federalismi.it n. 13/2014 CRONACHE DI UN CONFLITTO TRA PARLAMENTO E MAGISTRATURA NELL'ITALIA LIBERALE: L’INTERPRETAZIONE DELL'ART. 45 DELLO STATUTO SULL'IMMUNITÀ DEI DEPUTATI * di Fernando Venturini (Consigliere parlamentare della Camera dei Deputati) 25 giugno 2014 Sommario: 1. Introduzione. 2. La Camera “oltremodo cauta e gelosa custode” delle sue prerogative rivendica il diritto di interpretare l'art. 45 dello Statuto. 3. La Camera (tenta di) interpreta(re): l'autorizzazione a procedere è necessaria anche fuori dal tempo della sessione. 4. La giurisprudenza degli anni '80: l'incidente Nicotera-Lovito. 5. La Camera cerca un'interpretazione sull'arresto esecutivo. Il Governo difende i procuratori di fronte alla “magistratura delle urne”. 6. La giurisprudenza negli anni '90: scandali, sovversivi e stati d'assedio: “L'arresto di un deputato è già per se stesso un'ottima cosa”. 7. La Camera interpreta: l'art. 45 copre anche i deputati militari in tempo di guerra. 8. La scienza del diritto: i privilegi dei parlamentari sono “ruderi storici” o “necessarissimi, salutari, altamente liberali”? 9. La Camera finalmente si esprime sul conflitto con la magistratura: il giurista “ripiega la sua bandiera”. 10. Ancora sull'arresto esecutivo: la Camera non si pronuncia sul caso Ferri. 11. Le autorizzazioni a procedere nel dopoguerra: dal conflitto silenzioso alla questione morale. 12. Nel regime fascista: “l'autorità di un Parlamento può essere […] or assai grande or assai scarsa; e può anche annullarsi del tutto”. Appendice: dati statistici sulle autorizzazioni a procedere, 1848-1929. * Articolo sottoposto a referaggio. L’Autore ringrazia Marco Cerase, Paolo Evangelisti, Enrico Gustapane, Guido Melis, Francesco Soddu per aver letto una prima stesura di questo studio. Alcuni aspetti del testo, con particolare riferimento al dibattito giuridico, sono stati anticipati in un articolo in corso di pubblicazione nella rivista “Le carte e la storia” con il titolo: L'art. 45 dello Statuto albertino nella letteratura giuridica: appunti su di uno scritto di Vittorio Emanuele Orlando.
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Cronache di un conflitto tra Parlamento e magistratura nell'Italia liberale: l’interpretazione dell'art. 45 dello Statuto sull'immunità dei deputati, «Federalismi.it», 2014, n.
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federalismi.it n. 13/2014
CRONACHE DI UN CONFLITTO TRA PARLAMENTO E MAGISTRATURA
NELL'ITALIA LIBERALE: L’INTERPRETAZIONE DELL'ART. 45 DELLO STATUTO
SULL'IMMUNITÀ DEI DEPUTATI*
di
Fernando Venturini
(Consigliere parlamentare della Camera dei Deputati)
25 giugno 2014
Sommario: 1. Introduzione. 2. La Camera “oltremodo cauta e gelosa custode” delle sue
prerogative rivendica il diritto di interpretare l'art. 45 dello Statuto. 3. La Camera (tenta di)
interpreta(re): l'autorizzazione a procedere è necessaria anche fuori dal tempo della sessione.
4. La giurisprudenza degli anni '80: l'incidente Nicotera-Lovito. 5. La Camera cerca
un'interpretazione sull'arresto esecutivo. Il Governo difende i procuratori di fronte alla
“magistratura delle urne”. 6. La giurisprudenza negli anni '90: scandali, sovversivi e stati
d'assedio: “L'arresto di un deputato è già per se stesso un'ottima cosa”. 7. La Camera
interpreta: l'art. 45 copre anche i deputati militari in tempo di guerra. 8. La scienza del diritto:
i privilegi dei parlamentari sono “ruderi storici” o “necessarissimi, salutari, altamente
liberali”? 9. La Camera finalmente si esprime sul conflitto con la magistratura: il giurista
“ripiega la sua bandiera”. 10. Ancora sull'arresto esecutivo: la Camera non si pronuncia sul
caso Ferri. 11. Le autorizzazioni a procedere nel dopoguerra: dal conflitto silenzioso alla
questione morale. 12. Nel regime fascista: “l'autorità di un Parlamento può essere […] or assai
grande or assai scarsa; e può anche annullarsi del tutto”. Appendice: dati statistici sulle
autorizzazioni a procedere, 1848-1929.
* Articolo sottoposto a referaggio. L’Autore ringrazia Marco Cerase, Paolo Evangelisti, Enrico Gustapane, Guido
Melis, Francesco Soddu per aver letto una prima stesura di questo studio. Alcuni aspetti del testo, con particolare
riferimento al dibattito giuridico, sono stati anticipati in un articolo in corso di pubblicazione nella rivista “Le
carte e la storia” con il titolo: L'art. 45 dello Statuto albertino nella letteratura giuridica: appunti su di uno
scritto di Vittorio Emanuele Orlando.
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1. Introduzione
Si è scritto, con riferimento all’Italia della cosiddetta “prima repubblica”, che l’istituto
dell’autorizzazione a procedere, costituisce “un indicatore empirico a più volti” sulla
legittimazione della classe politica e sulla sensibilità istituzionale che alimenta l’azione della
magistratura1. Questo contributo nasce dall'ipotesi che considerazioni simili possano essere
fatte anche per l'Italia liberale. Non essendovi studi storiografici in grado di dare una risposta
soddisfacente2 in primo luogo si è cercato, nell'appendice statistica, di raccogliere dati precisi
sulle domande di autorizzazione ad arrestare o a tradurre in giudizio presentate alla Camera
dei deputati nel periodo 1848-1929, sulle procedure seguite e sui reati contestati. Per il resto,
ci si propone di individuare i passaggi più importanti di una giurisprudenza parlamentare
molto incerta, almeno fino alla prima guerra mondiale, dove trapelano forti divisioni
nell'atteggiamento verso la magistratura e dove ricorre già pochi anni dopo l'approvazione
dello Statuto albertino una questione centrale: la titolarità dell'interpretazione dell'art. 45 dello
Statuto.
Ricordiamone il testo: “Nessun Deputato può essere arrestato, fuori del caso di flagrante
delitto, nel tempo della sessione, né tradotto in giudizio in materia criminale, senza il previo
consenso della Camera”3.
Pochi articoli dello Statuto, scrisse V. Emanuele Orlando, furono “fertili di questioni” come
l'art. 45 “in parte per l'equivoca formulazione dell'articolo stesso, in parte perché la Camera
1 F. Cazzola, M. Morisi, La mutua diffidenza: il reciproco controllo tra magistrati e politici nella prima
Repubblica, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 20.
2 L'unico saggio storico è M. Dogliani, Immunità e prerogative parlamentari, in Storia d'Italia. Annali
17. Il Parlamento, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 2001, p. 1009 sgg. Si vedano anche le pagine di
introduzione storica in G. Zagrebelsky, Le immunità parlamentari: natura e limiti di una garanzia
costituzionale, Torino, Einaudi, 1979 e il recente F. Compagna, Alle radici delle immunità parlamentari, in
“L'acropoli”, 2009 <http://www.lacropoli.it/articolo.php?nid=205>. Per quanto riguarda la letteratura coeva,
oltre a M. Mancini e U. Galeotti, Norme ed usi del Parlamento italiano, Roma, Tip. Della Camera dei deputati,
1887, p. 515 sgg., utili le analisi dell'istituto e le rassegne della giurisprudenza di G. Crisafulli, La guarentigia
dei deputati nei procedimenti penali, in “Archivio di diritto pubblico”, 4 (1894), p. 10-36, 249-278, 401-412, e
I. Brunelli, F. Racioppi, Commento allo Statuto del Regno, Torino, Utet, 1909, vol. 2, p. 543 sgg.
3 L'art. 46 proteggeva inoltre i deputati dall'arresto per debiti durante la sessione e nelle tre settimane
precedenti o seguenti ma tale guarentigia divenne inutile dopo l'abolizione dell'arresto per debiti nel 1877. Per i
senatori la situazione era diversa poiché l'art 37 li sottraeva alla magistratura ordinaria sia per procedere
all'arresto (salvo il caso di flagranza) sia per il giudizio penale, in quanto la competenza era affidata al Senato
stesso costituito in alta corte di giustizia. Peraltro questa immunità non aveva un grande valore pratico per il
numero limitato di casi e per la consuetudine dei senatori accusati di dimettersi. Come ricordano in piena età
giolittiana Racioppi e Brunelli: “Nella massima parte dei casi le processure ebbero termine nel periodo
istruttorio, che per essere segreto sfugge alla cognizione precisa del pubblico. Il più delle volte si finì con
dichiarazione di non luogo a procedere: altre volte i Senatori imputati troncarono il procedimento dimettendosi e
affidandosi al magistrato ordinario: due sole volte il processo ebbe pieno svolgimento fino alla sentenza di
condanna, cioè per il Persano nel 1866 e per il Pissavini nel 1888”, cfr. I. Brunelli, F. Racioppi, Commento allo
Statuto del Regno cit., vol. 2, p. 368.
