia avvezza all’uso delle armi.
Si veda FALOPPA, Società e politica cit., pp. 236-237 e n. 663; cfr. R. BORDONE, Il movimento
comunale: le istituzioni cittadine e la composizione sociale durante il XII secolo, in Storia di
Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, Torino 1997, pp. 619-620. 129
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 814: i consoli del 1171 furono Bombello Solero
(parente del vescovo Gaimaro), Bonamico della Rocca (collaboratore di Guido nel 1162), Lilfredo
de Civitate, Milone Rebufato, Lilfredo ed Evrardo Grasso. La comparsa dell’organismo comunale
a Ivrea, come anche a Vercelli, fu agevolata da circostanze politiche favorevoli alla formulazione
del governo cittadino, oltre alla connivenza dei vertici ecclesiastici legati per via parentale: per
Ivrea si veda op. cit., p.; cfr. il caso vercellese analizzato in DEGRANDI, Vassalli cittadini cit. Come
in altri casi piemontesi l’estrazione urbana caratterizza la composizione dei primi consolati e
prescinde dal legame con il vescovo; cfr. R. BORDONE, Città e territorio nell’alto medioevo. La
società astigiana dal dominio dei Franchi all’affermazione comunale, Torino 1980 (Biblioteca
della Società Storica Subalpina, CC), 390-396, e ID., Il movimento comunale cit., pp. 623-630.
Nei collegi consolari fra il 1171 e il 1207 risultano, tra altri meno noti, i nomi Grasso,
Solero, della Rocca, Rebufato, de Civitate, Suriano, della Torre, Salerano, de Mercato, Genetasio,
del Pozzo, Caldera, Brolino, da Fiorano, F. PANERO, Il «Libro rosso» del comune d’Ivrea: raccolte
degli atti di cittadinatico e strumento giuridico per un coordinamento politico del territorio
diocesano, in Libri Iurium e organizzazione del territorio in Piemonte (secoli XIII-XVI), a cura di
P. GRILLO, F. PANERO, «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici e artistici della
provincia di Cuneo», CXXVIII (2003), p. 57, n. 26; cfr. ID., La grande proprietà cit., p. 857 sg. e
p. 860, n. 86. Nel periodo fra il 1213 e il 1226 si hanno nomi presenti già nella documentazione
precedente – Brolino, de Mercato, Grasso, della Torre, del Pozzo, della Rocca, Borgonovo, da
Bollengo, da Settimo, Suriano, Caldera, da Fiorano, Solero – ma anche di nuovi: ID., Il «Libro
rosso» cit., p. 59, n. 38; per l’estrazione sociale dei consoli e per la divisione in due organismi
separati dei rappresentanti cittadini si veda BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 819 sg. 130
PANERO, Il «Libro rosso» cit., pp. 53-54. Il rafforzamento del comune avviene nei primi
trent’anni del secolo XIII, con il ridimensionamento della clientela vescovile: quando un
personaggio non si legava più al vescovo ma solo al comune, e quindi intraprendeva un percorso
‘laico’, voleva dire che si era delineata una certa autonomia del comune dal vescovo, «che in una
fase di maggiore stabilità istituzionale poteva scegliersi i propri collaboratori senza dover attingere
dal ‘vivaio’ vescovile», FALOPPA, Società e politica cit., pp. 161 e 261.
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34
quasi un secolo), la cui concorrenza poté essere contenuta da forze sovraregionali
(Savoia o Milano) che tuttavia «su un piano prettamente politico funzionarono da
catalizzatori e cristallizzarono la realtà socio-istituzionale eporediese in una sorta
di incertà maturità»131
. La «fortuna di Ivrea», quella di trovarsi al centro di grandi
transiti viari, o quella di detenere il monopolio di un commercio prezioso come
quello delle mole, la resero paradossalmente più vulnerabile: priva di meccanismi
comunali collaudati e di una rassicurante rete di rapporti – in cui le relazioni delle
famiglie funzionassero da tutela della continuità politica del comune – Ivrea fu
contrastata in una fase precoce da forze molto più strutturate. La costante
preoccupazione di preservare diritti e fonti di entrate, le priorità politiche che
indussero ad attestarsi in modo difensivo e conservativo entro un territorio
circoscritto, estromisero Ivrea dai maggiori patti fra le città piemontesi e dalle
alleanze e dai raccordi associativi che da esse scaturirono132
. Alla luce di ciò dalla
documentazione eporediese emersero queste specificità «che in parte potrebbero
sottrarre una piena responsabilità vescovile»133
.
Ma non c’è dubbio che una soggezione alla figura vescovile si verificò nei
primi decenni di vita del comune, la quale spesso apparve come una «copertura»
da minacce esterne – come a cavaliere dei secoli XII e XIII, nelle fasi di contrasto
che videro scontrarsi il comune e il conte Ranieri di Biandrate, a cui solo
l’arbitrato del vescovo Pietro trovò soluzione –, consolidandosi già a partire dagli
anni Trenta del Duecento. Forte dell’investitura feudale «de bonis usantiis» da
parte del nunzio imperiale nel 1219134
, il comune aveva tentato di sottrarsi dalla
subordinazione vescovile per i diritti di mercato, erodendo parte delle prerogative
spettanti alla chiesa. Azione che non gli riuscì; anzi, su richiesta vescovile,
intervenne persino il pontefice: il comune si dovette piegare alla reazione
episcopale e, di fronte alla scomunica degli incaricati papali, cancellò gli statuti,
giudicati «iniqui», raggiungendo pure un accordo col presule, nel 1236135
, che
confermò quanto la propria giurisdizione fosse limitata dai privilegi ecclesiastici,
131
A. FALOPPA, Dal Vescovo al Comune, in Ivrea. Ventun secoli cit., p. 140. 132
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 332-333. 133
FALOPPA, Dal Vescovo cit., p. 140. 134
Il libro rosso cit., p. 152 sg., doc. 156. 135
PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 936; la vicenda del castello di Settimo è riportata
in Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 213-218, doc. 157.
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35
nonché dalla concorrente giurisdizione vescovile. La presenza di rappresentanti
imperiali (tra il 1238 e il 1250) limitò i motivi di contrasto con il presule136
. Anzi,
dal 1249 (e ancora nel 1263) –, il comune si fece garante per i beni e i diritti
episcopali in caso di sede vacante: mediante un particolare rituale procedurale, ai
procuratori comunali venivano consegnati beni e i diritti episcopali, i quali, a loro
volta, li assegnavano a singoli amministratori e custodi che, una volta eletto il
vescovo, ricevevano l’ordine dagli stessi procuratori di restituire i singoli beni al
neo-eletto; in tutto ciò, il comune otteneva protezione e investitura137
. Fu così che
il reciproco riconoscimento rifletté quella cooperazione che neppure il diploma di
Corrado IV del 1254138
e pendenze patrimoniali successive riuscirono a incrinare.
Sotto l’episcopato di Federico di Front, il comune continuò a seguire in genere le
posizioni vescovili – tranne in alcuni momenti di azione autonoma –, per poi
distaccarsene quando la signoria laica soppiantò quella ecclesiastica, tanto che
nessun rapporto di tacita sottomissione poteva più dirsi esistente nei confronti del
vescovo139
.
Le radici della debolezza che portarono Ivrea a cercarsi sempre chi la
tutelasse politicamente, ma soprattutto militarmente, dalle minacce presentatele
dai potenti vicini – Vercelli, i Monferrato, i conti di Biandrate e del Canavese – è
da cercarsi proprio nella «vita tranquilla all’ombra del vescovo» abbracciata dalle
famiglie del ceto dirigente: scelta che tardò, non tanto la formalizzazione di un
impianto istituzionale solido, quanto quell’organizzazione territoriale che
implicasse crescita demografica ed economica e che permettesse la creazione di
un esercito cittadino in grado di garantire l’autosufficienza militare, quindi
politica140
.
136
Essi risiedettero in Ivrea controllando direttamente il Canavese, ma mantenendo diviso il
distretto vescovile da quello al loro soggetto, pur percependo le prestazioni che dovevano essere
corrisposte all’imperatore. Se tale condizione presentava differenze, il controllo federiciano si
estendeva anche alle terre episcopali: queste possedevano una loro autonomia, per lo meno
tributaria, al contrario del comune che vede diminuire la propria, PENE VIDARI, Vescovi e comune
cit., p. 940. 137
L’analisi di questa prassi «specifica, altrove ignota» è contenuta in op. cit., p. 940 sgg.;
per un approfondimento si veda BAIETTO, Una politica per le città cit., pp. 496-498. 138
Il libro rosso cit., pp. 204-205, doc. 204; cfr. PANERO, Il «Libro rosso» cit., p. 61. 139
Si veda infra cap. V. 140
PANERO, Il «Libro rosso» cit., p. 62.
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3.2. Strategie politiche e feudali del comune di Ivrea
All’indomani della morte dell’imperatore Enrico VI141
, il comune di Ivrea
cercò di legare a sé le forze operanti sul territorio in un patto politico in funzione
anti-vercellese142
. Nel novembre 1197, Guiberto conte di Castellamonte e altri
suoi consanguinei giurarono il cittadinatico143
; poche settimane più tardi, i conti di
Valperga prestarono analogo giuramento144
. Nel 1198 il comune ottenne una serie
di giuramenti di cittadinatico da parte di signori presenti sul territorio canavesano:
castellani di Castruzzone, fedeli monferrini (febbraio)145
, i «domini» di Romano,
di Torre, di Candia, di Scarmagno, di Rondissone, di Settimo146
, di Mercenasco,
di Loranzè, di Griva (giugno)147
, il marchese Bonifacio del Monferrato
(ottobre)148
, Filippo «de Arundello» (dicembre)149
. La politica di avvicinamento
dei signori del contado alla città di Ivrea continuò nei primi anni del Duecento,
quando il comune eporediese consolidò le proprie basi territoriali legando a sé
feudalmente altri detentori di castelli, come i signori di Arnaz, quelli di Bard, che
giurarono il cittadinatico a Ivrea (1200)150
, e – probabilmente anche in accordo
141
PANERO, Il «Libro rosso» cit., p. 57. 142
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 826; un paragone può esser fatto con la strategia
messa in campo dal comune di Alba: La popolazione. Il cittadinatico come impegno reciproco, in
La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV), a cura di ID., disponibile su
www.retimedievali.it.; cfr. D. ALBESANO, La costruzione politica del territorio comunale di Alba,
in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», LXIX (1971). 143
Il libro rosso cit., pp. 72-73, doc. 88; per impegno e clausole, BORDONE, Potenza
vescovile cit., pp. 825-826. 144
Il libro rosso cit., pp. 173-175, doc. 181; per gli impegni richiesti ai conti e quelli
garantiti da Ivrea si veda BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 826. 145
Il libro rosso cit., pp. 87-88, doc. 107. 146
Nel 1193 due signori di Montalto e Corrado di Settimo del fu Guglielmo giurano ai
consoli di Ivrea e Vercelli, e al vescovo eporediese di proteggere uomini e cose di Vercelli e Ivrea,
«specialmente i molares e le pietre da mola», nonché i pellegrini, che transitavano sul loro
territorio. Il giorno successivo giurarono altri personaggi di Montalto e Corrado del fu Boiamondo
di Settimo e Guglielmo di Settimo, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 306, n. 82. 147
Il libro rosso cit., pp. 19-20, doc. 22; tutti giurano alla presenza dei consoli di Ivrea e dei
«comites Canapici», ormai membri del gruppo dirigente cittadino; nel 1209 Oberto figlio di
«dominus» Amedeo di Montalto giura il cittadinatico a Ivrea e obbliga i suoi beni ai consoli,
compreso il castello di Montestrutto, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 269. 148
Il libro rosso cit., pp. 170-173, doc. 179; per le clausole e gli impegni si veda BORDONE,
Potenza vescovile cit., p. 827. Seguirono un paio d’anni in cui il comune approfittando della
debolezza manifesta dell’episcopato di Giovanni, tentò di appropriarsi dei diritti signorili fino ad
allora condivisi con il presule: cfr. BAIETTO, Una politica per le città cit., pp. 499-506. 149
Regesto del «Libro del Comune» cit., p. 285, doc. 12. 150
I Bard facevano salvo il conte di Savoia, FALOPPA, Tracce di aristocrazia valdostana
cit., p. 662; già nel 1180, nei patti relativi al transito delle mole, essi riconoscono la superiorità del
comune eporediese, op. cit., pp. 658-659; nel 1214 si riconobbero vassalli del vescovo di Ivrea e
del conte di Savoia, p. 663.
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37
con il vescovo – i signori di Burolo (gennaio 1203), di Fiorano e i conti di San
Martino (febbraio 1205)151
.
Nel biennio 1212-13 questo progetto politico raggiunse la sua massima
espressione. Gli eporediesi stavano da qualche tempo incrementando
vigorosamente il controllo su uomini e signori del contado152
mediante il patto
«vicinium et habitaculum»153
: queste e altre azioni154
, benché denunciassero
ampia autonomia dei signori rurali, lesero gli interessi del comune di Vercelli, che
per tutta risposta nell’aprile del 1210 terminò la fondazione del borgo franco di
Piverone, nel territorio diocesano di Ivrea. Fu in questa fase che gli Eporediesi
allacciarono un’alleanza, destinata a durare fino al 1229, con il consortile dei conti
del Canavese155
, al quale, allora, aderivano alcune delle famiglie signorili del
contado: Biandrate, Valperga, San Martino, Castelnuovo, Front, Brosso, Agliè,
Castellamonte. Nel 1213, i conti giurarono di stare «secundum preceptum
potestatis vel consulum», promettendo inoltre «armaturas personarum, munitiones
civitatis et castrorum et equos emere»156
; in cambio ottennero la cittadinanza e il
riconoscimento di alcuni diritti157
. Ma l’ombra dell’episcopato emerse anche in
151
Il libro rosso cit., pp. 145-147, docc. 161-162 (Burolo); p. 90, doc. 110 (Fiorano): sulla
vicenda del castello di Fiorano si veda A. LUCIONI, Da Warmondo a Ogerio, in Storia della
Chiesa di Ivrea cit.; Il libro rosso cit., pp. 167-168, doc. 177 (San Martino): questi giurano fedeltà
al comune di Ivrea che li investe per «rectum et gentilum feudum» del castello e di tutto ciò che
era «in villa et curia et poerio di Casteglonum». Non v’è notizia di un giuramento di
«habitaculum» da parte dei San Martino verso l’organismo comunale eporediese come fu invece
per i Castellamonte e i Valperga negli ultimi anni del XII secolo, OREGLIA, Le famiglie signorili
cit., pp. 39-40. 152
Una decina entro il 1210 e circa quaranta fino al 1220; in Il libro rosso cit., pp. 1-18,
docc. 1-20, pp. 20-22, docc. 23-26, pp. 45-89, docc. 52-108, si ritrovano formule come «carta
habitaculi» o «carta obligationis pro habitaculo». 153
Regesto del «Libro del Comune» cit., pp. 299-301 e 304, docc. 34-42, 51-53; cfr.
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 833-834. 154
Ottenuta la piena solidarietà dagli enti religiosi eporediesi e, in agosto, dal neo eletto
vescovo Oberto, il comune di Ivrea, ritenuto insufficiente tale appoggio, dapprima cercò di colpire
economicamente il vicino e più potente rivale, bloccando l’esportazione delle macine e
aumentandone in seguito il pedaggio. 155
Si veda oltre cap. IV. 156
Il libro rosso cit., p. 175, doc. 182; FALOPPA, Società e politica cit., pp. 281-282. L’anno
precedente, il podestà Gaspare Avogadro si disse «civitatis Yporiensis et societatis Canapiensis»
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 95, doc. 65; cfr. BAIETTO, Una politica per le città cit., p.
492 sgg. 157
Come quelli di «eligere annuatim ante quam terminus potestatis vel consulum qui pro
tempore fuerint sit finitus», di giudicare i propri uomini e i reati commessi da uomini loro
sottoposti nei confronti dei dipendenti di altri signori del consortile: solo in caso di
inadempimento, dopo due mesi, il podestà si riservava il diritto di intervenire. Il comune,
nonostante le concessioni che ne sottolineavano ancora una volta la sua debolezza giurisdizionale,
riusciva, almeno per via mediata, a estendere il proprio controllo e a coordinare il territorio
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38
questa occasione: promettendo il cittadinatico, i conti riservarono i propri obblighi
tanto verso l’imperatore quanto verso la chiesa vescovile («defendere civitatem
[…] contra omnes homnes salvo imperatore et ecclesia yporiensi»), la quale parve
accondiscendente nei confronti di quest’alleanza, dati gli interessi che aveva nel
contrastare l’espansione del comune rivale di Vercelli158
. Tale strategia politica
rappresentò una realtà «quasi isolata»159
, ma benché limitasse possibili progetti
espansivi di entrambe le parti, gettò le premesse per lo scontro con i Vercellesi160
.
Nei primi trent’anni del Duecento si formò una «diarchia» fra comune e conti161
che, qualificandosi come aggregazione istituzionale, non intaccò l’identità delle
due forze, poiché mantennero ognuna la propria individualità162
. Un esempio
concreto di ciò è fornito dalle vicende dei signori di Settimo, i quali furono
sempre legati al comune di Ivrea, ma parteciparono come castellani, e senza avere
alcun legame parentale, al consortile dei conti del Canavese163
.
In questa fase (1213-1226) le iniziative politiche del comune – cittadinatici
e accensamento di terre comuni – proseguì164
e non si fermò dopo lo scioglimento
dell’alleanza con il consortile canavesano (fra il 1229 e i 1231). In seguito, il
comune ricorse di nuovo al legame con i conti del Canavese165
, benché essi si
trovassero contrapposti politicamente – i San Martino con i loro parenti e dagli
canavesano e gli uomini atti alle armi, e sottoposti ai signori, che ne facevano parte; così in
PANERO, Il «Libro rosso» cit., p. 59. 158
PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 932; va più nel dettaglio BORDONE, Potenza
vescovile cit. 159
Op. cit., pp. 834-835. 160
Nonostante fossero già intercorsi dei rapporti fra questo comune e l’aristocrazia
canavesana, dal 1206 fu vietato agli abitanti di Vercelli il prestito ai «comites de Canaves
habitante a flumine Durie insusum versus Canavesus» e ai conti di Biandrate, Documenti
dell’archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea, a cura di G. COLOMBO, in Pinerolo 1901
(Biblioteca della Società Storica Subalpina, VIII), p. 39-40, doc. 22. 161
Si è parlato anche di «ménage à trois» fra episcopato, comune e consortile Canavesano,
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 825. 162
FALOPPA, Società e politica cit., p. 283: infatti, il giuramento di «cittadinatico» era solo
potenzialmente la premessa di un’affermazione urbana o di un mutamento interno all’istituzione
cittadina, G. SERGI, Potere e territorio lungo la strada di Francia, Napoli 1981, p. 176 sgg. Va
anche detto che la guerra con Vercelli sottolineò in ogni aspetto la fragilità di questa alleanza; si
veda OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 57 sgg. 163
Op. cit., p. 272, n. 8 e pp. 307-314; si veda anche PANERO, La grande proprietà cit., p.
861-862. 164
Il libro rosso cit., pp. 1-200. 165
Nel 1253-54 fu podestà di Ivrea il conte Corrado di Valperga, già podestà del consortile
composto dalla sua famiglia e quella dei castellani canavesani; nel 1255 Enrico di Masino fu
podestà sia del comune sia del consortile dei Valperga, Il libro rosso cit., pp. 104-107, docc. 125,
125 ins. 1 bis., 126.
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anni Sessanta del secolo i Castellamonte da una parte, i Valperga e i Masino
dall’altra –, non riuscendo più a determinarsi come vertice feudale né come centro
di convergenza politico-territoriale: infatti, continuò a esercitare soltanto un labile
controllo sul territorio – attraverso la custodia del castello di Settimo, la
superiorità feudale nei confronti di alcuni castellani, oppure, in forma mediata,
grazie ai signori che prendevano casa in città – che non gli permise di organizzare
un’area che travalicasse i confini di un distretto limitato alla città e ai pochi
castelli vicini166
.
4. L’aristocrazia militare del contado
La posizione occupata dall’aristocrazia rurale nella rete di rapporti
vassallatici e clientelari presenti in area canavesana è già più volte emersa nelle
pagine precedenti. Ma per rintracciare legami feudo-vassallatici riconducibili ai
conti e ai castellani, occorre analizzare la situazione documentaria e il contesto in
cui poterono crearsi tali rapporti. Per esempio, dai documenti di area eporediese
emergono, infatti, forme di contratto – il cui contenuto poteva essere la cessione
limitata nel tempo o la vendita di quote di terra in cambio di un affitto e, talvolta,
di obblighi specifici – in cui si traspare l’intenzione di adottare «rapporti
contrattuali di alto livello alla stregua di raccordi vassallatico-beneficiari»167
. I
soggetti maggiormente interessati erano notabili locali o «boni homines»168
: è in
questo gruppo di rustici che rientravano coloro che spesso affiancano nei
documenti i signori canavesani; essi, lontani dall’essere membri di famiglie
signorili169
, appartenenti a quei settori della società che grazie a una solida base
166
Il controllo dei castelli vescovili (Montalto, Chiaverano, Pavone, Albiano, Vische) era
soltanto temporaneo perché frutto di un impegno attivo solo nei periodi di sede vacante; la
fondazione del «castelfranco» di Bollengo nella primavera del 1250 fu possibile solo grazie alla
copertura politica del capitano imperiale, PANERO, Il «Libro rosso» cit., pp. 60-62. 167
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 432; a questo riguardo, è bene ricordare che «forme
clientelari non significa vassallaggio, o meglio non significa solo vassallaggio»: per sancire un
legame era frequente l’uso di «libelli», «enfiteusi» e «precarie»; vendere, donare e affittare terra
non era mai un atto puramente economico, ma una «manifestazione di un legame, di una
solidarietà», ALBERTONI, PROVERO, Il feudalesimo cit., pp. 73-74. 168
PROVERO, L’Italia dei poteri locali cit., p. 188. 169
Nella sua analisi Oreglia più volte formula seri dubbi sull’appartenenza alle famiglie
comitali di individui identificati con il semplice nome del luogo in cui probabilmente risiedevano:
ad esempio, si veda OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 61-62.
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fondiaria risultavano attivi politicamente in sede locale170
. E così, ogni famiglia
comitale aveva, sotto di sé, come vassalli gli uomini delegati alla custodia dei
castelli aviti, e aveva stretto rapporti almeno clientelari con le élites contadine dei
luoghi in cui esercitava un saldo potere signorile171
.
La famiglia di cui si ha maggiormente notizia di questi legami intrapresi a
livello locale è quella dei conti di Valperga: di ciò si ha certezza nel legame che
unì questi conti alla famiglia di Guglielmo «Drous de Gualpergia»172
; i
discendenti di Guglielmo, per distinguersi dalla famiglia comitale, assunsero il
nome del capostipite «Drous» come cognome (Droenghi)173
. A loro si aggiunsero
i «de Doblatio», forse proprietari – non senza qualche dubbio – di una torre,
edifici e terra colta e incolta «in territorio Ponti ubi dicitur ad Dobias»,e
probabilmente anche i Descalzi, a loro volta in rapporti stretti con i San
Martino174
. Inoltre, coloro che aggiunsero al proprio nome il predicato «de
Maçadio» (Mazzè) furono, con molte probabilità, personaggi legati ai Valperga da
un giuramento di fedeltà175
. La famiglia dei Silvesco (o Silveschi) possessori di
parte del castello di Salto «cum curte et poderio» e signori in Salto e Priacco, era
legata, vassallaticamente come i Droenghi, ai Valperga, ma anche ai San
Martino176
. Infine, nel 1272 Giacomino Manera di Cuorgné, detto «Blancio», cede
al conte Pietro di Valperga quattro sedimi in Rivassola, di cui viene in seguito
170
Individui spesso ascrivibili alla categoria degli «agenti del potere», membri dell’élite
contadina coinvolti in rapporti clientelari che spesso assumevano forme specifiche – ingresso nella
masnada signorile, attribuzione di incarichi e funzioni, convocazione per testimonianze o arbitrati,
la concessione di terre a condizioni particolari, come il «feudum scutiferi» – e per i quali
amministrazione del patrimonio e servizio militare, a metà strada fra milites e pedites, sono gli
incarichi che meglio ne definiscono la posizione sociale, PROVERO, L’Italia dei poteri locali cit., p.
147-149, 189; riguardo al feudum scutiferi e alla figura dello scutifer si veda F. MENANT,
Lombardia feudale: studi sull’aristocrazia padana nei secoli X-XIII, pp. 277-293; cfr. BARBERO,
Vassalli, nobili e cavalieri cit. 171
Si veda per questo il capitolo sui beni fondiari delle famiglie aristocratiche (III). 172
Infatti, egli prestando fedeltà nel 1249 a «domino Conradus electo et procuratori» della
chiesa di Ivrea, per un feudo sito «in castro et ville et poderio et territorio» di Montalto di cui era
stato investito da «Martinus Longus», membro del consortile dei signori di Montalto, fece salva la
fedeltà ai signori di Valperga, «sui primi domini», Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 279-
281, doc. 201. 173
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 195; si veda la parte dedicata alla famiglia in
BERTOTTI, La pianticella di canapa cit., p. 22 sgg. 174
Op. cit., pp. 18-20; su Pont è stata dimostrata la cosignoria dei conti di Valperga e quelli
di San Martino, BUFFO, Lessico e prassi cit., p. 404. 175
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 198 sgg. 176
BERTOTTI, La pianticella di canapa cit., p. 21 sgg.
