Luigi Ferdinando Dagnese Cronache dal frigorifero Di fronte a loro apparve un muro. Cominciava in aria e si estendeva in alto a perdita d’occhio. ... Il buio era assoluto. Nessuna luce, tranne quella intermittente dei segnali luminosi, rischiarava l’oscurità. L’aria era piena di rumori confusi. — Isaac Asimov, Cronache dalla Galassia I Cronache dal frigorifero Torino, 1981 Uno La camera di Marilina era tutta rosa ma nei giorni di mutua lei preferiva tenere chiusi gli scuri alle finestre e l’ambiente assumeva nel complesso una tinta, e un odore pure, di carne andata a male. L’odore della stanza lo 1
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Luigi Ferdinando Dagnese
Cronache dal frigorifero
Di fronte a loro apparveun muro. Cominciava in aria e si estendeva in alto a perdita d’occhio.... Il buio era assoluto. Nessuna luce, tranne quella intermittente dei segnali luminosi, rischiarava l’oscurità. L’aria era piena di rumori confusi.— Isaac Asimov, Cronache
dalla Galassia
ICronache dal frigorifero
Torino, 1981
Uno
La camera di Marilina era tutta rosa ma nei giorni di
mutua lei preferiva tenere chiusi gli scuri alle finestre e
l’ambiente assumeva nel complesso una tinta, e un odore
pure, di carne andata a male. L’odore della stanza lo
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emanava proprio lei in fondo, al modo che aveva di
convincersi d’essere ammalata sul serio. C’erano montagne di
libri impilati sul pavimento accanto al letto, aperti al
segno col dorso rivolto al soffitto, e montagne di flaconi
medicinali. Teneva libri e flaconi a portata di mano, così
nei giorni di mutua non doveva stare ad alzarsi per
trovarli. Le lenzuola del letto erano di un grigiastro che
si intonava male col rosa alle pareti—a meno cioè che gli
scuri rimanessero chiusi, nel qual caso la penombra rendeva
il contrasto trascurabile.
Erano le nove del mattino. Entrai nella stanza e, senza
badare all’ansimare di Marilina, aprii la porta che dava sul
terrazzino e sfilai una carota dalla borsa di plastica
appesa all’antina. “... le mie carote...” sospirò lei
debolmente. Le diedi due o tre colpetti in testa col
barbiglio verde della carota, addentai l’ortaggio e lasciai
la stanza ruminando.
Carote a colazione, mi dissi. Ero ridotto male. Nei giorni
scorsi una rivista letteraria di Roma si era tanto
complimentata per un racconto sperimentale che, “come
certamente capivo,” non potevano pubblicare; un’emittente
radiofonica locale trasmetteva di tanto in tanto qualche mio
poemetto; i consulenti delle maggiori case editrici
nazionali si contendevano (ma dubitavo che si trattasse
solamente di una forma di curiosità morbosa) il manoscritto
di un romanzo osé che mi ero pentito da tempo d’avere
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scritto. Smaltivo giornalmente una fitta corrispondenza con
scrittori famosi, registi di successo, redattori editoriali,
giornalisti. Ma non guadagnavo da anni l’ombra d’un
quattrino.
L’appartamento in cui abitavo apparteneva a mia moglie
Amaranta. I nonni materni gliel’avevano lasciato al tempo
dell’università e si erano trasferiti a vivere colla figlia
in campagna. Il papà di Amaranta era operaio specializzato,
lavorava in una fabbrica di ceramiche del cuneese ed era
orgoglioso di avercela fatta a laureare la figlia in
architettura. Ma l’edilizia era in crisi, come si diceva a
quel tempo (si dice tuttora, mi risulta), e Amaranta non
lavorava da un anno. Le avevano offerto un posto da commessa
in un negozio di mobili della periferia: cassettiere rococò,
armadi finto antico, librerie con l’incastro d’angolo per il
televisore... Era pur sempre un’opportunità, eppure Amaranta
ci meditava da tre settimane, non arrivava a decidersi.
Accettando quell’impiego avrebbe dato l’addio a tanti bei
sogni. Certi suoi compagni d’università praticavano davvero
la professione di architetto ma loro, come si diceva,
avevano la famiglia alle spalle. Amaranta non aveva che la
grazia, lo scrupolo, l’intelligenza, e un marito scrittore
da sfamare. Troppo, e troppo poco.
Marilina coabitava con Amaranta da prima che io fossi
tornato a vivere con lei. In principio erano state buone
amiche. Per un po’ anche Marilina aveva studiato
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l’architettura ma poi aveva rinunciato e s’era trovata un
posto da assistente sociale in municipio. Cominciava a
guadagnare benino.
In quei giorni ricevetti la visita di un vecchio amico
che veniva dalle Langhe. Stavano preparando l’uscita di una
nuova rivista, mi disse; per quello aveva lasciato le sue
colline e s’era spinto qui in città, per parlarne con me.
Verso l’ora di cena cominciai a preparargli il pollo alla
pernice. In cucina avevo tutti gli ingredienti necessari
salvo il pollo, ma quello contavo di scovarlo frugando nei
sacchi di Marilina. Lei aveva sospeso il periodo di mutua
così potevo perquisire la sua stanza con calma. Stavolta
dalle borse di plastica non ricavai nulla, ma scovai invece
un piccolo frigorifero portatile stipato sotto il letto.
Dentro c’era il mio pollo, una metà per l’esattezza.
Il mio amico langarolo era uno specialista di
recensioni. Ne leggeva a bizzeffe, tutte quelle sui cui
metteva le mani, praticamente, su qualsiasi argomento. Di
cucina non ne capiva un granché, però, così avevo deciso di
sbalordirlo col mio pollo alla pernice. Il segreto del pollo
alla pernice sta negli ingredienti della marinatura. Mi
chiese di rivelarglieli ed io consentii, dicendogliene uno
sì e tre no. Dopo un paio d’ore di marinatura dori la carne
del pollo nell’olio d’oliva, poi ci aggiungi un bicchiere di
vino bianco secco, lasci evaporare il sugo, ci versi sopra
tutto quanto l’intruglio della marinatura, procedi con una
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breve cottura a fiamma ben alta e wham! servi il tutto
bollente in tavola.
Non ce n’era troppo di pollo alla pernice e lo servii
quasi tutto nel piatto dell’amico langarolo.Gli dissi che
non avevo appetito, che mi cucinavo lo stesso piatto un
giorno sì e uno no. Rimasi zitto per un po’ guardandolo che
mangiava. Controllavo i crampi allo stomaco con il vino
dolcetto che aveva portato lui dalle Langhe, un bicchiere
dopo l’altro.
La nuova rivista, mi diceva intanto che masticava, si
sarebbe chiamata Langa Materiali. Il fulcro della rivista, i
contenuti, gli argomenti, dovevano provenire tutti dalla
vita della gente delle Langhe. Manco a dirlo, pensai tra me. È
perlomeno dalla morte di Cesare Pavese che le Langhe sono
l’ombelico del mondo, a detta dei langaroli. Magari anche da
prima della morte di Cesare Pavese, a pensarci bene...
Questa faccenda della centralità delle Langhe rispetto al
resto del mondo mi aveva tormentato a lungo, in passato;
sono nato anch’io laggiù, tra le colline. Avevo scritto un
saggio, Donne e Buoi, in cui sostenevo che la centralità delle
Langhe rispetto al resto del mondo era frutto di un
terribile malinteso, e che ne erano responsabili le genti
stesse delle Langhe, a causa della loro naturale ritrosia a
guardarsi intorno. Il saggio mi aveva procurato parecchi
lenzuola, coperte e trapuntini. La loro stanza era piena di
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scatoloni impilati, per attraversarla e raggiungere il letto
o la finestra che dava sul terrazzo bisognava passare lungo
i cunicoli ricavati tra i cartoni.
Da quando avevano finito di imballare le loro cose,
Stefano e Marilina non si cambiavano più d’abito siccome
tutti i capi di vestiario erano stati riposti insieme al
resto: lui sempre la stessa camicia, lei sempre la stessa
maglietta. Quando si fermavano per un po’ in cucina a
mangiare, lasciavano l’ambiente impregnato d’un odore come
di cane bagnato. Forse, pensavamo Amaranta ed io, avevano
fatto male i loro conti, erano stati troppo precipitosi: la
nuova casa in fondo non se l’erano ancora trovata.
La notte dormivano vestiti. Io entravo nella loro
camera, strisciavo carponi lungo i cunicoli tra gli
scatoloni e facevo un inventario di massima per soddisfare
la mia curiosità: 119 scatole, 120, 121... Aumentavano ogni
giorno, certo che ne avevano di roba da spostare.
Il telefono squillava continuamente, sempre per loro
due. Era gente che voleva proporgli un appartamento, un
alloggio ammobiliato, un residence, un bungalow in collina.
Era impressionante questa disponibilità di case sfitte in
città, si sarebbe detto che i proprietari si facevano in
quattro a sfrattare i vecchi inquilini pur di offrire un
tetto ai nostri Kronskij. Eppure tutti sanno che il
tentacolare mondo della rendita immobiliare è spietato e
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senza cuore: Stefano ci aveva fatto sopra addirittura una
ricerca. Che ci fosse lo zampino del Partito?
Febbraio piccolo e maligno ci pioveva addosso senza
sosta da una settimana quando ci giunse in casa la notizia
del decesso di Lazare, l’analista di Marilina. L’avevano
trovata impiccata al cavetto del telefono, il capo riverso
sul saggio incompiuto che intendeva dedicare alla psicologia
di Marilina.
Di lavoro per Amaranta non se ne trovava, né stabile né
precario, né a ore né a cottimo. Niente di niente. Un
temperamento meno determinato del suo avrebbe finito col
demoralizzarsi. Questi architetti del centro-città, una
cricca di Superboni postmoderni, si somigliavano tutti alla
fin fine. Vestivano così e cosà, i capelli li portavano a
ricciolo col tirabaci in fronte, la erre la pronunciavano
moscia per ragioni di lignaggio familiare. Se non eri uno
dei loro, se ne accorgevano subito e non volevano saperne di
starti ad ascoltare. Amaranta si presentava con quel suo
pestilenziale giaccone operaio e se li inimicava senza
volere: il cuoio del giaccone si distribuiva in scagliette
minute sui tappeti dello studio o gli inzaccherava i
pavimenti a palchetto. Si accigliavano al vedere Amaranta
che arrivava nel loro studio, questi architetti, e si
nascondevano, le facevano dire che erano partiti per un
convegno a Venezia, che avevano lasciato il paese. Lei non
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si perdeva d’animo, aspettava qualche giorno per non parere
importuna e poi tornava alla carica.
Come sempre, colla fine dell’inverno i seni di Amaranta
tornavano a crescere di dimensioni. Comperò un reggiseno di
seta ad una svendita, un modello passato di moda che la
avviluppava stretta sul davanti, e si provò a metterlo sotto
la maglietta per darsi maggior compostezza quando usciva in
cerca di lavoro. Ma dopo i primi tentativi preferì lasciar
perdere perché con quell’impalcatura acquistava troppo
volume sul davanti. I suoi seni avevano guadagnato qualche
centimetro di circonferenza e le si erano fatti più sodi ed
elastici. La notte dormivamo abbracciati, le sue cosce
all’erta e i piedi prensili come in arcione intorno ai miei
polpacci: la guardavo rivoltarsi nel sonno, dava da pensare
ad una bestia in letargo che succhiava succhi vitali dal
fiore segreto dell’esistenza. Mi aggrappavo alle sue poppe e
mi lasciavo trascinare nel mondo dei sogni.
Quanto a soldi, stavamo sul livello di guardia. Dal suo
lavoro alla Biblioteca della Facoltà di Architettura avevamo
risparmiato sì qualcosetta ma non molto. Bisogna riconoscere
che se i Kronskij avessero sbaraccato sul serio, noi due ci
saremmo trovati in un bel pasticcio, bruscamente privati
delle loro derrate alimentari.
Quest’ultimo inverno era trascorso bene, non ci si
poteva lamentare. Aveva tirato per casa la solita aria
commestibile, il clima mangereccio di sempre. A giorni
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pareva di stare in una sezione staccata della rosticceria
del rione: i cibi oltretutto arrivavano già cotti per lo più
e non dovevamo neanche darci la pena di cucinare. Di quando
in quando io facevo una capatina in palestra e sudavo via un
paio di chili alla corda o alle barre: bastava appena a
mantenermi in forma, col regime alimentare che ci imponeva
la presenza dei Kronskij. In Gennaio, in occasione
dell’organizzazione della Festa per la Fine del Mondo,
Marilina era stata assunta come Archivista dell’Alto
Commissariato ai Festeggiamenti. E da quel momento i due
avevano smesso di presentarsi in ufficio del tutto. Si
alzavano tardi, sbrigavano insieme qualche pratica urgente,
poi chiamavano la rosticceria e facevano la loro solita
ordinazione principesca, a base vuoi di fagiano farcito,
vuoi di tomini all’olio d’oliva, vuoi di pesce spada in
maionnese. Io aspettavo che avessero finito di ordinare e
sgusciavo quatto nell’androne del condominio, dove
alleggerivo di tutto un po’ il garzone della rosticceria.