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non fu sempre giudice spassionato”4. Tra queste, la questione più importante era preliminare
a tutte le altre: a chi spettava interpretare l'estensione ed i limiti della guarentigia statutaria, in
una situazione nella quale non vi era un organismo terzo in grado di dirimere un conflitto di
natura costituzionale? Tale domanda diede vita, come si vedrà, ad una vivace dialettica tra
l'autorità giudiziaria e la Camera dei deputati. Nello stesso tempo, a partire dagli anni '70,
sulle immunità cominciarono a scaricarsi le tensioni politiche esterne e gli umori
antiparlamentari di un'opinione pubblica a cui dava manforte una parte consistente della
scienza giuridica. Attraverso lo specchio dell'immunità, il Parlamento italiano rivelava così la
sua posizione, incerta e mutevole, nell'arena politica e istituzionale e si confrontava con una
magistratura nient'affatto compatta ma “tutt'altro che arrendevole alle ragioni della
rappresentanza”5.
Quando in età giolittiana la Camera fece finalmente un'esplicita affermazione della propria
titolarità, la magistratura sembrò abbandonare la contesa o, almeno, porsi in un atteggiamento
di conflittualità silenziosa. L'interpretazione dell'immunità parlamentare lentamente assunse,
dopo il primo conflitto mondiale e fino all'affermazione del fascismo, connotati simili a quelli
delle prime legislature repubblicane6.
2. La Camera “oltremodo cauta e gelosa custode” delle sue prerogative rivendica il
diritto di interpretare l'art. 45 dello Statuto
I primi decenni della giurisprudenza parlamentare sulle immunità possono essere seguiti sulle
pagine del repertorio di Mario Mancini ed Ugo Galeotti7 che parlano di “lodevole
temperanza” nell'applicazione dell'art. 45. Per la verità, le legislature del Parlamento
subalpino e le prime legislature del Regno vedono la Camera dei deputati rivendicare con
forza e senza soggezioni l'inviolabilità dei parlamentari. La Camera impone la propria
interpretazione oppure chiede direttamente la modifica di interventi lesivi dell'immunità,
facendo leva sul rapporto fiduciario con il Governo, di fronte ad una magistratura ritenuta
inaffidabile perché legata all'ancien régime.
Già nel dicembre 1848, la Camera chiese ed ottenne, in sede di verifica dei poteri, con voto
unanime e con il consenso di tutti i ministri del Governo Perrone, l'immediata scarcerazione
4 V. E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, 4. ed. riv., Firenze, Barbera, 1905, p. 190-191.
5 G. Zagrebelsky, Le immunità parlamentari cit., p. 21.
6 Solo nel 1988 e cioè in occasione di una famosa sentenza della Corte costituzionale, la n. 1150,
l'autonomia parlamentare sul terreno delle prerogative sarebbe tornata sub judice e, nello specifico, sub judice
constitutionis, visto che la Corte dichiarò che le pronunce di insindacabilità potevano essere sottoposte al
controllo della Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzione da parte del giudice ordinario.
7 Norme ed usi del Parlamento italiano, cit. p. 556.
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dell'avvocato mazziniano Didaco Pellegrini, eletto a Genova quando era già sotto accusa per
essere stato coinvolto nell'insurrezione del capoluogo ligure8. Nel 1862, durante lo stato
d'assedio per l'impresa di Aspromonte, la Camera intervenne nel famoso caso degli arresti dei
deputati Antonio Mordini, Nicola Fabrizi e Salvatore Calvino: di fronte ad un ordine del
giorno molto duro di Agostino Bertani, il Governo Rattazzi preferì dimettersi9.
In effetti, in un primo periodo le richieste di autorizzazione furono poche ma non furono mai
accordate: la Camera subalpina, scrivono Mancini e Galeotti “ora col considerarla immatura,
ora col sospenderla, ed ora col non riferirne, non accordò mai la chiesta autorizzazione”10.
Inoltre, ciò che è ancora più significativo, fino agli anni '60, la Camera (o per meglio dire la
commissione di volta in volta incaricata dagli Uffici di presentare una relazione all'aula) non
si limitò quasi mai a verificare la presenza di ciò che viene comunemente definito fumus
persecutionis ma più volte individuò interessi politici e ragioni di opportunità che
consigliavano di rifiutare o di sospendere la richiesta di autorizzazione, secondo un approccio
che mirava a far prevalere l'autonomia del potere legislativo e la libertà nell'esercizio del
mandato. Il sistematico rifiuto di autorizzare procedimenti per il reato di duello ne è la
principale dimostrazione. Come scrisse il relatore del primo caso giunto alla Camera, quello
del duello tra Cavour ed Enrico Avigdor, il 18 maggio 1850: “un deputato, nel tempo della
Sessione, non appartiene intieramente a se stesso; e dove sia fatto in qualsivoglia modo
impedimento all'esercizio delle sue funzioni legislative, ne risulterà un danno non lieve; ne
risulterà il discapito di un interesse, che non può dirsi privato, imperocché i suoi elettori
verranno con ciò, senza alcuna lor colpa, direttamente spogliati del prezioso benefizio di
essere rappresentati nel Parlamento”11. Inoltre, scriveva Pasquale Stanislao Mancini in una
relazione del 1865, la Camera non poteva legarsi le mani nella valutazione delle richieste di
autorizzazione in quanto “non è vincolata, né soggiace a restrizione circa la scelta degli
elementi che possano determinare il suo apprezzamento morale e politico” e può desumerli
anche da fattori esterni alla vicenda processuale e cioè “dall'indole e gravità dell'imputazione,
dalle circostanze del paese o delle persone, o dallo stato dell'opinione pubblica, onde inferirne
se appaia miglior consiglio consentire eccezionalmente il procedimento penale durante la
8 Da allora si stabilì una prassi costituzionale che la magistratura italiana rispettò sempre, liberando i
deputati che al momento della loro elezione si trovavano in carcere in attesa di giudizio. Per il caso dei deputati
eletti mentre erano detenuti in carcere a seguito di sentenza definitiva, si veda infra.
9 Il testo dell'ordine del giorno di Bertani era il seguente: “La Camera, avendo riconosciuto non solo la
non flagranza, ma l'incolpabilità dei deputati arrestati ne lo scorso agosto in Napoli, riprova ne l'atto arbitrario
commesso l'offesa arrecata a la prerogativa sovrana de la rappresentanza nazionale e passa all'ordine del giorno”
A.P. Camera dei deputati, Disc., 17 dicembre 1862, p. 4773.
10 Norme ed usi del Parlamento italiano cit., p. 545.
11 A.P. Camera dei deputati, Disc., 18 maggio 1850, p. 2076-2077.
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Sessione, ovvero far attendere la chiusura di essa perché la giustizia possa spiegare
liberamente la sua azione”12 .
In questo contesto, la rivendicazione del diritto ad interpretare l'art. 45 fu affermata con
comprensibile energia di fronte alla magistratura. Nel novembre 1853 l’avvocato Giovanni
Bonaventura Buttini fu condannato in appello per reato di stampa e fece ricorso in
Cassazione. Nelle more del ricorso, poiché l’8 dicembre 1853 fu eletto deputato, invocò
l’applicazione dell’art. 45 dello Statuto e chiese che fosse richiesta l’autorizzazione della
camera di appartenenza per poter proseguire nel giudizio.
La Cassazione da un lato affermò la propria competenza a giudicare i limiti dell’art. 45 poiché
ogni tribunale è giudice della propria competenza “ed essa si estende, tranne i casi eccettuati,
a conoscere sì dell’azione che dell’eccezione”, dall’altro sostenne che il ricorso in Cassazione
istituisce un giudizio “che è nuovo e tutto speciale, e in cui non vi è più esercizio di azione
penale”, che non cade sulla persona o sui fatti, già stabiliti dal giudicato13. Per questi motivi,
il giudizio di Cassazione non poteva essere accomunato ai giudizi in materia criminale a cui
faceva riferimento l’art. 45 dello Statuto. Poi, esaminato il merito, respingeva il ricorso e
confermava la condanna del Buttini.
