Diagnosi delle Intolleranze Alimentari Molti Pazienti giungono all’osservazione di noi Gastroenterologi, lamentando disturbi dell’apparato digerente, ma, spesso, con coinvolgimento di altri organi e apparati, con la netta sensazione che tali disturbi siano indotti da alcuni alimenti e nutrienti. È noto quanta importanza venga data all’alimentazione nella nostra cultura ed è anche notorio che molte patologie sono indotte da cattive abitudini o eccessi alimentari. Il termine “intolleranza alimentare” si riferisce all’incapacità che alcuni Pazienti hanno di “tollerare” un dato alimento o alcuni nutrienti, in t ermini biochimici o metabolici. Questi meccanismi non hanno nulla a che vedere con le funzioni del sistema immunitario, come avviene nelle allergie alimentari. Queste ultime sono più rare delle intolleranze e più facilmente diagnosticabili, ricorrendo a test ematici, come il Prist e il Rast (ossia il dosaggio totale o specifico delle Immunoglobuline di tipo E), o a test cutanei, come i Prick Test. “Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo.” (Ippocrate di Coo) Ma ho ampiamente evidenziato che le intolleranze alimentari si differenziano dalle allergie proprio perché non viene attivato il sistema immunitario, o viene attivato solo in minima parte. Tre sono le possibili cause delle intolleranze alimentari: 1. la mancanza parziale o totale degli enzimi che servono a scindere e digerire quello specifico nutriente: per esempio, la carenza relativa o assoluta di lattasi, nel caso dell’intolleranza al lattosio;
33
Embed
Diagnosi delle Intolleranze Alimentari€¦ · Diagnosi delle Intolleranze Alimentari Molti Pazienti giungono all’osservazione di noi Gastroenterologi, lamentando disturbi dell’apparato
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
Diagnosi delle Intolleranze Alimentari
Molti Pazienti giungono all’osservazione di noi Gastroenterologi, lamentando
disturbi dell’apparato digerente, ma, spesso, con coinvolgimento di altri organi e
apparati, con la netta sensazione che tali disturbi siano indotti da alcuni alimenti e
nutrienti.
È noto quanta importanza venga data all’alimentazione nella nostra cultura ed è
anche notorio che molte patologie sono indotte da cattive abitudini o eccessi
alimentari.
Il termine “intolleranza alimentare” si riferisce all’incapacità che alcuni Pazienti
hanno di “tollerare” un dato alimento o alcuni nutrienti, in termini biochimici o
metabolici. Questi meccanismi non hanno nulla a che vedere con le funzioni del
sistema immunitario, come avviene nelle allergie alimentari.
Queste ultime sono più rare delle intolleranze e più facilmente diagnosticabili,
ricorrendo a test ematici, come il Prist e il Rast (ossia il dosaggio totale o specifico
delle Immunoglobuline di tipo E), o a test cutanei, come i Prick Test.
“Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo.” (Ippocrate di Coo)
Ma ho ampiamente evidenziato che le intolleranze alimentari si differenziano dalle
allergie proprio perché non viene attivato il sistema immunitario, o viene attivato solo
in minima parte.
Tre sono le possibili cause delle intolleranze alimentari:
1. la mancanza parziale o totale degli enzimi che servono a scindere e digerire
quello specifico nutriente: per esempio, la carenza relativa o assoluta di lattasi,
nel caso dell’intolleranza al lattosio;
2. un’esagerata reattività biochimica a molecole presenti in determinati alimenti;
è questo il caso, per esempio, della molecola tiramina, presente nei formaggi
stagionati, che può dare cefalea, in individui intolleranti;
3. una terza categoria di reazioni agli alimenti, non-tossiche e non mediate dal
sistema immunitario, si definisce idiopatica, in quanto non è possibile
individuare i meccanismi che la provocano.