Questo ragazzo, si chiamava Luca, era cresciuto di due
annetti e cominciava a coltivare le prime ambizioni adulte.
Di solito non gli sequestravo l’intera ordinazione perché i
Kronskij ordinavano porzioni smisurate e avrei finito col
buttarne via una buona parte. Avevo specializzato il mio
frigorifero en plein air e ci stipavo soltanto più lo
scatolame. Non volevo ritrovarmi, ai primi disgeli, con la
casa allagata di salse e sughetti... Di modo che sovente
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facevo la ripartizione delle derrate sotto gli occhi di
Luca, questo a me, questo a loro, questo non mi piace,
questo sì. Asportavo una metà all’incirca dell’ordinazione e
l’altra metà lui saliva a consegnarla a Stefano e Marilina.
Dicevo poc’anzi delle ambizioni adulte di Luca.
Ispirato dalla mia pratica dell’esproprio, arrivò a propormi
delle vere e proprie malefatte. Voleva derubare i datori di
lavoro, parlava di svaligiare i magazzini e riempire un
camion-frigorifero colla refurtiva. Io per forza di cose gli
nascondevo di subire il fascino della sua trovata: un
camion-frigorifero colmo di vettovaglie e via on the road!
Cercavo di dissuaderlo insistendo sulla differenza di natura
politica che separa il furto volgare dall’esproprio
proletario. Ma lui si ostinava a volermi come complice e non
voleva vederla questa differenza. Diceva che gli serviva uno
con la mia esperienza.
Poi i Kronskij modificarono ancora i piani di trasloco
e disfarono le casse che contenevano il loro vestiario di
mezza stagione. Recuperarono qualche libro di lettura
immediata e smantellarono la cassa dei medicinali. Stefano
venne a dirmi che adesso per loro due era impossibile
partire, non subito perlomeno. Gli era appena stata
preannunciata la visita del Capo della Città, mi disse: il
Capo della Città in persona sarebbe venuto ad onorarci della
Sua presenza:
“Qui!” esclamò. “In casa nostra!”
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Era una fortuna che lui e Marilina non avessero già
cominciato a traslocare, pensa l’inghippo in cui si
sarebbero ritrovati, disse. Per prima cosa mi spiegò che
dovevamo intervenire sulla condizioni generali della nostra
casa: un’aggiustatina qua e una mano di tinta là, disse, e
ne avremmo fatto la residenza degna d’un funzionario del suo
calibro.
Io non mi opposi alla proposta di rinfrescare la casa.
Quella era comunque una cosa da fare; Amaranta ed io
aspettavamo soltanto che i Kronskij si decidessero a
sloggiare per cominciare i lavori di riattamento. Che ora
noi quattro si facesse una parte della fatica assieme mi
sembrava più che opportuno. Ce la saremmo cavata in metà
tempo, , e ne saremmo usciti con una magione degna dell’Alto
Commissario ai Festeggiamenti. Sai, lo sfarzo! Questi lavori
ci tennero occupati una settimana esatta. Avevamo appena
steso l’ultima mano di tinta i cucina quando venne
programmata la nostra serata in compagnia del Capo della
Città. Nella camera dei Kronskij avevamo stipato, oltre ai
loro bagagli, tutto il ciarpame della casa che non era stato
possibile rifilare alla nettezza urbana. Il resto
dell’appartamento era ridipinto a nuovo, i pavimenti tirati
a specchio, le porte e gli infissi riverniciati. Per tutta
la durata dei lavori i Kronskij avevano dovuto adattarsi a
dormire per terra nel vestibolo. La loro stanza era
decisamente impraticabile, oltre a essere rimasta lurida
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quanto prima: questa mi sembrava una ragione in più per cui,
passata la visita del Capo della Città, avremmo potuto
accelerare la loro dipartita. Se ne sarebbero
definitivamente andati, pensavo senza boria, lasciandoci
padroni di casa, monarchi incontrastati di una magione dalle
dispense vuote. Le provviste di scatolame accumulate sui
terrazzi potevano durarci sì e no un mesetto: sarebbe presto
venuta la bella stagione ma per me e Amaranta avrebbe
comportato una vera e propria carestia. Non ci sarebbe
rimasto che sperare nella ripresa dell’edilizia e nel
propagarsi a catena dei suoi effetti benefìci: dagli
architetti-tirabaci agli architetti diseredati di periferia,
da questi agli ingegneri-specialisti del cemento armato,
dagli ingegneri ai geometri dei piani regolatori, ai
disegnatori con l’anzianità professionale e il record di
presenze sul lavoro, ai muratori dei cantieri, ai
capomastri, i carpentieri, gli idraulici, gli elettricisti,
i mobilieri, i piastrellatori, gli imbianchini, i tecnici
dei telefoni, degli ascensori, dei termosifoni, dei
citofoni, gli operai dei cementifici, delle fornaci, della
cave di pietra, di marmo, di sabbia, gli apprendisti, i
lavavetri... Una volta toccato questo anello della catena,
si sarebbero agilmente inseriti i grandi nomi del design
nazionale, ovverossia gli stessi architetti-tirabaci di
prima con le loro nuove forme per abitare, le forme per
illuminare, le forme per arredare, le forme per cucinare,
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macellare, torturare, derubare, speculare, mortificare e via
dicendo. Da Tizio a Caio a Sempronio, il meccanismo di
propagazione della ricchezza si sarebbe mosso necessario e
implacabile, una volta che fosse stato attivato dalla
ripresa dell’edilizia. Nessuno ne sarebbe rimasto escluso,
nemmeno l’ultimo pidocchio nel mondo delle costruzioni
edili, nemmeno noi... Tutto stava a rimanere in vita e
aspettare il nostro turno.
Il Capo della Città venne a trovarci una sera dopocena.
Era un signore anziano con una cresta di capelli candidi, un
personaggio differente da quello che mi ero aspettato. I
giornali quotidiani di solito non parlavano del Capo della
nostra città perché dovevano dare la precedenza al Capo
della Capitale, che era più popolare di lui e partecipava
con passione, era risaputo, ai quiz di indovinelli in
televisione. Così, per ragioni di priorità politica, io non
sapevo che avevamo al governo della città un tipo del tutto
diverso dal Capo della Capitale, un uomo dal viso franco ma
grave, uno che proprio non te lo immaginavi seduto in uno
studio televisivo a sventolare una bandierina gialla o una
bandierina blu a seconda della risposta all’indovinello di
turno. L’accordo con i Kronskij era che loro due avrebbero
recitato la parte dei padroni di casa quella sera, io e
Amaranta quella dei conviventi in procinto di andarsene.
Stefano e Marilina si erano messi in ghingheri per
l’occasione. Lui indossava una specie di marsina con i
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risvolti in seta nera. I capelli se li era generosamente
imbrillantinati di modo che le borse sotto gli occhi
risaltavano per contrasto come due uova affogate: gli si
rovesciavano contro i lobi delle orecchie al minimo
movimento. Lei s’era truccata stile coquette e aveva
gonfiato i capelli a soufflé. Da parte mia avevo messo un
bel maglione da sciatore. Amaranta portava una gonna
aderente blu, una camicetta bianca e, dietro consiglio mio,
il reggiseno fasciante: la rivedo come se fosse ieri, che
tende la mano al Capo della Città, oscillando discretamente
la morbida fioritura delle sue poppe di stagione.
Il Capo della Città portava giacca, cravatta, jeans e
Adidas da podista ai piedi. Accettò una tazzina di caffé e
cominciò a parlarci della nostra città. Disse che
ultimamente le cose avevano smesso di precipitare, si erano
stabilizzate o in qualche caso si limitavano a smottare ma
non troppo alla volta. Disse che la gente aveva smesso di
perdere la calma, e anche questo lui lo considerava un
piccolo progresso. Si lamentò che però adesso gli abitanti
della città preferivano barricarsi in casa e uscivano
all’aperto solamente nei casi di emergenza. Si lamentò anche
che i suoi subordinati non si facevano scrupolo di
trascurare le proprie incombenze, e pur di non esporsi
all’aria di fuori erano disposti a timbrare a turno i
cartellini di presenza in Municipio. Ad ogni modo non c’era
più la disperazione di prima nelle strade, concluse: era
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rimasta solo una tetraggine, e una specie di malinconia
collettiva che tormentava gli animi e assillava le menti. Il
suo credo era che bene o male bisognava stringere i denti e
tirare avanti.
Poi la parola passò a Stefano e lui ci parlò della Fine
del Mondo. Disse che a sopravvivere sarebbe stata una
ristretta minoranza, solo i membri del Partito per la
precisione, ma al Capo della Città sarebbe stato concesso di
salvarsi lo stesso. Disse che i sopravvissuti si sarebbero
presto trovati circondati da belve ed enormi topastri, ragni
giganti e radiazioni mortali. Sarebbe stato loro compito
primario bruciare i cadaveri delle vittime, rimettere in
funzione le fonti di energia, fare incetta di armi. I
sopravvissuti si sarebbero rifugiati ad abitare nel
Palazzetto dello Sport, dove avrebbero accumulato i libri
della Cultura dell’Uomo sulle gradinate, al riparo dalle
intemperie.
“Lei,” deliberò rivolgendosi al Capo della Città, “sarà
eletto Responsabile dei Canali di Informazione.”
Un settore-chiave, precisò, quello dei canali di
informazione, perché nessuno potrebbe imporre una dittatura
senza prima impadronirsi dell’informazione.
“Una dittatura sui membri sopravvissuti dello stesso
Partito?” obiettò il Capo della Città.
“E su chi altri, se no?” sbottò Stefano meravigliato,
gli occhi più sporgenti che mai.
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“Ma parlatemi di voi quattro, invece,” propose il Capo
della Città rivolto ad Amaranta. “Ditemi della vostra
storia.”
“La nostra è una storia semplice e comune,” esordì
Amaranta. “La storia di due coppie che vivono insieme senza
sapere il perché, che vorrebbero separarsi ma non ci
riescono, che potrebbero separarsi ma non lo vogliono più, e
poi cambiano ancora idea. Due coppie che finiscono
coll’andare avanti per forza d’inerzia, senza motivi
sufficienti per proseguire o cambiare rotta...”
“E ora?” insistette lui.
“Ora siamo finalmente pronti a prendere la nostra
strada, costi quel che costi.”
Pensai che Amaranta si era espressa bene, che io al
posto suo, malgrado lavorassi da tanto tempo a questo
resoconto delle nostre traversie, non avrei potuto dire di
meglio o più concisamente.
Il Capo della Città non replicò alle parole di
Amaranta. Si avvicinò alla finestra, di dove poteva vedere
la fabbrica con la ciminiera a tortiglione e i triangoli
delle vetrate sui tetti, il viale di sotto, le carcasse
delle macchine abbandonate, e il cielo pulito sopra la
città, terso come una lama. Di punto in bianco si sfilò la
giacca, sotto la quale esibiva un paio superbo di ali
biancopiumate. Aprì la finestra, fece un saltino oltre il
davanzale, flop! e prese il volo. Ricomparve brevemente nel
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riquadro della finestra, sospeso a mezz’aria, per congedarsi
con un cenno della mano e poi schizzò come una molla verso
l’orizzonte. Da quel giorno nessuno sentì più parlare di lui
e si dovette andare alle urne per eleggergli un sostituto.
L’indomani della sua visita in casa nostra i Kronskij erano
andati, armi e bagagli.
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IIFrigorifero ad alta fedeltà
“È una galleria cieca. Torniamo indietro.”“No, continuiamo.” Avanzò goffamente. “E quella luce laggiù?”“Luce? Non vedo nessuna luce. Dove?”“È la luce dei robot.”
—Isaac Asimov, Io, robot
Torino, 1983
Uno
Amaranta aveva avuto l’idea di un paio di lenti opache
per proteggere gli occhi dalla luce del sole e io l’avevo
accompagnata a provare gli occhiali nuovi. Eravamo andati
nell’ingresso della stazione centrale, quello sovrastato dai
lucernari polverosi e retto da pilastri colossali, e stavamo
seduti contro la base di uno dei pilastri nella luce gialla
e grigia che scendeva dalle vetrate. Amaranta diceva che le
lenti cambiavano il colore della luce, la facevano nera
nera, e coloravano di nero la gente che ci passava dinanzi e
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le cose intorno. Il colore nero, diceva, inghiottiva tutto
con rapidità.
L’inverno si trascinava da settimane, era cominciato
molto prima del Natale—gelo a tappeto giorno e notte, senza
tregua. Nessuno in città sentiva il bisogno di occhiali da
sole, non era rimasto nessuno che li portasse dopo la fine
dell’estate. La città, per così dire, stava a occhi nudi;
molti occhi lustri ed arrossati intorno alle palpebre
muovevano con desolata lentezza sugli autobus, per le
strade, tribolati o smarriti, imbambolati dalle
interminabili ore di veglia che intercalavano i turni del
lavoro in fabbrica. Non c’era proprio nessuno che pensasse
agli occhiali scuri in quella stagione. E ad Amaranta era
venuta l’idea delle lenti opache! Amaranta aveva sfrontati
occhi luminosi, piccole pupille agili e indipendenti rese
impudiche, d’una sensualità come sordida, dalla troppa
lucentezza—occhi tanto belli da diffidarne! Questo degli
occhiali neri, io l’avevo capito, era un pretesto,
un'occasione di anonimato: ma non sapevo cosa dirle. Lei si
rannicchiava ombrosa dietro le sue nuove lenti, si
infagottava nel cuoio squamato del giaccone, seduta a piedi
giunti contro la colonna, e io non la vedevo praticamente
più la mia Amaranta, la mia Amaranta di sempre, in quella
luce muschiosa, gialla e grigia. Mi vedevo accanto solamente
quelle due lenti quadrate, salde sul suo viso, sopra il
naso, salde come uno scudo nero, una inamovibile barriera,
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qualcosa di forte, solido, respingente, che mi guardava
senza vedermi.
