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DevelopMed n. 21

Mar 03, 2016

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Newsmagazine sulle relazioni economiche dell'area euromediterranea
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Newsletter n. 21 - novembre 2011

Voci dal Sud

• Turchia 1 - Verso un mercato unico dell'Asia centrale – ita/eng dal nostro corrispondente Giuseppe Mancini Il 20 e 21 ottobre si è tenuto ad Almaty – in Kazakistan – il primo summit del Consiglio di cooperazione degli stati turcofoni (Ccst): l'organizzazione internazionale – istituita con l'accordo di Nakhchivan nel 2009 e con la dichiarazione di Istanbul nel 2010 – che raggruppa la Turchia, il Kazakistan, l'Azerbaigian e il Kirghizistan. In tale occasione è stato istituito anche un Consiglio economico di cui fanno parte anche le organizzazioni imprenditoriali, col duplice obiettivo di rafforzare la cooperazione multilaterale dei quattro e di eliminare gli ostacoli al commercio, a cominciare dai visti.

• Turchia 2 - Il Corridoio meridionale – ita/eng dal nostro corrispondente Giuseppe Mancini La Turchia e l'Azerbaigian hanno finalmente dato concreto avvio alla loro partnership strategica ed energetica. Il 25 e 26 ottobre a Izmir, metropoli sull'Egeo, si è riunito il primo Consiglio di cooperazione strategica tra i due paesi: un vero e proprio consiglio dei ministri congiunto, presieduto da Recep Tayyip Erdoğan e da Ilham Aliyev, a cui hanno partecipato – tra gli altri – i titolari degli esteri, dell'economia, dei trasporti, dell'energia.

• Echos de Tunisie: Le printemps de Tunisie, se confirme... La démocratie en marche dal nostro corrispondente Abdellatif Taboubi «Dix Grandes Idées pour la Prospérité et la Justice Sociale. Stratégie de Développement Économique et Social 2012-2016 » ou le Plan Jasmin de Développement Économique et Social’, constituent une panoplie des analyses et recommandations économiques conjoncturelles et des prospectives de développement, et élaborée par le Ministère de la Planification et de la Coopération Internationale.

• Turismo Tunisia - La Tunisie autrement a cura di Agnese Pistarini Sylvie Montanari è presidente dell’associazione La Tunisie autrement, nata nel 2008 con l’intento di promuovere il turismo responsabile e solidale in Tunisia. Riportiamo l’intervista che Paralleli ha fatto alla presidente dell’associazione sullo stato del turismo responsabile in Tunisia e sugli sviluppi futuri del settore nell’era del “dopo Ben Ali”.

• Turismo Siria - Sviluppi recenti nella situazione del turismo in Siria a cura di Fabrizio Fuccello* Pubblichiamo il punto di vista di due operatori del settore circa il presente e il futuro del turismo in Siria, soprattutto alla luce degli eventi legati alla Primavera Araba e all'incertezza politica del paese.

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Brevi dal Mediterraneo

• Giordania: Commissione Ue, pacchetto 20 mln per Pmi e ricerca • Doing Business 2012 • Investimento socialmente responsabile: quale strategia per il Mediterraneo? • L'UpM si avvicina alle camere di commercio mediterranee • Diario dall'Egitto a cura di Elisa Ferrero

Approfondimenti

• "Verso una Regione Mediterranea: ottenere cambiamenti fondamentali"

L'istituto di ricerca francese FEMISE ha pubblicato il suo report annuale per il 2011 sulla partnership Euro-Mediterranea e lo stato dei paesi della sponda Sud. Il report di quest'anno è focalizzato sulla regione mediterranea e la sua fondamentale transizione verso una nuova era.

• “After the Arab Spring” - Prospettive regionali e ruolo dell'Ue dopo le primavere arabe: un ribaltamento di Federico Cavallo «Quale stagione dove è la non-stagione? Nella nostra regione la “primavera” come concetto stagionale non c'è, siamo sempre nell'estate: e, dopo l'estate, sarà sempre l'estate». Il 17 novembre scorso si è aperta con questa rilettura dell'Ambasciatore del Regno del Marocco in Italia, Hassan Abouyoub, la conferenza “After the Arab Spring: what season awaits the Mediterranean?”, evento organizzato a Milano dall'ISPI - Istituto di Studi di Politica Internazionale in collaborazione con la rete EuroMeSco e co-promosso dalla Rappresentanza della Commissione Ue a Milano.

Palestra delle Idee

• Perché Gheddafi doveva andarsene

di Hugh Roberts*, traduzione a cura di Claudio Tocchi Versione ridotta dell'articolo pubblicato su London Review of books dallo studioso e giornalista esperto di Nord Africa, gentilmente redatta dall'autore per DevelopMed.

Segnalazioni

• In uscita Osservatorio Mediterraneo n. 2 • 2/12/2011 – Economic Relations between Italy and Mediterranean Area • 3-6/12/2011 – Il Global Entrepreneurship Summit • 5/12/2011 – La nuova Libia: rapporti economici e commerciali dopo la caduta di

Gheddafi • 15/12/2011 – FEMISE Annual Conference

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Con il sostegno di Promos, Agenzia speciale della Camera di Commercio di Milano e:

Paralleli - Istituto Euromediterraneo del Nord-Ovest - www.paralleli.org

Responsabile: Marcella Rodino Redazione: Claudio Tocchi

Hanno Collaborato: Federico Cavallo, Fabrizio Fuccello, Giuseppe Mancini, Agnese Pistarini, Hugh Roberts, Abdellatif Taboubi

Tel. 011 5229810 [email protected]

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Voci dal Sud

29-11-2011 Turchia 1 - Verso un mercato unico dell'Asia centrale – ita/eng dal nostro corrispondente Giuseppe Mancini

Il 20 e 21 ottobre si è tenuto ad Almaty – in Kazakistan – il primo summit del Consiglio di cooperazione degli stati turcofoni (Ccst): l'organizzazione internazionale – istituita con l'accordo di Nakhchivan nel 2009 e con la dichiarazione di Istanbul nel 2010 – che raggruppa la Turchia, il Kazakistan, l'Azerbaigian e il Kirghizistan. In tale occasione è stato istituito anche un Consiglio economico di cui fanno parte anche le organizzazioni imprenditoriali, col duplice obiettivo di rafforzare la cooperazione multilaterale dei quattro e di eliminare gli ostacoli al commercio, a cominciare dai visti.

L'idea non è nuova. Già all'indomani del disfacimento dell'impero sovietico, infatti, il primo ministro e poi presidente Turgut Özal aveva prospettato forme di cooperazione economica, culturale, scolastica e linguistica con gli stati turcofoni di nuova indipendenza dell'Asia centrale e l'istituzionalizzazione – attraverso vertici periodici e un mercato comune – di una comunità turca estesa “dalla Grande muraglia all'Adriatico”. Ma la Turchia era politicamente instabile ed economicamente fragile, lo stesso Özal morì nel 1993: i risultati raggiunti sono stati episodici e trascurabili.

I tempi sono però cambiati, Ankara ha ininiziato un processo di vorticoso sviluppo economico e gode di invidiabile solidità politica; in più, in carica dal 2009, il ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu ha ripreso e reso più coerente l'agenda degli anni '90: con l'obiettivo di trasformare la Turchia nel pivot geopolitico del continente afro-eurasiatico, proiettando influenza politica e culturale e radicando interessi economici in tutte le sue periferie – Asia centrale compresa.

Concreto tassello di questa strategia, il 20 e 21 ottobre si è tenuto ad Almaty – in Kazakistan – il primo summit del Consiglio di cooperazione degli stati turcofoni (Ccst): l'organizzazione internazionale – istituita con l'accordo di Nakhchivan nel 2009 e con la dichiarazione di Istanbul nel 2010 – che raggruppa la Turchia, il Kazakistan, l'Azerbaigian e il Kirghizistan; in attesa dell'adesione, sollecitata a più riprese, di Turkmenistan e Uzbekistan (il quinto “stan”, il Tagikistan, è invece persianofono): e il presidente turco Abdullah Gül, lo scorso anno, non a caso parlò di “una sola nazione divisa in sei Stati fratelli”. Un tragico imprevisto ha però sottratto al vertice di Almaty rilevanza politica e ribalta mediatica: l'attacco del Pkk a Çukurca proprio alla vigilia, che ha fatto 24 vittime tra i soldati turchi e ha spinto il primo ministro Erdoğan a rimanere in patria; è stato sostituito dal vice-premier Bekir Bozdağ, che ha partecipato insieme al padrone di casa Nursultan Nazarbayev, al presidente kirghizo Roza Otunbayeva, al presidente azero Ilham Aliyev.

Il Ccst dispone di una struttura istituzionale ramificata e ben congegnata, così come sancito dalla dichiarazione di Istanbul: basata su di un segretariato generale in riva al Bosforo guidato dall'ambasciatore turco Halil Akıncı e su vertici regolari ai livelli di capi di Stato, di ministri degli Esteri, di alti funzionari; estesa alle pre-esistenti Türkpa, l'assemblea parlamentare che si è riunita per la prima volta nel 2009, e Türksoy, nata già nel 1993 per occuparsi della valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico comune; da espandere – secondo i piani – con la costruzione di un grande museo di storia dei popoli turchi ad Astana e con la creazione di un'unione interuniversitaria e di un fondo per la ricerca scientifica.

Ad Almaty – l'unico vero successo dell'incontro, in cui ha altrimenti prevalso la retorica – è stato istituito anche un Consiglio economico di cui fanno parte anche le organizzazioni imprenditoriali, col duplice obiettivo di rafforzare la cooperazione multilaterale dei quattro e di

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eliminare gli ostacoli al commercio, a cominciare dai visti; mentre rimane sulla carta l'opzione di affiancargli una Banca per lo sviluppo e una Compagnia d'assicurazioni per finanziare le attività private nei settori non legati all'energia. Un mercato unico dell'Asia centrale da 200 milioni di persone in divenire, quindi: anche se gli interessi legati alla commercializzazione in Europa degli idrocarburi del mar Caspio rimangono al momento nettamente prevalenti, senza dimenticare che il Kazakistan fa parte dell'unione doganale con Russia e Bielorussia – primo passo verso l'Unione economica eurasiatica – e che il Kirghizistan dovrebbe aderire a breve. Altre priorità, forse.

L'appuntamento per il secondo summit – nel 2012 – è a Bishkek, la capitale del Kirghizistan: e il tema generale sarà l'istruzione, la cooperazione culturale e scientifica. Un modo magari per coinvolgere la società civile, fino ad ora – uomini d'affari a parte – rimasta ai margini; ma i partner della Turchia sono stati autoritari e attività a sostegno della democrazia non sono ovviamente previste: anzi, la stessa dichiarazione conclusiva di Almaty enfatizza la necessità di rispettare gli affari interni degli stati membri. Gli investimenti prima di tutto.

The idea is not new. Already shortly after of the Fall of the Soviet Empire, Turgut Özal, at the time Turkish PM and later President of the Republic, proposed new forms of economic, cultural, educational and linguistic cooperation with the Turkic-speaking, newly-independent states in Central Asia, and the institutionalization – through some periodic summits and the creation of a common market – of a wide Turkic community “from the Great Wall to the Adriatic Sea”. But Turkey was then politically unstable and economically fragile, and Özal himself died in 1993: the results obtained were minor and brief. Now the times have changed, Ankara started a process of tremendous economic development and enjoys an enviable political solidity; furthermore, the Foreign Minister Ahmet Davutoğlu, in charge since 2009, took over and made more coherent the 90s agenda, with the aim of transforming Turkey in the geopolitical quarterback between Africa, Asia and Europe, of broadening its political and cultural influence and of rooting its economic interests in all its peripheries – Central Asia included.

A concrete piece of this strategy was the first summit of the Cooperation Council of Turkic-

Speaking States (CCTS), held on Oct. the 20th and 21st in Almaty, Kazakhstan: this international organisation, instituted by the Nakhchiyan Agreement (2009) and the Istanbul Declaration (2010), groups nowadays Turkey, Kazakhstan, Azerbaijan and Kyrgyzstan, while Turkmenistan's and Uzbekistan's joining was already urged many times (the fifth “-stan country”, Tajikistan, is Persian-speaking). The Turkish President Abdullah Gül spoke, last year, of “one single nation divided in 6 brother-countries”.

A tragic contingency took away political relevance and media coverage from the Almaty-summit: the assault by PKK in Çukurca right at the summit's eve, where 24 Turkish soldiers died and which forced Turkish PM Erdoğan to remain in Turkey. He was substituted by the Deputy-PM Bekir Bozdağ, who took part at the summit with host Nursultan Nazarbayev, Kirghiz President Roza Otunbayeva, and Azeri President Ilham Aliyev.

The CCTS has a complex and well-designed institutional structure, outlined in the Istanbul Declaration: it is constituted by a General Secretariat based in Istanbul and led by Turkish ambassador Halil Akıncı and by regular summits among Chiefs of State and Government, Foreign Ministers and high officers; it was enlarged to comprehend the pre-existing Türkpa, the parliamentary assembly operating since 2009, and the Türksoy, created in 1993 in order to enhance the common cultural and linguistic heritage. Still to be included in the institutional framework are, according to the plans, a huge museum on the history of the Turkic peoples in Astana and the creation of an inter-university union and a fund for scientific research.