La scelta dell’alimentazione può essere un problema
1) L’intolleranza da carenze di enzimi, la prima delle tre cause citate, è la più
frequente reazione non-tossica e non-immuno-mediata. È insomma la tipica
intolleranza alimentare e il tipo più diffuso è quella al lattosio, uno zucchero presente
nel latte. Questa forma d’intolleranza è dovuta alla carenza o alla riduzione
dell’enzima, chiamato lattasi, che serve a digerire il lattosio. La mancata scissione e
assorbimento di questo zucchero determina i sintomi di gonfiore, flatulenza, dolore
addominale e diarrea osmotica. In questo caso, la funzione immunitaria non è
chiamata in causa e l’entità dei disturbi è direttamente proporzionale alla quantità di
lattosio ingerita e inversamente proporzionale alla quantità di lattasi, di cui
l’organismo dispone.
Queste intolleranze alimentari, legate a carenze enzimatiche, hanno come effetto il
malassorbimento del nutriente verso il quale si è intolleranti. Ecco perché esse sono
più facilmente diagnosticabili con test malassorbitivi a nostra disposizione, che
individuino l’enzima carente deputato alla digestione dello specifico alimento.
L’esempio tipico di un test assorbitivo è il breath test al lattosio.
Questa forma d’intolleranza enzimatica può essere ereditaria o acquisita, per motivi
diversi. È molto diffusa in Asia e in alcune regioni dell’America. In Europa, è più
frequente nelle aree mediterranee, tra cui l’Italia, e meno nel Nord.
Il lattosio è lo zucchero contenuto nel latte. Per essere assorbito e utilizzato
dall’organismo, il lattosio deve essere scomposto nelle sue componenti, il glucosio e
il galattosio. Perciò è necessario un enzima chiamato lattasi. Se non vengono prodotte
sufficienti quantità di lattasi, una parte del lattosio ingerito non viene assorbito.
La lattasi scinde il lattosio in glucosio e galattosio
Questa intolleranza può essere mitigata dall’utilizzo dell’enzima artificialmente
prodotto e ridotta attraverso la graduale reintroduzione nella dieta dei cibi contenti
lattosio. Questo è vero soprattutto nelle forme acquisite.
La sintomatologia, come in tutte le classiche intolleranze, è dose-dipendente:
maggiore è la quantità di lattosio ingerita, più evidenti sono i disturbi e i sintomi.
Questi sono flatulenza, diarrea, gonfiore e dolori addominali.
In caso di diagnosi d’intolleranza al lattosio, non è sempre necessario eliminare
completamente i prodotti che lo contengono, ma è possibile individuare la quantità
massima di lattosio, che può essere tollerata, senza scatenare sintomi. Se
l’intolleranza è grave, è importante fare attenzione e leggere accuratamente le
etichette degli alimenti: il lattosio, infatti, è utilizzato in molti cibi pronti.
Il breath test al lattosio è un test scientificamente validato per fare diagnosi. Esso si
basa sulla misurazione di idrogeno, dosabile nell’aria espirata, proveniente dallo
zucchero non assorbito, che arriva nel colon. Qui, la flora microbica locale lo
fermenta con produzione di gas (idrogeno, metano, ed anidride carbonica), dando
origine ai tipici sintomi di meteorismo, flatulenza, nausea e dolori crampiformi. Parte
di questi gas viene riassorbita dalla mucosa del colon, quindi trasportata dal sangue
venoso sino agli alveoli polmonari ed eliminata con la respirazione. Rilevando la
quantità di idrogeno nell'aria espirata dal paziente è possibile diagnosticare
l'intolleranza al lattosio.
L’H2– Breath Test è definito il gold standard per la diagnosi di intolleranza al
lattosio. E’un test non invasivo ed economico, necessario per indagare la capacità di
digerire il lattosio. Diversi studi dimostrano che questo tipo di test ha una buona
sensibilità (circa 77,5%) ed un’eccellente specificità (circa 97,6%). Con tale test si
valuta la presenza di idrogeno (H2) nel respiro del Paziente, effettuando una serie di
misurazioni, secondo un metodo ampiamente testato ed approvato dalla comunità
scientifica.
Schema del percorso dell’idrogeno (H2)
La metodica consiste nel far soffiare il Paziente in una sacca apposita, dopo avergli
somministrato una bevanda con lattosio. Uno strumento, chiamato gas-cromatografo,
rileva, nell’espirato del Paziente, la quantità di idrogeno.