Su richiesta dello stesso Buttini, la Camera dei deputati affrontò la questione istituendo una
commissione che, con una relazione del 1° maggio 1855, firmata da Carlo Cadorna,
affermava che anche quello in Cassazione aveva i caratteri di un giudizio penale, rivendicava
il sovrano diritto della Camera a decidere qualunque controversia sull’art. 45 e invitava,
infine, il potere esecutivo a non dare esecuzione alla sentenza della Cassazione14. Cosa che
avvenne spontaneamente senza che fosse necessaria una delibera da parte dell’assemblea
plenaria. La questione era molto delicata e l'esito sarebbe stato definito, anni più tardi, “un
colossale e stranissimo arbitrio che solo il dispotismo di un'Assemblea poteva arrogarsi”15
poiché la Camera si trovava di fronte ad una sentenza passata in giudicato, ma ciò non impedì
una presa di posizione netta, mossa dalla preoccupazione di non avallare un'interpretazione
che avrebbe potuto minare alla radice l'istituto dell'immunità. In margine si può notare che
12 A.P. Camera dei deputati, Sess. 1863-64, Doc., n. 336-A, p. 4. Ivi Mancini ricordò che la camera
subalpina si era sempre mostrata “oltremodo cauta e gelosa custode di questa sua prerogativa”.
13 Quest'ultimo argomento fu ripetuto successivamente dalla Cassazione di Firenze con sentenza 6
dicembre 1873 su ricorso Simonelli. Cfr. I. Brunelli – F. Racioppi, Commento allo Statuto del Regno cit., vol. 2,
p. 555.
14 A.P. Camera dei deputati, Sess. 1853-54, Doc., n. 167-A. La relazione Cadorna è un documento di
notevole spessore, orgogliosamente incentrato nella difesa della libertà ed indipendenza della rappresentanza
politica: “noi facciamo un atto politico, e non un atto giuridico. E la Camera ha indubbiamente, come qual si
voglia altro Potere dello Stato, il diritto di tutelare con atti politici le proprie prerogative nei termini dello
Statuto”, p. 3.
15 A. Dell'Abate, L'articolo 45 dello Statuto costituzionale italiano, Bologna, Zanichelli, 1886, p. 20.
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attraverso questa sentenza, la Cassazione, istituita nel 1847, aveva cercato di affermare una
posizione di separatezza dalle tradizionali giurisdizioni del Piemonte sabaudo e che la
Camera, rifiutando questa pretesa e assimilando implicitamente gli altri tribunali alla Corte di
Cassazione, legittimava di fronte a se stessa l'intero ordine giudiziario come potere
costituzionale, pur rivendicando il diritto di avere l'ultima parola16.
3. La Camera (tenta di) interpreta(re): l'autorizzazione a procedere è necessaria anche
fuori dal tempo della sessione
La seconda rivendicazione di competenza circa l'interpretazione dell'art. 45 si ebbe intorno ad
un tema molto importante, quello dei limiti temporali dell'inviolabilità e si legò al primo
grande scandalo dell’Italia unita, quello della Regia cointeressata dei tabacchi. Con sentenza
15 novembre 1869, il Tribunale di Firenze condannò ad un anno di carcere militare il deputato
- e militare con il grado di maggiore - Cristiano Lobbia per simulazione di reato. Era questa la
strana conclusione del procedimento penale (inizialmente contro ignoti) per l’attentato allo
stesso Lobbia avvenuto a Firenze nella notte tra il 15 e il 16 giugno, dopo che il Lobbia aveva
dichiarato in aula di essere in possesso di prove della corruzione che aveva accompagnato
l’approvazione della convenzione istitutiva della privativa di fabbricazione dei tabacchi ed
una Regìa cointeressata costituita da investitori italiani e stranieri. Lobbia poté essere
processato nonostante fosse deputato in carica poiché la sessione era stata prorogata il 15
giugno 1869 e chiusa il 14 agosto. Il Tribunale di Firenze aveva ritenuto di poter procedere
interpretando alla lettera l’art. 45 dello Statuto che imponeva il consenso della Camera “nel
tempo della sessione”, nonostante gli argomenti di Pasquale Stanislao Mancini, difensore del
Lobbia. Come è noto, i pochi mesi del processo videro pesanti interventi del Governo, tramite
il Ministro Pironti, e il procuratore generale di Firenze, Augusto Avet, sulla magistratura
requirente e sulla giudicante con trasferimenti, dimissioni del procuratore Giuseppe Borgnini,
ecc. di cui si ha traccia anche nella Storia costituzionale di Arangio Ruiz17.
Quando Lobbia fece appello, la sessione parlamentare era aperta e così fu necessario chiedere
l’autorizzazione a procedere alla Camera dei deputati. La commissione incaricata di
esaminare tale domanda (relatore Pier Ambrogio Curti) decise per la concessione sia perché lo
16 “essendoché […] l'Ordine giudiziario, sebbene sia una emanazione, e per così dire, un ramo del Potere
esecutivo per ciò che riguarda la nomina dei di lui membri, costituisca ciò non pertanto di per sé un Potere
costituzionale per l'attribuzione di podestà, che ha direttamente dallo Statuto, e per la inamovibilità che lo rende
indipendente dal Potere esecutivo nell'esercizio delle proprie attribuzioni”, A.P. Camera dei deputati, Sess. 1853-
54, Doc., n. 167-A, p.2.
17 G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d'Italia, 1848-1898, Firenze, Civelli, 1898, p. 232-
233. Su questi episodi si veda la ricostruzione di T. Iermano, Uno scandalo nell'età della Destra Storica: la
Regia dei tabacchi, “Prospettive Settanta”, n.s., 7 (1985), n. 3-4, p. 477-497.
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stesso Lobbia aveva rivolto alla Camera “le più vive sollecitazioni” in questo senso, sia
perché si riteneva che vi fossero stati “enormi abusi di autorità” ed un’azione funesta
sull’ordine giudiziario da parte del passato Governo quali non si erano mai avuti dal 1848 e
che quindi fosse necessario “contrapporre a codeste mancanze di rispetto del passato
Ministero verso l’ordine giudiziario una solenne e pubblica testimonianza di nobile fiducia
della Camera dei deputati ne’ sentimenti di giustizia, di libertà e di indipendente fermezza che
possono fare l’orgoglio della magistratura italiana”18.
La commissione deliberò solo nel merito e non si occupò dell’interpretazione dell’art. 45, in
particolare della perseguibilità di un deputato nell’intervallo tra due sessioni, poiché questo
tema fu affidato ad una commissione ad hoc, incaricata di dirimere le questioni più
controverse circa la durata e l'estensione delle prerogative parlamentari.
La commissione presentò, a firma proprio di Pasquale Stanislao Mancini, una relazione il 30
luglio 187019. Si tratta di un documento importante e più volte richiamato che cercò,
riuscendovi solo in parte, di porre su basi solide la giurisprudenza parlamentare in tutte le
questioni che si erano fino ad allora presentate: in primo luogo l'estensione dell'immunità
all'intera legislatura e, poi, l’elezione successiva all’arresto, la quasi flagranza, l’eventuale
distinzione della materia criminale in delitti e contravvenzioni, gli atti istruttori consentiti alla
magistratura prima dell’eventuale accusa, ecc. La risposta era data ponendo le guarentigie
parlamentari tra le radici più profonde del regime rappresentativo. Quasi sempre – scriveva
Mancini - tra “gli esagerati fautori della preponderanza del potere esecutivo confidato al
monarca ed ai suoi ministri”, vi erano i “sistematici oppugnatori” delle immunità
parlamentari. Queste erano tanto più necessarie in un paese dove le istituzioni rappresentative
erano giovanissime e l’opinione pubblica priva di quella influenza morale in grado di
contrastare gli eventuali abusi del Governo in carica. E dove erano deboli le garanzie di
indipendenza del potere giudiziario, giacché allo stesso potere esecutivo apparteneva “la
nomina dei magistrati, ogni loro promozione nella carriera, il premiarli con onori e vantaggi
di ogni specie, e finanche il punirli con traslocamenti che possono talora nel fatto equivalere a
degradamento o ad espulsione dall’ufficio”. Insomma: “Sopprimete, o per poco indebolite,
questo ordigno della macchina costituzionale, e potrete senza accorgervene sconcertare e
colpire di impotenza l'intiero delicato meccanismo del sistema”.
18 A.P. Camera dei deputati, Sess. 1869-70, Doc. n. 2-A, p. 32. In effetti, come è noto, Lobbia fui poi
assolto in appello.
19 A.P. Camera dei deputati, Sess. 1869-70, Doc. n. 2 ter, a cui appartengono le citazioni seguenti.
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Su queste basi, Mancini poteva affermare che l'obbligo di ottenere il consenso alla traduzione
in giudizio doveva considerarsi esteso all’intera legislatura per due ordini di motivi. Prima di
tutto perché una diversa interpretazione sarebbe stata inconciliabile con lo scopo dell’istituto e
con i principi stessi del regime costituzionale visto che l’azione penale era affidata al pubblico
Ministero “sventuratamente presso di noi costituito organo e dipendenza del potere
esecutivo”20 . In secondo luogo perché l’art. 45 poteva essere distinto in due differenti
proposizioni: la prima “nessun Deputato può essere arrestato, fuori del caso di flagrante
delitto, nel tempo della Sessione”, e la seconda: “nessun Deputato può essere tradotto in
giudizio in materia criminale senza il previo consenso della Camera”. Si trattava di
un’interpretazione che forzava la lettera della norma e giungeva al risultato paradossale di
consentire – fuori dalla sessione – di arrestare ma non di “tradurre in giudizio” un deputato,
come osservò la gran parte dei commentatori21. Nello stesso tempo, era un'interpretazione
che cercava di difendere la prerogativa ancorandola al testo dello Statuto e “sterilizzandola”
politicamente, attraverso argomenti che intendevano rispondere in punta di diritto alle
obiezioni della magistratura22.
