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Cure palliative: non guarire ma curare. Dr. M. DIVELLA Dirig. Medico Clinica Anestesia e rianimazione Az. Ospedaliero-Universitaria Udine
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Cure palliative: non guarire ma curare. Dr. M. DIVELLA Dirig. Medico Clinica Anestesia e rianimazione Az. Ospedaliero-Universitaria Udine.

May 02, 2015

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Bonfilia Casini
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Cure palliative: non guarire ma curare.

Dr. M. DIVELLADirig. Medico Clinica Anestesia e rianimazione

Az. Ospedaliero-Universitaria Udine

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A chi sono rivolte Le cure palliative si rivolgono, oltre a chi soffre di cancro in fase avanzata, anche a

tutta una serie di pazienti con patologie considerate inguaribili. Tra queste, ad esempio, molte malattie croniche che, nonostante non riducano il paziente in "fase terminale", pongono l'ammalato in un profondo stato di sofferenza, facendogli perdere autonomia ed equilibrio psico-fisico.

Più in generale, ogni qualvolta le terapie destinate a controllare l'evoluzione della malattia non sono più efficaci e non è più realistico l'obiettivo di prolungare la vita stessa del paziente.

E' in questi casi, quindi, che diventa importante migliorare la qualità della vita del paziente e questo si traduce nel controllare il dolore nei suoi diversi aspetti, gestire i disturbi fisici che si accompagnano all'estendersi della malattia e dare un sostegno psicologico al malato e alla famiglia, evitandone l'isolamento e la solitudine.

Corli O. "Che cos'è la medicina palliativa", in Corli O. (ed.) Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia. Città Nuova. Roma. 1988.

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L'obiettivo principaleEliminare il dolore: è questo il principale scopo delle terapie

palliative. In ogni malattia o semplice disturbo che sia, infatti, quello che più spaventa è sicuramente la sofferenza, a maggior ragione in chi è costretto a conviverci ogni giorno! Per conoscere il valore del dolore totale la terapia palliativa richiede al medico: di fidarsi del malato e credere in ciò che dice;

di raccogliere un'accurata storia del tipo di dolore del paziente; di valutare l'intensità del dolore e le sue caratteristiche; di valutare gli indici di qualità della vita (le ore di sonno,

l'interferenza con il lavoro o con gli hobby, le influenze sulla vita di coppia, …);

di indagare sulle terapie effettuate in passato o ancora in atto.

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Ultimi giorni dignitosi anche in corsia

Il termine hospice, l'idea di una struttura che assiste chi non può essere curato ma, semmai, deve essere aiutato a morire con dignità non sono più estranei all'opinione pubblica. Tuttavia questo ha spesso spinto a identificare un trattamento idoneo con la presenza dell'hospice, quasi che si potesse trattare adeguatamente i malati terminali soltanto disponendo di un edificio apposito. In realtà, non è proprio così, non fosse altro che per il fatto che gli specialisti in cure palliative sono presenti in buona parte degli ospedali e che comunque, a volte, basta poco per garantire un trattamento più umano.

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Formare il personale Che sia possibile (quasi) ovunque un approccio corretto agli ultimi giorni di vita del

paziente lo ricorda un'esperienza statunitense, condotta in un ospedale della Veteran Administration (il servizio pubblico che si occupa di reduci). In questa struttura di 162 letti è stato attuato un programma di intervento mirato all'assistenza dei malati terminali, che prevedeva sia la formazione del personale medico e infermieristico dei reparti per acuti sia la predisposizione di un "pacchetto" di provvedimenti da prendere, sempre per il medico e l'infermiere, e una griglia per valutare se ci si trova davanti a un paziente terminale o no. Per esempio, si invitava a considerare se era in stato semi-comatoso, se presentava un forte declino della funzionalità renale, se incominciava a manifestarsi l'incapacità di assumere fluidi e altri aspetti importanti. Dopo l'introduzione del programma, che si avvaleva ovviamente anche dell'apporto degli specialisti di cure palliative dell'ospedale, si è controllato se l'approccio era cambiato.

