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Luigi Ferdinando Dagnese Cronache dal frigorifero Di fronte a loro apparve un muro. Cominciava in aria e si estendeva in alto a perdita d’occhio. ... Il buio era assoluto. Nessuna luce, tranne quella intermittente dei segnali luminosi, rischiarava l’oscurità. L’aria era piena di rumori confusi. Isaac Asimov, Cronache dalla Galassia I Cronache dal frigorifero Torino, 1981 Uno La camera di Marilina era tutta rosa ma nei giorni di mutua lei preferiva tenere chiusi gli scuri alle finestre e l’ambiente assumeva nel complesso una tinta, e un odore pure, di carne andata a male. L’odore della stanza lo 1
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Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Jan 12, 2023

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Page 1: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Luigi Ferdinando Dagnese

Cronache dal frigorifero

Di fronte a loro apparveun muro. Cominciava in aria e si estendeva in alto a perdita d’occhio.... Il buio era assoluto. Nessuna luce, tranne quella intermittente dei segnali luminosi, rischiarava l’oscurità. L’aria era piena di rumori confusi.— Isaac Asimov, Cronache

dalla Galassia

ICronache dal frigorifero

Torino, 1981

Uno

La camera di Marilina era tutta rosa ma nei giorni di

mutua lei preferiva tenere chiusi gli scuri alle finestre e

l’ambiente assumeva nel complesso una tinta, e un odore

pure, di carne andata a male. L’odore della stanza lo

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emanava proprio lei in fondo, al modo che aveva di

convincersi d’essere ammalata sul serio. C’erano montagne di

libri impilati sul pavimento accanto al letto, aperti al

segno col dorso rivolto al soffitto, e montagne di flaconi

medicinali. Teneva libri e flaconi a portata di mano, così

nei giorni di mutua non doveva stare ad alzarsi per

trovarli. Le lenzuola del letto erano di un grigiastro che

si intonava male col rosa alle pareti—a meno cioè che gli

scuri rimanessero chiusi, nel qual caso la penombra rendeva

il contrasto trascurabile.

Erano le nove del mattino. Entrai nella stanza e, senza

badare all’ansimare di Marilina, aprii la porta che dava sul

terrazzino e sfilai una carota dalla borsa di plastica

appesa all’antina. “... le mie carote...” sospirò lei

debolmente. Le diedi due o tre colpetti in testa col

barbiglio verde della carota, addentai l’ortaggio e lasciai

la stanza ruminando.

Carote a colazione, mi dissi. Ero ridotto male. Nei giorni

scorsi una rivista letteraria di Roma si era tanto

complimentata per un racconto sperimentale che, “come

certamente capivo,” non potevano pubblicare; un’emittente

radiofonica locale trasmetteva di tanto in tanto qualche mio

poemetto; i consulenti delle maggiori case editrici

nazionali si contendevano (ma dubitavo che si trattasse

solamente di una forma di curiosità morbosa) il manoscritto

di un romanzo osé che mi ero pentito da tempo d’avere

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scritto. Smaltivo giornalmente una fitta corrispondenza con

scrittori famosi, registi di successo, redattori editoriali,

giornalisti. Ma non guadagnavo da anni l’ombra d’un

quattrino.

L’appartamento in cui abitavo apparteneva a mia moglie

Amaranta. I nonni materni gliel’avevano lasciato al tempo

dell’università e si erano trasferiti a vivere colla figlia

in campagna. Il papà di Amaranta era operaio specializzato,

lavorava in una fabbrica di ceramiche del cuneese ed era

orgoglioso di avercela fatta a laureare la figlia in

architettura. Ma l’edilizia era in crisi, come si diceva a

quel tempo (si dice tuttora, mi risulta), e Amaranta non

lavorava da un anno. Le avevano offerto un posto da commessa

in un negozio di mobili della periferia: cassettiere rococò,

armadi finto antico, librerie con l’incastro d’angolo per il

televisore... Era pur sempre un’opportunità, eppure Amaranta

ci meditava da tre settimane, non arrivava a decidersi.

Accettando quell’impiego avrebbe dato l’addio a tanti bei

sogni. Certi suoi compagni d’università praticavano davvero

la professione di architetto ma loro, come si diceva,

avevano la famiglia alle spalle. Amaranta non aveva che la

grazia, lo scrupolo, l’intelligenza, e un marito scrittore

da sfamare. Troppo, e troppo poco.

Marilina coabitava con Amaranta da prima che io fossi

tornato a vivere con lei. In principio erano state buone

amiche. Per un po’ anche Marilina aveva studiato

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l’architettura ma poi aveva rinunciato e s’era trovata un

posto da assistente sociale in municipio. Cominciava a

guadagnare benino.

In quei giorni ricevetti la visita di un vecchio amico

che veniva dalle Langhe. Stavano preparando l’uscita di una

nuova rivista, mi disse; per quello aveva lasciato le sue

colline e s’era spinto qui in città, per parlarne con me.

Verso l’ora di cena cominciai a preparargli il pollo alla

pernice. In cucina avevo tutti gli ingredienti necessari

salvo il pollo, ma quello contavo di scovarlo frugando nei

sacchi di Marilina. Lei aveva sospeso il periodo di mutua

così potevo perquisire la sua stanza con calma. Stavolta

dalle borse di plastica non ricavai nulla, ma scovai invece

un piccolo frigorifero portatile stipato sotto il letto.

Dentro c’era il mio pollo, una metà per l’esattezza.

Il mio amico langarolo era uno specialista di

recensioni. Ne leggeva a bizzeffe, tutte quelle sui cui

metteva le mani, praticamente, su qualsiasi argomento. Di

cucina non ne capiva un granché, però, così avevo deciso di

sbalordirlo col mio pollo alla pernice. Il segreto del pollo

alla pernice sta negli ingredienti della marinatura. Mi

chiese di rivelarglieli ed io consentii, dicendogliene uno

sì e tre no. Dopo un paio d’ore di marinatura dori la carne

del pollo nell’olio d’oliva, poi ci aggiungi un bicchiere di

vino bianco secco, lasci evaporare il sugo, ci versi sopra

tutto quanto l’intruglio della marinatura, procedi con una

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breve cottura a fiamma ben alta e wham! servi il tutto

bollente in tavola.

Non ce n’era troppo di pollo alla pernice e lo servii

quasi tutto nel piatto dell’amico langarolo.Gli dissi che

non avevo appetito, che mi cucinavo lo stesso piatto un

giorno sì e uno no. Rimasi zitto per un po’ guardandolo che

mangiava. Controllavo i crampi allo stomaco con il vino

dolcetto che aveva portato lui dalle Langhe, un bicchiere

dopo l’altro.

La nuova rivista, mi diceva intanto che masticava, si

sarebbe chiamata Langa Materiali. Il fulcro della rivista, i

contenuti, gli argomenti, dovevano provenire tutti dalla

vita della gente delle Langhe. Manco a dirlo, pensai tra me. È

perlomeno dalla morte di Cesare Pavese che le Langhe sono

l’ombelico del mondo, a detta dei langaroli. Magari anche da

prima della morte di Cesare Pavese, a pensarci bene...

Questa faccenda della centralità delle Langhe rispetto al

resto del mondo mi aveva tormentato a lungo, in passato;

sono nato anch’io laggiù, tra le colline. Avevo scritto un

saggio, Donne e Buoi, in cui sostenevo che la centralità delle

Langhe rispetto al resto del mondo era frutto di un

terribile malinteso, e che ne erano responsabili le genti

stesse delle Langhe, a causa della loro naturale ritrosia a

guardarsi intorno. Il saggio mi aveva procurato parecchi

nemici. Soltanto l’amico langarolo m’era rimasto fedele.

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Lui intanto spiegava che gli c’era voluto del bello e

del buono per convincere il comitato di redazione di Langa

Materiali ad inserire il mio nome nella lista dei

collaboratori esterni. C’erano tre membri, mi disse, nel

comitato di redazione. Lui stesso, che avrebbe curato la

sezione dedicata alle recensioni, Il Filosofo, che avrebbe

curato la sezione dedicata alla filosofia, e il Poeta, che

avrebbe curato la sezione dedicata alla poesia. Lui aveva in

mente, per la propria rubrica, una serie di recensioni delle

recensioni pubblicate dalle altre riviste. Questo di coprire

tutte le recensioni di tutte le riviste della penisola

comportava uno sforzo di lettura non indifferente, disse, ma

ne valeva la pena. Si era già abbonato alle riviste che

intendeva leggere.

Il Filosofo era un giovane professore di liceo,

responsabile editoriale di Alba Filosofica, una collana

editoriale di recente fondazione. Per il debutto di Alba

Filosofica il Filosofo aveva curato l’opuscolo collettivo

Heidelberg di fronte alle colline, in cui veniva dibattuto l’asse

filosofico Alba-Heidelberg. Ma adesso, al momento di

pubblicare il secondo opuscolo, il Filosofo si era arenato.

Questo opuscolo avrebbe dovuto contenere il testo annotato

di una conferenza sulla crisi della ragione tenuta anni

prima a Alba da Gianni Vattimo. Il Filosofo aveva stilato di

suo pugno le annotazioni al testo della conferenza di

Vattimo; ci aveva impiegato tre anni a scrivere queste note

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e leggersi tutta la documentazione del caso, poi, trascorsi

questi tre anni, si era convinto che la crisi della ragione

era conclusa, terminata, finita, e non ne aveva voluto più

sapere di pubblicare la conferenza di Vattimo. Malgrado

tante insistenze da parte di amici e conoscenti, aveva

persino rifiutato di informare Vattimo, a Torino, della fine

della crisi della ragione. Uno studioso di dirittura

cristallina, il Filosofo, stava dicendo a questo punto

l’amico langarolo.

Il terzo membro del comitato di redazione, il Poeta, lo

conoscevo di persona. Abitava a Cuneo con la moglie, la

Mercantessa d’Arte. Ero stato in visita alla loro galleria,

una volta.

“Noi trattiamo solo roba moderna,” mi aveva detto la

Mercantessa d’Arte. “Con il passato politico che ci

ritroviamo alle spalle, i nostri clienti sono tutti

progressisti e non ne vogliono sapere di vecchiume.”

Il Poeta era famigerato per le sue poesie sul passato

politico suo e della moglie. Raccontava dei suoi trascorsi

alla Statale di Milano, di come al tempo si faceva da

mangiare da solo, si faceva pure il letto e le pulizie in

camera, e una volta aveva incontrato Mario Capanna—quello

colla barba, per intenderci.

Il primo numero di Langa Materiali avrebbe trattato

dell’America, mi disse l’amico langarolo. Il Filosofo aveva

già pronto un pezzo sul narcisismo americano. Il Poeta aveva

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scritto una poesia intitolata: “Le ceneri di Walt Whitman.”

L’amico langarolo intendeva recensire il libro Lo Zen e l’arte di

manutenzione della motocicletta. Non era per niente d’accordo sul

tenore delle recensioni correnti al libro e voleva dire la

sua. Il libro non se l’era ancora comperato.

Adesso io volevo conoscere la natura della mia

collaborazione. Volevo sapere se avrei avuto anch’io una mia

rubrica, come loro tre. Ma l’amico langarolo si dilungava a

parlarmi del loro progetto, dei lavori in cantiere. Sfoderò

di tasca la poesia che parlava delle ceneri di Walt Whitman

e me la lesse ad alta voce. Il Poeta parlava di se medesimo

di fronte alla lapide di un sepolcro.

Dei mesi Aprile è il più crudele,

Ma è di Maggio che ti rendo omaggio.

Eccetera, eccetera. Ascoltai senza fiatare la lettura

di quei versi e poi risi del mio riso più sommesso. “Sì, ma

io cosa c’entro?” domandai alla fine. C’entravo, mi disse

l’amico langarolo, c’entravo eccòme. Io avrei scritto il

pezzo a proposito dell’influenza della società langarola

sulla cultura americana, a partire da Cesare Pavese in

avanti, fino a Melville. Mi avevano già preparato una bella

bibliografia su cui lavorare.

Ora l’amico langarolo taceva in attesa di una risposta

e io non sapevo cosa dire. Avrei voluto offrirgli

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qualcos’altro, un bicchierino, un poussecafé, a mo’ di

diversivo, ma non m’era rimasto niente in casa. Allora

cominciai a dirgli la verità. Che io scrivevo da anni, che

avevo scelto così, di scrivere i miei racconti qui da casa,

e dopo tanto tempo non mi sembrava vero che mi si proponesse

di lavorare su commissione, ad un’idea che non era nemmeno

la mia. E dissi che non avevo nessuna voglia di descrivere

l’influenza della cultura langarola sulla civiltà americana.

“Della civiltà langarola sulla cultura americana,” mi

corresse lui. Non gli chiesi di dettagliare la differenza.

Restammo così, faccia a faccia, senza più dire molto, né io

né lui. Poi prese congedo e se ne tornò in patria.

Marilina intanto s’era messa in testa che le occorreva

una casa tutta per sé, ne aveva abbastanza di avermi tra i

piedi e di trovare le sue provviste sempre saccheggiate.

Prima, quando abitava da sola con Amaranta, si trovava

meglio perché Amaranta viveva la sua disoccupazione con

dignità. Io invece pensavo solo a mangiare! Doveva trovarsi

un’altra sistemazione.

Quel che io non comprendevo, in questo scontento di

Marilina, era in primo luogo il motivo del suo prolungato

soggiorno in casa nostra. Nemmeno Amaranta ricordava con

precisione com’era cominciata la faccenda. Marilina s’era

trasferita in quella stanza tanto tempo prima: aveva

colorato di rosa le pareti, trasportato tutti i suoi libri,

i dischi, le abat-jour, comperato tre quadri alle aste del

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sindacato e tre bambole di pezza al mercato delle pulci di

Porta Palazzo.

Poi saltò fuori inaspettatamente la storia della Grande

Razionalizzazione dei servizi pubblici. La campagna di

moralizzazione, come la volle chiamare subito qualcuno.

D’ora in poi, venne decretato, i dipendenti degli enti

pubblici avrebbero dovuto garantire continuità di presenza

sul posto di lavoro, né disertare l’ufficio di competenza,

da mane a sera, esclusi gli intervalli per i pasti. Questo

valeva anche per le assistenti sociali come Marilina. I

partiti politici presero in mano l’iniziativa, ci furono

imponenti manifestazioni pro e contro. Se proprio ci si

aspetta che i dipendenti pubblici si rechino al lavoro ogni

giorno lavorativo, dicevano i partiti nei comizi, bisogna

garantire loro un’abitazione in centro città. Venne proposta

una riforma dell’edilizia residenziale e una legge

eccezionale per la confisca delle case.

Nel frattempo Amaranta aveva accettato l’impiego da

commessa nel negozio di mobili in periferia. Sul lavoro

indossava un camice di nylon azzurro e veniva per lo più a

contatto con famiglie operaie. Non aveva contratto, mutua o

pensione: era stata assunta in veste di “libero

professionista.” Sapevamo che non poteva durare.

Di solito leggevamo coricati, la sera prima di dormire.

Lei prediligeva i classici, a partire da Hamsun all’indietro

fino ad Aristofane: Proust, Stendhal, Dostoevskij, Mann. Io

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leggevo da Hamsun in avanti—Henry Miller, Bukowski—poi ci

facevamo dei sunti, a turno. Una volta si inventò (io

pretesi di crederle) che Proust diventò azionista della

Rolls Royce siccome Albertine voleva un’automobile nuova

ogni primo del mese. Improbabile come frottola, ma cosa

potevo obiettare? Amaranta leggeva a tappeto e non le

sfuggiva nessun aspetto della vicenda; ricordava eventi,

episodi chiave, si appassionava ad ogni singola trama,

trasformava tutto in saga. Io mi fermavo ai capoversi,

prendevo appunti mordicchiandomi le gengive. Ogni tanto lei

chiedeva a bruciapelo se aveva una bella trama, la storia

che stavo leggendo. “... trama?” facevo io, “quale trama?”

Se scrivevo a letto prima che fosse addormentata, si

lamentava che il fruscio della penna sulla carta le faceva

sudare le tempie: allora mi scalciava con quei suoi piedi

asciutti e prensili.

La rivista Langa Materiali era uscita senza il mio

contributo. Il mio amico langarolo aveva scritto un

editoriale di presentazione intitolato Le Langhe di fronte

all’Europa; argomentava che non era più il tempo di parlare di

centralità delle Langhe o cose del genere, che quei discorsi

erano stati superati dal corso della Storia, che le Langhe

si ponevano ormai in tutta modestia al fianco dell’Iran, del

paesi medio-orientali, di tutte le realtà sociali emergenti

nel terzo mondo. Il Poeta aveva aggiunto alla poesia

dedicata a Walt Whitman una storia rosa che riguardava certe

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sue vicissitudini sentimentali a New York. Il Filosofo aveva

scritto un articolo sul tema della morte e rinascita di Dio,

da Nietzsche ai giorni nostri. Infine compariva il commento

del mio amico al libro sullo zen e le motociclette,

un’analisi dotta e particolareggiata: si capiva subito, da

come impostava il discorso, che il libro non s’era ancora

deciso a leggerlo.

La stessa sera Marilina ci mostrò il disegno di legge

per la confisca delle case in favore dei dipendenti

pubblici. Per celebrare l’occasione volle stappare una delle

bottiglie di vino che teneva in camera sua. Brindammo non si

sa bene a cosa, Amaranta ed io per il piacere di bere,

Marilina permeata d’uno sguardo torbido e sornione. Era un

vino gassato, ti scendeva in gola sollevando una cortina di

bollicine che davano subito alla testa. Marilina mi riempì

il bicchiere tre volte di seguito e poi disse che aveva

deciso di perdonarmi tutto il male che le avevo fatto e le

carote che le avevo rubato. Non menzionò il pollo, credo per

compassione. Era anche al suo perdono, aggiunse, che stavamo

brindando. Poi mise su un sorriso benevolo e ci confidò che

se anche quella legge fosse passata in parlamento, lei non

intendeva valersi dei propri diritti sulla casa di Amaranta.