Infine, la relazione Mancini risolveva la controversia riguardo l'interpretazione dell'art. 45
dello Statuto adottando pienamente le conclusioni della Relazione Cadorna del 1855: nelle
monarchie costituzionali, dove non vi era una Corte suprema per il controllo di
costituzionalità degli atti di tutti i poteri dello Stato, era necessario considerare ciascuna delle
due camere “custode e legittima difenditrice delle prerogative proprie e dei suoi componenti
dalle invasioni di qualunque altro potere, e conseguentemente giudice competente e
supremo”.
La relazione Mancini avrebbe avuto notevole influenza sulla giurisprudenza parlamentare
successiva alimentando il dialogo con la magistratura ma togliendo qualche argomento alle
ragioni del Parlamento poiché aveva un carattere fortemente “difensivo”. Infatti l'immunità
parlamentare era giustificata con riferimento al pericolo di ingerenze dell'esecutivo e alla
20 Si chiedeva infatti Mancini: “basterà [che il Governo] pubblichi un Decreto di chiusura della Sessione
per avere immediatamente la mano libera, e spogliare i membri della Camera stessa di qualsiasi guarentigia?”,
ivi, p. 8.
21 Successivamente fu notato che il testo in francese dello Statuto, pubblicato contemporaneamente a
quello in italiano, aveva una formulazione molto più chiara che escludeva la possibilità di individuare due
disposizioni distinte: “Pendant le cours de la session, aucun député ne peut être arrêté, hors le cas de flagrant
délit, ni traduit en jugement à raison de matière criminelle, sans le consentiment préalable de la Chambre”, cfr. F.
Racioppi, Sull'interpretazione dell'articolo 45 dello Statuto, “Giurisprudenza italiana”, 1903, p. 5.
22 Nello stesso anno della relazione Mancini furono pubblicate le lezioni di G. E. Garelli, Il diritto
costituzionale italiano, Torino, Tip. Baglione, 1870, dove si giungeva alle stesse conclusioni affermando, più
semplicemente, che lo Statuto utilizzava il termine “sessione” in due accezioni diverse e nell'art. 45 come
coincidente con l'intera durata della legislatura, p. 250.
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presunzione di insufficienza di garanzie dell'ordine giudiziario. Non si prevedeva l'ipotesi che
il diniego di autorizzazione potesse basarsi sulla tutela di altri valori o su di una
discrezionalità di cui - in determinate circostanze - l'assemblea poteva avere il diritto e la
forza di assumersi la responsabilità politica, come pure la Camera aveva fatto negli anni
precedenti. Prevaleva la necessità di affrontare il problema dal punto di vista giuridico e
pesava la vicenda processuale e politica da cui era nata la relazione stessa, cioè uno dei più
clamorosi episodi di ingerenza della politica sulla magistratura dell'Italia liberale.
Coerentemente, si formulavano giudizi sulla magistratura che miravano a creare quella
“costituzionale solidarietà” che avrebbe consentito all'ordine giudiziario e alla Camera dei
deputati di legittimarsi reciprocamente nei confronti del potere esecutivo. Mancini poteva
affermare infatti che se “i magistrati si sentissero protetti e tutelati dalle Assemblee politiche
contro le pressioni o le ingiustizie ministeriali; una costituzionale solidarietà non
mancherebbe di stabilirsi, e per reciprocanza di ufficii le franchigie parlamentari troverebbero
efficace e sufficiente protezione nello stesso ordine giudiziario”.
Sembra di poter dire che questa interpretazione fu accolta da molti magistrati di merito ma fu
sempre respinta dalla Corte di Cassazione, come dimostra la giurisprudenza successiva sui
limiti di tempo dell'immunità. Prima di tutto la relazione Mancini non arrivò mai in aula e non
ottenne la sanzione di un voto politico, il che ne ridusse certamente la forza. Inoltre, accettare
di dare alla Camera il potere di interpretare l'art. 45 avrebbe voluto dire avallare la supposta
dipendenza, debolezza e potenziale parzialità del potere giudiziario che era alla radice della
norma statutaria, come era stato ribadito dallo stesso Mancini. Infine, successivamente, negli
anni delle leggi repressive crispine, la residua competenza della magistratura e della Corte di
cassazione in particolare, avrebbe consentito di ricondurre al “diritto comune” gli uomini
politici più esposti, radicali o socialisti.
Su questa linea di contrapposizione con la Camera si ebbero diversi episodi. Nel 1891 la
Cassazione penale ribadì la propria competenza ad interpretare l’estensione dell’immunità
penale, escludendo le contravvenzioni dalla “materia criminale” prevista dall‘art. 45 dello
Statuto23. Nel 1895, nei casi dei deputati socialisti Camillo Prampolini e Gregorio Agnini, la
Cassazione riaffermò che la prerogativa dell'art. 45 non poteva sopravvivere alla chiusura
della sessione24 mentre la Camera cercò di affermare una sorta di interpretazione autentica
23 Cfr. “Il monitore dei tribunali”, vol. 32 (1891), p. 644 su cui l'articolo di V. E. Orlando, Competenza del
potere giudiziario sull'interpretazione dell'art. 45 dello Statuto: se la prerogativa si estenda al giudizio per
contravvenzioni, in “Archivio di diritto pubblico”, 1(1891), p. 387-392.
24 Nell'ottobre 1894, Camillo Prampolini fu condannato al confino, a sessione parlamentare chiusa, dal
pretore di Reggio Emilia sulla base dei provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza emanati da Crispi, per
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basata sui precedenti e sulle relazioni Cadorna, Mancini e Sacchi: “Tali precedenti appunto
hanno affermato il diritto dei deputati di non essere sottoposti ad accusa o a giudizio senza la
preventiva autorizzazione della Camera, e ciò senza distinzione e limitazione di tempo,
ritenendo tale prerogativa come essenzialmente inerente al mandato e alla qualità di
rappresentante della Nazione”25.
Insomma, su questo punto vi furono oscillazioni interpretative fino all'inizio del nuovo secolo
e soprattutto vi fu una costante contrapposizione tra Camera e Corte di Cassazione nel
rivendicare la titolarità del potere interpretativo. Una sorta di conflitto costituzionale latente
che fece dire all'avvocato generale presso la Corte di Cassazione di Roma nel discorso
inaugurale dell'anno giudiziario 1896 che “Tutto questo è un disordine che offende del pari le
attribuzioni del Parlamento e quelle dell'ordine giudiziario”26.
Da notare che la giurisprudenza di Cassazione fu, in quegli stessi anni, molto più benevola nei
confronti delle garanzie previste dallo Statuto per i membri del Governo. Infatti la Cassazione
penale nel 189527 e nel 189728 diede ragione ai ricorrenti, rispettivamente Giolitti e Crispi,
riguardo alla competenza in materia di reati ministeriali, affidandola in ogni caso alla messa in
stato d'accusa da parte della Camera dei deputati e al Senato in Alta corte di giustizia come
previsto dall'art. 47 dello Statuto. La sezione d'accusa della Corte d'Appello di Roma aveva
aver fatto parte della cosiddetta “Lega socialistica”, nonostante Prampolini si appellasse all'art. 45 dello Statuto.