Il test inizia con la registrazione del valore al tempo zero, ovvero registrando la
quantità di idrogeno espirata, prima dell’assunzione di lattosio (chiamato valore
basale).
Successivamente, il paziente deve assumere uno specifico quantitativo di lattosio (25
gr per gli adulti; nei bambini 1 gr per kg fino a 25 kg) e soffiare nuovamente per le 4
ore successive ad intervalli regolari di 30 minuti. Lo strumento analizzerà la
composizione del respiro, per verificare se è stato prodotto e in quale misura idrogeno
(H2).
Si analizza l’espirato
Un incremento della produzione di questo gas, maggiore di 20 parti per milione
(p.p.m.) rispetto al valore basale, indica che il soggetto è intollerante al lattosio.
I valori ottenuti, generalmente, sono riportati in un grafico (e/o in una tabella). In
verticale, sulle ordinate, è riportata la quantità di idrogeno espressa in parti per
milione (p.p.m.) e in orizzontale, sulle ascisse, il tempo espresso in minuti.
Un’altra possibilità per documentare l’intolleranza al lattosio è l’esecuzione del test
genetico, che indica se il soggetto è predisposto o meno a sviluppare una riduzione
dell’attività dell’enzima lattasi.
Predisposti significa che c’è la possibilità di sviluppare l’ipolattasia nel corso della
vita.
Recentemente è stata individuato una variazione del DNA, un polimorfismo C/T,
posizionato a 13910 basi a monte del gene codificante per la lattasi, associato alla
forma di intolleranza al lattosio ad insorgenza nell’età adulta, detta anche lattasi non
persistenza (LNP) o ipolattasia.
La variante C in omozigosi (Genotipo C/C), associata ad una minor trascrizione del
gene, è correlata con il fenotipo d’intolleranza al lattosio. La sua frequenza nella
popolazione è di circa il 60%.
Cosa ci dice il test genetico?
Il test genetico per l’intolleranza al lattosio permette di discriminare chi ha entrambe
le copie sane del gene (T/T), chi ne ha solo una sana (T/C) e chi le ha entrambe
mutate (C/C).
Perché fare un test genetico?
Il test genetico è indicato nei soggetti che presentano sintomatologia e/o familiarità (o
h2-breath test positivo).
Risulta essere una metodica non invasiva e veloce, presentando risultati certi circa il
rischio di sviluppo dell’intolleranza al lattosio.
Per l’estrema semplicità del prelievo (generalmente salivare, ma esiste anche
ematico) la sua esecuzione è indicata soprattutto nei bambini in cui il Breath test può
essere difficoltoso. Inoltre, ha un’estrema affidabilità e ripetibilità (100%).
Questo tipo di analisi permette di distinguere tra l’intolleranza al lattosio di origine
genetica, tipica dell’età adulta, e la forma indotta secondariamente (deficit
secondario) in conseguenza di altre patologie per deficit di lattasi, dovuto a danno
della mucosa intestinale in seguito a gastroenteriti, alcolismo cronico, celiachia,
disordini nutrizionali, terapie farmacologiche o interventi chirurgici, evitando falsi
positivi/negativi e il sottoporsi da parte del Paziente ad analisi particolarmente
invasive, come la biopsia intestinale o impegnative come il breath test.
Breath test e test genetico sono alternativi?
No, perché forniscono informazioni diverse. E’più corretto definirli complementari,
forniscono due informazioni che completano la diagnosi di intolleranza al lattosio.
E’consigliabile effettuare prima il Breath test se i sintomi, che riconduciamo a quelli
tipici di intolleranza al lattosio, sono ricollegabili a cause conosciute, come una
terapia antibiotica, particolari operazioni chirurgiche al tratto gastro-intestinale, forti
gastroenterite, celiachia, infezioni dell’apparato digerente e intestinale, ecc. in modo
da valutare se si tratta d’intolleranza al lattosio secondaria e perciò transitoria.