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41
reinvestito e per i quali s’impegnava a dare un censo annuo177
. Più complicato (e
carente dal punto di vista delle attestazioni dirette) rintracciare reti clientelari per
altre famiglie.
I conti di San Martino erano in rapporti stretti con i castellani di Candia178
e
i castellani di Castellogno179
. Anche i castellani di Mercenasco, si avvicinarono ai
San Martino180
. Un altro atto di sottomissione ai San Martino si registra nel marzo
1213181
. In un documento del gennaio 1181 – in cui vengono menzionati «Guala,
Martinus, Paynus, Guillelmus comitum de Sancto Martino» presenti in Agliè
come testimoni assieme ad altri personaggi, individuabili nei conti di
Castellamonte e altri signori del Canavese – compaiono anche due fratelli,
«Galdinius» e «Robaldus», detti di San Martino: essi detenevano un feudo in
Vialfrè dai signori di Agliè; «non si tratta probabilmente di parenti dei conti, ma
soltanto di persone provenienti da San Martino», poiché non si trova altra
menzione di questi personaggi. Nel documento i rappresentanti dell’intera
famiglia sono chiamati «a presenziare a un atto di giustizia di una certa rilevanza,
per il quale sono riuniti in assemblea di fronte a tre arbitri buona parte dei signori
del Canavese, ivi compresi alcuni clienti del vescovo, al fine di dirimere una
questione patrimoniale che coinvolgeva beni di notevole entità»182
.
Nel 1181 si apprende che una famiglia – quella di un certo Rofino padre di
Maria e suocero di Raimondo di Castellamonte, nonché zio di Azzone e Alberto,
il quale possedeva sia feudi sia allodi – era legata vassallaticamente ai San
Martino o ai Castellamonte183
. Nel 1186, Guglielmo di Castellamonte fu investito
177
Op. cit., p. 21. 178
Dai quali tenevano un feudo, che a sua volta era di proprietà della chiesa eporediese,
suddiviso fra «Caçaio», Agliè e «Macugnano», quindi nei dintorni di Agliè; altri beni si trovavano
in Loranzè e Parella, e in luoghi di difficile identificazione, come «Sugladio», «Cirriono»,
«Unçasco», OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 273, n. 10. Quando il fronte consortile si spezza,
questi castellani passano dalla parte dei Valperga, dei Castellamonte e dei San Giorgio, e quindi
del marchese del Monferrato, contro la chiesa e i San Martino, op. cit., p. 276. 179
Il legame con i conti di San Martino potrebbe essere stato, in forma molto dubitativa, di
tipo vassallatico: tre castellani di Castellogno, Bongiovanni, Bruno e Giacomo comparvero
insieme ai San Martino e a parecchi altri nella definizione del patto stretto da questi conti con i
comuni di Ivrea e Vercelli del 1232, op. cit., pp. 278. 180
Op. cit., p. 285. 181
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 100-101, doc. 70. 182
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 28-29; Gabotto, p. 29, doc. 16. 183
Il legame della famiglia di Rofino era probabilmente di natura vassallatica, e non di
parentela, nei confronti dei Castellamonte, poiché i nomi erano inusuali alla famiglia comitale e
perché l’assestamento del toponimo di questa avvenne solo a XIII secolo iniziato, e non prima,
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da Amedeo di Montalto di proprietà site in Valchiusella, come pegno di un mutuo
che aveva concesso a esso, fatta eccezione per la «curtis» di Strambinello, che
Amedeo teneva «in indiviso» con lui184
. Ugolino e Arnaldo, figli di Giacomo
Solero, furono in lite, nel 1249, con Guglielmo «Ponçonus», Raimondo e
Manfredo conti di Castellamonte per un feudo tenuto in Lessolo dai Solero (sito in
«Çerboris»)185
. Probabilmente, i castellani di Torre erano legati ai conti di
Castellamonte «visto che le loro vicende si intrecciarono in almeno tre occasioni
nell’arco di un secolo»186
.
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 217-220; si veda anche Le carte dell’archivio vescovile
cit., pp. 29-32, doc. 16. Questo legame torna anche in documenti successivi e molto distanti l’uno
dall’altro negli anni, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 222, n. 7: è possibile che si trattasse di
un gruppo che s’identificava con le località di Agliè o di Montalenghe; soltanto delle ipotesi
piuttosto difficili da dimostrare potrebbero delinearne lo status. 184
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 34-35, doc. 18. 185
Parte del feudo di «Çerboris» era stato dato in investitura dalla chiesa a Guido di
Lessolo i cui figli l’avevano ceduto ai conti di Castellamonte, mentre un’altra parte, affidata dalla
chiesa a Paolo di Lessolo, era andata ai Solero; il bene rimaneva di proprietà della chiesa: con la
mediazione del presule Corrado di San Sebastiano, i conti investono i Solero e ottengono fedeltà,
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., 228-230. 186
Op. cit., p. 296. I castellani di Loranzè-Arundello, oltre al castello di Loranzè,
possedevano un «feudum Morini de Marcenasco in valle Clivina» e un «feudum decime vallis
Clivine» che farebbero pensare a un legame vassallatico in favore dei castellani di Mercenasco; nel
1179, i castellani di Settimo investirono Giovani Grasso di Montalto di tutto ciò che tenevano in
quel luogo ottenendone in cambio fedeltà vassallatica; molti uomini di Strambino riconobbero i
propri beni e ne fecero fedeltà ai signori Martino ed Enrico di Romano nel marzo 1213; nel 1250
Guglielmo de Civitate giurò fedeltà ai «domini» Bonifacio di Romano e Giacomo Schiena di
Montalto per i beni in Albiano di cui fu investito; lungo tutto il XIII secolo, alcune famiglie
cittadine furono investite di terre e dovevano censi e imposte agli avvocati di Strambino: Abonesi,
Balbo, Bovolo, del Pero, della Porta, Fanuelli, Grasso; op. cit., p. 302; Le carte dell’archivio
vescovile cit., pp. 26-27, doc. 14; pp 101-102, doc. 71; p. 283, doc. 205; PANERO, La grande
proprietà cit., p. 850 sgg.
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Capitolo terzo
Fra città e contado: i patrimoni delle famiglie signorili
1. Tipologie di ricchezza delle famiglie signorili eporediesi
Nella prima metà del Duecento, a Ivrea le differenze sociali furono poco
visibili, poiché la sostanziale univocità d’interessi, pur trovando nel governo
comunale un valido motivo di definizione e creazione di un’identità di gruppo, si
espresse nella maggioranza dei casi nell’appartenenza o nel semplice
coinvolgimento con l’ambiente vescovile. All’interno di quest’orientamento
comune, e della partecipazione alla vita istituzionale, della rilevanza politica o
della consistenza patrimoniale che ogni famiglia riuscì a raggiungere, le differenze
individuali furono marcate e condizionate dall’intervento di fattori sociali e
politici diversi187
. Altre vocazioni, come quelle dichiaratamente mercantili,
sembrarono essere in gran parte assenti: infatti, un problema si pone se si affronta
il rapporto allora esistente fra le famiglie eporediesi e il loro effettivo
coinvolgimento nel commercio delle mole, «estremamente delicato e non privo di
rischi di generalizzazioni»188
. Anche la questione sulla percezione dei diritti
pubblici e commerciali in Ivrea è delicata quanto quella delle mole: solo in alcune
occasioni è stata trovata menzione dei detentori, e molto spesso si è trattato di
individui esterni al gruppo dirigente cittadino189
. Quest’ultimi, al contrario,
riuscirono ad arrogarsi alcuni diritti indipendentemente dal consenso del
187
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 235-236. 188
Op. cit., pp. 236-237 e n. 663. Il commercio delle mole rappresentò per Ivrea una delle
«componenti principali dell’economia cittadina», EAD., Percorsi familiari cit., p. 411-415 e nn.
67-76; si veda supra cap. I; riguardo al rapporto fra il Canavese e i signori valdostani e gli
interessi sul confine fra Canavese e Valle d’Aosta, DAVISO DI CHARVENSOD, I pedaggi cit.; cfr.
SERGI, I confini del potere cit., p. 5. 189
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 379-381, doc. 277; 39-40, doc. 327; 140-148,
doc. 403. Un paragone può essere fatto con il caso torinese affrontato in A. FRESCO, Aspetti
simbolici e significato socio-istituzionale negli usi feudali della chiesa torinese nei secoli XII-XIII,
in «Bollettino Storico-Bibliografico subalpino», XCII (1994), 1, pp. 187-188, dove si riconoscono
due livelli diversi di vassallità: un’alta vassallità di tradizione pubblica o comunque signorile (a cui
è affidata principalmente la custodia di castelli con relativi diritti), e una bassa, «stipendiata»
soprattutto attraverso la riscossione di decime e novali (che ricopre un ruolo di «manovalanza» per
le necessità del «senior»).
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44
vescovo190
, il legittimo detentore della giurisdizione cittadina e (in parte)
extraurbana191
.
A condizionare le vicende delle famiglie dell’élite cittadina furono
certamente gli eventi politici vissuti dalla città d’Ivrea che – come ha affermato
Giuseppe Sergi – rappresenta un modello di comune «ad autonomia breve», per
cui il «contesto cronologico» interagì con altri elementi che lo determinarono, ma
che fu esso stesso a determinare192
. Così la fortuna di una famiglia poteva essere il
risultato di un «rilancio», rispetto a «una fase intermedia di recessione che
probabilmente era seguita a una fase di precoce affermazione», come fu per i
Solero; più spesso, tuttavia, si trattava di una «creazione ex novo, sia di
patrimonio sia di status», che probabilmente prese avvio grazie ai mutamenti in
corso verso la metà del secolo XII all’interno della società cittadina193
e in molti
casi si consolidò attraverso i legami con il potere vescovile e gli enti religiosi194
.
I Solero o i de Civitate sono identificabili come quella nobiltà urbana
tendente a una precoce acquisizione di diritti, mentre alcune famiglie, come i della
Rocca o i del Pozzo, mantennero una prevalente fisionomia urbana, con un
patrimonio meno legato al contado e con una tardiva presenza del predicato
190
Ad esempio, si veda infra il caso dei Grasso. 191
Cfr. cap. II. 192
G. SERGI, La comparazione che cambia: le riletture comunali del Settentrione in una
prospettiva italiana, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea. Secoli XI-XV (Atti
del Convegno Internazionale in onore di Salvatore Tramontana, Adrano-Bronte-Catania-Palermo
18 -22 novembre 2003) a cura di B. SAITTA, Roma 2006, p. 93. 193
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 491-492. 194
FALOPPA, Società e politica cit., p. 236. All’interno delle mura e nel territorio di Ivrea il
monastero benedettino di S. Stefano possedeva beni presso l’edificio monastico (il «Cantonum
Sanctii Stephani», verosimilmente il patrimonio dell’antica cappella), presso la porta di Bando,
attorno alle chiese di S. Nazario, S. Quirico e S. Donato, presso il Paschero, nelle regioni di
Fiorana e San Giovanni, e forse, quattro banchi al mercato cittadino. I possessi fondiari canavesani
di S. Stefano si trovavano alla sinistra della Dora, presso Sessano, Perno, «Roda», Albiano,
Passerano, Piverone, Montalto, e Nomaglio, alla sua destra, presso Baio, Fiorano, Lessolo, Parella,
Loranzè, Pavone, «Vicinasco», Clusellario (tutte a sei chilometri dal centro cittadino), mentre più
distanti erano il manso di Macugnano, il mulino di Carrone (che si affiancava a quelli in Albiano e
Fiorano), la cappella di «Suagia» (Soavia), beni in Valchiusella, presso Romano, Carrone e
Vische; a Loranzè sarebbero stati in possesso del castello del luogo, FALOPPA, Un insediamento
monastico cit., p. 53-55; cfr. LUCIONI, Da Warmondo a Ogerio cit., pp. 162-163.
I possessi del capitolo cattedrale (secoli XI e XII), erano collocati nel borgo d’Ivrea e fino a
Palazzo, Lessolo, Sala, Piverone, Salerano, Rivarolo, Chiaverano, Romano, Pessano e Moirano
(PANERO, La grande proprietà cit., p. 851), oltre a terreni, diritti su decime e pedaggi in Ivrea,
censi e diritti di esazione in Albiano, Pavone, Areglio, Perno, Samone, Vische, Strambino,
Caravino, Fiorano e Bagnolo, Le carte dell’archivio capitolare cit. Per i possedimenti, allodi e
terre concesse in feudo, o accensate, della chiesa vescovile si veda il capitolo precedente.
Page 44
45
«dominus»195
. I vassalli cittadini, tuttavia, pur attingendo alla «bannalità
maggiore», contavano su possedimenti di estensione circoscritta, non paragonabili
a quelli di cui godevano le signorie di castello196
: in campagna come in città, il
linguaggio dei notai tendeva a riservare le qualifiche nobiliari alla cerchia delle
famiglie di tradizione militare. Inoltre, «la fluidità riflessa dal legame vassallatico
urbano» si manifestava facilmente in città, dove «era sufficiente il passare del
tempo e l’adozione di uno stile di vita adeguato» perché la semplice iscrizione alle
«cavalcate» si tramutasse in una pretesa di nobiltà, e molto più difficile in
campagna, dove si trattava di «alterare lo stato giuridico di un feudo»197
. Per il
resto, «si può solo supporre che i loro dominatus loci non potessero sopravvivere
senza il consenso di signorie maggiori che, in piccolo, esprimevano ambizioni
riconducibili al modello transalpino dei principati territoriali»198
. Infatti, per
quanto riguarda gli interessi e la partecipazione sul territorio si notano delle
differenze a Ivrea.
L’uso del capitale cittadino per la penetrazione nel contado è una
caratteristica comune alle famiglie che avevano in esse vassalli vescovili, come fu
per i Grasso, i de Mercato, i Genetasio: strategia che si sviluppò poi in senso
aristocratico199
. Gli anni in cui si riunirono i primi consolati coincisero, per le
famiglie dell’aristocrazia consolare, con quelli di maggiore successo: nel
ventennio successivo, «tutte le domus esaminate potenziarono la loro base
fondiaria», in diversi casi estesero il loro patrimonio sul contado200
, come i Solero
e i Grasso, che tesero a «creare enclaves territoriali compatte di allodi o di terre
beneficiarie»201
. Si trattava «di superfici che si misurano più spesso in decine che
in centinaia di ettari, «che non hanno niente a che vedere con i patrimoni dei
grandi monasteri o dei patrimoni delle famiglie dell’alta aristocrazia»202
. La
195
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 237-238. 196
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 403. 197
BARBERO, Vassalli, nobili e cavalieri cit., pp. 625-626. 198
FALOPPA, Società e politica cit., p. 275. 199
BORDONE, I ceti dirigenti cit., p. 40; cfr. DEGRANDI, Vassalli cittadini cit., pp. 5-46. 200
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 492. 201
FALOPPA, Società e politica cit., p. 173. 202
MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini cit., p. 232 sgg.
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46
concentrazione delle proprietà nella città e nei suoi dintorni è in contrasto con
l’estensione e la dispersione dei patrimoni di alcuni «domini» del contado203
.
Alle famiglie forti da tempo, partecipi alla «militia» cittadina e aperte alla
percezione di diritti signorili o a rapporti politicamente redditizi, si affiancarono
ceti che «basavano la loro ricchezza su elementi di professionalità»204
: un esempio
è dato dai notai, che a Ivrea mostrano «grande duttilità e una straordinaria capacità
di trovare spazio all’interno del ceto eminente»205
.
1.2. I patrimoni delle principali famiglie cittadine
Per i Solero si è già accennato alle confische imperiali che colpirono questa
famiglia: in seguito, i Solero furono costretti a limitare la loro sfera d’azione alla
città d’Ivrea da cui cominciarono a ricostruire il proprio patrimonio fondiario206
.
Nella seconda metà del XII secolo essi ricomparvero, fortemente radicati in città e
nel contado, come collaboratori del loro parente Gaimaro Solero, vescovo di
Ivrea: il suo episcopato fu un «periodo di espansione dei possessi sul contado che
si rifletté positivamente sull’estensione della loro base fondiaria» – assai più
consistente rispetto alla maggioranza dei lignaggi dell’aristocrazia consolare –, un
patrimonio costruito grazie anche alla collaborazione con il vescovo Guido e per
lo più formato da allodi, ma anche da terreni concessi in affitto o in feudo207
.
I Solero avevano allodi presso la Rocca di S. Maurizio (1179), nella Valle di
Montalto (1177), nell’Oltreponte eporediese e fino al torrente Chiusella, in
Albiano, in Fiorano, in Loranzè (1212)208
. Altri terreni erano in Perno e nel
territorio di Albiano (1170); il loro patrimonio arrivò ad estendersi fino a Piverone
– dove possedettero alcune vigne – a Vische e a Palazzo209
. Ancora a Perno erano
possessori di un sedime che nel 1214 fu donato alla chiesa eporediese con ogni
«honor, poderium, districtus», mentre fino al 1203, erano proprietari di una casa
«in Solerio», poi venduta ai canonici, e di un’altra nel «territorium» di Ivrea; fino
al 1205, furano in possesso di tre iugeri di terra e del diritto di riscuotere il fodro
203
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 492, n. 453. 204
Se ne accenna in FALOPPA, Società e politica cit., 318. 205
Op. cit., p. 240. 206
FALOPPA, Società e politica cit., p. 118. 207
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 421. 208
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 813. 209
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 422-423 e nn. 123-125.
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sul territorio di Ivrea «ad Pontem Petrum»210
. Nel 1287 (forse già da qualche
tempo) essi fruivano della carica di vicario vescovile211
.
I principali possessi beneficiari, soprattutto ecclesiastici, si trovavano in
Albiano212
, Azeglio, Fiorano, Loranzè, Lessolo e Ivrea. Risale al 1212 la lite per
delle terre d’Oltreponte con il vescovo213
, mentre fino al 1214 versarono un censo
in Lessolo, su una terra tenuta da Giovanni Doverolio214
. Detenevano un feudo
nella ricognizione del 1227215
, mentre altri possessi nella Valle di Montalto
comparvero tra le coerenze di una vendita del 1262216
. Nel 1276 avevano interessi
presso il mulino del vivaio di Chiaverano217
. Nel 1290, il vescovo Alberto
reinvestì di molti beni il «dominus» Ugolino Solero218
. Nel 1292, con ratifica
vescovile nel 1297, Ugolino permutò un beneficio ecclesiastico di Fiorano con un
210
FALOPPA, Società e politica, p. 119. 211
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 157-158, doc. 413; pp. 190-191, docc. 416-417:
per quanto riguarda la natura della concessione del «vicecomitatus Iporiensis ecclesie» i Solero
riuscirono a trasmettersi ereditariamente una carica che in origine aveva natura funzionariale; tale
natura era ancora effettiva nei primi decenni del Duecento, ma nella seconda metà del secolo il
vicecomitatus era diventato una sorta di «pacchetto di diritti svincolato dall’effettivo esercizio di
incarichi funzionariali», fra cui, probabilmente, anche la riscossione di diritti fiscali spettanti in
origine ai vescovi, FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 418, n. 96; la citazione è tratta da BUFFO,
La cogestione di beni e diritti pubblici da parte di comune ed episcopio a Ivrea: prassi, lessici,
attori, tesi di laurea magistrale presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, sezione
di Medievistica e Paleografia, pp. 177-195, in cui si parla della famiglia Solero tra ultimi decenni
del Duecento e primi anni del Trecento. 212
FALOPPA, Società e politica, p. 119. 213
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 90, doc. 63. 214
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 422-423 e nn. 123-125. 215
Si veda supra cap. II. 216
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 27-28, doc. 317. 217
Op. cit., pp. 117-118, doc. 380. 218
Si trattava di investiture ricevute in passato dai suoi parenti (infatti la formula adottata è
«per rectum, gentile et antiquum feudum») di un certo rilievo, come la casa in cui è solito
soggiornare il podestà eletto di anno in anno, confinante con quella di Ugolino e il palazzo
comunale, a cui si aggiungono sedimi, appezzamenti, vigne, generici terreni, benefici, decime
(quella per il transito verso la Valle di Montalto, quella presso le mura di Ivrea, quella presso il
lago Siriaco [Sirio], quella di porta Bosone, di Sant’Eusebio di Montalto, quella ricevuta da Enrico
della Porta e quella che teneva dalla chiesa di San Francesco, alle quali si aggiungono la nona
parte della decima d’Oltreponte, metà delle decime «veteris» di Lessolo, quella nel territorio di
Mercenasco, la sesta parte della decima «sua de Burgari», il diritto di pedaggio che ha in Ivrea, la
curadia «de illis qui manent ultra elex citramontes», la metà «erbarii omnium bestiarum
extranearum» che venivano a pascolare nel territorio di Ivrea) e terreni, prati, boschi e altri beni di
difficile definizione e localizzazione; venivano inoltre ricordate le «advocatie» delle chiese di San
Vittore di Villate, tra Mercenasco e Musobolo, di San Martino «de Burgaro» – identificabile con la
chiesa romanica (rifatta nel ‘700) di San Martino, tra Azeglio e Settimo Rottaro – e di
Sant’Ambrogio «a Vigintiuno»; per queste ultime due si veda G. FORNERIS, Romanico in terre
d’Arduino, Ivrea 1995, pp. 311, 328-330; cfr. con quanto afferma A. PIAZZA, In chiesa e nella vita.
Luoghi istituzionali e scelte religiose nel XIII secolo, in Storia della Chiesa di Ivrea cit., pp. 292-
297 sull’Ospedale de’ Ventuno o di S. Antonino.
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48
allodio di Pavone posseduto da Giacomo di Fiorano219
: il carattere giuridicamente
feudale di quanto si permutava venne trasformato in allodio (e viceversa per
l’allodio di Giacomo) grazie all’intermediazione di Giorgio Solero, vicario
vescovile, mentre il figlio di Ugolino, Giacomo, agiva da procuratore per il padre.
La politica di rafforzamento patrimoniale e di promozione sociale attraverso
i legami con l’ambiente religioso di Ivrea fu da loro individuata non in un
rapporto esclusivo con singoli enti, come quello di S. Stefano (che contraddistinse
parte o l’intera strategia di potenziamento di altre famiglie, come i Brusato, de
Civitate, del Pozzo, della Torre, Grasso, Genetasio, Salerano220
, e come gli stessi
Solero, i quali riuscirono tra l’altro a installarvi come abate un loro membro,
Filippo), ma nel legame con diverse realtà (religiose, ospedaliere e di
assistenza)221
. Il luogo destinato ad accogliere i membri maschi della famiglia fu
allora S. Stefano, oltre al capitolo cattedrale222
, mentre è stato accertato il
coinvolgimento, anche di alcune donne, con il cenobio cistercense femminile di S.
Michele223
, sempre a Ivrea. Inoltre, un’altra strategia di potenziamento adottata
dai Solero fu quella della partecipazione al governo comunale. Solero, ma anche
de Civitate s’identificarono soprattutto con le dinamiche interne al mondo
cittadino: essi erano capaci di raggruppare una notevole quantità di denaro e di
investirlo nell’acquisto di terre, usandolo talvolta per prestiti e garanzie, fatto che
faceva di loro famiglie «imprenditrici», tese alla creazione di «patrimoni
compatti»; i Solero verso il contado, i de Civitate soprattutto in città224
.
I de Civitate formarono un gruppo coeso che basò la propria ricchezza e il
proprio prestigio su un patrimonio fondiario e immobiliare prevalentemente
urbano. Ma alcuni loro possessi allodiali si trovavano anche in Vische, «Salexio»,
Livione e Palazzo, percepirono un censo e il fodro nel territorio di Perno (fino al
1202) e ricevettero in beneficio un manso a Sessano dal vescovo Gaimaro
219
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 176-178, doc. 433. 220
FALOPPA, Un insediamento monastico cit., pp. 33-36 sgg. 221
Si veda PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., pp. 291-302. 222
ALBERZONI, Da Guido di Aosta cit., p. 247, n. 243. 223
C. SERENO, Il monastero cistercense femminile di S. Michele d’Ivrea: relazioni sociali,
spazi di autonomia e limiti di azione nella documentazione inedita dei secoli XIII-XV, Torino 2009
(Biblioteca della Società Storica Subalpina, CCXXII), I, pp. 131-132. 224
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 406.
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(1182)225
. Nel 1168 Oberto fu eletto «curator» dal vescovo Gaimaro nella gestione
del patrimonio della famiglia Tagliandi, mentre nel 1195 si trovarono uniti ai loro
consorti nella lite sorta con Aicardo di Burolo per i diritti riguardanti la pesca sul
lago Trelago226
. Molti anni dopo (1250) per un beneficio in Albiano Ardizzone
doveva fedeltà a Guglielmo, signore di Romano, e a Boemondo del fu «dominus»
Giacomo Schiena di Montalto227
. La disponibilità di denaro liquido permise loro
di essere attivi sul contado e in città, e di candidarsi quali fideiussori, ruolo
favorito dai numerosi legami con le istituzioni religiose di Ivrea. L’attenzione
economica di questa «domus» fu rivolta anche ai rapporti con individui o gruppi
attivi nel commercio e nell’artigianato228
.