Bailey FA et al. Improving processes of hospital care during the last hours of life. Arch Intern Med. 2005 Aug 8-22; 165(15):1722-7.

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Più attenzione al dolore- 1

La valutazione è stata condotta considerando diversi indicatori. Al primo posto veniva la prescrizione di oppiacei, che sono la scelta più razionale per controllare due dei sintomi più devastanti per molti malati terminali: lo stress respiratorio e il dolore. Poi la presenza di un ordine di non rianimare, elemento importante perché testimonia che il medico ha affrontato con il paziente l'argomento della morte e che, se effettivamente non ci sono stati tentativi di rianimazione, le sue volontà sono state rispettate. Un altro indicatore fondamentale è il tipo di reparto in cui è avvenuto il decesso. Infatti le unità di cure intensive sono inadatte, sia perché significa che il paziente è sottoposto a trattamenti a quel punto inutilmente invasivi (presenza di sonde, intubazioni..) sia perché non consentono ai famigliari di assistere il malato nelle sue ultime ore.

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Risultati I risultati della valutazione sono stati positivi. Il numero delle prescrizioni di oppiacei è aumentato: dal 57% all'83%, così come è aumentato il

numero degli ordini di non rianimare. Di conseguenza è sceso anche il numero dei pazienti che, nell'imminenza della morte, sono stati sottoposti a tentativi di rianimazione (dal 34% al 15%).

Non ci sono stati soltanto dati positivi: per esempio non è calato significativamente il numero di pazienti cui era applicato il sondino nasogastrico, probabilmente, dicono i ricercatori, perché è più facile aggiungere un trattamento che non sospenderne uno;

è, invece addirittura aumentato il numero di pazienti sottoposti a contenzione (cioè legati al letto), un fatto triste ma che, si legge nello studio, può essere attribuito al fatto che erano cambiate le regole in fatto di assicurazione sugli incidenti.

Ovviamente è anche aumentato il numero dei pazienti non più trattabili cui sono state proposte cure palliative a domicilio o il trasferimento a un hospice.

Però, è la conclusione, il fatto più importante è che anche i medici formati alla cura tradizionale, cioè a puntare alla guarigione, hanno cominciato a prestare maggiore attenzione a tutti questi aspetti. Insomma, costruire gli hospice è importante e deve diventare una delle priorità. Ma si può fare molto, con un impegno di risorse anche contenuto, per rendere da subito più umana e dignitosa la morte.

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Gli hospice in Italia L’esperienza italiana in fatto di hospice ha radici non molto lontane, nel 1987 ne esisteva solo uno e

nel 1999 erano ancora 5, i modelli erano quelli esteri non condivisi in Italia, e non erano riconosciuti come servizio utile e indispensabile.

La spinta è arrivata proprio nel 1999 con la Legge n.39 che istituiva dei fondi per la loro costruzione e nel 2002 le strutture sono diventate circa 50, la cui distribuzione sul territorio rimane, però, piuttosto disomogenea: sono presenti in 31 province di 11 regioni, prevalentemente al Nord.

Anche la loro gestione è multiforme: il 45% sono attribuibili al Servizio Sanitario Nazionale, il 33% sono Onlus convenzionate, il 12% sono strutture private convenzionate e il 10% sono strutture religiose.

La metà degli hospice italiani è collocata all’interno di ospedali, la maggior parte prevede dei criteri di ingresso per i pazienti come, per esempio, una definita e limitata attesa di vita, solitamente compresa tra 60 e 180 giorni, e accetta pazienti con stato funzionale più o meno gravemente compromesso.

Il 98% provenienti da reparti oncologici, i restanti sono malati terminali con Aids, sclerosi laterale amiotrofica, morbo di Alzheimer, cirrosi, ictus, cardiomiopatia.