“Non per il momento, almeno.”

Rimasi insonne una buona parte della nottata. Tra la

testa che mi traboccava di schiuma e i granchi sbronzi che

mi rosicchiavano le interiora, non appena socchiudevo gli

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occhi sentivo un gran bussare di nocche contro la porta

della camera da letto. Riaprivo gli occhi, o credevo di

aprirli, e rieccoli lì sul pianerottolo: tre carabinieri in

uniforme di gala, incaricati di requisirmi l’appartamento! I

due cordoni di traffico sul viale di sotto ripresero dopo

l’ultimo turno dei cinema, puntuali, l’uno all’insù, l’altro

all’ingiù. Immaginavo i rami del viale spoglio, la

corruzione dei gas di scappamento sulle carcasse delle

automobili abbandonate... Me ne rimasi a lungo in silenzio

ad ascoltare le secche sonorità rettilinee diffuse dal

movimento in strada: un frastuono verticale, orizzontale,

ascensionale, disanimante. Non la sentivo già più mia,

questa casa—e questo viale di sotto, e questa ferrovia

incassata tra la fabbrica e il muro di cinta della prigione

comunale... Il sonno arrivò tardo e violento verso l’alba.

Non sentii Amaranta che si alzava per andare al lavoro.

Mi svegliai che stavo magnificamente. Mi alzai e vestii

di gran carriera. Dopotutto i pantaloni, mi dissi

infilandoli, si reggevano ancora su quasi senza cintura.

Nello specchio nel bagno il mio viso non era poi quel gran

disastro: colorito, paffuto, tutt’altro che smagrito. E,

quel che più conta, la speranza non m’aveva disertato,

nottetempo. Mi contemplai a lungo nello specchio: i tratti

asimmetrici del volto, gli sparuti capelli paglierini.

Gonfiavo le gote con simpatia e soddisfazione.

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Stavo entrando nella stanza di Marilina. Le persiane

erano ancora chiuse, doveva essere giornata di malattia.

Marilina soffiava, fischiava e scoreggiava nel sonno. La

scossi vigorosamente per le spalle.

“Cosa c’è! Cosa c’è!” gridò in preda allo spavento.

“Niente,” risposi. “Sono soltanto io.”

“Cosa vuoi?” chiese con un grufolio nella voce. “Non

vedi che sono malata?”

“Prendo una carota,” risposi.

Andai sul terrazzino e sfilai la mia carota dalla borsa

di plastica. Marilina si lamentava: “... le mie carote... le

mie carote...” Le diedi due o tre ramazzatine in capo colle

foglie della carota, per tranquillizzarla. Poi sedetti di

fronte a questa Olivetti portatile e cominciai a buttar giù

la mia storia, comunque vada.

Due

Amaranta usciva presto la mattina, all’avventura. Il

posto da commessa era già saltato. Aveva superato l’esame di

stato da tre settimane, doveva trovarsi un impiego decente

da architetto. Andava in visita agli studi di grafica,

design industriale, progettazione, pubblicità. L’avevo

aiutata a dividere la mappa dela città in dipartimenti a

seconda dei percorsi dei tram e degli autobus. Avevamo

numerato i dipartimenti da uno a otto, e lei li setacciava

metodicamente: le ci voleva un giorno per coprire gli studi

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compresi in un dipartimento, otto giorni lavorativi per

esaurire tutti gli studi cittadini. In un mese le riusciva

di fare tre volte o quasi il giro degli studi professionali

in Torino. Mirava ad ottenere incarichi precari, un’ora qui,

due ore là, ma non funzionava mai. Gli architetti che

incontrava in questo andirivieni la conoscevano per nome

ormai e cominciavano a darle del tu.

I genitori di Amaranta erano operai e consideravano la

laurea della figlia una cornucopia. Gli architetti di

famiglia operaia fanno una specie a parte ma questo Amaranta

lo teneva nascosto tanto ai genitori quanto ai nonni

ritiratisi in campagna. Preferiva che vivessero in pace,

tranquilli.

Quel lunedì, per non stare a rincasare nella pausa del

pranzo, Amaranta avrebbe riposato una mezz’oretta alla

Galleria d’Arte Moderna. Avrei potuto incontrarla laggiù,

c’era una mostra di Casorati da vedere, ma preferii alzarmi

tardi e rimanere in casa a scrivere. Il mio studio era

adiacente alla camera di Marilina, che quel giorno era in

malattia: la mitraglia della mia Olivetti l’avrebbe

torturata un po’. Eravamo arrivati ai ferri corti, noi due.

Io ero tornato a stare in pianta stabile qui con Amaranta e

volevo che Marilina se ne andasse. Lei invece aveva cambiato

di nuovo idea, adesso le piaceva abitare con noi ed

escogitava mille inganni e mille sotterfugi pur di non

sgomberare. Diceva che non avrebbe potuto sostenere le spese

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di un affitto regolare, colla psicanalista che da sola si

cucchiaiava ogni mese la metà del suo stipendio.

Ciononostante, Marilina fingeva di perseverare nella

ricerca di una casa. L’indomani del brindisi alla legge di

esproprio delle case, Marilina era rientrata insieme a

Stefano Kronskij e ci aveva annunciato che lei e il

fidanzato avrebbero inaugurato un periodo di convivenza. La

cosa era sperimentale su consiglio dei rispettivi analisti,

meglio farlo adesso che non avevano ancora trovato una casa

in comune. Credo che Marilina avesse cominciato a sentirsi

in minoranza, con me ed Amaranta perennemente alleati a

spese sue: questa, ne ero certo, la ragione veritiera della

sua mossa.

Cominciammo a fare i turni per i pasti in cucina.Quando

toccava a noi, Amaranta ed io chiudevamo la porta a vetri e

poi, dimentichi della pancia scoppiettante dalla fame,

inscenavamo una spensierata sinfonia culinaria:

spentolamento, scrosci d’acqua, tintinnio di stoviglie,

mazzate sul tagliere. Coll’ausilio del pollice, Amaranta si

stappava un’immaginaria bottiglia di vino fuori d’una

guancia. Io producevo rutti pantagruelici. Davamo a turno in

escalamazioni di meraviglia appagata. Nella dispensa, il

settore di nostra competenza era vuoto ma non volevamo che

Stefano e Marilina se ne rendessero conto. Stavamo per

toccare il fondo, quello della malnutrizione perlomeno, ma

volevamo arrivarci mano nella mano, alla sorte che ci

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aspettava, di qualsiasi sorte si trattasse, e senza troppi

testimoni oculari intorno. Laureata da tre anni, Amaranta

aveva trovato da lavorare sì e no per un sei mesi. E io non

avevo un avvenire come scrittore, me l’avevano detto in

tanti.

Cominciai dunque a tamburellare spensieratamente sui

tasti della Olivetti, eseguendo una bella sequenza di note

secche e asciutte e poi una sfilza di taratatatatata, ciascuna

conclusa dal vudum! del ritorno di carrello. Taratatatatata-

vudum! Taratatatatata-vudum! Volevo mettere Marilina sul chi-va-

là. Infilai un foglio nel rullo e scrissi che Marilina era

una bassa Giunone in pantofole, i fianchi rotondi e

matronali, e viveva immersa in una sua giungla caotica:

mangiava sulla tela cerata, intingeva il pane nel piatto di

Stefano, si strofinava le labbra colla mollica avanzata,

smarriva indumenti intimi per tutta la casa. E scrissi, di

seguito, che acquistava, lei Marilina, tutti i libri messi

in commercio dalle case editrici italiane, tutta la

produzione letteraria corrente: Einaudi, Bompiani, Garzanti,

Feltrinelli, etcetera; e riguardo ai libri innumerevoli

sparsi sul pavimento della sua camera, a sedurla era stata

in tutta probabilità l’odore di carta da macero. Buttai già

un altro pezzo di questa storia, insomma.

Marilina si alzò a mezzogiorno per telefonare alla

rosticceria dietro l’angolo. Ordinò un pasto caldo per una

persona. Rimasi a spiare, nascosto dietro il battente della

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Page 18: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

porta, mentre faceva le sue scelte. Era uno spettacolo,

Marilina, lì in piedi di fronte alla console del telefono,

con la nube di odori che le ruotavano intorno, quasi

tangibili, e un’altra nube concentrica di moscerini in

orbita intorno ai capelli. Mi precipitai in avanti non

appena le sentii ordinare una porzione di lasagne al forno.

Le lasagne no! La strattonai per la manica del pigiama.

“Cosa vuoi ancora?” disse.

“Non ordinare le lasagne!” risposi.

“E perché? Mica sono per te!”

“Ma non le fanno buone!”

“No?”

“No!”

Non era la prima volta che interferivo: avevo le mie

ragioni... Marilina si lasciò convincere e ordinò il

tacchino in gelatina, invece delle lasagne. Mi stava a cuore

che ordinasse derrate di consumo meno immediato, alimenti

meno soggetti a deterioramento. Non appena ebbe concluso la

telefonata, presi la sporta della spesa, il passamontagna,

le chiavi di casa, ed uscii annunziando:

“Vado a fare la spesa, Marilina. Ti serve qualcosa?”

“No, grazie, Vittorino. Ciao.”

Un estraneo non l’avrebbe detto che ci detestavamo.

Avevo in tutto 400 lire. Entrai in tabaccheria e

comperai due biglietti tranviari: dopo cena intendevo

portare Amaranta a fare un giro in centro. Poi tornai

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Page 19: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

nell’androne del condominio e mi nascosi in un angolo del

sottoscala. Infilai il passamontagna, lasciando fuori solo

gli occhi. Non dovetti aspettare molto. Il garzone della

rosticceria entrò poco dopo e cominciò subito a sbirciare di

qua e di là per vedere dove mi ero nascosto. Mi scorse

grazie al passamontagna, che era d’un blu acceso,

inconfondibile. Avanzò verso di me e depose il pacco delle

vivande di Marilina ai miei piedi.

“Allora io vado,” mi dice di fretta.

“Come, ‘allora vado’? Un momento! Fermati un momento,

ragazzo!” gli rispondo. “E questa roba, che cos’è?

“Ma è l’ordinazione per la signorina del secondo piano,

no?” Aveva risposto con insofferenza, ruotando gli occhi

all’insu con fare annoiato.

Mi costò un certo sforzo, contenere l’irritazione.

Manco fosse ancora un esordiente, ‘sto ragazzino! Avrebbe

dovuto capirlo da solo ormai, dopo diverse settimane di

agguati nell’androne, che un esproprio proletario va fatto a

regola d’arte. Mi apprestai a recitare la formula di rito:

“Questo pacco lo requisisco io,” dissi.

“Va bene, signore,” risponde lui impassibile,

scutandosi la punta delle dita. “L’abbiamo messo in conto

alla signorina del secondo piano, come solito.”

“Questo è un sequestro proletario, ragazzo.”

“Certamente, signore,” mi fa lui. “Ossequi alla

signorina.”

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Girai brusamente sui tacchi e presi a salire le scale

senza più prestargli attenzione. Non si meritava spiegazioni

ulteriori, quel fattorino. L’avrebbe imparato a scuola

nell’ora di Storia, a suo tempo, in cosa consiste un

sequestro proletario. Mi domandai se era tipo da frequentare

regolarmente le lezioni: no, non ci aveva la testa

dell’intellettuale.

Entrai in casa di soppiatto e nascosi tutta la

mercanzia sul mio terrazzino. Eravamo nella stagione morta,

la roba si preservava meglio all’aria aperta che nel frigo.

Eccezion fatta per i cibi caldi, le paste fresche al sugo

per esempio, che a causa dello sbalzo di temperatura

diventano dure come pietre all’aperto e dopo non c’è verso

di riscaldarle come si deve... Sono diventato un uomo senza

vergogna, pensai con un tantino di ribrezzo. Un uomo senza

vergogna né morale: il mondo era il mio frigidaire.

La sera Amaranta rientrò esausta, i capelli fradici di

pioggia. Io avevo apparecchiato presto in cucina in maniera

da accaparrarmi il primo turno per la cena, poi mi ero

chiuso in bagno con un libro per impedire a Marilina di

occupare la vasca. Non appena Amaranta s’era annunciata al

citofono, avevo aperto il rubinetto dell’acqua calda e

sciolto nella vasca un tubetto di Pino Silvestre scordato

sventatamente in bagno da Marilina: schiuma ed acqua verde,

milioni di bollicine scoppiettanti in cui immersi Amaranta

di forza non appena mise piede in casa. A mollo, liscia e

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Page 21: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

muscolosa, sembrava una foca dalla vita in giù: batteva

l’acqua con grati guizzi repentini dei piedi.

Banchettammo con le vivande di Marilina e poi uscimmo

coi biglietti del tram per fare una passeggiata in centro.

Ci fermammo su un ponte per guardare il fiume: era quasi al

massimo livello, stazionario per lo più, al riparo delle

arcate dei ponti. Stringhe di riflessi scivolavano sulle

acque bluastre e ci venivano incontro sbattendo contro i

murazzi col rumore d’un colpo di lingua. Il cielo, separato

in grandi cubi, tranci d’aria e d’acqua, sembrava sul punto

di disfarsi addosso alla collina. Tornammo a casa a piedi.

Una splendida serata.

Stefano, il fidanzato di Marilina, era in aspettativa

alla scuola dove insegnava siccome lo avevano eletto da poco

Presidente d’una Unità Sanitaria Locale, di una u-esse-elle,

come si diceva in burocratese. Adesso lo stipendio lo

percepiva dal suo Partito politico: non era gran cosa,

diceva, ma la posizione aveva vantaggi reconditi, i

fornitori degli ospedali in particolare facevano di tutto

per strappargli favori e lui imparava a districarsi. “È così

dappertutto nel mondo dell’amministrazione,” aveva

l’abitudine di dire, e faceva spallucce. Marilina aveva

conosciuto Stefano al concorso per il posto di assistente

sociale. Stefano era presidente della commissione d’esame.

Stefano e Marilina erano indecisi a proposito di un

eventuale matrimonio. Anche per quello tiravano per le

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Page 22: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

lunghe la ricerca del posto dove abitare. Marilina aveva

studiato la mappa della città: c’erano soltanto due isolati

che distavano egualmente, in linea d’aria, dal suo posto di

lavoro e dalla u-esse-elle di Stefano. Era in quei due

isolati che intendevano trovarsi il nido. Uno di quei due

isolati era il nostro.

Amaranta continuava imperterrita ad esplorare gli studi

della città. Questo il mattino, mentre il pomeriggio

rimaneva in casa a lavorare per conto suo: preparava un

portfolio di disegni da mostrare agli studi grafici.

Lavorava col solito slancio, con impeto: un fuoco sacro in

piena eruzione. Quando non ero occupato alla Olivetti, mi

trasferivo nella sua stanza e mi svagavo acquerellando su

carta da disegno. Dipingevo sempre soggetti urbani, scorci

della nostra città: la fabbrica che si vedeva dalla

finestra, coi tetti a triangolo retto e la ciminiera a

tortiglione; le balconate della prigione comunale di fianco

alla fabbrica, affollate di detenuti che si sbracciavano e

vociavano per conversare coi parenti assiepati al di qua

della ferrovia. Mi sbizzarrivo colle mezze tinte: i grigi, i

giallini, gli azzurri slavati. I colori li sbavavo a bella

posta perché d’inverno la nostra città non staccava mai di

netto in controluce; affogava piuttosto nei fumi e nelle

ombre, e non c’era niente in grado di risaltare alla vista.

Le cose, gli alberi, gli edifici, le strade... un tutto

ricoperto come da un velo di cartavelina fumée. Amaranta

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Page 23: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

aveva questi due piccoli seni insolenti e un didietro teso,

contenuto e ben separato: una festa anatomica. Non passava

pomeriggio senza che noi due si gustasse un pezzetto

d’infinito.

Ricevemmo in quei giorni la visita della mamma di

Marilina. Era venuta in città per incontrarsi con la mamma

di Stefano. Dovevano comperare i centrini di pizzo per la

casa degli sposi. Si erano date appuntamento in centro

davanti a una pasticceria. La mamma di Marilina mi prese da

parte, mi parlò del libretto di risparmio della figlia. Da

quando ero tornato a stare con Amaranta, a Marilina non

riusciva più di risparmiare come prima. Marilina sosteneva

che le rubavo le provviste, che consumavo troppo gas e

troppa luce... Era vero? E le aveva detto che non avevo

ancora preso la tessera di un partito politico. Possibile?

Alla mia età...! Era così che intendevo farmi strada nella

vita? La mamma di Marilina non poteva crederci, non voleva

credere che fossi un simile sciagurato. Un uomo con delle

responsabilità, dopotutto! Io le davo ragione in silenzio,

annuendo contrito.

Andammo avanti per un po’ a considerare le mie

prospettive future, parlottando sommessamente per non

coinvolgere Amaranta nelle mie squallide faccende. La mamma

di Marilina mi parlava con grande sollecitudine, si capiva

che lo faceva per rendersi utile. Ero commosso dal suo

interessamento, mi sentivo tutto sudato. Le promisi che da

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Page 24: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

quel giorno sarei cambiato, avrei fatto del mio meglio. Le

garantii che presto avrebbe visto risultati concreti. Poi

insistetti per accompagnarla di persona alla fermata del

tram: non era ben visto, dopotutto, che una signora per bene

se ne andasse in giro tutta sola. Giù in strada le offrii un

caffé al bar, poi aspettammo insieme il tram n. 16 e quando

arrivò ce la spinsi sopra. Partì alla volta del centro città

sventolando un fazzoletto a mo’ di saluto, diretta

all’appuntamento con la mamma di Stefano. Non arrivò mai al

luogo di ritrovo convenuto, di fronte a una pasticceria, e

di lei non si è più saputo nulla.