Non avevamo una ragione al mondo di passare il
pomeriggio alla stazione ferroviaria. Stavamo parcheggiati
vicino all’anfiteatro ingombro di treni, coll’aria di niente
e in attesa di niente. Eravamo sui trentacinque di età, io
un po’ più, lei poco meno. Trentacinque anni appena, eppure
i ricordi comuni parevano inceneriti, i bei souvenir e le
nostalgie del tempo andato setacciati dalla memoria,
bruciati da tanti errori, macerati, dissolti. Non ci restava
che il futuro.
In quella successe qualcosa. Vidi quattro ragazzi
entrare da uno dei portali trascinando per la collottola un
grosso cucciolo di cane; uno dei quattro lo tirava tenendolo
sollevato per il collare, lo trascinava come si trascina un
fagotto in stazione, senza riguardo per i cocci di lampadina
e i fondi di bottiglia e le pozze di urina in cui andava a
incappare; gli altri tre gli stavano accanto, due di fianco
e uno dietro a coprirgli le spalle, e si impadronivano passo
a passo dell’androne. Quei pochi individui che sostavano
presso i pilastri, donne, vagabondi, ferrovieri e
viaggiatori, si portarono tutti discretamente e con solerzia
nelle zone d’ombra delle navate laterali; parecchi
imboccarono il portale per cui erano sbucati i quattro
giovani e scomparvero inghiottiti dalla pioggia. Fuori
iscuriva.
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I quattro ragazzi vestivano pressapoco come Amaranta,
salvo che i loro giacconi erano nuovi, imitazione cuoio, e
avevano catene tintinnanti agganciate alle spalline e alla
fibbia della cintura. Portavano i capelli alla paggetto,
vagamente striati di méche bionde. Avevano le dita
incrostate di grasso d’automobile intorno alle unghie.
Malgrado il loro vociare, che rintronava contro le arcate
della cupola, s’era aperta una pozza di silenzio intorno al
loro gruppetto, un invisibile igloo refrattario ai rumori
che si allargava tra i pilastri dell’androne a mano a mano
che i giovani avanzavano tirandosi dietro il cane.
Uno dei quattro estrasse di tasca un paio di forbicine
da unghie, un altro un temperino svizzero, un terzo un
coltello a serramanico, e cominciarono seri seri, come se si
trattasse di un’operazione lungamente premeditata, a tosare
l’animale. Il quarto ragazzo ne immobilizzava le zampe
posteriori con fatica evidente. Si divincolava morbido e
spigoloso, il cucciolo, rivelando una feroce consapevolezza
istintiva delle maniere di sottrarsi ed attaccare, ma i tre
complici continuavano a strappargli via imperterriti ampie
porzioni della pelliccia.
Poco alla volta il cucciolo si abbandonava al terrore.
Guaiva invece di ringhiare, scalciava all’impazzata e,
smarrito il vigore iniziale, si contorceva debolmente;
latrava, mugolava, sintomi questi che stimolavano
visibilmente i quattro ragazzi ad infierire con maggior
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lena. Ci si consacravano con verbosità ed animazione alla
tosatura, ci si votavano anima e corpo, la scorticavano
letteralmente la loro povera vittima; saldavano certo sulla
pelle del cane i conti in sospeso serbati per chissà chi
altro. Ecco che ora uno dei quattro menzionava ad alta voce
l’episodio d’una vecchia inimicizia di quartiere e zac!
sollevava trionfante una manciata di pelo, a mo’ di scalpo;
un secondo rammentava agli amici quel certo astio
d’officina, quel mai smaltito livore di partito, e via,
whaff! se ne mondava la coscienza con un colpo di lama. La
scena così fanatica, ingiusta, crudele, che io non riuscivo
a credere che fosse meramente sulle vecchie inimicizie che
si accanivano i quattro teppisti, sugli asti trascorsi o
recenti per cui li si sentiva imprecare a gran voce—i
rancori cotti e ricotti della povera gente di città, povera
financo di immaginazione, che non arriva ad amare la propria
brutta miseria, l’indigenza, che nulla arriva ad amare se
non la gamma avvilente di complicità che il bisogno gli
impone di stringere coi ricchi, coi benestanti, sempre a
spese, sempre e comunque, di quelli della propria sorta. No,
era sul mondo intero che quel pomeriggio i quattro giovani
rovesciavano la propria ritorsione, conclusi dopo un momento
di riflessione, sul loro intero mondo di tutti i giorni;
forse si illudevano di scovare in un eccesso di ingiustizia,
nell’ebbrezza di essere loro stessi ad infliggere
l’ingiustizia per una volta, il toccasana alla propria dose
123
di patimento quotidiano, oppure una maniera sbrigativa di
rifarsi a danno del più debole, una scappatoia forsanche
dalla monotonia del sempre-uguale, del mai-niente-di-nuovo.
Guardavo Amaranta che osservava la scena impassibile.
Le sue lenti opache afferravano, perdevano, riafferravano
cialde acquose di luce, dissimulando l’espressione dei suoi
occhi. Ma io riconoscevo il tremolio della bocca e la linea
tirata delle labbra, che si schiudevano ogniqualvolta gli
incisivi mordevano la pelle.
I miei occhi erano invece ben in vista e lacrimavano;
non sapevo dove guardare, come atteggiarmi, esitavo tra
l’alternativa di uno sfogo spontaneo di pianto dinanzi alla
ribalderia di quello spettacolo cruento oppure una
noncuranza ostentata e diplomatica—la maniera di disimpegno,
questa, che fa da sempre, dopotutto, la fama della gente
della nostra città. Ma il mio stomaco si contraeva
gorgogliando, segno inequivocabile della mia paura. Provavo
paura, è vero, una paura maggiore dello sdegno e
dell’imbarazzo di starmene lì seduto contro un pilastro a
guardare la scena, passivo, intanto che i quattro teppisti
scuoiavano o pressapoco quel batuffolo vivo che gli si
dimenava tra la mani. Se mi alzai ed avanzai alla volta del
gruppo dei quattro fu per la paura allora, forse.
I ragazzi avevano le facce truci e le catene della
giacca a portata di mano. Avanzavo senza troppa verve. Le
mie Adidas facevano un rumore bavoso sul pavimento della
124
stazione, come un risucchio frenato, da lumaca, ad ogni
passo, mentre un’occasione tanto impegnativa avrebbe
richiesto il tacchettio delle suole vero-cuoio ed un
incedere spedito e marziale da carabiniere. Non ci contavo
di uscirne bene dall’avventura. Una volta che fossi
penetrato oltre il sipario volatile di pelliccia canina che
dissimulava parzialmente la scena, staccandosi dal gruppo in
fiocchi leggeri, non avrei più beneficiato dell’immunità a
quel che stava succedendo né di qualche forma subdola di
connivenza passiva, mi sarei trovato anzi a rispondere in
prima persona del destino dell’animale—nonché del mio,
naturalmente. Così procedevo riluttante, i piedi torti
all’indentro e il bacino sbilanciato in avanti a causa del
perpetuo dietro-front che abbozzavo ad ogni passo ma non
osavo effettuare.
Dovevo aver sottovalutato comunque la mia prestanza
fisica (oppure furono i tratti particolarmente asimmetrici
del mio viso ad ottenere l’effetto) perché i quattro giovani
se la diedero a gambe al vedermi avvicinare e non ebbi
bisogno di fare le mie ragioni. Raggiunsi la corolla
sbiadita di piastrelle al centro dell’androne e raccolsi il
cucciolo gemente, affondato in una montagnola calda di
pelame.
125
Due
Quell’inverno il freddo non dava scampo. I serramenti
di porte e finestre erano troppo tarmati e slabbrati per
offrirci anche appena una parvenza di protezione contro il
gelo che stringeva il caseggiato come una morsa. I muri
tutt’una fessura, c’erano tanti spifferi che filavano
indomiti attraverso gli usci di casa come spiritelli fatui e
mal intenzionati, presenze incorporee occupate a tendersi
trabocchetti e ghermirsi a vicenda: installate al centro di
ogni stanza, certe trombe d’aria sornione allacciavano in un
frullio questi soffi allo sbando e li trascinavano di parete
in parete, dal soffitto al pavimento, in su e in giù. Le
ciminiere della fabbrica di fronte a casa e le bocche delle
automobili in corteo lungo il viale alberato sputavano verso
sera una sbuffata tosta e densa, come un collettivo,
simultaneo sbocco di tosse malsana che oscurava la strada,
si sollevava in cielo per qualche istante e poi cascava sul
tetto del caseggiato col rumore d’uno straccio inzuppato. Di
quando in quando una finestra nel palazzo di fronte si
accendeva improvvisamente ma poi svaniva altrettanto
fulminea—dovuto sicuramente a misure di economia domestica,
questo andare e venire saltuario della luce. Le finestre
comparivano e scomparivano alla vista, era come se l’intero
edificio si divertisse a sorprendere le tenebre di brevi,
irriverenti linguate; gettavano fuori, insieme agli sprazzi
di luce, qualche istante di vita privata, la scena delle
126
famiglie che si preparavano alla notte incombente, assiepate
intorno ai pintoni del barbera. L’oblio operaio calava il
suo inconfondibile ronzio sul rione, sulla città—una
moltitudine livida e remota stava assiepata nei solchi
stretti che separano le case dalla trincea del lavoro
remunerato, dalla inesauribile scaramuccia pecuniaria. Poi
si faceva buio del tutto e le strade si illuminavano di luce
propria: allora la città era sommersa dal salmodiare di
innumerevoli canzoni, un maroso di canzoni che si
inerpicavano lungo le pareti indistinte dell’oscurità, si
spargevano brusienti nel cielo contendendosi fino alle fasce
più irrisorie della modulazione di frequenza, di qui
rovinavano come in risacca sulla massicciata anonima dei
palazzi, sulle antenne riceventi schierate all’insù come una
milizia sconfinata di bellicosi fioretti. Si contavano a
centinaia le lunghezze d’onda radiodiffuse che penetravano
l’intimità degli insonni, degli spiriti afflitti, un muto
boato sospeso al di sopra delle tegole dei tetti che
filtrava nelle orecchie in ascolto e nelle menti in attesa
un messaggio radiofonico di speranza musicale, praticamente
lo stesso ogni notte.
Era da quattro o cinque settimane che conducevo una
rubrica notturna per conto di Radio Blue, una delle maggiori
emittenti private in città. Vi leggevo le storie e le poesie
che scrivevo nel corso della giornata. Tenevo cinque o sei
trasmissioni la settimana, ogni volta che mi andava
127
praticamente, a condizione che fosse nottetempo. Quelli di
Radio Blue erano venuti a cercarmi e mi avevano assegnato la
rubrica perché, dicevano, gli occorreva qualcuno con dei
racconti che conciliassero il sonno degli ascoltatori; la
verità, io lo avevo capito, è che pensavano che non sapessi
più cosa farmene del mio tempo libero di scrittore e
volevano approfittarne. Io avevo accettato di buon grado la
proposta siccome, considerato il tasso crescente di gente
affetta da insonnia notturna in città, mi sembrava un
incarico delicato e di una certa responsabilità.
Da principio avevo battezzato la rubrica col mio nome,
Vittorino Surrettizio Live, e come sigla avevo adottato Up Patriots di
Franco Battiato. In radio mi avevano dato carta bianca fin
dal principio. Zompavo sul microfono intorno alla mezzanotte
e non lo mollavo più; mi ero scoperto la vena innata del
favolista notturno. Ogni paio d’ore i disk jockey di Radio
Blue—pargoli fanatici di canzonette d’oltremanica, infantili
zucche cave sormontate di capelli spinescenti—mi piombavano
alle spalle per strapparmi la seggiola dinanzi al microfono.
Per lo più me li scuotevo di dosso con un manrovescio,
talvolta cedevo invece e gli lasciavo campo libero per un
po’, il tempo di un intervallo musicale. In fondo, se non
fossero intervenuti loro a farmi smettere, io non avrei mai
trovato uno spunto appropriato di congedo dal mio pubblico:
mi saltava sempre fuori un foglietto d’avanzo tra gli
appunti, una storiella inedita che legava colla precedente,
128
un episodio decisivo da raccontare all’istante, qualche
verso particolarmente soporifero ideato a beneficio delle
orecchie più sensibili. I testi dei miei racconti—storie
alla Dostoevskij, alla Mark Twain, alla Thomas Mann—si
impilavano sul pavimento dello studio e nella dispensa tra
le provviste per gli spuntini, ne conservavo a strati sotto
le scansie dei dischi, nell’armadio tra i cappotti, nello
sgabuzzo della telescrivente. Guai a chi me li toccava! Mi
ripetevo giornalmente che dovevo decidermi a schedarli per
ordine di argomento prima che i topi di Radio Blue li
sottoponessero alla loro critica rodente.