Il responsabile dell’hospice è generalmente un medico che oltre alla coordinazione clinica deve rispondere di problematiche economiche con risposte tecnico-organizzative.

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Dalla teoria alla pratica….

• progetto EoLO (End of Life in Ospedale) Ricerca in Medicina Palliativa “Lino Maestroni” di Cremona, mirato a riconoscere i modi e le circostanze nelle quali i malati muoiono in ospedale. Dr. Franco Toscani, direttore dell’Istituto di Ricerca in Medicina Palliativa “Lino Maestroni”, ONLUS di Cremona. 

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Lo studio EoLOUn dato su tutti. Se è vero che l’ospedale è considerato il luogo

presso il quale si deve guarire, il 70% delle persone finisce lì i suoi giorni. Diventa fondamentale perciò che, con l’affermarsi delle cure palliative, medici ed infermieri riconoscano l’importanza dovuta alla malattia terminale, anche se i passi avanti in questa direzione sono già stati moltissimi.

Lo studio ha riguardato 370 pazienti maggiorenni, tutti deceduti in un periodo di tempo di almeno 1 settimana, ricoverati in 3 ospedali dell’Umbria, 5 della provincia di Firenze e 32 lombardi, tutte strutture con un numero di ricoveri annui superiore a 8000.

Per conoscere come i malati muoiono in ospedale sono state consultate le cartelle mediche ed infermieristiche ed è stato intervistato il personale medico ed infermieristico presente al momento del decesso. I risultati sono degni di nota.

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L’assistenza non cambia

Due gli aspetti più rilevanti messi in evidenza. La terapia non è condizionata dall’imminenza della morte, con sensibile rischio di accanimento terapeutico, e persistono in modo preoccupante sintomi come il dolore forte senza che siano adeguatamente trattati.

La causa di morte della maggioranza dei pazienti è l’insufficienza cardiorespiratoria (70%), mentre una minoranza muore per infezione e per altre cause.

Per più della metà dei pazienti la morte era un evento atteso, dato desunto dalla domanda rivolta agli infermieri su quanti sarebbero stati d’accordo se il giorno prima qualcuno avesse detto loro che il paziente sarebbe morto entro 24 ore. Eppure trattamenti come idratazione per via endovenosa, prelievi ematici di routine, esami invasivi non vengono accantonati.

Accanimento terapeutico? Va detto che molto spesso i curanti cedono alle richieste pressanti dei famigliari, in molti casi restii a

che il malato venga a conoscenza delle proprie condizioni. Ma, secondo Paola Di Giulio, infermiera e co-direttore dell’Istituto cremonese, non basta questo a giustificare ed approvare simili comportamenti. D’altro canto almeno 1/3 dei pazienti la cui morte era attesa sono stati sistemati in camera da soli o in camere multiple a ridotto tasso di occupazione, in modo da garantire la privacy, in ultima analisi offerta da un paravento intorno al letto.

La situazione di terminalità, inoltre, non modifica l’assistenza, perciò i pazienti sono cambiati, lavati e posizionati su un materasso antidecubito nella grande maggioranza dei casi.

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Dolore trascurato

Il 90% dei pazienti nelle 24 ore precedenti il decesso ha un livello totale di dipendenza, non riesce cioè a mangiare, vestirsi, muoversi, lavarsi e il 52% ha un livello di coscienza compromesso, fino al coma (27%).

I sintomi più frequenti sono anoressia e astenia, condizioni che normalmente accompagnano la morte non improvvisa.

Il 72% dei pazienti, poi, ha almeno un sintomo grave, il dolore su tutti. Quasi il 43% dei pazienti, infatti, soffre di dolore cosiddetto importante, di grado forte e fortissimo. Eppure solo il 10% dei pazienti ottiene un controllo completo del dolore con farmaci, una percentuale che sale per i pazienti oncologici.