Nei giorni di malattia Stefano riceveva i dipendenti

della u-esse-elle in casa, nella camera che adesso spartiva con

Marilina. Se il suo giorno di malattia coincideva con quello

di Marilina, ordinavano insieme il pranzo in rosticceria. Se

soltanto lui era in malattia, Marilina rientrava a

mezzogiorno dopo aver fatto la spesa. Malattia per malattia,

io francamente preferivo quando decidevano di farsi il

giorno di malattia insieme. L’odore di casa, ad ogni modo,

era sempre stantio di sempre. Se erano in malattia tutti e

due, se ne stavano preferibilmente rintanati in camera per

via delle correnti d’aria. Se uno dei due era in malattia e

l’altro no, invece, quest’ultimo vagolava fischiettando per

tutte le stanze della casa, salvo naturalmente quella dove

si trovava il compagno ammalato: per “evitare il contagio,”

spiegava. Alla u-esse-elle Stefano aveva lasciato un duplicato

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Page 25: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

della nostra chiave di casa, così i suoi dipendenti potevano

venire a trovarlo senza stare a suonare il campanello del

citofono. C’era un tale andirivieni, certi giorni...

Mi ero procurato un nuovo passamontagna, marrone, più

anonimo, ma il garzone della rosticceria non si

impressionava lo stesso. La stagione cattiva reggeva niente

male, comunque, si incronichiva dei propri vizi. Sul

terrazzo grande, quello a sud del caseggiato, che dava nella

stanza di Amaranta, ci tenevo i vasetti di cibo sott’olio e

sott’aceto, le marmellate, le insalate russe a lunga

conservazione. Sul terrazzino a nord, che dava nella mia

stanza, i prodotti surgelati. Sembrava di abitare in una

casa di marzapane. Avevamo toccato lo stadio

dell’accaparramento, l’incetta e il mercato nero. Mi sentivo

sempre più canaglia. Pensavo di mettere su un commercio

d’alimentari.

Intanto, s’è vero ch’è morto nel mezzo del cammin, 35nne,

il 25 Dicembre di quell’anno Gesù detto il Cristo avrebbe

compiuto 2017 anni. (Sempre che il Dopo-Cristo lo si conti a

partire dall’invenzione della Croce, ‘ché contare da

Betlemme che senso ha?)

La settimana di Natale Amaranta andò a lavorare in una

falegnameria con rivendita annessa, dalle parti di Via Po.

Trattavano la vendita all’ingrosso e al minuto: lei si

occupava del minuto. Indossava un camice liso che odorava di

truciolato fresco e per lo più aveva a che fare con famiglie

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Page 26: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

operaie. Sono andato a trovarla un paio di volte al lavoro

ma poi ho smesso perché mi faceva tristezza, vederla

costretta a imbrogliare quei poveri proletari. I mobili

erano orrendi. Correva voce che a disegnarli fosse un famoso

architetto postmoderno che però non li firmava per ragioni

di prestigio. Ci pensavo sovente in quei giorni al problema

del postmoderno, che era allora di grande attualità: roba

ideata da personaggi con quattro o cinque generazioni di

architetti alle spalle, famiglie influenti, audaci talvolta,

ma suvvia, pur sempre con un nome da salvaguardare. Mi

sforzavo di considerare la faccenda dal punto di vista dei

loro interessi. Non che mi fosse difficile: anche i ricchi

mangiano, dopotutto, a tavola siamo tutti uguali. Tutt’al

più variano i gusti, c’è palato e palato: ho incontrato

gente ad esempio che non stomaca né cavolo né patate, parlo

sul serio.

Amaranta tenne duro tutta la settimana, comunque. Ogni

sera rincasava portandosi dietro quel buon profumo di

truciolato. Guadagnò un gruzzolo. Alla fine della settimana

comperò una scatola di acquerelli tutta per me: me li diede

la vigilia di Natale.

Mi risulta che le famiglie di Stefano e Marilina si

riunirono per celebrare il Santo Natale. La mamma di lei

risultava ancora dispersa. La mamma di Stefano s’era

occupata da sola di pizzi e centrini, e aveva già ricamato

le iniziali degli sposi sulle lenzuola del corredo. Le cose

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Page 27: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

dovevano andare avanti anche in assenza della mamma di

Marilina, diceva. “La ruota gira,” diceva. Concertarono un

piano d’azione per l’acquisto degli elettrodomestici. Ai

mobili ci avrebbero pensato una volta trovata casa. Un paio

di sabato al mese Stefano e Marilina facevano il giro dei

loro due isolati favoriti. A volta si spartivano il compito,

lui per una strada e lei per un’altra, in modo da coprire un

numero maggiore di appartamenti. Erano diventati una

presenza familiare nei dintorni; gli inquilini di quei

caseggiati li invitavano a bere un caffé, li sedevano in

salotto e si facevano raccontare gli esiti della ricerca. Ma

alle insistenze dei promessi sposi confermavano tutti di non

aver cambiato idea dall’ultima visita: no, non c’era proprio

nessuno che avesse in mente di trasferirsi da qualche altra

parte, nessuno che avesse in mente di cambiare di isolato.

Stefano lo domandò anche a me, se per caso Amaranta ed io

non preferissimo andarcene a stare altrove. Perché in quel

caso, a prezzo modico, l’appartamento di Amaranta

l’avrebbero affittato loro. Dopotutto, osservò in

quell’occasione, non è che Amaranta ed io avessimo un lavoro

fisso: così liberi da impegni, che differenza poteva farci

di abitare di qua oppure di là.

Venne Gennaio e poi Febbraio. Le due famiglie

inaugurarono la fase di acquisto degli elettrodomestici. La

mamma di Stefano fece prodigi di economia, comperò tutto

quanto da sola. Girava per i mercati rionali, in città e in

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Page 28: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

periferia, non si mancava una svendita, un saldo, un’asta

fallimentare. Confrontava i prezzi, sviscerava pregi e

difetti delle marche disponibili sul mercato. Si prodigava,

si sfiancava...

Non sarebbe arrivata viva al matrimonio. La trovarono

una sera riversa su uno scaldatisane elettrico, fulminata

dai circuiti difettosi.

Restavano i due papà, per i mobili.

Tre

La stagione cattiva non era poi stata terribile per me

ed Amaranta. Non ci erano mancati i rifornimenti. In casa

nostra si andava avanti a forza di filetti al pepe,

prosciutto crudo, pasta fresca, ravioli, agnolotti. Ero già

aumentato di un cinque chili. All’ora del primo turno in

cucina mangiavamo noi due: eravamo sempre i padroni di casa,

dopotutto. I Kronskij aspettavano il secondo turno.

Era dall’inizio della stagione fredda che Amaranta ed

io mangiavamo a crepapelle grazie ai miei sequestri

proletari. Avevamo potuto smetterla finalmente con la

finzione delle cene dell’estate passata, quando occupavamo

la cucina spiattellando e stovigliando a vuoto, al semplice

fine di nascondere la verità ai Kronskij. Era stato un punto

d’orgoglio per noi, tutti quei mesi. Eravamo davvero,

Amaranta ed io, del tipo di quelli che per orgoglio ti

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Page 29: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

muoiono anche di fame. Ma da diverso tempo noi due si

sbafava a ufo, tre pasti su tre tutti i santi giorni.

Terminavamo la cena verso le nove, le nove e mezza, le

dieci talvolta. Poi veniva ancora il caffé, un bicchierino

poussecafé per me. Lasciavamo campo libero ai Kronskij ad

ore impossibili, quando la gente per bene va già a dormire.

I due non osavano fiatare. Ci vedevano invasati, avevano

paura. Amaranta ed io ci spostavamo in tinello per lasciar

libera la cucina e leggevamo un libro intanto che

origliavamo le chiacchiere dei Kronskij. I due parlavano del

sindacato, del costo della vita, la mutua, il

prepensionamento. Pensavano al futuro e intanto discutevano

di attualità giornalistica.

La cosa più difficile da mandar giù fu che una sera

Stefano Kronskij cominciò a parlarle della questione della

casa. Esordì dicendo che nel pomeriggio si era letto

Gramsci. Nelle ore di ufficio, prima dei turni al Partito,

leggeva i classici d’abitudine: Gramsci, Craxi, Natalia

Ginzburg, Don Sturzo... Il Partito lo aveva incaricato di

documentarsi sul problema della casa: era tempo di muovere

le acque in città. Quello della casa, diceva Stefano

Kronskij, era un problema affascinante, a ben pensarci. Un

problema che ti dava da pensare. Si mise a dettagliare i

particolari della dottrina della rendita fondiaria in David

Ricardo. Stava tutta lì la questione, diceva, nel concetto

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Page 30: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

di rendita urbana. Valore e plusvalore: lui Stefano, per

principio, era contrario alla proprietà privata della casa.

In quella scambiai uno sguardo malinconico e timoroso

con Amaranta. Noi non avevamo che quello di permanente,

nella vita: la nostra casa, anzi la sua... Tornai a leggere

il mio libro, cercando di smettere di ascoltare. Avevo

lasciato in cucina, sul tavolo, in bella mostra, un mezzo

prosciutto affumicato, una sorta di clava rossastra con un

osso color ruggine che spuntava fuori a mo’ di randello.

Sentivo Stefano Kronskij che diceva, “Ma non è il nostro,

quel prosciutto?” “Non saprei,” gli rispondeva Marilina,

“non ricordo bene...” Ridacchiai in sordina, tra me e me: il

prosciutto era il loro, eccòme! Glielo avevo sequestrato non

più di tre settimane prima. Li sentivo di là in cucina che

si lambiccavano in cerca di certezza. È il nostro, non è il

nostro...? Arrivava fino al tinello il vapore prodotto da

quei due cervelli sotto pressione, si infilava come una

nebbiolina sotto il battente della porta. Si sarebbero

convinti alla fine sulla provenienza del loro prosciutto? Si

sarebbero azzardati a riprenderselo?

Decisi di fare una scommessa con me stesso e puntai il

prosciutto tutt’intero sull’eventualità che non lo avrebbero

rimosso. Attesi che avessero finito di cenare e poi diedi

una rapida sbirciata nella cucina deserta. Il prosciutto,

eccolo, era ancora là dove lo avevo lasciato, accovacciato,

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Page 31: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

placido, bianco e rosso, su un bel cuscinetto di lardo. Me

l’ero guadagnato una seconda volta.

Le tre di notte. Dove sono gli eroi? urlava la mia radio.

Dove sono... a squarciagola... eroi per un giorno, un giorno solo.

Battevo a macchina ascoltando la radio, una trasmissione

rock... eroi, e domani da capo... un giorno solo e domani da capo.

Tamburellavo spietatamente sui tasti della Olivetti, coprivo

col mio il frastuono della radio. Intanto, era giocoforza,

dovevo ingegnarmi a sentire i miei pensieri al di sopra del

baccano della musica, ma era praticamente impossibile.

Cercavo di riflettere a voce alta in maniera da sovrastare i

suoni: nemmeno quella era un’impresa facile. Quanto a

desistere però, quello no, non desistevo. Carabinavo a

ripetizione, una lettera dopo l’altra: p-a-r-t-i-v...

Partivano a razzo verso il foglio, le mie letterine,

minuscole supposte che spiaccivavo freddamente sulla carta

bianca come siluri di gelatina. E voilà, avevo bell’e che

rinunciato a usare il cervello, scrivevo e basta. La radio

strillava, si incattiviva pure lei. Scrivevo, bene o male,

un altro pezzo di questa storia.

Un’ora più tardi avevo sopraffatto la radio. La

Olivetti ruggiva a più non posso, sbuffava, ululava un suo

astruso motivetto. Io perseveravo, continuavo a tamburellare

sui tasti, ce la mettevo tutta... tic tac tic tac tic tac...

Navigavo sul filo di una folle corrente lessicale. Avevo

mille grilletti a disposizione e il fuoco fisso

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Page 32: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

all’orizzonte: il dizionario era la mia polveriera! Dalla

finestra vedevo gli alberi del viale che vogavano nel buio

della notte e mi facevano dei segni colle braccia,

ostacolati dai fantasmi del vento.. Descrivevano curiose

parabole, come se cercassero di chiamarmi a sé. La radio era

diventata un mormorio in confronto al ruggito della mia

tastiera.

L’indomani Stefano e Marilina si alzarono con occhiaie

che scendevano fino a toccargli i lobi delle orecchie. Erani

disfatti in viso, gialli e blu. Stavo apposta a spiarli in

cucina mentre facevano colazione. Bofonchiai nel vedergli

riempire la caffettiera col mio caffé macinato, ma aggiunsi

subito, sorprendendo me stesso, “Non importa, non importa,

fate pure...” Mi sentivo insolitamente magnanimo. A Stefano

tremava il cucchiaio ogni volta che se lo portava alla

bocca. Rimasi a guardarli finché ebbero finito col

caffelatte e se ne furono andati al lavoro. Poi me ne andai

a dormire. Ero contento di me, avevo lavorato sodo tutta la

notte. Amaranta nel letto era calda, fragrante come una

pagnotta. Mi infilai attorno alle sue posteriora ronfolanti.

Mi ci imbobinai. Caddi subito in un sonno profondo e sognai

di esplorare l’infinito. Il giorno dopo, o per meglio dire

quel pomeriggio quando mi alzai, era cominciata la

primavera. Si sentiva che era nell’aria, si sentiva che la

stagione morta era arrivata alla fine. Anche la nostra

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Page 33: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

coabitazione coi Kronskij doveva terminare, decisi. Me li

sarei lavorati tutte le notti. Li avrei cucinati a puntino.

Le notti che non ce la facevo a lavorare alla Olivetti,

lasciavo la radio accesa a tutto volume e me ne andavo a

letto. Lo studio era adiacente alla loro camera, la radio

avrebbe fatto un buon lavoretto anche per conto suo.

Giorno dopo giorno montava la mia rabbia. Stavo sempre

all’erta, all’offensiva, tenevo d’occhio i Kronskij e

misuravo la profondità delle borse sotto i loro occhi.

Eravamo alle strette. Volenti o nolenti, li avrei espulsi

dalla nostra vita. Loro adesso si erano ridotti ad offrire a

Amaranta un piccolo affitto mensile per l’uso della stanza e

della cucina, un quibus brevi manu. Parlavano di saldare gli

arretrati...

Avevo sviluppato tutt’un repertorio alla tastiera della

Olivetti. Mi facevo certe sudate la notte, certi concertini.

Alternavo gli assolo, le polonaises, i notturni: una musica

demoniaca votata al demone dell’insonnia. Inventavo,

creavo... C’era la battuta ostile: pa ta pum! pa ta pum! La

battuta traditrice: taratatata, taratatata VUDUM! La battuta

sorniona a effetto ritardato: tic tac tac, tic tac tac, tic tac tac e

poi: DLINNNNG! trillava il campanello di fine corsa. Mi

immedesimavo, mi venivano fuori certe tirate spontanee di

mezz’ora a un tasto solo, certe crome gitane, certi accordi

a due mani che ingarbugliavano tutti i martelletti addosso

al rullo. Ogni tasto aveva una sua personalità, ogni

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Page 34: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

letterina scandiva una sua nota particolare. Mi perfezionavo

con l’andar del tempo. Un giorno, pensavo, avrei potuto

metter su un complessino di scrittori e poeti.

La campagna di promozione della legge eccezionale per

la confisca delle case era in pieno svolgimento. Stefano era

preso dai suoi comizi, non trovava il tempo di cercarsi una

casa. La legge di sfratto immobiliare aveva sostenitori e

detrattori in città. Lui stava, al solito, su una posizione

di centro: dentro e contro, diceva. Si teneva a galla da ambo

le parti, come oratore era un successone e tutti lo volevano

sentire. Parlava e parlava nei comizi, parlava e parlava, e

gli riusciva di non dire niente. L’uditorio si godeva i suoi

bei discorsi e poi se ne tornavano tutti a casa, convinti di

aver ragione. I comizi di Stefano Kronskij avevano questa

strana peculiarità, che non cambiavano mai l’opinione di

nessuno perché le assecondavano tutte. C’era chi in città

già lo chiamava “Salomone.” Salomone Kronskij...

Ma adesso nemmeno Marilina cercava più casa. Le era

presa una fissazione per le scarpette da ballo, invece. Si

sarebbe detto che i due avessero dimenticato che avevano in

mente di sposarsi. Certo è che soltanto a provarcisi avevano

perso due mamme di già, forse preferivano andarci cauti: la

mamma di Marilina prelevata e rapita da quel fantomatico

tram diretto in centro, la mamma di Stefano fulminata da uno

scaldatisane elettrico. Veramente Stefano possedeva tuttora

la casa dove aveva abitato prima di trasferirsi da noi, una

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Page 35: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

casetta in periferia, ma a Marilina non piaceva il vicinato:

erano contadini, diceva, mentre lei aveva bisogno di un

ambiente urbano per sentirsi a suo agio. E poi, se non ci

vivevano loro nella casetta di Stefano, potevano sempre

affittarla a qualche piccolo proprietario sfrattato dalla

propria casa: cioè, non appena fosse passata la nuova legge

di esproprio.

Bisogna anche dire che fintanto che abitavano a sbafo

nella casa di Amaranta, i Kronskij potevano continuare a

sentirsi giovani à la page: pendolari del sentimento, precari

del coniugale, stagionali del nucleo familiare.

Mòrtale la mamma, Marilina s’era scoperta questa

passione inveterata per le calzature da ballo. Ne acquistava

a dozzine adesso, venivano a consegnargliele con un

camioncino. Le sceglieva tutte più o meno dello stesso tipo

e dello stesso colore, scollate col tacco alto. E le

sparpagliava dappertutto: me ne ero persino ritrovato

qualche esemplare in studio, dimenticato o smarrito, sotto

il tavolo della Olivetti. Anche se avesse voluto, ormai non

ce l’avrebbe fatta davvero a pagare una locazione regolare.

Le andava tutto speso in scarpe (non sto a menzionare il

budget dell’analista). Era la bancarotta, il flagello delle

suole vero-cuoio.