In appello, il Tribunale di Reggio Emilia dichiarò che non era possibile procedere al giudizio contro un deputato
senza l'autorizzazione della Camera sebbene il procedimento fosse iniziato e proseguito durante la chiusura della
sessione parlamentare. In caso contrario, avevano scritto i giudici di Reggio Emilia, cioè se la protezione dei
deputati dovesse considerarsi sospesa o interrotta durante la chiusura della sessione “potrebbe mancare la
ragione stessa della sua esistenza, e chi trovasi investito del mandato legislativo […] vedersi esposto ad
esorbitanze od atti men che legittimi d'altri poteri”: “La giustizia penale”, 1895, n. 1, col. 75. Ma la Corte di
Cassazione di Roma, con sentenza 1° febbraio 1895, riformava la sentenza e affermava invece che la prerogativa
dell'art. 45 non poteva sopravvivere alla chiusura della sessione poiché diversamente “una prerogativa diretta a
garantire l'uffizio del deputato durante la sessione, verrebbe mutata in un privilegio alla persona durante l'intiera
legislatura con offesa del principio di uguaglianza dei cittadini, col turbare il corso della giustizia e dei diritti dei
privati”: “Giurisprudenza italiana”, 1895, pt. 2, col. 117. Un anonimo commentatore - con tutta probabilità
Lodovico Mortara - criticava aspramente tale sentenza scrivendo che con essa la magistratura italiana si era
assunta la responsabilità di affermazioni contrarie “ai più corretti principii del diritto pubblico nazionale quali
erano stati fino ad ora intesi; e se la è assunta in circostanze ed in momento in cui per una fatalità accidentale,
eppur molto spiacevole, queste affermazioni sembrano più gradite agli organi supremi del potere esecutivo”,
“Giurisprudenza italiana” 47 (1895), pt. 2, col. 83. Pochi mesi dopo, il 20 giugno 1895, il procuratore generale
della Cassazione di Roma, Francesco Auriti, chiedeva al Presidente della Camera di concedere l'autorizzazione
per l'ulteriore corso del procedimento penale a carico del deputato Gregorio Agnini condannato durante la
chiusura della sessione dal Tribunale di Modena a 6 mesi e 10 giorni di reclusione per aver preso parte ad
un'associazione socialista diretta a commettere delitti ed incitamento all'odio di classe. La sentenza, confermata
in appello con riduzione della pena, era stata portata in Cassazione per vari motivi tra cui la “Violazione del
principio del diritto costituzionale che ogni Potere dello Stato è giudice delle proprie prerogative”.
25 Così la Commissione della Camera, presieduta dall'on. Salaris, sulla richiesta di autorizzazione a
procedere contro il deputato Agnini: A.P. Camera dei deputati, Leg. XIX, Doc., n. 90-A.
26 Discorso pronunziato dal senatore Emilio Pascale, avvocato generale presso la Corte di Cassazione di
Roma nella assemblea generale del 2 gennaio 1896, Roma, Forzani, 1896, p. 23.
27 Sentenza 24 aprile 1895, in “Rivista penale”, 1895, vol. 41, p. 455 sgg.
28 Sentenza 8 novembre 1897, in “Rivista penale”, vol. 47, p. 26 sgg.
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invece affermato che la locuzione dell'art. 47 dello Statuto “non esclude che l'azione penale si
possa esercitare anche dall'Autorità giudiziaria, imperocché, se la Camera dei deputati ha il
diritto di accusare e non ne usa, nessun divieto è sancito dallo Statuto per arrestare il corso
della giustizia”29. In questo modo la Cassazione precludeva al giudice ordinario la possibilità
di interpretare l'art. 47 e di valutare i caratteri del reato ministeriale. In sostanza, se la
Cassazione difendeva la possibilità del giudice di interpretare l'art. 45 che riguardava le
guarentigie dei parlamentari, non faceva altrettanto per i membri del Governo il cui
comportamento doveva essere in ogni caso deciso dagli organi della giustizia politica30. Che
l'autorità giudiziaria fosse sempre incompetente sia a giudicare che a istruire i reati di un
ministro commessi nella sua qualità di ministro fu poi ribadito dalle sezioni penali unite della
Corte di cassazione il 10 giugno 1907 sul caso Nasi che fu quindi rinviato alla Camera per la
messa in stato di accusa31.
4. La giurisprudenza degli anni '80: l'incidente Nicotera-Lovito
Negli anni '70, dopo la Comune di Parigi, l'atteggiamento repressivo dei pubblici poteri si
fece più aspro e le richieste di autorizzazione a procedere aumentarono, soprattutto in
relazione ai reati di stampa. Contemporaneamente, nei giornali, i riferimenti alle richieste di
autorizzazione e alle relative discussioni parlamentari si fecero più numerosi diventando
materia di polemica e di lotta politica32. In alcuni casi, attraverso le querele e le conseguenti
richieste di autorizzazione per diffamazione o ingiurie, gli avversari di collegio dei
parlamentari eletti cercavano di continuare la lotta politica nonostante la convalida delle
29 “Rivista penale”, 1895, vol. 41, p. 461.
30 Anche perché “si verrebbe a deferire, come rilevano i più illustri pubblicisti, ad altro potere, all'infuori
della Camera, la possibilità di provocare crisi ministeriali. D'altronde, se non si può procedere
senz'autorizzazione del re, sentito il Consiglio di Stato, contro un prefetto od un sindaco per gli atti dipendenti
dall'esercizio delle loro funzioni, non può esser dato di procedere contro un ministro, che, potendo essere né
deputato né senatore, resterebbe spoglio di ogni garanzia”, in “Rivista penale”, 1895, vol. 41, p. 464.
31 Cfr. R. Ferrari Zumbini, L'«incidente» Nasi: cronaca di una vicenda dell'Italia politica d'altri tempi
(1903-1908), Padova, Cedam, 1993, p. 130-131.
32 Nella relazione ad una richiesta della procura di Milano di incriminare Felice Cavallotti per reati di
opinione, il relatore si preoccupò di ricordare la “frequenza con la quale negli ultimi tempi si sono ripetute
domande per autorizzazione a procedere contro deputati, [...] per la facilità con la quale i procuratori del Re, e i
giudici istruttori a loro richiesta, si valgono della facoltà di spiccare mandato d'arresto anche contro accusati di
reati, come quelli di stampa”. La diffusione di tali notizie nei giornali rischiava di ledere la dignità dei
parlamentari ed era “artificiosamente sfruttata in argomento di malevoli insinuazioni a carico del decoro dovuto
al Consesso dei rappresentanti della nazione” A.P. Camera dei deputati, Leg. XI, sess. 1873-74, n. 43-A, p. [2]-
[3]. Nel dicembre dell'anno precedente Nicotera aveva confessato di assistere da qualche tempo ad un
“fenomeno abbastanza strano. Si spargono delle voci contro taluni deputati; i giornali di un partito si studiano di
aggravare queste voci, a diffonderne la notizia, e ciò per produrre un'impressione nel pubblico. Poi la Camera di
Consiglio delibera di non esservi luogo a procedere contro l'individuo accusato; ma l'effetto si è prodotto;
almeno per qualche tempo l'opinione pubblica è rimasta in sospeso sul conto di quel deputato, un discredito si è
ottenuto”. A.P. Camera dei deputati, Disc., Sess. 1871-72, p. 3963.
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elezioni da parte della Camera. Dopo l'allargamento del suffragio e le elezioni del 1882
questa tendenza si accentuò: mai come nella sessione unica della XV legislatura si ebbero
richieste di autorizzazione e casi controversi33 e non solo perché, scriveva Attilio Brunialti,
l'allargamento del suffragio aveva favorito l'elezione “di uomini che non sono troppo abituati
a rispettare le leggi, e si fanno anzi merito e gloria di violarne alcune” ma anche perché l'art.
45 sembrava applicato dalle procure con eccessiva larghezza, tale da trasformarsi in una
gogna che può essere del tutto immeritata34. In questi anni, la giurisprudenza della Camera
subisce una sorta di corto circuito che porta a decisioni incerte e contraddittorie: si denuncia il
ricorso quasi automatico da parte della magistratura requirente a richieste di autorizzazione
per contravvenzioni o motivi futili tanto che si auspica la creazione di un organismo
permanente, una sorta di giunta per le autorizzazioni a procedere che, “colla garanzia della
rappresentanza delle minoranze, compirebbe il suo mandato senza pubblicità nei casi lievi e di
nessuna importanza”35. Nello stesso tempo, l'aula concede l'autorizzazione a procedere con
maggiore facilità, sovente in contraddizione rispetto alle conclusioni della commissione e del
suo relatore36 e a ciò si aggiunge la superficialità dell'esame quando la richiesta colpisce
Andrea Costa o esponenti della sinistra repubblicana e radicale37 creando precedenti che
smentiscono gli orientamenti della giurisprudenza parlamentare e i faticosi tentativi di
individuare criteri uniformi e condivisi.
In questo nuovo contesto, l'incidente Nicotera-Lovito rappresentò un momento significativo
anche in relazione all'atteggiamento dell'opinione pubblica e della dottrina. Il 6 dicembre
1883, all'interno di Montecitorio, l'on. Nicotera ebbe un alterco con il deputato Lovito,
segretario generale del Ministero dell'interno e gli sputò in faccia. Il 7 dicembre Nicotera e
Lovito si sfidarono sanguinosamente a duello a prati di Castello. L'11 dicembre, il procuratore
33 S. Barzilai, L'articolo 45 dello Statuto: la guarentigia dei deputati nei procedimenti penali, Roma,
Fratelli Bocca, 1887, p. 9.
34 A. Brunialti, Di alcune prerogative dei deputati al Parlamento, in “Rassegna di scienze sociali e
politiche”, 1883, vol. 1, p. 30. Il riferimento era certamente a deputati come Andrea Costa, Antonio Oliva,
Francesco Coccapieller, tutti accusati di reati a mezzo stampa.