Perché una percentuale così bassa? Esistono procedure accettate e di notevole efficacia, in grado di controllare i sintomi. Il dolore, per

esempio, può essere abolito mediante sedazione farmacologica profonda del malato. Sintomi come la sofferenza e il distress tra l’altro vengono percepiti anche in condizioni di alterazione dello stato di coscienza.

Nonostante queste premesse oltre l’80% degli infermieri intervistati al termine della ricerca giudicano buona o ottima la loro gestione dei malati. Ma, concludono gli autori della ricerca, non è da escludere l’aspetto culturale che ancora sottovaluta la qualità di vita del malato a vantaggio della componente tecnico-scientifica. Come a dire che in una lista di priorità prima viene la correttezza degli interventi eseguiti sul malato poi la sua qualità di vita.

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Verso una nuova cultura

Il quadro complessivo emerso dallo studio, comunque, è tutto sommato positivo. Alcuni passi però vanno ancora fatti perché la buona cura dei morenti diventi uno degli indicatori tout court dell’assistenza.

Perché il percorso sia completo deve essere annoverata una efficace gestione dei sintomi e la cura di elementi tradizionalmente considerati secondari come privacy e comfort.

E soprattutto va rifiutato qualsiasi tentativo di accanimento medico e diagnostico. Ecco perché è necessario un Osservatorio Nazionale sulla morte in ospedale, rivolto a tutti gli operatori sanitari e agli amministratori sensibili al problema, con il dichiarato intento di traghettare la trasformazione in questo settore della sanità italiana.

Ma la sanità italiana ha i soldi per dare priorità alle cure terminali?

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Ma lo spinello non c’entra!

I farmaci sono tre in realtà e si chiamano dronabinolo, nabilone più la miscela sintetica dei due.

Il nabilone è un derivato sintetico del tetraidrocannabinolo (THC), che è il capostipite delle svariate sostanze chimiche appartenenti alla famiglia dei cannabinoidi. La sua efficacia è stata dimostrata in vari studi clinici nei casi di nausea e vomito secondari a chemioterapia. E per tale uso è stato registrato, per esempio, in Gran Bretagna. Ma un altro utilizzo già ampiamente sperimentato riguarda il trattamento sintomatico dei disturbi correlati all’AIDS.

Dronabinolo, l’altro farmaco approvato THC sintetico, si è dimostrato efficace nella stimolazione dell’appetito dei pazienti malati di AIDS. E con questo uso è stato registrato dall’esigente FDA statunitense. A questi utilizzi si aggiunge naturalmente la terapia del dolore, visto che le proprietà analgesiche dei cannabinoidi sono note da tempo.

La prospettiva futura è quella di poter utilizzare questi farmaci nella terapia del dolore per malattie che vanno dalla sclerosi multipla all’artrite reumatoide. A lenire il presunto scandalo poi potrebbe essere l’informazione che i farmaci non si fumano, bensì vengono somministrati per via inalatoria, come un aerosol. Ma sono allo studio anche cerotti che rilasciano principi attivi attraverso la pelle.

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Gli ultimi giorni: gestione

• Quando oltre ai criteri “tecnici” causa di sospensione di cure specifiche (avvenuta settimane o mesi prima) si osservino tutti o alcuni di questi segni:– Allettamento prolungato o totale– Astenia profonda– Episodi di disorientamento temporo-spaziale o

allucinazioni– Sonnolenza prolungata– Evidente rifiuto di cibo e liquidi– Difficoltà ad assumere la terapia x os.

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Bisogni relazionali

• La prima necessità del paz. e familiari è la richiesta d’ascolto domande sulle scelte obbligate causa di tensione disorientamento e conflitto.