The only real result of the Alamty-meeting, otherwise filled up with mere rhetoric, was the creation of an Economic Council open for the membership of entrepreneurial organisations, with the double objective of strengthening the multilateral cooperation among the four countries and to eliminate obstacles to the trade, like visa – while the option of adding a Development Bank and an Insurance Company to the structure in order to finance private

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activities in not-energetic sectors remained on a theoretical level. The institution could become a unified market in Central Asia grouping 200 million people – thus, the interests linked to the marketing in Europe of hydrocarbons coming from the Caspian Sea remain strongly predominant. It is also important to take into account that Kazakhstan is already member of a customs union with Russia and Byelorussia – first step towards a Euro-Asian economic Union – and that Kyrgyzstan should join it soon.

The second summit will take place in 2012 in Bishkek, Kirghiz Capital, and the main topic will be education, cultural and scientific cooperation. A way, maybe, to involve the civil society, left so far (a part for businessmen) on the fringes. Turkey's partners are authoritarian states and pro-democracy activities are not foreseen – on the contrary, the final declaration itself in Almaty emphasized the necessity to respect internal affair of member states.

Business first and foremost.

29-11-2011 Turchia 2 - Il Corridoio meridionale - ita/eng dal nostro corrispondente Giuseppe Mancini

La Turchia e l'Azerbaigian hanno finalmente dato concreto avvio alla loro partnership strategica ed energetica. Il 25 e 26 ottobre a Izmir, metropoli sull'Egeo, si è riunito il primo Consiglio di cooperazione strategica tra i due paesi: un vero e proprio consiglio dei ministri congiunto, presieduto da Recep Tayyip Erdoğan e da Ilham Aliyev, a cui hanno partecipato – tra gli altri – i titolari degli esteri, dell'economia, dei trasporti, dell'energia.

Un evento atteso da più di un anno, anticipato dall'accordo di partnership strategica e reciproca assistenza siglato durante una visita a Baku – lo scorso agosto – del presidente turco Abdullah Gül e dall'atto istitutivo del Consiglio di cooperazione strategica – lo scorso settembre, a margine del Summit degli stati turcofoni a Istanbul – perfezionato con le firme di Erdoğan e Aliyev.

Il vertice di Izmir è stato altamente proficuo. Sono stati prodotti 15 documenti, tra cui quello di fondamentale importanza per il transito – attraverso la Turchia e verso l'Europa – del gas proveniente dal giacimento gigante Shah Deniz in Azerbaigian, la cui seconda fase di sviluppo (Shah Deniz-2) andrà a regime secondo i programmi a partire dal 2017: l'atto ufficiale di nascita del Corridoio meridionale, per il trasporto verso i mercati occidentali delle ricchezze fossili del Caspio; il premier turco e il presidente azero hanno poi partecipato all'inaugurazione di una scuola intitolata ad Haydar Aliyev, padre di Ilham e presidente fino alla sua morte nel 2003, e alla cerimonia della posa della prima pietra di una raffineria – la fine dei lavori, dal costo complessivo di 5 miliardi di dollari, è prevista per il 2015 – che verrà costruita e poi gestita dalla joint-venture tra Socar (75%) e Turcas (25%) creata sin dal 2006: una raffineria dalla capacità complessiva di 10 milioni di tonnellate all'anno, che servirà ad allentare la dipendenza energetica della Turchia e a contrastare il conseguente squilibrio strutturale nella bilancia dei pagamenti (le importazioni di prodotti petrochimici incidono per più del 10%). Nel corso del suo intervento, il primo ministro Erdoğan ha anche annunciato l'apertura, a breve, della linea ferroviaria Baku-Tbilisi-Kars: la via della seta ferrata che metterà in più veloce comunicazione l'Europa con l'Asia centrale.

In effetti, la penisola anatolica è già solcata da una duplice pipeline di provenienza azera: l'oleodotto Baku–Tbilisi–Ceyhan, che sfocia sulla costa mediterranea turca ai confini con la Siria; il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum, che s'innesta nella rete di distribuzione turca (il percorso subisce una pesante deviazione – attraverso la Georgia – per evitare il passaggio in Armenia, in conflitto con l'Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh). Grazie all'accordo di Izmir, per il transito e la rivendita a paesi terzi, sarà possibile il passaggio successivo: costruire altre pipelines, con cui poter convogliare in futuro anche il gas naturale del Turkmenistan e il petrolio del Kazakhstan (sarà però necessario un collegamento al sistema azero-turco, con

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condotte sottomarine sul letto del Caspio); per l'Europa e l'Occidente, è il sogno dell'affrancamento energetico dalla Russia e dall'Iran.

I progetti in lizza sono tre. Innanzitutto il Nabucco, quello caldeggiato dall'Unione europea e inserito nel programma dei Trans-European Networks, il più ambizioso e costoso: circa 4000 chilometri dal confine turco-georgiano all'Austria, passando per la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria e con possibilità di ulteriore commercializzazione – data la portata prevista di 31 miliardi di metri cubi all'anno, gas azero ma anche turkmeno – ad altri paesi dell'Europa centrale; l'Interconnettore Turchia-Grecia-Italia (Itgi), di lunghezza e portata ridotte, con un ultimo tratto sottomarino – il gasdotto Poseidon – tra la Grecia e Otranto; il gasdotto trans-adriatico (Trans-Adriatic Pipeline, Tap), il più corto ma con una portata potenzialmente doppia rispetto all'Itgi, 20 miliardi di metri cubi all'anno contro 11: 500 chilometri da Komotini nella Tracia greca a Brindisi, attraverso l'Albania e il mar Adriatico. Nel corso del Black Sea Energy and Economic Forum di qualche giorno fa a Istanbul, il ministro azero dell'energia e dell'industria, Natiq Aliyev, ha annunciato che entro tre mesi verrà presa una decisione su quale progetto tra i tre verrà rifornito e quindi costruito.

Ma ci sono due incomodi dell'ultima ora: la South-East Europe Pipeline (Seep) proposta dalla British Petroleum, sempre dalla Turchia all'Austria, ma di portata limitata a 10 miliardi di metri cubi all'anno (niente gas turkmeno, quindi) e soprattutto costruita – con un costo notevolmente inferiore agli altri – sfruttando le linee già esistenti che verrebbero integrate nei tratti mancanti, col beneplacito degli Usa; il gasdotto trans-anatolico (da non confondere con l'oleodotto dallo stesso nome, da Samsun sul mar Nero a Ceyhan), dal confine turco-georgiano verso occidente, fino al confine turco-greco e turco-bulgaro, con una capacità di 16 milioni di metri cubi all'anno e gestito in proprio da Turchia e Azerbaigian.

Chi prevarrà?

Turkey and Azerbaijan finally moved the first, concrete steps of their strategic and energetic

partnership. On Oct. the 25th and 26th in Izmir, Turkish metropolis on the Aegean Sea, took place the first meeting of Council for Strategic Cooperation between the two countries – a real ministerial council, chaired by both PMs Recep Tayyip Erdoğan and Ilham Aliyev and joined by, among the others, the Foreign, Economy, Transport and Energy Ministers.

A longed-for event anticipated last August by a strategic partnership and mutual assistance agreement signed during the Turkish President Abdullah Gül's visit in Baku and by Erdoğan's and Aliyev's signatures of the constitutive act of the Council for Strategic Cooperation (last September, on the margins of the Turkic-speaking countries Summit in Istanbul).

The Izmir-Summit was equally profitable. 15 documents have been drawn up, among the others a very important agreement about the transit – through Turkey and towards Europe – of gas coming from the giant gas cap of Shah Deniz in Azerbaijan, whose second development phase (Shah Deniz 2) will be fully implemented, according to the original plan, in 2017, and which represents the official founding act of a Southern route for the transportation of the Caspian fossil wealth to the Western markets. The Turkish PM and the Azerbaijani President took then part at the opening ceremony of a school named after Haydar Aliyev, Ilham's father and President until his death in 2003, and at the laying of the foundation stone of a refinery (the end of the work foreseen for 2015, estimated cost 5 billion $,) which will be constructed and run by a Socar (75%) and Turcas (25%) joint venture, created in 2006. A refinery with a overall capacity of 10 million tons a year, useful to reduce the Turkish energetic dependency and to contrast the consequent imbalance in the balance of payments (where import of petrochemical products weights for more than 10%). In occasion of his intervention, PM Erdoğan also announced the soon-to-come opening of the railroad line Baku-Tbilisi-Kars – a rail-silk-road which will allow faster communications between Europe and Central Asia.

Actually, the Anatolian peninsula is already crossed by two pipelines coming from Azerbaijan: the Baku–Tbilisi–Ceyhan oil pipeline flowing into the Mediterranean Sea at the Turkish-Syrian border, and the gas pipeline Baku-Tbilisi-Erzurum connecting the Turkish pipeline (the route

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undergoes a big detour through Georgia in order to avoid crossing Armenia, in conflict with Azerbaijan about the Nagorno-Karabakh region). After the Izmir-Agreement about the transit and sale to third countries of energetic supply, the next step will be the construction of other channels piping both natural gas from Turkmenistan and oil from Kazakhstan (although the project requires the connection with the Azerbaijani-Turkish system and an underwater pipe crossing the Caspian Sea): for Europe and the West, the dream of an energetic freedom from Russia and Iran.

There are three possible alternatives.

The most expensive and ambitious of them is the EU-sponsored Nabucco Pipeline provided in the Trans-European Networks Program, consisting of an almost 4.000 kilometers long pipe connecting the Turkish-Georgian border to Austria and crossing Bulgaria, Romania and Hungary; this project also offers the possibility of selling gas and oil to other countries in Central Europe, since its estimated rate of flow is 31 billions of cubic meters a year. Its sources consist of Azerbaijani and Turkmen gas. Secondly, the shorter (and with a smaller flow) Interconnector Turkey-Greece-Italy (ITGI), provided with a last underwater stretch (the Poseidon gas pipeline) between Greece and the Italian city of Otranto. Finally, the Trans-Adriatic Pipeline (TAP), shorter than the ITGI but with a double rate of flow (20 billions of cubic meters at year against 11), consisting of a 500 kilometers long pipe from Komotini (in the Greek Thrace) to Brindisi (Italy), crossing Albania and the Adriatic Sea. In occasion of the Black Sea Energy and Economic Forum, some days ago in Istanbul, the Azerbaijani Energy and Industry Minister, Natiq Aliyev, announced that a decision about which project will be constructed is going to be made within 3 months.

But there are also two other last-minute competitors: the South-East Europe Pipeline (SEEP), proposed by the British Petroleaum and supported by the US, should connect Turkey to Austria, have a smaller flow (10 billion cubic meters at year and no Turkmen gas) but will be constructed on existing lines with a considerable save of money; and the Trans-Anatolian gas pipeline (not to be confused with the homonym oil pipeline, form Samsun on the Black Sea to Ceyhan), connecting the Turkish-Georgian border to the Turkish-Greek and Turkish-Bulgarian border, with a 16 billion of cubic meters rate of flow and managed by Turkey and Azerbaijan.

Who's going to win?

29-11-2011 Echos de Tunisie: Le printemps de Tunisie, se confirme... La démocratie en marche dal nostro corrispondente Abdellatif Taboubi «Dix Grandes Idées pour la Prospérité et la Justice Sociale. Stratégie de Développement Économique et Social 2012-2016 » ou le Plan Jasmin de Développement Économique et Social’, constituent une panoplie des analyses et recommandations économiques conjoncturelles et des prospectives de développement, et élaborée par le Ministère de la Planification et de la Coopération Internationale.

Un groupe d'artistes africains et tunisiens, a animé un grand concert public de musique et de divertissement à Tunis, le 11 Novembre 2011, autour du thème " L’Afrique célèbre la démocratie". Le grand public jeune a fait preuve d'une intensité et d'une présence impressionnantes lors de cet concert, nous rappelle que la jeunesse tunisienne qui s'est mobilisé massivement, réclamant liberté et dignité, constitue aujourd'hui, la pierre angulaire du projet de la reconstruction de la Tunisie, et ne manque pas de s’ériger comme exemple réussit en la matière, car forte d'une révolution qui a surpris et les élites tunisiennes et les observateurs de la scène. Ces jeunes chantant la révolution évoquent les propos répandus ces jours, avec force «La liberté appartient au peuple» ou encore « Le bonheur c’est d’être libre», Liberté et bonheur vécus par la majorité des tunisiens pendant le processus électoral, ces derniers mois durant.