In principio, novellino inesperto delle
apparecchiature, privo peraltro ancora della compagnia
rassicurante del cane Lupo, che si occupò più tardi di
guardarmi le spalle dalle intrusioni dei disk jockey, finiva
che leggevo i miei pezzi a precipizio, la lingua arroventata
dal timore di venire interrotto sul più bello, e così non
riuscivo a riferire tutto quel che mi premeva e dire tutto
il dicibile. Leggevo a singhiozzo dimenandomi sulla
seggiola, facevo delle grandi insalate di storie brevi,
versi, resoconti d’attualità. La tinta complessiva delle mie
narrazioni notturne, il rumore di fondo diciamo, riusciva
fosco nel complesso, oltremodo plumbeo, niente affatto
distensivo e conciliante il sonno come era invece nei voti
della redazione di Radio Blue; paonazzo in volto di fronte
al microfono, le vene del collo mi si imbraciavano e la
129
testa m’aumentava di volume, acquistando una sua sorta di
pachidermica, inquietante leggerezza.
Con l’arrivo del cane Lupo, susseguente all’episodio
nella stazione centrale, avevo cambiato il nome della
rubriva, la chiamavo l’Ora del Lupo adesso, e avevo adottato
uno stile più compassato, da professionista. Prendevo fiato
tra un paragrafo e l’altro, premettevo puntualmente sia il
tema che la durata del racconto che mi apprestavo a leggere,
mi concedevo pause frequenti, variavo il tono e la
musicalità della voce; di tanto in tanto inserivo uno
stacchetto musicale appropriato. Lupo mi affiancava
volentieri al microfono ogniqualvolta non era distratto
dalle sortite dei disk jockey; nient’affatto imbarazzato in
prossimità dei congegni di trasmissione radiofonica,
tossicchiava discreto e disinvolto nell’etere senza farsi
pregare: ... arf, arf...
I miei racconti, ora che arrivavo finalmente a renderli
piani ed intellegibili, narravano di cataclismi locali,
piccole sciagure collettive, di rovine dinastiche e tracolli
finanziari, pestilenze a carattere regionale, epidemie più o
meno circoscritte, flagelli di portata limitata. Che
scrivessi alla Dostoevskij, alla Mark Twain, alla Thomas
Mann, puntavo sempre sull’attualità.
Nel buio dello studio, al di là della vetrata che
guardava al cubo della saletta di regia, credevo talora di
veder emergere, per stadi successivi di luminescenza, il
130
tavolo piatto e regolare della città che mi ascoltava: lo
stretto impacchettaggio sonnolento delle case-dormitorio,
ferme l’una addosso all’altra in lunghe processioni di
porte, muri e finestre, raccolte sotto la cappa notturna del
deliquio operaio per otto ore estenuanti di incubi, di
febbri, di paure. Leggevo i miei foglietti con una voce
fattasi di notte in notte più autorevole. Sillabavo le
parole con disinvoltura e le visualizzavo spandersi alacri
nell’etere come un’armata di spermi: cozzavano contro la
barriera delle porte, dei muri e delle finestre, vi
s’infiltravano in minuscoli drappelli che finivano
accalcati, pigiati in un’unica mistura, un’unica pozione che
sedava della propria zelante vitalità il grottesco ronzio
alloggiato nei cuori.
Da quando c’era Lupo a coadiuvarmi in tramissione ero
molto più soddisfatto del mio lavoro. Lupo ammutoliva
durante gli stacchi musicali, il muso piegato nella stessa
espressione interdetta che gli vedevo assumere sovente
durante le zuffe coi disk jockey esasperati, creature
spigolose che dovevano costituire una novità assoluta nella
sua esperienza di cucciolo. Ammutoliva di colpo ascoltando
Battiato e dondolava in bilico sui teneri artigli. Quando
l’amarezza della lotta contro i tormenti notturni dei miei
ascoltatori si faceva opprimente, lo stuzzicavo un po’, me
lo tiravo di fianco e, tanto per rasserenare l’ambiente, gli
lasciavo sibilare uno dei suoi struggenti uggiolii nelle
131
orecchie degli altoparlanti. La presenza della bestia nella
mia trasmissione dal vivo otteneva credito e simpatia;
l’indice di ascolto dell’Ora del Lupo cresceva
vertiginosamente. Diventavamo popolari in città.
Di notte a Radio Blue c’era un’addetta alla
distribuzione di vivande e provvigioni. Si chiamava Ella,
una brunetta pallida e sinuosa, perfetta come un gioiello.
Era lei a portarmi birra o latte fresco in studio durante la
trasmissione—latte e birra che, insieme al mio tesserino
settimanale del tram, l’economo di Radio Blue rubricava alla
voce: “Rimborsi Spese e Trasferte.” Ero considerato alla
stregua di un collaboratore esterno volontario e come tale
non mi spettava alcuna retribuzione. Non che a me garbasse
particolarmente il fatto di lavorare gratis, ma era pur vero
che se avessi avanzato qualche pretesa quelli di Radio Blue
mi avrebbero messo alla porta senza pensarci due volte, e al
diavolo gli ascoltatori tribolati della notte. Dal punto di
vista della Redazione, indice o non indice di gradimento, io
rimanevo un elemento usa-e-getta, intercambiabile—lo siamo
tutti del resto, nel grande schema della Vita. Che ci fosse
un cucciolo enorme, un cagnaccio di razza indeterminata, a
coadiuvarmi in trasmissione non contribuiva a cambiare i
termini della questione. Io mi sforzavo di prendere la
situazione con ottimismo. Cercavo di convincermi che se in
tutti questi anni non mi era ancora mai riuscito di
smerciare il mio lavoro di scrittore, era troppo tardi
132
adesso per imparare a contrattare sui prezzi. Anche in
questo mestiere notturno senza volto, insomma, bisognava
fare la gavetta.
Non era la prima volta che una questione a carattere
mercantile mi coglieva impreparato. Maneggiare danaro
liquido non è esattamente il mio forte. Sono figlio di
bottegai (droghieri di paese, i miei), eppure sono
cronicamente incapace di vendere checchessia a chicchessia:
non ho niente da vendere, non vendo niente a nessuno. Quello
che però ritenevo di aver appreso con discreta perspicacia
nei trentacinque anni e rotti che avevo trascorso sul
pianeta in qualità di figlio di bottegai (trenta e più anni
passati dapprima al paese natio, perennemente congelato in
quella ghiacciaia di drogheria dalle pareti così spesse che
il calore non le violava nemmeno l’estate, e più tardi
lontano dal paese e dai miei genitori)—quel che ritenevo di
aver veramente appreso era la maniera di discriminare i due
essenziali caratteri antitetici della natura umana,
ovverossia, il versante di chi vende beni al prossimo dal
versante di chi i beni li acquista. A lungo andare mi ero
detto che non c’era scampo, che dovevo fare anch’io la mia
scelta prima o poi tra i panni dell’acquirente e quelli
dell’imbonitore—a meno che, sotterfugio ideale, non trovassi
la maniera di rivestirli entrambi! Per un momento mi ero
illuso, il mese scorso, di aver scovato una terza opzione
insperata nella mia nuova vocazione di favolista notturno:
133
se ne stava rintanata, quest’inedita possibilità, al Vicolo
della Fame, c/o Radio Blue. Un post nient’affatto chic,
credetemi... Uno scantinato stretto e umido, i pavimenti
chiazzati di aureole saline e l’intonaco alle pareti ridotto
ad una carta assorbente smangiucchiata: una vera e propria
catacomba debordante di figuri esili dai connotati scavati,
taluni accalcati con fare borioso intorno al piatto d’un
giradischi, tal’altri appartati con fare smarrito intorno
alle veline di notizie di cronaca tendenziose ed irrilevanti
—un popolo sotterraneo di morti di fame, come non avrei
tardato ad appurare, cammuffati sì, tutti senza eccezione,
dietro la maschera indaffarata del reporter e dell’uomo di
spettacolo, ma soltanto perché la merce di cui trafficavano—
una riserva imponente di fame arretrata!—era del tipo di cui
è più arduo disfarsi.
Tre
Amaranta guadagnava una miseria disegnando barche da
diporto per uno studio sgangherato del centro. Il suo
impiego, part-time, non ci aveva coperto i tre pasti
giornalieri nemmeno prima che si aggiungesse Lupo a pesare
sul bilancio. Fintanto che avevamo condiviso l’appartamento
con Marilina e Stefano Kronskij, convolati a nozze e
trasferitisi di recente, in casa nostra non erano mai
scarseggiate le provvigioni. Marilina e Stefano Kronskij
(lui s’era messo in politica, l’anno prima) erano due
134
buongustai, andavano pazzi per il prosciutto di cinghiale e
il paté di selvaggina; soffrivano di una spiccata
predisposizione masochista però, un’accentuata propensione
morbosa per gli avvilimenti di ordine spirituale, di modo
che non era mai stata impresa difficile alleggerirli delle
loro derrate alimentari—me ne incaricavo io. E va aggiunto
che quanto più infierivo, derubandoli e tartassando senza
ritegno le loro finanze, tanto più grati e affezionati me li
ritrovavo. Ma poi, come succede sempre, la coabitazione a
quattro s’era fatta precaria, ed era venuto il momento di
farli sloggiare. Fino a quel momento, Marilina e Stefano
Kronskij avevano funto per me ed Amaranta da vero e proprio
istituto di beneficenza. Non ignoravamo a cosa andavamo
incontro nel farli sloggiare; di sole barche, lo sapevamo,
che Amaranta ne progettasse pure a iosa, non avremmo campato
a lungo.
Ad ogni modo i due Kronskij avrebbero preferito
rimanere e dapprima non c’era stato verso di smuoverli;
facevano ricorso alla resistenza passiva e ai ricatti
sentimentali, in quello non mancavano di fantasia né di
risorse. Del disutile netto che ricavavano dalla nostra
convivenza, dei costi iniquamente ripartiti non volevano
sentirne parlare; oppure, fatto più grave che curioso, non
se n’erano mai resi conto del tutto. Ma se ne andarono un
bel giorno, e di colpo le scorte alimentari accumulate in
casa, i rifornimenti di prelibatezze di cui li avevo
135
sistematicamente alleggeriti e che tenevo stivati sotto il
letto o nascosti sui terrazzini, presero a scemare a vista
d’occhio; da qual momento non mi si porse più l’occasione di
veder aggirarsi per casa la faccia simpatica del garzone
dello Spiedo, la rosticceria rionale, le cui consegne
munifiche erano state un tempo all’ordine del giorno. Una
settimana dopo la partenza dei Kronskij già lamentavo la
perdita di un chilo tondo tondo di peso. Passarono dieci
giorni e i chili svaniti erano saliti a due. Anche le mie
Adidas, specie quella destra, avvertivano a modo loro la
mancanza dei Kronskij; una bocca deforme gli si spalancò
giusto sotto la punta del tomaio, dalla parte dell’alluce—
aprivano e chiudevano ad ogni passo quella ripugnante cavità
sdentata. Una caterva di boccucce minuscole si distribuì
fatalmente sulla biancheria intima di Amaranta, lisa dai
troppi lavaggi intorno alle cuciture di reggiseni e
mutandine.
Come ogni cucciolo, Lupo manifestava un bisogno
sostenuto di sali minerali per la formazione e
l’assestamento dell’ossatura; ne assumeva a più non posso
nel corso delle nostre passeggiate intorno al caseggiato,
raspando la terra del viale alberato e trangugiandone grosse
zolle senza darsi la pena di masticare. Io pativo
dell’inadeguatezza di questo regime e avrei voluto
provvedere di persona alla sua alimentazione bilanciata, ma
i prezzi dei prodotti dietetici Bayer esposti nella vetrina
136
del Paradiso del Cucciolo, dietro l’angolo, erano
proibitivi. I cani che frequentavano il Paradiso del
Cucciolo per la toilette e l’integrazione alimentare non gli
somigliavano per niente, d’altronde: camminavano altezzosi
in punta di zampa con movenze affettate degli appiombi,
odoravano d’acqua di colonia, e vantavano colonne dorsali
stilizzate come quella di Carla Fracci, prive delle
gibbosità del mio Lupo. Lui era irrimediabilmente diverso;
doveva avere ascendenze selvatiche, di branco. Ciononostante
era un cucciolo pure lui e come tutti i cuccioli abbisognava
in primo luogo del nutrimento appropriato. (Al contrario di
quel che si crede comunemente, affetto ed attaccamento
vengono in second’ordine nel cucciolo rispetto all’esigenza
del pasto giornaliero. Il rovesciamento di priorità
sopravviene con l’età adulta: da adulti è di vitto, non
d’amore, che si è disposti a fare senza.)
Siccome ora aveva anche il cucciolo a carico, Amaranta
s’era messa in cerca di un nuovo lavoro ma intanto, per
sbarcare il lunario, continuava a disegnare imbarcazioni da
diporto in questo studiolo del centro città.
