1 GIORGIO DE CHIRICO E IL PROBLEMA METAFISICO Premessa Tra le molteplici sollecitazioni che il poderoso Editoriale di Ferdinando Bologna (apparso sui nn. 0 e 1 della neo-nata rivista di studi e ricerche di storia dell’arte europea «Confronto») può continuare a suscitare ad ogni sua saggia rilettura, sembrano potersi enucleare queste tre esortazioni: studiare la storia dell’arte attraverso i documenti offerti dalla contingenza storica; indagare le peculiarità espressive che “intrinsecamente” il linguaggio figurativo possiede in quanto strumento di comunicazione del pensiero (anzi quale forma di “oggettivazione” del pensiero); diffidare di contro di quelle categorie extra-artistiche o meta-storiche che vorrebbero per certi versi quasi prescindere dal fatto artistico stesso, per cercare intenzionalità ed ideologie dell’artefice al di là perfino della perentorietà del testo, fino a consentire ad esempio a Massimo Firpo - aderendo in tal modo all’«officio della religione» piuttosto che al «mestiero del dipingere» - di ricostruire la sensibilità religiosa di Lotto al di là della sua produzione artistica (e dove si ritrova quasi un’eco delle affermazioni del Longhi, ad andarsi a rileggere le storiche «Proposte per una critica d’arte» del 1950, quando avvertiva dei rischi di scivoloni da parte della critica d’arte verso un «esprit de géometrie» che non tenesse in buon conto quello di «finesse»). Questa pur estrema semplificazione interpretativa di un pensiero evidentemente più alto, può tuttavia giovare come introduzione di metodo allo studio dei cosiddetti “manifesti artistici” di tante avanguardie del Novecento (ma chiamando in causa non tanto i movimenti storici in sé – che rientrano a buon titolo nell’ “oggetto” dell’indagine - quanto alcuni atteggiamenti critici che le hanno analizzate). Epperò anche guardando ai “manifesti in sé”, gli ammonimenti di approccio teorico e metodologico riaffermati da Bologna inducono quantomeno a virgolettare anche taluni programmi di intenti (qualora fossero riguardati, ad esempio, come sorta di “critica ante rem”), dovendosi in realtà anche in quel caso prestare attenzione al dato in sé, come fattore significante e qualificante, ovvero all’esito effettivo che l’opera d’arte ha prodotto sul pubblico e nel tempo, rispetto alle intenzioni a monte, più o meno esplicitate appunto programmaticamente dai manifesti, così come rispetto alle poetiche individuali quando sono dichiarate. In particolare, interrogandoci sul portato effettivo della vantata pittura “metafisica” di Giorgio De Chirico (autodefinizione sì, ma accordata dalla critica, e che le recenti mostre di Merano e di Roma hanno anzi sembrato rilanciare), viene da porsi la seguente questione: in che senso la pittura di Giorgio De Chirico può realmente chiamarsi “metafisica” stando almeno all’accezione strettamente filosofica che diamo al termine con cui De Chirico volle definire quella sua stagione artistica, al di là cioè di un’accezione contingente, riformulata e in qualche modo aggiornata da parte della cultura contemporanea? Sembra in sostanza problematico – pur nella consapevolezza di una rivisitazione attuata dalla filosofia tardo-ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della mitologia greche - in primo luogo inquadrare tout court la reale portata semantica di una possibile “metafisica” agli esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali nuovi rapporti possa stabilire una teoria puramente filosofica - per quanto, appunto, “rivisitata” - con il manifesto programmatico della pittura dechirichiana, la quale per suo conto si configura in realtà come la mera “poetica” dell’artista (che è cosa ben diversa rispetto ad una più generale e fondante teoria estetica). Non si tratta pertanto, e ovviamente, di una qualche censura dell’elaborazione teorica di De Chirico - della quale non possiamo, con buona pace delle riserve longhiane, che prendere atto - ma della constatazione di come la critica non abbia forse affrontato sufficientemente il problema della decodificazione di una citazione tolta dal pensiero antico – e che a mio avviso nella sostanza resta invece relegata nella cultura greca -, e non si sia in realtà preoccupata dei riscontri “pittorici” di quell’elaborazione teorica.