Les priorités économiques du pays

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A cotés de priorités en matière de réformes constitutionnelles, «Dix Grandes Idées pour la Prospérité et la Justice Sociale. Stratégie de Développement Économique et Social 2012-2016 » ou le Plan Jasmin de Développement Économique et Social’, constituent une panoplie des analyses et recommandations économiques conjoncturelles et des prospectives de développement, et élaborée par le Ministère de la Planification et de la Coopération Internationale. Trois Axes d’engagement innovants sont à l'ordre du jour et notamment ’Axe d’engagement 1: « Construire la confiance par la transparence, la responsabilité sociale et la participation citoyenne » et la Mise en œuvre d’un « nouveau paradigme de gouvernance » fondé sur « les principes des droits individuels et publics, la transparence, la responsabilisation, l’équité et la diversité ».

Mais pour un gouvernement provisoire, qui veille à la gestion des affaires courantes, dans un contexte politique, économique, social, national, particulièrement difficile, le véritable champs du défi, demeure la reprise de l’économie. Dans la lettre introductive du rapport de la Banque centrale de Tunisie (BCT), les facteurs à l’origine de la détérioration des équilibres économiques au cours de cette année, sont le faible rythme de croissance, la hausse des prix mondiaux des produits de base, et le ralentissement des exportations de services et la volatilité des marchés financiers internationaux.

La vulnérabilité du commerce extérieur Tunisien pose la problématique de la soutenabilité à moyen terme de la position extérieure de la Tunisie, le tourisme en tête. Le secteur du tourisme offre des perspectives incertaines, qui rappellent les premiers mois de la révolution. Les TO opérant sur la destination Tunisie, constatent des régressions de réservations dans les hôtels tunisiens, en dépit du "message de confiance" de la diplomatie européenne et le soutien formulé par Hillary Clinton. Il semble, que les messages rassurants de la part d'Ennahdha, n'ont décidément pas encore, suffi pour apaiser l'appréhension des TO, et encore moins celle des touristes européens toujours sceptiques et réservés de position, après la montée islamiste.

Le site Destination Tunisie, spécialisé dans le tourisme tunisien, rapporte qu'Ennahdha a organisé une rencontre avec les professionnels du secteur. L'objectif, est de rassurer les professionnels nationaux qu'internationaux.

"Le secteur du tourisme fait partie des réalisations auxquelles nous ne toucherons pas" a ainsi déclaré le secrétaire général d'Ennahda, expliquant "serait-il logique d'handicaper un secteur stratégique comme le tourisme en interdisant l'alcool ou le port de maillots de bain?". Les soutiens aux programmes de relance économique du pays, est aussi une priorité de la société civile euro -méditerranéenne. La rencontre de la task force UE-Tunisie, la première à se tenir dans un pays du Sud de la méditerranée, avait pour but de mieux coordonner le soutien international apporté à la Tunisie en vue de sa transition politique et économique, et de renforcer les relations économiques du pays avec ses partenaires de la rive nord de la Méditerranée. «Les réserves de la communauté européenne concernant les libertés et les droits de l'homme n'ont plus de raison d'être après la révolution du 14 janvier» pour accorder, le statut de partenaire privilégié à la Tunisie.

Le dernier acte di processus électoral

Lundi 14 Novembre, lors d'une conférence de presse, L’ISIE, L’instance Supérieure Indépendante pour les Élections, a proclamé les résultats définitifs des élections à l’Assemblée Nationale Constituante. Il s'agit de la première élection libre organisée depuis l'indépendance de la Tunisie et assistée par plusieurs observateurs internationaux et notamment La mission d'observation électorale de l'Union Européenne (MOE UE).

L’Assemblée Nationale Constituante, s’attellera à l'élaboration d'une nouvelle Constitution fondée sur une réelle démocratie visant à l’instauration d’un nouveau système politique plus juste et plus solidaire. L’Assemblée est déjà installée et démarrée avec l’élection de son président et de ses deux vice-présidents et la discussion des attributions du Président de la République et du gouvernement, dans le cadre de l’organisation provisoire des pouvoirs publics. En signe fort d’hommage et reconnaissance, la première journée des travaux de

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l’Assemblée Nationale Constituante a été marquée par la présence des familles des martyrs de la révolution..

Le palais historique des Beys de Tunis, (siège du parlement) qui avait accueilli en 1957 la proclamation de la République, l’adoption de la première Constitution (1959) , a vécu, donc le Mardi 23 novembre 2011, l’avènement de la Constituante, descendant direct de la Révolution. Historique Démocratie Tunisienne!

29-11-2011 Turismo Tunisia - La Tunisie autrement a cura di Agnese Pistarini Sylvie Montanari è presidente dell’associazione La Tunisie autrement, nata nel 2008 con l’intento di promuovere il turismo responsabile e solidale in Tunisia. Riportiamo l’intervista che Paralleli ha fatto alla presidente dell’associazione sullo stato del turismo responsabile in Tunisia e sugli sviluppi futuri del settore nell’era del “dopo Ben Ali”.

Quando è nata l’associazione La Tunisie autrement?

L’associazione nasce nel 2008 e a oggi resta un esempio precursore in questo settore. Il turismo responsabile in Tunisia ha iniziato a emergere dopo la disfatta di Ben Ali.

Cosa intende per turismo sostenibile/responsabile?

Il concetto di turismo responsabile a cui ci riferiamo come associazione è quello definito dall’associazione francese Ates (Association pour le Tourisme Equitable et Solidaire): “Raggruppa le forme di turismo ‘alternativo’ che mette al centro del viaggio l’uomo e l’incontro e che opera in una logica di sviluppo dei territori. Il coinvolgimento delle popolazioni locali nelle differenti fasi del progetto turistico, il rispetto della persona, delle culture e della natura e una distribuzione più equa delle risorse generate sono i fondamenti di queste tipologie di turismo”.

Di cosa si occupa la vostra associazione?

Noi proponiamo il turismo responsabile e solidale in Tunisia. Siamo specializzati nei soggiorni presso gli abitanti, soggiorni a tema, ma anche nell’affitto di appartamenti e case mobili, affitto di veicoli, organizzazione di escursioni e soggiorni di gruppo.

Con chi lavorate sul territorio tunisino?

Noi lavoriamo con realtà locali, ma nessuna organizzazione in Tunisia è specializzata in questo settore, a parte qualche agenzia di viaggio che inizia a proporre questo tipo di turismo, ma senza una reale conoscenza.

Il settore del turismo responsabile o sostenibile è riconosciuto a livello governativo?

Il governo tunisino conosce questa tipologia di turismo solamente attraverso le agenzie di viaggio, ma non ne conosce la filosofia di fondo.

Vede nel turismo responsabile un agente di sviluppo locale, soprattutto nel quadro dei cambiamenti che la primavera araba potrebbe portare alla Tunisia?

E’ a mio avviso indispensabile che questo genere di turismo si sviluppi poiché la domanda è sempre più grande. L’economia alberghiera tunisina sta incontrando parecchie difficoltà da ormai qualche anno e quindi non solo dopo l’avvento della primavera araba. Fino a oggi i problemi sono stati accantonati e non affrontati, ma ora la diversificazione del turismo si impone seriamente.

L’associazione come coinvolge le popolazioni locali?

Noi lavoriamo obbligatoriamente in stretto contatto con la popolazione locale, poiché la nostra scelta sta proprio nel lavorare direttamente con gli abitanti, per l’alloggiamento dei turisti, ma anche per quanto riguarda le guide locali, i piccoli acquisti, i trasporti collettivi, ecc. Noi ridistribuiamo direttamente i proventi economici del turismo a tutti gli attori locali.

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Secondo la sua esperienza, esiste una domanda crescente nel settore del turismo responsabile?

La domanda turistica è sempre più significativa, soprattutto dopo la primavera araba, poiché i media hanno iniziato a informare sull’esistenza di un’altra forma di turismo in Tunisia. Quest’anno, dal mese di marzo al mese di ottobre, abbiamo organizzato soggiorni a 45 persone. I nostri viaggiatori non sono “turisti di massa” e siamo in grado di proporre loro viaggi personalizzati cercando di accontentare le loro richieste. Da parte loro, devono accettare la nostra carta di “viaggiatore responsabile” e quando rientrano, gli forniamo un questionario sulla loro esperienza di viaggio.

Quali sono le esigenze specifiche del turismo responsabile/sostenibile oggi in Tunisia?

Attualmente il solo riconoscimento legale è dato dalla creazione di un’agenzia di viaggio…

29-11-2011 Turismo Siria - Sviluppi recenti nella situazione del turismo in Siria a cura di Fabrizio Fuccello*

Pubblichiamo il punto di vista di due operatori del settore circa il presente e il futuro del turismo in Siria, soprattutto alla luce degli eventi legati alla Primavera Araba e all'incertezza politica del paese.

Sam, co-proprietario e manager di un boutique hotel nel centro della città

vecchia di Damasco

Issam, architetto nel settore del patrimonio culturale e professore di

urbanistica Università Damasco

Dopo lo scoppio della “Primavera araba”, le reazioni degli USA, Francia e dell'Occidente hanno spinto la Siria a fare pressioni sul proprio governo, con un conseguente enorme cambio nella situazione del turismo nel paese: avevo alcune prenotazioni (cinque stanze in una vecchia casa damascena restaurata e trasformata in un boutique hotel, proprio al centro della città vecchia a pochi metri dalla “via recta”) per la fine di giugno, e sono state tutte cancellate! Anche se la gente conosce il proprio governo, questa è stata la reazione. Il turismo è stato il settore a soffrire di più, negli ultimi sette mesi, dei recenti avvenimenti e della copertura della stampa internazionale, e sarà l'ultimo a recuperare peso: il risultato di tutto questo è che non ci sono turisti. Molti hotel sono chiusi e hanno licenziato i propri impiegati. Ovviamente stiamo parlando di europei e americani e altri turisti colti internazionali, in grado di apprezzare il patrimonio culturale del paese, che è il motivo principale delle visite. Dall'altra parte la quota di turismo religioso sta crescendo sempre più velocemente: la città (specialmente vicino alla moschea e ai suk) è invasa da turisti\pellegrini iraniani e si possono vedere orde di donne coperte di nero che, dopo la visita alle moschee sacre

Il settore turistico ha sofferto molto a causa della recente situazione siriana e dal modo in cui è stata riportata dalla stampa straniera.

È fortemente necessario ristabilire la credibilità del paese come una importante destinazione turistica nella regione. Il patrimonio culturale della Siria è impressionante: la quantità e qualità dei siti archeologici è degna di nota quanto lo è in Grecia e in Italia, e il settore dà già lavoro e sostegno a molte persone.

Sfortunatamente l'instabilità della regione e i suoi problemi (primo su tutti, l'occupazione israeliana delle alture del Golan) hanno fortemente danneggiato lo sviluppo del turismo (soprattutto quello culturale) – d'altra parte è stato possibile osservare come gli sforzi del governo abbiano prodotto risultati eccellenti, riportando la Siria nel circuito turistico internazionale (il ritorno di delegazioni dal Giappone, ad esempio, è segno di un ritorno della fiducia).

Quello che accade adesso ha riportato la situazione indietro e occorreranno almeno due anni per recuperare fiducia. Personalmente prevedo una crisi, almeno nel settore legato al turismo dall'Europa, almeno

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agli sciiti, si muovono in gruppo attraverso la città per comprare cose che non possono comprare in Iran.

Questo tipo di turismo è molto diverso dall'altro e al momento sembra essere l'unico in grado di sopravvivere alla crisi profonda in cui si trova la situazione politica della Siria. Servirà del tempo prima che si torni alla normalità: il turismo nel 2011 sembrava promettere bene, specialmente dopo gli sforzi fatti dal governo, con un ruolo attivo giocato dalla First Lady Asma al-Assad, che ha continuamente incoraggiato e supportato molti progetti per la preservazione e la promozione del patrimonio culturale ed era molto amata dalla popolazione, specialmente dalle donne. Tutto questo adesso sembra essere perduto. Prima di tutto è necessario recuperare fiducia, specialmente per i gruppi che erano soliti visitare la Siria. Il governo si sta impegnando a mostrare che si occupa principalmente delle grandi città. Credo personalmente che sia necessario investire nel marketing, nella promozione o ri-promozione dell'immagine della Siria e quindi del turismo, che si sta lentamente spostando verso est.

fino al 2013!

L'intera struttura turistica continua a svilupparsi lentamente, poiché gli imprenditori sono spaventati. Il turista europeo è sempre sensibile alla situazione politica dell'area che sta visitando.

Per questo motivo, la Siria cerca di assicurarsi nuovi mercati, specialmente quelli asiatici e africani, per rimpiazzare quello europeo: i cittadini di paesi come la Cina, l'India, la Malesia e il Sud Africa non sono molto ricettivi alle questioni politiche (ne hanno a sufficienza nei loro paesi di origine e non sembrano essere preoccupati per la situazione siriana) e rappresentano la grande posta in palio e la speranza per il settore turistico siriano. Non a caso il ministro per il turismo siriano sta lavorando per incoraggiare i cittadini di questi stati a visitare la Siria.