Da parte mia cominciavo a chiedermi con esitazione se
non sarebbe toccato piuttosto a me di trovare un’occupazione
adeguatamente retribuita. Mi ponevo il quesito di frequente,
più volte al giorno, ma finivo sempre col concludere (col
rassicurarmi, diciamo pure) che, rapportati i costi ai
benefici, non concepivo sbocchi accettabili al mio futuro
137
che esulassero dal ramo delle comunicazioni, dal ramo,
insomma, della parola parlata e scritta; tutt’al più,
consideravo, avrei potuto diversificare i miei impegni
radiofonici: forse tentare la strada del disk jockey oltre
che del favolista notturno, o magari, chissà, improvvisarmi
cantastorie, con tanto di organetto e scimmia in spalla. La
radio sta a un passo dalla televisione, si sa... Quali
alternative mi si proponevano? Operaio di fabbrica, no, non
me la sentivo di diventarlo: i grandi spazi funzionali dei
robot alla catena di montaggio, risuonanti del rumore
minaccioso d’acciaio in movimento, frammischiati di macchine
coadiuvanti e rottami di macchine in obsolescenza, affollati
delle tute blu che attaccano col turno e delle tute blu che
staccano col turno, attaccano, staccano, oppure si
avvicendano in coda senza fretta apparente ai tavoli della
mensa aziendale... E tutto un popolo proletario di
trapassati cui rendere conto della tua vita presente, la
sontuosa teoria dei sepolcri operai affondati nella terra al
di sotto della città, le tombe allineate come altrettanti
soldatini di piombo... E poi ancora Carlo Marx, una maestosa
barba bianca infestata di interrogativi d’ordine contabile:
anche a lui sarebbe venuto il momento di rendere conto, di
fare delle scuse, se solo mi fossi mai... No, in fabbrica
non me la sentivo di entrarci nemmeno per il bene di Lupo.
Mi restava l’alternativa del commercio, per dirne una
comica: il campo della libera iniziativa e della
138
sistemazione in proprio. Ma quanto più consideravo
l’eventualità di aprire un negozietto (avrei potuto trattare
generi di cartoleria oppure affiliarmi alla Olivetti, erano
prodotti di cui, come scrittore, mi intendevo bene)—quanto
più consideravo questa eventualità, tanto più mi pareva
buffa, tortuosamente buffa, improponibile. Quando si dice
l’ironia della sorte, l’assurdità dei corsi e ricorsi... A
ben vedere, e a pari reddito, avrei considerato di gran
lunga più dignitosa la carriera dell’impiegato di concetto,
del passacarte. Quest’ultimo gode, in primo luogo, di due
vantaggi indiscutibili sull’operaio di fabbrica, quello
ovverossia della vanità e quello della rassegnazione. Il
piccolo negoziante non può opporgli un granché: su cos’altro
può costantemente contare, il bottegaio, nella profonda buia
intimità delle ore trascorse in retrobottega ad aspettare il
prossimo cliente, nel raccoglimento del silenzio fervido di
colui che non può e non deve mancare il tintinnio della
porta d’ingresso, se non sulla permanenza della
disperazione? Hanno una gravità tutta loro, i piccoli
bottegai, dovuta alla caustica, ingiustificata sofferenza
del loro mestiere. Io questo lo capivo anche troppo bene:
vengo dal ramo. In casa mia, da bambino al paese, si
mangiava coi gomiti sulla tela cerata e si masticava in
silenzio, la bocca piena, per non coprire coi denti il
tintinnio della campanella sistemata sull’architrave della
porta d’ingresso. La sera, prima di dormire, i miei genitori
139
tiravano le somme sul librone maculato della contabilità. Ci
si farcivano la testa, le orecchie e gli occhi, di quelle
colonne impressionanti di numeri (sempre in rosso!) impilati
compostamente a pie’ di pagina. Doveva essere una sorta
perversa di voluttà, pensavo io, ancora bambino, che li
induceva ad esporre notte dopo notte i contorni labili del
sonno alla tortura di quei conteggi. Verso l’alba sentivo
mio padre gemere attraverso la parete che separava le nostre
camere—in preda all’ultimo attacco sferrato dal suo demonio
contabile, stremato sul far del giorno... Anche volendo, non
lo potrei fare il commerciante. Ci sono nato in una bottega,
io. D’inverno.
Per interrogarmi a piacimento sulla faccenda, per
stabilire se avessi o meno commesso un errore nell’adottare
questo cucciolo d’impulso, se il fato non mi avesse così
definitivamente messo alle strette—era soprattutto a questo
fine che portavo Lupo a spasso tutte le notti che non
andavamo in radio, in giro un po’ dovunque, qua e là per la
città. Sospettavo d’essermi compromesso il destino colle mie
stesse mani. Avrebbero retto le mie memorabili velleità
poetiche, i sogni di libertà e indipendenza, alla vita di
trincea di chi si guadagna il pane? Come avrei superato gli
incubi, le febbri, la paura del massacro giornaliero? Uscire
allo scoperto ogni mattino al solo scopo di guadagnarmi da
vivere: ecco un cimento che differivo da anni! Era
specialmente lungo il fiume che me lo rimasticavo in pace il
140
mio bolo di infelicità. Mi sentivo come in obbligo, senza
ragione, di voltolarmici e rivoltolarmici nella mia scorta
segreta di infelicità; me ne facevo carico e me ne
martirizzavo alla maniera di un Grande Inquisito. Intanto
accarezzavo Lupo sulla sua zucca ossuta e aguzzavo gli occhi
alla volta dei casamenti distribuiti sul lungofiume: se ne
stava raccolta dietro i vetri delle finestre, dietro muri e
pareti, la moltitudine sudata dei colletti bianchi e i
colletti blu che mi aspettava al varco, quella stessa massa
dei dannati che di lì a qualche ora si sarebbero alzati,
spinti dalla fame, per scendere in strada al solo scopo di
rimediare qualche briciola.
Lupo, che in casa allora lo si poteva ancora scambiare
per un cucciolo di husky siberiano, per un’indole domestica
insomma (rotondo, molle, pacioso), all’aperto di notte si
trasformava da capo a piedi, non lo si poteva più sfiorare.
Lo si sarebbe detto un altro animale: si teneva
sull’offensiva da far paura, galoppava a filo d’erba tra i
sentieri del lungofiume, si rannicchiava negli anfratti bui
della macchie, strisciava pancia-a-terra nel sottobosco, e
poi svaniva d’un soffio, come se tutte le ombre della notte
convergessero sul suo manto argenteo per assecondarne la
caccia : faceva la posta, ci avrei scommesso, ai fantasmi
delle femmine del branco... Poi rieccotelo all’aperto,
bilanciato di muscolo in muscolo, i tendini trasparenti come
141
radiografie nei riflessi della luce del fiume. Più grosso,
più svelto. Non era più lui!
Quando veniva l’ora di rientrare, Lupo andava a
stazionarsi per un momento vicino all’acqua ferma del fiume
e lanciava certi ullati appassionati alla volta della luna.
La vedeva anche dietro le nuvole lui, la luna.
Quattro
Amaranta spendeva le mattinate a disegnare nello studio
di progettazione del centro e il pomeriggio girovagava in
cerca di un impiego migliore (full-time e a ferie pagate,
possibilmente). La sera, di ritorno a casa, si gettava a
corpo morto sul suo tecnigrafo, gli occhi celati dietro le
lenti opache che ormai non smetteva più, e tirava avanti
fino a notte inoltrata a ridisegnare i progetti di natante
che le erano stati bocciati in giornata dai datori di
lavoro. Mi chiedevo se la faceva per i posteri, la fatica di
sottoporsi a questo inutile tour de force. Io consumavo una
parvenza di cena seduto al tavolo vicino alla dispensa,
osservando in silenzio attraverso la porta socchiusa la sua
schiena tenacemente china sui fogli—come sospesa tra cielo e
terra, la mia Amaranta di sempre, come reclina nel gesto
deliberato di raccogliere su di sé tutto il peso del
silenzio della notte. Salvo il cono incerto di luce del suo
tavolo da disegno, la penombra dilagava dappertutto.
142
Dopocena mi occupavo delle faccende di casa. Bisognava
spazzare le montagnole di tenia che Lupo distribuiva per
ogni stanza: vermi tondi o piatti, avvolgibili come
ippocampi, che giacevano aggrovigliati sul pavimento,
fulminati dal freddo dell’appartamento. E bisognava
occasionalmente recuperare da sotto a qualche mobile uno dei
dentoni da latte di Lupo, zanne prive di radice e sbreccate
alla base che gli saltavano via dalle mandibole a mano a
mano che la dentatura regolare premeva per spuntare fuori.
In cosa mai affondasse con regolarità quelle sue fauci per
temprarle tanto rapidamente e favorirne la crescita, era un
mistero che non avrei saputo svelare; il lobo centrale degli
incisivi da latte appariva palesemente livellato rispetto ai
lobi laterali del fior di giglio, prova questa lampante,
avevo letto, di una ricorrente pratica masticatoria da parte
di Lupo, del tutto inspiegabile però—mica lo rimpinzavamo,
in casa.
Quando mi andava, ramazzavo il pianerottolo sulle
scale. Il tubo al neon era fuori uso dal principio
dell’inverno; mi dovevo aiutare con una torcia elettrica.
Talvolta, intento a spazzare il pavimento lercio, quasi non
m’avvedevo del minuscolo ascensore, una bara di quattro
assicelle trainata da parecchi cavi tremolanti, compressa
prodigiosamente nell’esigua tromba delle scale—quasi non lo
vedevo che transitava cigolante, scortato dagli odori di
frittura delle cucine in basso e delle cucine in alto. Ma
143
quando mi accorgevo che arrivava, evitavo di incontrare
collo sguardo gli occhi dei nostri coinquilini, che
lumeggiavano divertiti dietro i vetri della porticina
semovente. Il fatto è che trovavo il pianerottolo
crescentemente ingombro di detriti e pattume. Non appena
venuto a conoscenza del trasloco di Marilina e Stefano
Kronskij, l’amministratore delegato del condominio aveva
istruito l’impresa di pulizie affinché il lavaggio delle
scale venisse limitato al primo piano; aveva argomentato poi
nell’assemblea plenaria di condominio che la decenza di una
casa come si deve traspare, oltre che dal lindore
dell’ingresso naturalmente, dal decoro della prima rampa di
scale, le uniche utilizzate dai visitatori quando l’edificio
disponga d’un ascensore adeguato alla bisogna. Gli inquilini
erano stati invitati a pronunciarsi in suffragio segreto a
proposito di questa iniziativa. Dei tagliandi colorati, su
cui avrebbe scritto un SÌ chi era a favore e un NO chi era
contrario, erano stati distribuiti tra i presenti. Avevano
prevalso i SÌ a stragrande maggioranza. L’anno prima, in
occasione dell’assemblea plenaria in cui s’era deliberato
che la pulizia delle scale coprisse fino al secondo piano,
fino di fronte, cioé, alla porta dell’appartamento che
Amaranta ed io dividevamo ancora con i Kronskij, avevo
creduto di veder passare un blocchetto intero di tagliandi
colorati dalle mani dell’amministratore a quelle di Stefano
Kronskij. Ma potevo essermelo soltanto immaginato.
144
Molto più apertamente dell’amministratore delegato
erano però i bottegai dei dintorni a lamentare l’assenza dei
Kronskij dal rione.
Ovino, il macellaio d’angolo, era un uomo di mezz’età
dalle mani molli e biancastre, colla testa inscatolata
dietro un paio di lenti bifocali che gli conferivano uno
sguardo incostante e pieno di guizzi. Ovino, per cominciare,
mi chiedeva con insistenza notizie dei Kronskij,
esprimendosi in maniera svisceratamente complimentosa nei
loro riguardi. E Ovina, la sua signora, appartata dietro il
registratore di cassa, voleva che le dicessi dov’erano
finiti esattamente i nostri due amici (cosa che Amaranta ed
io ignoravamo) e domandava se si trovavano bene dove
abitavano adesso e da chi si servivano per la carne, che se
volevano un nuovo macellaio glielo raccomandava lei. Aveva
quest’abitudine particolare, Ovina, di parlare colle labbra
strette e arricciate, senza quasi articolare i suoni, e
scuotendo nervosamente i capelli radi, che le si disponevano
in una raggera di esili barbigli intorno alle gote.
Pecorino invece, il titolare della rivendita di
formaggi e salumi, non era tipo da formulare altrettanto
schiettamente i propri favoritismi. Si trattava di un
giovanottone dalla pelle lucida e tesa, i capelli lisci,
bruni, servile dietro il bancone eppure obliquamente
risentito nei confronti di tutte le clienti, chissà perché;
teneva le braccia perennemente premute contro i fianchi
145
dello spolverino nella posizione dell’attenti! Pecorino non si
sbilanciava troppo quanto ai Kronskij però assecondava
sempre con compunzione la moglie Pecorina, la quale invece,
quando non era intenta a piluccare dietro la vetrinetta del
reparto insaccati, sosteneva litigiosa che i Kronskij
sarebbero prima o poi tornati a vivere all’ombra della
nostra Parrocchia.