A forza di passare le notti alla Olivetti, di giorno mi

sentivo un po’ nervoso. Ma ne valeva la pena. Non era fatica

sprecata. I Kronskij non si reggevano più in piedi, si

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squagliavano come neve al sole. Attaccavo il mio valzer

verso le due del mattino e via in breccia: nelle ore buie

della notte, nel silenzio del caseggiato, veleggiavo in

cresta ad una folle corrente lessicale, sollevavo un uragano

di vocali, consonanti, virgole e virgolette. La Olivetti e

la radio continuavano a competere, si misuravano l’una

coll’altra in volume e intensità, senza riposo, senza

perdono. Mi concedevo un intervallo ogni paio d’ore. Aprivo

pian piano la porta della camera dei Kronskij e vi penetravo

in punta di piedi. I due giacevano stesi in un’insonnia

febbrile. Non mi riconoscevano. Borbottavano entrambi nel

dormiveglia, gli occhi allucinati rivolti al soffitto.

Deliravano. Imploravano il mio perdono, la mia clemenza.

Quanto a colorito e attitudine complessiva, erano diversi da

come apparivano in genere sul far del giorno. Lei era color

verderame nella penombra e gemeva dolcemente per il dolore.

Stefano era d’un giallo acceso e increspato intorno alle

palpebre e alle guance, tutt’una ruga intorno agli occhi.

Ruminavo nei padiglioni delle loro orecchie la lista delle

loro colpe, le loro mancanze... Sussurravo con la voce

impersonale del rimorso che dovevano andarsene da questa

casa, che qui non c’era nessuno che gli voleva bene. Poi

tornavo a picchiare sulla Olivetti.

Amaranta s’era stufata dell’intera faccenda e non mi

prendeva sul serio. La notte cercava di dormire. Di giorno

era per lo più occupata a cercarsi un lavoro. Approfittava

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ch’era bella stagione per rimanere fuori da mane a sera.

Continuava a visitare gli studi di grafica, di

progettazione, di pubblicità, si presentava anche agli amici

che si erano messi in proprio. Qualcuno tra questi ultimi le

regalava della carta da disegno usata, che lei rifilava in

fogli formato 21x30 e passava a me per scrivere. Sapeva bene

che non mi bastavano mai.

Cominciava a far caldo, troppo caldo. Me ne lamentavo

con Amaranta ma lei non se ne dava pensiero. Sfarfalleggiava

di studio in studio invece, tutta presa dalla sua ricerca di

un lavoro. La vedevo così votata al sogno di fare di me un

uomo onesto, di quelli a credenza piena, che smettevo di

lamentarmi. Di fatto, Amaranta non poteva afferrare quel che

comportava per noi la bella stagione... Ero io quello che si

era occupato di rifornire la nostra dispensa nel corso

dell’inverno, dopotutto. Da quando facevamo i turni in

cucina, ci spartivamo anche il frigorifero coi Kronskij, un

piano e mezzo per loro, uno per noi. Di tanto in tanto loro

due sconfinavano nel reparto di nostra competenza, che

comunque per forza di cose rimaneva sguarnito, in genere. La

notte, tra una seduta e l’altra alla Olivetti, mi toccava

ancora prelevare il contenuto del frigorifero per

trasferirlo sui nostri terrazzi, quello grande che dava

nella stanza di Amaranta e quello piccolo che dava nel mio

studio. Vista l’abbondanza, non stavo a fare più troppe

sortite sul terrazzo dei Kronskij. Disponevo gli alimenti

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Page 38: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

con una certa sapienza innata di magazziniere: lo scatolame

di qua, gli affettati di là. Inebetiti dalle notti insonni,

i Kronskij acquistavano nuove derrate non appena gli avevo

svuotato il frigorifero. E la notte dopo mi toccava fare

un’altra cernita. Questo lo prendo... questo non mi piace...

Selezionavo le mie provvigioni, le ripartivo con diligenza,

rimettevo in frigorifero i prodotti invecchiati sì da

facilitarne il consumo immediato da parte dei Kronskij.

Ma col caldo si fondeva tutto! La città intera fumava

sotto il sole caldo stagionale, e il mattino specialmente

vedevi levarsi una bruma violacea su dalle strade. Era

cominciato il disgelo. I caseggiati fiaccati dall’inverno si

rinvigorivano alle carezze di aprile; le gemme sbirciavano

dai rami del viale e, spinte fuori le prime foglioline, si

inardivano fino a mostrare un po’ di colore o il culetto

rosa di qualche frutto a venire.

Amaranta era all’oscuro delle condizioni disperate in

cui versavano le nostre provviste. La sera, al suo rientro,

mettevo su un viso disteso e le celavo la verità. Ma la

mattina mi toccava alzarmi prima di mezzogiorno per arginare

i danni e tamponare il diluvio alla meglio: cuocevo i cibi

di breve conservazione e mi adattavo a stiparli nel freezer,

mi abbuffavo di prodotti latticini, riparavo quel che

restava nelle zone d’ombra dei nostri terrazzi. C’erano ogni

giorno borsate di roba da gettare in pattumiera, rifiuti

puzzolenti scaturiti in poche ore dalle leccornie più

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Page 39: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

invitanti. Subivo l’assedio dell’armata venefica del calore,

assistevo impotente al gaspillage alimentare. Dovevo agire,

mi dicevo, forzare i tempi della disfatta dei Kronskij!

Fu allora che mi decisi a rompere gli indugi e

scatenare un’offensiva letale. Era giunta l’ora di mettere

da parte gli indugi, dovevo smetterla con questa guerra di

trincea: Oh partigiano, canticchiavo ispirato, portami via, oh bella

ciao, bella ciao... Oh, eccòme che avrei trovato la maniera di

far sgombrare i Kronskij! Non mi chiamavo più Vittorino, se

non ci riuscivo. Mi serviva un piano che ci portasse allo

scontro aperto: l’attacco frontale, definitivo. Avrei

rapito, decisi, le bambole di pezza che Marilina teneva

sulla cassettiera. Ma sì, a scopo di ricatto: perché farsi

degli scrupoli?

Torcia elettrica alla mano, passamontagna calato in

viso ed uno zainetto saldo a spalla, mi introfulai

nottetempo nella camera dei Kronskij. Vi ristagnava un

fetore orrendo. I due cercavano di dormire, si giravano e

rigiravano martoriando le lenzuola. Accesi la torcia e

perlustrai la stanza con un fascio di luce sottile. Ecco le

bambole! Mi guardavano fiduciose, in due, con quei loro

occhietti brillanti. La terza dormiva, la più bella. Diedi

un’altra controllata alla condizione dei Kronskij

puntandogli la luce in faccia: nessuna reazione,

febbricitanti come solito, tutto tranquillo. Gli occhi delle

bambole seguivano i miei movimenti con interesse. Quando il

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Page 40: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

fascio della torcia le inquadrava, una striscia luminosa

emanava dalle loro pupille e intersecava il buio, come un

ponte leggero gettato alla volta del nulla. Le infilai

delicatamente nello zaino, la prima, la seconda... La terza,

la più bella, immusonita dal brusco risveglio, non voleva

saperne di entrarmi nello zaino. Piuttosto di spingercela a

forza me la presi in braccio e via, tutti e quattro fuori!

Le nascosi nel baule della mia stanza.

Adesso avevo da fare più che mai, la notte. Redigevo

missive di minaccia e lettere di ricatto, stilavo lunghe

liste di condizioni per il rilascio delle vittime, preparavo

messaggi toccanti nella stentata calligrafia infantile delle

mie tre prigioniere.

Ogni notte ricominciavo da capo. Non avevo esperienza

in questo genere di malefatta, tanto praticata di quei tempi

nel nostro paese. Mi toccava fare e rifare, provare e

riprovare. Ci volevano, in primo luogo, quattro stili

diversi di scrittura. Una cosa erano i messaggi di pugno

delle tre bambole: dovevano risultare spauriti, lamentosi, e

intenerire i destinatari. Tutt’altra cosa erano le minacce e

le richieste di pagamento espresse dagli anonimi rapitori:

queste dovevano risultare dure, fredde, spietate. I brani

più convincenti mi sgorgavano spontaneamente dalla Olivetti

quando meno me lo aspettavo. In questi casi sembrava che

facesse tutto da sola, la mia fedele typewriter: mi limitavo

a foraggiarla di energia muscolare, energia a spinta per

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Page 41: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

modo di dire, e lei creava dal nulla certi capolavori di

letteratura del crimine. Lubrificavo, spolveravo la

tastiera, non le facevo mancare nulla: al resto pensava

lei... Ascoltavo incantato il suono dei tasti, la raffica

dei martelletti sulla carta. Anche questa notte ai Kronskij

toccava allucinare la marcia del mio minuto ma efficace

plotone di esecuzione: uno due! uno due! uno due!

All’alba entravo nella camera dei Kronskij e consegnavo

il plico delle lettere redatte nel corso della nottata: che

se la leggessero fresca fresca, la lista delle condizioni

finali, cogli ultimatum, i post scriptum, le postille

dell’ultima ora! Di quando in quando inserivo nel plico un

brandello scucito dagli abiti delle vittime. Deponevo il

plico accanto al letto e poi spalancavo le persiane:

“Sveglia! Sveglia!” I Kronskij scattavano in piedi come

marionette, si alzavano dalle coltri madide e si

precipitavano sulle missive. Stefano borbottava che avrei

anche potuto fare a meno di lasciare la stanza, a questo

punto. Perché non gliele dicevo a voce le condizioni del

riscatto? Perché le cambiavo tutte le notti? Io perdevo la

pazienza e uscivo sbattendo la porta. Colla faticaccia che

m’ero fatto! Avrebbero potuto almeno rispettare il mio

anonimato e fare lo sforzo di stare al gioco. Non

conoscevano il protocollo? Non li leggevano i quotidiani?

Eppure i giornali parlavano chiaro da anni. La regola d’oro

del rapimento di, che so io, un Primo Ministro? Fingere di

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Page 42: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

non sapere chi è il responsabile. Negoziare col primo

venuto... “Così va il mondo, miei cari,” avrei potuto

spiegargli: ma non se lo meritavano.

Intanto Stefano Kronskij s’era messo in aspettativa

dalla carica di Presidente della sua u-esse-elle. Il suo

Partito gli aveva appena assegnato la gestione della

politica culturale in città e la carica di Alto Commissario

ai Festeggiamenti! Giusto in tempo, perché si trattava di

organizzare le celebrazioni per l’anniversario della morte

di John Lennon, che ricorreva entro tre settimane...

Stefano dovette farsi in quattro per rispettare la

scadenza dell’incarico. Smise di rientrare a casa la notte

per dormire. Viveva notte e giorno nell’ufficio adibito

all’Alto Commissariato e dormiva in un sacco a pelo sulla

scrivania. Si nutriva di cappuccini e brioche. Doveva essere

una caratteristica di famiglia, riflettevo, questa esigenza

di gettarsi a capofitto nelle imprese pressanti più

disparate: pensavo alla sua povera mamma, fulminata dallo

scaldatisane elettrico. No, non erano tipi da fermarsi a

calibrare le proprie azioni, i Kronskij.

Stefano mobilitò le forze giovanili del Partito. Gli

altri partiti, inutile precisarlo, erano contrari alla

celebrazione in memoria di John Lennon. Vennero contattati

gli operai di fabbrica, che però rifiutarono di cooperare e

dichiararono che si sarebbero persino astenuti dal minuto di

silenzio che è di prammatica in occasioni del genere.

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Page 43: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Sorsero immancabili le polemiche cittadine. Dal canto loro

gli studenti liceali partirono in tromba a celebrare:

vennero organizzati seminari sulla figura del cantante,

gruppi di studio e convegni dedicati all’esegesi delle sue

liriche, assemblee, scioperi. Stefano andava di persona a

megafonare davanti alle scuole. Coll’eskimo verde gettato

sulle spalle e i volantini sottobraccio, sembrava

ringiovanito di colpo. Non gli era riuscito di fare il

leader studentesco nel Sessantotto, ora si rifaceva.

Si era intanto accaparrato una fetta degli stanziamenti

per le celebrazioni in memoria di John Lennon, il che gli

permise di regalare tre bambole nuove a Marilina e comprarle

sette paia di scarpe, tutte in vernice dorata. Un giorno,

rincasando, trovai queste mercanzie esposte sulla

cassettiera nel vestibolo, tre bambole circondate di

scarpette dorate, il tutto duplicato di fronte alla

specchiera. Due di queste bambole erano in biscotto, la

terza in porcellana. Si vedeva subito che erano bambole di

lusso, non come le tre paria di pezza che tenevo prigioniere

nel baule. Mi guardavano sprezzanti dall’alto: bambole

ricche, viziate, cullate nel privilegio dell’appropriazione

indebita. Afferrai il messaggio al volo e smisi di vergare

nottetempo le mie lettere di ricatto: ero a un niente di

fatto. Dall’impresa del rapimento non avevo ricavato che le

bambole consunte di Marilina, tutte e tre a carico mio

adesso per quel che riguarda educazione, salute ed

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Page 44: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

alimentazione. Avevo fatto male i miei conti. Nel far leva

sui sentimenti di lunga durata e gli affetti a carattere

domestico, non avevo previsto gli accomodamenti istantanei

dovuti ai soldi facili una tantum, le promiscuità degli amori

d’acquisto.

La festa in memoria di John Lennon arrivò puntuale come

la Pasqua, una domenica splendida di sole mentre la città si

apriva e chiudeva come un ventaglio al vento di Aprile. Le

celebrazioni furono un vero successo. Vennero delegazioni

studentesche da fuori città e per tutto il giorno le

processioni andarono avanti e indietro per le vie e per le

piazze. I Kronskij s’erano vestiti di tutto punto, in bianco

per l’occasione. Bianchi dalla testa ai piedi in omaggio a

John Lennon, facevano una bellissima coppia, sembravano i

Vianella. Lasciarono la casa di mattino presto e rimasero in

giro tutto il giorno e tutta la notte. Sul far della sera la

gente accese dei falò sotto le mura della prigione, e

c’erano folle di persone che recitavano i versi di John

Lennon sulla libertà e facevano il girotondo.

Amaranta ed io eravamo soli in casa. non c’era rimasto

niente di alimentare in terrazza: tutto fuso, tutto

decomposto, e il frigorifero—una rappresaglia dei Kronskij,

chiaramente—era sgombero. Andai a pescare sotto il letto dei

Kronskij una bottiglia della loro riserva speciale, un

Barolo d’annata. Misi sul piatto del giradischi la Lucia di

Lammermoor: si celebrava anche noi, insomma, anche Amaranta

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Page 45: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

ed io, benché non saprei dire in onore o in memoria o in

aspettativa di chi o di cosa.

Non appena ebbi chiuso le finestre si fece una quiete

profonda nella stanza. La Callas cantava al suo meglio, si

dava senza remore. Tenevo la bottiglia serrata tra le gambe

e ci infilavo il cavatappi, mentre Amaranta seguiva i miei

armeggi passandosi e ripassandosi la lingua sulle labbra.

Stappai, pop! e un fiotto di vino mi zampillò sul cavallo

dei pantaloni. La luna si riversava all’interno attraverso i

vetri delle finestre, dall’alto. Dal basso invece scorrevano

i bagliori dei falò e si scioglievano in un tramestio di

immagini contro il soffitto: la stanza si popolava

gradatamente di una moltitudine di ombre che, pure loro, ci

tenevano compagnia.

Brindammo col Barolo, così, a stomaco vuoto. Il vino mi

scendeva gorgogliando in gola dandomi subito alla testa.

L’indomani avrei trovato una soluzione per il pranzo,

pensavo; c’era ancora tempo, tanto tempo. Amaranta era

avvenente, divina, pareva la reincarnazione di Maria Callas.

La Callas, lei, ci accarezzava con i timbri fatati di quella

sua voce magnifica, spirata da tanto tempo. John Lennon

intanto, defunto pure lui, veniva ammazzato una seconda

volta in mezzo a mille ritornelli. Gesù detto il Cristo

s’era appena defilato dalla sua tomba di pietra per la

1982sima volta invece, ma di lui chi si dava pensiero?

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Page 46: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Quattro

Un mattino di Maggio mi alzai che Amaranta era già

uscita in cerca di lavoro, entrai in cucina convinto che la

casa fosse deserta e misi su la caffettiera. Poi mi

trasferii in bagno lasciandomi alle spalle la porta aperta e

la caffettiera che lanciava il suo sibilo estenuato.

Assaporavo, mingendo, il profumo mattutino del caffé, il

profumo che mi da sempre un’impressione pristina del giorno

appena iniziato, come di tabula rasa. Mi ero posto a un capo

della vasca da bagno e mingevo nel senso della lunghezza.

Intanto riflettevo su come avrei utilizzato la nuova

giornata che mi si schiudeva colle sue allettanti

opportunità. La mia urina cadeva sprizzando sul fondo della

vasca e di lì scivolava verso lo scolo. Il mio odore si

spandeva fuori del bagno e si confondeva abbondante e deciso

col profumo del caffé.

In quella comparve Marilina. Era in giornata di

malattia, glielo si leggeva in faccia: aveva l’espressione

spaurita di chi s’è usurato un paio di rotelle e scopre che

i ricambi sono esauriti. Provai nel vederla uno spontaneo

sentimento di pietà. Anche la nube di moscerini che le

ruotava intorno al capo pareva moscia e si trascinava in

circolo senza convinzione.

“Cosa diamine fai?” chiese vedendomi così a gambe

larghe.

“Non lo vedi da te?”

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Page 47: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Gettò in aria entrambe le mani. “Ma guarda tu!”

Avevo corretto la direzione del mio getto e ora lo

indirizzavo nel bicchiere in cui i Kronskij tenevano gli

spazzolini da denti. Marilina osservava a bocca aperta lo

spettacolo del bicchiere che, ricolmo, traboccava nel

lavabo. Sembrava stordita: forse non aveva mai assistito a

un simile spettacolo, che per me era affare di tutti i

giorni.