Se i sintomi, che riconduciamo a quelli tipici di intolleranza al lattosio, sono presenti
da anni e non ci sono state cause scatenanti, come quelle riportate sopra, è possibile
che si tratti di forma primaria e quindi è utile eseguire il test genetico, per capire se si
tratta di una condizione definitiva.
Prelievo salivare per il test genetico per l’intolleranza al lattosio
Altri tipi di breath test, con la somministrazione di altri zuccheri (tra cui lattulosio,
glucosio, sorbitolo, ecc.), servono a valutare la presenza di altre condizioni, ad
esempio la sindrome da sovra-crescita batterica nell’intestino tenue (SIBO), a
valutare il tempo di transito intestinale oppure a ricercare l’infezione gastrica da
Helicobacter pylori.
Nei casi d’intolleranze alimentari da deficit enzimatico, come nell’intolleranza al
lattosio, laddove la dinamica della scissione di questo zucchero è nota, è possibile
mettere a punto test assorbitivi, che dimostrino l’intolleranza del Paziente a quel
nutriente. I test assorbitivi possono essere breath test o altro tipo di test. Essi possono
indicare un’intolleranza del Paziente a quel nutriente, condizione che può essere
dovuta ad una patologia e può essere transitoria o definitiva.
Per esempio, il dosaggio dei grassi fecali è un test assorbitivo. La positività del
dosaggio dei grassi fecali, quando cioè questi sono presenti in eccesso nelle feci,
indica un’intolleranza ai grassi, dovuta a un deficit biliare o a un deficit degli enzimi
pancreatici. Anche questa è un’intolleranza alimentare non IgE mediata.
Questo esame misura la quantità di grassi nel campione di feci. L’eccesso di grassi
(chiamato steatorrea) può essere la spia di una patologia che colpisce la digestione e
l’assorbimento dei nutrienti (malassorbimento).
L’organismo digerisce il cibo in tre fasi: dapprima vengono scissi le proteine, i grassi
e i carboidrati nello stomaco da acidi ed enzimi e nel piccolo intestino vengono
scomposti ulteriormente da enzimi prodotti dal pancreas e dalla bile prodotta dal
fegato. Poi sono assorbiti, principalmente nell’intestino tenue, e i nutrienti sono
trasportati dal sangue nei vari organi, dove sono usati o immagazzinati.
Se non sono disponibili sufficienti enzimi pancreatici o bile, allora i grassi e altri
nutrienti non vengono digeriti adeguatamente. Se una patologia impedisce
all’intestino di assorbire i nutrienti, essi vengono persi con l’escrezione fecale. In
entrambi i casi (ingestione o assorbimento inadeguati), il Paziente può avere sintomi
associati al malassorbimento e, nei casi gravi, sintomi di malnutrizione e carenza
vitaminica. Se la patologia impedisce la digestione e/o l’assorbimento dei grassi con
la dieta, l’eccesso di grassi è presente nelle feci e la persona può soffrire di diarrea
prolungata con dolori di stomaco, crampi, gonfiore addominale, formazione eccessiva
di gas nell’addome e perdita di peso.
Il grasso nelle feci può essere determinato con un test fecale qualitativo, con il quale
generalmente si determina la presenza o l’assenza di grasso eccessivo. Questo è il test
più semplice per la determinazione del grasso fecale ed è eseguito strisciando su un
vetrino una sospensione con le feci trattate o non trattate, aggiungendo un colorante
per i grassi e osservando al microscopio il numero di globuli di grasso presenti.
Questo test non viene effettuato in tutti i Laboratori, perché oggi la richiesta è bassa
e, per indagare patologie pancreatiche, ci si avvale del dosaggio dell’elastasi fecale.
La misura quantitativa di grassi fecali, più precisa, richiede una raccolta delle feci
prolungata nel tempo, di solito 72 ore, e l’osservazione di una dieta che aiuti a
calcolare l’introduzione di grasso durante tutto il periodo. I risultati sono riportati
come quantità di grasso escreto per 24 ore. Una variazione del test è chiamata
steatocrito, che consente una più rapida, ma meno accurata misura della quantità di
grasso nelle feci.