La famiglia dei Grasso dispose di un «patrimonio di dimensioni imponenti»
fra città e contado229
, che fu ridefinito in senso aristocratico e signorile attraverso
l’acquisizione di diritti e forse grazie alle strategie matrimoniali con altre famiglie
(portate avanti da singoli individui, come Evrardo e Guglielmo), fu un fattore di
progressiva affermazione nella vita istituzionale: infatti, i Grasso, a differenza dei
Solero e dei de Civitate, non trovò sufficiente legittimazione nell’appartenenza
familiare, ma necessitò di essere «costruito» mediante acquisizioni e
rafforzamenti patrimoniali230
.
I rischi di parcellizzazione del patrimonio furono ridotti231
, poiché fu
concentrato nelle mani di Evrardo e Guglielmo, insieme a Bongiovanni, e solo i
primi due ebbero un ruolo decisionale nelle transazioni delle proprietà232
. Il lungo
elenco di possessi allodiali contava di beni cittadini «subter Pusternam» (1133),
nella zona nord-occidentale della città, una casa accensata presso la cattedrale
(1158), un terreno, anch’esso dato in censo, presso S. Stefano (1178), e un diritto
signorile di successione su una persona, contestato dal vescovo,
nell’Oltreponte233
. Altri allodi, fuori Ivrea, erano: terreni in Palazzo (1175),
Lessolo (1188) e nel territorio di Albiano (1189), appezzamenti nel borgo di Ivrea,
225
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 145-148. 226
Op. cit., p. 139. 227
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 283-284, doc. 205. 228
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 145-148; cfr. EAD., Percorsi familiari, pp. 438 sg. 229
FALOPPA, Società e politica cit., p. 130. 230
Op. cit., 137-139. 231
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 428. 232
FALOPPA, Società e politica cit., p. 131. 233
BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 815.
Page 49
50
«in Pratis de Pontixello» in indiviso con Ardizzone di Salerano e Pietro Grasso,
mentre altri si trovavano a Pavone (1195), boschi e vigne a Romano, Mercenasco
e Strambino. Dell’effettiva estensione del loro patrimonio, e dell’integrazione al
possesso allodiale di lavoro diretto su terre date in censo ad altri, si ha notizia
nell’atto di vendita (di allodi e benefici) in favore dei figli del «dominus» Oberto
«de castro Romani» (ai quali i Grasso si legarono per via matrimoniale), di censi
in Pavone, nei territori di Mercenasco e Romano, nella città e nel territorio di
Ivrea, in Clusellario, Moirano e Strambino, più il censo che erano soliti versare
agli eredi del fu Restaldo più «duos fodrum regale» (1207). Vari altri beni si
trovavano in Piverone «cum omnibus pertinentis et cum omni honore» e a Ivrea
(in contrada S. Maurizio e nei pressi della chiesa di S. Olderico, dove
possedevano una casa)234
.
I Grasso beneficiarono di beni siti in Albiano, in Anzasco (tra cui una
decima), in Bollengo (un manso avuto da Ottobuono di Bollengo e tutto ciò che
teneva da Giacomo Carta di Bollengo) e tre case in Ivrea, di cui una «in Bando»
(1221)235
. Nel 1240, Giacomo Grasso possedeva benefici datigli dai fratelli
Manfredo ed Enrico di Montanaro236
; nel 1255, il vescovo Giovanni investì i
«domini» Rufino e Gaspare di una casa, dai quali ottenne giuramento di fedeltà237
(questa famiglia non possedette benefici ecclesiastici almeno non prima di avere
propri membri fra i «pares curiae» vescovili, ovvero dal secondo decennio del
Duecento in poi). Un altro beneficio ecclesiastico si trovava in Pavone (1256)238
,
mentre nel 1293, un Marino Grasso è coinvolto in una vertenza contro il vescovo
Alberto, per un appezzamento di terra239
. I Grasso, grazie a questo enorme
patrimonio disposero di ampia liquidità, tradotta presto in attività creditizia240
.
A inizio Duecento, i Salerano lasciarono le magistrature comunali per
amministrare un patrimonio che, probabilmente, aveva subito una contrazione e
234
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 128 sgg. 235
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 139, doc. 98. 236
Op. cit., p. 239, doc. 173. 237
Op. cit., pp. 354-355, doc. 250: «cum cupis et lignamine et curte et edificio et pecia una
terre culte et arboribus» comprata alla «domina» Bonavera, moglie del fu «dominus» Raimondo di
Oltreponte. 238
Op. cit., p. 363, doc. 259. 239
Op. cit., pp. 180-181, doc. 436. 240
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 427-428.
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51
chiedeva di essere rafforzato241
. Esso era costituito da molte terre avute in
beneficio dal monastero di S. Stefano (già nel 1180), mentre nel 1188 Ardizzone e
Omodeo di Salerano erano possessori di terre presso Lessolo242
. A guidare la
politica patrimoniale fu il «dominus» Rufino, il più attivo del gruppo familiare,
che nel corso degli anni ricevette diversi benefici dal monastero di S. Stefano: si
trattava di beni presso il Monte Ubaldo e, mediante enfiteusi, nel territorio «et in
campania» d’Ivrea (1240), mentre ottenne nuove terre in censo da S. Stefano nel
territorio di Ivrea l’anno dopo e altre nel 1251; risale al 1262 la vendita di diversi
suoi possessi a Guglielmo «Drous» di Valperga nel territorio di Ivrea243
.
La strategia adottata dai de Mercato fu singolare244
: la fonte di ricchezza fu
individuata nel possesso della terra, con particolare attenzione al «territorium»
cittadino245
. Infatti, i membri di questo gruppo contavano su un patrimonio urbano
che assicurò loro la netta prevalenza in alcuni borghi cittadini246
: avevano possessi
allodiali nel Pasquero (1188), altri «in Campagnola» (1184), presso la rocca di S.
Maurizio (1206), vicino S. Quirico e nel territorio di Ivrea e una quota di due case
condivise con Oberto di Salerano in località «Petram Marie» (fino al 1203),
presso la rocca di S. Maurizio; altri terreni erano in «Vicinasco» (presso Ivrea) e
in località «la Grossa»247
. Il secolo XIII si apre con uno spostamento degli
interessi della famiglia verso il contado: nel 1213, avevano benefici vescovili in
Pessano, allodi si trovavano nel territorio di Bollengo (1225), altri nel territorio di
Fiorano; la famiglia aveva due iugeri di terra nella valle di Montalto (1259) più un
altro nella medesima valle (fino al 1255), mentre alcuni allodi erano raggruppati
attorno a Samone248
. Nel 1255, investirono «per rectam et perpetua censariam»
241
Op. cit., pp. 446-447. 242
Op. cit., p. 446: «dominus Petro de castro Mercenaschi» concede in censo al canonico
Gregorio la sua porzione di due prati che si trovano a Lessolo e che deteneva in indiviso con
Ardizzone di Salerano. 243
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 444-445. 244
I suoi membri non si limitarono alla sola partecipazione alla politica cittadina, ma anche
alla costruzione di un patrimonio laddove si manifestò maggiormente la concentrazione di attività
umane, alla creazione di una rete di legami con il ceto eminente urbano e con le nuove forme
consociative di stampo religioso, alla creazione di attendibilità e prestigio propri, non attinti dalla
legittimazione vescovile, canale di affermazione mai percorso dai suoi membri, op. cit., p. 468. 245
Op. cit., p. 459-460. 246
FALOPPA, Società e politica cit., p. 134; ciò farebbe pensare a un interesse per le attività
commerciali, EAD., Percorsi familiari cit., p. 460. 247
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 198-201. 248
Op. cit., p. 201
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52
Ottino di Candia e suo figlio Giovanni di una casa in Ivrea, presso «domum
novam domini» Ardizzone Taglianti249
. Nel 1248 diedero alcuni averi alla chiesa
eporediese250
, e un appezzamento in Pavone fu venduto a un nipote di Girodo,
signore di Bard (1262)251
; nello stesso anno rimettevano al vescovo Giovanni un
prato in Albiano252
. Nel 1272, vendettero al vescovo un sedime e alcuni terreni
nella villa di Albiano253
; in quegli anni possedevano altri terreni in Buo254
. Il
biennio 1206-1207 fu un momento di svolta per le vicende di questa famiglia:
quasi tutti i de Mercato, infatti, si fregiarono del predicato di «dominus»255
e,
parallelamente, s’intensificò la loro attività nella Confraria di S. Spirito d’Ivrea e
nella gestione economica delle terre che la Confraria aveva ricevuto256
.
I Brusato possedevano una casa in Ivrea presso la cattedrale (1153), forse la
stessa che Bosone teneva in affitto da Evrardo de Civitate nel 1169. Questa
famiglia ricevette terre dall’abate Garnerio di S. Stefano, a Montalto (1177),
mentre nel 1167, Oberto di Bosone, uno dei membri più attivi della famiglia, fu
investito di una terra presso S. Maria dai figli di Oberto de Civitate: anni dopo
(1181) prese in affitto quattro appezzamenti in Ivrea posseduti da Giacoma, del fu
«dominus» Tiberio, e dal «dominus» Fanoello di Rucamerdosa, mentre nel 1183
acquistò terre a Chiaverano; insieme a Bonamico possedeva una casa «pro
indiviso» in Ivrea (la sua parte fu donata ad Aimone, notaio, nel 1202); acquistò la
casa «in Solario» da Bonagente Solero e sua moglie Bellavia (1203) e poco tempo
dopo, con Bonamico e Riccardo cedette al monastero di S. Stefano dei terreni in
Piverone257
. Mente la famiglia de Vita riuscì a incrementare il proprio patrimonio
249
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 156, doc. 112; pp. 228-230, doc. 168; p. 357 sg.,
doc. 252. 250
Op. cit., pp. 267-268, doc. 194. 251
Op. cit., p. 21, doc. 310. 252
Op. cit., p. 25 sg., doc. 315; tra le coerenze sono indicati i Tagliandi di Ivrea. 253
Op. cit., p. 97, doc. 356. 254
Op. cit., pp. 102-103, doc. 352. 255
FALOPPA, Percorsi familiari cit., 462-464. 256
Op. cit., p. 466 sg.: nel 1213 Adamo del fu Mainardo di Fiorano donava a essa, a
Benedetto de Mercato e a Rodolfo Caldera una terra che confinava con «dominus» Giacomo de
Mercato; nel 1226, Ivoreo confinava con terre «retro Guarnero», e aveva ricevuto terre «in
Campagnola». 257
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., pp. 467-469.
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53
fondiario durante gli anni Novanta, concentrato tra Ivrea, Albiano, Bollengo,
Burolo e Montalto: tra i suoi membri, il più attivo fu certamente Brolino258
.
Almeno fino agli anni Trenta, è impossibile ricostruire il patrimonio
fondiario della famiglia Genetasio259
: ma già nel 1188 avevano possessi nel
Paschero, e nel territorio di Lessolo (1192), altri erano in Albiano (fino al 1207),
erano proprietari di metà di un sedime e di una vigna, posseduti in indiviso con
Boiamondo de Mercato. Semplici possessi si trovavano presso Azeglio (1209),
beni di proprietà presso il pozzo di rocca S. Maurizio (1213); fino al 1222,
percepirono un censo su una casa e un terreno situati a Ivrea presso la porta di
Bando, mentre ebbero in censo un appezzamento nel «poderio» di Chiaverano da
Manfredo di Ottone, di Chiaverano (fino 1287)260
.
La famiglia della Torre aveva proprietà allodiali e diritti signorili, come può
far arguire la precoce adozione del predicato «dominus» di Evrardo261
. Contavano
su terre nel Paschero (poi donate al monastero di S. Stefano nel 1163), un loro
manso si trovava in Salerano («cum omni honore»), mentre erano proprietari di
una casa presso la rocca di Sant’Orso (1169): la chiesa di S. Maria acquistò tutte
queste sostanze e tutti i diritti nel 1177. Tre anni dopo, comparvero fra le coerenze
di una terra accensata dal monastero di S. Stefano in «Leonis»; possedevano un
sedime in Salerano che dava reddito, due giunte di terre date in affitto e alberi da
noce, più uno iugero di terra nella valle di Montalto, poi donato alla chiesa di S.
Maria. Una «domina Isabella de Turri» donò alla chiesa di S. Maria una casa
presso la rocca di Sant’Orso (probabilmente la stessa del 1169, nel caso si
trattasse di una parente); nel 1223, «domina Mathelda» donò alla Confraria di S.
Spirito una vigna presso S. Quirico e altre terre alla chiesa di S. Maria. La
famiglia aveva poi terre confinanti con quelle della confraternita di S. Stefano,
«retro Montis Restaldi» (1226) e con una vigna «in Campagnola» (1208)262
.
I del Pozzo possedevano una base fondiaria relativamente esigua, la cui
consistenza andò arricchendosi di nuove acquisizioni nel primo Duecento: i
258
Per le transazioni e un suo breve tratto biografico si veda op. cit., pp. 469 sg.; cfr. Le
carte dell’archivio vescovile cit., pp. 228-230, doc. 168. 259
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 469-470. 260
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 153-154, doc. 410. 261
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 454. 262
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 218-221.
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54
membri di questo lignaggio non attuarono un progetto di controllo delle zone
cittadine strategiche (come anche nel contado) o un coinvolgimento nell’ambiente
vescovile da cui trarre benefici263
. Il loro fu un patrimonio più edilizio che
fondiario o fondato sulla riscossione di diritti, diverso da quelli «costruiti» da altre
famiglie264
. Nel 1171, in un documento che riguardava una donazione di terre in
Valchiusella a S. Stefano, l’ente s’impegnava a dare quattro denari all’anno in
forma di censo a Filippo del Pozzo265
. Nel 1232, i membri di questo gruppo
possedevano terre nel podere di Samone in località «Roncallum»; tre anni dopo
una coppia di coniugi teneva una casa di proprietà dei del Pozzo; nel 1216,
vendevano una casa e una cella nel territorio di Ivrea a Giacomo Recagno di
Montestrutto; una loro vigna in Albiano fu data in beneficio a due fratelli canonici
(1212). Quando il «dominus» Giacomo di Barone (1216) e il marchese del
Monferrato (1223) ottennero le case per il giuramento di «habitaculum» a Ivrea,
queste furono fornite al comune rispettivamente da Milo e Guido del Pozzo;
infine, nel 1237, delle terre nella valle di Montalto furono lasciate da Milo «pro
anniversario suo et patris et matris sue», più due case (di cui una «ad Puteum»)
agli enti religiosi di Ivrea266
. Nel 1239 «illi de Puteo» avevano possessi nel
territorio di Fiorano267
.
La famiglia dei Suriano d’Albiano, pur concentrando i suoi interessi politici
in Ivrea, possedeva parecchie terre ad Albiano. Nel 1153 Suriano aveva beni a
Palazzo e confinava con una terra venduta a Ivrea e, ormai raggiunto il titolo di
«dominus» (ultimi anni del XII secolo), concesse alcuni terreni a Ugo e Giacomo
di Oltreponte. Con il consenso dei figli e del nipote cedette al vescovo Oberto, nel
1216, i suoi cospicui possessi ad Albiano detenuti «de iure e de facto», mentre fu
il figlio Tommaso, nel 1231, a cedere a Oberto tutti i diritti sui quei beni ceduti o
263
Op. cit., p. 174. 264
Se mai vi fu un potenziamento, o una collaborazione con il vescovo, probabilmente si
verificò prima della nascita del comune – fase di cui mancano molte attestazioni – o dopo che il
governo cittadino era avviato da decenni, in un momento di contrazione economica, in cui i
modelli signorili esercitavano ormai scarso interesse o erano ancora fuori dalla loro portata, op.
cit., p. 179-180; un documento di difficile datazione, ma sicuramente edito nel XIII secolo riporta
la lite tra la famiglia del Pozzo con il monastero di S. Stefano per un censo dovuto da Enrico su
alcuni beni siti nel territorio di Bollengo per i quali riceveva investitura mediante fitto annuo di tre
soldi segusini, op. cit., pp. 172-173 e nn. 459-460. 265
Op. cit., p. 168. 266
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 171-175. 267
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 228-230, doc. 168.
Page 54
55
obbligati dal padre quindici anni prima: ciò si verificò dopo che egli contrasse un
debito con Manfredo Bicchieri, poi ceduto da questo a Oberto, che segnò la fine
della carriera e delle fortune di questa famiglia268
.
Per quanto riguarda la famiglia dei Caldera, di centrale interesse è il legame
intrattenuto con il presule da Rodolfo269
, che durante la sua attività di canonico,
impiegato nelle transazioni patrimoniali riguardanti il vescovo, ricavò prestigio e
ricchezza: fu proprio questa collaborazione il canale attraverso cui questa famiglia
accrebbe il proprio patrimonio270
.
Il potenziamento patrimoniale dei della Rocca cominciò nella seconda metà
del XII secolo con Bongiovanni, che acquistò una terra nel Pasquero (agglomerato
suburbano dove si concentrarono probabilmente le attenzioni di questo gruppo)271
:
costui possedeva una terra nel territorio di Ivrea che fu venduta ai coniugi
Rainerio de Mercato e Giacoma (1184) forse per necessità di denaro liquido272
;
Bonamico, invece, aveva avuto benefici dal «dominus» Giacomo di Rucamerdosa
(1187). Intorno al 1216, l’estensione patrimoniale di questa famiglia si estendeva
probabilmente dal battistero di S. Giovanni alle chiese di S. Quirico (nel terziere
di «Civitas») e S. Pietro; in questi anni, Bongiovanni entrò in lite con l’abate di S.
Stefano circa alcuni censi e terre273
. Un «dominus» Bonifacio di Ruca, «civis»
eporediese, nel 1287, in qualità di procuratore del fratello Benedetto, prevosto
della chiesa d’Ivrea, investì un abitante di Perosa di quanto avevano fino ad allora
avuto in censo gli antenati della moglie da Benedetto274
.
I Rucamerdosa e i Poma furono legati per oltre un ventennio da un sodalizio
che li vide operare insieme in acquisizioni, alienazioni e attività comuni275
(come
268
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 477. 269
Op. cit., p. 472 sgg. 270
Per le transazioni e le acquisizioni patrimoniali dei Caldera si veda FALOPPA, Società e
politica cit., pp. 230-233. 271
Op. cit., p. 159; Le carte dell’archivio comunale, p. 50, doc. 41. 272
FALOPPA, Società e politica cit., p. 159. 273
Op. cit., pp. 163-164. 274
I possessi (sedimi, terreni ricevuti da Benedetto in prebenda dalla chiesa e tenuti, in
passato, dagli antenati di Giacoma, prati e boschi), che col consiglio del «dominus» Raineri di San
Donato, arciprete di Ivrea, furono investiti, erano presenti presso le località di Moirano, «ad
Broglum», in «Campegla», in «Preallo», in «Vilmallo», «ad Richum spateallum», sul retro del
mulino «de Balcono», in «Tronpego» (sono elencate le coerenze del conte di San Martino
Guglielmo e di Giovanni di Cesnola), in «Orcayra» e in «Campagnola», Le carte dell’archivio
vescovile cit., p. 151, doc. 408. 275
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 462.
Page 55
56
quella creditizia, rivolta soprattutto verso famiglie signorili del contado), mentre
molti beni allodiali si trovavano in Ivrea e nel territorio di Pavone276
. Risale al
1187 la divisione patrimoniale tra il canonico Gregorio Valdano e Giacomo, figli
di Enrico di Rucamerdosa. Gregorio di Rucamerdosa acquistò da Ivoreo de
Mercato un prato a Ivrea (1214) e, inoltre, era proprietario della vigna tenuta da
Giuliano de Ponte; l’intero patrimonio dei Rucamerdosa finì in mano a Gregorio,
il quale lo donò al capitolo nei suoi ultimi anni di vita: fatto che segnò la fine delle
vicende di questa famiglia277
. Per i Poma, un Guglielmo «de Pomo» è citato fra le
coerenze di un terreno in Romano nel 1223278
.
2. Patrimoni fondiari in Canavese
2.1. Le famiglie comitali
Avvalendosi del predicato toponimico adottato, si possono rintracciare i
luoghi a presenza allodiale di ogni gruppo signorile del contado canavesano (e,
per questo, faticosamente rintracciati dalle schedature che hanno analizzato la
documentazione eporediese). Le famiglie del contado adottarono, di volta in volta,
il nome del luogo in cui concentravano i loro interessi politici, o dove erano soliti
gestire il loro patrimonio allodiale, che, verosimilmente, ruotava attorno a edifici
fortificati, come castelli, torri, ricetti, caseforti, o a grosse aziende agrarie, ossia
centri in cui, per tali ragioni, spesso tendevano a risiedere stabilmente279
.
Riguardo ai possessi beneficiari, centrali nelle politiche patrimoniali
dell’aristocrazia militare canavesana, è difficile stabilire se avessero mantenuto
intatto il loro valore di remunerazione beneficiaria in cambio di un servizio
militare, o se i giuramenti di fedeltà fossero il risultato di un compromesso che
permetteva di sanare antiche vertenze per il possesso di terre e di castelli280
o se
avessero un «valore simbolico più che concretamente operante»281
. Sia per i
276
Op. cit., pp. 462-467. 277
Op. cit., p. 466. 278
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 147, doc. 106. 279
I patrimoni signorili contavano su «un insieme di terre, diritti e dipendenti sparsi
all’interno di uno o più villaggi, privo di coerenza territoriale», che trovava il suo unico fattore di
unità nel coordinamento del centro aziendale, e su un ampio numero di diritti, imposizioni e
obblighi esercitabili sui sudditi, molto differenziati tra loro e spesso distribuiti, all’interno di un
insediamento, fra diversi signori, PROVERO, L’Italia dei poteri locali cit., pp. 56 e 130. 280
PANERO, La grande proprietà cit., p. 845. 281
FALOPPA, Società e politica cit., p. 267.
Page 56
57
piccoli sia per i grandi signori rurali, è possibile che l’insieme dei loro benefici
non avesse un contenuto giurisdizionale282
e che il valore simbolico del
giuramento prevalesse sull’aspetto «costruttivo»: ma è altresì probabile che il loro
rango (legittimato dal predicato comitale o dall’importanza delle terre che
controllavano) fosse tale per cui risultasse naturale l’applicazione, anche sulle
terre ricevute dalla chiesa eporediese, di una consolidata pratica di esercizio di
poteri signorili»283
.
Il patrimonio dei conti di San Martino, molto documentato (soprattutto per il
loro duraturo rapporto con la chiesa eporediese), arrivò a estendersi su diverse
località nel (e fuori del) Canavese: comprendeva alcuni possessi allodiali nei
territori presso San Martino (1180)284
, mentre in «castro Strambini» (1244) furono
riconosciuti i diritti rivendicati dal conte Enrico e lasciati in eredità da Giordano
de Villa285
. Ma si dispone di maggiori notizie soprattutto riguardo ai benefici.
I conti di San Martino furono presenti in Romano e Strambino, come anche
in Pavone, dove avevano un beneficio concesso dalla chiesa eporediese, alla quale
fu poi ceduto, e furono possessori di una casa in Ivrea, acquistata in ottemperanza
agli obblighi derivanti dal patto di «cittadinatico» stabilito con il comune
eporediese (1202)286
, mentre nel 1205 giurarono fedeltà287
, ottenendo per «rectum
et gentilum feudum» il castello e tutto ciò che «in villa et curia et poderio» di
Castiglione i loro «antecessores» erano soliti tenere dal comune288
. I conti
avevano ricevuto in beneficio da Filippone di Candia benefici in «Cazayo», in
Agliè e in Macugnano (1221): beni di natura feudale che lo stesso Filippone aveva
avuto dal vescovo d’Ivrea, al quale, in quella data, li aveva restituiti289
; inoltre, i
San Martino ottennero in eredità dai castellani di Burolo (loro parenti) diversi beni
282
Cfr. SERGI, Lo sviluppo signorile cit., pp. 377-386. 283
FALOPPA, Società e politica cit., p. 278. 284
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 28. 285
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 250-252, doc. 181. 286
Il libro rosso, p. 167, doc. 177. 287
Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 328, doc. 92. 288
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 42; in un documento del febbraio 1281 si ha
l’intimidazione del comune di Ivrea rivolta a Enrico di Rivarolo, Gotefredo di Favria e Giacomo di
Castelnuovo, «tutti conti di San Martino», che riguardava l’obbligo di giuramento di fedeltà al
comune per il feudo di Castiglione. Il giorno seguente lo stesso ultimatum fu dato anche a Filippo
di Strambino: il feudo di Castiglione era, quindi, da un secolo nelle mani della famiglia, OREGLIA,
Le famiglie signorili cit., p. 95. 289
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 139, doc. 99.