“Ma è antiigienico!” esclamò dopo un po’.

“Cosa sarebbe antiigienico?”

“Ma gli spazzolini, no...?”

Corse a vuotare il bicchiere attraversando la

traiettoria del mio getto. Feci una pronta svirgolata

all’insù per non innaffiarla da capo a piedi: le spruzzai

appena le punte dei riccioli. Lei comunque non s’era accorta

di niente: si voltò brandendo i manici dei due spazzolini e

li odorò a lungo in silenzio. Non sembrava veramente

arrabbiata.

“Accidenti, che schifo!” disse.

“Già,” risposi io. “È tutta una questione di mira.”

“Fai sovente questo genere di esercizio?” domandò

puntando il dito verso la traiettoria gagliarda del mio

getto fumante. Lo avevo reindirizzato per il lungo della

vasca.

“Tutte le mattine appena alzato.”

“Non me n’ero mai accorta.”

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Page 48: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Si esprimeva in modo insolitamente gentile: voleva la

sala da bagno per sé, è chiaro, e usava le armi della

seduzione.

Sedette sul bordo della vasca. Il ponte di urina la

scavalcava ricadendole alle spalle. Si mise a chiacchierare

del più e del meno, aspettando che avessi finito. Perché mai

avevo smesso di scrivere la notte? S’era abituata così bene

al ticchettio della macchina per scrivere, da che avevo

smesso le era presa l’insonnia.

La pressione del mio getto diminuiva. Avevo preso a

disegnare volute minute intorno al suo capo. Spingevo il

getto in su e poi in giù, da destra verso sinistra e poi

viceversa. Lo zampillo tracciava l’impronta di una corda che

si dipana, poi si spandeva a tratti in un ventaglio di lame

dorate, poi si sminuzzava in una miriade di goccioline.

Marilina si era spostata a sedere sul w.c. alle mie spalle e

continuavamo a conversare guardandoci vicendevolmente nello

specchio sopra il lavabo. Erano mesi che non scambiavamo

parola, non ci mancavano gli argomenti di conversazione. Io

le dissi dei miei progetti letterari, e che stavo scrivendo

la storia della nostra convivenza domestica. Lei mi parlò

del suo lavoro, mi confidò che contava di essere assunta

come Archivista dell’Alto Commissariato ai Festeggiamenti.

Poi mi disse che aveva messo un annuncio sul giornale

quotidiano cittadino: per trovare casa.

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Page 49: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Quando ebbi finito colla mia minzione, diedi una

sciacquatina alla vasca e lasciai il bagno libero per

Marilina. Potevo sentirla dalla cucina, intanto che spegnevo

la fiamma sotto la caffettiera incandescente, che si

riempiva la vasca di acqua calda. Si diffondeva nella casa

il profumo del Pino Silvestre, che andava a mescolarsi cogli

altri odori preesistenti: di caffé ribollito, urina, carta

da macero, disperazione... e ora anche il Pino Silvestre

(Vidal). Poi sentii il rumore del suo corpo che si immergeva

con un tonfo liquido, blop. Marilina cantava sottovoce

mentre si lavava. Era poco più di un sussurro, cantava un

vecchio successo di quand’era ragazzina:

sono una bambolina

che fa no no no ohoho

son così carina

ma fò no no no ohoho

Non ignoravo che, da quando avevo smesso i miei raids

notturni alla Olivetti, Marilina aveva contratto una forma

sordida di insonnia. Stefano le leggeva i sonetti di

Shakespeare per farla dormire: glieli leggeva in lingua

originale, sebbene nessuno dei due conoscesse l’inglese. La

cantilena disarticolata che ne risultava metteva Marilina

fuori combattimento, in un modo o nell’altro. I versetti

immortali riuscivano là dove avevano fallito i più potenti

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Page 50: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

sonniferi. Il volumetto di poesia, una vecchia edizione

scalcinata, l’avevano scovato su una bancarella di libri

usati in Via Po. Marilina seguiva per un po’ le peripezie di

Stefano, ne accompagnava la lettura coll’indice teso sotto

le righe, di parola in parola, di quartina in terzina. Poi

si intorpidiva e lasciava il fidanzato a continuare da solo.

Gli si acciambellava tra le gambe e si faceva promettere che

non avrebbe smesso di leggere per un altro po’. Lui la

tranquillizzava e lei affondava, pienotta ed egoista, nel

mondo dei sogni.

Stefano continuava a produrre certi suoni strani e

tenaci, certi bizzarri cicalii delle corde vocali. Si

incaponiva, rimasto solo, a modulare e rimodulare la stessa

parola, la stessa frase. Faceva un rumore come se avesse la

bocca piena di prugne. Arrivava distrutto in ufficio, la

mattina: spiegava ai colleghi che si era messo a studiare le

lingue.

Anch’io, quando la notte era difficile, quando ero

tormentato dai rimorsi o gli spifferi del vento nella stanza

mi gelavano le orecchie, andavo in studio invece di dormire

ed origliavo la lettura di Stefano. Il muro divisorio era

sottile come cartavelina, non mi perdevo una virgola. Avevo

di fronte un’alternativa drastica: Stefano doveva essere un

pessimo lettore oppure Shakespeare un pessimo poeta. Mi

risvegliavo all’alba con la testa sul tavolo, le braccia

strette intorno alla silhouette angolosa della Olivetti. Mi

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Page 51: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

destava l’alba con le sue tenui dita color di rosa. Mi

limitavo a socchiudere gli occhi per impedire al sonno di

evacuarmi del tutto. Sui tetti della casa di fronte

riposavano immobili le sagome gotiche di molti piccioni

addormentati: dormivano in piedi, eleganti e panciuti.

Salutavo il nuovo giorno con una raffica della Olivetti che

avrebbe svegliato un morto! I piccioni si levavano in volo

con un frullio repentino d’ali a centinaia: parevano

stracciare, al rumore che facevano, un impalpabile sipario

di carta stagnola. Allora mi trasferivo in camera da letto e

mi coricavo accanto ad Amaranta. Il bello veniva adesso, per

noi due. Le imposte erano serrate, tenevano spalancato un

nero paravento addosso alla notte.

Le borse sotto gli occhi erano diventate croniche, un

cruccio costante, per il povero Stefano Kronskij. Ma

Marilina lo consolava sostenendo che le occhiaie profonde

sono la caratteristica dell’uomo politico di successo. Se

aveva ragione, avrei voluto obiettare, Stefano, col paio di

occhiaie che si ritrovava, avremmo dovuto eleggerlo poco

poco Presidente della Repubblica. Di occhiaie paffute, obese

come le sue non m’era ancora capitato di vederne mai. Gli

aderivano al viso alla maniera di un doppio mento

sopraelevato, due pappagorge gemelle d’un bel blu sonoro!

Quando spostava il viso di scatto, le due borse gli

disegnavano un balletto di forme tormentate al di sopra

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delle gote. Ogni tanto lo sorprendevo che se le ravviava

all’indietro in un gesto di sconforto.

Mentre vegliava il riposo notturno di Marilina, Stefano

aveva preso l’abitudine di sbrigare pratiche d’ufficio.

Immaginava nuove feste cittadine, inventava giochi. In quei

giorni mi accadeva sovente di ripensare alla catena di

malintesi che ci aveva portati a detestarci reciprocamente.

Erano i suoi patetici tentativi di padroneggiare i sonetti

di Shakespeare a risvegliare in me una flebile simpatia per

la sua sorte. Consideravo l’eventualità di dargli qualcosa

di mio da leggere, un passaggio tratto da questa storia

magari, nobilitando così un tantino il tenore delle sue

corvé notturne.

Traspariva sempre, dai nuovi giochi inventati da

Stefano, una vena avvilita che me li rendeva ameni e

divertenti. Stefano rivelava in quelle invenzioni la propria

innata predisposizione alla catastrofe, una genuina

inclinazione alle sofferenze e al martirio. Immaginare la

fine del mondo era, tra tutti, il gioco che prediligeva.

Maggio andava avanti e le cose tornavano a farsi

regolari anche per noi di casa. Io ero arrivato, non senza

fatica, alla metà pressapoco del resoconto di queste nostre

traversie. Amaranta aveva provvidenzialmente trovato un

lavoro precario alla Facoltà di Architettura

dell’università. I Kronskij, dulcis in fundo, avevano cominciato

a imballare la loro biblioteca: in camera loro non c’erano

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più tutti quei volumi aperti al segno, la notte potevo

andare e venire senza il rischio di inciampare. Ogni giorno

Stefano e Marilina sgomberavano una fascia ulteriore del

pavimento e le piastrelle tornavano a vedere la luce: veniva

da pensare ad una composizione di Casorati nell’atto di

dipingersi da sé. Ricevevamo tutti i giorni telefonate di

gente che aveva un alloggio da affittare per i Kronskij:

qualcuno proponeva un baratto, che so, l’appartamento in

cambio di un posto in Comune per il figlio o un nipote. Ci

fu persino Foxy, un ex-innamorato di Marilina, che si fece

avanti con un appartamento da affittare, e non aveva in

mente nessuna speciale contropartita salvo un regolare

contratto di locazione. Lo faceva, disse, in memoria dei bei

tempi andati...

Sovente i Kronskij non erano in casa e toccava a me il

compito di rispondere alle chiamate di natura immobiliare.

Annotavo diligentemente le clausole, le richieste, le

condizioni d’affitto. Contrattavo un pochetto di mia

iniziativa: mi scoprivo innato lo spirito dello speculatore.

Stefano rubava di quando in quando qualche ora ai suoi

impegni di Alto Commissario e la dedicava a imballare la

roba di Marilina. A sistemare i libri ci pensavano assieme

per lo più, ma Marilina non voleva saperne di disporre le

proprie cose negli scatoloni da imballaggio. Sbirciavo

Stefano di soppiatto mentre riponeva gli indumenti della

fidanzata col fare cerimonioso del sacerdote di qualche

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stramba religione. Teneva in mano una mutandina, se la

girava e rigirava tra le dita, la ripiegava in mille fogge

diverse. Prima di impacchettare le calzature di Marilina ci

versava dentro un sorso di gazzosa, un goccio per ognuna

delle innumereli scarpe di Marilina, e fattoselo scivolare

in gola attaccava a lustrarle: utilizzava all’uopo l’unico

lucido da scarpe disponibile in casa, un tubetto color testa

di moro, di modo che l’uniformità dei modelli prediletti da

Marilina risultava accresciuta all’inverosimile. Addio alle

belle vernici dorate! Con le tre bambole nuove di Marilina

colloquiava gentilmente, a una delle tre dava addirittura

del tu.

Avrei voluto entrare e dirgli il fatto suo. Avrei

voluto aprirgli gli occhi una buona volta sulle prospettive

coniugali che lo aspettavano al varco: aprirgli una buona

volta quei suoi occhi sporgenti da vitellino!

Di solito verso mezzogiorno interrompeva l’imballaggio

e telefonava alla psicanalista di Marilina per appurare se

la fidanzata era già arrivata in studio. Se Marilina era

effettivamente in loco, rispondeva lei e gli parlava

direttamente dal lettino. I tre—Marilina, Stefano e la

psicanalista—concordavano un menù per il pranzo, poi Stefano

usciva a fare la spesa e al ritorno trovava le due donne ad

aspettarlo nella nostra cucina. L’analista era una giovane

di Asti. Il suo nome di battesimo era Giuseppina ma si

faceva chiamare Lazare, che faceva più parisienne.

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Per lo più, quando non era a casa in malattia, Marilina

trascorreva le ore lavorative nello studio di Lazare per

farsi analizzare. Si portava dietro i numeri telefonici

delle persone che doveva chiamare per lavoro e telefonava

dall’apparecchio nello studio, sdraiata sul lettino, senza

stare a interrompere la seduta di psicanalisi. Discuteva i

problemi personali degli utenti, sbrigava i casi più

urgenti, e intanto Lazare la ascoltava parlare per farsi

un’idea del suo stato emozionale. A forza di stare assieme,

le due erano diventate amiche. Marilina pagava a forfait.

I Kronskij avevano messo su le arie di due che non

hanno tempo da perdere. Sfrecciavano dentro e fuori casa.

Riempivano sempre nuove scatole dei loro libri. Ne

possedevano molti più di quanto fosse dato immaginare, di

libri: sparpagliati così sul pavimento non davano

nell’occhio. A giudicare dal numero delle scatole, mi

domandavo perché mai non considerassero di mettere in piedi

un commercio di libri usati: The Kronskij’s Bookstore o anche Chez

les Kronskij. Ci avrebbero fatto su dei bei profitti. Per il

trasloco avevano adottato semplici scatoloni di cartone per

prodotti di drogheria. Molti degli scatoloni recavano sul

fianco vere e proprie scritte commerciali, che so, Pavesi,

Marlboro, Omo, Tide, Spik e Span. Mi chiedevo chi glieli aveva

rifilati e a quale prezzo. Non avevano nemmeno provveduto a

rifilare i bordi del cartone col nastro adesivo da

imballaggio. Questa era la prima cosa storta che avevo

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notato in tutta l’operazione. Aspettavo con impazienza il

giorno del trasloco, l’immancabile mobilitazione di amici,

conoscenti, colleghi di lavoro, dipendenti ed emissari degli

enti pubblici, esponenti del Partito... No, non volevo

perdermi lo spettacolo dell’esodo di quei libri da casa

nostra. I libri godono di un’affinità particolare colla

forza di gravità: premono il fondo della cassa, si aprono

varchi, il cartone se lo sbafano come fosse di cioccolata.

Il mese di Maggio se n’era andato, assorbito da queste

faccende domestiche, e l’estate avanzava, umida e

canicolare. La gente, resa furibonda dall’afa in città, non

si accontentava più del solito tran-tran, della solita vita.

L’amministrazione pubblica era costretta a spargere notizie

relative a scandali e corruzione, un incremento stagionale

di rivelazioni relative a tangenti e concussioni, e anche

qualche nuovo pettegolezzo poco edificante sulle abitudini

dei ceti alti e i campioni di calcio. Di questa insorgente

frenesia stagionale fu Stefano il primo a fare le spese...

Da principio ci pensarono i giornali quotidiani a darlo

in pasto alla massa dei lettori parlando apertamente di

corruzione pubblica. Si sollevò un bel clamore intorno al

suo caso. Tutto cominciò a causa d’un operaio che era

rimasto fulminato sul posto di lavoro: roba che scotta, ma

Stefano, nella sua qualità di Presidente-in-aspettativa

della famigerata u-esse-elle, prese la faccenda troppo alla

leggera. Quando arrivò di persona sul posto dell’incidente,

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i medici del Pronto Soccorso avevano già tentato di tutto

per rianimare l’operaio. Il cadavere era stato spedito

diritto alla Morgue Municipale. Non avevano nemmeno dovuto

aspettare l’arrivo dell’ambulanza perché il defunto stesso,

dopo aver appurato le sue prospettive tanto future quanto

immediate di Martire del Lavoro, aveva insistito per

raggiungere la morgue a piedi: per rimettermi dallo chock, aveva

spiegato. Stefano allora rilasciò una dichiarazione alla

stampa dicendo che s’erano fatti sforzi sovrumani per

salvare la vita della vittima dell’incidente sul lavoro ma

tutto era stato inutile: la salma era stata inviata alla

Morgue Municipale per l’autopsia che avrebbe accertato le

responsabilità del caso. Parecchi cronisti erano frattanto

accorsi alla morgue per intervistare l’operaio deceduto.

Quest’ultimo, un tipo coriaceo e segaligno, installatosi a

suo agio in una camera-frigidaire, non voleva saperne di

esercitare clemenza: sordo alle ingiunzioni del personale di

turno, continuava a fumacchiare le sue Nazionali pestifere e

rilasciava dichiarazioni esplosive sulla sicurezza del

lavoro in fabbrica. Ce n’era abbastanza da far saltare

l’amministrazione cittadina.

Era naturale che i media non si sarebbero fatti

sfuggire l’occasione di placare le masse esasperate dal

caldo con una generosa dose di scandalo pubblico. Misero

Stefano alle strette, lo torchiarono per benino. Era così

che la sua u-esse-elle si prendeva cura degli assistiti? Era

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così che un Presidente-in-aspettativa sbrigava le proprie

mansioni? Cosa si pensava di fare a beneficio della famiglia

dell’operaio deceduto? Gli si sarebbe restituito il posto di

lavoro, lo si sarebbe trasferito a mansioni meno

impegnative? O si complottava invece di scacciarlo dalla

fabbrica tout court, come aveva minacciato l’Associazione

degli Imprenditori? I giornalisti interrogavano e

indagavano. Saltò così anche fuori, naturalmente, che

Stefano era un insegnante di applicazioni tecniche e a chi

diavolo era mai venuto in mente di eleggerlo Presidente di

unità sanitaria? Cosa ne sapeva, lui, di cura della salute

pubblica o di prevenzione sul posto di lavoro? E ce n’erano

tanti altri di Presidenti incompetenti in città, sosteneva

un giornalista particolarmente efferato: Presidenti

spaesati, scrisse, fuori posto, fuori mansione, “alla

Stefano Kronskij.”

La gente era assetata di novità e di spettacolo,

insomma, e i giornali quotidiani erano disposti alle manovre

più indegne, alle calunnie più ignobili: qualsiasi bassezza

pur di vendere qualche copia in più! A rigor di logica

Stefano avrebbe potuto tirarsene fuori indenne dalla

faccenda dell’operaio, le mani nette: lui era in

aspettativa, dopotutto, si occupava delle feste cittadine

adesso e non più responsabile della sanità locale. Ma,

probabilmente per incuria, il suo sostituto al posto di

Presidente non era stato nominato né il salario della u-esse-

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Page 59: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

elle stornato dalle saccòcce di Stefano, di modo che lui non

poteva tirarsi indietro con quel sotterfugio. Nel mezzo del

terrore generale degli amministratori pubblici, del fuggi-

fuggi generale dei chargé-d’affaires che si defilavano con la

scusa della villeggiatura, Stefano rimaneva solo ad

affrontare lo scandalo. Ma lui, dovevamo presto scoprire

insieme al resto della popolazione cittadina, non era il

tipo del capro espiatorio...

