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1 GIORGIO DE CHIRICO E IL PROBLEMA METAFISICO Premessa Tra le molteplici sollecitazioni che il poderoso Editoriale di Ferdinando Bologna (apparso sui nn. 0 e 1 della neo-nata rivista di studi e ricerche di storia dell’arte europea «Confronto») può continuare a suscitare ad ogni sua saggia rilettura, sembrano potersi enucleare queste tre esortazioni: studiare la storia dell’arte attraverso i documenti offerti dalla contingenza storica; indagare le peculiarità espressive che “intrinsecamente” il linguaggio figurativo possiede in quanto strumento di comunicazione del pensiero (anzi quale forma di “oggettivazione” del pensiero); diffidare di contro di quelle categorie extra-artistiche o meta-storiche che vorrebbero per certi versi quasi prescindere dal fatto artistico stesso, per cercare intenzionalità ed ideologie dell’artefice al di là perfino della perentorietà del testo, fino a consentire ad esempio a Massimo Firpo - aderendo in tal modo all’«officio della religione» piuttosto che al «mestiero del dipingere» - di ricostruire la sensibilità religiosa di Lotto al di là della sua produzione artistica (e dove si ritrova quasi un’eco delle affermazioni del Longhi, ad andarsi a rileggere le storiche «Proposte per una critica d’arte» del 1950, quando avvertiva dei rischi di scivoloni da parte della critica d’arte verso un «esprit de géometrie» che non tenesse in buon conto quello di «finesse»). Questa pur estrema semplificazione interpretativa di un pensiero evidentemente più alto, può tuttavia giovare come introduzione di metodo allo studio dei cosiddetti “manifesti artistici” di tante avanguardie del Novecento (ma chiamando in causa non tanto i movimenti storici in sé che rientrano a buon titolo nell’ “oggetto” dell’indagine - quanto alcuni atteggiamenti critici che le hanno analizzate). Epperò anche guardando ai “manifesti in sé”, gli ammonimenti di approccio teorico e metodologico riaffermati da Bologna inducono quantomeno a virgolettare anche taluni programmi di intenti (qualora fossero riguardati, ad esempio, come sorta di “critica ante rem”), dovendosi in realtà anche in quel caso prestare attenzione al dato in sé, come fattore significante e qualificante, ovvero all’esito effettivo che l’opera d’arte ha prodotto sul pubblico e nel tempo, rispetto alle intenzioni a monte, più o meno esplicitate appunto programmaticamente dai manifesti, così come rispetto alle poetiche individuali quando sono dichiarate. In particolare, interrogandoci sul portato effettivo della vantata pittura “metafisica” di Giorgio De Chirico (autodefinizione sì, ma accordata dalla critica, e che le recenti mostre di Merano e di Roma hanno anzi sembrato rilanciare), viene da porsi la seguente questione: in che senso la pittura di Giorgio De Chirico può realmente chiamarsi “metafisica” stando almeno all’accezione strettamente filosofica che diamo al termine con cui De Chirico volle definire quella sua stagione artistica, al di là cioè di un’accezione contingente, riformulata e in qualche modo aggiornata da parte della cultura contemporanea? Sembra in sostanza problematico pur nella consapevolezza di una rivisitazione attuata dalla filosofia tardo-ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della mitologia greche - in primo luogo inquadrare tout court la reale portata semantica di una possibile “metafisica” agli esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali nuovi rapporti possa stabilire una teoria puramente filosofica - per quanto, appunto, “rivisitata” - con il manifesto programmatico della pittura dechirichiana, la quale per suo conto si configura in realtà come la mera “poetica” dell’artista (che è cosa ben diversa rispetto ad una più generale e fondante teoria estetica). Non si tratta pertanto, e ovviamente, di una qualche censura dell’elaborazione teorica di De Chirico - della quale non possiamo, con buona pace delle riserve longhiane, che prendere atto - ma della constatazione di come la critica non abbia forse affrontato sufficientemente il problema della decodificazione di una citazione tolta dal pensiero antico e che a mio avviso nella sostanza resta invece relegata nella cultura greca -, e non si sia in realtà preoccupata dei riscontri “pittorici” di quell’elaborazione teorica.
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De Chirico e il problema metafisico

Mar 11, 2023

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Page 1: De Chirico e il problema metafisico

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GIORGIO DE CHIRICO E IL PROBLEMA METAFISICO

Premessa

Tra le molteplici sollecitazioni che il poderoso Editoriale di Ferdinando Bologna (apparso sui nn.

0 e 1 della neo-nata rivista di studi e ricerche di storia dell’arte europea «Confronto») può

continuare a suscitare ad ogni sua saggia rilettura, sembrano potersi enucleare queste tre

esortazioni: studiare la storia dell’arte attraverso i documenti offerti dalla contingenza storica;

indagare le peculiarità espressive che “intrinsecamente” il linguaggio figurativo possiede in

quanto strumento di comunicazione del pensiero (anzi quale forma di “oggettivazione” del

pensiero); diffidare di contro di quelle categorie extra-artistiche o meta-storiche che vorrebbero

per certi versi quasi prescindere dal fatto artistico stesso, per cercare intenzionalità ed ideologie

dell’artefice al di là perfino della perentorietà del testo, fino a consentire ad esempio a Massimo

Firpo - aderendo in tal modo all’«officio della religione» piuttosto che al «mestiero del

dipingere» - di ricostruire la sensibilità religiosa di Lotto al di là della sua produzione artistica (e

dove si ritrova quasi un’eco delle affermazioni del Longhi, ad andarsi a rileggere le storiche

«Proposte per una critica d’arte» del 1950, quando avvertiva dei rischi di scivoloni da parte

della critica d’arte verso un «esprit de géometrie» che non tenesse in buon conto quello di

«finesse»).