Page 57
58
del luogo290
. Nella ricognizione vescovile del 1227, i San Martino erano in
possesso del feudo di San Martino, appartenente alla chiesa eporediese291
. Furono
investiti da Giovanni, arciprete di Ivrea, di una decima a Romano (1249)292
, il
«dominus» Paino di San Martino, massaro e vice presbitero del capitolo
cattedrale, fu destinatario di una donazione di alcune decime (con annessi diritti
su cose e «accionibus») fatta dal vescovo Giovanni, dall’arciprete di Montanaro,
«dominus» Giovanni, e dal «dominus» Egidio, canonico (1254)293
. Fin dal
1186294
, i conti di San Martino possedevano in forma beneficiaria il castello di
Castelletto295
dal comune di Vercelli: oltre al castello, alla corte e alla
giurisdizione su questo luogo, nel 1229 Ardizzone del fu Paino venne investito
degli «stessi diritti inerenti al castello e alla corte di Gifflenga»296
.
La famiglia dei conti di San Martino, almeno dalla fine del XII secolo, si
divise in rami, frammentando così anche il proprio patrimonio297
. Dalle fonti
analizzate da Oreglia è inoltre emersa «la fitta rete di legami economici e politici
con i quattro poli di potere» che influenzarono le vicende del Canavese nei secoli
XII e XIII: il marchese di Monferrato, i comuni di Vercelli e Ivrea, la chiesa di
Ivrea, oltre naturalmente agli altri signori del Canavese. In ogni caso, l’ambito
d’azione di questi conti fu abbastanza limitato298
: esso rimase interno al Canavese,
salvo in pochi casi299
. A queste parche notizie – difficilmente estrapolate a causa
dello stato lacunoso delle fonti riguardanti i possessi allodiali, che non permettono
290
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 37 sg. 291
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 163, doc. 118 del 7 marzo 1227; OREGLIA, Le
famiglie signorili cit., p. 100 e n. 172. 292
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 274, doc. 197. 293
Op. cit., p. 341, doc. 239. 294
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 51. 295
Le carte dell’archivio comunale cit., p. 22, doc. 10. 296
Località nel vercellese a breve distanza da Castelletto, e finora assente nelle fonti
relative ai possedimenti della famiglia, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 54; Oreglia ha dato,
inoltre, notizia della struttura del patrimonio fondiario dei San Martino intorno al 1254: esso era
fondato sia sul possesso fondiario, sia sull’esercizio di certi diritti connessi al possesso della
castellania, com’era sempre avvenuto in passato; per l’evoluzione del possesso dei conti, op. cit.,
pp. 74-75, 97-98. 297
La questione è affrontata in op. cit., pp. 101-102 e n. 180. 298
Notizie di acquisizioni allodiali (non del tutto accertate) dei conti di San Martino si
trovano in, Il Canavese. Da Ivrea tutto intorno, a cura di G. GULLINO, I. NASO, F. PANERO, Torino
1977, pp. 99-100, 113-114, 207-209, 227-228. 299
Per lo più «avanzi di antichi retaggi o compensi ottenuti da alleati»: la forza economica
e politico-militare dei San Martino «non era certo all’altezza di quella dei loro alleati o dei loro
avversari», e forse per questo si riunirono in un organismo che coordinasse l’azione delle famiglie
signorili, «tutte alle prese con lo stesso problema», OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 102.
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di valutare la reale ricchezza fondiaria e del potere coercitivo e fiscale della
famiglia dei conti di San Martino300
– se ne aggiungeranno altre nel corso della
descrizione in un certo modo «indirette», poiché tratte da documenti che
interessano altri gruppi signorili301
.
I conti di Castelnuovo avevano allodi in Pavone e territorio, acquistati da
Manfredo di Moirano e in seguito ceduti al vescovo Oberto (1238)302
. Questi conti
ottennero alcuni beni lasciati loro in eredità dai castellani di Burolo: si può
«notare una certa prevalenza percentuale» – ma Oreglia ha riservato dubbi a
riguardo, dato il numero così limitato di menzioni – di beni tenuti in beneficio
dalla chiesa (nel 1251 avevano un beneficio in Loranzè)303
. Altri beni,
individuabili grazie ad alcune menzioni fra le coerenze, si sarebbero trovati in
Romano304
.
Probabilmente, tra il 1237 e il 1245, i conti di Rivarolo-Front vantavano il
possesso «pro indiviso» con i conti di Valperga del castello di Rivarossa305
. Altri
possedimenti allodiali dei Rivarolo-Front erano in Locana306
e in Loranzè, oltre
ovviamente al castello di Rivarolo e quello di Front, tenendo presente che forse,
come nel caso di Castiglione, e forse di Pont, potevano anche esistere possessi in
comune con il resto della famiglia «consorziata» dei conti di San Martino, per i
quali, però, le notizie sono assenti. Furono investiti nel 1255 del feudo di
Castiglione dal comune insieme ad altri conti di San Martino307
. Manfredo di
Front, conte di Rivarolo e padre di Enrico conte di Rivarolo diede il proprio
assenso alla pace firmata dal figlio308
, il quale s’impegnava ad acquistare beni in
Piverone, Fiorano e «Castrum Francum» in conformità ad alcuni patti (1262)309
:
300
Op. cit., p. 101. 301
Le carte dell’archivio capitolare cit., pp. 77-79, doc. 66. 302
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 220, doc. 159. 303
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 116; Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 284,
doc. 207. 304
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 116; riguardo al sito di Castelnuovo, di cui non si
può dire molto, «poiché compare nelle fonti soltanto come predicato di queste persone» e di cui
«non sono specificati loro possessi di alcun tipo nei pressi», op. cit., p. 143, n. 69. 305
L. cit. 306
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 373, doc. 270. 307
Cfr. op. cit., p. 284, doc. 207. 308
Il libro rosso cit., p. 236, doc. 234. 309
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 124 e n. 13.
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l’«actum» fu redatto «in castro Riparolii», per cui il castello e probabilmente
anche tutti i diritti connessi erano in mano a questi conti.
I conti di Masino possedevano un patrimonio di buona estensione, ma
soprattutto di «notevole compattezza»310
. Furono signori incontrastati della zona
intorno a Masino ad eccezione di Maglione, per il quale dovettero ogni cinque
anni giurare fedeltà al comune di Vercelli: ciò dava loro, però, «l’innegabile
vantaggio» dell’alleanza con il potente vicino, da cui derivava una «discreta
libertà di movimento» anche sulle loro terre. Questa famiglia deteneva
strategicamente due castelli (di Masino e di Maglione) posti al confine delle «aree
di influenza di Vercelli e Ivrea», che tra l’altro permettevano loro di controllare i
traffici tra le due città; fu per questi motivi che Vercelli cercò di mantenere buoni
rapporti con questo gruppo parentale311
. I conti di Masino potevano fare
affidamento sulla lealtà degli uomini residenti sui loro possedimenti attorno a
Masino, Borgomasino, Maglione, Settimo (Rottaro), Vestignè, Caravino e
Cossano312
.
Ma spostando l’attenzione ai rapporti intrattenuti con l’ambiente eporediese,
nel 1195 il conte Guglielmo di Masino giurò fedeltà al vescovo Gaido per il
castello di Azeglio e per tutti i beni del villaggio e del territorio posseduti in quel
luogo dal presule, il quale li cedette al conte probabilmente nella forma di feudo
oblato313
. Nel 1220, Pietro fu in lite con il vescovo Oberto per i diritti di «curadia»
sugli uomini di Maglione e Borgomasino314
: figlio di Guglielmo, egli fu uno dei
protagonisti indiscussi di questa regione nella prima metà del Duecento; fu lui a
stringere la vantaggiosa alleanza con Vercelli. Nel 1263, Oddonino acquistò
diversi benefici della chiesa eporediese di cui fu investito dal vescovo
Giovanni315
. Infine, va ricordato che le due famiglie di Valperga e di Masino, pur
essendo imparentate tra loro, furono nettamente separate sul piano patrimoniale,
310
Op. cit., p. 173. 311
L. cit. 312
I Biscioni cit., CVL, pp. 354-355, docc. 165-166; p. 82, doc. 24; cfr. Le carte
dell’archivio vescovile cit., p. 304, doc. 212. 313
PANERO, La grande proprietà cit., p. 845 sgg.; per la prassi del feudo oblato e del suo
uso come strumento di potere si vedano gli esempi tratti dalla politica viscontea e analizzati in G.
CHITTOLINI, La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado (secoli XIV-XV),
Torino 1979, pp. 36, 51-59, 69 sgg., 181-183. 314
Il vescovo rivendicava i diritti ecclesiastici di cui erano stati investiti per trent’anni
Guglielmo Forneris, Gualterio, Guglielmo Picoto e Oberto del Pero. 315
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 32 sgg., doc. 322.
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come non fecero mai uso «contemporaneamente» dei due predicati (diversamente
dai San Martino e i collaterali Castelnuovo e Rivarolo-Front), dimostrato dal fatto
che le due famiglie ebbero «vicende e patrimoni ben distinti» e dalla mancata
partecipazione dei conti di Masino al consortile del Canavese316
.
Nel gennaio del 1172 è attestato il primo conte di Valperga, Guido: egli
diede il proprio consenso alla moglie Anna di Pavone per la vendita al monastero
di S. Stefano di Ivrea di beni siti in prossimità del castello di Pavone e confinanti
con terre dello stesso Guido317
; il coinvolgimento con l’ambiente cittadino fu
mantenuto con il giuramento di cittadinatico del 1197, con il quale fu riconosciuto
ai conti un reddito proveniente dal commercio delle mole318
.
Essi avevano un patrimonio piuttosto consistente nei luoghi intorno a
Valperga. Erano presenti in Rivassola319
, Cuorgnè – nella cui villa erano patroni
della chiesa di San Dalmazzo (e dove investirono di alcuni beni i Silveschi,
possessori di una quota del castello di Salto, e signori in Salto e Priacco320
), che
dopo varie vicissitudini, nel 1317 passò al principe d’Acaia321
–, in Pont (dove
erano consignori con i San Martino), Rivarossa322
, ma soprattutto a Rivara
(diversi anni più tardi alcuni membri della famiglia si distingueranno usando
come predicato il nome di questa località)323
. A queste si aggiunsero altre località,
su cui i conti manifestarono diversi interessi e furono in contrasto con famiglie di
signori del luogo324
. Inoltre, questi conti instaurarono un duraturo rapporto con un
centro religioso importante a livello locale, ossia il monastero di S. Maria di
Belmonte, nelle vicinanze di Valperga325
. Possedevano allodi nel territorio
circostante (e dentro) il castello di Montalto, mentre, sempre in questa località
ricevettero benefici dalla chiesa eporediese326
. Questa famiglia ebbe forti interessi
316
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 148, n. 5. 317
Op. cit., p. 176. 318
Il libro rosso cit., pp. 173-175, doc. 181; per gli impegni richiesti ai conti e quelli
garantiti da Ivrea si veda BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 826. 319
BERTOTTI, La pianticella di canapa cit., p. 21. 320
Op. cit., pp. 24-25. 321
Op. cit., p. 22. 322
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 196, n. 30. 323
Op. cit., p. 199. 324
Corio, Rocca, Busano, Camagna, Barbania e Levone, BERTOTTI, La pianticella di
canapa cit., pp. 26-29. 325
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 192, n. 22. 326
Op. cit., p. 193.
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nella regione di Mazzè327
: nel 1209 il vescovo Oberto probabilmente diede loro,
come il suo predecessore Pietro, il consenso per edificare una nuova chiesa presso
il ponte di Mazzè328
. Più tardi, nel 1255329
, un Raineri conte di Mazzè, era legato
ai conti di Valperga e vantava il possesso della decima della chiesa di
«Macellum», un insediamento oggi scomparso tra Mazzè e Caluso.
I conti di Castellamonte, in apparente decadenza sul finire del XII, nel
secolo successivo sarebbero stati signori in Brosso, Lessolo, Strambinello,
Quagliuzzo, Vidracco, Feletto e Montalenghe, e in parte di Agliè, Balangero,
Ozegna e Strambino330
. Uno dei primi documenti schedati che riporta notizia di
loro interessi patrimoniali è la contesa sul testamento-patrimonio di un certo
Rofino, la cui indefinita provenienza ha finora reso difficile ricondurre ai reali
possessori l’insieme delle terre in esso menzionate331
.
Sono accertati i loro interessi in Lessolo, Strambinello, Brosso e in
Valchiusella. In quest’area, essi consolidarono il controllo di diversi allodi,
benefici (tutti di origine ecclesiastica)332
e diritti333
: a riguardo si ha la seconda
menzione di un «de Castromonte»334
, mentre si sa che risiedevano nel castello di
Brosso, fatto che portò alla cognominalizzazione in «de Brosso»335
di alcuni
membri della famiglia. A Lessolo e dintorni (sino a Fiorano), i Castellamonte
tenevano benefici della chiesa eporediese, per i quali giurarono fedeltà al vescovo
Oberto (1210). Sempre a Lessolo liti e malintesi portarono a un intervento del
vescovo Corrado: nel giugno del 1249, Ugo e Arnaldo, figli di Giacomo Solero,
327
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 72-72, doc. 53. 328
Forse perché «esisteva un piccolo insediamento verso la Dora sprovvisto di parrocchia o
forse semplicemente per avere una nuova fonte di reddito sulle proprie terre», OREGLIA, Le
famiglie signorili cit., p. 180, n. 6. 329
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 351 sg., doc. 247. 330
Da Ivrea cit., pp. 127-128. 331
Che qui non saranno riportate: per una loro menzione completa, OREGLIA, Le famiglie
signorili cit., p. 219, n. 8. 332
Nessun altro gruppo parentale compare in modo tanto massiccio quanto quello dei conti
di Castellamonte, op. cit., p. 234. 333
Op. cit., pp. 223-227 e 237. 334
Guglielmo, investito da Amedeo di Montalto di proprietà site in Valchiusella, come
pegno di un mutuo che aveva concesso a esso, fatta eccezione per la «curtis» di Strambinello, che
Amedeo teneva «in indiviso» con lui; quest’ultima formula di possesso era più che usuale fra
parenti: è probabile che le famiglie di Montalto Dora e di Castellamonte fossero imparentate. 335
«Evidentemente era successo qualcosa all’interno del gruppo parentale che aveva spinto
alla necessità di diversificare i predicati», op. cit., p. 243.
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furono in lite con i conti di Castellamonte per un beneficio (sito in «Çerboris»)
tenuto dagli stessi Solero336
.
Oltre a ciò, avevano altrettanti beni allodiali (e forse di altra natura) tra
Castellamonte, Agliè, Montalenghe, Feletto337
, in Balangero338
e, con molta
incertezza, si potrebbe azzardare una presenza in Ivrea339
. Nel 1274 vendettero al
vescovo Federico quanto avevano in Bienca, Chiaverano e nei rispettivi
territori340
. Nel 1279, per il matrimonio tra Emilia, figlia del conte Enrico di
Brosso, e Rogerio (Ruggero) Taglianti341
, il padre di costui, il «dominus» Rufino,
diede in dote al consuocero beni siti nelle ville e territori di Fiorano e Lessolo
(mallevando il censo a parecchi uomini della valle di Brosso). Nel 1263, dai
documenti prodotti in seguito ai patti stipulati per estirpare il pericolo dei
«berrovieri», si viene a sapere che Castellamonte era diviso in tre terzieri342
a capo
dei quali è stato supposto che ci fossero i tre rami in cui si era col tempo divisa la
famiglia comitale343
.
2.2. Castellani e signori fondiari
I castellani di Mercenasco avevano prati e terre nel territorio di Lessolo
(1188)344
, di cui alcune parti erano in indiviso con Mainardo di Fiorano,
Ardizzone di Salerano, Evrardo Grasso e Giordano di Loranzè. Ma la prima
notizia di un castellano di Mercenasco è del 1142 (Guglielmo Bogio o «Boglo»),
che investì l’«universitas» di Vercelli della propria parte del castello di
Sant’Urbano e dei diritti connessi345
; da questo documento si ha quindi notizia di
obblighi vassallatici e allodi che possedeva in Canavese346
: egli si impegnava,
infatti, a far giurare i suoi uomini in Caluso, Strambinello, Sant’Urbano e
336
Op. cit., pp. 228-230. 337
Op. cit., p. 230. 338
Op. cit., p. 237, n. 20. 339
Op. cit., p. 226, n. 11. 340
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 113, doc. 375. 341
Op. cit., p. 132, doc. 396. 342
Le carte dell’archivio comunale cit., p. 240, doc. 142. 343
Rispettivamente «dominorum de Bruzio» (Brosso), «illorum de domina Iulia»
(probabilmente membri del ramo di Agliè) e due consoli con un castellano (probabilmente legati ai
Castellamonte), OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 246-248, n. 28. Del patrimonio fondiario
in mano al ramo dei San Giorgio dei conti di Biandrate se n’è già parlato nel cap. II. 344
FALOPPA, Società e politica cit., p. 215 345
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 281. 346
Op. cit., p. 281 sg.
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Mercenasco. Questi castellani ricevettero benefici dalla chiesa eporediese
confinanti con terre del monastero di S. Stefano: Mercenasco era, infatti, uno dei
«maiora feuda» della chiesa di Ivrea; mentre il loro castello dovette pervenire al
ramo Mazzè dei conti di Valperga nel secolo XIV347
.
Già nel 1155, i castellani di Candia cedevano le decime che avevano nella
località di Quarto al priore di Sant’Orso, tramite il vescovo Guido348
: attestati fin
dalla metà del XII secolo, furono particolarmente attivi fra il 1181 e il 1225, con
interessi anche in Montalenghe, Macugnano presso Agliè e Montanaro349
. Il loro
fu uno dei «maiora feuda» della chiesa eporediese: erano presenti in Vistrorio,
Anzasco, «Yxello», «Quaresmo», «Sugladio», «Cirriono», Loranzè e Parella
(1221)350
. Apparvero in un primo momento vicini ai conti di San Martino, che da
questi castellani avevano benefici di proprietà della chiesa nei dintorni di Agliè.
Nel 1225, frutto di investitura erano i possessi in Mercenasco, Macugnano e
«Cazadio»351
, mentre il vescovo Giovanni alienò a due fratelli di Mercenasco, il
feudo tenuto in passato dal «dominus» Guala (1255)352
, composto da terreni in
Mercenasco («capud ville»), San Giorgio, Feletto e altri. Nel 1263, il vescovo fece
autenticare l’ultimo «consegnamento» di benefici (tra cui alcune decime) fatto da
Guala per sé e per i suoi consorti anni prima353
, suddivisi fra varie località:
Montanaro, Macugnano, Candia, «Alao» (forse Agliè), «Oçeyne» (Ozegna) e altri
luoghi.
Nonostante la vicinanza dei due luoghi, le vicende dei castellani di
Castiglione (uno dei «maiora feuda») non possono essere identificate, dal punto di
vista del legame familiare, con quelle di Candia354
. Il «dominus» Ardizzone, nel
347
Op. cit., p. 286; da un elenco di beni feudali della chiesa si trae notizia di numerose
coerenze di altri individui presenti in Mercenasco oltre a uomini del luogo (1253): Enrico della
Porta, il conte Martino del fu Rosso di San Martino, i figli del fu «dominus» Giacomo di Barone, i
«domini de Guiscis», i signori di Mercenasco, i figli del fu Guglielmo di Valperga, Guglielmo di
«domino» Morino di Mercenasco, Ardizzone di Mercenasco e altri; inoltre, viene ricordata una
vigna che gli antenati di Oberto di Valperga diedero in censo a Giacomo Rosso, Le carte
dell’archivio vescovile cit., pp. 328-330, doc. 229. 348
PANERO, La grande proprietà cit., p. 845 sgg. 349
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 272 e n. 10. 350
Op. cit., p. 273, n. 10. 351
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 157, doc. 113. 352
Op. cit., pp. 344-345, doc. 241. 353
Op. cit., pp. 37-38, doc. 325. 354
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 277, n. 22.
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1156, diede in investitura censuaria a un abitante di Caluso alcuni benefici355
.
Successivamente, anch’essi sembrarono legati ai San Martino, e anche al comune
di Ivrea e al vescovo. Prima del 1252, i «de Romano» avevano ricevuto da loro un
beneficio (forse un manso), situato fra Scarmagno e Romano356
. Arduino prestò
omaggio e fedeltà al vescovo Giovanni nel 1255 per i benefici che i suoi
«antecessores consueverunt tenere» dalla chiesa eporediese e di cui fu
nuovamente investito357
.
Nel 1181 i castellani di Torre avevano possessi in «Musobolo», presso
Agliè, in «Carpeçneto», presso la cappella di San Benedetto e nella stessa Agliè, e
feudi ecclesiastici in Musobolo (tra cui una decima)358
. Nel 1253 Tommaso, il più
attivo di loro, e figlio di Ardizzone «de Turre de Canapicio», investì un cittadino
di Ivrea di parecchi benefici359
. Alla fine del 1289, Tommaso, con l’approvazione
vescovile, investì le figlie di «domina Alaxia», di possessi beneficiari in Vische,
Mazzè, Valchiusella, Chiaverano, Sessano e Bienca («Bleyca»)360
: secondo
Oreglia si tratterebbe del primo e unico caso canavesano di investitura in favore di
donne361
. Nel 1258 il vescovo di Ivrea decise di dare a «Drous» di Valperga un
insieme di benefici (tra Sessano e Chiaverano) prima tenuti da Tommaso362
.
Nel 1188 i castellani «de Lorençaio» possedevano terre in Lessolo
confinanti con quelle di Pietro di Mercenasco363
. Oltre al «castrum Lorençadi»,
questi castellani possedevano un «feudum Morini de Marcenasco in valle Clivina»
e un «feudum decime vallis Clivine» che farebbe pensare a un legame vassallatico
stretto con i castellani di Mercenasco364
. Possedevano, a inizio XIII secolo,
benefici nella castellania di Fiorano dalla chiesa eporediese365
e percepivano una
decima a Vico366
. In buoni rapporti con il comune, i membri di questa famiglia
355
PANERO, La grande proprietà cit., p. 845 sgg. 356
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 278. 357
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 346, doc. 243. 358
Op. cit., pp. 29-30, doc. 16. 359
Op. cit., p. 327, doc. 228. 360
Op. cit., pp. 158-159, doc. 414. 361
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 289. 362
Op. cit., p. 295. 363
Op. cit., p. 297. 364
Op. cit., p. 302. 365
Per le vicende legate al castello di Fiorano, ALBERZONI, Da Guido di Aosta cit., p. 225;
cfr. PANERO, La grande proprietà cit., p. 856 e OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 303-304. 366
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 44, doc. 331.
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abbandonarono il predicato «di Loranzè» per assumere quello «de Arundello»,
località in cui forse costruirono un castello «ex novo» e in cui si trasferirono,
ottenendo Loranzè e tutte le sue dipendenze in feudo oblato dalla chiesa367
. Nella
ricognizione del 1227 il «castrum Lorençadi» figura fra i quattro «minora feuda».
I castellani di Settimo (che entrarono in possesso del castello di
Montestrutto, in origine appartenente alla mensa vescovile, attraverso una
probabile investitura)368
attuarono una politica autonoma fino alla sottomissione al
comune (1209), al riconoscimento, puramente formale, della giurisdizione
vescovile, riaffermata nel 1223 e sanzionata nella «recognitio» dei beni
ecclesiastici (1227), e in seguito agli accordi fra il comune di Ivrea, quello di
Vercelli e il vescovo369
. Forte della posizione raggiunta, il presule eporediese poté
investire feudalmente uomini che lì avevano accumulato i propri patrimoni (come
Guglielmo Dro di Valperga nel 1249 e, nel 1251, Giovanni di Montalto)370
.
Probabilmente, i signori di Settimo possedevano diritti signorili in Bienca371
e
controllavano le decime di alcune chiese – parti forse della castellania – in
Montalto (chiesa Sant’Eusebio), Torre Daniele, Settimo (chiesa San Lorenzo),
Caluso (chiesa di San Pietro di Castagneto), Mazzè (chiesa di San Lorenzo).
Inoltre sarebbe possibile azzardare un appartenenza dei signori di Vallesa
all’ampio consortile nato fra i signori di Settimo e i Montalto372
, legati tra loro
forse da vincoli di parentela, ma comunque certamente da interessi economici, in
quanto gli uni vantavano possessi anche sul territorio degli altri, in un’autonoma
gestione delle alleanze e delle politiche familiari373
.
Furono invece numerosi i signori e castellani di Montalto. Giacomo del fu
«dominus» Lilfredo possedeva una parte di pedaggio in Settimo, Montalto e
relative corti374
. Il figlio del fu «dominus» Oberto il Turpe di Settimo, Merlo, con
sua madre, «domina» Giacoma, vendette a Guglielmo e Pietro, figli del fu
367
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 300-301. 368
FALOPPA, Società e politica cit. p. 268, n. 751; cfr. Ivrea tutto intorno, pp. 69-71. 369
Per i contrasti sorti fra il comune e il vescovo nel corso della prima metà del XIII secolo
e le ripercussioni sul gruppo signorile dei Settimo, PANERO, La grande proprietà cit., p. 861-862,
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 313; cfr op. cit. p. 272, n. 8; si veda supra cap. II. 370
Da Ivrea cit., pp. 61-63. 371
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 230-232, doc. 168. 372
Da Ivrea cit., p. 78. 373
Op. cit., pp. 61-62. 374
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 154, doc. 111.