Lasciò che il peggio dello sdegno popolare fosse

sbollito e poi prese l’iniziativa. Consultò gli specialisti

di medicina legale, convocò uno per uno i medici che avevano

fornito i primi soccorsi all’operaio e ne avevano

diagnosticato il decesso. Raccolse materiali probanti. Alla

fine, forte della sua documentazione, indisse una Conferenza

Stampa. Vi intervennero tutti, parlando a turno: dottori,

professori, esperti. All’ultimo momento, colpo di scena!,

anche l’operaio fulminato accettò di partecipare. Il Martire

del Lavoro era sobrio, più smilzo che mai, si spruzzava

sistematicamente in bocca uno spray che smorzava le

scintille, e aveva appiattito i capelli spinescenti sotto

uno spesso strato di brillantina. L’operaio prese la parola

e si dichiarò completamente d’accordo con le opinioni di chi

ne sapeva tanto più di lui a proposito dei decessi sul posto

di lavoro. Tra i flash dei fotografi, l’operaio sottoscrisse

le conclusioni degli organi competenti relative al suo

recente decesso. Che quella scarica elettrica in fabbrica lo

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Page 60: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

avesse fulminato o meno, lui era schiattato comunque ed era

inutile stare a cavillare e tirarla tanto per le lunghe.

L’intervento del diritto interessato finì col chetàre

le acque. Il poveretto, riferirono i giornali dell’indomani,

era tutto bruciacchiato, fumigava dai capelli e aveva una

faccia che somigliava a una caldarrosta. Era stata

semplicemente, si concluse all’unanimità, un’allucinazione

collettiva dovuta alla calura che imperversava sulla città.

Era ora che si devolvesse un contributo pubblico alle

industrie nel settore dell’aria condizionata!

Stefano ne uscì con tutti gli onori, dalla vicenda,

popolare quanto mai tra gli elettori.

Cinque

Intanto che i giornalisti tenevano Stefano sui carboni

ardenti, era spuntato questo Foxy nelle nostre vite, una

vecchia fiamma di Marilina. I due, Foxy e Marilina,

approfittavano a modo loro della contingenza politica per

vedersi di soppiatto, all’insaputa di Stefano. Foxy arrivava

qui da noi in visita dopo il lavoro recando piccoli doni,

cosine per la casa, che so, vini, liquori, minuscoli

prosciutti affumicati, zamponcini... Personalmente trovavo

limitata, gretta, la varietà dei suoi regali, puntualmente

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Page 61: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

vincolati al genere alimentare. Certa gente, trovo, ha uno

stomaco al posto dell’immaginazione.

Mentre Marilina si faceva bella, lui scambiava quattro

chiacchiere con me. Era un tipo gentile, Foxy, tuttavia in

mia compagnia sentiva come il bisogno di dimostrarsi sempre

superiore, e questa particolarità soffocava il piacere di

conversargli insieme. Soffriva di una fissazione assillante,

che si manifestava nell’impulso a sciorinarmi di continuo

l’elenco delle sue imprese di successo. Risalii con poco

sforzo alla sua tragedia: per farla breve, sapeva di

comparire, nome e cognome, nella lista degli impotenti, la

collezione di ex-amanti, ex-fidanzati ed ex-pretendenti che

Marilina teneva in borsetta e mostrava volentieri a

chicchessia esprimesse un interesse al proposito. Era una

questione annosa: Marilina, a darle retta, non aveva mai

incontrato individui di sesso maschile capaci di prestazioni

effettivamente virili. Il fatto che io stesso, nome e

cognome, non ci fossi finito sulla sua lista dipendeva in

fondo solamente da una questione di buon senso: mi ero

tenuto alla larga, ecco tutto. L’errore, come si dice, stava

nel manico. Lo indovinavi alla maniera che aveva, Marilina,

di spiattellarti il suo fiore segreto ad ogni pie’ sospinto,

ad ogni inverosimile occasione. Te lo offriva, il suo bel

fiore, te lo proponeva e riproponeva in un modo così

petulante che sarebbe riuscita a inibire un Primo Carnera,

un Rocky Balboa... Ma che dico, Carnera o Balboa: sarebbe

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Page 62: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

riuscita a inibirti un Rossano Brazzi! Con Marilina ogni

abbraccio comportava seduta stante un test di carattere

lombare, e chi non s’ergeva all’altezza della situazione,

pronto come un’anguilla, era finito: finiva, cioè, nella

lista degli impotenti.

Lazare la psicanalista era entusiasta di questo aspetto

della personalità di Marilina e cercava di scandagliarne gli

anfratti reconditi, indietro nel tempo. Bisognava ripescare

l’atto mancato originario, quello che aveva inaugurato la

serie delle défaillance. Interrogava la paziente a proposito

del papà.

Il lavoro di Amaranta in università andava bene. Faceva

la bibliotecaria ad interim alla Facoltà di Architettura:

schedava libri. Il titolare del posto di bibliotecario si

trovava in Arabia Saudita, attaché ad una delegazione

cittadina in promozione delle fonti energetiche alternative,

e non sarebbe tornato a Torino prima del nuovo anno

accademico. Eravamo ricchi!

L’estate aveva raggiunto la piena maturità. Ogni

giorno, si sollevava un po’ più dal suolo quella

tossicchiante polvere d’oro che una volta ch’è per aria non

ricasca che d’autunno, insieme alle foglie degli alberi.

Anche la classe operaia, atomizzata come uno sbuffo di

polvere, aveva preso il volo, chi ai monti, chi al mare. I

colletti blu avevano disertato la città, portavano a

riposare in ferie le ossa e la famiglia. Tutt’addosso ai

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Page 63: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

caselli delle autostrade si accalcavano lunghe colonne

silenziose di automobili ferme in coda, come parcheggiate:

anche qui come in fabbrica c’erano i turni da rispettare, le

precedenze. Il sole rovente appioppava certe mazzate, certe

botte sorde su cofani e capote.

In Luglio la città continuava a svuotarsi. Lo stretto

impacchettaggio delle case-dormitorio s’era visibilmente

allentato e si avvvertiva un incremento della pace

cittadina, un incremento di vitalità in questo scardinamento

rituale dell’orario di fabbrica.

Grazie al lavoro retribuito di Amaranta potevo

concedermi qualche lusso. Nel tardo pomeriggio uscivo e

andavo al bar, da Mastro Birraio. Giocavo un paio di partite

alle macchinette elettroniche, bevevo un paio di birre. A

qualsiasi ora della giornata il bar era affollato di

ragazzini in vacanza e di disoccupati. Io riuscivo a

sprecare le mie partite in un baleno, perdevo ancor prima

d’aver compreso a che gioco giocavo. Quei piccoli habitué mi

prendevano in giro, mi spiegavano le regole del

combattimento, i trucchi di repertorio. Ogni giorno

compariva un giochino nuovo, una nuova specie di astronave

che non sapevo come trattare. E per sovrammercato avevo le

mani rattrappite a forza di dattilografare questo resoconto

delle nostre traversie.

Amaranta rientrava col primo buio e mi raggiungeva da

Mastro Birraio. Le offrivo un aperitivo al bancone del bar,

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Page 64: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

e anche lei si misurava con le macchinette elettroniche. Poi

rientravamo a preparare la cena.

Arrivò il Ferragosto, il sole un punto nero allo zenit

sui tetti roventi dei caseggiati. L’indomani del Ferragosto

cominciò il rientro delle carovane operaie. Sembravano tutti

irrobustiti, erano abbronzati, avevano legato il windsurf al

tettuccio della Fiat coupé con delle funi. Fermavano la

macchina nel mezzo della carreggiata, come s’usava fare nei

posti di villeggiatura da dove erano appena rientrati, e si

scambiavano i convenevoli da un finestrino all’altro. Li

guardavo e li ascoltavo che si raccontavano episodi,

avventure, amori da sbarco. Scialate, pensavo, scialate, cicale...

Avrebbero dovuto averne a sufficienza per un anno intero, di

quei ricordi.

Io lo avevo capito subito che Foxy detestava Marilina.

Altrimenti non avrebbe inventato tutte quelle cattiverie,

quelle perfidie recondite che escogitava a spron battuto.

Gli scherzetti, li chiamava lui... Come l’occasione in cui

sostituì tutte le etichette dei medicinali che Marilina

teneva sul pavimento in camera, operando per

complementarietà farmacologiche: gli astringenti diventarono

pasticche contro la stitichezza etc. Arrivò a minare

seriamente lo stato di salute di Marilina. In certi casi,

quando aveva in mente imprese particolarmente ardite, Foxy

cercava la mia allenza e quella di Amaranta. Io naturalmente

non ne volevo sapere: mi disinteressavo per principio della

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Page 65: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

vita privata dei miei nemici. Mi parve una buona idea

tuttavia quella di derubare Marilina dei suoi libri, perché

spartivamo tutti, noi di casa, una passione inveterata per

la letteratura, e nessuno ne aveva mai abbastanza dei libri

che possedeva. Foxy sosteneva tra l’altro che l’avremmo

senza dubbio passata liscia in quanto Marilina non si

sarebbe accorta del furto che a trasloco effettuato,

nell’atto di svuotare le casse adibite ai libri. E al passo

in cui procedeva coll’imballaggio, aggiungeva con fare

ammiccante, non se ne sarebbe accorta per qualche altro

annetto.

Accettai la proposta dei libri ma a condizione che ne

rubassimo uno solo, che si trattasse cioè più che altro di

un’azione simbolica. Il giorno fatidico in cui Marilina

avesse finalmente aperto le sue casse per disporne i

contenuti nella nuova casa, avrebbe dovuto constatare la

mancanza di un volume, uno solo. Potevo sbagliarmi, ma dal

canto mio consideravo il furto più efficace a questa maniera

che non nella forma, preferita da Foxy, di una sottrazione

massiccia. Amaranta si disse d’accordo con me e propose di

sottrarre a Marilina la sua copia della Trilogia Galattica di

Isaac Asimov: era tanto che desideravamo leggercela, tant’io

quanto lei. Fuxy consentì all’idea.

Un ostacolo serio all’attuazione del furto era

rappresentato dall’orario di lavoro di Foxy. Lavorava per un

istituto di vigilanza privata; piantonava una banca vicino

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Page 66: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

al Palazzo Reale e smontava appena un quarto d’ora prima che

Marilina lasciasse l’ufficio in Municipio. Foxy disse che,

infischiandosene dei semafori, poteva arrivare a recuperare

un altro cinque, un altro dieci minuti su di lei. Dovevamo

pertanto organizzare l’intera impresa in modo da poterla

eseguire nel breve lasso di tempo che sarebbe intercorso tra

l’arrivo di Fuxy e l’arrivo a casa di Marilina. Di lasciar

fare tutto a me, che in fondo avevo il giorno intero per

perlustrare la camera di Marilina, Foxy non voleva sentir

parlare: forse non si fidava. Organizzammo dunque il furto

nei minimi particolari. Venne il giorno stabilito...

Io mi sarei installato in bagno, seduto sul w.c., e dal

finestrino di sfogo avrei tenuto d’occhio la tromba delle

scale per segnalare l’arrivo di Marilina. Amaranta e Foxy si

sarebbero intanto occupati di frugare nelle casse dei libri

in cerca della Trilogia Galattica, e avrebbero rimesso tutto in

ordine a cose fatte. Ero stato io a insistere giorni prima

che non dovevamo lasciare traccia alcuna di manomissione, al

che Amaranta aveva obiettato che se anche si fossero accorti

d’essere stati derubati, i Kronskij non avrebbero avuto il

coraggio di lamentarsene con noi. Io avevo insistito

nondimeno affinché facessimo tutto per benino. Non che in

cuor mio me la sentissi di dar torto ad Amaranta. Avevo

saccheggiato impunemente le loro provviste troppe volte per

negare che Stefano e Marilina Kronskij fossero due

temperamenti codardi: come topo di frigorifero ero

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Page 67: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

abbastanza goffo, riconosciamolo. Ma se il crimine non è

perfetto, che gusto c’è?

Raccattai un libro dal pavimento della camera di

Marilina e andai a sistemarmi dietro lo spioncino del bagno.

Leggiucchiavo nervosamente aspettando l’arrivo di Marilina:

sfogliavo le pagine a caso, gettando un occhio distratto sui

loro caratteri minuti. Potevo intanto sentire Foxy e

Amaranta che davano sonori colpi di tosse nella polvere

sollevata dai libri di Marilina, e dietro la tosse il rumore

delle loro mani che rovistavano affondate nella carta.

Arrivava fin da me l’odore melanconico di macero, e di tanto

in tanto un rumore di cartone stracciato. Staccavo gli occhi

dal libro e li puntavo nello spioncino con determinazione:

spingevo lo sguardo fin giù all’angolo che lo scorrimano

disegnava sulla ringhiera dell’ammezzato, osservavo

affascinato la grata di ombre che la luce al neon proiettava

sul muro, attraverso l’armatura di scorrimento del vecchio

ascensore. I miei due complici facevano un discreto baccano.

Ripresi a leggere un capitoletto intitolato: I quattro

regni. Vi si parlava di questioni di diplomazia che mi erano

stranamente familiari: eppure ero certo di non aver mai

messo prima le mani su questo volume. Lessi di maneggi a non

finire, trattative e violenze, contrasti ideali o di puro

interesse. Mi immedesimavo man mano nella vicenda che,

cominciavo a vedere, ricordava da vicino il calvario di

patimenti che soffrivo un giorno sì e un giorno no al fine

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Page 68: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

di sbarazzarmi dei miei nemici: un susseguirsi interminabile

di attacchi all’arma bianca, ritirate precipitose, rovesci

dall’uno all’altro fronte, precari equilibri di forze... La

vicenda mi ispirava e l’esposizione di esperienze tanto

simili alle mie mi incitava alla lettura. Saltavo di pagina

in pagina in cerca di spunti, volevo scovare qualche maniera

inedita di guerriglia domestica.

“Ciao, Vittorino. Cosa leggi?” Era Marilina a parlare:

mi guardava attraverso lo spioncino e si apprestava ad

entrare in casa.

“Ciao,” le faccio io, in viso il sorriso tuttora

deliziato che mi provocava la lettura. “Leggo un libro.”

“Quello lo vedo anche da me,” precisò lei, armeggiando

nella borsetta in cerca della chiave di casa. “Come si

intitola?”

Chiusi la copertina e lessi il titolo ad alta voce: “È

la Trilogia galattica di...” Mi si erano rizzati tutti i capelli

in testa. Mi alzai di scatto e senza rivolgerle più la

parola corsi nella camera di Marilina agitando il volume.

Foxy e Amaranta erano tuffati ciascuno in una cassa di

libri, attorniati da un panorama sconsolante di volumi

sparsi e cartone lacerato, il tutto sovrastato da un velo

denso di polvere grigia.

“L’ho trovato!” gridai sottovoce per farmi sentire.

“L’ho trovato! L’ho trovato!” e scappai subito nel

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Page 69: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

vestibolo, tallonato dai miei complici, affannati e

straniti.

Marilina stava giusto chiudendosi la porta alle spalle.

“Oh, eccovi qui tutti e tre,” disse. “Ciao, Foxy.” E poi,

rivolta a me: “Fammi un po’ vedere quel libro...”

Le porsi la sua copia della Trilogia galattica. La esaminò

con attenzione e dopo che ne ebbe sfogliato qualche pagina

me la restituì sentenziando: “Questa copia è identica alla

mia, tale e quale, tale e quale...” E se ne andò

speditamente in camera, oltre il tinello, oltre il

corridoio, seguita dal suo Foxy,. Tale e quale... ripeteva

ancora flebile la sua voce in distanza prima d’essere

troncata dal clic della porta.

Amaranta ed io ci scambiammo un’occhiata solidale.

Giravo e rigiravo la Trilogia galattica tra le mani. Ce l’avevamo

fatta. Era nostra!

Sei

Ormai mi sforzavo di evitare il bar di Mastro Birraio.

Le sue macchinette elettroniche mi ripulivano

sistematicamente. Amaranta non faceva in tempo a terminare

una giornata di lavoro che la sua paga si era volatilizzata

di già nel ventre di qualche videogioco astrale. Era un

meccanismo irreversibile, una partita tirava l’altra, e le

mie monetine da duecento lire, maneggevoli e scivolose, non

bastavano mai.

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Page 70: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Presi l’abitudine invece di frequentare una latteria

dove non c’erano macchinette elettroniche di alcun tipo. Ci

andavo a mezza mattina per lasciar raffreddare i tasti della

Olivetti. Ordinavo un cappuccino e stavo in mezzo alla

gente. Amaranta passava a prendermi all’ora di pranzo: le

spiegavo che cercavo di disintossicarmi dall’assuefazione

alle macchinette.

La latteria era all’angolo, giusto vicino a casa. Un

locale foderato dal pavimento al soffitto di piastrelle

bianche e blu, la volta imbiancata, le luci al neon sempre

accese. Era gestita da una ragazza di sedici o diciassette

anni, avvenente, di nome Delia. Ma d’estate era pieno di

ragazzini sfaccendati pure lì, tutto il santo giorno. Delia

indossava uno spolverino bianco di nailon senza maniche,

stretto sulle cosce. Aveva polpacci sporgenti e luminosi che

riverberavano le trasparenze dei neon, e dalle ascelle le

spuntava un ciuffo di peli ancor più neri dei capelli. Gli

avambracci invece li aveva di un biancore esagerato che

rivelava a giorni il blu delle vene. La latteria, è

comprensibile, aveva successo malgrado l’assenza di

macchinette, ed era frequentata specialmente dai giovani-

bene del rione. Bevevano frullato di fragola fin dal mattino

presto, loro: erano di gusti speciali e delicati.