Questa pur estrema semplificazione interpretativa di un pensiero evidentemente più alto, può

tuttavia giovare come introduzione di metodo allo studio dei cosiddetti “manifesti artistici” di

tante avanguardie del Novecento (ma chiamando in causa non tanto i movimenti storici in sé –

che rientrano a buon titolo nell’ “oggetto” dell’indagine - quanto alcuni atteggiamenti critici che

le hanno analizzate). Epperò anche guardando ai “manifesti in sé”, gli ammonimenti di approccio

teorico e metodologico riaffermati da Bologna inducono quantomeno a virgolettare anche taluni

programmi di intenti (qualora fossero riguardati, ad esempio, come sorta di “critica ante rem”),

dovendosi in realtà anche in quel caso prestare attenzione al dato in sé, come fattore significante

e qualificante, ovvero all’esito effettivo che l’opera d’arte ha prodotto sul pubblico e nel tempo,

rispetto alle intenzioni a monte, più o meno esplicitate appunto programmaticamente dai

manifesti, così come rispetto alle poetiche individuali quando sono dichiarate.

In particolare, interrogandoci sul portato effettivo della vantata pittura “metafisica” di Giorgio

De Chirico (autodefinizione sì, ma accordata dalla critica, e che le recenti mostre di Merano e di

Roma hanno anzi sembrato rilanciare), viene da porsi la seguente questione: in che senso la

pittura di Giorgio De Chirico può realmente chiamarsi “metafisica” stando almeno all’accezione

strettamente filosofica che diamo al termine con cui De Chirico volle definire quella sua stagione

artistica, al di là cioè di un’accezione contingente, riformulata e in qualche modo aggiornata da

parte della cultura contemporanea? Sembra in sostanza problematico – pur nella consapevolezza

di una rivisitazione attuata dalla filosofia tardo-ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della

mitologia greche - in primo luogo inquadrare tout court la reale portata semantica di una

possibile “metafisica” agli esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali nuovi

rapporti possa stabilire una teoria puramente filosofica - per quanto, appunto, “rivisitata” - con il

manifesto programmatico della pittura dechirichiana, la quale per suo conto si configura in realtà

come la mera “poetica” dell’artista (che è cosa ben diversa rispetto ad una più generale e

fondante teoria estetica).

Non si tratta pertanto, e ovviamente, di una qualche censura dell’elaborazione teorica di De

Chirico - della quale non possiamo, con buona pace delle riserve longhiane, che prendere atto -

ma della constatazione di come la critica non abbia forse affrontato sufficientemente il problema

della decodificazione di una citazione tolta dal pensiero antico – e che a mio avviso nella

sostanza resta invece relegata nella cultura greca -, e non si sia in realtà preoccupata dei riscontri

“pittorici” di quell’elaborazione teorica.

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È il caso ad esempio del saggio di Paolo Fossati, La “pittura metafisica” (Torino 1988), dove

l’autore non si confronta con il portato teoretico del termine “metafisica” (sia quella

“particolare” intesa da De Chirico, sia quella che dipende più direttamente dall’originario

postulato greco; né sembra del resto che il pensiero filosofico moderno abbia formulato in

generale delle nuove edizioni della Metafisica).

Appare ad esempio limitante intendere il rapporto con la Metafisica come mero «riaprire il

discorso sulla classicità degli antichi» (p. XV), o credere che «il “metafisico” si prepara a dar

rappresentazione classica alla contemporaneità» (ibidem); così come credo che l’insistere sul

valore del «racconto» (pp. XVII-XVIII) non renda merito ad un’istanza autenticamente

metafisica.

Occorre forse, pertanto, tentare di capire cosa intendesse realmente De Chirico per “metafisica”

(e al tempo stesso cosa non avesse chiaro, di quel pensiero, sospettando quasi che egli fosse

affascinato piuttosto dalle lusinghe affabulatorie – e in questo, sembrerebbe, “mentalistiche” -

del termine); altresì la ricerca sulla sua pittura - che resta l’oggetto ultimo dell’indagare - non

può essere viziata, come Bologna stesso ammonisce, dai fattori «inerenti alla dimensione ‘colta’

di ordine mentalistico, scritturale e letterale». In direzione del tutto diversa va invece la più

generale attualizzazione della cultura greca operata da pensatori come Nietzsche (che invece va

tenuto in conto per De Chirico) o Freud.

. . .

Come è noto, Giorgio De Chirico intitolò la sua prima e più fortunata stagione artistica

alla “Metafisica”, e tuttora la critica accetta e riconosce quell’appellazione, pur inserendo spesso

De Chirico nell’ambito del Surrealismo (ancora alla fine degli anni ’80 a Luc Vezin il passaggio

tra meta-fisica e sur-realismo non appariva molto difficile).

Vale tuttavia la pena chiedersi – nella constatazione ancora di una mancata formulazione di un

quesito analogo - in che senso la pittura di De Chirico possa realmente chiamarsi “metafisica”

stando all’accezione strettamente filosofica che diamo al termine, al di là cioè di quella

contingente, riformulata dal pittore ma già in qualche modo aggiornata da parte della cultura

contemporanea. Sembra in sostanza problematico – pur nella consapevolezza, va ripetuto, di una

rivisitazione attuata dalla filosofia tardo ottocentesca di alcuni spunti della cultura e della

mitologia greca1 - inquadrare in primo luogo la reale portata semantica di una “metafisica” agli

esordi del XX secolo, e in secondo luogo indagare quali eventuali effetti potesse stabilire una

teoria puramente filosofica, per quanto rivisitata, con il manifesto programmatico della pittura

dechirichiana, la quale si configura in realtà come una “poetica” individuale piuttosto che una

vera e propria teoria estetica.

A volerlo inserire nelle problematiche culturali contemporanee, il termine metafisica ci appare

subito nuovo, ed estremamente difficoltoso suona da subito ogni tentativo di stabilirne legami

con accezioni paragonabili, tanto il termine sembra restare conchiuso in un ambito filosofico

peculiare del pensiero antico. Ancor prima di verificare insomma in che stravolgimento

semantico la “metafisica” sia stata intesa da De Chirico, sembra necessario verificare quale

attualità il termine possa avere in sé, specie rispetto al dibattito sull’arte così come si andava

sviluppando nel primo Novecento.

Occorre riflettere del resto, in generale, fino a quale soglia qualsiasi nuova metafora del pensiero

antico riesca “nei fatti” – che nello specifico sono gli esiti artistici del fare pittorico stesso - a

salvaguardarne identità e riconoscibilità, e nel nostro caso il problema diventa quello di capire se

un termine preciso come “metafisica” non debba sempre e comunque - data l’univocità della sua

1 Sostanzialmente si deve a Nietzsche una reinterpretazione della cultura greca alla luce delle istanze del post-

hegelismo, e successivamente a Freud l’adozione di numerosi episodi della mitologia come parametri interpretativi,

o veri canoni ermeneutici, della propria teoria psicanalitica.