Per ultimo veniva Burbero il verduriere nel suo
magazzino seminterrato, dove d’inverno l’acqua ti saliva
alle caviglie. Burbero si appassionava più degli altri
negozianti alla scomparsa dei Kronskij. Inguainato fino alle
anche in un paio di stivaloni verdi da pescatore, stillante
umidità dalle narici e dalle ascelle, Burbero sosteneva
convinto che Amaranta ed io non avremmo dovuto lasciarli
partire, che la perdita dei Kronskij era una faccenda grave
per tutto il vicinato. I due figli teen-agers di Burbero, un
ragazzo ed una ragazza calzati di gambaletti fluorescenti,
correvano smuovendo l’acqua sul pavimento, che gli sbandava
attorno in piccoli vortici; davano una mano in bottega.
Burbera, la moglie, nascosta in fondo al magazzino dietro
una coltre di luce color bile, coperta di capi in lana resi
pesanti dall’aria fradicia, si limitava a farfugliare
bisbigli e rimbrotti da dietro ai suoi formidabili incisivi
intanto che riempiva la sporta di Amaranta cogli ortaggi
guasti in offerta speciale; la sottana a mollo nell’acqua,
inzaccherata di minute alghe trasparenti, le si allargava
146
intorno come la foglia di una ninfea. Dei negozianti del
rione, Burbera era la più buona con noi.
Certo che si erano affezionati ai Kronskij, questi
nostri bottegai. Non avevo di che biasimarli: parlavano il
dialetto in tutte le sue inflessioni, Stefano e Marilina, e
non lasciavano mai debiti in sospeso. Sapevano come farsi
benvolere dalla categoria dei negozianti. Amaranta ed io, al
contrario, arrivavamo alla fine del mese per il rotto della
cuffia, col nostro nome di famiglia, SURRETTIZIO, impresso a
caratteri cubitali sui quaderni in cartoncino nero che i
bottegai del rione adottavano per annotare i conti in
sospeso. I Kronskij e la loro cortesia fasulla! I Kronskij e
la loro dottrina dei piccoli passi! Non erano che in due,
dopotutto, Marilina e Stefano Kronskij, ma nel nostro
quartiere si erano comportati coll’intelligenza politica
d’un intero Partito. La cosa più difficile da digerire era
stata che con il loro contegno di vicinato ineccepibile,
Stefano e Marilina avevano inimicato a me e ad Amaranta
tutte le botteghe del rione; la gente sapeva che noi quattro
si viveva assieme e, chi più chi meno, tutti erano portati a
fare dei paragoni per stabilire quale delle due coppie fosse
da preferire quanto a onestà e dirittura civica. Dal punto
di vista della solvibilità commerciale, non era una
decisione difficile.
Conservavo impresso nella memoria un episodio anteriore
di qualche mese al mio incontro con Lupo. Un pomeriggio mi
147
era saltato il ghiribizzo di cucinare le suprême di pollo,
un piatto che riusciva particolarmente gradito ad Amaranta.
Ci eravamo accordati di recente con i Kronskij, che
abitavano ancora con noi, riguardo ad un avvicendamento
serale nella cucina all’ora dei pasti: il primo turno
spettava a me ed Amaranta, il secondo a loro. L’elemento
fondamentale per le suprême consiste di due petti di pollo;
quelli li presi a credito da Ovino. Per le uova e il burro
della salsa, avrei utilizzato la scorta dei Kronskij nel
frigorifero. Una piccola riserva di mandorle tostate la
tenevamo sempre nella dispensa in cucina. Non mi mancavano
che il prosciutto crudo e la ricotta; decisi di andarli a
cercare da Pecorino.
In salumeria, qualche massaia arrivata prima di me
faceva la coda per il prosciutto. Era Pecorina a manovrare
l’affettatrice elettrica, alternando lunghe pause a scatti
repentini delle mani, intanto che Pecorino serviva le
clienti all’altra estremità del bancone e badava al
registratore di cassa. Al momento di ordinare i miei due
etti di ricotta, mi soffermai senza intenzione a sogguardare
i capelli bruni di Pecorino che, freschi di parrucchiere e
impomatati alle tempie, gli facevano una testa burrosa e
puntuta, da foca. Pecorino si accorse del mio sguardo.
Soverchiato dal suo solito risentimento, prese a
scucchiaiare senza una parola la ricotta sul piatto della
bilancia; intanto lanciava occhiate infuocate e impermalite
148
alla volta mia e poi alla volta di Pecorina, alla volta mia
e poi di nuovo alla volta di Pecorina. Fu così, seguendo il
diramarsi delle sue occhiate, che man mano lo facevano un
po’ levitare dietro al bancone, che rammentai con
apprensione il prezzo proibitivo del prosciutto crudo—me ne
servivano quattro fettine almeno, sennò che suprême erano?
Ficcai precipitosamente entrambi le mani in tasca e
cominciai a frugare in cerca di soldi. Animandosi e
tossicchiando, le altre clienti si scambiavano adocchiamenti
apprensivi, guardandomi che armeggiavo. Pecorina aveva
frattanto captato i segnali iracondi del marito e metteva su
uno dei suoi micidiali cipigli.
Un momento più tardi scovai qualche spicciolo nella
piega lanuginosa di una tasca; ne accarezzai le graniture
con riconoscenza prima di farmi scorrere furtivamente le
monete nel palmo della mano in modo da contarle senza dare a
vedere. Ma in un niente le avevo contate e ricontate dieci
volte: non bastavano neanche per pagare i miei due etti di
ricotta, figuriamoci il prosciutto crudo! Smisi di contare e
mi portai discretamente verso l’uscita, intenzionato a
filarmela per evitare discussioni mortificanti. In quella la
rastrematura anteriore di una limousine nera si arrestò di
fronte all’entrata della salumeria ed una faccia dietro i
vetri posteriori, resa indistinguibile dal beccheggio delle
balestre, prese a indirizzarmi dei cenni. La portiera si
spalancò e chi spunta fuori dalla limousine con autista se
149
non Stefano Kronskij in persona, vestito d’un completo color
crema con panciotto! Stefano K. entra nel negozio e si da
alacremente a stringere la mano di tutte le clienti.
“Cosa fai tu qui, Vittorino?” domanda Stefano K. nel
suo tono più cordiale.
“Niente,” risponde Vittorino S. “Mi serviva del
prosciutto ma ho dimenticato di portare i soldi—”
“PRONTI!” lo interrompe Stefano K. “CI SONO QUA IO!” E
detto fatto, si tende sulle punte dei piedi, stacca un
prosciutto intero dai ganci del soffitto e lo porge a
Vittorino S.
Io mi sorprendo a tendere spontaneamente le braccia in
avanti e verso l’alto nel momento in cui vedo Stefano K.
afferrare quella specia di clava rossa e gialla e coprire
brandendola i pochi metri che ci separano. È stato più che
altro per difesa istintiva che l’ho fatto, ma a chi mi
coglie in questo frangente a braccia levate dopo che Stefano
K. vi ha depositato il prezioso fardello, devo dare
veramente l’impressione del tipo avvezzo a ricevere
donazioni e offerte a fondo perduto.
Il negozio di Pecorino è a due passi da casa ma Stefano
K. insiste perché accetti un passaggio sulla sua limousine.
L’autista in livrea scende ad aprirci la portiera e al
passaggio di Stefano K. da una sventolata del berretto a
visiera. Quelli del Municipio, mi spiega StefanoK , gli
hanno appena concesso l’uso di limousine con autista.
150
Stefano K. è fresco fresco di nomina, a Presidente,
nientemeno, di una nuova Unità Sanitaria Locale. “Molto più
grande della u-esse-elle di prima,” precisa.
Stefano K. racconta queste novità intanto che l’autista
mi deposita dinanzi a casa. Quanto al prosciutto che reggo
in grembo, Stefano K. si raccomanda che ne utilizzi pure
quanto mi pare senza stare a lesinare. Ci penserà lui a
rifilare il rimanente alle cucine del suo ospedale, dice: il
suo nuovo incarico di Presidente prevede un rimborso-spese
per gli acquisti estemporanei.
Aveva un’aria ordinaria malgrado il completo color
crema, Stefano Kronskij, e non l’avrei detto, solo a
guardarlo, che era diventato super-Presidente. Lo si capiva
ad ascoltarlo parlare, però: si capiva chi e che cosa era
diventato dal tono dei suoi discorsi. Parlava prezioso e
cesellato adesso, tutt’una gamma di frasi d’occasione che si
rimestava a lungo in bocca e solo dopo molti indugi e molti
ripensamenti mi travasava nel padiglione auricolare. E...
accidenti! mi dicevo: coi suoi subdoli salamelecchi li
seduceva ad uno ad uno i bottegai del rione, li teneva tutti
in pugno. Bene, se lo meritavano davvero, concludevo tra me,
furente: si meritavano di trovarsi esattamente dove si
trovavano, questi bottegai, al fondo dei recessi della scala
sociale, laggiù nei sordidi gironi cui vengono relegati da
quelli che da sempre pesano loro addosso: là, giù nel fondo,
a farsi schiacciare e calpestare più in basso della terra!
151
La preparazione delle suprême di pollo è lunga e
laboriosa:
Si dorano i petti di pollo nel burro. Si mescola un composto di
ricotta, uova, mandorle tostate sbriciolate, sale, pepe. Si
approntano delle specie di sandwich: il pollo sta nel mezzo,
spalmato del composto e avvolto nelle fettine di prosciutto crudo.
Si inforna a dorare.
Mentre cucinavo disossai dal prosciutto una bella fetta
di polpa e la nascosi, avvolta in un panno di tela, sul
terrazzo che dava nel mio studio. Fuori faceva un freddo che
non vi dico: si sarebbe conservata in eterno. Il resto del
prosciutto lo avrei restituito a Stefano Kronskij a tempo
debito, che diavolo.
Cinque
Non che ad Amaranta facessero difetto le qualità
dovute, questo no. Gliene riconoscevo a iosa, di qualità, e
quando venivo preso dal malumore o da un certo risentimento
mi premuravo di stilarne lunghi elenchi particolareggiati a
mo’ di promemoria. C’era, per fare un esempio quanto
all’aspetto della tenerezza, la camicia da notte che lei
metteva per dormire d’inverno, ricamata di tante ochette
ridicole pettinate alla Gastone Paperone, coi riccioli
152
ondulati in cima al cocuzzolo. E c’era, tanto per menzionare
il resto tutto in una volta, la grande ampiezza mobile,
fragrante e fiduciosamente volonterosa delle anche:
un’imprudenza anatomica avresti detto, una svista generosa
della Bellezza su quel suo torso esile benché modellato con
dovizia. Persino le piccole borse che le erano spuntate
sotto gli occhi da che le toccava provvedere al mantenimento
di Lupo oltreché al mio, donavano profondità alla sua
espressione, tutto sommato; si intravvedevano rare frenesie
navigare agilmente tra le quinte del suo sguardo, con un
brillio intermittente poco discosto dalle pupille.
Ai tempi della mia guerra campale contro i Kronskij,
quando facevo spedizioni notturne nella loro cameretta rosa,
strisciando carponi sul pavimento oppure rimanendomene
acquattato per ore dietro i cassoni semipieni del loro
trasloco (sempre imminente e perennemente rinviato), a
ululare come un dentuto Signore della Notte, oppure quando
mi ritiravo in studio tra i libri col pretesto di scrivere
le mie Cronache del Delitto e Castigo nella Torre d’Avorio, e trascorrevo
la nottata a tamburellare coi tasti della Olivetti portatile
sulle tempie precariamente addormentate dei due Kronskij—
bene, allora sì che mi veniva fuori tutto da solo, a
missione compiuta, l’ardore coniugale con Amaranta, l’ardore
incontenibile. Ma adesso che finalmente i Kronskij li
avevamo sbattuti fuori, i miei lombi languivano e non
trovavo la maniera di ravvivarli. Nei momenti di intimità
153
con Amaranta i contorni dei miei muscoli si facevano vaghi,
la simmetria tronca del mio bacino era compromessa in una
sorta di svogliatezza: qualcosa che non mi riusciva di
riconoscere come interamente mio affiorava, certo, a tratti,
soggetto al bisogno tirannico di impennarsi, ma si svuotava
in un attimo e ricadeva svanendo. Il corpo di Amaranta così
intensamente aperto ai miei bisogni che avrei potuto
annullarmici dentro anche senza ricorrere all’immaginazione,
eppure tutto al mio interno era sbarrato.
È a motivo di Lupo che la situazione si è
momentaneamente sbloccata tra lei e me, intanto che i
rapporti precipitavano con tutti quanti i vicini e in
particolare con i negozianti di generi alimentari del
circondario. Ma da principio furono i maestri della scuola
elementare di quartiere a farmisi l’uno dopo l’altro
acerrimi nemici, senza che io avessi combinato niente per
meritarlo. La scuola elementare era subito di fronte a casa
nostra non appena svoltato l’angolo. Io mi trovavo spesso ad
aiutare i bambini del vicinato nei compiti del pomeriggio, e
tra questi bambini c’erano specialmente i due piccoli che
abitavano nel nostro condominio, due marmocchi di nome
Susanna e Rocky. Siccome era facile trovarmi a casa a tutte
le ore del giorno, Susanna, che era la figlia di un tassista
diurno rimasto vedovo di recente, e Rocky, il nipotino della
nostra ex-portinaia, la quale divideva con lui e la sua
giovane mamma il monolocale di ex-portineria a pianterreno,
154
venivano sovente su da me in cerca di aiuto. Studiavamo
insieme.