Sam, co-owner and Manager of a boutique hotel, in the centre of the old city of Damascus

Issam, architect working in CH field and Professor of town-planning at Damascus University

After the “spring” started, the reactions from US, France and the west pushed Syria to pressure its government, and there was consequently a big shift in tourism situation in Syria: I had bookings (5 rooms in an old restored traditional damascene house turned into a boutique hotel, right in the heart of the old city, few meters away from the “Via Recta”) until the end of June and all were cancelled! Though the people know their governments, this has been the reaction. Tourism is the one who has been affected most, in the last 7 months by the recent developments and the coverage of the international press, and the last to regain power: the result of all this is that there are NO TOURISTS. Many hotels closed and fired their employees. The occupancy was almost “0”/zero.

Tourism suffered a lot the recent situation in Syria and the way it was covered: the message passed by the foreign media.

It is badly needed to reestablish credibility of the country as a major tourist destination in the region. The Cultural Heritage of Syria is outstanding: the quantity and quality (importance) of the archaeological sites makes it worth a trip, as in the cases of Greece or Italy, and already have been giving job and sustainment to many people.

Unluckily the instability of the region with its problems (first: the occupation by Israel of Golan) have heavily harmed the development of tourism (cultural tourism) but we saw how the efforts by the government, reached excellent results, with Syria back to the international tourism

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Of course we are talking about European/USA and other international cultivated people, who appreciate the CH of the country, which is the main reason of their visits. On the other hand the inflow of religious tourism is growing faster and faster: the city (especially near the mosque and the souks) is invaded by Iranian “tourists”/pilgrims and you can see hordes of black-covered women who, after the visit to the holy mosques of the Shiite Muslims, move together over the city to buy things they cannot buy in Iran. This kind of tourism is very different from the previous one, and at the moment seems to be the only one surviving the deep crisis of political situation in Syria. It will take time for the situation to calm down: tourism in 2011 was promising, especially after the efforts done by the government, with the active help of the smart First Lady: Asmaa al-Assad, who continuously encouraged and supported several project aimed at the Cultural Heritage preservation and enhancement, and was very much loved by local population, especially women. All that now seems lost. First of all we have to restore trust, especially for the groups who used to visit Syria. The government is trying to show that is taking care especially of the big cities.

It will be necessary a budget for marketing, for the promotion or re-promotion of the image of Syria and consequently of tourism, which is slowly moving est.

circuits (the return of the Japanese groups withstand a restoration of confidence).

What is happening now, had pushed back the situation, and at least 2 years will be needed to gain confidence again: I foresee a crisis, at least in the European tourism sector, until 2013!

The all structure continues to develop at a slow pace, as the contractors are afraid. The European tourism is very sensible about the political situation in the area they visit. For this reason, Syria aims at gaining some new markets: especially in Asia and Africa to replace the European market: countries like China, India, Malesia, South Africa are not so sensitive about political situation (they have already in their country, and it seems they are not worried about the Syrian one), are big stakes & hopes for Syrian tourism, and the Ministry of Tourism is presently working to encourage these markets to visit Syria.

*Fabrizio Fuccello - Mare Nostrum MEDA Scientific Coordinator

Brevi dal Mediterraneo

29-11-2011 Giordania: Commissione Ue, pacchetto 20 mln per Pmi e ricerca La Commissione Ue ha adottato un pacchetto di assistenza per la Giordania, del valore di 20 milioni di euro. Si tratta di due programmi, che daranno sostegno alle piccole e medie imprese, ma anche a progetti di ricerca, con l'obiettivo di generare crescita economica e occupazione nel paese.

''Dando un accesso più facile al credito - ha affermato Stefan Fule, commissario Ue alla Politica di vicinato - stiamo aiutando a rimuovere le barriere per la creazione di nuovi posti di lavoro. Questo pacchetto di assistenza mostra chiaramente che continuiamo a sostenere il programma di riforme della Giordania, non solo politicamente ma anche finanziariamente''. Per quanto

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riguarda le Pmi, l'obiettivo del programma è quello di rafforzare ed espandere la modernizzazione del settore dei servizi sostenendo le micro-imprese e le donne imprenditrici in Giordania, per combattere la povertà e la disoccupazione, rafforzando le Pmi che si trovano nelle aree più povere. Il progetto di ricerca punta a espandere il contributo dei settori della ricerca e dello sviluppo tecnologico e dell'innovazione alla crescita economica e all'occupazione del paese. Fra le iniziative, quella di aumentare il livello della ricerca applicata e il numero di brevetti, oltre a rafforzare i legami fra la ricerca Ue e della Giordania. Il pacchetto di oggi fa parte di un programma nazionale di assistenza per il periodo 2011-2013 fornito dall'Ue che ammonta a 223 milioni di euro.

29-11-2011 Doing Business 2012 Il rapporto annuale Doing Business 2012, pubblicato il 20 ottobre 2011 dal SFI, gruppo Banca mondiale, e sottotitolato "Investire in un mondo più trasparente", valuta il clima degli affari in 183 paesi.

La Società Finanziaria Internazionale (SFI), istituzione del gruppo Banca mondiale, valuta ogni anno la regolamentazione degli affari e la sua applicazione effettiva in 183 paesi. Pubblicato nel 2003 per la prima volta, il rapporto Doing Business compila e analizza i dati internazionali che cadono su 10 indicatori (un nuovo indicatore è stato aggiunto per questa edizione, sulla fornitura di elettricità), e incoraggia i paesi ad adottare delle regolamentazioni più favorevoli agli affari. Doing Business 2012 ha censito un totale di 245 riforme effettuate tra giugno 2010 e maggio 2011 daii governi di 125 economie.Tra i paesi MED, Doing Business 2012 segnala la prestazione del Marocco, paese che ha apportato maggiori miglioramenti, passando dal 115° al 94° posto. I principali miglioramenti portano alla semplificazione della procedura di permesso di costruire, l'alleggerimento del fardello amministrativo del pagamento delle tasse e imposte per le società e il rafforzamento della protezione degli azionisti minoritari.

Israele resta senza sorpresa in testa alla classifica dei paesi MED (34). È seguito dalla Tunisia (46), Turchia (71), Marocco (94) che passa così davanti a Libano (103), Giordania (96) e Egitto (110), Siria (134) e infine l'Algeria, che indietreggia ancora di 5 posti, arrivando al 148 posto. Il rapporto punta l'accesso alla regolamentazione degli affari come uno dei principali assi di miglioramento per la regione MED.

29-11-2011 "Investimento socialmente responsabile: quale strategia per il Mediterraneo?" Come rafforzare il contributo degli investimenti allo sviluppo sostenibile dei paesi mediterranei? Anima prova a dare delle risposte pubblicando un studio su "Investimento socialmente responsabile: quale strategia per il Mediterraneo? ", nella cornice del progetto Invest in Med, sostenuto dalla Commissione europea.

Gli investimenti sono stati fino a oggi poco sostenibili nel Mediterraneo, e non producono tutti gli effetti previsti, tanto sul piano economico (crescita, produttività) quanto su quello sociale (creazione di impiego e di competenze) e ambientale (preservazione delle risorse naturali). Lo studio propone un'analisi delle motivazioni, strategie e attrezzi a disposizione delle quattro grandi categorie di attori dell'investimento socialmente responsabile (ISR) e della responsabilità sociale delle imprese (RSE) nel Mediterraneo: i poteri pubblici, le organizzazioni di sostegno alle imprese, le imprese e gli attori finanziari.

Anima propone poi tre serie di raccomandazioni destinate agli attori pubblici. 1 Dotarsi di un quadro chiaro e condiviso per l'Isr e l'Rse; 2 Incitare e accompagnare il settore privato verso 'ISR e l'RSE; 3 Mettere in piedi un ecosistema favorevole all'ISR e all'RSE.

Scarica lo studio

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29-11-2011 L'UpM si avvicina alle camere di commercio mediterranee L'Unione per il Mediterraneo e l'Associazione delle camere di commercio e dell'industria del Mediterraneo hanno siglato il 24 novembre 2011 un accordo di partenariato a Barcellona.

Siglato al margine della Settimana mediterranea dei leader economici che si è tenuta dal 21 al 25 novembre 2011 nella capitale catalana, questo testo prevede una collaborazione tra le due parti, entrambe con sede a Barcellona, con l'obiettivo del "rafforzamento dell'implicazione del settore privato nello sviluppo economico e sociale della regione e il consolidamento del pilastro economico e sociale dell'UpM", indica l'accordo.

Il testo mira anche a sostenere "le iniziative diverse del settore privato per sviluppare un ambiente favorevole all'investimento nella regione mediterranea, ciò in quanto base di una crescita economica sostenibile". Per Youssef Amrani, "l'Ascame è un strumento estremamente importante che può portare un valore aggiunto all'UpM grazie a una cooperazione e all'organizzazione di manifestazioni comuni." L'UpM si è associato per la prima volta alla Settimana mediterranea dei leader economici, organizzata dall'Ascame, con due "giornate aperte", open days, intorno a tematiche care all'istituzione.

Il segretario generale dell'UpM, ha affermato "volere lavorare con l'Ascame su dei progetti concreti e particolarmente sull'appoggio alle piccole imprese e per incitare gli investimenti all'estero. Siamo determinati insieme ad esplorare tutte le nicchie per favorire le relazioni commerciali tra le due rive. Esiste una logica di prossimità tra le imprese ed i CCi che hanno l'expertise, i progetti e mobilitano dei fondi. Si tratta di una partnership che apre numerose prospettive per le imprese mediterranee e dunque per l'impiego e quello dei giovani in particolare. Bisogna implicare i giovani imprenditori nei progetti ed offrir loro un migliore accesso agli strumenti tecnici e finanziari." Il segretario generale dell'UpM ha sottolineato all'epoca del suo intervento il fatto che il contesto attuale contrassegnato dalla crisi economica attraversata da parecchi paesi del Riva-nord del Mediterraneo ed il processo di transizione politico che interessa i paesi della riva sud, costituiscono un'opportunità per rilanciare il flusso di investimento e di scambio nord/sud che genererebbe degli impieghi e rinforzerebbe la crescita economica nella regione.

Nella sua qualità di vicepresidente dell'Ascame, Miquel Valls, presidente della Camera di commercio di Barcellona, era il secondo firmatario. Ha sottolineato nel suo discorso l'importanza di questo accordo e delle iniziative che favorirà la creazione di impieghi con un accento sulle piccole e medie imprese che rappresentano il 90% di tutte le imprese nella regione mediterranea.

Approfondimenti 29-11-2011 "Verso una Regione Mediterranea: ottenere cambiamenti fondamentali" L'istituto di ricerca francese FEMISE ha pubblicato il suo report annuale per il 2011 sulla partnership Euro-Mediterranea e lo stato dei paesi della sponda Sud. Il report di quest'anno è focalizzato sulla regione mediterranea e la sua fondamentale transizione verso una nuova era.

La prima parte del report si articola in quattro capitoli: il primo offre una panoramica generale sullo stato macroeconomico della regione, cercando in particolare di valutare i costi associati alle dinamiche interne dei vari paesi, alle conseguenze delle aspettative circa la loro stabilità e agli effetti della caduta della domanda esterna dei paesi europei e degli Stati Uniti. Il secondo capitolo esamina nel dettaglio il collasso del modello di stato autoritario predominante prima della crisi (tuttora presente in alcuni stati), in modo da determinare i passi da compiere per completare la sua trasformazione in un sistema democratico.

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Nel terzo capitolo viene affrontata la questione dei giovani e del loro ruolo decisivo nella politica interna degli stati mediterranei per i prossimi 20 anni, prima che l'invecchiamento della popolazione non modifichi le dinamiche demografiche anche in quei paesi. Infine, il potenziale commerciale che potrebbe essere mobilitato fra i paesi UE e i loro partner mediterranei è l'argomento del quarto capitolo.

La seconda parte del report analizza invece la situazione economica dei paesi della sponda sud presi singolarmente. Gli stati sono l'Algeria, l'Egitto, Israele, la Giordania, il Libano, il Marocco, la Siria, la Tunisia e la Turchia.

Scarica la versione completa del report (in inglese)

29-11-2011 “After the Arab Spring” - Prospettive regionali e ruolo dell'Ue dopo le primavere arabe: un ribaltamento di Federico Cavallo

«Quale stagione dove è la non-stagione? Nella nostra regione la “primavera” come concetto stagionale non c'è, siamo sempre nell'estate: e, dopo l'estate, sarà sempre l'estate». Il 17 novembre scorso si è aperta con questa rilettura dell'Ambasciatore del Regno del Marocco in Italia, Hassan Abouyoub, la conferenza “After the Arab Spring: what season awaits the Mediterranean?”, evento organizzato a Milano dall'ISPI - Istituto di Studi di Politica Internazionale in collaborazione con la rete EuroMeSco e co-promosso dalla Rappresentanza della Commissione Ue a Milano.

Questo ribaltamento iniziale dell'ottica consueta, porta Abouyoub a identificare tre “errori” che avrebbero sottostato alle relazioni euro-mediterranee degli ultimi trent'anni. In primo luogo quello di aver confuso la stabilità con l'assecondamento dello status quo. Specialmente lo sguardo mediterraneo dell'Unione europea avrebbe ruotato intorno a questo argomento non scritto, specie a partire dalla crisi energetica degli anni Settanta; da allora poco o nulla sarebbe cambiato. In secondo luogo si è pensato all'Islam come costitutivamente antitetico alla democrazia. All'opposto, sostenendo come la povertà da sola abbia generato il terrorismo, l'Unione europea avrebbe tentato di rispondervi, per mezzo del processo di Barcellona, con il solo strumento dell'export: arma utile ma, privata del veicolo di contenuti politici forti, altrettanto parziale e, in definitiva, inadeguata.