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fortuna storica - rinviare al seguente significato sostanziale: “una concezione di ordine superiore

o assoluto delle cose, in cui queste trovano giustificazione ultima e compimento”, e di

conseguenza debba persistere necessariamente un riferimento fondante all’essere (sia esso inteso

come concetto puro, mente suprema o potenza soprannaturale) in grado di trascendere, e in ogni

caso risolvere, la dimensione umana - fisica, appunto - della vita e del mondo. Sembra

necessario cioè che la metafisica continui a porsi essenzialmente come l’approdo positivo alla

conoscenza e alla rappresentazione del reale, pena la destituzione della propria identità

semantica.

Per quanto il Nostro non abbia mai attribuito alla sua metafisica un senso verticale tale da

suggerire, come dice Renato Barilli, “chissà quali sforzi per raggiungere un aldilà, per ispirare

una trascendenza mistica”2, tuttavia l’allusione specifica al modello filosofico greco sembra

autorizzato dallo stesso De Chirico dacché l’immaginario figurativo della sua pittura rimanda

costantemente all’immaginario della cultura ellenica.

Una tale premessa contiene pertanto l’avvertenza di una difficoltà di fondo nell’immaginare una

metafisica che rinunci a risolvere il trascorrere del tempo e il divenire delle cose in una

dimensione di eternità o appunto di “meta” storicità, sebbene nei quadri di De Chirico, a ben

vedere, contingenza storica (l’oggettistica quotidiana) e particolarità temporale sembrano

imporsi per una perentorietà programmatica che non può essere trascurata; gli oggetti quotidiani

reclamano tutta la loro condizione di presente, la propria precisazione temporale: occhiali da

sole, guanti di gomma, stampini da pasticcere, squadre da geometra e gli stessi manichini da

sartoria (benché accettati ormai nell’immaginario figurativo contemporaneo addirittura quali

simboli di metafisicità rappresentata) non fanno che sottolineare quest’istanza di storicità.

Sembra in realtà già individuarsi, in tal senso, un primo elemento di incoerenza rispetto alla

metafisica tout court.

Un ulteriore scoglio è offerto dalla trattazione dechirichiana degli ambienti e dello spazio. Lo

stesso recupero della prospettiva rinascimentale rimanda ad uno spazio “chiuso, definito, da cui

nessuno può sfuggire”, e dove “tutto vi è esibito, inchiodato al mistero della presenza” (Barilli).

Ovvero, tutto è puntualizzato storicamente, il tempo si è lì fermato a sottolineare un momento

transeunte; in che modo intendere allora come “metafisiche” le “storicizzate” piazze italiane,

datate e fino enfatizzate da certa tradizione incisoria, congelate nelle collezioni dei musei e

replicate addirittura in mille esercitazioni nelle accademie di Belle Arti; fissate insomma in una

prospettiva che le incatena ad un momento della storia, dove passano “storici” treni a vapore,

dove stanno “storici” palazzi e portici quattrocenteschi?

Ma le tele di De Chirico propongono altri esempi in cui il tempo esprime la sua mutevolezza e

contraddittorietà; esaminando “Enigme d’un départ” e “Après-midi d’un faune” ci si accorge

subito di alcuni stravolgimenti spazio-temporali: è chiamato in causa innanzitutto un agente

“fenomenico” come il vento, tanto violento da tenere diritte le bandiere in cima alle ciminiere

(altro imbarazzante elemento di quotidianità) ma allo stesso tempo ininfluente sul fumo del treno

a vapore; ancora, le ombre piegate in direzioni opposte fanno quasi presupporre l’esistenza di più

soli. Si tratta insomma di una compresenza contraddittoria e inconciliabile di più momenti del

tempo, che non soltanto non trovano il loro reciproco legame, ma soprattutto non si risolvono -

come “metafisicamente” dovrebbero - in una unità assoluta e a-temporale.

Questi elementi contrastanti, aggiunti ad altri come ad esempio la moltiplicazione dei punti di

fuga della prospettiva e lo strano modellato della figura di Arianna, giocano a fornire una

sensazione di precarietà e caducità angosciosa del mondo, dove tarda ad intervenire il valore

positivo, rasserenante e liberatorio – se non catartico – dell’essere metafisico. L’enigma, quasi

invocato da De Chirico, resta irrisolto, imbarazzante, avvolto e costretto nel suo ineluttabile

mistero. Lo stesso Vezin notava come “tout n’est ici qu’apparence dénoncée” ed aggiungeva poi

che “Chirico transforme son Atelier en un assemblage incertain d’instruments de géomètre, de

mannequins, autant d’artifices qui font pressentir qu’au-delà de la peinture le monde, lui-même,

n’est qu’une apparence”. Dov’è la metafisica in questo “assemblage incertain”, in questa

2 R. BARILLI, L’arte contemporanea - Da Cézanne alle ultime tendenze, CDE, Milano 1984.

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“apparence dénoncée”, in quest’assenza di “au-delà”? Se doveva riproporsi davvero l’antica

dicotomia greca tra essere e divenire, ebbene De Chirico sembrerebbe stare tutto dentro un

divenire contraddittorio, angoscioso, privo di speranza, dove della metafisica non rimarrebbe

semmai che l’accezione negativa ed iconoclastica che Hegel dava dell’assoluto di Schelling: “la

notte nera in cui tutte le vacche bianche sono nere”, cioè un nulla, un non-essere, un’illusione, in

sostanza un falso problema. In quest’assenza, le notti misteriosofiche di De Chirico, come la

notte di Schelling, si configurano addirittura come una “antimetafisica”.

Diventa opportuno a questo punto mettere a fuoco, tra quei riferimenti filosofici di cui si permea

la formazione di De Chirico, alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, che emergono

espressamente fin dall’osservazione della solitudine dei paesaggi dechirichiani, dove nella

perdita di ogni certezza e valore superiore si direbbe che urli lo Zarathustra nietzschiano: “Dio è

morto, perché noi l’abbiamo ucciso”; così il sentimento di malinconia notturna che vi spira

sembra rimandare ancora a Zarathustra: “Ecco che mi assale e mi domina questo spirito di

malinconia, questo demonio del crepuscolo”. Sfugge davvero su quali basi teoriche il giovane

nietzschiano e schopenaueriano De Chirico potesse correttamente fondare una nuova stagione

metafisica.