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«dominus» Nicolò di Montestrutto tutto ciò che possedevano «in castro et burgo,
villa et territorio Septimi» e in altri luoghi della valle di Montalto (1232)375
.
Giovanni, del fu «dominus» Bonifacio di Gattinara, aveva benefici ecclesiastici
nei territori di Mombueno e Bienca (1251)376
. Brunasio, figlio del fu «dominus»
Giacomo Console, nel 1262 vendette molti beni in Bienca, oltre ad altri luoghi
della valle di Montalto (tranne quelli «in Cerisola»)377
. Riccardo del fu «dominus»
Manfredo investì un «civis» eporediese di molti possessi in Monbueno (1285), in
parte di proprietà della chiesa di San Lorenzo, su alcuni dei quali già il padre
aveva esercitato diritti signorili378
. Il vescovo Alberto investì i fratelli Grasso di
Montalto dei benefici (con relativi «servicia») che erano soliti tenere dalla chiesa
eporediese (1291)379
; nello stesso anno investì i «domini» Rufino di Ardrico e
Giacomo del fu Manfredo di quanto avevano in beneficio dalla chiesa di Ivrea380
.
La famiglia dei Droenghi di Valperga – si è detto – fu legata
vassallaticamente alla famiglia comitale dei Valperga: capostipite e iniziatore del
potenziamento economico della famiglia fu Guglielmo «Drous» di Valperga381
, i
cui discendenti, per distinguersi dalla famiglia maggiore di Valperga, assunsero il
soprannome del capostipite come patronimico, denominandosi di volta in volta
Drous, Droy o Droenghi382
. Guglielmo «Drous» acquistò (tra il 1249 e il 1262) da
vari personaggi in molti luoghi (Montalto, Pavone, Samone, Loranzè, Sessano e
Chiaverano), benefici della chiesa, dei quali fu investito dal vescovo Corrado383
.
Gli stessi benefici furono confermati nel 1296 al figlio Matteo, ai quali si
aggiunsero quelli in Albiano e altri in Ivrea384
.
375
Op. cit., p. 177 sgg., doc. 129. 376
Op. cit., pp. 315-316, doc. 215. 377
Op. cit., pp. 27-28, doc. 317. 378
Ovvero «bannum homicidii et bannum furti et bannum percussionis hominis […]
sanguis exiverit et excepta guayta castri», op. cit., pp. 151, doc. 407. 379
Op. cit., pp. 165-166, doc 421. 380
Op. cit., pp. 170-171, doc. 425. 381
Infatti, egli prestando fedeltà nel 1249 a «domino Conradus electo et procuratori» della
chiesa di Ivrea, per un feudo sito «in castro et ville et poderio et territorio» di Montalto di cui era
stato investito da «Martinus Longus», membro del consortile dei signori di Montalto Dora, fece
salva la fedeltà ai signori di Valperga, «sui primi domini», op. cit., pp. 279-281, doc. 201. 382
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 195; si veda la parte dedicata alla famiglia in
BERTOTTI, La pianticella di canapa cit., p. 22 sgg. 383
Op. cit., p. 23; cfr. OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 194, n. 28. 384
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 193-194, doc. 448.
Page 67
68
La famiglia dei de Scarmagno vantava possessi in Moirano (1199), e in
Mercenasco385
. Nel 1209, possedevano benefici in Scarmagno dai signori di
Burolo386
: i membri di questa famiglia furono coinvolti nella lite fra Ranieri
Solero e Ottolino e Giacomo Vadenotte (1224)387
e nel 1239 avevano possessi nel
territorio di Fiorano388
.
Già nel 1160, Manfredo e Ottone degli Avvocati di Strambino diedero in
pegno alcuni benefici in Fiorano e allodi a Bombello Beccario, a fronte di un forte
mutuo, dopo aver ottenuto il permesso del vescovo Guido. L’anno dopo il presule
concesse i benefici e i diritti posseduti dai figli di Leone Gualia di Strambino, in
precedenza avvocato vescovile, al suo nuovo avvocato: egli stava cercando di
recuperare le terre feudali attraverso l’acquisizione della sesta parte del castello di
Strambino, tenuto in allodio dai Gualia389
. Strambino fino al XII secolo, quando
comparve come «castrum», era poco più che una «villa» o probabilmente un
villaggio rurale precocemente fortificato: ai piedi del castello dovette sorgere
prima della fine del X secolo il primitivo nucleo insediativo abitato da rustici; da
questa «villa» in seguito prese il nome una famiglia di «domini» locali, in
contrapposizione con la famiglia degli «advocati» (i de Villa di Strambino)390
.
Questi, nel 1239, avevano allodi nella «villa» di Fiorano391
, mentre nel 1255
Filippo e Raimondo, «consortes» di Giacomo e Ottavio, loro fratelli, avevano
benefici ricevuti dal vescovo Giovanni392
. Nel 1263 si ritrovano Filippo e
Raimondo del fu Ottone, nella vendita di metà del monte Fiorentino, nel territorio
di Fiorano, al vescovo Giovanni, con il consenso del quale vendettero l’altra metà
a Guglielmo e Obertino, figli del fu «dominus» Pietro di Fiorano, e a Corrado del
fu «dominus» Giacomo di Fiorano, i quali la tenevano in beneficio da loro393
.
385
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 444. 386
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 75-77, doc. 55. 387
In cui Ranieri aveva, a detta del vescovo Oberto, «ius dominorum de Scarmagno super
predicta decima e reperiretur per confessionem predictorum Otulini et Iacobi quod predicta decima
tenebatur in feudum a dominis de Scarmagno», Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 154, doc.
145. 388
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 228-230, doc. 168. 389
PANERO, La grande proprietà cit., p. 845 sgg. 390
Da Ivrea cit., p. 207 sgg. 391
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 228-230, doc. 168. 392
Op. cit., p. 348, doc. 245. 393
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 35-37, doc. 324.
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69
I possessi della famiglia de Romano alla fine del XII secolo confinavano
con beni spettanti alla chiesa di S. Maria in Moirano. Anni dopo, nel 1235, il
«dominus» Ottone di Aramengo ricevette dal «dominus» Enrico di Romano beni
per la dote di sua moglie, Maria, figlia di Enrico: oggetto della transizione furono
appezzamenti di terra, prati, sedimi, vigne e case «merlate». Nel 1240, questi
«domini loci» furono investiti dal vescovo Oberto dei benefici presenti «in castro
Romani et villa territorio et districtu», mentre nel 1251, il «dominus» Enrico di
Romano fu coinvolto in una vertenza con i signori di Castiglione per alcuni
benefici che da loro aveva ricevuto. Nel 1257, un arbitrato operato dai «domini»
Bonifacio di Fiorano, canonico eporediese, e Martino del Prato tentò di
raggiungere un compromesso nella lite, che vedeva opposti i signori di Romano e
i consoli della villa di Romano al vescovo Giovanni e i consoli del comune di
Pavone, sui confini e le terre comuni («comunia») situate tra Pavone e Romano.
Nel 1278, furono investiti del feudo ecclesiastico che avevano in Romano394
.
Nel 1234, Rotefredo di Pertusio, figlio del fu «dominus» Filippo di Burolo
(discendente dei castellani di Burolo), cedette al vescovo Oberto i diritti che aveva
nel castello e nella corte di Montalto, in Burolo, in Sala, in Torrazzo, in Perno e in
Bagnolo «cum omni honore et iuridictione»; analoga azione compì suo fratello,
Aimone di Settimo. Dello stesso anno è un documento in cui diversi personaggi
riconobbero i loro obblighi relativi al beneficio ecclesiastico tenuto da Aicardo di
Burolo. Nel 1264, i «domini» Raineri di Burolo e Raineri di «Biatino» prestarono
fedeltà per le loro metà dei benefici aviti a Torrazzo, e per quanto il primo aveva
in Burolo, al vescovo eletto Federico di Front. Nel 1291, il vescovo Alberto
ordinò ai fratelli Ruggero e Ottobuono di consegnare quanto tenevano dalla chiesa
di Ivrea; nello stesso anno, i signori di Pertusio furono investiti di molti benefici
che erano soliti tenere e per i quali giurarono fedeltà al vescovo Alberto395
.
Isembardo, Ottone e Baldovino, castellani di Baldissero, alla fine degli anni
’80 del XII secolo, vendettero al «dominus» Oberto del castello di Romano una
394
Queste informazioni si ritrovano in: Le carte dell’archivio capitolare cit., pp. 77-79,
doc. 66; Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 202 sgg., doc. 145; pp. 240-241, doc. 124; pp. 304-
311, doc. 212; pp. 383-385, docc. 281-282; p. 125, doc. 388. 395
Per queste indicazioni: op. cit., p. 188, doc. 135; p. 191 sg. 137; pp. 194-195, doc. 139;
pp. 41-42, doc. 328; pp. 164-165, doc. 420; pp. 167-168, doc. 423.
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70
pezza di prato in «Vinchelle et territorio Romani»396
. I «domini» Guglielmo e
Corrado di Parella consegnarono al vescovo Oberto (1235) benefici e censi avuti
in precedenza dalla chiesa eporediese nelle località di Loranzè, Remonda,
Fiorano, Montanaro e Areglio397
; mentre nel 1257, Ardizzone del fu Corrado,
signore di Parella, e Manfredo del fu «dominus» Guglielmo, suo nipote, avevano
benefici in Parella, Loranzè, Loggia e Fiorano dal vescovo Giovanni (prati,
sedimi, boschi, la decima di Loggia tenuta da Riccardo di Loggia e i suoi
consorti)398
. Menzioni di altri signori rurali compaiono nella seconda metà del
Duecento399
.
396
Op. cit., p. 35, doc. 19: il «territorium» di Baldissero era giuridicamente un feudo della
chiesa eporediese; il consortile dei Baldissero, nella seconda metà del XII secolo, dovette crescere
di numero, con la conseguente frammentazione in quote del loro patrimonio, di volta in volta
vendute ad altri soggetti: i signori di Romano, probabilmente, acquisirono un’ampia quota del
castello intorno al 1190, Da Ivrea cit., pp. 113-114. 397
Nel documento compaiono i nomi di Ardizzone di Rivarolo e Guglielmo di Cavaglià,
op. cit., p. 204, doc. 146. 398
Op. cit., p. 375, doc. 272. 399
Nel 1246 si ha la conferma di un nucleo di allodi in mano ai signori di Viverone: i loro
interessi gravitavano attorno a Buo, Mombueno e Montalto; nel 1250, Oberto di Tonengo, fratello
del «dominus» Rufino, arcidiacono di Novara, prestò fedeltà e ricevette investitura per un
beneficio «rectum et gentile» in Fiorano «et poderio et territorio, et in eorum doa [sic]»; nel 1252,
il signore di Agliè, Guido, consegnò e giurò fedeltà al vescovo Giovanni, per i benefici che aveva
in Musobolo, mentre nel 1291, il vescovo Alberto investì il «nobile vir» Martino del fu Giovanni
di Agliè dei benefici che costui teneva dalla chiesa eporediese, e che giurò fedeltà a nome suo e dei
fratelli; nel 1255, Guglielmo di Montanaro, consegnò «pro se e pro fratre suo Albertino», al
vescovo Giovanni il beneficio che teneva dai signori di Montanaro; Oberto, signore di Vische,
consegnò diversi benefici al vescovo Federico, e giurò fedeltà per sé e per il fratello Raineri; nel
1293, il «dominus» Bonifacio di Orio, con sua moglie Imeldina, diede in enfiteusi ad Arnolfo di
Montiglio, rappresentante degli uomini di Chiaverano, due appezzamenti di terra e boschi in
Chiaverano; Ardizzone de Castello vantava diritti signorili in Quinto e Andrate: op. cit., p. 238,
doc. 187; pp. 282-283, doc. 204; pp. 320-322, doc 221; p. 164, doc. 419; pp. 350-351, doc. 246;
pp. 106-107, doc. 367 e pp. 107-109, docc. 369-370; p. 179, doc. 435; pp. 144-145, doc. 103.
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71
Capitolo quarto
Strategie matrimoniali e politiche familiari:
approfondimento su nomi e parentele
Finora non c’è studio che dedichi al centro di un proprio capitolo le vicende
matrimoniali intercorse fra le famiglie dei conti e dei castellani del Canavese,
oppure fra le domus signorili della città di Ivrea, o fra queste e quelle appartenenti
all’aristocrazia militare del contado canavesano. Laddove le analisi recenti
segnalino informazioni, anche in numero sufficiente, su linee di parentela o
percorsi genealogici400
, di vera politica matrimoniale non si può parlare, perché se
essa viene da un lato inserita all’interno di capitoli inerenti a patrimoni, strategie
politiche e geografie sociali, dall’altro questi argomenti, assai più studiati, la
occultano. Per tale motivo si cercherà di analizzare le strategie e le politiche
matrimoniali di queste famiglie mantenendole separate da riferimenti a semplici
genealogie e limitandosi, nonostante il campo delle congetture non lasci molto
spazio a quello delle certezze, a proporre poche e puntuali ipotesi di collegamento
parentale.
1. I conti del Canavese
I documenti mostrano come i conti canavesani, sin dalla fine del XII secolo,
ritenessero di possedere un’origine comune e ricorressero al predicato «de
Canavise» per identificarsi401
: un esempio lo fornisce la riserva mostrata dai conti
nell’agire contro gli interessi dei propri parenti del Canavese402
. La famiglia dei
conti di Pombia era di legge salica403
: questo significa che, se si considera
400
Il riferimento è agli studi di Antonella Faloppa sulle famiglie signorili coinvolte nel
primo comune eporediese (Un insediamento monastico cit., pp. 23-36; Società e politica cit., pp.
117-286; Ivrea dalla “civitas” cit., pp. 433-455 e 462-471; Percorsi familiari cit., pp. 416-486) e
di Alberto Oreglia sulle famiglie dell’aristocrazia militare del Canavese (Le famiglie signorili cit.,
pp. 7-315) citati in questa tesi, della quale rappresentano la base di partenza nonché la principale
fonte di informazioni e di spunti di ricerca. 401
Op. cit., pp. 7-33, 144-150, 176-183, 214-222 e 252-253, ha analizzato la
documentazione superstite in cui sono indicate possibili tracce che legherebbero le famiglie
comitali dei Valperga, dei San Martino, dei Castellamonte e dei Masino a quella dei conti che si
dissero «de Canavise», e provato la discendenza di quest’ultimi dai conti di Pombia. 402
A riguardo, Oreglia ha parlato di «norme regolanti l’esistenza fra i domini canavesani,
magari fondate sulla consuetudine», op. cit., p. 33. 403
Op. cit., p. 11.
Page 71
72
attendibile una discendenza da loro e attraverso i «de Canavise» delle stirpi
comitali canavesane (Valperga, San Martino, Castellamonte e Masino), è possibile
che anche tale professione di legge si sia mantenuta, per poi evolversi nel
principio agnatizio del lignaggio404
. Da ciò nascerebbe un’ulteriore ipotesi, ossia
che ogni volta che dai documenti non si riesca a trarre nomi femminili, e quindi
notizie su matrimoni o su nomi di famiglie che si legarono ai conti, questo
accadrebbe perché le eredi donne erano d’abitudine mantenute ai margini del
lignaggio e coinvolte solo in calcoli politico-patrimoniali in quanto vettori di
potenziamento economico o depositarie di sostanze comunque importanti che
andavano investite con oculatezza405
.
Del gennaio 1172 è l’atto in cui si vede Guido, conte di Valperga, dare il
proprio consenso alla moglie Anna di Pavone per la vendita, al monastero di S.
Stefano di Ivrea, di beni siti in prossimità del castello di Pavone e confinanti con
terre dello stesso Guido406
. Nella zona di Pavone, nei secoli XI e XII, è stata
accertata da Antonella Faloppa la presenza di famiglie di maggiorenti locali legati
al vescovo e indicati come «boni homines», talora come «boni Francos Romanos
et Longobardus», del quale probabilmente tutelavano il patrimonio in quanto loro
«senior»407
. Ne derivano due possibilità: la prima è che con il matrimonio con una
donna originaria di questa località i conti di Valperga coltivassero interessi per
quanto concerneva il legame e il coinvolgimento con il vertice ecclesiastico di
Ivrea; la seconda permette, invece, di pensare che Anna fosse di legge longobarda,
perché appartenente a una di quelle famiglie di collaboratori vescovili408
(pensiero
giustificabile per via delle clausole della sua vendita, attuabile solo con il
404
F. LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni nel Medioevo italiano. Dal tardo antico al
rinascimento, Roma 2005, pp. 47-56. 405
Op. cit., p. 49; il coinvolgimento di donne appartenenti a famiglie signorili eporediesi o
all’aristocrazia militare canavesana con il monastero di S. Michele d’Ivrea è stato analizzato in
SERENO, Il monastero cistercense cit., pp. 129-170. 406
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 176. 407
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., pp. 451-452; in questo gruppo extraurbano rientrano
i numerosi personaggi, i cui nomi emergono dalla documentazione eporediese, accompagnati dal
toponimo di luoghi soggetti al vescovo: si veda supra capp. II e III. 408
Faloppa pone a confronto questi individui (op. cit. pp. 449-450) con un gruppo di boni
homines astigiani dei secoli IX e X analizzato in BORDONE, Città e territorio cit., pp. 90-93, i quali
«appartenevano a una categoria precisa di collaboratori del vescovo, quelli di origine extraurbana,
che risiedevano dove il vescovo aveva possessi»; invece, secondo l’autrice, quello eporediese
sarebbe un caso meno (ovvero non del tutto) assimilabile alla categoria vercellese di vassalli
vescovili, e «indicati espressamente come cives», supra n. 19.
Page 72
73
consenso di Guido in quanto partecipe alla gestione del patrimonio della
coppia)409
.
Ma delle famiglie signorili dell’aristocrazia militare canavesana quella dei
conti di San Martino è sicuramente quella per cui si dispone di maggiori
informazioni. Nel giuramento di cittadinatico dei conti di Castellamonte fatto al
comune di Ivrea (1197) sono ricordati i vincoli che li legavano ai Valperga, ai
Masino, e ai San Martino; così i Valperga, nel medesimo giuramento, si
riservarono di rispettare la lealtà ai conti del Canavese410
. Tale rapporto è
ricordato circa un secolo dopo (1281), quando per il matrimonio fra la giovane
Isolda, figlia di Enrico di Rivarolo, e Bertolino, conte in età avanzata della
famiglia dei Valperga e figlio del fu Matteo, si ricorse a dispensa papale, su
intercessione del vescovo Federico di Front, il quale d’altronde aveva tutto
l’interesse di sciogliere il grado di parentela che legava i due promessi: il vescovo
di Ivrea era allora insidiato dal marchese di Monferrato. Il fine della sua richiesta
era dunque quello di porre termine ai dissidi interni al «parentado» del Canavese –
ossia, cercare di far finire lo scontro fra il consortile dei San Martino, alleati della
chiesa eporediese, e quello dei Valperga, alleati dei Monferrato – tramite un
matrimonio fra quella che Oreglia identifica come la nipote dello stesso Federico
e un discendente dei Valperga411
. Risale invece al 1291 un altro matrimonio «ad
sedandas discordias inter consanguineos» tenutosi fra il conte Giacomo di
Castellamonte e Beatrice di San Martino, e anch’esso reso possibile da una
dispensa papale ottenuta dal vescovo Alberto Gonzaga, anch’egli imparentato con
i San Martino come il suo predecessore, poiché era figlio di Antonio Gonzaga il
quale aveva sposato una donna della famiglia dei conti di Strambino, da decenni
ormai ramo collaterale dei San Martino412
. Si ignorano, invece, i motivi per cui
questa casata decise di legarsi ai d’Andrea, una domus in ascesa che stava
cominciando a dominare il panorama cittadino di Ivrea. Andrea d’Andrea, fidelis
409
LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., p. 30. 410
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 32-33. 411
Il matrimonio doveva risalire alla fine degli anni ’70, poiché lo scontro tra i San Martino
e Valperga ebbe inizio non prima della metà degli anni ’60 del Duecento, op. cit., p. 132, n. 37. 412
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 251-252; per la parentela di Alberto Gonzaga
con i conti di San Martino, Statuti del comune di Ivrea, a cura di G. S. PENE VIDARI, Torino 1968
(Biblioteca della Società Storica Subalpina, CLXXXV), I, p. LXXII.
Page 73
74
di Amedeo V e Filippo d’Acaia, sposò Geremia, figlia di un uomo dei San
Martino e di una donna dei Valperga413
.
Anche i conti di Castellamonte non mancarono di legarsi a famiglie non
appartenenti al loro status: la scelta fu guidata da interessi patrimoniali sia nel
matrimonio risalente alla seconda metà del XII secolo che strinsero con un ricco
possessore della zona intorno ad Agliè, Rofino, il quale diede in sposa sua figlia
Maria al conte Raimondo414
; sia in quello che li legò alla famiglia in ascesa dei
Tagliandi, del 1279, nel quale Emilia, figlia del conte di Brosso Enrico, sposò
Rogerio, figlio di Rufino Tagliandi che diede in dote al consuocero beni siti nelle
ville e nei territori di Fiorano e Lessolo mallevando, inoltre, il censo a parecchi
uomini della valle di Brosso415
: area, questa, in cui erano installati da parecchio
tempo gli stessi conti416
. Gli stessi motivi furono probabilmente alla base della
scelta, fatta dai conti di San Martino, di legarsi a signori della media nobiltà come
i castellani di Burolo e quelli di Strambino417
.
Si è detto che queste famiglie si considerarono (e furono considerate)
imparentate e accomunate da un lontano progenitore418
. Questa discendenza
comune sarebbe giustificata dall’esistenza del consortile – di cui sarebbe anche
una delle principali cause – da loro costituito tra gli ultimi decenni del secolo XII
e i primi tre di quello successivo, e che raccolse, oltre a queste, famiglie della
media aristocrazia di signori fondiari e custodi di castello del Canavese419
. Alla
stessa deduzione conduce il fatto che, ogni volta che non stipularono accordi
matrimoniali con famiglie legate alla città o a quelle di altri signori rurali, ma tra
di loro – ad esempio, per stringenti ragioni di ordine politico-militare –, fu
413
G. ANDENNA, Episcopato e strutture diocesane nel Trecento, in Storia della Chiesa di
Ivrea cit., p. 330. 414
Il legame della famiglia di Rofino fu probabilmente anche di natura vassallatica, oltre
che di parentela, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 217-220; si veda anche Le carte
dell’archivio vescovile cit., pp. 29-32, doc. 16. 415
Op. cit., p. 132, doc. 396. 416
Negli anni ’80 del secolo XII, Guglielmo fu investito da Amedeo di Montalto di
proprietà site in Valchiusella, fatta eccezione per la «curtis» di Strambinello, che Amedeo teneva
«in indiviso» con lui: quest’ultima formula di possesso, secondo Oreglia, era più che usuale fra
parenti ed è dunque probabile che le famiglie di Montalto e di Castellamonte fossero imparentate,
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 223-226. 417
Si veda infra. 418
Supra nn. 401-402. 419
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 316-345.
Page 74
75
necessario aggirare lo scoglio dell’affinità di parentela420
esistente tra queste
famiglie attraverso interventi vescovili e dispense papali.
Anche le singole famiglie di conti si raccolsero in consortili basati sul
principio della consanguineità e guidati dal ramo più forte o più rappresentativo di
tutti quelli tra loro collaterali421
. Tracce del ben strutturato e coeso consortile dei
conti di San Martino risalgono al settembre 1229, alla convocazione per un
giuramento di conti e castellani fatta dal podestà di Ivrea Rufino Gavazzo: per i
conti di San Martino erano presenti due uomini in rappresentanza della loro
«domus seu albergum»422
, in cui rientrarono o vi avrebbero fatto parte nei decenni
successivi – oltre ai Castelnuovo, ai Rivarolo-Front e ai Favria423
– anche le
famiglie signorili di Burolo e Strambino («consanguinei» dei San Martino i primi,
legati ai conti matrimonialmente i secondi)424
. I Valperga e i Masino erano
«parentes paterni»425
e anch’essi costituirono un consortile, nella seconda metà
del XIII secolo, ma il principio di consanguineità era soltanto la base di
determinati progetti politici: in esso era sicuramente coinvolto anche il ramo
collaterale dei Rivara426
, ma a guidarlo fu la famiglia dei Valperga, che in quei
decenni cercava di assumere sempre più potere attraverso l’ottenimento della
carica podestarile di Ivrea ricorrendo, talvolta, all’appoggio del marchese di
Monferrato427
. Non si ha, invece, notizia di una struttura consortile organizzata
dalla famiglia dei conti di Castellamonte, almeno per i secoli presi in
considerazione da questa raccolta di studi e documenti428
: ma è facile supporre
che anch’essi si fossero riuniti in un organismo simile poiché, assai più di altri
lignaggi aristocratici, questi conti ricorsero a un’onomastica che finì
420
LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., pp. 50-51. 421
Op. cit., pp. 73-83 e soprattutto p. 77. 422
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 55-56. 423
Op. cit., p. 95. 424
L’affinità con i Castelnuovo e i Rivarolo-Front è dimostrata in op. cit., p. 92, 103 sgg. e
130; pp. 118-126; per i legami con i Burolo, op. cit., pp. 34-37; per i rapporti matrimoniali dei
conti con i signori di Strambino, op. cit., pp. 62-63; pp. 91-93; Il Libro rosso cit., p. 177, doc. 183;
Documenti dell’archivio comunale cit., pp. 229-232 e 240, docc. 140-141 e 240, mentre per il loro
coinvolgimento nel consortile familiare, Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 216, doc. 189. 425
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 187. 426
Op. cit., p. 199. 427
Nel 1253-54 fu podestà di Ivrea il conte Corrado di Valperga, già podestà del consortile
composto dalla sua famiglia e quella dei castellani canavesani; ma nel 1255 Enrico di Masino fu
podestà sia del comune sia del consortile dei Valperga, Il libro rosso cit., pp. 104-107, docc. 125,
125 ins. 1 bis., 126. 428
LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., p. 77.