Ciò in particolare alla luce di una visione monolitica della Sponda Sud che continua a contraddistinguere lo sguardo dell'Europa, in una sorta di riproposizione dello status di “protettorati” cui essa stessa aveva relegato i Paesi dell'area nel corso della spartizione coloniale: l'Europa ha qui appiattito esigenze di “governo” su un’amministrazione distante, male informata e approssimativa, offuscando una realtà multipolare e generando conseguenze che, in termini di deficit di analisi, sembrano ora più evidenti.

Tre scenari possibili

Si aprono quindi tre scenari: si potrà forse scegliere di mantenere questa visione mono-polare, che pur non ha funzionato e che verosimilmente mai funzionerà, andando quindi incontro alle ingovernabili conseguenze strategiche, politiche, istituzionali che ne scaturirebbero sull'intera scala regionale. Ma altrettanto, sul versante opposto, appaiono debolissime le chance di un processo di ”integrazione regionale” che muova verso una Comunità dei Paesi del Mediterraneo, così come identificata dal Presidente Sarkozy nel suo discorso a Tangeri. Lo scenario preferibile sarebbe quindi, nell'opinione dell'ambasciatore, quello che chiama “della cooperazione”: accettare, cioè, da una parte la insanabile divisione dell'Unione europea nell'assenza di una sua qualche politica mediterranea unitaria; dall'altra, riconoscere le articolazioni peculiari e multipolari della Sponda Sud; ciò con l'obiettivo di una promozione, di volta in volta, di alleanze strategiche in settori e per progetti specifici considerati di comune interesse, quali l'energia, la sicurezza, l'ambiente, i valori.

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Certo una doccia fredda di realismo per il dibattito. Una provocazione che si carica di ancor maggiore significato quando si completa delle “condizioni” necessarie a che questa via possa essere percorsa: certo, per i nuovi regimi, si tratta di completare la costruzione di un sistema istituzionale democratico e aperto, tale da offrire ai partner - vecchi e nuovi - garanzie a lungo termine di prevedibilità e sostenibilità delle politiche e, in definitiva, di persistenza delle riforme. Perché «la democrazia non è premere il bottone: il Marocco, per esempio, sta lavorando a questo cantiere da cinquant'anni, arrivando, nel 2011, all'ottava Costituzione dal 1963. Per raggiungere questo grado di riforme sono state necessarie misure complesse».

Ma, soprattutto all'Europa si chiede di dimostrare di saper fare fronte alla Crisi economica, politica e istituzionale che la attraversa: ci si interroga, a Sud, su quale sia il futuro del debito sovrano dei paesi Ue e quale la capacità della democrazia in Europa di imporre i sacrifici necessari alla propria opinione pubblica; quale, insomma, il coraggio della politica di mettere in discussione il modello economico che ha impersonato nel Dopoguerra. L'Europa oggi non ha più i mezzi per finanziare il debito su cui ha in buona parte costruito il suo benessere dagli anni Sessanta, di fronte a una demografia ormai incapace di sostenere uno sviluppo bilanciato e allo stesso progresso tecnico che appare, a volte, addirittura lontano da quanto si osserva invece in altri poli nel mondo, nelle Americhe e nell'Asia.

More for more

Il ribaltamento si completa, quindi, nei due cardini stessi intorno a cui si è raccolta l'attività istituzionale comunitaria nel Mediterraneo, racchiusa operativamente nel principio del “more for more”, e riproposta dall'Alto Commissario Ashton ancora nel marzo scorso. Se l'Europa viaggiava in testa a standard progressivi, quantificabili tanto da potervi agganciare uno scaglionamento negli aiuti economici, e su cui poter esercitare un giudizio, in forza di uno status consolidato quanto a democraticità, diritti e sviluppo, viene così sollecitata a camminare sui piedi di un'autorevolezza chiamata prima di tutto a confermare se stessa, di fronte alle più forti pressioni della sua storia recente e al profilarsi di un arretramento nei medesimi termini di democrazia e tecnica che, prima, ne avevano sostanziato la supremazia.

In questa prospettiva si cala il superamento del partenariato euro-mediterraneo: è necessario un New Deal che parta dall'accettazione di una parità delle parti: anche nell'istitution building che dovrà aver luogo nei paesi investiti dalle rivolte, i Paesi europei dovranno aiutare, ma il ruolo forse più determinante lo avrà la società civile. Interessante rilevare come venga di fatto accantonato anche un terzo paradigma delle relazioni europee con i paesi terzi: l'esclusività o, meglio, la bi-univocità. L'esperienza dell'ambasciatore Abouyoub, già Direttore del Commercio Estero, e in questa veste architetto dell'adesione del Marocco al GATT, quindi come Ministro del Commercio Estero, degli Investimenti esteri e del Turismo, certamente suggerisce l'evidenza e l'opportunità, per il suo Paese, di considerare la novità e i vantaggi offerti da nuovi interlocutori - commerciali, tecnologici e politici - cui la Crisi atlantica ha aperto la strada. L'Europa pare soffrire tanto più quanto vede venire meno una centralità che, se nel Dopoguerra non poteva già più essere strategica e politica, certamente credeva rimanere culturale e, in qualche misura, morale.

La corsa alla partnership mediterranea

Conferma il punto sotto traccia, nel proseguire dei lavori, Patrycja Sasnal, politologa di origini mediorientali, analista presso il Polish Institute of International Affairs e EuroMeSCo focal point: certamente le rivolte arabe hanno innescato una competizione molto più aperta a stabilire rapporti con i Paesi dell'Area: innanzitutto, seppur con un discorso a parte, la Turchia; ma poi Brasile, Sud Africa e Cina appaiono in prima linea, non solo per l'indiscutibile dinamicità economica ma, forse, anche per l'attrattività di una partnership politicamente più snella e paritaria. Sarà anche per le comuni esperienze nelle fila degli ex Paesi non allineati, sta di fatto che in questa rinegoziazione dei rapporti l'Europa non è presente e, più in generale, lo stesso Occidente classicamente inteso sta diventando sempre meno attrattivo, politicamente ed economicamente. Più nello specifico, come dimostrato dall'indagine dell'Istituto Demos & Pi nell'ambito dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, l'Unione si starebbe caratterizzando per

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un netto spostamento a destra delle opinioni pubbliche, con un sensibile radicarsi su posizioni islamofobiche. In tale contesto, appare quindi difficile che l'Europa possa proporsi efficacemente come leader né come facilitatore dei processi in corso nel mondo arabo-musulmano. Al contrario sembra prefigurarsi uno scenario caratterizzato da un mix complesso sia di strumenti sia di attori. Ancor più se, come confermato dalla tendenza degli ultimissimi giorni (successivi alle opinioni cui qui si fa riferimento) l'islam politico sembra ritagliarsi un ruolo istituzionale e di coesione determinante negli assetti che stanno emergendo dalle tornate elettorali. Sembra qui utile riportare all'esperienza libica, con riferimento all'analisi proposta da Arturo Varvelli, Research Fellow ISPI.

La Libia

La Libia è una realtà in cui gli elementi destabilizzanti sono, a oggi, tutti di natura interna: la caduta di Gheddafi, il quale aveva costruito la tenuta della sua lunga leadership su un complesso di relazioni informali in cui i vari gruppi, dei quali venivano al contempo accentuate le divisioni tribali, si ricomponevano nella sola figura (quasi nel corpo stesso) del Raìs, ha lasciato un vuoto drammatico; a differenza di quanto accaduto in Tunisia ed Egitto, non c'è una eredità su cui ricostruire: lo stesso Consiglio Nazionale di Transizione appare estremamente eterogeneo e diviso tra ex notabili di regime, personalità più liberali tuttavia a lungo vissute all'estero, ed ex combattenti contro il regime. In questo scenario, di fronte ad una appartenenza identitaria-nazionale debole per le ragioni che si diceva, l'azione dei tecnocrati del CNT per la stabilizzazione del Paese si sta concretizzando nella cooptazione al potere sia dei gruppi di ex combattenti -in larga parte ancora in armi e, invece, fortemente connotati tribalmente o regionalmente- sia dei gruppi islamisti. In questo contesto si inserisce il ricorso all'Islam come solo elemento unificante di ordine identitario-nazionale, e in particolare alla Shari'a quale unica fonte diffusamente percepita come legittima e, in definitiva, legittimante per chi vi faccia richiamo. L'élite che ne nascerà avrà come primo compito la redistribuzione di buona parte della ricchezza del paese, oggi eccessivamente accentrata; godrà quindi verosimilmente degli effetti di per sé stabilizzanti di tali interventi. Ciò nonostante, sarà determinante seguire il processo di intersecazione tra Islam e redistribuzione, per nulla certi che porti di per sé stesso, alla democrazia. Bisognerà farlo, tuttavia, sapendo non connotare necessariamente come negativo il ruolo dell'islam politico. Sarà determinante il legame che dovrà instaurarsi tra questo stesso e una logica della “responsabilità” nell'esercizio del Governo e nel compromesso politico tra le parti.

Il ruolo dell’Europa e della sua società civile

A riguardo, in conclusione, interessanti due notazioni di apertura operate da Tarek Osman, consigliere politico per i paesi MENA presso la Banca Europea per lo Sviluppo e la Ricostruzione. Da un lato, la posizione di seconda linea dell'Europa sul piano specificamente militare-strategico che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni di vita mediterranea, potrebbe anche configurarsi come elemento positivo nel presente: riequilibrando in parte le indubbie tendenze conservative dello status quo cui si accennava all'inizio, potrebbe liberare canali attraverso i quali veicolare e mettere a disposizione la complessa esperienza della transizione e ricostruzione dell'Europa orientale (economica, finanziaria e sociale ad opera della BERS, ma non solo). Dall'altro, tra gli autocrati laicisti e l'islam sociale che vi si è contrapposto è possibile scorgere nella storia, anche nei momenti più aspri, una società civile, certamente indebolita da entrambe le forze ma la cui struttura è rimasta. Di nuovo, se affrancata da paura, arroganza e approssimazione, la società civile europea può riscoprirsi in un ruolo cruciale e determinante come primo interlocutore e vero facilitatore di processi in questa costruzione di libertà; consci di come il Mediterraneo sia in definitiva una grande opportunità comune e, come tale, da cogliere insieme.

28-11-2011 Il primo giorno di elezioni (news n. 213) Dopo una settimana di scontri che hanno fatto 41 vittime e più di tremila feriti, per quanto se ne sa finora, sono finalmente arrivate le elezioni, delle quali molti auspicavano il rinvio. Si

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vota, oggi e domani, per il primo turno delle elezioni dell'Assemblea del Popolo e i ballottaggi (per la quota maggioritaria) si terranno il 5 dicembre... a cura di Elisa Ferrero.

Cari amici e amiche,

fino a ieri sera, in piazza Tahrir, il dibattito tra i dimostranti sull'opportunità o meno di boicottare il voto è stato feroce. I fautori del boicottaggio ritengono che queste elezioni siano una farsa, concepite in modo da dare soltanto maggior legittimità al Consiglio MIlitare e campo libero alla vittoria degli islamisti. Inoltre, dopo i morti dei giorni scorsi, a molti pare quasi un insulto, o un'ipocrisia, partecipare allo spettacolo democratico allestito dal Consiglio Militare, per di più sotto la protezione di quelle stesse forze di polizia che, fino a pochi giorni fa, li uccidevano senza pietà. I sostenitori del boicottaggio, oltre a essere convinti dell'inutilità del voto, non hanno nessuna fiducia nemmeno nella sua regolarità. A questo gruppo di persone appartengono, in primo luogo, i movimenti di sinistra.

Sul fronte opposto, invece, si trovano quelli che credono che, nonostante tutto, alla gara elettorale si debba partecipare comunque, per tentare di strappare quanti più seggi possibili alle forze islamiste e controrivoluzionarie. La tesi, in questo caso, è che qualsiasi spazio democratico si crei, per quanto imperfetto, debba essere occupato. Gli avversari, islamisti o elementi del vecchio regime che siano, devono essere combattuti attivamente su ogni terreno disponibile, senza ritirarsi dalla lotta con un atteggiamento da duri e puri. E la scelta di votare non impedisce comunque di continuare la lotta per la democrazia anche attraverso le proteste di piazza. Anzi, le due cose possono andare in parallelo, perché l'una non esclude l'altra. In questo gruppo si contano soprattutto i liberali.

Gli islamisti, dal canto loro, non hanno nessun dubbio. Hanno aspettato con ansia e trepidazione questo momento, pertanto affluiranno in massa per votare (specialmente domani, secondo le direttive del movimento, perché temono che nella notte i voti possano andare persi per qualsiasi motivo). Si sono comunque perfettamente organizzati per proteggere i seggi da eventuali attacchi dei baltagheya.