La tesi che scaturisce direttamente da questa sostanziale contestazione – nei “fatti” -

dell’autentico senso metafisico della poetica dechirichiana può apparire riduttiva o retorica, tanto

l’obiezione della necessità di un intendimento traslato e metaforico con cui intendere la citazione

filosofica è tentata di prevalere su di una lettura “letterale” dei riferimenti addotti dall’artista, ma

a chi scrive, alla luce di queste e di successive considerazioni, non pare azzardato contrapporre

una lettura di De Chirico in chiave “decadente”, dove anzi egli venga a configurarsi come

l’ultimo esponente del decadentismo italiano.

Rispetto a quest’assunto che si tenterà di esplicitare occorre riprendere il discorso su Nietzsche,

ma non prima di introdurre una serie di connessioni con la parabola idealistica tedesca, la poetica

del romanticismo e quella del successivo decadentismo crepuscolare di carattere misteriosofico,

fattori utili a spiegare angosce, malinconie, notti inquietanti popolate da strani fantasmi,

insomma tutta l’atmosfera della prima pittura dechirichiana. E come sembrano tornare i temi – se

non proprio i personaggi o i luoghi - pensando sulla scia di una tradizione ossianica a Novalis

degli Inni alla notte, ma anche a Rimbaud e Lautréamont! Quanto sembrano invece lontane e

inconciliabili le atmosfere, che immaginiamo assolate, dell’agorà greca, dove la prassi della

dialettica dissipava incongruenze e oscurità del mondo degli uomini, dove regnava serafico il

filosofo-re o il demiurgo!

Eppure, si accennava in un inciso, le sollecitazioni figurative dell’immaginario tardo-romantico e

crepuscolare – che in realtà viene ad esaltare la mitologia germanica - non compaiono nelle tele

del Nostro, le quali nei luoghi e nei personaggi alludono perentoriamente al mondo classico.

Quale grecità dunque? È forse demandato ancora a Nietzsche la possibilità di una risposta,

quando fornisce con “La nascita della tragedia, ovvero Grecità e pessimismo” il viatico

moderno per penetrare l’essenza stessa del mondo greco: il pessimismo. Se infatti in senso

ontologico l’alternativa a Parmenide era Eraclito, il dipinto che più direttamente rinvia al

problema del tempo, “L’enigma dell’ora”, ammicca perversamente all’antimetafisico esponente

del “παντα ρεί” piuttosto che all’eternità immobile dell’eleatismo parmenideo. Rispetto a questa

questione Luc Vezin ci ricorda proprio Eraclito: “Le temps est un enfant qui joue”, e allude “à

une condition qui ressemble à celle de l’homme moderne livré‚ sans les béquilles de la religion,

à un temps prêt à les dévorer”.

Insomma, a voler usare le pur viete dicotomie del pensiero antico, laddove è chiamata la

metafisica a giustificazione ontologica della conoscenza, De Chirico risponde puntualmente agli

stimoli ermeneutici della sua antitesi.

Ma sostiamo ancora su Nietzsche e sulla sua interpretazione della grecità; con il tedesco essa non

si ripartisce soltanto nel dualismo filosofico tra essere e non essere - su di un piano cioè

prettamente ontologico - ma l’antinomia si sposta finalmente sul piano del problema estetico,

divenendo fondamentale per la comprensione ultima della tematica dechirichiana. È nota la

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parallela distinzione nietzschiana di “apollineo” e “dionisiaco” nella cultura greca, così come è

sviluppata nel citato “La nascita della tragedia” del 1872. Mi servirò appunto di questo testo

come guida alla comprensione del senso più profondo del “dionisiaco” in De Chirico.

Quanto gli “enigmi” del Nostro si approssimino al registro più pessimistico della cultura greca e

si allontanino sintomaticamente dalla sua antitesi dell’olimpo apollineo (ossia dalla bellezza

solare e “irenizzante”, per usare un termine di Adorno riferito sostanzialmente a questa stessa

questione), è intrinseco in un passo di Nietzsche, sicuramente noto a De Chirico: “Il greco

conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: soprattutto per poter vivere, egli dové

anteporre a queste la splendida nascita onirica degli dei olimpici. Quell’enorme diffidenza verso

le forze titaniche della natura, quella Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze,

quell’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, quel destino tremendo del saggio

Edipo, quella maledizione della stirpe degli Atridi, che induce Oreste al matricidio, insomma

tutta quella filosofia del dio silvestre coi suoi esempi mitici (…) fu dai Greci continuamente

superata, o in ogni caso nascosta e sottratta allo sguardo, attraverso quel ‘mondo’ artistico

‘intermedio’ ”3.

Si allude in sostanza alla vittoria dell’apollineo sul dionisiaco: la suprema e definitiva risoluzione

del dubbio, dell’enigma, dell’equivoco – e fino del senso più tragico e inquietante della vita - in

una superiore dimensione positiva (che Nietzsche chiama “l’impulso apollineo alla bellezza”,

“l’olimpico ordinamento divino della gioia”). Trasponendo questa conclusione nelle possibilità

espressive dell’arte, l’imitazione dechirichiana della grecità mette in campo non già i caratteri

positivi della bellezza plastica bensì quelli più atroci delle contraddizioni dionisiache; i suoi

stessi riferimenti alle statue greche non sono ispirati da una volontà di bellezza, ma da una

tendenza al “brutto”, ad un’estetica negativa e pessimistica del brutto (e qui ci torna di conto il

pensiero di Adorno), informate proprio alle giustificazioni dionisiache a cui guarda Nietzsche.