Page 75
76
irrimediabilmente per veder chiamati col medesimo nome individui appartenenti a
rami diversi della famiglia e, come i San Martino, molti di loro usarono
contemporaneamente il predicato comitale429
. Solo così è spiegabile l’assunzione
da parte di uno di questi del patronimico «de Iulia», i cui membri furono
probabilmente signori di Agliè, conti allo stesso titolo dei Brosso, legati come loro
al ramo-guida dei Castellamonte.
2. Le altre famiglie del contado canavesano
Si è appena visto che alcune famiglie della media aristocrazia rurale
strinsero accordi matrimoniali con le stirpi comitali: per cui si possono solo
supporre, per queste, i medesimi interessi legati al rafforzamento del patrimonio e
del ruolo giocato dalla propria famiglia nello scacchiere canavesano. Salvo in
questi e altri pochi casi, l’assenza di legami con lignaggi più alti di status, con
l’ambiente religioso cittadino e con i servizi di assistenza, oppure con quello delle
magistrature politiche del comune, ha lasciato un vuoto nelle già scarse
informazioni riguardo a precise scelte di politica matrimoniale. Il caso ha voluto
che di molte di queste famiglie di ricchi possidenti e di custodi di castello siano
rimasti documentati i soli individui maschi, e soltanto in alcune si sa che legge
questi professassero430
. Anche laddove gli studi abbiano rintracciato personaggi
femminili, come nel caso del consortile dei signori della Valle di Montalto
(formato da signori attivi nei principali centri della vallata, ovvero Settimo,
Montalto, Monstestrutto, Quinto, Carema, Bienca), l’affollamento di individui e di
429
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 246-248, n. 28; in particolare per i casi di
omonimia come strumento di trasmissione della memoria familiare e della coscienza dei propri
antenati, LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., p. 70; per l’organismo consortile come esito di
progetti politici e di raccordi parentali in Piemonte, G. TABACCO, Il rapporto di parentela come
strumento di dominio consortile: alcuni esempi in Piemonte, in Famiglia e parentela nell’Italia
Medievale, a cura di G. DUBY, J. LE GOFF, Bologna 1981, pp. 83-88. 430
Per i Fiorano Cartario della Confraria cit., pp. 226-227, num. 3; Le carte dell’archivio
vescovile cit., pp. 284-299, doc. 207; pp. 35-37, doc. 324; per i Loranzè-Arundello, OREGLIA, Le
famiglie signorili cit., p. 297; Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 284-299, doc. 207; per i
Baldissero, op. cit., p. 35, doc. 19; per i Torre, op. cit., p. 327, doc. 228; per gli Scarmagno, Le
carte dell’archivio capitolare cit., p. 77, doc. 66; Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 75-77,
doc. 55; pp. 228-230, doc. 168; per i Mercenasco, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., pp. 281-283;
Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 61, doc. 52; Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 284-
299, doc. 207; per i Candia, PANERO, La grande proprietà cit., p. 845 sgg.; OREGLIA, Le famiglie
signorili cit., p. 273, n. 10; Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 157, doc. 113; pp. 284-299, doc.
207; per i Castiglione, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 277, n. 22; PANERO, La grande
proprietà cit., p. 845 sgg.; Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 346, doc. 243; per i Bard, Le
carte dell’archivio capitolare cit., p. 152, doc. 142.
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77
nomi, e la stessa ampiezza dell’organismo creato, contribuiscono a complicare
ancor di più un quadro familiare (anzi, consorziale) sbiadito. Di esso si sa che dal
XII secolo era già relativamente vasto e guidato dai castellani di Settimo e
Montalto, i quali controllavano tutta la vallata (e quindi il transito di merci e
uomini) ed erano legati tra loro forse da vincoli di parentela, ma comunque
certamente da interessi economici: gli uni vantavano possessi anche sul territorio
degli altri, in un’autonoma gestione delle alleanze e delle politiche familiari431
. A
queste due famiglie egemoni col tempo se ne aggiunsero altre insieme a singoli
individui della zona432
. A tutto ciò, si aggiungano i casi di realtà sociali in
trasformazione – come, ad esempio, quelle di Chiaverano, Pavone o Albiano – in
cui è arduo far luce sulle possibili famiglie signorili attive e coinvolte.
Per altre famiglie, come i Bollengo e i de Romano, o i già menzionati
Burolo e Strambino, si ha qualche informazione in più. I signori di Bollengo erano
di legge longobarda433
: ancora prima della cessione a Vercelli del loro castello,
questa famiglia fu pronta a stringere legami sia con l’ambiente cittadino sia con
quello extraurbano. Adepandolfo, marito di Imelda (indicato come «de civitate
Yporegie»), era padre di Bongiovanni ed Enrico, e Pandolfo, del fu Filippo di
Pandolfo, confessò di professare legge longobarda, come la stessa Imelda434
. Nel
1198 Berlenda, figlia di Pandolfo, ricevette da lui «pro padelfio» (probabilmente
qui s’intendeva faderfio), una vigna in Pessano, l’atto fu stipulato «in Bolengo»
alla presenza dello zio materno («avunculus») di Berlenda, Roberto di Loranzè435
.
E poi: nel 1213 Enrico, figlio di Berlenda e Giovanni Gauna, compare accanto
alla moglie Richelda436
; Enrico è indicato come nipote di Berno, probabile fratello
di Pandolfo, marito di Waldra e padre di Filippone (1226)437
, che è detto
originario di Rocca S. Maurizio438
. Anch’essi privati della custodia della
431
Da Ivrea cit., pp. 61-62. 432
FALOPPA, Società e politica cit. p. 268, n. 751; Da Ivrea cit., p. 78; Le carte
dell’archivio capitolare cit., p. 89, doc. 75; FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 398-400;
Documenti dell’archivio comunale cit., p. 126, doc. 90; p. 244, doc. 145; p. 177 sgg., doc. 129; pp.
230-232, doc. 168; pp. 315-316, doc. 215; pp. 27-28, doc. 317; pp. 284-299, doc. 207; pp. 170-
171, doc. 425; OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 313; cfr op. cit. p. 272, n 8. 433
Documenti dell’archivio comunale cit., pp. 14-16, doc. 4. 434
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 27, doc. 15. 435
Le carte dell’archivio capitolare cit., pp. 72-73, doc. 61. 436
Op. cit., p. 114, doc. 101. 437
Cartario della Confraria cit., p. 240, doc. 17. 438
Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 152, doc. 143.
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castellania intorno agli anni ’20 del Duecento, i signori di Burolo dovettero
riorientare i loro progetti. Ci riuscirono solo dal quarto decennio del Duecento,
dove sono attestati intorno al 1234 nell’area a Nord di Ivrea439
, e soprattutto di
Pertusio, con Rotefredo, marito di Beatrice e figlio del fu «dominus» Filippo di
Burolo, nonché fratello di Aimone di Settimo (padre di Bonaveria)440
. La famiglia
mantenne probabilmente interessi a Bollengo nel 1264, ma nel 1291, la famiglia
aveva radicato i propri interessi nella zona di Pertusio441
.
A Strambino, una famiglia della villa sorta attorno all’antico «castrum», da
cui prese il nome, si mise in concorrenza con gli altri signori del luogo, gli
Avvocati nonché castellani vescovili. Questa famiglia, i de Villa, per meglio
rivaleggiare con i propri rivali si riunì in un consortile formato (o guidato) dai figli
di Ottone de Villa; ma è con l’avvicinamento tramite matrimonio ai San Martino
che essi riuscirono a rafforzarsi fino ad esprimere un proprio membro come
podestà del consortile raccolto attorno a questi conti442
. Per i de Romano, invece,
si sa che nel 1235 Ottone di Aramengo ricevette da Enrico di Romano parecchi
beni per la dote di sua moglie Maria o Marca, figlia di Enrico443
; nello stesso atto
è indicata la moglie di Enrico «domina Spagna». Di questo legame coniugale si ha
ancora notizia nel 1249444
, quando Selvatica, figlia di Enrico e moglie di Rufino
«Paneneri» di San Giorgio, rinunciò all’eredità paterna in favore di Maria, sua
sorella e moglie di Ottone signore di Aramengo, i quali si impegnavano a pagarle
una forte corrispettivo per la dote (65 lire segusine).
3. Le famiglie cittadine
Accanto alla gestione di ampi patrimoni e al potenziale politico garantiti
dalle istituzioni comunali e soprattutto dall’ambiente religioso a Ivrea, le fonti
hanno permesso agli studiosi del recente passato di ricavare informazioni sui
lignaggi cittadini eporediesi, assai più numerose di quelle a disposizione per
l’aristocrazia militare canavesana. È possibile esprimere con maggiore sicurezza
439
Op. cit., p. 188, doc. 135. 440
I necrologi del Capitolo di Ivrea, a cura di G. BORGHEZIO, Torino 1925 (Biblioteca della
Società Storica Subalpina, LXXXI), I, pp. 79-80, num. 271; p. 112, num. 417; Documenti
dell’archivio comunale cit., pp. 191 sg. e 137. 441
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 41-42, doc. 328; p. 167, doc. 423. 442
Si tratta di Pietro, per il quale si veda supra n. 425. 443
Le carte dell’archivio vescovile cit., p. 202 sgg., doc. 145. 444
Op. cit., pp. 276-277, doc. 199.
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considerazioni sulle strategie matrimoniali e sui raccordi parentali fra nuclei
cittadini in origine diversi oppure separatisi da un ceppo comune nel giro di poche
generazioni. Alcune situazioni di maggiore ricchezza documentaria sono state
segnalati dagli studi di Faloppa (de Civitate, Grasso, de Mercato, Solero) rispetto
ad altre (del Pozzo, Caldera, della Rocca, della Torre, Genetasio): aggiungendovi
alcune informazioni complementari tratte da regesti di inizio secolo445
, si trovano
conferme a tutto ciò nella forma d’intrecci familiari (di cui soltanto alcuni sfociati
in raggruppamenti consortili) o di cambi di orizzonte che segnalano strategie
matrimoniali inserite in mirate politiche familiari.
Nel 1195 il consortile guidato dai de Civitate era unito in una lite con al
centro un insieme di diritti sul lago Trelago446
: questo gruppo doveva
probabilmente, già in questa data, avvertire il rischio di disperdere il proprio
patrimonio, a causa dell’alto numero di individui e, forse, di una solidarietà
familiare venuta inevitabilmente meno dopo la divisione della famiglia in diversi
rami. Probabile capostipite di questa domus fu Ubaldo de Civitate (attestato nel
1127)447
. Da lui nacque Bonamico, i cui figli tuttavia non mantennero il
patronimico originale. Gualtiero e Bosone, infatti, accostarono al proprio nome
l’aggettivo «Brusato»448
: è accertato che la famiglia dei de Civitate era
imparentata con loro, e al gruppo dei de Vita449
. Dei loro figli, soltanto Oberto
(nato dal matrimonio fra Bosone e Richelda) mantenne il patronimico, ma non lo
trasmise ad alcuno perché divenne canonico450
. Invece, da una figlia di Gualtiero,
Odelina (moglie di Azone di Guglielmo «de Furno» di Masino), si scopre che i de
445
Ovvero quelli redatti da Ferdinando Gabotto, Enrico Durando, Giuseppe Colombo,
Giuseppe Assandria, Gino Borghezio citati in questa tesi. 446
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 437. 447
Padre di Boiamondo, Pasquale, Ubaldo (padre di Robaldo, marito di Berta dalla quale
ebbe Ubaldo, padre di Ardizzone e marito di Emilda, e Giacomo, padre di Grifone; di Uberto,
padre di Clavino, Evrardo e Guiberto), Bongiovanni e Lifredo (padre di Filippo), FALOPPA, Un
insediamento monastico cit., p. 31; Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 100, doc. 88; p. 142,
doc. 132 e p. 162, doc. 152; I necrologi del Capitolo cit., p. 40, num. 107 e p. 123, num. 478;
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 437 e 479. 448
Bonamico e Riccardo, Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 22, doc. 15; in SERENO, Il
monastero cistercense cit., p. 220, doc. 1, Bonamico, figlio di Bosone Brusato, è indicato come
fratello di Brida, «neptis» di Giacomo Breario, padre costui di Berlenda. 449
ALBERZONI, Da Guido di Aosta cit., p. 247, n. 243; vedi anche FALOPPA, Un
insediamento monastico cit., pp. 29-31. 450
I necrologi del Capitolo cit., p. 54, num. 167; ALBERZONI, Da Guido di Aosta cit., p.
247, n. 243; Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 82, doc. 70; FALOPPA, Ivrea dalla “civitas”
cit., p. 469.
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80
Civitate professarono legge longobarda451
. Anche la famiglia dei de Vita era attiva
nel consortile dei de Civitate. Figli di Ivoreo de Vita, marito di Vinberga452
, erano
il canonico Pietro e Brolino453
. Quest’ultimo, più volte menzionato come un «de
Civitate»454
– come fu del resto per il padre Ivoreo –, era marito di Imelda e,
insieme a lei, lasciò un’ampia discendenza455
.
I Grasso, con un precoce tentativo di instaurare legami interfamiliari e di
strutturarsi in senso aristocratico e signorile, misero in atto una «strategia
calibrata» di potenziamento, perseguita attraverso una politica matrimoniale e una
serie di rapporti con alcune famiglie signorili del contado nel frattempo
inurbate456
. I Grasso strinsero rapporti familiari con i «domini» di Romano nel
1207, ciò permise loro di qualificarsi in senso signorile457
e, nello stesso anno, essi
alimentavano le proprie relazioni in città attraverso il matrimonio fra Beatrice, una
de Mercato e sorella di Giacomo e Ivoreo458
, e Guglielmo Grasso, il quale sembra
sia stato l’unico della sua famiglia ad aver messo in atto strategie matrimoniali459
.
Rimane inspiegata la relazione fra questa famiglia e il gruppo di individui che
assunsero il patronimico «de la Grassa», da attribuire probabilmente a Ivoreta
Grasso o Grassa: questi personaggi, congiuntisi poi al nucleo che si denominò «de
Ogerio», comparvero in atti accanto alla famiglia Grasso460
.
Pur essendo molto documentata la famiglia dei Solero, anche sul piano delle
relazioni parentali e matrimoniali, è difficile cogliere la provenienza dei congiunti
a questa numerosa e compatta domus. La legge professata dai Solero,
diversamente dai de Civitate, era quella romana: ce lo attesta un documento del
451
Op. cit., p. 459. 452
Le carte dell’archivio capitolare cit., pp. 34-35, doc. 28; I necrologi del Capitolo cit., p.
145, num. 586. 453
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., pp. 469-470; I necrologi del Capitolo cit., p. 16,
num. 30. 454
ALBERZONI, Da Guido di Aosta cit., p. 247, n. 244. 455
Suoi figli furono Federico (anch’esso attestato come de Civitate e padre di Enrico),
Guercio, Bartolomeo, Guglielmo, Alario, Corrado e Giacomo; un possibile fratello di Brolino
sarebbe Martino (1196): I necrologi del Capitolo cit., p. 92, num. 328; Le carte dell’archivio
capitolare cit., p. 87, doc. 74; p. 91, doc. 77; p. 195, doc. 172; p. 120, doc. 108; p. 208, doc. 182. 456
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 426 sgg.; ma anche con i Mercenasco op. cit., p.
431. 457
Op. cit., p. 429. 458
Op. cit., p. 430; I necrologi del Capitolo cit., p. 38, numm. 100-101. 459
FALOPPA, Società e politica cit., p. 134-135. 460
Op. cit., p. 363, doc. 259; I necrologi del Capitolo cit., p. 38, num. 102; Le carte
dell’archivio capitolare cit., p. 195, doc. 172.
Page 80
81
1203461
. Un legame matrimoniale è attestato fra Maria, figlia di Ottone Solero, e
Ferrario di Albiano462
, fratello di Suriano di Diusio, molto attivo nelle
magistrature e nella società eporediese; ciò conferma l’interesse ad avvicinarsi a
una realtà sociale vicina sia al vescovo e sia alla zona di sviluppo finale degli
interessi patrimoniali extraurbani di famiglia, a nord-ovest dalla città. Ma altri
accordi avvennero con i de Oltreponte e i Montestrutto: nel 1302 Giuliana di
Oltreponte era madre di Bertina e moglie di Emblavato Solero463
; moglie di
Ardizzone Solero fu Margherita figlia di Uberto di Montestrutto464
. Mentre da
Bovolo Solero465
probabilmente si affermò un ramo collaterale, i «de Bovolo».
Nella famiglia dei Solero, come in tutte le altre, coloro che non erano coinvolti
dalle strategie matrimoniali erano indirizzati verso carriere religiose (entro il
capitolo cattedrale, i cenobi urbani ed extraurbani, maschili e femminili)466
, o ne
rimanevano semplicemente ai margini non arrivando (quasi) mai a sposarsi467
.
I de Mercato mantennero i propri interessi entro il territorio cittadino anche
sul piano delle relazioni familiari. Infatti, matrimoni accertati sono quelli con altre
due domus dell’élite comunale eporediese, i de Civitate e i Grasso. Probabilmente
anche i de Mercato erano di legge longobarda: si è appena visto che la figlia di
Giacomo de Mercato, Beatrice fu moglie di Guglielmo Grasso, attestato come suo
mundoaldo. Ad altra famiglia di legge longobarda si sarebbe legata attraverso il
matrimonio, nel 1184, di Pietro di Rainario de Mercato con Giacoma, forse la
stessa de Civitate – secondo Faloppa – menzionata in un atto del 1181, come
figlia del fu Tiberio de Civitate, la quale dice di «Longobardorum lege vivere».
Inoltre, da questo documento emerge un possibile legame di affinità parentale fra
la famiglia de Civitate e i della Torre e i Genetasio: infatti, nell’atto sono presenti
Giacomo della Torre e Giacomo Genetasio che sono testimoni in veste di «Iacoma
461
Op. cit., p. 83, doc. 71. 462
I necrologi del Capitolo cit., p. 22, num. 47. 463
Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 218, doc. 192. 464
I necrologi del Capitolo cit., p. 137, num. 532. 465
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 424. 466
Le maggiori informazioni sono contenute in FALOPPA, Un insediamento monastico cit.,
p. 19, EAD., Ivrea dalla “civitas” cit., pp. 434-438, EAD., Percorsi familiari cit., pp. 416-422 e
SERENO, Il monastero cistercense cit., pp. 129-153 e 161-170; mentre ulteriori informazioni sono
rintracciabili in Cartario della Confraria cit., I necrologi del Capitolo cit. e Le carte dell’archivio
capitolare cit. 467
LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., p. 49.
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82
propinquorum parentum»468
. I della Torre e i Genetasio, inoltre, erano imparentati
tra loro469
– il capostipite dei Genetasio sarebbe lo stesso Genetasio della Torre
attestato nel 1177470
–: i della Torre furono legati anche ai de Carisio con il
matrimonio di Matelda, una della Torre, e Rainerio471
.
Isolate notizie di matrimoni trapelano dai documenti che interessano altre
famiglie del mondo cittadino. I Salerano, con Evrardo, si legarono ad Albiano e ai
suoi nuclei familiari, poiché egli è attestato nel 1198 come marito di Serafina,
figlia di Pietro d’Albiano472
. Dei Taglianti si è detto che avendo interessi nella
vallata di Brosso e attorno a Lessolo e Fiorano furono avvicinati e coinvolti nelle
politiche matrimoniali dei conti di Castellamonte; ma va menzionato anche un
ipotetico legame con i de Civitate, dato che, nel 1169, Bongiovanni del fu Rodolfo
Taglianti, agiva col consenso di Uberto de Civitate, tutore del patrimonio della sua
famiglia473
. Un’associazione di natura economico-patrimoniale legava le due
famiglie dei Rucamerdosa e dei Poma474
. Un legame di consanguineità legava i
del Pozzo e ai di Biella475
, mentre un accordo matrimoniale aveva avvicinato
questi ultimi al consortile della Valle di Montalto476
; ulteriori (ma ipotetici)
legami potrebbero esser colti leggendo gli obituari del capitolo cattedrale, per
esempio, tra de Mercato e della Rocca477
(o Borgonovo, come propone
Faloppa)478
; mentre non risultano che isolati nomi femminili per altri (Caldera,
468
FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 465; Le carte dell’archivio capitolare cit., pp. 47-48,
doc. 39. 469
FALOPPA, Un insediamento monastico cit., p. 33, n. 97. 470
FALOPPA, Società e politica cit., pp. 218-221. 471
Le carte dell’archivio capitolare cit., p. 150, doc. 140. 472
Op. cit., p. 75, doc. 63. 473
Op. cit., p. 30, doc. 23. 474
Dei Poma si perdono le tracce a inizio Duecento, FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p.
467; le vicende dei Rucamerdosa sembrarono chiudersi con la morte di Gregorio, canonico di S.
Maria (op. cit., pp. 465-466): invece, continuarono con i discendenti di Pietro Valdano, figlio di
Enrico, morto nel 1213; di questi si conosce solo Franchino – attestato nel 1231 e nel 1256 –,
avuto dalla moglie Cara; di lui si sa che fu sposato a Sibilla e divenne padre di Oberto: Le carte
dell’archivio capitolare cit., p. 122, doc. 110; p. 178, doc. 165; p. 195, doc. 172; I necrologi del
Capitolo cit., p. 71, n. 236; p. 103, num. 372; p. 142, num. 558. 475
Cartario della Confraria cit., p. 242, doc. 18. 476
Op. cit., pp. 316-317, doc. 216. 477
I necrologi del Capitolo cit., p. 28, num. 69; p. 78, num. 264. 478
FALOPPA, Percorsi familiari cit., pp. 482-487.
Page 82
83
Stria), e per cui singole informazioni sugli uomini del gruppo familiare non
permettono di ricostruirne i raccordi matrimoniali479
.
4. Conclusioni sull’analisi delle strategie matrimoniali
Gli interessi che orientarono le strategie matrimoniali delle diverse famiglie
signorili furono per lo più di natura patrimoniale: lo erano, ad esempio, quelli che
mossero le stirpi comitali a cercare legami con le famiglie di castellani e signori
fondiari presenti sul territorio canavesano480
. Mentre erano soprattutto di natura
politica i motivi che spinsero questa aristocrazia a legarsi con famiglie di maggior
prestigio o a cercare tregue agli scontri militari, compromessi spesso raggiunti
attraverso il matrimonio fra individui di famiglie tra loro consanguinee481
; altre
volte il matrimonio funzionava come strumento per sancire un passaggio al fronte
opposto482
, o per rafforzare legami tra famiglie appartenenti alla stessa fazione
politica483
. In taluni casi, prestigio e rafforzamento patrimoniale potevano
combinarsi dando vita a matrimoni fra gruppi cittadini ricchi e potenti con
esponenti del notabilato canavesano o della stessa aristocrazia militare.
Anche i consortili familiari creatisi nel corso del Duecento furono l’esito di
soluzioni richieste da necessità legate ai patrimoni e al venir meno della
solidarietà fra parenti e di compromessi raggiunti grazie a comuni interessi
politici. A riguardo resta evidente il fatto che, se le famiglie signorili resistettero a
lungo e con successo all’influenza e alle mire espansionistiche dei comuni
cittadini o dei signori più potenti, fu grazie anche a tale espediente che esse, oltre
a contraddistinguersi nel panorama dell’Italia centro-settentrionale484
, riuscirono a
condividere, oltre ai patrimoni e al potere politico, gli sforzi militari ed economici
nella difesa di interessi comuni e particolari.
479
Le carte dell’archivio capitolare cit., pp. 8-10, docc. 2-3; pp. 15-17, docc. 810; p. 21,
doc. 14; p. 52, doc. 43; p. 68, doc. 57; pp. 70-71, doc. 59; pp. 95-96, doc. 83; p. 116, doc. 104; p.