• Nel paz. avviene un “ingorgo emotivo” derivante dalla sproporzione tra bisogno di prossimità dei cari e brevità di tempo o di forza fisica per farlo (sopore)

• Nei familiari è il momento dei bilanci sull’assistenza che stanno fornendo rabbia, inadeguatezza compito è informare, ascoltare e consigliare…

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Bisogni fisici

• Trattamento del dolore • Trattamento sintomi:– Respiratori– Gastrointestinali– Neuropsichiatrici– Ritenzione /incontinenza urinaria– Eventi drammatici: emorragia massiva

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Trattamento doloreNel 44% dei paz. È richiesto un aumento della

posologia, nel 43% invariato e per il resto una diminuzione.

Attenzione alle vie di somministarzione: abbandonare la via orale e preferire s.c., e.v., (rettale) con elastomeri con farmaci compatibili tra loro (es. morfina, desametazone, metoclopramide, ioscina, ciclizina, midazolam, aloperidolo)

Prevenire snd. AstinenzaAttenzione a vocalizzi o espressioni di insofferenza

(spesso legati alla immobilità, discomfort)

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Sintomi respiratoriDispnea: da anemia sollevare dal disagio della mancanza

di fiatoansia e panico (drammatico per i parenti) “aprire la finestra” e contatto, morfina per ridurre la FR a 15-20 /min, incrementando il dosaggio del 25 - 50%. Diazepam a dosi piene 5-10 mg (1/2 dose > 70 aa.) proseguendo con i. c. di 60 mg nelle 24 ore.

Rantolo: non riesce a rimuovere le secrezioni (31 e 92%) migliorare la posizione o PLS, aspirazione e prevenzione con idrobromuro di ioscina o scopolamina 0.4 mg s.c., butilbromuro di ioscina 20 mg e poi 20-40 mg in 24h

Tachipnea rumorosa degli ultimi minuti: morfina sc o ev + bdz (midazolam 10 – 15 mg ev o sc, diazepam 10 mg ev)

Ossigenoterapia? Meglio sempre associarla ma interrompere se inefficace o disturbante.

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Sintomi gastrointestinali

• Scrupolosa cura del cavo orale, ghiaccio triturato o garze per inumidire le labbra

• Nausea /vomito: occlusione intestinale ? Ioscina butilbromide 60-120 mg/24h, octreoide 0.3-0.6 mg sc /24 ore che oltre a ridurre le secrezioni gi favorisce il riassorbimento di acqua ed elettroliti

• SNG inevitabile nelle ostruzioni alte (ab ingestis, rantoli da aspirazione….)

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Idratazione si o no?Non è possibile prendere alcuna decisione a priori, valutata

giorno per giornoIl desiderio diminuisce. Studi clinici limitati ma suggeriscono che

non influenza la sua sopravvivenza né il controllo dei sintomi, viceversa può costituire un’intrusione non necessaria.

Sete o sensazione di bocca secca è spesso causa dei farmaci, l’idratazione infatti non la migliora.

Necessaria quando causata da diuretici, vomito, diarrea, ipercalcemia

I parenti spesso esprimono opinioni sulla sua necessità. Non subordinare l’interesse del paz. all’ansia dei familiari.

National Council for Hospice and specialist palliative care services of Great Britain and Ireland. European J of Palliative Care 1997

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Sintomi neuropsichiatrici

• Delirium: agitazione psicomotoria ad incidenza molto elevata negli ultimi gg, per i familiari diventa uno “sconosciuto” per le sue espressioni verbali che per le reazionio spesso serali e notturne.

• Aloperidolo 2-30 mg sc in 24h• Midazolam 60 mg ev/24h o diazepam 10-20

mg per via rettale ogni 6-8 ore associato a aloperidolo 20 mg sc in 24h.

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Eventi drammatici

• Emorragia nei tumori cranio-collo e alte vie respiratorie: conduce a morte in pochi minuti intervento tempestivo con sedazione rapida midazolam 10 mg ev/ sc e contenimento con lenzuola di colore azzurro o verde piuttosto che bianchi.