Altri test assorbitivi sono:
il test alla trioleina con carbonio marcato: l'espulsione nel respiro di 14-CO2, dopo
l'ingestione di trioleina marcata con Carbonio 14-C, permette di rilevare, con lo
spetto-fotometro, come per il breath test al lattosio, la quantità di Carbonio marcato,
indice di mancato assorbimento dei grassi. Il test del respiro con trioleina ha una
buona affidabilità, con una sensibilità del 100% e una specificità del 96%. Nel
rilevare la steatorrea, il test del respiro con trioleina era moderatamente superiore alla
misurazione del carotene sierico e al grasso qualitativo delle feci. Pertanto, il test del
respiro con trioleina sembra essere un test di screening sensibile, specifico, non
invasivo e relativamente semplice per il rilevamento della steatorrea. Anche questo
test viene poco praticato ed è stato in parte abbandonato per scarsa richiesta.
2) Le intolleranze da “esagerata reattività biochimica” ad alcuni nutrienti è già più
difficile da identificare e, a volte, si accavalla con forme leggere di allergie
alimentari. Nel definire la differenza tra intolleranze e allergie, quando ho detto che le
seconde hanno caratteristiche d’immediatezza e di gravità dei sintomi, va precisato
che ciò è vero per le gravi forme allergiche di anafilassi. Ma esistono forme più
leggere e forme atipiche: tra le prime cito l’allergia alimentare al nichel,
particolarmente frequente e non grave, perché la sua presentazione è molto spesso in
forma leggera, anche in considerazione delle modeste quantità che si ritrovano negli
alimenti. Ma questa è un’atipicità, perché in realtà, nelle forme allergiche, anche
piccole quantità di sostanza, in un organismo sensibilizzato, dovrebbe dare un grave
quadro anafilattico. Un’altra atipicità è quella di alcune forme di “allergia ritardata”,
come ad esempio quella al pelo del gatto.
Ecco dunque confermato come la Medicina non sia una Scienza esatta e come non
esistano regole definitive, nonostante gli sforzi degli Scienziati di catalogare
l’oggettività e la ripetibilità dei fenomeni scientifici.
Ma, mentre nei succitati casi atipici del nichel e del pelo del gatto, abbiamo il
coinvolgimento del sistema immunitario, in altre forme d’intolleranza da “esagerata
reattività biochimica” questo coinvolgimento non è presente. È il caso, ad esempio,
dell’intolleranza alla tiramina, contenuta nei formaggi stagionati.
La tiramina è il prodotto derivante dalla decarbossilazione dell'amminoacido tirosina.
Essa stimola la secrezione di catecolamine (dopamina, adrenalina e noradrenalina) ed
ha attività ipertensiva. La tiramina viene prodotta durante il normale metabolismo
della tirosina e si ritrova in svariati alimenti, tra cui vino rosso, formaggi, funghi,
lievito, pesce poco fresco e vari tipi di frutta. Origina dai processi di fermentazione e
decomposizione operati da alcuni batteri.
La liberazione di noradrenalina dalle vescicole neuronali, favorita dall'ingestione di
tiramina, determina vasocostrizione ed aumenta la frequenza cardiaca; ne consegue
un sensibile rialzo pressorio, fino alla crisi adrenergica nei casi più gravi.
L'esposizione regolare alla tiramina di origine alimentare migliora indirettamente la
tollerabilità alla sostanza, riducendo il rilascio di noradrenalina. La scoperta di
recettori, con elevata affinità per la tiramina a livello del rene e di altri tessuti, lascia
presupporre anche un intervento diretto di questa sostanza nel produrre il noto effetto
ipertensivo.
Nell'organismo umano, la tiramina, sia di origine endogena o alimentare, viene
metabolizzata dalle monoamminossidasi, enzimi deputati alla neutralizzazione di
neurotrasmettitori come adrenalina, dopamina, noradrenalina e serotonina.
Alimenti ricchi di tiramina e di altre ammine biogene sono i formaggi stagionati,
come gorgonzola, roquefort, brie, pecorino, groviera, pesce conservato, tipo aringhe,