119, doc. 107; p. 124, doc. 112; pp. 133-134, doc. 112; p. 139, doc. 128; p. 154, doc. 144; p. 157,
doc. 146; p. 162, doc. 152; pp. 174-175, doc. 162; p. 183, doc. 167; p. 209, doc. 183; FALOPPA,
Ivrea dalla “civitas” cit., p. 459. 480
Valga come esempio per tutti, il legame matrimoniale che cominciò a legare da metà
Duecento la famiglia comitale dei San Martino ai de Villa, signori di Strambino. 481
Supra p. 73. 482
Il riferimento va al matrimonio tra i conti di Castellamonte e la famiglia Tagliandi. 483
Come poteva essere per i San Martino con i d’Andrea. 484
LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., pp. 77-78.
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84
Grazie alle informazioni tratte dalla documentazione e dagli studi su
vicende e tendenze patrimoniali, è possibile affermare che a indirizzare le
strategie matrimoniali messe in atto dalle famiglie signorili cittadine concorsero,
insieme ad altri (attività economiche, sociali, civiche e coinvolgimento in
ambienti quali quello vescovile e quello comunale), fattori quali la professione di
legge e la tradizionali politiche legate alla trasmissione agli eredi del patrimonio.
Così, alcune domus, come i de Civitate485
, strinsero accordi matrimoniali con
quelle famiglie che come loro avevano il centro dei propri interessi patrimoniali e
delle proprie attività politiche in città: nelle loro scelte giocò probabilmente un
ruolo importante l’appartenenza ala legge longobarda. Fuori da Ivrea guardarono i
Tagliandi, i Salerano, ma soprattutto i Solero (che a inizio Trecento disposero di
molti possessi a nord-ovest della città)486
: per questa famiglia si può ipotizzare che
la professione di legge romana agevolò il loro inserimento nel contado e nei
circuiti di ricchezza e potere rappresentati da piccoli-medi signori fondiari,
maggiorenti locali, ecc. A metà strada si trovarono lignaggi, quali i Grasso,
interessati a legarsi sia a domini loci del contado sia a famiglie molto attive in
città: essi valorizzarono gli aspetti legati alla famiglia e alla trasmissione del
patrimonio del diritto longobardo per legarsi ad altre famiglie cittadine, mentre
per unirsi ai signori di Romano valorizzarono al meglio la loro strategia
matrimoniale attraverso il ricorso all’istituto dotale, non del tutto estraneo alla
loro legge di appartenenza487
.
485
Fu la sola domus cittadina a comparire come partecipe a un consortile familiare, anche
se le poche notizie (coerenze patrimoniali, interessi sulla percezione di censi e affitti, ecc.) relative
ai del Pozzo (indicati talvolta come «illi de Puteo», per cui si veda supra il testo compreso fra le
nn. 266-267) potrebbe far pensare a una struttura basata sulla solidarietà familiare e la coincidenza
di politiche e sostanze patrimoniali. 486
Si veda oltre cap. V. 487
LEVEROTTI, Famiglia e istituzioni cit., pp. 27-37, in particolare 29-31.
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Capitolo quinto
Dinamiche politiche e carriere familiari
1. Dinamiche politiche e carriere familiari:
Ivrea e Canavese tra Due e Trecento
Rispetto al modello di riferimento dei decenni a cavallo fra XII e XIII
secolo, ossia quello pubblicistico di matrice comunale, il Canavese – come ha di
recente affermato Paolo Buffo – parve orientarsi verso «prospettive ideologiche
eccentriche»488
: al fine di legittimare con argomenti nuovi antiche modalità di
controllo su uomini e territori, le famiglie signorili furono in grado di elaborare
varie e inedite concezioni del potere, grazie soprattutto alla comunicazione con
«interlocutori esterni di rilievo», come i comuni cittadini e i principati
territoriali489
. L’autonomia di cui godettero – protrattasi fino agli inizi del secolo
XIV – aveva consentito a queste famiglie di operare entro un quadro istituzionale
eccezionalmente fluido490
.
Se le vicende patrimoniali di queste famiglie furono autonome491
, quelle
politiche furono doverosamente comuni per la necessità di offrire una risposta
unitaria alle sfide esterne, ma anche interne, al Canavese492
: un «osservatore del
Duecento» avrebbe colto abbastanza nettamente la separazione politica esistente
fra l’area eporediese e quella dei bacini dell’Orco e della Dora Baltea, poiché,
diversamente dalla maggior parte dei lignaggi signorili dell’Italia settentrionale,
protagonisti fra XII e XIII secolo di un «serrato confronto» con l’espansione delle
città comunali, le famiglie comitali del Canavese si mantennero autonome rispetto
488
BUFFO, Lessico e prassi cit., pp. 438-439. 489
L. cit. 490
Ad esempio, durante le esperienze del consortile dei conti e dei castellani del Canavese e
della coniuctio con il comune di Ivrea – nate da necessità di convivenza e gestione politica, ma
concluse dopo o a causa di conflitti militari esterni o interni che ne coinvolsero le parti – i vari
organismi adottarono la terminologia propria del potere pubblico, OREGLIA, Le famiglie signorili
cit., pp. 316-345. 491
Si trova raramente notizia di beni allodiali di una famiglia signorile canavesana; ma al
contrario le notizie più frequenti riguardano beni dei quali i singoli membri erano investiti dalla
chiesa o dai comuni di Ivrea o Vercelli: questi in origine erano di tipo allodiale, che venivano
ceduti a un altro organismo politico e subito affidati in gestione ai conti con il meccanismo del
feudo oblato, OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 231. 492
Op. cit., p. 348 sgg.
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ai comuni urbani della regione493
. Nel tentativo di assicurarsi il loro appoggio
«nella lotta di sopravvivenza contro il ben più potente comune di Vercelli», Ivrea
tentò più volte di aggregarle intorno a sé, attraverso la concessione di cittadinatici
politici o «soluzioni politiche inedite»494
: tali accordi – che sovente avevano
natura militare – non si tradussero in omaggi vassallatici in favore del comune, il
quale mai si impose come senior collettivo dell’aristocrazia comitale, riuscendo
soltanto a coordinare, per via mediata, il territorio canavesano e gli uomini atti
alle armi che ne facevano parte ed erano sottoposti a quei signori495
.
Soltanto la famiglia dei conti di Masino prese immediatamente le distanze
anche dal punto di vista politico e militare: forse per la prossimità territoriale, essi
si schierarono a fianco del comune vercellese. Ciò non rappresentava una novità:
già nel 1141 i «de Canavise» investirono l’«universitas» di Vercelli di vari beni,
compresi i due «castra» di «Castellito et Malione cum villis et curiis eorum seu
cum omnibus districtis […] et honoribus» e la «curadia» dei mercati di Mazzè e
Rivarolo496
, legandosi con un giuramento di fedeltà al comune; questo rapporto fu
ereditato dalla famiglia dei San Martino497
, i quali furono a lungo detentori del
feudo di Castelletto498
.
In seguito al controllo territoriale esercitato da questa aristocrazia militare, il
Canavese si configurò come un’area «compattamente signorile», articolata in
«territori dipendenti ciascuno dal proprio castrum», a capo dei quali vi erano le
famiglie signorili che, «per estendere la propria influenza a territori controllati da
altri domini», non mancarono di servirsi della «mediazione di organismi comunali
locali»499
. La famiglia di cui sono state maggiormente indagate circa questo tipo
di legami intrapresi a livello locale è quella dei conti di Valperga. Vassalli o «boni
493
BUFFO, Lessico e prassi cit., p. 399. 494
Op. cit., p. 400; cfr. OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 316 sgg. 495
PANERO, Il «Libro rosso» cit., pp. 57-59: se con le stirpi comitali il comune di Ivrea
riuscì a stringere solamente accordi politico-militari, con i signori appartenenti al vasto consortile
della Valle di Montalto giunse a veder riconosciuta una superiorità per certi versi signorile; cfr.
supra n. 135. 496
Documenti dell’archivio comunale cit., p. 11, doc. 1; OREGLIA, Le famiglie signorili cit.,
pp. 15-16. 497
Anche se in un’attestazione tarda rispetto al periodo considerato, questa famiglia
possedeva il feudo di San Martino concesso «dalla chiesa eporediese»: Le carte dell’archivio
vescovile cit., p. 163, doc. 118; OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 100 e n. 172. 498
Identificabile «con sicurezza» con Castelletto Cervo a nord di Vercelli sulle rive del
torrente Cervo, op. cit., p. 11 e n. 32. 499
BUFFO, Lessico e prassi cit., p. 402.
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homines» a loro sottoposti furono i Droenghi di Valperga, i de Doblazio di Pont e
dintorni, i Descalzi di Salto, i Manera di Cuorgné, i Silvesco di Salto e Canischio,
i Folli di Rocca, i signori di Barbania, i Biamonti, i Serotti, i Tibaudi, gli
Alberti500
, i castellani di Mazzè, e famiglie di Busano come i Mollo, i Berro, i
Fabro, i de Muro, i Doglio501
. Il loro patrimonio arrivò a lambire diversi centri,
come Valperga, Rivara e Mazzè, con i loro territori, e – sebbene in momenti
diversi fra loro – Barbania, Corio, Ozegna, Oglianico, Rivarossa, Pont502
, Caluso,
Candia, Castiglione, Mercenasco, Montalenghe503
e Busano. I conti di Valperga
guidarono un consortile molto impegnato politicamente che consentì ai suoi
aderenti di raggiungere la carica di podestà condiviso con il comune di Ivrea a
metà Duecento, ruolo rivestito a fasi alterne e in concorrenza con i rivali del
gruppo rappresentato dai conti di San Martino504
. Essi furono i più fedeli
sostenitori del ‘partito ghibellino’ – di cui si parlerà più avanti – attivo in
Canavese.
Vicini a questa famiglia per motivi di parentela e adesione politica erano i
conti di Masino. Essi furono economicamente e militarmente molto potenti:
giunsero a controllare un territorio particolarmente compatto e posto al confine
delle aree di influenza dei comuni di Ivrea e Vercelli, una importante zona di
transito per commerci e uomini. La loro signoria, riconosciuta come feudo oblato
dal comune di Vercelli – al quale si erano legati vassallaticamente –, si estese sui
centri fortificati di Masino e Maglione, e sui territori su cui sorgevano le attuali
Borgomasino, Settimo Rottaro, Vestignè, Caravino e Cossano. Altri possessi di
questa famiglia erano situati nel Canavese centro-occidentale, mentre un secondo
feudo oblato probabilmente fu concesso sulla località di Azeglio dal vescovo di
Ivrea a inizio XII secolo505
. Consecutivamente negli anni 1264 e 1265 la carica
podestarile di Ivrea fu ricoperta dai due fratelli Oddonino e Giacomo506
, mentre
500
Cfr. BERTOTTI, La pianticella di canapa cit., pp. 18-29. 501
BUFFO, Lessico e prassi cit., pp. 418-428. 502
Da Ivrea cit., p. 175. 503
Op. cit., p. 274. 504
PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 945 sgg. 505
CHITTOLINI, La formazione dello Stato regionale cit., pp. 51-59, 69 sgg. 506
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 170.
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nel 1296 Guieto fu capitano della «societas populi» di Ivrea507
.
Nei decenni iniziali e centrali del Duecento, i conti di San Martino unirono
al loro consortile i centri di Rivarolo, Front, Castelnuovo, Baldissero508
,
Strambino e Favria, e controllarono vaste aree attorno a Burolo, Agliè509
, Candia e
Castiglione. Questi conti si unirono al partito ‘guelfo’510
facendo causa comune
con la Chiesa eporediese e alla famiglia Gonzaga di Mantova: la salita al soglio
episcopale di Federico di Front prima, e di Alberto Gonzaga poi511
, sono una
conferma a questo progetto politico. Anche i Castellamonte, dopo una fase filo-
monferrina, avrebbero aderito alla causa guelfa con l’inizio del XIV secolo. Da
decenni si erano inseriti nelle principali istituzioni religiose512
unendosi per via
matrimoniale ai Tagliandi, a capo del partito avverso al marchese del Monferrato
e ai ghibellini. Questa famiglia di conti giunse a controllare la Val Chiusella e i
centri di Castellamonte, Brosso, Strambinello, e diversi beni nei territori di
Lessolo, Quagliuzzo, Vidracco, Feletto e Montalenghe, e in parte di Agliè,
Balangero, Ozegna e Strambino.
Intorno alla metà del Duecento, il comune di Ivrea aveva riallacciato
relazioni politiche con i conti di Castelnuovo e di San Martino513
, mentre il
vescovo Federico di Front, dopo aver proseguito l’opera dei suoi predecessori,
dovette rassegnarsi a una congiuntura politica sfavorevole che aveva colpito la
chiesa eporediese, la quale vide svanire ogni sua anacronistica pretesa signorile
sulla città.
A metà degli anni ’60 l’eporediese, reduce dal periodo di dominazione
imperiale (1238-1250) – durante il quale Federico II aveva installato in Ivrea,
507
P. BUFFO, I documenti dell’archivio storico del comune di Ivrea (1142-1313), in
«Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», CX (2012), I, pp. 270-275, doc. 40. 508
Da Ivrea cit., p. 108. 509
Cfr. op. cit., p. 209. 510
Per ciò che è da salvare delle tradizionali definizioni guelfo e ghibellino, L. BAIETTO, Il
papa e le città. Papato e comuni in Italia centro-settentrionale durante la prima metà del secolo
XIII, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2007, pp. 279-281, 341-356 e
relativa bibliografia. 511
Ovvero, dopo il trasferimento di Federico a Ferrara, su volontà del papa, nel 1289,
OREGLIA, Le famiglie signorili cit., p. 142. 512
Ad esempio, Giacomo, abate di S. Stefano (1256-1295), fu un membro di questa
famiglia, PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., p. 286; cfr. SERENO, Il monastero cistercense cit., pp.
139-144 e 145 sgg. 513
E stringendo un accordo con altre famiglie che erano venute meno ai doveri previsti dal
cittadinatico dopo la pace separata fra Ivrea e Vercelli del 1231, Il libro rosso cit., pp. 255-284,
docc. 245-248.
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come in altre città italiane, suoi funzionari (capitanei o podestà)514
–, fu teatro
della prova di forza ingaggiata dal vescovo Federico contro il marchese del
Monferrato. Il conflitto che ne risultò si sovrappose, anzi venne a coincidere
rapidamente con i contrasti interni all’aristocrazia comitale: da una parte insieme
con i conti di San Martino, alleati della Chiesa, si trovarono i Castelnuovo, i
Rivarolo-Front (famiglia di cui faceva parte il presule) e gli Strambino; dall’altra i
Valperga-Rivara, filo-monferrini, furono appoggiati dai conti di Castellamonte
(prima della loro adesione alla parte opposta) e quelli di Masino, i signori di
Mazzè, di Candia e di Castiglione. Questa contrapposizione assunse col tempo i
colori della lotta fra «guelfi» e «ghibellini», ma senza che «tali denominazioni
abbiano avuto – oltre la profonda rilevanza di contrapposizioni locali – quel noto
connotato di specifico legame ideologico con i partiti pontificio o imperiale
assunto altrove», poiché, durante il regno di Federico II – e quindi durante la
supervisione in Ivrea di suoi rappresentanti – questo scontro attraversò un
momento di particolare intensità, la situazione canavesana non fu nel complesso
«molto agitata»515
.
Tuttavia, un richiamo a queste contese lo consente il fatto che, nel biennio
1266-1267, solo parte dell’aristocrazia eporediese e canavesana operò in favore
del marchese del Monferrato Guglielmo VII, il quale ottenne la signoria sulla città
di Ivrea516
. Il conflitto appena cominciato, e lontano dal risolversi con questa
soluzione, era destinato a proseguire, poiché soltanto parte della popolazione
eporediese lo aveva voluto come suo signore, e tra questi di certo non vi erano il
vescovo Federico e i suoi alleati. Dopo l’episodica transizione imperiale di
Corradino II (1268), il comune – probabilmente il partito opposto a quello che
aveva consegnato la città a Guglielmo – e la Chiesa – quest’ultima su
suggerimento del pontefice – si decisero a passare dalla parte del nuovo potente
514
BORDONE, I ceti dirigenti cit., p. 79. 515
PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 945 e n. 101; cfr. BAIETTO, Il papa e le città cit.,
pp. 280 sgg., 346-349. 516
Sotto la podestaria di Corrado Valperga di Rivara, il comune e i maggiorenti
riconobbero la signoria di Guglielmo VII di Monferrato; dopo un secolo di soggezione, il comune
aveva ritrovato, fuori Ivrea, un potente signore che contrastava efficacemente la signoria vescovile.
Già nei primi mesi del 1267, tuttavia, dopo le conseguenze della propria decisione, i maggiorenti si
riallinearono alle posizioni vescovili. Linea politica che non mutò in occasione del ‘sacrificio’
della signoria vescovile nella dedizione a Carlo d’Angiò nel 1271: il vescovo con questo nuovo
atto mantenne gli assodati rapporti vassallatici con l’élite cittadina e la parte guelfa della nobiltà
rurale, ma perse ogni potere politico formale, PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 946 sgg.
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del momento, il guelfo Carlo d’Angiò517
(1271-1276, con avvicinamento fin dal
1268). Quest’ultima dedizione rientrava nelle speranze di Federico di avere un
protettore in grado di tenere a bada gli sconfinamenti nella diocesi perpetrati da
Guglielmo VII: tuttavia, l’evanescenza dell’avanzata angioina portò a un nuovo
riconoscimento della signoria monferrina sulla città (1277-1309) e
all’appianamento dei rapporti fra vescovo e marchese, mentre il comune non seguì
immediatamente l’esempio vescovile, ma attese la dedizione di Vercelli, allora
alleato degli eporediesi, sottomettendosi soltanto l’anno seguente518
.
Fu probabilmente in questo periodo che si definirono gli schieramenti che si
sarebbero fronteggiati sulla scena politica canavesana e in guerra nella prima metà
del XIV secolo519
. La stabilità portata dalla signoria monferrina consentì la
cristallizzazione delle correnti interne alla città che avevano tutto l’interesse a
prevalere sulla parte avversa: da una parte erano raggruppati i Solero e alcuni
signori della zona a Nord di Ivrea, l’area in cui gli stessi Solero avevano il centro
dei propri interessi (Lessolo, Baio, Fiorano), dall’altra gli Stria e i Tagliandi, di
parte guelfa e a capo della corrente avversa allo strapotere dei Solero520
.
I Solero rappresentano la famiglia che più di ogni altra segnò la storia
religiosa e civile della città521
portando a compimento una strategia chiaramente
perseguita sin dal secolo XII, allo scopo di consolidare il prestigio e le relazioni
sociali del gruppo, in una fase che segnò il loro trionfo nel ceto dirigente cittadino.
517
Si veda a riguardo M. FUIANO, La penetrazione e il consolidamento della potenza
angioina in Italia, in «Archivio storico per le province napolitane», XXXIX (1959), pp. 179-234. 518
Nel 1277, gli Eporediesi giurarono fedeltà al nuovo signore, il marchese del Monferrato
Guglielmo VII (anche se non con la stessa immediatezza vescovile): una signoria «personale e
vitalizia» sulla città, poi confermata, ma anche «concordata» dallo stesso governo comunale, a
Giovanni I, che significò per alcuni maggiorenti investitura di determinati poteri cittadini, op. cit.,
pp. 941-954; cfr. FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 418, n. 96; vedi anche P. BUFFO, La
cogestione di beni e diritti pubblici da parte di comune ed episcopio a Ivrea: prassi, lessici, attori,
Torino 2009, tesi di laurea magistrale presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino,
sezione di Medievistica e Paleografia, pp. 177-195. 519
ANDENNA, Episcopato e strutture diocesane cit., pp. 325-345 e 347 sgg. 520
Statuti cit., I, p. LXXII. 521
Furono spregiudicati e versatili nel perseguire alleanze, veri e propri «imprenditori della
terra», capaci di costruire un patrimonio fondiario esteso e compatto, vicini al vescovo e al
capitolo, «un’élite urbana già collaudata nella consueta collaborazione con il vescovo, ad assumere
la direzione in rappresentanza anche degli altri cives del nuovo ente», BORDONE, I ceti dirigenti
cit.; è valido il paragone di questo gruppo parentale con quello degli Avogadro di Vercelli, per le
«analogie che questi due lignaggi esprimono nella capacità di assicurarsi una centralità nella vita
cittadina», fatto da A. BARBERO, Vassalli vescovili e aristocrazia consolare a Vercelli nel secolo
XII, in Vercelli, nel secolo XII (Atti del quarto congresso storico vercellese, Vercelli, 18-20 ottobre
2003), Vercelli 2005, pp. 262-268; si veda anche FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 434.
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Essi si inserirono ai massimi livelli delle cariche politiche e si segnalarono come
promotori o animatori di tutte le esperienze religiose cittadine, dall’episcopato al
collegio canonicale, dal cenobio di S. Stefano alla Confraria del S. Spirito, dagli
ordini mendicanti ai flagellanti, comparendo anche fra i benefattori della
Confraria del S. Spirito, o fra gli uomini e le donne devoti dei numerosi ospedali
di Ivrea. Negli anni novanta membri della famiglia furono vicari generali del
vescovo, arcidiaconi, visconti della chiesa eporediese, mentre nel secondo
decennio del Trecento ben sei erano i Solero inseriti con varie cariche nel capitolo
della cattedrale522
, e i parenti rimasti nel secolo svolsero compiti di primo piano
nella mediazione politica fra forze interne (vescovi e aristocrazia) ed esterne (i
Savoia) al territorio Eporediese523
.
Anche le famiglie dei Tagliandi e degli Stria giocarono un ruolo di primo
piano alla fine del Duecento e nei primi decenni del Trecento. Lungo tutto il XIII
secolo queste due famiglie collaborarono o furono attive una accanto all’altra
nell’acquisizione di numerosi terreni e benefici ecclesiastici524
, mentre il
mantenimento della fedeltà al vescovo consentì loro di ottenere il possesso di un
quarto dei diritti vicecomitali e dell’avvocazia della Chiesa di Ivrea. I Tagliandi,
inoltre, espressero dalle proprie fila un frate minore, familiare e confessore del
vescovo Alberto Gonzaga, Giacomo525
, e un canonico della cattedrale di Milano e
«legum professor», Alberto di Ardizzone526
. Ai Tagliandi e agli Stria si sarebbero
uniti nell’opposizione allo strapotere dei Solero alcuni maggiorenti eporediesi più
moderati come i d’Andrea e i de Berlenda.
522
SERENO, Il monastero cistercense cit., pp. 131 e 142-143; cfr. ALBERZONI, Da Guido di
Aosta cit., pp. 203-206, PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., pp. 237-318, in particolare pp. 291-298
e 304-309, MERLO, I vescovi del Duecento cit., pp. 269-274, ANDENNA, Episcopato e strutture
diocesane cit., pp. 324-328 e 343-346: i poteri vicecomitali dei Solero consistevano nella
giurisdizione criminale sui vassalli e sui districtabiles, gli uomini sottoposti alla giurisdizione
signorile della Chiesa eporediese, soprattutto nei castelli e nei villaggi sui quali si estendeva il
dominatus dei presuli; importanti carriere furono quelle di Nicola e Giorgio Solero, op. cit., pp.
326-328. 523
Per cui si veda infra; una «testimonianza innegabile della grande influenza della
famiglia in ambito religioso» fu quella di esser riuscita a imporre una propria rappresentante al
vertice del cenobio di S. Michele, Ardizzona, giunta solo dopo il 1301, «in una fase in cui a
prevalere nel bacino di reclutamento erano le famiglie extraurbane», SERENO, Il monastero
cistercense cit., p. 143. 524
Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 228-230, doc. 168; pp. 253-256, docc. 183-184;
p. 284, doc. 206; pp. 316-317, doc. 216; pp. 128-130, doc. 392. 525
BUFFO, I documenti dell’archivio storico cit., pp. 284-285, docc. 46-48 e p. 290, doc. 50. 526
ANDENNA, Episcopato e strutture diocesane cit., p. 327.
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Una famiglia probabilmente discesa da una donna appartenente al gruppo da
tempo inurbatosi dei signori di Burolo527
, i de Berlenda rappresentarono quella
categoria che mantenendo un certo rilievo politico e sociale riorientò i propri
interessi nell’esercizio del diritto, nell’attività notarile528
– come i della Torre, o
famiglie ‘nuove’ come gli stessi de Berlenda529
– e nel coinvolgimento nel
capitolo cattedrale – come i del Pozzo530
–, ai quali integrarono un ruolo più che
attivo sulla scena politica di Ivrea.
Dall’inizio dell’XI secolo, i giudici di area canavesana ed eporediese
cominciarono a estendere i propri possedimenti sul contado, anche in virtù dei
molteplici legami con le istituzioni ecclesiastiche e grazie a una ricchezza e un
prestigio alimentati dall’esercizio di professioni legate alla giustizia, al diritto e
alla scrittura sul modello di affermazione di un notariato dotato di «fides publica»
che «proprio in quegli anni si va affermando» conferendo a questa categoria
notevole potere. Nonostante nel secolo XII e fino alla metà di quello successivo
non siano attestati fra i vassalli vescovili, nell’area eporediese al prestigio legato
alla professionalità e all’appartenenza a un’élite intellettuale, alla fine del secolo
XII si aggiungono in qualche caso prerogative che derivano dall’appartenenza al
ceto vassallatico. Le famiglie furono in grado di attivare una pluralità di carriere
basata sull’uso professionale della scrittura e che «evidentemente corrisponde a
precisi disegni di potenziamento attraverso un uso che integra funzioni del
mestiere del giurisperito e potenzialità che offre l’appartenenza al mondo
ecclesiastico». È verosimile che questo ceto «cominciasse a dare vita in città a
progetti di potenziamento constatabili invece per alcuni gruppi cittadini solo dalla
metà del secolo XII». I legami interpersonali trovarono una loro corrispondenza
nella duplice adesione al mondo del diritto e a quello religioso531
.