Finora, a giudicare dall'affluenza alle urne, sembra che il partito pro-elezioni abbia vinto la partita. Il boicottaggio si è limitato a pochi gruppi e movimenti. Anche piazza Tahrir si è in parte svuotata, perché molti dimostranti, facendo i turni, si sono recati a votare. Non credo sia giusto attribuire questa grande affluenza solo alla paura della multa di 500 pound. C'è davvero, nonostante le molte disillusioni e la consapevolezza del valore limitato di queste elezioni, un sincero desiderio di partecipare con il proprio voto al processo democratico. Chi va a votare non è necessariamente un sostenitore del Consiglio Militare o un nostalgico del vecchio regime, ma esprime una speranza, non volendo perdere anche la più minima occasione di cambiare le cose.

Pertanto, questa mattina alle 8 i seggi hanno aperto le porte per accogliere fiumane di gente. Le code sono state più lunghe di quelle già viste in occasione del referendum costituzionale di marzo. Molte persone hanno atteso sei o sette ore per votare, a volte sotto la pioggia. Per adesso non si registrano le violenze temute, per fortuna, solo qualche baruffa o litigio. In alcuni seggi, infatti, ci sono state vivaci proteste per il ritardo dei giudici o delle schede elettorali. Le irregolarità riscontrate, a dire il vero, sono molte, ma non sistematiche. Molte, secondo me, sono dovute alla disorganizzazione di base di queste elezioni che, fino all'ultimo, non si era nemmeno sicuri di tenere. Le violazioni più frequenti riguardano la propaganda politica, che è proseguita anche durante le votazioni, con la spudorata distribuzione di volantini persino alla gente in coda. Tuttavia, non sono stati solo i Fratelli Musulmani a farlo. Questa volta molti testimoni affermano che anche i "secolari" si sono dati da fare. E la propaganda nei giorni scorsi, sempre secondo i testimoni, è avvenuta in egual misura nelle moschee e nelle chiese.

Ore infinite d'attesa per votare, dunque. Persino lo sheykh di al-Azhar ha insistito per fare la coda come gli altri. Non ha fatto lo stesso, però, il nuovo Primo Ministro Ganzouri, che si è recato a votare superando una fila di 500 persone. Gli impegni di governo, si sa... Ma questo non gli ha guadagnato molte simpatie. Altri illustri personaggi, come Amr Hamzawi, si sono

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invece fatti coinvolgere in animate discussioni con il seggio su varie irregolarità. Per segnalare le irregolarità, comunque, sono stati istituiti appositi numeri di telefono gratuiti.

Vista l'enorme affluenza, l'apertura dei seggi è stata posticipata alle 9 di sera e domani mattina riprenderanno le votazioni. Questa notte, intanto, sarà un momento delicato. I seggi con le schede già votate dovranno essere adeguatamente vigilati.

Oggi, tuttavia, è anche iniziato lo spoglio dei voti in alcuni paesi esteri (domani inizia quello in Italia). Alcune indiscrezioni, che andranno confermate, rivelano che la coalizione liberale del Blocco Egiziano sarebbe in testa nei paesi europei, con il 70-90% dei voti favorevoli al Partito degli Egiziani LIberi, guidato dal tycoon copto Naguib Sawiris. In Arabia Saudita, invece, vincerebbero i Fratelli Musulmani. Ma come ho detto, sono notizie non confermate per ora.

Un particolare sfuggito a molti, tuttavia - ma non agli attenti ragazzi di Tahrir - è che le elezioni si stanno svolgendo sotto le eterne leggi di emergenza. Il Consiglio Militare aveva promesso di revocarle poco prima delle elezioni, ma non l'ha fatto, neanche questa volta. Ma si sa, dopo gli scontri di Tahrir...

Un caro saluto a tutti,

Elisa Ferrero

La Palestra delle Idee 29-11-2011 Perché Gheddafi doveva andarsene di Hugh Roberts* Versione ridotta dell'articolo pubblicato su London Review of books dallo studioso e giornalista esperto di Nord Africa, gentilmente redatta dall'autore per DevelopMed. Traduzione a cura di Claudio Tocchi

Quindi Gheddafi è morto e la NATO ha combattuto una guerra in Nord Africa per la prima volta da quando il FLN algerino ha sconfitto la Francia nel 1962. L'unico e solo Stato arabo delle masse, la “Grande Jamahiriyya Libica, Araba, Socialista e Popolare”, è finito miseramente. Al contrario dell'incruento colpo di stato che il 1 settembre 1969 ha rovesciato Re Idris e portato Gheddafi e i suoi al potere, la ribellione\guerra civile\campagna di bombardamento della NATO per proteggere i civili ha causato diverse migliaia (5000? 10.000? 25.000?) di morti, molte migliaia di feriti e centinaia di migliaia di profughi, oltre a enormi danneggiamenti alle infrastrutture. Cosa ha ottenuto la Libia in cambio di tutta la morte e distruzione che le sono state portate negli ultimi 7 mesi e mezzo?

Il rovesciamento di Gheddafi&Co è ben lontano dall'essere una semplice rivoluzione contro una tirannia, ma quest'ultimo intervento militare dell'Occidente non può nemmeno essere semplicemente ridotto a una questione di petrolio. Presentato dal Consiglio Nazionale di Transizione (NTC) e festeggiato dai media occidentali come parte integrante della Primavera Araba, e quindi simile agli sconvolgimenti in Tunisia ed Egitto, il dramma libico è piuttosto un'altra voce nella lista delle guerre dell'Occidente contro regimi ostili, “insolenti”, non sufficientemente accondiscendenti, o “canaglia”: Afganistan I (contro il regime comunista, 1979-92), Iraq I (1990-91), Kosovo (1999), Afganistan II (2001) e Iraq II (2003), cui si potrebbero aggiungere gli interventi militari a Panama (1989-90), in Sierra Leone (2000), in Costa d'Avorio (2011) e, non ultimi, tre tentativi di matrice occidentale di rovesciare Gheddafi […] fra il 1971 e il 1973, nel caso conosciuto come l'”Hilton Assignment”. […]

Gli eventi in Egitto e Tunisia hanno avuto molti aspetti rivoluzionari [: ...] il modo in cui migliaia di persone si sono ribellate a Mubarak lo scorso inverno è stato un evento storico che gli egiziani non dimenticheranno. Lo stesso vale per i tunisini, con la differenza che la loro rivoluzione non ha soltanto detronizzato Ben Alì, ma ha anche posto fine al potere monopolistico del suo partito […] La Libia è parte dell'ampio “Risveglio Arabo” per due motivi: primo, perché i disordini sono cominciati il 15 di febbraio, 3 giorni dopo la caduta di Mubarak –

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l'effetto-contagio c'è stato. Secondo, perché molti dei libici scesi in piazza in quei giorni erano animati dagli stessi sentimenti visti altrove. Ma l'insurrezione libica si differenzia da quella tunisina ed egiziana in due aspetti: la rapidità con cui ha preso una piega violenta, con la distruzione di edifici pubblici e gli attacchi xenofobi contro egiziani, serbi, coreani e, soprattutto, africani sub-sahariani; e la misura in cui, brandendo la vecchia bandiera libica del periodo 1951-69, i dimostranti hanno identificato la loro causa con la monarchia che Gheddafi e i suoi hanno rovesciato. Questa differenza dipende in larga misura dalle influenze esterne – ma anche dal carattere particolare del regime libico. Seppur ampiamente ridicolizzato come una bizzarra creazione della sua eccentrica (e lunatica) Guida, la Jamahiriyya Libica Araba Socialista Popolare in realtà condivideva molte caratteristiche con altri stati arabi. Dopo il grande incremento degli introiti petroliferi nei primi anni '70, la Libia è diventata una “società degli idrocarburi” più simile agli stati del Golfo che ai suoi vicini nordafricani. I guadagni petroliferi libici venivano distribuiti a tutti e il regime si sosteneva su uno stato sociale di cui beneficiavano virtualmente tutti gli abitanti, sfruttando inoltre i guadagni del petrolio, come gli stati del Golfo, per comprare il necessario in termini di tecnologia e beni di consumo, senza menzionare le centinaia di migliaia di lavoratori stranieri. Per Gheddafi e i suoi, il ruolo distributivo dello stato divenne rapidamente un elemento centrale nella loro strategia per controllare il paese. Le istituzioni centrali della Jamahiriyya, però, il tandem del Congresso Popolare e dei Comitati rivoluzionari, […] rimanevano molto deboli. Gheddafi era a capo non di una piramide di istituzioni di governo, ma di settori informali della politica […] e il governo informale, il vero governo libico, era in realtà un one-man show. […] La Jamahiriyya è durata 34 anni (42 se risaliamo al 1969), un risultato rispettabile. Non funzionava per uomini d'affari stranieri, diplomatici e giornalisti, che la trovavano più esasperante rispetto ad altri stati arabi e africani, e la loro opinione ha formato l'immagine del paese all'estero. Se il regime non era disegnato per funzionare per gli stranieri, sembra invece aver funzionato in generale abbastanza bene per i libici – nel periodo della sua esistenza, la popolazione libica è più che triplicata (6,5 milioni di abitanti ora, contro l'1,8 milioni del 1968) e ha raggiunto alti standard di assistenza sanitaria, alti livelli di istruzione per ambo i sessi, un grado di alfabetizzazione dell'88%, un livello di promozione sociale e lavorativo delle donne che molti altri paesi arabi possono solo invidiare e un PIL pro capite di 12,000$, il più alto dell'Africa. Ma il punto è che tutto questi indici, spesso citati dai critici dell'intervento occidentale in risposta alla propaganda contro Gheddafi, sono fuorvianti in un senso cruciale. I risultati socio-economici del regime sono da attribuire essenzialmente allo stato distributivo – cioè al successo del settore degli idrocarburi e ai meccanismi messi in atto per distribuire i petroldollari. [...L]a Jamahiriyya è sopravvissuta fino al 2011 fondamentalmente senza modificazione nelle sue caratteristiche politiche chiave: l'assenza di partiti politici, di associazioni indipendenti, di giornali e di case editrici e la corrispondente debolezza della società civile, il carattere disfunzionale delle istituzioni formali di governo, la debolezza delle forze armate e l'indispensabilità di Gheddafi stesso come padre della rivoluzione che ha costruito lo stato. Dopo 42 anni di dominio da parte di Gheddafi, la popolazione libica non era, da un punto di vista politico, molto più matura del 31 agosto 1969. Proprio per questo la Jamahiriyya era vulnerabile ai cambiamenti interni nel momento in cui hanno preso piede dei movimenti arabi popolari per la dignità umana e i diritti civili. La tragica ironia è che le caratteristiche della Jamahiriyya che l'hanno resa vulnerabile alla Primavera Araba hanno anche impedito un'evoluzione simile all'Egitto o alla Tunisia. […] In entrambi i paesi la maggior esperienza nell'azione politica della popolazione ha dato alle proteste un maggior grado di sofisticazione, coerenza e organizzazione. Il fatto che nessuno dei due presidenti fosse una figura fondamentale nella formazione dello stato ha permesso una distinzione fra protesta contro il presidente e l'élite al potere e una rivolta contro lo stato: il patriottismo dei manifestanti non è mai stato messo in discussione. E in entrambi i casi il ruolo delle forze armate è stato cruciale: fedeli allo stato e alla nazione piuttosto che ad un leader particolare, hanno agito come arbitri e facilitatori senza che l'esistenza stessa dello stato fosse messa in pericolo.

Nessuna di queste condizioni esisteva alla Libia. Gheddafi era il fondatore della Jamahiriyya e il garante della sua esistenza, le forze armate erano incapaci di giocare un ruolo politico indipendente e l'assenza di una tradizione di opposizione pacifica e di organizzazioni indipendenti hanno fatto sì che la rivolta popolare divenisse un movimento rozzo, incapace di

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formulare richieste negoziabili per il regime. Al contrario, la rivolta era una sfida a Gheddafi e alla Jamahiriyya tout court (e quindi alla sua esistenza come stato). La situazione sviluppatasi nel weekend successivo le proteste iniziali del 15 febbraio suggeriva l'evolversi di 3 possibili scenari: un rapido collasso del regime all'estendersi della protesta popolare; la sconfitta della rivolta non appena il regime si fosse riorganizzato; o, in assenza di una soluzione più rapida, l'inizio di una guerra civile. Se la rivolta fosse stata schiacciata in tempi rapidi, le implicazioni per la Primavera Araba sarebbero state gravi, ma non necessariamente peggiori degli eventi in Bahrein, Yemen o in Siria; l'opinione pubblica araba, abituata da tempo a pensare che la Libia fosse un paese a sé stante, non avrebbe considerato esemplari gli eventi nel paese. Se la rivolta avesse invece portato ad un rapido collasso del regime, la Libia sarebbe collassata nell'anarchia: una Somalia ricca di petrolio affacciata sul Mediterraneo avrebbe destabilizzato tutti i vicini, pregiudicando in particolare le prospettive per uno sviluppo democratico in Tunisia. Una lunga guerra civile, seppur costosa in termine di vite umane, avrebbe dato ai ribelli il tempo di organizzarsi come uno stato alternativo e quindi li avrebbe preparati al compito di stabilire uno stato libico funzionante al momento della vittoria. E, se sconfitta, una tale ribellione avrebbe minato le premesse della Jamahiriyya ed assicurato la sua fine. Nessuno di questi scenari ha avuto luogo – al loro posto, c'è stato un intervento militare occidentale sotto l'egida della NATO e l'autorità dell'ONU.