Da quando l’edificio disponeva di un citofono e di un
apriporta elettrico, la nonna di Rocky, sollevata dal
servizio di portineria, aveva cominciato a pagare un affitto
per il loculo che occupava colla figlia e il nipotino. Il
papà di Susanna, invece, era stato sfrattato dal padrone di
casa; avrebbe dovuto andarsene ma non gli riusciva di
trovare un appartamento alla portata delle sue tasche.
Susanna aveva l’ordine di asserragliarsi in casa quando
rimaneva sola dopo la scuola e non aprire la porta a
nessuno, meno che mai a quei bravacci dell’agenzia
immobiliare che volevano appropriarsi dell’appartamento.
Quello di aiutare gli scolaretti della scuola
elementare fu il mio primo errore. Gli insegnanti di ruolo
avvertirono una minaccia al loro ascendente didattico, tanto
più in quanto Susanna e Rocky e gli altri bambini finivano
coll’affezionarmisi più che non al corpo insegnante. C’era
sotto, naturalmente, la questione pedagogica. I maestri
avevano un bel burlarsi di me in aula, chiamandomi perdigiorno
apertamente di fronte alla scolaresca—coinvolgendo a questo
modo anche quei bambini che, non avendomi fino allora
incontrato di persona, salivano il giorno stesso a farmi
visita, intimiditi ma sospinti dalla curiosità di constatare
di persona se riuscivo veramente simpatico come sostenevano
gli amichetti oppure antipatico come sostenevano i maestri.
155
Avevano un bel denigrarmi, questi maestri e maestre, e
avevano un bel confutare le nozioni che Susanna e Rocky
apprendevano in casa mia! L’impresa di dipingermi alla
stregua di un ignoramus agli occhi dei bambini riusciva
oltremodo ardua ai maestri perché questi soffrivano di un
punto cruciale a sfavore che avvicinava vieppiù me, anziché
loro, al cuore dei bambini, e consisteva questo tenace
vantaggio del fatto che io non mentivo mai, a nessun bambino
e in nessun caso. Dicevo la verità in tutta naturalezza in
quanto non avevo un posto di lavoro da difendere, non ero
oberato come i docenti titolari, pertanto, dai metodi in
voga della didattica istituzionale, che sono sempre basati
sulla menzogna, l’ipocrisia e la falsità. A differenza degli
insegnanti della scuola elementare, non ero tenuto a
negoziare la permanenza del posto di lavoro né a confidare
nella deterrenza del patteggio sindacale quanto a stipendio
e pensionabilità; insomma non avevo una ragione al mondo di
mentire ai bambini! Dicevo sempre la verità, e la verità, è
risaputo, i fanciulli la registrano d’istinto.
La seconda negligenza da parte mia era stata quella di
fare scrupolosamente gratis quello che facevo per i miei
piccoli amici. L’aspetto remunerativo soprattutto aveva
contribuito a incanalare i dubbi e l’imbarazzo di molti
genitori e la malevolenza scoperta dei più taccagni. Toccò
alle mamme per prima, impensierite oltre ogni dire, ed ai
papà subito a ruota (altamente coercibili, i papà, quanto a
156
faccende educative) di diffondere certe implacabili e
sorprendenti invenzioni sul mio conto, da principio con
discrezione e poi apertamente senza più ritegno: se non era
per denaro che io faticavo insieme ai loro piccoli, allora
era incontestabilmente su qualche mia ribalda e segreta
inclinazione che speculavo, su un secondo fine oltraggioso e
inconfessabile.
Era nelle botteghe del circondario che mi capitava per
lo più di incrociare le vicine, e lì si aveva l’opportunità
di scambiare quattro chiacchiere. Dapprima avvertii l’aria
di complotto nella bottega di Burbero e nella bottega di
Pecorino. Scendevo nel magazzino allagato di Burbero e vi
trovavo le solite massaie pigiate in coda, insieme a Burbero
seminascosto dalle cassette della frutta, a Burbera
avviluppata nei suoi panni zuppi, e al figlio e la figlia
teenagers sempre elettrici; fuori magari faceva buio e
pioveva o nevicava, e dentro al magazzino l’aria putrida e
gli aliti pesanti stimolavano la gente alle confidenze. Non
appena comparivo sulla porta la formazione compatta delle
massaie in coda si scomponeva e queste scoppiavano a gridare
un coro confuso di mille argomenti alla rinfusa, mille
strilli scoordinati. Lupo mi si stringeva accanto e io stavo
fermo sui gradini ad ascoltare senza capirci niente. Le
massaie urlavano in maniera sconnessa come se avessero tutte
smarrito simultaneamente il filo del discorso. Era fin
troppo evidente che intendevano, ciascuna a modo suo,
157
distrarre la mia attenzone da quel che si stavano confidando
un momento prima del mio arrivo. Ma di cosa poteva mai
trattarsi?
Poi attaccarono col boicottaggio vero e proprio. Un
giorno che ero sceso in salumeria per comperare qualche etto
di prosciutto di coscia, Pecorino si ostinava ad affibbiarmi
il prosciutto di spalla, insistendo che quello di coscia era
finito. Io l’avevo riconosciuta non appena entrato in
negozio, la sua mezza forma di prosciutto di coscia adagiata
sul tavolo del retro, seminascosta dalle tendina, ma
Pecorino negava risolutamente l’evidenza e non voleva
saperne di dare un’occhiata alle proprie spalle; se volevo
del prosciutto cotto, dovevo prendere quel che c’era oppure
andarmene a mani vuote. Intanto Pecorina faceva l’occhiolino
alle clienti in coda e certe altre smorfie di repertorio. Si
intendevano colle clienti a spese mie senza bisogno di tante
parole, i due bottegai—ci voleva poco a capirlo. Riconosco
che in quell’occasione palesai una forma eccessiva di
insofferenza; sbraitavo che la si poteva vedere anche da
dove stavo io, la forma di prosciutto nascosta nel retro, e
che se Pecorino non me ne avesse subito affettata una
porzione come si deve non avrei risposto delle mie azioni. E
poi, visto che Pecorino e consorte rimanevano indifferenti
alla minaccia, passai maldestramente a buttare per aria i
cartoni di latte inquadrati ai piedi del bancone; i cartoni
lambivano il soffitto con traiettorie diverse, urtando vuoi
158
un salame appeso a un gancio, vuoi una caciotta, e si
tiravano tutto dietro nella ricaduta. Ma i coniugi Pecorino
non vollero mollarlo comunque il loro prosciutto di coscia.
Dopo l’episodio del prosciutto mi misi a spiare le
espressioni delle massaie che incrociavo per strada, le
facce che facevano quando mi vedevano, e sebbene fossero
dopotutto le stesse facce di sempre, pure era discernibile
una prevenzione dietro i profili scostanti, rapidi a
scantonare al mio approssimarsi. Non promettevano nulla di
buono quelle facce: per il momento si limitavano a tenermi
d’occhio, i lineamenti induriti, i ghigni sprezzanti, ma
sentivo che alla lunga non si sarebbero accontentate di
restare a guardarmi. C’era sicuramente chi preparava
qualcosa di concreto ai miei danni, c’era sicuramente chi si
organizzava. Col passare dei giorni i malumori del rione si
concentravano a mio sfavore—e io non avevo ancora afferrato
il perché!
Questi erano stati gli antefatti. A peggiorare le cose
salto fuori il caso Des Valois. Uscendo dalla scuola un
mattino i bambini mi sorpresero fermo sulla porta di casa a
conversare con la vecchia Des Valois. Ecclesia Des Valois,
antica diva del melodramma, abitava in uno stambugio
all’ultimo piano dell’edificio, sola e dimenticata da
parenti, amici, ammiratori—due localini che rispondevano più
propriamente alla nozione del reliquiario che non al
criterio dell’ambiente d’abitazione. Amaranta saliva a
159
trovarla di quando in quando, la aiutava in cucina e le
faceva la spesa. La povera donna era tanto ingracilita che
le mancavano le forze necessarie alle faccende domestiche
più minute.
I bambini compresero che coltivavo rapporti di
confidenza con la vecchietta e reagirono senza indulgenza.
Ecclesia Des Valois era mal vista dalla famiglie del
quartiere; gli adulti facevano a gara nello snobbarla
apertamente. Credo che la ragione della sua impopolarità
fosse dovuta alla sua anzianità: era vecchissima e decrepita
la Des Valois, i suoi coetanei dichiaravano di preferire gli
ospizi e non si mostravano in giro, come faceva invece lei
di quando in quando. Un’altra ragione verosimile
dell’ostracismo operato ai suoi danni, ostracismo che finiva
per coinvolgere anche i marmocchi della scuola elementare,
ai quali capitava sovente di mettere la vecchia alla berlina
per strada—un’altra ragione di ostracismo derivava da una
forma obliqua di sollecitudine da parte delle famiglie dei
dintorni, le quali solidarizzavano con la causa dei
discendenti di Des Valois, i quali non avevano modo di
mettere le mani sul patrimonio del casato fintanto che fosse
sopravvissuta la capostipite. Doveva essere senz’altro una
ragione puerile, incoerente, ad occasionare l’isolamento di
cui soffriva Ecclesia Des Valois, immaginavo sovente, uno di
quei motivi labili e strumentali che surrogano i moti
160
spontanei del sentimento e soffocano le esistenze
abitudinarie della povera gente.
L’indomani Susanna e Rocky mi si presentarono per
chiedere con veemenza infantile che giustificassi la mia
amicizia con la Des Valois. Non trovando di meglio da dire,
mi limitai a raccontar loro di quanto trovavo buona e
gentile la vecchietta, e li indussi affabilmente a
riflettere sul fatto (irrilevante di per sé) che la Des
Valois abitava in quel caseggiato da prima che fossero nati
i loro genitori ed i genitori dei loro genitori; poi
raccontai ai due bambini di come col passare degli anni
Ecclesia Des Valois aveva dovuto traslocare di un piano alla
volta man mano che scemava la sua fama, a partire dal piano
nobile dove abitava al momento del massimo fulgore fin lassù
nel cubicolo dell’ottavo piano.
Discorrendo a questo modo di locazioni e genealogie
spinsi inavvertitamente Susanna e Rocky in uno stato di
imbarazzata esaltazione, tanto che non solo si convinsero
prontamente della mia buona fede ma si diedero subito a
brigare e tramare fino a che, nel giro di pochi giorni, non
mi ebbero riconquistato (cogli interessi!) la dimestichezza
dei loro compagni della scuola elementare. Fu un deciso
rovesciamento di fronte. I piccoli del quartiere
svilupparono un’affezione inattesa verso la Des Valois—come
se avessero scoperto d’un tratto la possibilità di spartire
in tanti la medesima nonnina! In gruppi di due o tre,
161
guidati da Susanna e Rocky, i quali giostravano a menadito
tra i cumuli del pattume sulle scale dei piani alti, oppure
manovrando arditamente la pulsantiera dell’ascensore, i
bambini si inoltravano all’ottavo piano recando piccoli doni
innocenti. La vecchietta li accoglieva volentieri a
qualsiasi ora si presentassero, felice di ricevere i piccoli
visitatori ignari dell’etichetta e inconsapevoli della sua
trascorsa grandezza artistica; a volte si azzardava, la Des
Valois, ad eseguire per loro al pianoforte qualche breve
temerario estratto dalle sue romanze favorite, le dita
ossute ancoa agili sugli avori ingialliti della tastiera.
Per l’ora di pranzo i bambini presero l’abitudine di depore
dinanzi al suo uscio dei piattini in cartone colmi di
vivande: pietanze già cotte, polpettine, semolini fritti,
alimenti teneri di facile masticazione.
La voce del trasporto dei bambini verso la Des Valois
fece presto il giro del quartiere, venne alle orecchie degli
adulti. Questi non osavano intervenire apertamente, timorosi
d’essere accusati di crudeltà verso la categoria degli
anziani. In mancanza di meglio gli adulti del circondario si
misero d’impegno alla ricerca del responsabile di questo
stato di cose, risalirono a me in un batter d’occhio. Così i
vicini serrarono ulteriormente i ranghi. Vittorino
Surrettizio non la smetteva di creare fastidi, si prendeva
delle libertà inammissibili coi loro pargoli: non doveva
passarla sempre liscia!
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Ecclesia Des Valois aveva gli occhi luccicanti in quei
giorni, occhi di un’azzurra fermezza luminosa. Talmente
curva e cadente, il viso pallido scosso di tremori come
infantili, ogniqualvolta la incontravamo nell’androne del
caseggiato smangiucchiava tra le gengive sdentate dei timidi
complimenti al mio indirizzo e certe formulette di cortesia
d’altri tempi rivolte ad Amaranta. Io ero in pace con me
stesso, trovavo bene o male delle giustificazioni alle mie
malefatte. (Sono il tipo del recidivo: in quanti me l’hanno
detto!)