I d’Andrea furono un’altra delle più importanti famiglie eporediesi a cavallo
tra Due e Trecento. Le origini di questa domus sono ancora indefinite, tuttavia, nel
527
Si veda supra cap. IV. 528
Statuti cit., I, p. LIX, n. 59. 529
Per i della Torre, Documenti dell’archivio comunale cit., pp. 205-206, doc. 179; per i de
Berlenda, ANDENNA, Episcopato e strutture diocesane cit., p. 344 sg. 530
Uno degli individui più rappresentativi di questa famiglia fu Uberto, op. cit., pp. 349. 531
FALOPPA, Ivrea dalla “civitas” cit., p. 430 e p. 448 sgg.; C. VIOLANTE, Una famiglia
feudale della «Langobardia» tra il X e il XI secolo: i «Da Bariano»-«Da Maleo», in «Archivio
Storico Lodigiano», s. II, XXII (1974), p. 10 sgg.
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1318 – e fino alla decisione contraria del papa nel 1320 – il vescovo Alberto
attribuì ad Andrea d’Andrea il feudo ecclesiastico che comprendeva, tra gli altri,
Chivasso, Castagneto e S. Giorgio532
. Andrea era di recente divenuto fidelis di
Amedeo V e Filippo d’Acaia, ed esponente di spicco dell’élite cittadina; inoltre, si
legò per via matrimoniale al casato dei San Martino e a quello dei Valperga533
.
Nel corso del Duecento alle famiglie da lunga data appartenenti alla militia,
in possesso di diritti signorili, o protagoniste di carriere politicamente redditizie si
affiancarono ceti che basarono la loro ricchezza su «elementi di professionalità»: i
notai, per esempio, che a Ivrea mostrarono «grande duttilità e una straordinaria
capacità di trovare spazio all’interno del ceto eminente»534
. Ma molte altre volte si
trattò di «piccoli e medi possessori del contado inurbati, di artigiani della città
organizzati su base professionale o raccolti in associazioni di tipo rionale» che
inquadrarono il loro reclutamento militare, erano legate da solidarietà di vicinato e
tutelavano gli interessi degli aderenti535
.
Nel corso del Duecento i ceti emersi sulla scena politica comunale trovarono
il collante adatto per integrarsi con i lignaggi del primo organismo comunale nella
«comune cultura cittadina e dal persistente modello aristocratico che la
governava»536
, a Ivrea rappresentato tradizionalmente, per tutto il Duecento e
oltre, dal legame con l’ambiente vescovile e quello religioso, il quale era di solito
532
Che in passato era appartenuto ai Monferrato, ma che poi fu devoluto alla Chiesa di
Ivrea alla morte di Giovanni nel 1305, in quanto il suo erede Teodoro Paleologo le possedeva
«contra Deum et iustitiam», poiché non si era accordato con il presule, ANDENNA, Episcopato e
strutture diocesane cit., pp. 330 e 332. 533
Si veda supra cap. IV. 534
FALOPPA, Società e politica cit., p. 240: «in campagna come in città, il linguaggio dei
notai tende a riservare le qualifiche nobiliari alla cerchia delle famiglie di tradizione militare»;
inoltre la fluidità riflessa dal legame vassallatico urbano si nota facilmente in città dove «era
sufficiente il passare del tempo e l’adozione di uno stile di vita adeguato perché la semplice
iscrizione alle cavallate si tramutasse in una pretesa di nobiltà, e molto più difficile in campagna,
dove si trattava di alterare lo stato giuridico di un feudo», BARBERO, Vassalli, nobili e cavalieri
cit., pp. 625-626. 535
BORDONE, I ceti dirigenti cit., pp. 66-67; a Ivrea compare la «societas sancti Mauritii»,
che vede coinvolte, molto probabilmente, famiglie come i Drogo o i Calvo: tuttavia, la realtà
eporediese, di recente formazione, si presentava «semplice e troppo rigida» perché risultasse
significativo il loro sviluppo nella vita politica comunale, FALOPPA, Società e politica cit., 318. 536
Non si «trattava, in realtà, di un modello esterno alla città», rappresentato cioè
dall’inurbamento dei lignaggi signorili del contado che, secondo un equivoco della storiografia
degli anni ’70-’80 del XIX secolo, avrebbero importato i costumi dell’aristocrazia rurale, ma
piuttosto di una cultura che accomunava, al di là della residenza, i ceti dirigenti medievali che si
erano andati formando nel corso del XI secolo, ed era una cultura ‘cortese’, che aveva anzi avuto
le sue origini proprio presso i centri scolastici cittadini e nella loro rivisitazione della tradizione
classica», BORDONE, I ceti dirigenti cit., p. 107.
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accostato a un quadro istituzionale anch’esso cavalleresco e signorile. Fedeltà e
stipendi di vario livello garantiti dalla figura vescovile rimasero fra i principali
fattori di collegamento città-contado e di ascesa sociale537
: per tutti, lo status
vassallatico continuò a rappresentare un percorso, una transizione talmente
importante che si configurò quasi come una condizione socialmente dinamica538
.
Mentre altro importante percorso attraverso cui fu possibile per le famiglie
dell’aristocrazia cittadina esprimersi in carriere di successo continuò a essere
rappresentato dal coinvolgimento nella credenza, mantenutasi quale organo di
coordinamento politico in Ivrea anche sotto i regimi signorili di fine Duecento e
inizio Trecento. Ciò sarebbe confermato dall’alto numero di famiglie che ne
fecero parte e il persistere di nomi della vecchia aristocrazia539
: due fattori, questi,
che diedero vita a una situazione del tutto diversa da quella del primo comune,
dove prevalsero esiguità di famiglie coinvolte e l’indefinita dimensione nobiliare
raggiunta dalle diverse famiglie eporediesi, che fecero di Ivrea una realtà distinta
da altre come Asti e Vercelli540
.
Ma i confini di ciascun gruppo rimasero sensibili ai mutamenti economici e
sociali. Famiglie arricchite con i commerci potevano acquistare terre e diritti
signorili. Famiglie legate a una tradizione professionale erano in grado di
accumulare nell’esercizio della professione ricchezze e prestigio spendibili
537
Cfr. con ciò che ha affermato FALOPPA, Percorsi familiari cit., p. 407, in cui i motivi
dell’accorpamento pressoché compatto di grandi patrimoni rurali da parte delle famiglie in ascesa
vengono spiegati attraverso il confronto con la situazione del tutto opposta dell’area torinese, dove
gli interessi dei gruppi familiari erano diretti verso il «territorium» urbano, e quella del rapporto
fideles-vescovo del vercellese, rapporto di natura vassallatica sfruttata per potenziarsi sul contado,
più simile a quella di Ivrea dove rimase immutato l’interesse a «colonizzare» parte del contado. 538
SERGI, I confini del potere cit., p. 295; per i nomi di coloro a cui furono concessi
possedimenti in forma patrimoniale e vassallatica nel XIII secolo, PANERO, La grande proprietà
cit., p. 857 e Le carte dell’archivio vescovile cit., pp. 122-123, doc. 385; pp. 304-311, doc 212; pp.
328-330, doc. 229. 539
Ricorrono ancora i nomi Solero, della Torre, de Mercato, Grasso, Genetasio, della
Rocca, del Pozzo, Caldera; a questi si accostarono gradatamente famiglie inurbate da tempo o
emerse dal populus: Tagliandi, de Berlenda, Pasqualengo, delle Logge, dell’Olmo, «de Guatacio»,
Stria, de domino Opizzone, Valdano, «de Guischis», d’Andrea, d’Arnaldo, di Fiorano, del Pero,
della Porta, del Prato, dell’Erba, Salerano, di Biella, di Biava, Drous, de Calvi, Picoto,
Tagliaserazzo, Sartore, Grimaldi, della Fontana, BUFFO, I documenti dell’archivio storico cit., p.
244, doc. 22; p. 253, doc. 23; pp. 254-255, doc. 25; p. 263, doc. 29; pp. 270-275, doc. 40; pp. 294-
300, doc. 55. 540
FALOPPA, Società e politica cit., p. 237.
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nell’ambito politico. Famiglie di tradizione signorile si aprirono (o da tempo
avevano cominciato ad aprirsi) alle attività di commercio e alle professioni541
.
2. Canavese ed Eporediese dopo la dedizione ai Savoia del 1313
Durante l’ultimo periodo monferrino ricomparve sulla scena politica la
societas populi, mentre i contrasti fra le varie famiglie eporediesi non si chiusero
nemmeno con la dedizione ai Savoia nel 1313542
, poiché la potente famiglia
Solero cercò di prevalere sulle altre, accordandosi segretamente ad Avigliana con
i nuovi signori543
; anche la contitolarità della città da parte di Amedeo V di Savoia
e di Filippo d’Acaia non facilitò la distensione politica. Probabilmente ad Amedeo
si legarono i fautori di una politica più moderata, una corrente stanca di contrasti,
favorevole alla tranquillità interna (d’Andrea, de Berlenda), a Filippo i più
intransigenti. Ai primi era vicino anche il vescovo di Ivrea, Alberto Gonzaga, che
dopo una prima fase in cui aveva appoggiato la presenza dei suoi parenti Gonzaga
al vertice degli organi politici di governo, dopo la dedizione ai Savoia cercò di
mantenere un atteggiamento di cautela e contrario alle posizioni di rigida
intransigenza. Ai secondi si unirono i Solero, a causa, forse, della delusione
provata dalla mancata attuazione dell’accordo segreto di Avigliana. Per questo
motivo il gruppo contrario ai Solero (Tagliandi, Stria) si avvicinò ad Amedeo e al
vescovo Alberto. La designazione del podestà, inoltre, operata per lo più a turno
annualmente dai due consignori entro la ‘rosa’ proposta, era fattore nocivo a una
tranquillità interna: le fazioni continuarono a esistere, anche se la vita cittadina
non parve del tutto «assorbita» da queste544
.
La situazione in Ivrea e nel Canavese era destinata a precipitare dopo il
ritiro (1320) dal soglio episcopale di Alberto Gonzaga. La posizione di
equidistanza da lui mantenuta non gli aveva impedito, negli ultimi anni del suo
541
Op. cit., p. 237 sgg. 542
Dopo le discordie sorte fra l’ormai marginale figura vescovile di Alberto Gonzaga e il
nuovo marchese del Monferrato, Teodoro Paleologo, e dopo la nuova sottomissione all’episodico
revival imperiale di Enrico VII, la città trovò infine il potente ‘preparato’ a tutelarne gli interessi
nella dinastia sabauda, PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., pp. 957-958; si veda anche Statuti del
Comune di Ivrea, a cura di ID., Torino 1974 (Biblioteca della Società Storica Subalpina,
CLXXXVIII), III, pp. 5-19. 543
Esso fu senza seguito: circa un mese più tardi fu siglato l’accordo di dedizione di tutta la
città al conte di Savoia, Statuti cit., I, p. LVI. 544
Statuti cit., I, pp. LXXII-LXXIII.
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trentennale compito di vertice ecclesiastico di Ivrea, di favorire uomini moderati,
come i d’Andrea e i de Berlenda, o di riconoscere un ruolo di primo piano ai
sempre più potenti Solero545
. All’incertezza e allo stallo raggiunto dalla scena
politica negli anni 1320-1321 si cercò di far fronte con l’elezione di Uberto di
Santo Stefano, vicino al marchese del Monferrato Teodoro Paleologo, prima, e di
Palaino Avogadro di Casanova, membro di una delle più note famiglie signorili di
Vercelli e appoggiato da papa Giovanni XXII546
, poi. Purtroppo, la regione aveva
ormai destato l’interesse di vecchi e nuovi potenti: i marchesi di Monferrato, da
decenni tradizionali e naturali signori legittimati a controllare la regione; gli
Acaia, nuovi aspiranti al controllo dei centri fortificati e delle principali vie di
transito.
In perenne oscillazione fra tentativi di indipendenza e alleanze siglate con i
principati territoriali – che a un tempo ne minacciavano le basi di potere a un altro
ne tutelavano gli interessi e il potenziamento economico e politico – e con la
Chiesa eporediese, l’aristocrazia militare canavesana avrebbe alimentato con il
suo secolare conflitto interno lo scontro per il controllo della regione apertosi a
metà degl’anni ’10 del XIV secolo e durato per diversi decenni tra alterni episodi
di pace e di guerra e repentini cambiamenti di fronte. In esso furono coinvolti
nuovamente i guelfi Angiò547
che avevano cominciato una seconda avanzata
militare in Piemonte, e i papi di Avignone che con i propri progetti politici
legittimarono l’entrata sulla scena politica e militare dei Visconti di Milano e della
dinastia regnante francese dei Valois548
. Lontana dal risolversi, questa guerra fece
da sfondo al lento ma costante lavoro di acquisizione di diritti e giurisdizione
appartenenti all’episcopato portato avanti dai conti di Savoia per tutto il XIV
secolo che, anche sul piano militare, diplomatico e politico, dovettero faticare non
poco prima di assestare il proprio controllo su Ivrea e Canavese549
.
545
ANDENNA, Episcopato e strutture diocesane cit., p. 324. 546
Op. cit., p. 348. 547
Cfr. supra n. 517. 548
ANDENNA, Episcopato e strutture diocesane cit., pp. 330-364. 549
Op. cit., pp. 370-394.
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3. Conclusioni
Nonostante il fatto che ogni sviluppo familiare possa fare, anche se in parte,
storia a sé, alla luce di quello che è stato detto nelle pagine precedenti si possono
delineare alcune tendenze generali, alcune caratteristiche che maggiormente
emergono nelle dinamiche locali delle famiglie signorili di Ivrea e Canavese. La
particolarità che accompagna l’analisi delle vicende del Canavese e del suo centro
più importante, Ivrea, è quella necessaria separazione fra i due ambiti (cap. I),
quello urbano e quello rurale. Si verificarono casi di inurbamento o di
spostamento da Ivrea verso il territorio circostante di gruppi di persone o famiglie:
tuttavia, è risultato necessario considerare separati i due contesti, perché per più di
un secolo mancò una decisa dialettica città-contado (cap. II) che solo
un’istituzione quale il comune cittadino giunse a realizzare, razionalizzandola e
piegandola ai propri interessi.
S’è visto che l’aristocrazia militare canavesana raccolse l’eredità dei conti di
Pombia. Fattori che cercano di dimostrare fattivamente questa ancora incerta
discendenza comitale – come il controllo dei medesimi territori, l’uso del
predicato comitale, l’ininterrotto potere e la molta influenza riconosciute dalle
altre forze politiche, le similitudini nell’onomastica degli individui – furono
presenti in parte o integralmente in ognuna delle famiglie analizzate (cap. I). La
presenza patrimoniale di questa aristocrazia, in alcuni casi compatta in altri più
estesa e influente, fu salvaguardata dalle relazioni feudali con entità politiche
superiori o pari, oppure mediante accordi matrimoniali (cap. IV) con l’universo
signorile canavesano (capp. II e III). Questa ricchezza patrimoniale si trasformò in
una ragguardevole forza militare e in influenza politica delle singole famiglie,
accresciutesi ancor di più nell’unione, avvenuta a inizio Duecento, del consortile
dell’aristocrazia militare del Canavese, che da una parte le consentì di opporsi o
ergersi a mediatrice fra i comuni cittadini e il territorio circostante, dall’altra ne
faceva il naturale interlocutore di forze superiori, che prima ne provocano la
divisione interna per poi allearsi con una o l’altra parte in vista di un inserimento
nel particolare scacchiere politico-territoriale del Canavese (capp. II e V).
Per quanto riguarda i castellani e signori fondiari che completavano il
quadro canavesano, la loro presenza patrimoniale raggiunse soltanto un livello
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medio-basso (cap. III): concentrata per lo più attorno al luogo in cui risiedeva il
centro del dominatus, essa era esposta alla pressione delle forze regionali (conti
del Canavese, comuni, vescovo, marchese del Monferrato), fatto per cui solo
alcuni di questi domini riuscirono a difendersi e a mantenere un saldo controllo
del proprio patrimonio e – in pochi casi fra questi – anche a rafforzarlo (cap. I). Il
loro rapporto con i potenti fu regolato da non molti rapporti di sottomissione
vassallatica (cap. II), mentre risultò diffusa la relazione feudale sia con i conti del
Canavese sia con il comune di Ivrea, o quello di Vercelli, ma soprattutto nei
confronti del vescovo. Il loro potere militare e la loro influenza politica erano al
quanto mediocri: solamente l’importanza strategica dell’area da loro controllata ne
faceva preziosi alleati o semplici ostacoli all’espansione delle entità politiche
superiori (cap. V), mentre gli accordi matrimoniali rimasero una variabile
possibile nella salvaguardia o nella condanna della propria esistenza (cap. IV).
Il potere politico delle famiglie cittadine, invece fu l’esito di una gamma
variegata di fattori (cap. I). Essi vanno dai diffusi inserimento e collaborazione
con enti e ambienti religiosi e, soprattutto, con la figura vescovile, alla non sempre
scontata partecipazione alle magistrature comunali, oppure al tardo
raggiungimento del possesso di qualità e conoscenze del diritto e del relativo
esercizio dell’attività notarile. O ancora, fattori civili quali il controllo strategico
di aree urbane con densa presenza demica nonché delle attività economiche lì
presenti, e l’investimento del ruolo civico-sociale guadagnato con il sostegno a
ospedali, luoghi di devozione e ad attività di assistenza. Mentre altri furono
accompagnati da una promozione sociale ottenuta dopo un primo periodo di
esercizio di attività professionali e commerciali, dal legame con l’aristocrazia del
contado attraverso rapporti feudali o matrimoniali.
La presenza e l’orientamento patrimoniale seguirono le differenti
inclinazioni delle famiglie delle loro tradizionali politiche di potenziamento (cap.
III). Al concentrarsi in città concorsero interessi quali la percezione delle entrate
derivanti dalle imposte urbane detenute e concesse dal vescovo, le concessioni
beneficiarie di terre, boschi, censi, decime in mano al capitolo cattedrale, agli enti
religiosi e laici o, ancora, alla chiesa episcopale, il controllo o cessione di parte del
tessuto edilizio. Mentre per chi guardava fuori città i motivi poterono essere la
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grande disponibilità di liquidi investita in acquisizioni di beni rilevati dalla chiesa
o da famiglie indebitate del contado, o ancora le medesime concessioni
beneficiarie delle strutture religiose cittadine, a cui si aggiungevano i beni ottenuti
dal legame (feudale o semplicemente censuale; cap. II) con l’aristocrazia del
contado. A ciò si aggiunga la variabile rappresentata dalle collaborazioni
patrimoniali tra famiglie imparentate o con interessi comuni.
Alcune famiglie approdarono a uno status sociale, e politico, considerevole
(cap. V): le singole carriere politiche dell’élite cittadina furono il frutto di costanti
strategie familiari, di sicure affermazioni costruite attorno a ruoli sociali
monopolizzati all’interno del capitolo cattedrale, nella collaborazione con la
figura vescovile, nell’esercizio di attività giuridico-notarili, nel controllo di
attività economico-professionali, nell’investimento delle risorse di famiglia in
attività di avvocazia di enti religiosi o di rappresentanza politica e finanziaria,
oppure di politiche patrimoniali orientate verso l’investimento per ottenere
maggior prestigio attraverso matrimoni (cap. IV) con gruppi signorili o
appartenenti all’aristocrazia militare, o ancora in attività commerciali purtroppo
non documentate.
Dalle informazioni raccolte è inoltre possibile distinguere precise fasi
cronologiche in cui far rientrare le diverse stagioni vissute dalle famiglie cittadine
coinvolte nell’attività pubblica del comune, o nelle vicende storiche della città,
insieme alla rivoluzione generatasi all’interno del vasto consortile del Canavese.
Una prima fase, delineabile tra il 1141 e il 1210, vedrebbe il comune di
Vercelli cominciare la sua politica di espansione politica e territoriale a danno di
Ivrea (1141-1169); questa pressione economico-territoriale e la particolare
situazione politico-militare del tempo sfociarono nella formulazione del primo
organismo comunale in Ivrea (1171) che, uscito da un breve periodo di controllo
imperiale diretto (1176-1178), sembra rafforzarsi costantemente mediante accordi
politico-militari con i signori presenti nella regione canavesana o nell’immediate
vicinanze (1180-1193), nonostante debba affrontare le rivendicazioni del conte
Raineri di Biandrate riguardo la signoria sulla città (1193-1206);
contemporaneamente il comune prosegue nell’assestamento politico intra ed extra
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cittadino, arrivando a legarsi con i signori e i conti del Canavese (1197-1205),
attraverso concessione di cittadinatici politici e accordi militari.
Una seconda fase, compresa tra il 1213 e il 1236, si apre con la prova di
forza ingaggiata dal comune di Ivrea verso due direzioni. La prima, verso
Vercelli, si intensifica a partire dai primissimi anni del secondo decennio del
Duecento: tuttavia, non risultò sufficiente l’alleanza con il consortile dei conti e
dei castellani del Canavese (1213-1229); la coniuctio che ne derivò era destinata a
sfaldarsi lentamente in seguito al conflitto militare con il comune rivale, che
prima divise città e consortile e poi minò la solidità del consortile stesso (1225-
1226). Successivamente, il comune contrasse la propria iniziativa, limitandola alla
città o a poche località chiave del territorio canavesano. Fu in questo momento
che il comune si pose contro il vescovo, e la sua signoria nociva all’autonomia
cittadina: il tentativo venne stroncato praticamente sul nascere dalla chiesa
episcopale, la quale si poté giovare del sostegno e dell’intervento papale (1234-
1235).
La terza fase, tra il 1238 e il 1250, vide convivere il comune appena uscito
sconfitto dai suoi tentativi d’espansione e il fronte aristocratico-signorile, da poco
spaccatosi al suo interno, con la rappresentanza imperiale in Ivrea e, anche se in
misura minore, in Canavese.
Conclusasi la seconda esperienza vicariale, il comune cominciò a
collaborare con la chiesa episcopale al rafforzamento politico nel territorio, in
un’alterna dialettica con l’aristocrazia militare filo-vescovile, e in
contrapposizione con quella parte filo-ghibellina alleata del marchese del
Monferrato, il quale, grazie ai suoi alleati dentro e fuori Ivrea, riuscì a ottenere il
riconoscimento della signoria sulla città (1250-1267).
Nel breve periodo tra il 1268 e il 1277 le fazioni politiche presenti in città
presero in mano la situazione. Appena impostosi come il partito più forte, il
gruppo guelfo, per fronteggiare la pressione militare monferrina, decise di
avvicinarsi a Vercelli promuovendo, insieme alla chiesa episcopale, la dedizione
della città a Carlo d’Angiò (1271). La sua parabola termina, però, rapidamente:
ciò consente al marchese del Monferrato, attraverso il partito ghibellino, di
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operare diplomaticamente con il comune e il vescovo per riottenere la signoria
cittadina.
Una sesta fase coincide con la signoria monferrina sulla città (1277-1305).
Questo periodo di pace trascorre senza particolari sconvolgimenti politici o
giurisdizionali: tuttavia, da modo ai fronti politici interni alla città, riflesso della
situazione aristocratica del Canavese, di definirsi e cristallizzarsi, anche attraverso
episodiche tensioni politico-sociali fra gruppi cittadini.
L’ultima fase individuabile (1305-1319) si apre con la scomparsa della
dinastia degli Aleramici, alla quale succede alla guida del marchesato del
Monferrato Teodoro Paleologo. Ivrea approfittò della situazione d’incertezza
creatasi per liberarsi dalla presenza monferrina e per cercare alleati che le
permettessero di conservare l’autonomia; ma fece presto i conti con la propria
debolezza politica. In seguito alla protezione garantitale dalla discesa in Italia
dell’imperatore Enrico, i Savoia, i quali nutrivano da tempo interessi per la
regione canavesana, ottennero la signoria sulla città di Ivrea, insieme al ramo
Acaia (1313). Lontano dall’assestarsi, la signoria savoiarda convisse con le
tensioni interne alla città e quelle che dilaniavano da decenni il territorio
canavesano: quest’ultima fase, si concluse con l’abbandono del soglio episcopale
da parte di Alberto Gonzaga, il quale dovendo affrontare la drammatica situazione
finanziaria della diocesi riconobbe ai Savoia alcuni fondamentali diritti pubblici,
vendendo loro inoltre una parte consistente del patrimonio ecclesiastico; egli
lasciava ai Savoia-Acaia il compito di rispondere all’impellente bisogno di
mettere ordine alle tensioni politiche interne alla città di Ivrea e al costante stato di
guerra in cui sarebbe precipitato di lì a poco il Canavese.
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