Solo in tal senso finiamo per spiegarci definitivamente lo strano modellato dell’Arianna, e in

sostanza la tendenza di deformare e irridere l’armonia neoclassica della statuaria, la graduale

riduzione delle loro pose plastiche fino alla spersonalizzazione e alla stilizzazione dei manichini

– nell’adulazione estetica di un idolo che Longhi apostroferà come “dio ortopedico” -; nelle

atmosfere notturne dei quadri di De Chirico c’è tutto il dionisiaco di Nietzsche, c’è davvero

un’abiura della bellezza classica e non già la sua esaltazione, c’è dunque un’atmosfera

eminentemente antimetafisica - ma che come si è detto resta saldamente “greca” -, una tendenza

all’irrazionale e al mutevole che non casualmente porterà De Chirico a conchiudere la sua

parabola approdando al “neo-barocco”.

Ma notiamo ancora una circostanza: per Nietzsche l’arte classica intesa in chiave apollinea si

fondava simbolicamente sul sogno; tuttavia il suo sogno non si staccava mai dalla realtà, anzi ne

costituiva il sostrato, la più ultima giustificazione metafisica: “sebbene delle due metà della vita,

quella della veglia e quella del sogno, la prima ci appaia senza paragone come la preferibile, la

più degna e più importante, (…) io vorrei però sostenere proprio l’opposta valutazione del

sogno, in rapporto a quel misterioso fondo della nostra essenza, del quale noi siamo

l’apparenza”.

L’apparenza del sogno - e Nietzsche parla di “metafisica congettura” – diventa allora “anelito

verso l’apparenza”, “apparenza dell’apparenza”, concludendo che “ciò che veramente è, l’uno

originario, in quanto eterno sofferente e pieno di contraddizioni, ha contemporaneamente

bisogno per la sua continua redenzione della visione estatica, della gioiosa apparenza”. Il sogno

così inteso, ossia l’apollinea apparenza, non è più - continua Nietzsche – “ciò che non è, ossia un

continuo divenire nel tempo, nello spazio e nella casualità”, ma un “ancor più alto appagamento

dell’originario desiderio dell’apparenza” (egli per altro precisa che il divenire e la casualità non

sono apollinei ma dionisiaci, proprio come gli enigmi dechirichiani sul tempo).

Siamo di fronte ad una religiosità senza morale né spiritualità (“niente qui ricorda ascesi,

spiritualità e dovere: qui ci parla soltanto un’esistenza (…) trionfante (…) nella quale tutto

l’esistente è reso divino, non importa se buono o cattivo”); tuttavia viene ventilata una sorta di

3 F. W. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, 1872, trad. italiana nell’ed. Newton Compton, Roma 1988, cap. 3.

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“metafisica estetica” che intende l’apollineo come condizione di unione ingenua di reale e

apparente, di veglia e sogno, come “completo scomparire nella bellezza dell’apparenza”. Ed è,

in ogni caso, un anelito di unità e risoluzione delle angosce nella bellezza, ossia ancora

nell’apollineo.

Val la pena a questo punto di domandarsi se l’arte di De Chirico sia davvero così concepita, se

risponda cioè a queste premesse filosofiche sulla metafisica (alla luce del dualismo

nietzschiano), o se invece - o non piuttosto - quello scomparire dell’apparenza nella bellezza resti

frustrato, rimanga una suprema illusione, un anelito irenizzante che non troverà la sua

idealizzazione formale; viene davvero da chiedersi se De Chirico cercò realmente nella grecità la

bellezza (cui peraltro non fa mai accenno, se non negli scritti autobiografici degli anni ‘50), o se

non affermò di fatto il tema dell’enigma irrisolto, la fascinazione della musa inquietante, la

condizione della partenza come permanente stato di precarietà; se insomma non tese

scientemente al dionisiaco come frattura esistenziale piuttosto che all’apollineo nietzschiano

come sintesi ideale nella bellezza. Se l’apollineo rimanda ad una sintesi estetica di sogno

(apparenza) e realtà di tipo metafisico, di nuovo: le notti inquietanti e perdute di De Chirico sono

il suo contrario, sono l’antimetafisico dionisiaco.

De Chirico è del resto alieno dal “conosci te stesso” e dal “non troppo”, con cui Nietzsche allude

alla “misura”: al contrario egli è dionisiacamente nell’eccesso; e la figura del Grande Metafisico

(che sarà anche dell’antigrazioso Carrà) cela la metafora del suo più autentico antagonista, ossia

il “titano” del mondo barbarico o pre-apollineo, l’eccesso al di fuori della misura.

Ora, tutte le figure dechirichiane sono eccezioni (o eccessi titanici) rispetto alla misura apollinea;

e in questo senso essi sembrano seguire la sorte dei titani dionisiaci di cui parla Nietzsche: “(…)

a causa del suo amore titanico per gli uomini, Prometeo dovette essere lacerato dagli avvoltoi;

per la sua straordinaria saggezza, che sciolse l’enigma della sfinge, Edipo dovette precipitare in

un vortice sconvolgente di misfatti”.

Così, si diceva, le figure dechirichiane: sono eroi, ma troppo individualmente buoni e amorevoli

(come Ettore nel celebre accorato saluto alla moglie Andromaca e al figlio Astianatte) per

risultare vincitori; “grandi metafisici” saggi come Edipo, ma ancora spropositatamente titanici

rispetto alla misura dell’estetica apollinea del bello (cfr. “La rivolta del saggio”). Nietzsche:

“l’individuo con tutti i suoi limiti e misure cadde nell’oblio di sé, proprio degli stati dionisiaci e

dimenticò i canoni apollinei”.

De Chirico è poi nietzschiano nei temi in modo quasi programmatico, mirando a tradurre

perentoriamente in immagini le affermazioni e i sentimenti del tedesco; non è qui il caso di

sostare troppo sul tema della malinconia (già da molti affrontato) se non per ricordare

rapidamente come esso ricalchi nel suo significato la definizione stessa di Nietzsche: “la

differenza tra tristezza e malinconia è questa: che la tristezza esclude il pensiero, la malinconia

se ne alimenta”. E questa malinconia “pensierosa” invade oltre che l’omonimo dipinto anche il

primo autoritratto del pittore (col versetto: ET QUID AMABO NISI QUOD AENIGMA EST?): egli si ritrae

col braccio posato sulla guancia in posizione meditativa e malinconica secondo l’atteggiamento

famoso che fu di Nietzsche, e che rievoca chiaramente quella emblematica di un più antico

tedesco, Albrecht Dürer.