35 A.P. Camera dei deputati, Leg. XV, Sess. 1882-1883, Doc., n. 67-A, Relazione Guala, 22 gennaio
1883, p. 8. Proposta ripresa anche dal ministro Giannuzzi Savelli in aula: “non potrebbe la Camera per
avventura, nella formazione del suo regolamento, per mezzo di una Giunta, od altrimenti, trovare tale un metodo
di procedura per il quale questa pubblicità delle domande di autorizzazione a procedere non avvenisse se non
quando questa Giunta da lei nominata credesse di dover concedere l'autorizzazione?”, A.P. Camera dei deputati,
Disc., 14 giugno 1883, p. 3865.
36 Lo scarto nella giurisprudenza a partire dalla XV legislatura è notato anche da S. Barzilai, L'articolo 45
dello Statuto cit., Roma,Bocca, 1887, p. 55 ss. con numerosi esempi.
37 Incredibile la richiesta di concessione dell'autorizzazione a procedere nei confronti di Andrea Costa
fatta dalla commissione il 27 giugno 1884 per avere il Costa inviato una lettera sul giuramento politico al
giornale “Lega della democrazia” preannunciando “d'accordo con altri deputati un progetto di legge, che ponga
fine una volta all'indegna commedia del giuramento politico”, A.P. Camera dei deputati, Leg. XV, Sess. 1882-
83-84, Doc. n. 50-A, p. 1.
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del Re di Roma scrisse al Presidente della Camera per informarlo che in base alle notizie
apparse su tutti i giornali aveva ritenuto di avviare delle indagini preliminari per reato di
oltraggio ad una pubblica autorità (art. 258-259 e 266 del Codice penale) ma che trattandosi di
un fatto avvenuto nei locali della Camera “ragioni di alta convenienza e di rispetto verso
codesta onorevole rappresentanza, consigliassero di non proseguire nella preliminare
informazione, prima di averne domandato il consenso alla Camera medesima”38. Con
successiva istanza, lo stesso procuratore, questa volta – come da prassi - tramite il Ministro di
grazia e giustizia, chiedeva l'autorizzazione a procedere per il reato di duello.
Nonostante il parere favorevole della commissione, il 9 febbraio 1884, la Camera, su proposta
di Francesco Crispi, decise di negare l'autorizzazione a procedere per il duello, poiché mai era
stata data per tale reato, e per l'oltraggio, poiché in quanto Lovito era alla Camera in veste di
deputato ed era un semplice impiegato superiore che non esercita “giurisdizione od impero”.
Si trattò di un dibattito e di una decisione importante sotto diversi profili. In primo luogo è
alle origini dell'immunità della sede del Parlamento39. In effetti la richiesta proveniente dalla
procura di Roma fu criticata da Crispi e da altri deputati sia perché pervenne direttamente alla
Presidenza della Camera senza la consueta trasmissione del Ministro di grazia e giustizia sia,
soprattutto, perché non era stata preceduta da una denuncia del Presidente della Camera. Ma
vale la pena notare che proprio la condotta della magistratura requirente confermava e
riconosceva l'esistenza di una inviolabilità della sede della Camera. Questo riconoscimento fu
anzi rimproverato al pubblico ministero come dimostrazione di debolezza e di soggezione
politica40. Inoltre, l'episodio sembrava fatto apposta per mettere in evidenza le contraddizioni
della giurisprudenza parlamentare sul reato di duello che ora acquistava una nuova luce di
privilegio tanto più clamoroso perché riferito ad un eminente notabile politico.
Così i deputati italiani si trovarono improvvisamente di fronte ad una vasta eco nei giornali e
nella pubblicistica giuridico-politica. Luigi Palma non esitò a definire il voto del 9 febbraio
1884 un abuso di potere e “un giorno di gran regresso del diritto pubblico italiano” insistendo
38 A.P. Camera dei deputati, Leg. XV, Sess. 1882-83, Doc., n. 164 bis, p. 2.
39 Sull'immunità della sede si veda I. Brunelli, F. Racioppi, Commento allo Statuto del Regno cit., vol. 3,
p. 246-249 dove si ricorda l'incidente Nicotera-Lovito ed il caso del deputato socialista Giuseppe Pescetti che,
nel 1898, colpito mentre si trovava a Roma da mandato di cattura per lo stato d'assedio in Toscana, si rifugiò per
una decina di giorni all'interno di Montecitorio “finché il governo, auspice officiosa la Presidenza della Camera,
non ebbe promesso di desistere dall'arresto, salvo a richiedere all'assemblea la regolare autorizzazione secondo
l'articolo 45”, p. 249. Sul caso Pescetti scrisse anche Orlando, L'immunité des locaux parlementaires: a propos
de l'incident du député Pescetti, en Italie, in “Revue du droit public et de la science politique en France et a
l'étranger”, 5 (1898), vol. 10, p. 62-72.
40 “il torto è […] tutto della istituzione di cui egli fa parte, e per la quale egli è un funzionario mezzo
giudiziario e mezzo amministrativo, mezzo indipendente e mezzo schiavo; il movimento dell'organo è incerto
come tutto l'organismo è oscillante”, G. S. Tempia, Una pagina di patologia politica, in “Rassegna di scienze
sociali e politiche”, 2 (1884), p. 28
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soprattutto sull'infondatezza dell'immunità della sede della Camera dall'ingerenza dell'autorità
giudiziaria “opera puramente di fantasia […] assolutamente ignota al nostro diritto”,
concludendo che la questione era sorta solo in virtù del peso politico del suo protagonista “un
uomo che amici e nemici non possono non riconoscere, colle sue qualità e coi suoi difetti,
come uno dei più cospicui deputati, di un Pentarca che ha nella Camera molti amici devoti e
clienti” e per il quale “Il battesimo dell'elezione pubblica, la fiducia di certi gruppi
parlamentari si vorrebbe che rendesse superiore ai codici, alle leggi, ai giudici, a tutto. Ma il
Governo costituzionale può riuscire a creare 508 irresponsabili e inviolabili, e a creare un
altro Vaticano nel palazzo di Montecitorio?”41. E ancora più duramente, Giovanni Stefano
Trompia rimproverava la Camera di voler “salvare le persone e abbuiare le cose […] formula
della condotta di tutte le caste”42 . Ma il giudizio più attonito e sferzante fu quello di
Alessandro Guiccioli che nel suo diario scriveva il 10 febbraio 1883: “La Camera ha
compiuto un altro di quegli atti scandalosi che ne compromettono sempre più la fama presso
l'opinione pubblica. Ha deciso di passare agli atti l'incidente Lovito-Nicotera. Rimane così
stabilito che nella reggia della nuova oligarchia rivivono gli antichi privilegi: che ci si può
sputare in faccia, battersi a duello, assassinare, senza che la giustizia abbia diritto di
intervenire. E' mostruoso!43”.
5. La Camera cerca un'interpretazione sull'arresto esecutivo. Il Governo difende i
procuratori di fronte alla “magistratura delle urne”.
A metà degli anni '80, il tema delle sentenze passate in giudicato divenne un nuovo terreno di
potenziale conflitto con la magistratura: in questi casi, era coperto dall'immunità parlamentare
il deputato colpito da ordine di cattura o eletto mentre era detenuto? Si trattava di una
fattispecie diversa da quella del detenuto in attesa di giudizio che, dopo la proclamazione
dell'avvenuta elezione, aveva trovato fin dal 1848, come si è visto, una soluzione nella
liberazione immediata, prassi sempre rispettata dalla magistratura italiana. I tempi erano
cambiati: ora si assisteva alla candidatura elettorale come forma di protesta di fronte alla
41 L. Palma, Una nuova questione sui privilegi parlamentari, in “Rassegna di scienze sociali e politiche”,
1 (1883-84), vol. 2, p. 535.
42 G. S. Tempia, Una pagina di patologia politica cit., p. 33, dove si aggiunge: “il popolo guarda stupito
questo nuovo taumaturgo che viaggia gratis in prima classe, che ha tutti i ministri sotto le mani, che fa fare i
sindaci e i cavalieri, le strade e le ferrovie, che fa dare impieghi e promozioni, che professore, si dispensa dal far
lezione, che avvocato, dà suggezione ai magistrati […] il popolo nota quest'essere, che, prepotente con
gl'impiegati, prepotente coi magistrati, prepotente coi privati, prepotente con tutti, riceve di tratto in tratto inni di
lode per il suo sacrificio in pro del pubblico bene!”. Si veda anche: L. Palma, Ancora sul voto del 9 febbraio sui
privilegi parlamentari, in “Rassegna di scienze sociali e politiche”, 2 (1884), vol. 1, p. 64-72.