Come è possibile giudicare questo quarto scenario nei termini dei principi democratici che sono stati invocati per giustificare l'intervento militare? Non c'è dubbio che molti libici considerino la NATO come un salvatore e che aspirino ad un futuro democratico per il loro paese. Ciononostante, ho iniziato a preoccuparmi quando l'intervento militare è stato proposto e sono rimasto contrario fino ad ora, nonostante il suo apparente trionfo, perché ritengo che un'evoluzione democratica sarebbe stata favorita di più da un'altra strategia di azione. L'idea che la “comunità internazionale” non avesse altre opzioni oltre all'intervento militare e che l'alternativa fosse l'inattività è falsa – un'alternativa pratica, attiva e non violenta era stata fatta e deliberatamente rifiutata […] Un numero di proposte erano state avanzata. L'International Crisi Group (ICG), per esempio, per il quale lavoravo a quel tempo, ha pubblicato un documento il 10 Marzo avanzando un'alternativa articolata in due punti: (I) la formazione di un gruppo di contatto o di un comitato formato dai vicini nordafricani della Libia e da altri stati africani con il mandato di negoziare un cassate il fuoco immediato; (II) negoziazioni fra i due protagonisti avviato e guidato dal gruppo di contatto, indirizzate a rimpiazzare il presente regime con uno più responsabile, rappresentativo e sottoposto alla legge. Questa proposta era stata ripresa dall'Unione Africana ed era in linea con la visione dei maggiori stati non africani: Russia, Cina, Brasile e India, oltre a Germania e Turchia. Tale proposta era stata in seguito ampliata e riproposta dall'ICG (aggiungendo la previsione dell'impiego di una forza di pace ONU per assicurare il cessate il fuoco) in una lettera aperta al Consiglio di Sicurezza il 16 Marzo, alla vigilia del dibattito conclusosi con l'adozione della Risoluzione 1973. In breve, prima che il CdS approvasse l'intervento militare, una proposta a protezione dei civili che prevedeva una fine rapida dei combattimenti e poneva le basi per una transizione ordinata verso una forma di governo più legittimata era già stata avanzata – una proposta che avrebbe evitato il pericolo di una repentina caduta nell'anarchia, con tutto quello che ciò avrebbe potuto significare per la rivoluzione in Tunisia, la sicurezza per gli altri vicini della Libia e per l'intera regione. L'imposizione di una no-fly zone sarebbe stata un atto di guerra: come il segretario alla difesa statunitense Robert Gates ha detto al Congresso il 2 Marzo, essa avrebbe richiesto come azione preliminare la distruzione delle forze aeree libiche. Nell'autorizzare “tutte le misure necessarie”, il Consiglio di Sicurezza stava scegliendo la guerra prima di provare altre strategie. Perché? […] Gli sforzi dell'ICG e di altri attori nel tentativo di evitare la guerra non sono stati completamente ignorati. […] La versione finale della risoluzione 1973 – al contrario delle precedenti – conteneva l'idea di una soluzione pacifica nei primi due articoli: [… il CdS] (1) richiede un cessate il fuoco immediato e la fine degli attacchi e abusi sui civili; (2) sottolinea la necessità di intensificare gli sforzi per trovare una soluzione alla crisi che rispetti le legittime aspirazioni del popolo libico. L'Art.2 inoltre sottolinea l'impegno dell'UA nel faicilitare il dialogo e cercare una soluzione pacifica. […] In questo modo la risoluzione 1973 sembrava prevedere un'alternativa pacifica e autorizzare l'intervento

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militare solo in caso di mancato cessate il fuoco. In realtà, niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

La Ris.1973 è stata approvata a New York nella tarda serata del 17 Marzo. Il giorno successivo, Gheddafi, le cui forze erano già accampate a sud di Bengasi, ha annunciato un cessate il fuoco in conformità con l'Art.1 e ha proposto un dialogo politico in linea con l'Art.2 – in pratica rispondendo in poche ore alle richieste e proposte del CdS. Il suo cessate il fuoco è stato immediatamente rifiutato in nome dell'NTC da un comandante ribelle, Khalifa Haftar, e dai governi occidentali. “Giudicheremo dalle azioni, non dalle parole”, ha dichiarato David Cameron, implicando che Gheddafi avrebbe dovuto produrre un cessate il fuoco completo da solo: il che significava non soltanto ordinare la fine delle ostilità alle sue truppe, ma anche assicurarne il mantenimento indefinitamente nonostante il fatto che l'NTC rifiutasse di fare altrettanto. Il commento del Premier inglese quindi non prende in considerazione il fatto che l'Art.1/1973 non poneva l'onere del cessate il fuoco soltanto su Gheddafi. Cameron aveva appena coperto l'evidente violazione della risoluzione 1973 da parte dell'NTC quando Obama aggiunse che, perché il cessate il fuoco di Gheddafi avesse valore, il leader libico avrebbe dovuto (oltre a mantenere una tregua indefinita, unilaterale e senza un analogo sforzo dell'NTC) anche ritirare le sue forze non solo da Bengasi, ma anche da Misurata e dalle più importanti città che le sue truppe avevano ripreso dai ribelli, Ajdabiya nell'est e Zawija nell'ovest – in altre parole, avrebbe dovuto accettare una sconfitta strategica in anticipo. Queste condizioni, impossibili da accettare per Gheddafi, erano assenti dall'Art.1. […] Una settimana più tardi la Turchia, che aveva lavorato nel contesto della NATO a organizzare gli aiuti umanitari per Bengasi, annunciò di aver avuto contatti con entrambe le parti e si propose come intermediario per un cessate il fuoco. L'offerta venne […] “completamente ignorata” e non ha portato ad alcun risultato, così come a nulla ha portato un'iniziativa analoga dell'UA, già accettata da Gheddafi ma rifiutata dall'NTC, che richiedeva le dimissioni di Gheddafi come condizione per ogni cessate il fuoco. Questa richiesta andava persino oltre la lista di condizioni di Obama, nessuna delle quali contenuta nella Ris.1973. Inoltre, richiedere un cessate il fuoco in tali condizioni sarebbe stato impossibile, in quanto rimuovere Gheddafi avrebbe privato l'esercito di un'autorità decisionale indispensabile per assicurarne il mantenimento.

[…] Londra, Parigi e Washington non potevano permettere una tregua perché questa avrebbe previsto negoziazioni, soprattutto riguardo le linee per un accordo di pace, le truppe di peacekeeping e così via, e poi riguardo differenze politiche fondamentali. Tutto ciò avrebbe eliminato la possibilità di ottenere il tipo di cambio di regime desiderato dalle potenze occidentali. La scena di rappresentanti dei ribelli seduti ad un tavolo con rappresentanti del regime, libici che parlano con altri libici, avrebbe messo in discussione la demonizzazione di Gheddafi. Nel momento in cui lui fosse tornato ad essere una persona con cui parlare e negoziare sarebbe stato automaticamente riabilitato, e questo avrebbe eliminato la possibilità di un cambio di regime violento (rivoluzionario?), impedendo alle potenze occidentali la loro chance di intervenire nella Primavera Araba, e l'intero piano sarebbe fallito. La logica della demonizzazione di Gheddafi sviluppata a fine febbraio, coronata dal suo rinvio ex Ris.1970 per supposti crimini contro l'umanità alla Corte Penale Internazionale (ICC) e dalla decisione francese del 10 Marzo di riconoscere l'NTC come unico rappresentante del popolo libico, significava il bando definitivo di Gheddafi dal consesso della politica internazionale e dalle negoziazioni, anche quelle avanzate in agosto per la resa di Tripoli in modo da risparmiare alla città ulteriori distruzioni – un'offerta rifiutata, come le altre, con sdegno. Questa logica fu preservata dall'inizio alla fine, come prova il numero delle vittime civili a Tripoli e, soprattutto, a Sirte. La missione NATO è sempre stata quella di un cambio di regime, una verità oscurata dagli schiamazzi circa un imminente massacro a Bengasi. […] Che motivi c'erano per ritenere che, una volta che le forze di Gheddafi avessero ripreso Bengasi, esse avrebbero ordinato un massacro generale? Nel riprendere le città che la rivolta aveva […] strappato al controllo del governo, le forze lealiste non avevano commesso alcun massacro […] Era […] ragionevole essere preoccupati per Bengasi […] Ma quello che è stato deciso è stato di dichiarare guerra a Gheddafi in anticipo per un massacro di […] civili e […] di distruggere il suo regime […] come forma di punizione per un crimine che non aveva ancora commesso ed era, anzi, improbabile che commettesse […] Non c'erano indicazioni di nulla che potesse essere effettivamente chiamato pulizia etnica o addirittura genocidio, in Libia […] Tutti

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i discorsi riguardo un'altra Sebrenica o Ruanda erano chiaramente fatti per impaurire i governi e supportare l'intervento militare in modo da salvare la ribellione dalla sconfitta. Perché il fattore-panico ha funzionato così bene con le opinioni pubbliche e i governi internazionali – o quantomeno occidentali? E stato riportato da fonti affidabili che il timore di Obama di venir accusato di aver permesso un'altra Sebrenica ha fatto pendere l'ago della bilancia verso l'intervento, in un momento in cui non soltanto Robert Gates ma anche (all'inizio) Hillary Clinton erano contrari al coinvolgimento USA. Io credo che la risposta sia che Gheddafi era già stato così accuratamente demonizzato che le peggiori accuse riguardo una sua possibile (o, come molti sostenevano, praticamente certa) condotta futura sarebbe stata creduta indipendentemente dal suo attuale comportamento. Questa demonizzazione ha avuto luogo il 21 febbraio, il giorno in cui furono giocate tutte le carte più importanti. Quel giorno il mondo è stato scioccato dalla notizia che il regime libico stava utilizzando le forze aree per massacrare le dimostrazioni pacifiche a Tripoli e in altre città. La fonte principale di questa storia era al-Jazeera, ma la storia è stata poi rapidamente ripresa dal network Sky, CNN, BBC, ITN, ecc. Prima che la giornata fosse finita, l'idea di imporre una no-fly zone sulla Libia era stata ampiamente accettata, così come accettata era l'idea di una risoluzione del CdS che imponesse sanzioni e un embargo sulle armi, bloccasse i conti libici all'estero e denunciasse Gheddafi e i suoi all'ICC per crimini contro l'umanità. La Ris.1970 fu diligentemente approvata 5 giorni dopo e la no-fly zone ha monopolizzato la discussione internazionale sulla crisi in Libia da allora in poi. […] Nei giorni successivi feci diversi sforzi per controllare la storia di al-Jazeera. Una fonte che ho consultato è stato il noto blog Informed Comment di Juan Cole, uno specialista del Medio Oriente all'università del Michigan. Sul blog era stato pubblicato un post, il 21 di Febbraio, intitolato “Qaddafi's bombardments recall Mussolini's” (“I bombardamenti di Gheddafi ricordano quelli di Mussolini”, NdT), che sosteneva che “nel 1933-40, Italo Balbo fu ideologo della teoria della guerra aerea come il modo migliore per sconfiggere le presuntuose popolazioni colonizzate”. Il post iniziava con: “L'attacco aereo e bombardamento a Tripoli dei dimostranti civili da parte dei jet di Muammar Gheddafi di lunedì...”, in cui la parte sottolineata era un link ad un articolo di Sarah El Deeb e Maggie Micheal dell'Associated Press pubblicato alle 21 del 21 Febbraio. Quell'articolo non portava nessuna prova della tesi di Cole che i jet da combattimento di Gheddafi (o altri velivoli) avesse attaccato o bombardato Tripoli o altre città. Lo stesso è vero per ogni altra fonte indicata negli altri articoli sulla Libia circa la storia del massacro aereo che Cole ha postato quello stesso giorno.