L’altro tema nietzschiano preso alla lettera è poi quello espresso nel versetto del succitato

autoritratto, che informerà quasi tutti i dipinti della fase “metafisica”: l’enigma. Dirà Nietzsche

che tutto nella vita non è che enigma, l’unica logica possibile è la logica dell’enigma.

Enigma e malinconia: e l’interprete della “melancolia” è Arianna, come in Nietzsche; ha scritto a

questo proposito il compianto Maurizio Fagiolo Dell’Arco: “I quadri dipinti nel 1913 vedono

sistematicamente la presenza di Arianna, nella piazza d’Italia (…) sotto la statua scrive la

parola MELANCONIA rivelando il vero senso della sua ricerca. (...) Arianna è come lui

malinconica, ma anche Nietzsche si avvicinava ad Arianna proclamandosi il suo Dioniso e il suo

labirinto. (…) “Arianna è il momento della scienza (quando aiuta Teseo ad entrare nel labirinto

e sconfiggere il Minotauro), è il momento della malinconia (quando viene abbandonata da

Teseo), è il momento dell’ebbrezza (quando viene conquistata da Dioniso). È, insomma, la

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personificazione della ‘gaya scienza’ nicciana”. Chiaramente, il senso dechirichiano della

“convalescenza” che fa partorire i suoi primi quadri non è altro che l’ “ebbrezza” del tedesco.

Ugualmente, la suggestione figurativa del viandante nel meriggio che lascia la sua ombra ricorda

“Il viandante e la sua ombra”, secondo volume di “Umano troppo umano” (1879).

Occorre infine confrontare l’approccio nietzschiano con l’elemento architettonico del “portico” e

il sentimento del tempo in De Chirico. Si pensi ai portici delle piazze d’Italia, o specialmente al

quadro “L’enigma dell’ora” che raffigura un edificio con un orologio sulla facciata nuda e sotto

un grosso portico, e lo si spieghi alla luce di quanto Enzo Paci4 ha detto del problema del tempo

in Nietzsche: “il problema del tempo in tutta la sua enigmatica profondità è simboleggiato da

Zarathustra nella rappresentazione del portico a cui conducono due cammini che nessuno ha

mai percorso fino in fondo. Il portico è l’attimo, l’istantaneità assoluta dell’esistenza. Le due vie

sono lo straniarsi del tempo da se stesso, il rivelarsi dell’attimo esistenziale come punto

d’incontro di due eternità: il passato e il futuro (…), l’assurdo di due eternità inconcepibili e

l’identificazione nell’istante di tutto il passato e di tutto il futuro. L’istante è quindi l’eternità? Il

divenire è l’essere? Questo è l’enigma di cui Nietzsche-Dioniso si sentirà sempre più

depositario”.

Sembra fuor di dubbio che l’immagine ricorrente del portico nella pittura dechirichiana e il suo

accostamento all’enigma del tempo costituiscano una delle tematiche attinte a piene mani dalla

lettura di “Così parlò Zarathustra”.

Comunque la si voglia intendere, la “grecità” di De Chirico non esce dalle opposizioni proprie

della cultura antica, “uno-molteplice”, “essere-divenire”, “essere-non essere”. Insomma De

Chirico è e resta “greco”. L’apparato mitologico ed ideologico della Grecia antica fungono

tuttavia, nella cultura del Novecento, da “chiave ermeneutica” della spiritualità dell’uomo (lo si

ammetteva all’inizio), sono di fatto una struttura allegorica in cui simbolicamente si racchiude

l’essenza stessa dell’uomo (o le sue contraddizioni più laceranti), e comunque appaiono come la

fonte ancestrale con cui l’uomo “storico” del nostro tempo si confronta.

Spetta probabilmente proprio a Nietzsche il titolo di aver riproposto i miti antichi come simboli

moderni; e probabilmente, come osserva Furio Jesi, la “scienza del mito” è uno dei portati

fondamentali della cultura del Novecento: “Dal primo romanticismo tedesco del circolo di

Heidelberg fino ad oggi (…) la ‘scienza del mito’ o ‘della mitologia’ è stata ed è un progetto di

possibilità di conoscenza (…)”5.

In questo senso Freud, in questo senso forse lo stesso nostro Pavese dei Dialoghi con Leucò, in

questo senso - allora - il pittore Giorgio De Chirico. Egli riesce in tal modo a superare

quell’ambito antico, quella sterile dicotomia, pur continuando a rappresentarne l’immaginario. E’

questo il salto, lo stravolgimento semantico che cercavamo all’inizio, allorché si contestava

l’adesione della metafisica al suo significato originario e filosoficamente canonico.

Così i templi pagani, gli uomini col peplo, le are e i pezzi di colonne, gli aurighi, i centauri, i

dioscuri, i fauni, i personaggi epici come Ettore ed Andromaca, Arianna, le muse inquietanti, la

Sfinge sono presenze chiare, inequivocabili. Quanto poi questo immaginario sia spontaneo e

sincero, quanto invece soffocato dal riciclaggio di certo eclettismo borghese, è un altro

problema, che definirei “archeologico”.

Del resto il ritorno alle origini, “le rappel à l’ordre”, non aveva - anche per quanto s’è detto - il

senso di un recupero di uno stato virtuale o di perfezione: all’uomo del primo Novecento mancò,

lo abbiamo osservato, la volontà di purezza e di bellezza, tutto costretto dentro le proprie

lacerazioni; egli non ebbe quel desiderio sereno di ritorno all’antico che poteva aver avuto,

poniamo, l’uomo dell’Umanesimo. Così neppure in De Chirico lo slancio verso l’antichità

classica poteva essere quella “filologica ed etica” di un Leon Battista Alberti o di un Giuliano da

San Gallo: l’approccio del Nostro resta per forza di cose frammentario, singhiozzante, disperato,

approssimato, in una parola: spurio.

4 E. PACI, Federico Nietzsche, 1940. 5 Dall’introduzione a “La nascita della tragedia” di F. W. Nietzsche.

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E quanto questo teatrino di personaggi possa sapere alla lunga di paccottiglia antiquaria, di

reperto museale, non deve stupire, ché in certa misura anche tutto ciò appartiene al

decadentismo. Indubbiamente le citazioni in molti casi riconducono a polverosi depositi delle

Accademie di Belle Arti, a camminate in vecchi musei, ad orribili copie in gesso dei capolavori

per la vanità di vecchie magioni, al gusto perverso per reliquiari ed anticaglie, ad intellettuali -

forse - con “pantofole e papalina”, sebbene le stanze più anguste del nostro Decadentismo, quelle

gozzaniane per capirci, certa deformazione libresca del passato, certo gusto provinciale del falso

storico (della colonnina stuccata sulla loggetta della villetta del benpensante) non sembravano

aver contagiato il Nostro.