43 A. Guiccioli, Diario di un conservatore, Milano, Ed. del Borghese, 1983, p. 118.
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condanna per reati politici. Il primo caso ricordato nella letteratura dell'epoca fu quello del
repubblicano Giovanni Falleroni condannato con sentenza passata in giudicato per aver
distribuito e affisso stampati antimonarchici ed eletto a Macerata nel 1882: tuttavia la
domanda di autorizzazione all'arresto non fu mai presentata perché Falleroni si rifiutò di
prestare giuramento44. Il caso più clamoroso fu quello del garibaldino, poi anarchico,
Amilcare Cipriani che, condannato a 25 anni di lavori forzati per omicidio, fu più volte
candidato e poi risultò eletto nel maggio 1886 e per altre tre volte fino al febbraio 1887 nel
collegio di Forlì. La sua elezione fu sempre annullata poiché il reato che stava scontando
prevedeva l'interdizione perpetua dai pubblici uffici45. Furono invece almeno quattro i
deputati la cui elezione fu convalidata nonostante fossero condannati con sentenza definitiva.
Si tratta di Alcibiade Moneta e Andrea Costa, socialisti, e Francesco Coccapieller e Pietro
Sbarbaro, i due “tribuni”, protagonisti dimenticati, negli anni successivi alla caduta della
Destra, di una stagione di moralismo e di indignazione contro la finanza corrotta e l'intrigo
politico che fu all'origine di clamorosi processi per diffamazione ed ingiurie46. La Camera
cercò, in qualche modo, di stringere le maglie a difesa dell'immunità dei suoi membri ma,
alla fine, la soluzione fu contraria all'applicazione dell'art. 45 dello Statuto e quindi alla
liberazione o alla sospensione della detenzione esecutiva. Sul punto si ebbero forti contrasti e
la Camera subì il peso sia dell'opinione pubblica che del Governo come dimostrano gli
interventi del Ministro di grazia e giustizia e del Presidente del consiglio per compattare la
maggioranza di fronte alle vicende giudiziarie dei deputati coinvolti.
44 Su Falleroni, cfr. la voce di A. M. Isastia, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 44, 1994.
45 Sulla figura di Cipriani, cfr. la voce del Dizionario biografico degli italiani, vol. 25, 1981, a cura di Pier
Carlo Masini. Sulla sua elezione si veda l'articolo allarmato di E. Cabib, A proposito dell'elezione di un
ineleggibile, in “Rassegna di scienze sociali e politiche”, 4 (1886), vol. 1, p. 534-549. La mobilitazione a favore
di Cipriani portò infine alla concessione della grazia nel 1888.
46 Su Sbarbaro si veda: L. Lacchè, Pietro Sbarbaro e il “Risorgimento” di Alberico Gentili, in Alberico
Gentili: atti dei convegni nel quarto centenario della morte, vol. 2, Milano, Giuffrè, 2010; Pietro Sbarbaro
(1838-1893): atti della Giornata di studio, Savona, 7 dicembre 1993, a cura di Silvia Bottaro ed Emilio Costa,
Savona, Sabatelli, 1994; P. De Sanctis Ricciardone, Il mattoide e l'antropologo, in Id., Nemici immaginari:
esercizi di etnografia, Roma, Meltemi, 1996. Su Coccapieller, si veda la voce del Dizionario biografico degli
italiani, vol. 26 (1982), a firma di Lauro Rossi. Occorre tener conto del fatto che fino al codice Zanardelli, la
diffamazione e l'ingiuria a mezzo stampa, il cosiddetto “libello famoso” era regolato dall'editto sulla stampa del
1848 con pene molto miti (il carcere fino a 6 o tre mesi ed una multa non superiore a L. 1000). Dal 1890 l'art.
393 del codice Zanardelli stabilì pene molto severe per la diffamazione aggravata dalla pubblicità prevedendo la
reclusione fino a 5 anni e abolì il regime favorevole per la diffusione a stampa. Questa modifica anche la
reazione politica al giornalismo scandalistico romano degli anni '80 che ebbe in Coccapieller e Pietro Sbarbaro i
suoi rappresentanti più noti. Come scrisse Manzini nel suo Trattato di diritto penale l' ”esorbitanza” della pena
in materia di diffamazione era dovuta all' “ansia di taluni nostri uomini politici, allora dominanti, di sottrarsi
coll'intimidazione penale agli attacchi velenosi di certa stampa diffamatoria, che in quei tempi ebbe un'effimera
fortuna in Italia” dovuta a “due mattoidi libellisti, che la follia propria e collettiva portò per breve ora persino ai
fastigi del parlamento, Francesco Coccapieller e Pietro Sbarbaro”, V. Manzini, Trattato di diritto penale
italiano, vol. 7, Torino, Bocca, 1918, p. 504-505.
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I primi casi, sia pure molto diversi tra loro, si presentarono tra la fine della XV legislatura e
l'inizio della legislatura XVI, cioè tra il dicembre 1885 e l'agosto 1886.
Pietro Sbarbaro, il famoso professore e pubblicista savonese, fu accusato di numerosi reati di
diffamazione e minacce da Guido Baccelli, da Agostino Depretis e da altri politici del tempo
per i violenti articoli pubblicati su “Le forche caudine” e su altri giornali. Finì con l'essere
condannato dalla corte d'appello di Roma e divenne una sorta di simbolo della lotta alle
degenerazioni del parlamentarismo, tanto che gli elettori di Pavia lo elessero deputato nel
dicembre 1885. Poiché pendeva un ricorso in Cassazione, fu immediatamente scarcerato per
iniziativa della procura e “accompagnato al Parlamento da una turba di popolo entusiasta sin
quasi al delirio”47. Dietro richiesta del procuratore generale presso la Cassazione di Roma, il
14 aprile 1886 la Camera autorizzò l'ulteriore corso del procedimento penale ma, nello stesso
tempo, affermò che per arrestare di nuovo lo Sbarbaro sarebbe stato necessaria una specifica
richiesta di autorizzazione. Sbarbaro, comunque, fuggì all'estero rifugiandosi a Lugano.
Intanto, nel maggio 1886, era stato eletto a Mantova il deputato socialista Alcibiade
Moneta48 fuggito in Spagna dopo la condanna in contumacia passata in giudicato per alcuni
articoli pubblicati sul giornale “La Favilla” e soprattutto per il reato di ribellione (art. 247 del
codice penale) in occasione degli scontri con la polizia avvenuti a Mantova, l'8 giugno 1882
durante la commemorazione della morte di Garibaldi. Dopo l'elezione, Moneta tornò in Italia
e fu quindi chiesta alla Camera l'autorizzazione all'esecuzione della sentenza.
Qualche settimana dopo, il 1° agosto 1886, Francesco Coccapieller, lo stravagante giornalista
romano famoso per i suoi articoli diffamatori, fu eletto al ballottaggio nel primo collegio di
Roma, mentre si trovava in carcere con sentenza passata in giudicato per calunnie e
diffamazione. Nell'occasione la questione dell'applicabilità dell'art. 45 dello Statuto fu
affrontata in Consiglio dei ministri ed esclusa dal Ministro di grazia e giustizia Diego Tajani,
proprio perché la sentenza era definitiva e il condannato era già in stato di arresto. Ma il
Presidente della Camera Biancheri, dopo la proclamazione di Coccapieller, ritenne comunque
di difendere le prerogative della Camera dei deputati e ne nacque un vivace scambio
epistolare con Tajani di cui abbiamo notizie indirette ma abbastanza dettagliate. Biancheri
ricordò i precedenti di Sbarbaro e Moneta ma Tajani poté rispondere che Sbarbaro non era
condannato con sentenza passata in giudicato e Moneta era sì condannato definitivamente ma
non era in stato di arresto e perciò il procuratore generale “per omaggio alla lettera dell'art. 45
47 S. Cilibrizzi, Storia parlamentare politica e diplomatica d'Italia: da Novara a Vittorio Veneto, Napoli,
Treves, 1939-1952, vol. 2, p. 281.
48 Su Alcibiade Moneta, si veda la voce firmata da E. Cecchinato in Dizionario biografico degli italiani,
vol. 75 (2011).
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e per abbondare in rispetto alle garanzie dei deputati” non aveva fatto catturare Moneta al suo
ritorno in Italia e aveva chiesto alla Camera la relativa autorizzazione. Diversa era la
situazione di Coccapieller poiché non era possibile scarcerarlo “senza violare l'art. 68 dello
Statuto e senza dare all'art. 45 un'interpretazione nuovissima ed arbitraria”49.
La questione di Sbarbaro si risolse momentaneamente con la fine della legislatura mentre il
caso Coccapieller trovò una soluzione attraverso uno specifico provvedimento di grazia
concesso nell'ottobre 1886 dopo la richiesta di clemenza proveniente da più di 10.000
cittadini.