Da Mastro Birraio gli avventori erano di genere

differente, invece. Teppisti coi giacconi di cuoio e i

capelli a spazzola. Dove li scovassero i soldi per giocare

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Page 71: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

ininterrottamente alle macchinette non lo avevo mai capito.

Scialavano certe fortune nelle pance di quegli ordigni!

Sfilavano a turno dalla tasca posteriore dei portafogli

pingui di carta moneta e andavano avanti a giocare per ore.

Mastro Birraio li riforniva di gettoni. Non appena mi

vedevano arrivare, ne saltava subito fuori qualcuno che mi

interrogava a proposito del mio romanzo. Voleva sapere come

si sviluppava la vicenda, che ne era dei miei personaggi.

Voleva sapere se scrivevo colla punteggiatura o senza.

Se al momento di lasciare i locali di Mastro Birraio

dichiaravo ai giovani avventori che non ci saremmo visti per

qualche giorno, che non avevo più soldi da spendere nelle

macchinette, loro mi imploravano di farmi vivo lo stesso:

erano tutti pronti a sovvenzionare le mie partite, dicevano,

purché la smettessi di frequentare quei signorini della

latteria. Allora l’indomani tornavo al bar e tutti mi

accoglievano con un calore davvero commovente. Quanto a

pagarmi le partite alle macchinette, non se ne parlava

neanche, se n’erano già tutti scordati. È il pensiero che

conta.

Amaranta era andata in visita dai genitori e in fondo a

un baule aveva scovato il vecchio giubbone in cuoio del

padre, che risaliva ai giorni in cui lui andava a lavorare

in fabbrica colla motoretta e se ne serviva per proteggersi

dal gelo del mattino. Col tempo era diventato una sorta di

corazza di cuoio, indurita dall’usura: se lo posavi sul

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Page 72: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

pavimento, restava in piedi senza afflosciarsi. Amaranta lo

aveva preso in prestito. Era un capo di vestiario intriso di

una sua solenne, macilenta dignità: dal cuoio, tutt’una

crepa, traspariva l’antico valore operaio.

Uno di quei giorni Stefano Kronskij mi prese da parte e

senza troppi preamboli mi disse che lui e Marilina avrebbero

ritardato di qualche tempo il trasloco da casa nostra.

Questa decisione era dovuta al referendum imminente: Stefano

era stato incaricato di organizzare i festeggiamenti per la

vittoria del Partito. Colse l’occasione per elucidarmi le

caratteristiche del nuovo sistema di voto. Tutto in questo

referendum si sarebbe svolto secondo le regole procedurali

correnti, non ci sarebbero stati brogli di sorta e il

corretto svolgimento della consultazione avrebbe beneficiato

la solidarietà nazionale. Era stato concordato ai sommi

vertici che il Partito avrebbe vinto di un lieve margine.

Come potevo ben comprendere, concluse, per lui non era

proprio il tempo per pensare alla casa o a simili quisquilie

egoistiche. Del loro trasloco se ne sarebbe riparlato dopo

il referendum.

Non obiettai motto, lasciai che Stefano si illudesse

d’avermi preso alla sprovvista. Quel pomeriggio cominciai a

ripulire balconi, terrazze e terrazzini: stesi fogli di tela

cerata, spruzzai disinfettanti in quantità, sistemai

mensoline ai davanzali e contenitori in plastica agganciati

alle persiane. Non era proprio il caso di fare urgenza ai

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Kronskij, in fondo... Un esordio prematuro d’autunno ci

aveva regalato la prima avvisaglia dei grandi freddi

incombenti. La rosticceria del rione si andava riempiendo di

allettanti prodotti stagionali: porcini, triffole, polenta-

e-useï. Certe folate d’aria montana si trascinavano dietro

per strada l’odore delle caldarroste. E da un giorno

all’altro era previsto il rientro dai paesi arabi del

bibliotecario della Facoltà di Architettura, in tour di

propaganda a favore dell’energia pulita. I Kronskij erano

pur sempre una fidata ciambella di salvataggio per me e

Amaranta: con loro due per casa, per mangiare si mangiava

tutti i giorni.

Verso la fine di Ottobre ricomparve il mio amico

langarolo, l’editore di Langa Materiali. Era tempo di pensare

al secondo numero della rivista, disse, e così aveva pensato

di venirmi a trovare. Mi faceva molto piacere rivederlo. Mi

raccontò delle sue ferie in Meridione. Lui e la moglie erano

andati come sempre in esplorazione di antichi ruderi, dalle

parti della Magna Grecia. Quest’anno però i due figli

avevano rifiutato di seguirli in vacanza, e lamentandosi che

ne avevano abbastanza di colonne rosicchiate dal tempo se

l’erano svignata al mare con certe amichette. Il mio amico

langarolo aveva assunto un’espressione contrita nel riferire

l’episodio: era la prima volta, mi confidò, che i due

ragazzi disertavano la compagnia sua e della mamma. Mentre

parlava io m’ero messo assentemente a contargli i capelli

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bianchi in testa: uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci

undici... Smisi di contare prima di essere risucchiato nel

vortice dei Grandi Numeri: era un’impresa disperata.

Attaccai a contargli i capelli neri.

Poi lo lasciai che scambiava due parole con Amaranta e

corsi a fare la spesa. Non mi serviva un granché per la

cena, il vino lo aveva portato lui dalle Langhe. Siccome era

assodato che i Kronskij rimanevano ancora con noi, decisi di

fare un sopralluogo in rosticceria. Entrai e ordinai

ricotta, verdure e carne tritata. Il resto dell’occorrente

ce l’avevo in casa. Mi stava servendo il garzone delle

consegne a domicilio: gli dissi di mettere tutto in conto

alla signorina Marilina. Lui mi sogguardò brevemente e

chiese:

“Niente più espropri proletari allora, Signore?”

Feci finta di non aver sentito. Ne aveva di faccia

tosta, quel bambino! Tutto perché gli avevo concesso troppa

confidenza. Eppure a volto nudo non mi gli ero mai mostrato:

trovavo curioso che mi riconoscesse anche senza il

passamontagna... Avrei cominciato a tenere le distanze,

decisi: e infatti attaccai subito a dargli del voi. La

mestizia dell’inverno non era neanche ancora cominciata e

questo pivello pretendeva di trattarmi già alla stregua d’un

pentito!

Ce la misi tutta ai fornelli, mi stava a cuore di non

sfigurare agli occhi del mio amico langarolo. Cucinai la

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Page 75: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

pasta al sugo con ricotta, una ricetta speciale a cui avevo

apportato tempo prima certe modifiche essenziali, ottenendo

un piatto che funge simultaneamente da prima e da seconda

portata: funzionale e idoneo, tanto per intenderci, alle

mense di sospetta prosperità. Questa volta non avrei celato

al mio amico nessuno degli ingredienti... D’altra parte la

procedura è presto riassunta: soffriggi carota sedano

cipolla, aggiungi carne tritata, tanti chiodi di garofano

quanti sono i commensali, una manciatina di timo, il sale,

poi cuoci a fuoco lentissimo, intanto bolli la pasta, la

versi al dente sul sugo in cottura, aggiungi rapidamente

ricotta e parmigiano grattugiato, mescoli il tutto

energicamente e servi in tavola. Libammo e mangiammo di

cuore, io, Amaranta e l’amico langarolo, scordando o

fingendo di scordarci la ragione che lo aveva condotto

quassù in città. Cosa avrei mai potuto proporgli per la sua

rivista? Un pezzo di questo resoconto, magari?

Pochi giorni più tardi ci accorgemmo che era veramente

cominciato l’inverno. La fabbrica oltre la ferrovia seminava

squallore a piene mani dai finestroni del reparti illuminati

a giorno, inondava di luce al neon la strada lungo il viale

sotto casa. Marroni o gialle, una dopo l’altra le foglie si

staccavano dagli alberi sul viale. I reclusi della prigione

comunale passeggiavano in su e in giù lungo la terrazza con

le mani affondate nei pantaloni e tenevano il broncio ai

parenti che si sbracciavano al di qua della ferrovia. I

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Page 76: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

teppisti di Mastro Birraio trovavano lavoro man mano che le

officine riprendevano a pieno ritmo: chi oggi, chi domani,

scomparivano ciascuno in silenzio e alla chetichella.

Ricomparivano magari al bar il sabato mattina per una

partita o due alle macchinette, ma perdevano pure loro ai

videogiochi adesso: erano deconcentrati e mancavano di

rapidità. Avevano le unghie scarnificate dal lavoro sui

motori e un retino di olio lubrificante tatuato intorno ai

polpastrelli.

Certe mattine c’ero soltanto io in latteria da Delia. I

suoi clienti abituali erano chiusi nelle aule del liceo, non

si facevano vivi che intorno all’una, l’una e mezza. Delia

ammazzava il tempo seduta al mio tavolo: mi raccontava dei

suoi genitori al Sud, mi mostrava l’istantanea del boyfriend

lontano. Quando parlava sembrava più meridionale del solito

per via dell’accento. Amaranta arrivava intorno all’una ed

entrava nel locale con indosso il giaccone in cuoio del

papà. Si stava tutti e tre a chiacchierare per un po’, e

avevo l’impressione che stesse nascendo una specie di

amicizia.

Il referendum di Stefano venne e passò senza che manco

ce ne accorgessimo. Forse in ragione del fatto che ora il

metodo di consultazione era per decreto più equo e

democratico, pareva che nessuno prendesse a cuore la

faccenda del voto e anche la propaganda dei partiti risultò

ridotta rispetto alle occasioni precedenti. Entravi nella

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cabina elettorale reggendo una scheda su cui erano stampati

un grande SÌ e un grande NO. Potevi scegliere tra le due

alternative. Il 50% di quelli che si presentarono alle urne

votò per il sì, il 49% per il no e il resto furono schede

bianche. Come concordato ai sommi vertici, i sì del Partito

di Stefano avevano vinto. Festeggiarono tutte le notti per

una settimana con cortei e processioni nelle strade. Quelli

che avevano votato no se ne stavano chiusi in casa per non

incappare nelle celebrazioni di quelli che avevano votato

sì. La vigilia del referendum ero entrato per caso nella

camera di Stefano e Marilina. I loro libri avevano evacuato

le casse del trasloco ed erano di nuovo sparpagliati sul

pavimento, aperti al segno col dorso rivolto al soffitto. Di

sbieco attraverso la stanza penzolava uno striscione che

diceva: VOTA SÌ. In quel momento decisi come avrei votato,

se mai mi fosse saltato di andare a votare l’indomani. Poco

importa: bisogna saper perdere.

Il momento più difficile dell’autunno venne quando

Amaranta fu colta da emorragia. Erano i reni a sanguinare,

ne soffriva da quand’era bambina. Sapevamo che prima o dopo

sarebbe successo. I reni erano da sempre il suo punto debole

e di tanto in tanto le facevano di questi scherzi micidiali.

Si mise a letto chiedendomi di rifornirla costantemente

d’acqua. Io le ubbidii, litri e litri, e nel frattempo mi

ritirai in studio a scrivere. Non sapevo bene, in quelle ore

77

Page 78: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

di sospensione, se stavo ancora scrivendo brani di questo

resoconto.

Scrissi che avevo finalmente compreso la natura della

nostra tragedia, quella mia e di Amaranta. Scrissi che la

nostra era la tragedia della verità, quella verità che non

si può afferrare una volta per tutte né nominare in modo

permanente. Scrissi che Amaranta aveva questo rene

ballerino, un pollice di carne striato di stimmate che le

moriva dentro da sempre, in dense folate di sangue misto a

urina che lei filtrava scrupolosamente in sala da bagno.

Scrissi che dall’infanzia Amaranta aveva cercato in quella

sabbia la sua pietra filosofale, la pietra della verità

ultima. Di quello, della verità ultima, scrissi, consisteva

la nostra comune tragedia. No, non si voleva accontentare

come me di schegge parziali di verità, la mia Amaranta, la

mia amata Amaranta: non le bastavano i tasselli delle verità

che andavo assemblando via via nel mosaico incompletabile

delle nostre traversie. Scrissi che c’era una

predisposizione al compromesso nel mio amore per il vero,

una adattabilità a congiunture e riconversioni. Non così per

Amaranta: la sua brama di verità era di un’immediatezza

febbrile, assoluta e ostile al compromesso. Scrissi che

sebbene io e Amaranta prediligessimo due tipi diversi di

verità, complementari o antitetiche non avrei saputo dire, e

sebbene in quello fossimo tanto diversi, io proprio non

arrivavo a giudicarla: non osavo. Scrissi che se l’amavo al

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Page 79: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

punto che la sua malattia mi stava inducendo a scrivere i

brani d’un racconto che non riconoscevo, era perché in fondo

io anelavo anche più di lei alla verità imprescindibile.

Scrissi che per Amaranta contava solo la pepita, la vena

d’oro, la gemma rara, la perla che un giorno il fato le

avrebbe posato nelle mani insanguinate. E scrissi che era

questa tragedia della verità a spiegare tutti quei frangenti

in cui il mio resoconto, sul punto di affluire in un

racconto differente, ha saputo ritrovare l’alveo giusto.

Tre giorni più tardi avevo ultimato questo brano e

Amaranta era guarita. Smisi di rifornirla d’acqua.

Subito a ruota della crisi di Amaranta, Marilina venne

colta da una colica renale. Arrivarono a prenderla i

barellieri dell’ospedale di cui Stefano era Presidente-in-

aspettativa. Per la degenza in ospedale si portò le tre

bambole nuove, una dozzina di paia di scarpe color testa di

moro, una cassa di libri e una valigetta di medicinali d’uso

comune. Stefano interpellò gli specialisti in città: si

parlava di fare un intervento chirurgico, asportare il

vecchio rene e rimpiazzarlo con uno nuovo. Nelle vesti di

Presidente-in-aspettativa, Stefano godeva effettivamente

dell’autorità di decretare l’asportazione forzata del rene

di qualche portatore sano prescelto all’uopo. I criteri di

scelta del portatore erano lasciati alla vaghezza di un

oscuro decreto ministeriale.

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Page 80: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Preoccupato dalla faccenda del trapianto, Stefano non

lasciava più l’ospedale dove era ricoverata Marilina. Nello

stesso istituto si cominciò simultaneamente a lamentare la

fuga dei malati dalle corsie. Qualche quotidiano locale

trattò il caso ma senza prestarvi troppa attenzione. Un solo

giornalista parve afferrare la causa che induceva questi

malati a darsi alla macchia, e definì il nuovo fenomeno:

Sindrome del Donatore. Ma furono in pochi a dargli retta e

presto il direttore lo assegnò ad un nuovo incarico. Due

settimane più tardi arrivò dalla Svezia la notizia

dell’invenzione di un minuscolo rene artificiale, molto

pratico da applicare, costruito interamente in platino.

Stefano organizzò la colletta per l’acquisto del congegno

tra i pazienti che non erano ancora fuggiti dall’ospedale.

Marilina sembrava contenta della novità: voleva farsi i

capelli del medesimo colore del suo nuovo organo svedese.

Un pomeriggio che la latteria era chiusa per turno

settimanale, Delia venne a trovarmi a casa. Non mi aspettavo

quella visita, non le avevo neanche mai dato il nostro

indirizzo. Aveva portato con sé un numero del giornale che

parlava della degenza di Marilina in ospedale; c’era un

inserto scientifico dedicato al caso del suo trapianto.

Feci accomodare Delia nel mio studio. Era la prima

volta che la incontravo fuori del solito ambiente, il

biancore del suo viso risaltava ancor di più nella penombra

dello studio. Indossava una giacchetta tirolese rossa sopra

80

Page 81: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

al solito spolverino bianco di nailon. Sedette su uno

sgabello e poi disse che era venuta per chiedermi di

Marilina. Puntò col dito alla pagina del giornale: le

risultava che la fidanzata del Presidente Kronskij, Alto

Commissario ai Festeggiamenti, abitava qui da noi. Era

drammatico come dicevano, il caso clinico di Marilina? La

tranquillizzai, spiegandole che dovevamo solo pazientare

fino alla vigilia dell’operazione, allora come per miracolo

Marilina si sarebbe ripresa e non ci sarebbe stato nessun

trapianto.

Mentre parlavo Delia aveva tirato fuori uno spino dalla

tasca della giacchetta rossa e s’era messa a fumare. Mi

chiese se ne volevo. Declinai l’offerta spiegandole che

tutte le volte che avevo fumato cannabis mi ero sentito

peggio di prima, e tutto sommato, fumare per fumare,

preferivo le Gauloise. La voce di lei replicò attraverso una

nube di fumo bluastro:

“A te si vede subito, Vittorino, che ci hai un super-io

grande come una casa.”

Queste parole mi lasciarono di stucco. Non nutriva il

minimo dubbio al proposito, la mia amichetta: era tutta una

questione di super-io. E io che m’ero ero illuso che nella

mia decisione di astenermi dalle droghe c’entrasse per

qualcosa il libero arbitrio! Adesso Delia aspirava convinta

dal suo spino strabuzzando gli occhi. Ripensai all’età che

aveva:

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Page 82: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

“Allora è il mio super-io?” domandai.

“Certo che è il super-io! Devi imparare a liberartene,

a lasciarti andare.”

Mi alzai in piedi, le sfilai la giacchetta rossa, le

tirai gentilmente su fino in vita lo spolverino bianco, poi

la sollevai per le natiche e cominciammo a vogare. Mentre

lei si divincolava ed emetteva certi suoni compiaciuti,

profondi, di gola, io raccolsi con la mano libera lo

specchietto che tenevo sul tavolo da lavoro. Mi guardai in

viso per un po’, continuando a vogare a ritmo regolare e

sforzandomi al contempo di scrutare nel fondo della mia

immagine riflessa. Dovevo riconoscere che un goccio di

super-io forse traspariva per davvero: somigliava più a mio

padre che a me. Che scoperta inverosimile! Uno passeggia

magari tranquillamente per strada arieggiando le fattezze

asimmetriche del proprio viso, e la gente che si ferma a

guardarlo non lo fa per contemplarne il volto bensì per

spiare le perversioni represse del suo super-io... Posai lo

specchio sul tavolo e terminai amorevolmente le strattonate

del nostro abbraccio. Eravamo entrambi commossi e confusi,

Delia ed io, e madidi di sudore.