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GIORGIO DE CHIRICO E IL PROBLEMA METAFISICO
Premessa
Tra le molteplici sollecitazioni che il poderoso Editoriale di Ferdinando Bologna (apparso sui nn.
0 e 1 della neo-nata rivista di studi e ricerche di storia dell’arte europea «Confronto») può
continuare a suscitare ad ogni sua saggia rilettura, sembrano potersi enucleare queste tre
esortazioni: studiare la storia dell’arte attraverso i documenti offerti dalla contingenza storica;
indagare le peculiarità espressive che “intrinsecamente” il linguaggio figurativo possiede in
quanto strumento di comunicazione del pensiero (anzi quale forma di “oggettivazione” del
pensiero); diffidare di contro di quelle categorie extra-artistiche o meta-storiche che vorrebbero
per certi versi quasi prescindere dal fatto artistico stesso, per cercare intenzionalità ed ideologie
dell’artefice al di là perfino della perentorietà del testo, fino a consentire ad esempio a Massimo
Firpo - aderendo in tal modo all’«officio della religione» piuttosto che al «mestiero del
dipingere» - di ricostruire la sensibilità religiosa di Lotto al di là della sua produzione artistica (e
dove si ritrova quasi un’eco delle affermazioni del Longhi, ad andarsi a rileggere le storiche
«Proposte per una critica d’arte» del 1950, quando avvertiva dei rischi di scivoloni da parte
della critica d’arte verso un «esprit de géometrie» che non tenesse in buon conto quello di
«finesse»).
Questa pur estrema semplificazione interpretativa di un pensiero evidentemente più alto, può
tuttavia giovare come introduzione di metodo allo studio dei cosiddetti “manifesti artistici” di
tante avanguardie del Novecento (ma chiamando in causa non tanto i movimenti storici in sé –
che rientrano a buon titolo nell’ “oggetto” dell’indagine - quanto alcuni atteggiamenti critici che
le hanno analizzate). Epperò anche guardando ai “manifesti in sé”, gli ammonimenti di approccio
teorico e metodologico riaffermati da Bologna inducono quantomeno a virgolettare anche taluni
programmi di intenti (qualora fossero riguardati, ad esempio, come sorta di “critica ante rem”),
dovendosi in realtà anche in quel caso prestare attenzione al dato in sé, come fattore significante
e qualificante, ovvero all’esito effettivo che l’opera d’arte ha prodotto sul pubblico e nel tempo,
rispetto alle intenzioni a monte, più o meno esplicitate appunto programmaticamente dai
manifesti, così come rispetto alle poetiche individuali quando sono dichiarate.
In particolare, interrogandoci sul portato effettivo della vantata pittura “metafisica” di Giorgio
De Chirico (autodefinizione sì, ma accordata dalla critica, e che le recenti mostre di Merano e di
Roma hanno anzi sembrato rilanciare), viene da porsi la seguente questione: in che senso la
pittura di Giorgio De Chirico può realmente chiamarsi “metafisica” stando almeno all’accezione
strettamente filosofica che diamo al termine con cui De Chirico volle definire quella sua stagione
artistica, al di là cioè di un’accezione contingente, riformulata e in qualche modo aggiornata da
parte della cultura contemporanea? Sembra in sostanza problematico – pur nella consapevolezza
di una rivisitazione attuata dalla filosofia tardo-ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della
mitologia greche - in primo luogo inquadrare tout court la reale portata semantica di una
possibile “metafisica” agli esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali nuovi
rapporti possa stabilire una teoria puramente filosofica - per quanto, appunto, “rivisitata” - con il
manifesto programmatico della pittura dechirichiana, la quale per suo conto si configura in realtà
come la mera “poetica” dell’artista (che è cosa ben diversa rispetto ad una più generale e
fondante teoria estetica).
Non si tratta pertanto, e ovviamente, di una qualche censura dell’elaborazione teorica di De
Chirico - della quale non possiamo, con buona pace delle riserve longhiane, che prendere atto -
ma della constatazione di come la critica non abbia forse affrontato sufficientemente il problema
della decodificazione di una citazione tolta dal pensiero antico – e che a mio avviso nella
sostanza resta invece relegata nella cultura greca -, e non si sia in realtà preoccupata dei riscontri
“pittorici” di quell’elaborazione teorica.