Più interessante il caso di Alcibiade Moneta, quando la richiesta di dare esecuzione alle
sentenze a suo carico fu esaminata prima dagli Uffici e poi dalla Commissione parlamentare
presieduta da Gennaro Di San Donato, nel giugno 1887. Il relatore, Ettore Sacchi, dichiarò
che non era né opportuno né necessario entrare nel merito delle sentenze di condanna: il fine
dell'art. 45 dello Statuto non era principalmente quello di tutelare i membri della Camera dagli
abusi del potere esecutivo e giudiziario, abusi che peraltro, in questo caso, sarebbe stato
difficile ipotizzare, poiché le sentenze erano precedenti l'elezione del Moneta. Il fine dell'art.
45 era quello di garantire l'esercizio della sovranità nel corpo elettorale e la continuità della
funzione legislativa: “Ogni deputato rappresenta la intera nazione: così solennemente
proclama lo Statuto, e quando la nazione ha fissato per mezzo de' suoi poteri legislativi quanti
e quali la debbano rappresentare, noi crediamo che nessuno può per qualsiasi ragionamento
interporsi tra la nazione e il suo rappresentante e confiscarle sia pure in una cinquecentesima
parte l'esercizio della sovranità”50. Perciò, partendo dalla divisione dell'art. 45 in due distinte
disposizioni normative, come già proposto da Pasquale Stanislao Mancini, Sacchi poteva
affermare che il divieto di arresto di un deputato nel tempo della sessione dovesse
considerarsi assoluto e incondizionato, salvo il caso di flagranza, “e come la Camera stessa
non solo non possa autorizzarlo, ma non dovrebbe neppure essere chiamata ad occuparsi di
una siffatta domanda”51.
L'impianto interpretativo proposto da Mancini nella relazione del 1870, portato alle estreme
conseguenze, divenne quindi lo strumento principale, in anni di crescenti conflitti sociali, per
difendere anche i deputati dell'estrema sinistra ed i primi deputati socialisti, cercando di
tutelare l'integrità del Parlamento e la sua funzione rappresentativa, evitando che il voto
49 Cfr. Quel che pensa l'on. Biancheri, in “Il Friuli: giornale del popolo”, 28 settembre 1889, n. 232, p. 1,
disponibile anche in rete: <http://periodicifriulani.sbhu.it/>. L'articolo descrive in dettaglio i contenuti della
corrispondenza intercorsa tra Biancheri e Tajani.
50 A.P. Camera dei deputati, Leg. XVI, Sess. 1886-87, Doc., n. 49-A, p. 12.
51 Ivi, p. 7.
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ricalcasse la divisione tra maggioranza e opposizione o tra moderati ed “estrema”. In questo
caso, gli argomenti di Mancini erano utilizzati non tanto per risolvere il conflitto con la
magistratura ma per evitarlo in situazioni limite come la detenzione o l'arresto, e scongiurare
così un voto politico che avrebbe potuto emarginare i rappresentanti dell'estrema sinistra.
L'intento era quello di togliere la prerogativa parlamentare dall'arbitrio della maggioranza e
assoggettarla unicamente alla legge, “isolando” e “proteggendo” la Camera anche a costo di
portarla in un vicolo cieco interpretativo. Comunque, sull'interpretazione di Sacchi, non si
ottenne la delibera della Camera poiché intervenne un'amnistia che pose fine alla questione.
Nel 1887, intanto, Pietro Sbarbaro, arrestato in Italia e ormai non più protetto dall'immunità
parlamentare, fu incarcerato in esecuzione della sentenza del novembre 1885. Mentre stava
espiando la pena fu di nuovo eletto nel primo collegio di Pavia nel 1889 e nella seduta del 5
dicembre 1889 la sua elezione fu convalidata. A questo punto Sbarbaro scrisse al Presidente
Biancheri, chiedendo alla Camera di dichiarare la sua libertà “in omaggio alla magistratura
delle urne”.
Il Presidente della Camera deferì agli Uffici la questione attraverso la nomina di apposita
commissione che presentò la sua relazione il 4 marzo 1890 - a firma di Tommaso Cambray
Digny – affermando che l'art. 45 dello statuto non poteva essere applicato al caso del cittadino
eletto deputato mentre sta espiando una pena a seguito di sentenza passata in giudicato52. Il
22 marzo 1890 la questione arrivò in aula, proprio il giorno successivo al dibattito sull'arresto
esecutivo di Andrea Costa che era stato condannato a tre anni di reclusione per il reato di
ribellione53. L'autorizzazione all'arresto di Costa diede luogo, nei giorni 19, 20 e 21 marzo
1890, ad una discussione molto accesa nella quale intervenne anche il Governo. La
Commissione incaricata di riferire all'aula presentò una relazione di maggioranza a firma di
Antonio Salandra che limitava la possibilità di impedire l'applicazione di un giudicato alla
presenza di indebite ingerenze del potere esecutivo e quindi proponeva di concedere gli
arresti. La relazione di minoranza proponeva invece di negare l'arresto poiché la Camera
doveva ritenersi pienamente arbitra della decisione. Accanto a queste due soluzioni Sacchi,
con l'appoggio di Galimberti, Cavallotti, Villanova e Marcora, illustrò nuovamente l'opinione
che invece mirava ad impedire una pronuncia discrezionale dell'assemblea precludendo ad
52 A.P. Camera dei deputati, Leg. XVI, sess. 1889-1890, Doc., n. 101-A dove è riprodotto anche il testo
della lettera di Sbarbaro.
53 Cfr. A.P. Camera dei deputati, Leg XVI, ses. 1889-1890, Doc., n. 89A.
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essa la decisione poiché la prerogativa parlamentare doveva considerarsi assoluta durante la
sessione. Per alzata di mano fu approvata la proposta della maggioranza54.
Come ricordano Mancini e Galeotti, la novità dei dibattiti del marzo 1890 sui casi Sbarbaro e
Costa fu che il Governo abbandonò il tradizionale atteggiamento di neutralità per intervenire
risolutamente a tutela delle sentenze e del potere giudiziario. Soprattutto Crispi pose la
questione in termini perentori e ultimativi: “Un condannato per reato comune, il quale è
nominato deputato, può esso godere dei benefizi dell’articolo 45? Non potete che rispondere:
no. L'articolo 86 della legge elettorale politica, dando agli elettori il diritto di eleggere
individui, i quali furono condannati per certi reati che non tolgono loro l'eleggibilità, gli eletti,
dovranno essere scarcerati appunto perché sono stati nominati deputati? Non potete dire che
no. Ove diverso fosse il vostro verdetto, voi non solo portereste il disordine nel
funzionamento dei poteri pubblici, ma rechereste una vera offesa alla magistratura, le cui
sentenze devono essere rispettate ed eseguite”55.
L'interpretazione di Sacchi sarebbe riemersa e si sarebbe affermata nell'aprile 1903 quando
giunse in discussione la richiesta di autorizzazione all'arresto dell'on. Filippo Mario
Todeschini condannato dalla corte d'assise di Verona con sentenza passata in giudicato a tre
mesi e dieci giorni di detenzione per reato di offesa alle istituzioni costituzionali dello stato
mediante stampa (art. 126 del codice penale). La commissione propose all'aula di negare
l'autorizzazione “per non essere consentito dall'articolo 45 dello statuto di dare esecuzione alla
relativa sentenza durante la sessione”56. Alla relazione era allegata la ripubblicazione della
relazione Sacchi del 1887 i cui argomenti erano ripresi integralmente dal relatore Umberto
Caratti nel ribadire che l'applicazione delle prerogative parlamentari “non possa essere
esposta ad arbitrii ed a capricciose, e magari contraddittorie deliberazioni, ma debba restare
determinata per tutti e sempre dalla legge”57. Il 28 aprile 1903 la Camera accettò senza
discussione, la proposta della commissione. La decisione fu adottata quasi a sorpresa, in
un'aula decimata dalle assenze, senza discussione, in una seduta mattutina, come notò qualche
54 “La Camera, convinta che dalla sentenza del tribunale correzionale di Roma del 5 aprile 1889, relativa
al deputato Andrea Costa, è esclusa ogni ingerenza del potere politico, delibera che l'art. 45 dello statuto del
regno non è applicabile al caso in esame”.
55 Intervento del 22 marzo 1890 sulla scarcerazione di Pietro Sbarbaro, cit. in M. Mancini – U. Galeotti,
Norme ed usi del parlamento italiano. Prima appendice, Roma, Tip. Della Camera dei deputati, 1891, p. 77-78.
Nella tornata precedente, il ministro Zanardelli in relazione alla domanda di arrestare il Andrea Costa aveva
affermato: “Di fronte a questa franchigia voi invocate l'altra franchigia dell'immunità parlamentare, che essa pure
è certamente in sé stessa una rispettabile, una utile e provvida difesa. Ma quando volete, non dirò sovrapporla,
ma contrapporla, alla giustizia, allora lasciate che io vi dica che la giustizia non ammette rivali, né nell'intelletto,
né nella coscienza; che la giustizia è il solo sentimento a cui gli uomini s'inchinano senza alcuna riserva; che la
giustizia non è ancella di nessuna potenza, nemmeno della libertà”.