Tale maniacale tendenza all’anticaglia è certamente appena tangenziale rispetto al complesso

glossario figurativo di De Chirico e alle sue esperienze d’oltralpe, ma ne costituisce, per certi

aspetti, una concreta e paradossale fonte di ispirazione.

Il richiamo alla Grecia è complesso ma al tempo ingenuo e prevedibile: quello che lo nobilita

resta comunque l’afflato misteriosofico che di tutta la “grecità negativa” riesce a spirarvi:

giustamente Barilli parla di “carica fantasmica”, di deliri, di misteri non svelati.

Permane un ultimo lacerante dubbio (o enigma?), poiché comunque la si voglia intendere la

metafisica è dichiarata, sbandierata con sicurezza dal Nostro: un’ultima spiegazione s’impone,

seppure in uno stravolgimento completo dell’attribuzione semantica.

Per Luc Vezin, lo si è accennato all’inizio, l’equivalenza tra ‘meta-fisico’ e ‘sur-realismo’ è

evidente in virtù di una similitudine etimologica, ma siamo già - accostandoci al Surrealismo - in

un ambito in cui l’uomo non esce mai da se stesso, in cui semmai approfondisce sempre più il

proprio scavo interiore, il proprio stato inconscio. Renato Barilli ci aiuta dicendo che “il ‘meta’ è

da intendersi come un’operazione volta ad indicare degli spostamenti laterali, quasi di

collocazione: prendere le immagini dai luoghi in cui si trovano usualmente e portarle altrove,

possibilmente facendo subire loro una trasferta notevole (nel tempo, nella storia degli stili, nello

spazio dei vari contesti quotidiani in cui ci muoviamo)”.

Così è infatti per il Surrealismo: nella sua tendenza a superare la logica del mondo fenomenico, il

surrealismo non lo trascende ma ne cerca semmai uno parallelo, quello onirico, in cui appunto gli

oggetti sono confusi, hanno una nuova logica associativa che non è più - o soltanto - quella

fenomenica. È possibile pertanto che si ritrovino, nella pittura surrealista, le contraddizioni e le

incongruenze del mondo degli oggetti; l’apparente straniamento di situazioni non è altro che la

ricerca di una realtà più complessa, “assoluta” in quanto piena anche della dimensione onirica.

Dirà Breton, padre del surrealismo: “Je crois à la résolution future de ces deux états, (…) que

sont le rêve et la réalité, en une sorte de réalité absolue, de surréalité, si l’on peut ainsi dire”6.

Pertanto, superamento non come trascendenza ma come sintesi, rapporto non verticale ma di

assemblaggio parallelo. In questo senso vanno intesi gli spostamenti laterali riferiti da Barilli.

C’è un altro punto di contatto con il Surrealismo, ed è la stessa operazione a favore di una pittura

figurativa rispetto alla tendenza opposta delle avanguardie. Rispetto cioè all’esaltazione della

tecnica rappresentativa (il “significante”) nei confronti del contenuto stesso dell’opera (il

“significato”) da parte di movimenti come Cubismo Dadaismo e Futurismo, la posizione di De

Chirico così come dei surrealisti è opposta: se il “modo” di rappresentare, ossia il significante,

non ha ragione di essere rivoluzionato e pertanto resta accademico (anzi per surrealisti come

Magritte diventa iperrealista, nello stile “pompier”) al contrario si stravolge completamente il

“significato”.

Concluderei riprendendo per un attimo il discorso sul tempo. Anche nel surrealismo c’è

contraddizione e stravolgimento della percezione del tempo, ma la spiegazione è chiara: nella

ricerca di una dimensione assoluta, in cui il sogno e il ricordo hanno pari realtà del mondo

fenomenico, il divenire non c’è più; tutta la storia vive in un presente totalizzante; le rievocazioni

di antiche civiltà hanno lo stesso peso di realtà di quanto non l’abbiano gli oggetti della

quotidianità. Nell’unità del sogno coesistono infatti cose che nella natura sarebbero lontane nel

tempo e nello spazio.

6 A. BRETON, Manifestes du surréalisme, 1924, ed. Gallimard, Saint-Amand 1987.

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Ma si resta, così, con l’interrogativo irrisolto, poiché alla fine parrebbe quasi resuscitare un

concetto metafisico. Metafisica o campo dell’assurdo, dunque? Ed infine, come suggerirebbe

Kierkegaard: “perché non piuttosto il nulla?”.

Occorre ora introdurre una strana ed insolita relazione, quasi una parentela, forse una sorta di

vita parallela: Giorgio De Chirico come Ugo Foscolo.

Il rapporto nasce dalla constatazione della loro comune origine greca e si articola per una serie di

circostanze che per ora chiamiamo coincidenze; è innanzitutto un fatto che tanto De Chirico

quanto Foscolo intraprendessero la propria “avventura italiana” in compagnia della madre e di un

fratello, e che per entrambi queste figure risultassero cruciali: quella forte della madre esule e

quella tenue ed affettuosa del fratello: il compianto Giovanni per il Foscolo, Andrea – o se

vogliamo il pittore musicista scrittore Savinio, l’altro dioscuro comunque - per De Chirico.

Ma soprattutto un’altra vicenda biografica ed artistica in comune, anzi un luogo: Santa Croce a

Firenze. È una presenza fondamentale per entrambi: a Santa Croce Foscolo concepirà i Sepolcri,

dove si rappresenterà l’esempio massimo nelle tombe dei “forti”; a Santa Croce De Chirico

ambienterà il dipinto “Enigma d’un pomeriggio d’autunno” del 1909 che è poi il primo atto della

pittura metafisica.