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È il caso ad esempio del saggio di Paolo Fossati, La “pittura metafisica” (Torino 1988), dove
l’autore non si confronta con il portato teoretico del termine “metafisica” (sia quella
“particolare” intesa da De Chirico, sia quella che dipende più direttamente dall’originario
postulato greco; né sembra del resto che il pensiero filosofico moderno abbia formulato in
generale delle nuove edizioni della Metafisica).
Appare ad esempio limitante intendere il rapporto con la Metafisica come mero «riaprire il
discorso sulla classicità degli antichi» (p. XV), o credere che «il “metafisico” si prepara a dar
rappresentazione classica alla contemporaneità» (ibidem); così come credo che l’insistere sul
valore del «racconto» (pp. XVII-XVIII) non renda merito ad un’istanza autenticamente
metafisica.
Occorre forse, pertanto, tentare di capire cosa intendesse realmente De Chirico per “metafisica”
(e al tempo stesso cosa non avesse chiaro, di quel pensiero, sospettando quasi che egli fosse
affascinato piuttosto dalle lusinghe affabulatorie – e in questo, sembrerebbe, “mentalistiche” -
del termine); altresì la ricerca sulla sua pittura - che resta l’oggetto ultimo dell’indagare - non
può essere viziata, come Bologna stesso ammonisce, dai fattori «inerenti alla dimensione ‘colta’
di ordine mentalistico, scritturale e letterale». In direzione del tutto diversa va invece la più
generale attualizzazione della cultura greca operata da pensatori come Nietzsche (che invece va
tenuto in conto per De Chirico) o Freud.
. . .
Come è noto, Giorgio De Chirico intitolò la sua prima e più fortunata stagione artistica
alla “Metafisica”, e tuttora la critica accetta e riconosce quell’appellazione, pur inserendo spesso
De Chirico nell’ambito del Surrealismo (ancora alla fine degli anni ’80 a Luc Vezin il passaggio
tra meta-fisica e sur-realismo non appariva molto difficile).
Vale tuttavia la pena chiedersi – nella constatazione ancora di una mancata formulazione di un
quesito analogo - in che senso la pittura di De Chirico possa realmente chiamarsi “metafisica”
stando all’accezione strettamente filosofica che diamo al termine, al di là cioè di quella
contingente, riformulata dal pittore ma già in qualche modo aggiornata da parte della cultura
contemporanea. Sembra in sostanza problematico – pur nella consapevolezza, va ripetuto, di una
rivisitazione attuata dalla filosofia tardo ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della
mitologia greca1 - inquadrare in primo luogo la reale portata semantica di una “metafisica” agli
esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali eventuali effetti potesse stabilire una
teoria puramente filosofica, per quanto rivisitata, con il manifesto programmatico della pittura
dechirichiana, la quale si configura in realtà come una “poetica” individuale piuttosto che una
vera e propria teoria estetica.
A volerlo inserire nelle problematiche culturali contemporanee, il termine metafisica ci appare
subito nuovo, ed estremamente difficoltoso suona da subito ogni tentativo di stabilirne legami
con accezioni paragonabili, tanto il termine sembra restare conchiuso in un ambito filosofico
peculiare del pensiero antico. Ancor prima di verificare insomma in che stravolgimento
semantico la “metafisica” sia stata intesa da De Chirico, sembra necessario verificare quale
attualità il termine possa avere in sé, specie rispetto al dibattito sull’arte così come si andava
sviluppando nel primo Novecento.
Occorre riflettere del resto, in generale, fino a quale soglia qualsiasi nuova metafora del pensiero
antico riesca “nei fatti” – che nello specifico sono gli esiti artistici del fare pittorico stesso - a
salvaguardarne identità e riconoscibilità, e nel nostro caso il problema diventa quello di capire se
un termine preciso come “metafisica” non debba sempre e comunque - data l’univocità della sua
1 Sostanzialmente si deve a Nietzsche una reinterpretazione della cultura greca alla luce delle istanze del post-
hegelismo, e successivamente a Freud l’adozione di numerosi episodi della mitologia come parametri interpretativi,
o veri canoni ermeneutici, della propria teoria psicanalitica.
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fortuna storica - rinviare al seguente significato sostanziale: “una concezione di ordine superiore
o assoluto delle cose, in cui queste trovano giustificazione ultima e compimento”, e di