Ero di stanza in Egitto per la maggior parte parte del tempo, ma visto che molti giornalisti diretti in Libia passavano dal Cairo, ho deciso di chiedere loro quello che avevano raccolto sul campo. Nessuno di loro aveva trovato alcun tipo di prova per la storia. Ricordo in particolare di aver chiesto, il 18 Marzo, all'esperto di Nord Africa inglese Jon Mark, appena tornato da un ampio tour della Cirenaica (nelle città di Ajdabiya, Bengasi, Brega, Derna e Ras Lanuf), cosa aveva sentito riguardo la storia. Mi ha detto che nessuno con cui avesse parlato aveva menzionato il fatto. 4 giorni dopo, il 22 Marzo, Usa Today riportava un interessante articolo di Alan Kuperman, autore di The limits of Humanitarian Intervention (I limiti dell'intervento umanitario, NdT) e coeditore di Gambling on Humanitarian Intervention (Scommettere sull'Intervento Umanitario, NdT). L'articolo, intitolato “Five Things the US should Consider in Libya” (“5 cose sulla Libia che gli USA dovrebbero considerare”), riportava una forte critica contro l'intervento NATO in quanto in violazione delle condizioni necessarie affinché un intervento umanitario possa avere successo. Ancora più importante, però, era la sua affermazione che “nonostante la presenza ormai generalizzata di fotocamere cellulari, non c'era nessuna immagine di violenze o genocidi, affermazioni che sanno di propaganda ribelle”. Quindi, dopo 4 settimane, non ero il solo a non trovare alcuna prova della storia del massacro aereo. Io ho in seguito scoperto che l'argomento era caldo da più di 15 giorni, perché il 2 Marzo, nelle audizioni al Congresso americano di Gates e dell'ammiraglio Mike Mullen, Capo dello Stato Maggiore Congiunto, entrambi hanno riferito di non avere conferme o dossier sull'uso di mezzi aerei da parte Gheddafi per bombardare i suoi cittadini. La storia era falsa, così come falsa era la storia che circolava nell'agosto 1990 sulle truppe irachene che massacravano i bimbi del Kuwait spegnendo le loro incubatrici, o le affermazioni contenute nel dossier “abbellito” sulle armi di distruzione di massa di Saddam. Ma come

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Mohammed Khider, uno dei fondatori dell'FLN, ha detto una volta, “quando tutti ripetono una falsità, questa diventa reale”. La corsa verso il cambio del regime attraverso una guerra era iniziata e non poteva essere interrotta. L'intervento macchiava ognuno dei principi che la parti in guerra invocavano per giustificarlo. Ha causato la morte di migliaia di civili, svilito l'idea di democrazia e della legge e ha fatto passare una rivoluzione contraffatta per una vera. Due affermazioni che erano sempre ripetute – e che erano fondamentali alla scelta occidentale di entrare in guerra – erano che Gheddafi stava “uccidendo la sua stessa gente” e che aveva “perso ogni legittimazione”, quest'ultima presentata come un corollario della prima. Entrambe le affermazioni contenevano delle mistificazioni. “Uccidere la sua stessa gente” è una scusa vecchia usata nella precedente guerra contro Saddam Hussein. In entrambi i casi suggerisce due cose: che il despota è un mostro e che non rappresenta più nulla nella sua società che governa. È tendenzioso e disonesto dire semplicemente che Gheddafi stesse “uccidendo la sua stessa gente”: stava uccidendo coloro che gli si stavano ribellando. Lo stava facendo come ogni altro governo nella storia che fronteggiasse una ribellione. Siamo tutti liberi di preferire i ribelli al governo in ogni caso – ma il merito relativo delle due parti non è il punto in questa situazione, il punto è il diritto di uno stato di difendere se stesso contro sovversioni violente. Questo diritto, una volta accettato come corollario della sovranità, è ora compromesso. Teoricamente è sottoposto a certe regole, ma, come abbiamo visto, l'invocazione di tali regole (per esempio, nessun genocidio), può andare di pari passo con una cinica esagerazione (o distorsione) dei fatti da parte di altri stati. Di fatto, non ci sono regole definite: un paese può reprimere una rivolta se uno degli stati con potere di veto al Consiglio di Sicurezza lo permette (vedi Bahrein, Sri Lanka). E se uno stato pensa di avere questa autorizzazione informale a difendersi perché è in buone relazioni con Londra, Parigi e Washington e sta onorando tutti i suoi accordi con loro (come stava facendo la Libia) dovrebbe comunque stare attento. Le condizioni possono cambiare da un giorno all'altro – la questione è arbitraria, e l'arbitrarietà è l'opposto della legge. L'idea che Gheddafi non rappresentasse nulla nella società libica, che se la stava prendendo con la sua intera popolazione e che tutto il suo popolo era contro di lui è una distorsione dei fatti. Come è possibile vedere dalla lunghezza della guerra, dall'ampiezza della dimostrazione pro-Gheddafi a Tripoli il 1 Luglio, dalla fiera resistenza che le sue forze hanno messo in campo, dal fatto che ai ribelli sia occorso più di un mese per arrivare a Bani Walid e un altro mese per arrivare a Sirte, si può capire come il regime di Gheddafi godesse di un sostanziale supporto – così come l'NTC. La società libica era divisa e la divisione politica rappresentava in sé un segno di sviluppo positivo, in quanto significava la fine della vecchia politica di unanimità della Jamahiriyya. Sotto questa luce, il ritratto occidentale del “popolo libico” uniformemente in lotta contro Gheddafi aveva un'implicazione sinistra, precisamente perché insinuava l'idea del ritorno di una nuova unanimità occidentalizzata nella vita libica. Questa idea, profondamente antidemocratica, andava di pari passo con l'idea, altrettanto antidemocratica, che in assenza di consultazioni elettorali o anche solo di un sondaggio per assicurasi della visione dei libici, i governi inglese, francese ed americano avevano il diritto e l'autorità di determinare chi era parte del popolo libico e chi no. Nessuno che supportasse il regime di Gheddafi contava – e, visto che non faceva parte del popolo libico, non faceva parte nemmeno dei civili da proteggere. E infatti non sono stati protetti: sono stati uccisi dagli attacchi aerei della NATO e dalle unità ribelli incontrollate. Il numero di vittime civili dalla parte sbagliata della guerra alla fine sarà molte volte il numero di morti al 21 febbraio. Ma non contano, non più di quanto contino le migliaia di giovani uomini dell'esercito di Gheddafi che hanno innocentemente pensato di far parte, anche loro, del “popolo libico”, e che stavano facendo il loro dovere verso il loro stato quando sono stati inceneriti dagli attacchi aerei della NATO o giustiziati in esecuzioni di massa illegali dopo la cattura, come a Sirte. Lo stesso disprezzo per i principi democratici ha caratterizzato le ripetute dichiarazioni che in occidente Gheddafi aveva “perso ogni legittimazione”. Ogni stato ha bisogno di riconoscimento internazionale e in questo modo dipende da fonti esterne di legittimazione, ma l'ideale democratico dà priorità al livello nazionale su quello internazionale. Con la loro affermazione della perdita di legittimazione, le potenze occidentali stavano non solo prevenendo un'eventuale elezione in Libia in grado di fotografare effettivamente l'opinione pubblica, ma stavano anche copiando il regime di Gheddafi: nella Jamahiriyya, il popolo veniva inneggiato come strumento di legittimazione superiore.

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“Se lo rompi, è tuo”: la famosa frase usata da Colin Powell per avvertire l'establishment di Washington dei rischi di una nuova guerra in Iraq. La lezione del caos iracheno è stata ben appresa, almeno al punto in cui le potenze occidentali e la NATO hanno ripetuto che il popolo libico – l'NTC e le milizie rivoluzionarie – era proprietaria della sua rivoluzione. Quindi, non possedendo la Libia del dopo-Gheddafi, la NATO, Londra, Parigi e Washington non possono essere accusate di averla rotta, o essere ritenuti responsabili dei suoi debiti. Il risultato è uno spettacolo di ombre cinesi. L'NTC occupa ora la posizione centrale in Libia, ma da febbraio ogni decisione chiave è stata presa nelle capitali occidentali in incontri avuti a Londra, Parigi, o Doha con altri membri, specialmente arabi, del “gruppo di contatto”. È improbabile che la struttura di potere e il sistema di decision-making che hanno guidato la “rivoluzione” da marzo cambieranno radicalmente. E quindi, a meno che qualcosa non vada a modificare i calcoli fatti da NATO e NTC finora, quello che emergerà sarà probabilmente un sistema di potere duale in qualche modo analogo a quello della Jamahiriyya stessa, e allo stesso modo nemica della responsabilizzazione tipica di una democrazia. Un sistema, quindi, in cui un metodo formalmente corretto di decision-making per questioni di secondo piano farà da facciata ad un sistema separato ed indipendente, perché basato all'estero, che prenderà decisioni su tutte le questioni davvero importanti (petrolio, gas, acqua, finanza, commercio, sicurezza, geopolitica) da dietro le quinte. Il governo formale della Libia sarà un junior partner dei nuovi sponsor occidentali. Sarà quindi, a conti fatti, ben più simile alla vecchia monarchia che alla Jamahiriyya.

*Hugh Roberts è uno studioso e giornalista esperto di Nord Africa; nel corso della sua attività ha svolto incarichi accademici, di ricerca e di consulente. Ha diretto il Progetto Nord Africa dell'International Crisis Group dal 2002 al 2007 e poi da Febbraio a Giugno 2011. È stato recentemente nominato Professore di Storia del Nord Africa e del Medio Oriente presso la Tufts University (USA). La sua ultima pubblicazione è Berber Government: the Kabyle polity in pre-colonial Algeria (Il Governo Berbero: La polity di Kabyle nell'Algeria pre-coloniale).

Segnalazioni

In uscita Osservatorio Mediterraneo n. 2 Il numero 2 di Osservatorio Mediterraneo uscirà il 5 dicembre. Il focus di questo mese è su Libia ed Egitto. Come si sta muovendo il paese dopo l'uccisione di Gheddafi? Quali sono le sfide del CNT? Che peso dare alle dichiarazioni del nuovo leader ad interim? Queste ed altre le questioni che verranno trattate in questo numero. E inoltre aggiornamenti dall'Egitto dopo le manifestazioni degli ultimi giorni con il dettaglio degli schieramenti elettorali e una intervista a Gianluca Parolin, docente alla American University del Cairo. Infine, due brevi schede su Tunisia e Marocco con alcune prime reazioni ai risultati elettorali.

La Libia del post Gheddafi è al centro di questo numero dell'Osservatorio. La barbara uccisione del colonnello, le dichiarazioni sulla Sharia del leader Jalil e le trasformazioni del CNT offrono uno spaccato interessante sulle trasformazioni in atto in questo paese. Per comprendere al meglio tali mutamenti due box di approfondimento trattano, rispettivamente, la struttura del CNT (con brevi biografie delle principali figure politiche che stanno guidando il paese), e le dichiarazioni di Jalil sulla Sharia.

Oltre alla Libia una parte consistente di questo numero è dedicata all'Egitto. Qui la situazione è diventata estremamente fluida dopo le manifestazioni che a partire dal 18 novembre stanno scuotendo il paese. Una riflessione di insieme cerca di riflettere sui possibili scenari politici, anche alla luce dei primissimi risultati elettorali. Uno spazio speciale è dedicato all'intervista a Gianluca Parolin, giurista esperto di diritto islamico, docente all'American University del Cairo. Un breve aggiornamento, infine è lasciato a Tunisia e Marocco del post elezioni.

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02-12-2011 "Economic Relations between Italy and Mediterranean Area" Napoli, Banco di Napoli, Sala delle Assemblee, via Toledo 177-178 - ore 9,30

SRM - Studi e ricerche per il Mezzogiorno presenta il primo rapporto annuale su "Economic Relations between Italy and Mediterranean Area".

Il report è il risultato del lavoro dell'Osservatorio permanente sull'economia mediterranea SRM-Med.

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03-12-2011 Il Global Entrepreneurship Summit Istanbul

Il Global Entrepreneurship Summit si svolgerà a Istanbul dal 3 al 6 dicembre e vedrà la partecipazione di oltre 1.000 imprenditori di successo dalla Turchia e dal mondo.

All'edizione 2011 dovrebbero intervenire il vicepresidente americano Joe Biden e il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Tra i temi in agenda, la creazione di una cultura imprenditoriale adatta allo sviluppo sostenibile e la cooperazione globale tra gli imprenditori.

05-12-2011 La nuova Libia: rapporti economici e commerciali dopo la caduta di Gheddafi Torino

L'Istituto Paralleli e IaI - Istituto Affari Internazinali, in collaborazione con le Camere di Commercio di Torino, Gevova e Promos di Milano, Cipmo, con il sostegno della Compagnia di San Paolo e la Rappresentanza a Milano della Commisione europea, organizzano una tavola rotonda a porte chiuse sugli scenari economici e commerciali futuri in Libia. Per offrire alcune indicazioni al mondo camerale e delle imprese, saranno presenti testimoni privilegiati e profondi conoscitori di quest'area geografica a dare il loro contributo.

15-12-2011 FEMISE Annual Conference Marsiglia

The 2011 FEMISE annual Conference will take place this year on December 15-16th in Marseille, France. The theme of this year is on “The Arab Awakening and the Role of the EU-Med Partnership”. You can download the conference concept note (here), the detailed agenda will be soon available.

The conference consists in three plenary sessions where keynote speakers from the North and the South will address the theme of the conference and share their views with the participants. The conference will also include parallel sessions where members of the FEMISE network will present their recent research outputs in the areas of: sustainable development, migration, macroeconomic impacts of recent crisis, employment and well-being, etc…

The FEMISE annual Conference is considered a platform where researchers from the network, partners, officials from Euromed institutions, the European Commission, the European Investment Bank and distinguished keynote speakers meet to exchange their views on priority issues to the EU-Med region.