Come del resto dimenticare il passo dei Sepolcri dedicato a Santa Croce: “Ma più beata ché‚ in

un tempio accolte / Serbi l’itale glorie, uniche forse / Da che le mal vietate Alpi e l’alterna /

Onnipotenza delle umane sorti/ Armi e sostanze t’invadeano ed are / E patria e, tranne la

memoria, tutto” (vv. 180-185). E quando Foscolo ricorda l’Alfieri pare quasi di vedere Giorgio

De Chirico aggirarsi per la piazza cercando la sua metafisica: “E a questi marmi / Venne spesso

Vittorio ad ispirarsi. / Irato a’ patrii Numi, errava muto / ove Arno è più deserto, i campi e il

cielo / desioso mirando; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura, qui passava

l’austero” (vv. 188-194).

Se fin qui sta il fato, questa improbabile corrispondenza biografica tra Foscolo e De Chirico

suggerisce altre simmetrie, ben più profonde, onde il parallelo poteva in un certo senso prestarsi

alla formulazione di una tesi che pare scaturire dalle considerazioni finora fatte e cui fin

dall’inizio si accennava, ovvero di una lettura “decadentista” di De Chirico, volendolo anzi

l’ultimo grande esponente del decadentismo italiano.

Ma torniamo al Foscolo. Si diceva della comune origine greca, ed è interessante constatare da

subito come la grecità abbia influenzato entrambi, dialogando con gli altri stimoli culturali. In

effetti l’incertezza foscoliana tra temi neoclassici ed aspirazioni preromantiche può ricordare la

stagione “inquietante e notturna” della pittura di Giorgio De Chirico: essa infatti tende,

figurativamente, a reinterpretare in modo nuovo le sollecitazioni di un immaginario classico; la

contaminazione dechirichiana tra solarità classica e notti inquietanti ed enigmatiche ha senz’altro

un precedente nel foscoliano atteggiamento di sovrapposizione di atmosfere lugubri e tenebrose

e di citazioni ossianiche ad un parnassiano mondo classico dove regna una bellezza statica e

contemplativa. La stessa giustapposizione semantica di “muse”-“inquietanti” parrebbe alludere

ad un neoclassicismo tinto di angosce preromantiche, o ad una armonica bellezza delle Grazie

che adombri già gli squallori di Ossian; e saremmo con questo, a mio vedere, in un’atmosfera

prettamente foscoliana.

Insistendo su queste corrispondenze (peraltro abbastanza agevoli se si rimane ad un livello

prettamente lessicale, ma sicuramente più difficoltose andando a cercare un riscontro figurativo

nelle opere), non sembrano stare troppo lontani tra loro concetti come quello delle “illusioni”

foscoliane e quello degli “enigmi” dechirichiani: la stessa contraddizione pessimistica che le

illusioni stabiliscono tra una ricerca consolatoria del bello e dell’amore da un lato e la perentoria

delusione esistenziale dall’altro, sembra aleggiare all’interno di una generale disillusione della

vita e di un male di vivere che l’umore dechirichiano sottintende, e contro cui nulla possono di

fatto neppure le presenze consolatorie di una grecità lusingata.

Il pessimismo - già romantico - del Foscolo è un sicuro antecedente dell’incomprensione

decadente per il senso della vita che ispira gli “enigmi”.

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Del resto la reazione spiritualistica che si ripiega su se stessa, dopo i falsi trionfi della ragione, è

concomitante: verso l’Illuminismo, per Foscolo; nei confronti di una stagione positivista e

realista, per De Chirico; reazioni ad una visione solare e positiva della vita che è poi tutta

contemplata all’interno dei due cammini artistici, rappresentata fondamentalmente nella

propensione comune alla mitologia classica.

Pare, allora, che in questo senso vada interpretato il ruolo della grecità in entrambi e, per quello

che maggiormente ci interessa, in De Chirico: ossia come termine dialettico che si oppone alla

disperazione dell’uomo contemporaneo, come ricerca di certezze contro la consapevolezza della

relatività del tutto, come anelito – ma solo anelito - alla bellezza contro le tentazioni verso

un’estetica del brutto. E con questo non aggiungiamo nulla rispetto a quell’alternativa di spunti

neoclassici e tormenti preromantici che è in Foscolo.

In tal senso, inoltre, la ricerca della mitologia classica del Foscolo corrisponde alle memorie

archeologiche dechirichiane dello stesso immaginario classico: le muse, i centauri, le colonne, i

templi, le statue mute ecc., anzi il punto d’incontro tra classicità e decadenza, tra bellezza

musaica e tormenti interiori, in buona sostanza tra “appollineo” e “dionisiaco” (una distinzione

che già - come contraddizione - l’età napoleonica di Foscolo aveva avvertito) è il medesimo in

Foscolo come in De Chirico un secolo dopo.

Il punto dove grazia e bellezza si “imbarazzano” per il sopraggiungere di ansie psicologistiche e

sentimentalistiche resta la “melancolia”; in essa la bellezza altera e virile delle statue greche si

ripiega su se stessa, reclina il capo come in un momento di sconforto; è l’apollineo che si

umanizza: è Foscolo che non riesce più a contemplare staticamente una bellezza ideale ed

astratta (tutta concettuale e priva di debolezze o imperfezioni), ma è ugualmente il De Chirico

delle statue solitarie, poste al centro di piazze deserte, col capo reclinato, non più sicure delle

loro pose fidiache e ora adagiate, rilasciate, sconfitte; e questo - insomma la descrizione del

dipinto “Melanconia” del 1912 - altro non è che decadentismo, solo decadentismo, una lunga

stagione metastorica che si inizia col protoromantico Foscolo e pervadendo tutto l’Ottocento

italiano si conclude con “l’avanguardista” De Chirico. Dunque, l’ambiguità di un sentimento

incerto che non è più sicurezza e pace ma che non è ancora angoscia e dolore: melancolia,

appunto. Di certe affinità, di questo rapporto trovato, sono abbastanza eloquenti i titoli dei quadri

di De Chirico, spesso incentrati su di un tema - l’esilio - che sarebbe stato caro al Foscolo: ad

esso corrisponde “L’énigme du départ”, “L’angoisse du départ”, la “Mélancolie du départ”, e

poi “L’énigme de l’arrivée”, “Le voyage émouvant”, “La nostalgie du poète”, “La joie du

retour”, “Le salut de l’ami lointain”, “Gli addii del poeta”.

Enrico Santangelo