Sei
Veniamo alle malefatte di Lupo. Un pomeriggio, di
ritorno da una passeggiata, io e Lupo incappammo in Rocky,
il quale, chino su un piccione accasciato accanto al
battistrada di un’automobile parcheggiata, stuzzicava il
volatile agonizzante per appurarne le lesioni. Noi gli
arrivavamo da dietro, inavvertiti, e fu d’istinto, contando
evidentemente sul fattore sorpresa, che Lupo si gettò sul
piccione e lo divorò in un sol boccone prima che io oppure
Rocky avessimo la prontezza di impedirglielo.
Fu quella la prima volta che ebbi modo di udire
distintamente il risoluto, perentorio clac! mandibolare che
si ripercosse di pelo i pelo lungo la schiena di Lupo, e poi
corse con una sola ampia carezza elettrizzante dal suo
garretto al garrese. L’asfalto della strada diede in un
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brivido e gli edifici tremarono ritraendosi... e tremò
distintamente, ahimé, il ditino ancora teso di Rocky a un
filo dalle fauci.
Poche gocce di sangue colate dalle mandibole di Lupo
rilucevano sul parafango dell’automobile accanto alla scena
del delitto, ma Rocky non si mostrava scosso più di tanto.
Come per sincerarsi della scomparsa definitiva del piccione,
esaminò doviziosamente la dentatura tuttora digrignata di
Lupo. “Tanto era spacciato comunque quel piccione,” concluse
in un tono rassicurato, andandosene per i fatti suoi.
“L’aveva investito un pirata della strada.”
Malauguratamente Rocky riferì l’accaduto a Susanna, lei
lo raccontò alle amichette, queste alle altre bambine del
quartiere. Assumendo i contorni distorti e ingigantiti che
abbelliscono questo genere di episodio, la storia fece più
volte il periplo del circondario e alla fine approdò ai
genitori e ai maestri della scuola elementare. Dapprima non
si verificò che un’ulteriore recrudescenza della situazione
in mio sfavore, un incattivimento diffuso, che ruotava
intorno al nome di Vittorino Surrettizio colla calma
ipnotica d’un tornado ancora incapace di sfogo. Certi giorni
mi pareva quasi di vedermela cadere addosso, a sbuffate
attraverso le finestre delle terrazze, la rabbia implacabile
dei vicini.
Pecorino e Pecorina erano i più attivi ad ammutinare le
clienti della salumeria contro di me e a divulgare notizie
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tendenziose sulle imprese sanguinarie di Lupo. Del resto,
argomentavo ininterrottamene tra me e me, tutti i vicini
potevano vederla agevolmente dai loro balconi la nostra
grande terrazza esposta a sud-ovest, dove a metà giornata si
davano convegno molti colombi obesi, sparute tortorelle
impaurite, e certi piccioni appesantiti dal torpore
invernale: come, alla fine, ci ero arrivato io a spiegarmi
la maniera escogitata da Lupo al fine di reperire il
nutrimento che gli abbisognava, facendo piazza pulita di
quei volatili malamente inurbati, così i nostri coinquilini
non potevano di punto in bianco manifestare tanto
meravigliato ribrezzo per le ormai risapute abitudini
alimentari del mio cane. A meno di non voler destare, con
quel loro gratuito risentimento verso l’animale, un sospetto
(più che fondato, come vedremo) quanto alle proprie
intenzioni verso il suo padrone.
Le cose si erano messe in modo tale che non trovai il
modo di esimermi quando mi venne recapitato anonimamente
l’invito a partecipare ad una Tavola Rotonda di quartiere
sul tema: “La difesa della fauna locale: il fattore natura e
il fattore uomo.”
La saletta d’aspetto degli ex-bagni pubblici,
equipaggiata di sedie e panchette, fu prescelta come luogo
d’incontro per la Tavola Rotonda. La sera dell’incontro non
mancava nessuno. C’erano i genitori degli allievi della
scuola elementare assieme al corpo insegnante al gran
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completo, c’erano Burbero e famiglia, Pecorino e Pecorina, e
infine Ovino, il solo tra i bottegai locali, quest’ultimo, a
non arrivare sottobraccio alla consorte. (Ovino fu anche
l’unico dei presenti a non prendere partito alla leggera;
bisogna dargli atto che si tenne fuori dalla mischia per
quanto gli fu possibile.) Avevo riflettuto a lungo, la
vigilia, se fosse o meno opportuna la presenza di Lupo alla
riunione, e avevo alla fine deciso di portarcelo più che
altro per motivi precauzionali. Alla peggio, avrei potuto
salvarmi togliendogli la museruola, ma ero determinato a non
ricorrere a questa misura che nel caso estremo in cui
entrambe le nostre vite fossero state seriamente minacciate.
Misura estrema che ad ogni modo non si rivelò necessaria:
considerati i precedenti nonché il risentimento accumulato
dai miei nemici, le cose assunsero una piega affatto
tiepida, tant’è vero che a due giorni dalla fatidica Tavola
Rotonda avevo recuperato l’uso di tutti gli arti e potevo
deambulare non proprio speditamente ma quasi.
(Inoltre, ad esclusivo beneficio mio e di Amaranta,
ebbi modo di confermare, la notte del dibattito, un’ipotesi
che m’ero trovato a vagliare più d’una volta ultimamente,
l’ipotesi ovverossia di una certa mia predisposizione agli
amplessi di natura marziale, consumati in stato di
belligeranza dichiarata. Dopo il mio scontro coll’intera
assemblea, infatti, sentii rinascere prepotente quel barlume
di speranza, quell’instabile tramestio perineale che mi
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aveva tanto difettato di recente: ebbi modo dunque di
consumare con Amaranta nel corso della nottata uno scambio
affettuoso come da tempo non ne assaporavamo. Ci abbuffammo
di voluttà, smarriti in un bailamme di garze e cerotti!)
Fecero un vacarme memorabile, i genitori dei bambini
della scuola elementare. Ma più di tutti, Pecorino e
Pecorina erano scatenati e la mettevano apertamente sul
piano personale, tirando in ballo i miei conti sospesi colla
salumeria: e naturalmente non mancarono di riferire
l’episodio del prosciutto di coscia che non avevo voluto
comprare, nonché l’aneddoto del prosciutto intero acquistato
dal mio benefattore Stefano Kronskij per levarmi d’impaccio.
Andarono avanti lungamente a riferire di queste vecchie
ruggini nei più minuti particolari: si comportavano come due
oratori che intrattengono un pubblico di sconosciuti, quando
ad ascoltarli erano le stesse persone di sempre, le massaie
cui avevano raccontato perlomeno una dozzina di volte la
medesima versione del medesimo episodio, giorno dopo giorno
in salumeria. A parte le botte che buscai alla fine, il
prezzo più salato lo pagai quella notte in termini di amor
proprio: me ne sfumò un bella dose davvero! Rimasi, per così
dire, in riserva. Da allora ho purtroppo sviluppato una
specie di frenesia quanto all’amor proprio: mi sono messo
cocciutamente a tesaurizzarne. Il che a volte è più
controproducente che altro...
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Di dibattito vero e proprio ce ne fu pochino. Non ebbi
il tempo di entrare a prendere posto nella saletta adibita a
luogo di riunione che i presenti attaccarono a torchiarmi,
scaglionati lungo il perimetro della stanza di modo che mi
trovavo accerchiato, preso tra molti fuochi incrociati di
parole: troppe voci sovrapposte perché mi riuscisse di
mettere a fuoco le singole accuse che mi venivano rivolte, o
domande che fossero, o sospetti, denunce: argomenti tutti
comunque impossibili da replicare, rappresaglie sarcastiche
giostrate instancabilmente in fil di lingua. Difendersi
sarebbe stata fatica sprecata. Zitto zitto, guardavo le
persone che mi si agitavano intorno, guardavo gli occhi che
stralunavano, le bocche che storcevano, le braccia che
mulinavano. Il moderatore del dibattito era Pecorino, il
quale, sollecitato e ispirato da Pecorina, che gli spediva
tante strizzatine d’occhio stringate stringate, mi
tempestava di insulti e tirava continuamente in ballo la
faccenda dei miei debiti. Pecorino formulava solamente una
piccola parte dei propri argomenti a parole. Preferiva
esprimersi coi gesti delle mani, le palme stirate
all’infuori, esercitate ad una mimica elusiva ma assortita e
ricca di risorse grazie alla sua abitudine inveterata di
mantenersi nella posizione dell’attenti! in negozio. La cosa
che mi riusciva maggiormente sgradevole era proprio però la
maniera che aveva Pecorino di rivolgermi quelle sue rare
parole, di spararmele addosso con un rumore intermittente
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della bocca come di piselli sgranati. Nel mezzo di quegli
improperi Pecorino si interrompeva di botto, palesemente
stupefatto del proprio coraggio, e cercava di assumere un
contegno tornando a far lavorare in silenzio le sue palme
tese.
Pecorina s’era messa in pompa magna per l’occasione
(pellicciotto al collo e manicotto di volpe) e lasciava
trasparire la sicumera di starsene placida a rimirare il
marito che con polso e bellicosità presiedeva la nostra
riunione. Lupo dal canto suo era terrorizzato dalla messa in
scena e moriva evidentemente dalla brama di intervenire con
una zannata risolutoria; io gli strattonavo il guinzaglio a
intervalli, e allora si rincantucciava contro le mie
ginocchia con un’aria decisamente impressionata.
Pecorino impose finalmente il silenzio e a questo
punto, come ad un segnale convenuto, le donne dei bottegai
tirarono fuori da sotto alle seggiole delle grandi sporte
stracolme e presero a vuotarne il contenuto sulle panche e
sul pavimento. La roba che sbucò da quelle borsacce!
Stentavo a credere ai miei occhi: bottiglie d’olio d’oliva,
fiaschi di vino, vasetti d’acciughe, scatolette di tonno,
sedani interi, cavoli e cespi di lattuga, mele, rape, tutto
il necessario per un picnic in piena regola. Mi stava
venendo un’acquolina...! A passettini spediti e le braccia
cariche, i presenti mi si assieparono intorno; tenevano un
fronte compatto, come un battaglione alle grandi manovre. La
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merce delle sporte l’avevano evidentemente raccolta alla
rinfusa dagli scaffali dei negozi prima di uscire. C’era, è
logico, chi non si voleva sporcare le mani con un farabutto
come me, e c’erano d’altra parte i più avveduti che, restii
a picchiarmi di prima mano per tema di macchiarsi la fedina,
avevano escogitato questa trovata di bombardarmi da lontano
colle derrate del falso picnic.
La gragnola durò un due o tre minuti. Io e Lupo ci
tenevamo rannicchiati sotto la nostra panchetta mentre gli
astanti ci tiravano le cose addosso, dall’alto verso il
basso. Gli oggetti spigolosi, come lo scatolame e i
surgelati, erano i regalini peggiori che potessero pioverti
addosso perché contundevano e laceravano le parti colpite,
mentre i pezzi grossi e pesanti, come i cavolfiori, erano
efficaci soltanto quando centravano le zoni molli del
bersaglio, come lo stomaco o le guance. Irregimentati in un
circolo di postazioni previamente concertate, le facce
irrorate di furia, i papà, i maestri, i negozianti
zagagliavano con metodo i loro proiettili, alternandosi
dentro e fuori ciascuno a turno, dentro e fuori delle bolle
di luce blu che i miei occhi ormai pesti proiettavano sulla
scena tra una scarica e l’altra. Con movenze rapite invece,
pudiche ed avare (una specie di balletto appartato), le
mogli, mamme e maestre si limitavano ad un lancio simbolico
di copertura; impacciate d’ogni sorta di bardatura elegante,
cappellini, velette, medaglioni, lasciavano cadere sulla mia
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testa vuoi delle uova marce delicatamente frangibili, vuoi
delle castagne secche raggrinzite, vuoi dei confetti e
bonbon. L’avevano presa per una serata di gala...
Se Ovino aveva finito col farsi coinvolgere nella foga
generale, ciò era soltanto dovuto a ovvie ragioni
promozionali e di buon vicinato. Da principio se n’era
rimasto ostentatamente in disparte. Ma alla fine s’era
deciso e m’aveva sbattuto in faccia un paio di grandi
cotolette milanesi, sottili come foglie d’insalata:
posandosi tra la guancia e il lobo frontale, una per parte,
le due fette di carne venata avevano cambiato i miei
connotati nell’istantanea di un mostro. Ma alla fine queste
cotolette s’erano rivelate una provvidenziale maschera
protettiva. In questo frangente imbarazzante, insomma, Ovino
s’era saputo del tutto distinguere dai colleghi bottegai.
Poi io e Lupo eravamo rimasti soli, distesi in mezzo a
tante esigue pozze che al tatto avrei detto d’acqua, di vino
e d’olio misti al nostro sangue. L’aria intorno s’era fatta
aspra e pesante. Amaranta venne a cercarci poco più tardi e
ci ritrovò doloranti, circondati di tutto quel succoso ben
di Dio. Sentii la sua voce che mi chiamava nel buio.