Più tardi rientrò Amaranta e Delia si fermò a cena da

noi. Amaranta constatò che avevo messo su un bel colorito

roseo quel pomeriggio e disse che la visita di Delia mi

aveva fatto bene. Le suggerì di tornare a trovarmi qualche

altro pomeriggio. Delia si disse senz’altro d’accordo, e

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Page 83: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

naturalmente lo ero pure io. Il mio super-io, stranamente,

si teneva sulle sue, evitava di pronunciarsi, fingeva

addirittura di non aver sentito niente. Ma adesso, capirai,

lo tenevo d’occhio.

Sette

Mi scrisse la Fondazione degli Scrittori. Era tempo di

pagare la quota di iscrizione, diceva il Segretario in

Carica, dovevo decidere una volta buona se intendevo stare

dentro alla loro organizzazione oppure fuori. Più avanti mi

avrebbero sottoposto all’esame di prammatica: se lo avessi

superato sarei stato consacrato scrittore e avrei ricevuto

il patentino della Fondazione, se no avrei potuto continuare

a pagare la quota fino alla sessione d’esami dell’anno

prossimo, e così via. È lodevole di per sé, precisava la

lettera del Segretario in Carica, l’ambizione di chi si

prefigge di fare lo scrittore, ma quanto all’avercelo il

talento o meno, è un’altra questione. Come prima prova di

collaborazione dovevo compilare i tre moduli annessi alla

sua lettera. Si trattava di spedire un messaggio analogo a

quello che avevo ricevuto dalla Fondazione a tre scrittori

inediti di mia conoscenza, ma prima avrei dovuto accertarmi

che i tre nominativi di mia scelta non fossero inclusi di

già nella lista acclusa degli iscritti alla Fondazione.

All’atto di spedire le tre missive, avrei scritto il mio

nome in calce alla lista dei loro 1000 iscritti e allegato

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Page 84: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

una copia di questa lista ad ogni missiva. Il Segretario in

Carica aggiungeva a mo’ di incoraggiamento che se avessi

fatto le cose per benino avrei sicuramente ricevuto, nel

giro di 77 giorni dalla spedizione delle missive, una catena

di missive di ritorno contenenti un importo equivalente a 36

volte l’ammontare della mia quota annua di iscrizione. Il

mio rifiuto ad aderire all’iniziativa, invece, avrebbe

comportato una messa al bando dalla comunità letteraria

nazionale.

Una postilla di pugno dell’Altissimo Poeta che

presiedeva la Fondazione, scritta, si sarebbe detto,

appositamente per me, confidava che alcune tra le maggiori

case editrici nazionali avevano imposto ai propri dipendenti

l’adesione obbligatoria alla Fondazione degli Scrittori: mi

consigliava di riflettere sulle implicazioni di una simile

misura.

Stavo per cestinare queste carte ma poi decisi di

consultare Amaranta. Le mostrai la lettera del Segretario in

Carica e le prospettai la mia intenzione di rifiutare

l’adesione. Lei mi chiese se mi aveva dato di volta il

cervello. “... voltare a questo modo le spalle alla

fortuna!” disse. Dovevo avere la faccia di uno lento di

comprendonio perché lei cominciò su due piedi a dettagliarmi

il suo punto di vista:

“Ecco,” spiegò, “qui dice che nel corso di 77 giorni

puoi ottenere il valore della quota di iscrizione

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Page 85: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

moltiplicato 36 volte. Con i soldi della quota di iscrizione

noi mangiamo mediamente 4 mesi. Un anno diviso quattro fa

tre. Trentasei diviso tre fa dodici. Col ricavato

dell’operazione potremmo mangiare per dodici anni! Ti sembra

poco?”

“Be’, in effetti—“

Mi interruppe. “E non finisce qui! Immagina che cosa

succederebbe se tu inserissi il tuo nome un po’ più in su

nella lista, diciamo al 500esimo posto? Allora si presentano

due scenari: sia ricevi 36 volte la tua quota di iscrizione

nel giro di appena 39 giorni, oppure ottieni 72 volte la

quota nel giro di 77 giorni. È semplice aritmetica,

credimi!”

Le chiesi come pensava di trovare i soldi per pagare

l’iscrizione.

“Soldi?” si sorprese. “Di quali soldi stai parlando? Tu

non sei obbligato a pagare, ti basta far circolare la lista

dei nomi...”

“Iscriversi senza pagare è disonesto...” obiettai.

“Se proprio vuoi pagare, i soldi li prendiamo dal mio

ultimo salario. Vediamo... Bisogna detrarre i soldi

dell’iscrizione dalla vincita futura. Per un tasso di

inflazione del 20% annuo una quota di iscrizione pagata oggi

equivale a otto decimi di quota pagati fra un anno.

Dividiamo per tre questi due decimali di perdita: fa

pressapoco 007. Questo vuol dire che in 77 giorni perderesti

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Page 86: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

0.93 volte la quota che hai pagato. Se ora consideri un

profitto lordo di una settantina di quote e detrai sia la

perdita che il pagamento effettuato della quota ottieni—”

La interruppi e mi dichiarai del tutto convinto. Non mi

aveva tanto convinto della sua opinione quanto logorato e

stordito con quelle cifre: sembravano vere... Con un

meticoloso lavoro di incollatura inserii il mio nome nella

lista degli aderenti alla Fondazione degli Scrittori, non

nel mezzo, al 500esimo posto come aveva suggerito Amaranta, ma

al 31mo. Non che dubitassi dell’aritmetica di Amaranta, ma è

risaputo che la Fortuna, solo a darle una spintarella, è più

fidabile della logica ineccepibile dei Grandi Numeri.

Spedii le tre missive, le tre copie della lista

manomessa e la mia quota di iscrizione, poi cominciai ad

aspettare i risultati dell’operazione. Passò del tempo...

Mi venne recapitato un biglietto ferroviario per andare

a Roma a sostenere l’esame da scrittore. Allegata era una

nota che spiegava che il biglietto di ritorno lo avrei

ottenuto ad esame concluso. Erano passati due mesi da quando

avevo fatto circolare la lista manomessa dei nomi degli

iscritti ma non era ancora arrivata nessuna nuova dei

proventi che a detta di Amaranta avrei sicuramente ricevuto.

Mancavano ancora 17 giorni alla scadenza ipotetica stabilita

da Amaranta, ad ogni buon conto: era troppo presto per

perdere la speranza. Ogni mattina tracciavo una riga a

matita sul muro sopra la stufa in cucina. C’erano già 60

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Page 87: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

righine allineate, ciascun gruppo di quattro tagliato da una

riga orizzontale.

In mancanza di prospettive migliori, intascai questo

biglietto ferroviario, andai alla stazione di Porta Nuova e

mi misi in viaggio attraverso i campi innevati del nostro

Settentrione spoglio e natalizio: i campi lividi e

ineffabili di cui s’era alimentata tanto tempo fa la gloria

agricola del Paese. Ero diretto alla Capitale, la grande

metropoli. Coltivavo ambizioni smisurate ed inconfessabili

aspettative.

Era la vigilia di Natale quando arrivai a destinazione.

Il viaggio aveva preso più tempo del previsto, giorni e

giorni. La Capitale mi apparve alla luce dell’alba nelle

sembianze d’un enorme salvadanaio, tutta incrostata di

ghiaccio e di rovine. Il cielo sui tetti era nero e pareva

disselciarsi a strati in ragione di una pioggia densa e

minerale. Questo spettacolo comportava una delusione enorme

per me che avevo sempre identificato la Capitale d’inverno

coll’immagine d’un panettoncino stracolmo di canditi ed

appena sfornato: le pecche della fantasia, mi rimproverai,

le allucinazioni di cui sono vittima i ghiotti ed i

golosi...

Uscendo da Stazione Termini trovai un Rolex d’oro sul

marciapiede vicino alla fermata dei taxi. Il colpo di

fortuna mi restituì un po’ di smalto, volli considerarlo di

87

Page 88: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

buon auspicio per la prova che mi aspettatava. Raggiunsi di

ottimo umore la sede della Fondazione degli Scrittori.

C’era molta gente ad aspettare di fronte ai cancelli.

Un cartello scritto a pennarello annunciava: ULTIMA SESSIONE

DI ESAMI. C’erano persone dei tipi più disparati, giovani e

vecchi, uomini e donne. Mi avvicinai al primo capannello in

cerca di informazioni. La Commissione d’Esame non era stata

avvertita del mio ritardo ed era possibile che non sarei

stato ammesso a quest’ultima sessione. Chissà? Del resto,

non potevo rinunciare a presentarmi perché soltanto

partecipando all’esame avrei ottenuto il mio biglietto di

ritorno.

Nessuno di quelli che si accalcavano all’entrata dei

cancelli volle prestarmi attenzione. Sembravano tutti quanti

molto animati, come in preda ad una strana euforia. Non mi

ci volle molto tempo per comprendere che erano in attesa

impaziente di un certo collega scrittore che quel giorno si

sarebbe certamente presentato ad affrontare l’esame: un

infame, dicevano, uno sfrontato a cui bisognava riservare

l’accoglienza che si meritava.

Raggiunsi un assembramento poco discosto dal primo,

determinato ad ottenere l’informazione che mi necessitava o

farmi perlomeno indicare qualche addetto a cui rivolgermi

per indicazioni. Questo secondo gruppo, più numeroso del

precedente, un insieme imponente di scrittori in attesa di

diploma, era ancor più inviperito dell’altro, e sempre a

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Page 89: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

causa di questo certo scrittore con la prerogativa di

esasperare le menti. Non mi era mai capitato prima di allora

di vedere uno stuolo tanto folto di scrittori: stavano

assiepati l’uno sull’altro, maschi e femmine, stretti

stretti come a volersi vicendevolmente riscaldare, e intanto

sparlavano del comune nemico e gli tagliavano i panni

addosso. Quali erano le sue mire recondite? Perché intendeva

sottoporsi a questo esame da scrittore? C’erano di quelli

che si interrogavano sulle intenzioni riposte del nemico e

di quelli che sciorinavano le spiegazioni più malevole e

diffamatorie. Come scrittori, per dare a Cesare... erano

davvero pronti di lingua. Si alimentava un clima da

linciaggio. Mi chiedevo che faccia avrebbe fatto la loro

povera vittima quando si fosse trovato qui nella fossa di

tanti rivali forsennati. Ma forse non c’era di che

impietosirsi, mi dicevo. Forse si trattava della classica

figura del Raccomandato.

Il nervosismo nell’aria si acutizzava a vista d’occhio.

Ogni singolo sconosciuto che si approssimava ai cancelli

veniva squadrato e passato al vaglio: è lui? non è lui?

Chiaramente solo l’identità di questo esaminando era nota a

tutti, non le fattezze.

Io stesso mi sentivo puntare addosso gli occhi degli

inquisitori. È pur vero che avevo i capelli a rastrello a

causa delle tante notti trascorse in treno, e le unghie

delle mie mani non erano esattamente linde dopo un viaggio

89

Page 90: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

così lungo, ma questa non mi sembrava una buona ragione per

confondermi con un manigoldo che nemmeno conoscevo.

Tutti questi miei compagni di esame tenevano piegato o

arrotolato sotto un braccio un quinterno di fogli

dattiloscritti. Si sarebbe detto che si trattava di

materiali che bisognava portare con sé nell’aula d’esame, ma

non trovavo nessuno a cui chiedere elucidazioni, nessuno nei

pressi dei cancelli che fosse immune dalla frenesia

collettiva del rivale da boicottare, dello scrittore da

annientare. Intravidi un raggruppamento composto di sole

donne. Magari con loro avrei avuto più fortuna. Mi avvicinai

speranzoso ma quelle, al vedermi, tacquero tutte

simultaneamente e si voltarono a valutarmi in silenzio.

Allora sgattaiolai a testa bassa raso il muro.

Cominciavo a sentirmi male. Presagivo che sotto quel

cielo ramazzato di nubi nere stava per consumarsi

un’ingiustizia ai danni di un innocente. Non che temessi che

quella singola ingiustizia avrebbe cambiato lo stato di cose

nel Paese: una in più, una in meno... Era la vigilia di

Natale dopotutto: quella stessa notte doveva vedere la luce

per la 2018esima volta la prova personificata dei disguidi che

confondono da sempre la giustizia celeste, la bilancia del

bene e del male.

(Sempre, come ho detto, che si conti a partire dal

Golgota, ‘ché alla stella di Betlemme io non ci ho mai

creduto.)

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Page 91: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Fummo introdotti in una grande sala. Tanto bellicosi un

attimo prima, gli esaminandi persero la favella e si

andarono a rintanare in un angolo come bestiole smarrite.

Malgrado la paura, però, continuavano a bisbigliarsi

mutualmente nelle orecchie i discorsi di poco prima. Saremo

stati all’incirca un 300 in quella sala: tutti intruppati

nel loro cantuccio, tutti col loro misterioso quinterno di

fogli dattiloscritti sottobraccio, salvo io che, vinto dalla

stanchezza e a mani vuote, mi ero appropriato dell’unica

poltrona disponibile e ci stavo coricato sopra. Dopo tanti

giorni passati sulla rigida panchetta in legno dello

scompartimento di terza classe, questa poltrona a molle mi

faceva pensare al Paradiso. La schiena mi si raddrizzava

piano piano.

In un certo senso fu la poltrona a perdermi. Mi ero

messo troppo in vista, solo soletto da quella parte mentre

tutti gli altri se ne rimanevano ammucchiati dall’altra a

macerarsi del rancore contro il collega che avevano

condannato a morte in contumacia. Seicento occhi mi

guatavano. A un tratto sentii una voce:

“Ma tu, non sarai mica per caso Vittorino Surrettizio?”

Non mi riusciva di individuare la provenienza della

voce: veniva dal mucchio.

“Sì che sono io!” risposi con quella punta di orgoglio

che non trattengo mai alla pronuncia del mio nome.

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Page 92: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Adesso serpeggiava un mormorio inequivocabile

tutt’intorno e io non potevo fingere di non capire: l’uomo

che aspettavano al varco, il rivale, il collega traditore,

il Raccomandato di Ferro, il mostro... ero io. E dire che a

tutta prima avevo provato un senso di contentezza nel

sentirmi riconosciuto da qualcuno, dopo tanta indifferenza.

Quel giorno memorabile, comunque, rassicuratevi, non persi

che poche gocce di sangue e un briciolo di amor proprio, due

elementi di cui serbo scorte virtualmente inesauribili. Fino

a pochi giorni prima non ero che un ignoto scrittore

prealpino, ma adesso ero diventato un arcinoto auteur della

Capitale, oberato di un prestigio tanto inquietante quanto

inspiegabile. Non c’era da stare allegri.

Però non succedeva niente. Continuava il brusio, si

infervorava il tono delle invettive, degli improperi, ma

nessuno prendeva l’iniziativa. Mi lasciavano così il tempo

di interrogarmi sul particolare prodigio della persecuzione

di cui ero al contempo vittima e testimone. Io non conoscevo

nessuno di questi scrittori eppure loro si comportavano come

se fossero a conoscenza di un sacco di cose sul mio conto,

cose talmente vergognose, a dar retta ai loro insulti, che

io stesso ne ero stato tenuto all’oscuro. Mi chiedevo quale

sarebbe stata la loro prossima mossa, una volta superata la

sorpresa d’avermi acchiappato. Be’, era evidente che mi

avrebbero flagellato, era l’unica cosa chiara in tutto quel

mistero.

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Page 93: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Fu solo più tardi, dopo il mio ritorno in città, e per

puro caso, che venni a conoscenza delle ragioni di questa

mia disavventura. Lo scandalo diffuso intorno al mio nome

era dovuto al pagamento della quota di iscrizione alla

Fondazione degli Scrittori. Risultava dalla contabilità che

io avevo pagato la mia quota per intero: ero il primo

iscritto nella storia della Fondazione ad aver

effettivamente sborsato quei soldi! C’era tra gli iscritti

chi aveva usufruito di facilitazioni riservate ai membri

dell’Esercito, chi ai rami della Pubblica Amministrazione,

chi alla Pubblica Sanità, ai mutuati e ai pensionati per

disabilità. Persino i dipendenti della case editrici avevano

escogitato un espediente che li aveva abilitati ad

iscriversi senza pagare. A conti fatti io risultavo l’unico

membro pagante dell’intera Fondazione. E tanto bastava, è

comprensibile, a gettare infamia sul mio nome. Chi mi

appoggiava? si chiedevano. Chi mi sovvenzionava?

Un tipo dall’aspetto anonimo si staccò dal gruppo,

avanzò verso di me e quando fu a portata mi rifilò una

tremenda pedata negli stinchi. Accorsero gli altri a dargli

man forte e mi si pigiarono addosso per qualche minuto. Io

mi ero riparato alla meglio sotto la poltrona. Chi mi

picchiava di qua, chi di là. Poi tornarono in bell’ordine a

fare folto nel loro cantuccio. Saltellando su un piede come

trampolieri, le scrittrici che avevano preso parte

reinfilavano le scarpe col tacco utilizzate nella

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Page 94: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

colluttazione. Alcuni scrittori si erano serviti delle borse

e delle valigette ventiquattrore per colpirmi, il che

spiegava l’efficacia delle botte che avevo ricevuto.

Riconobbi le macchie lasciate dal mio sangue sullo spigolo

d’una ventiquattrore e poi vidi agganciato alla fibbia d’una

sacca da escursione un grumo della mia materia cerebrale,

sbavante come albume d’uovo. Soddisfatti e alquanto pacati,

i miei aggressori si complimentavano a vicenda.

Mi rialzai da terra e valutai attentamente la schiera

che mi fronteggiava. Niente da fare: avrei potuto stenderne

qualche dozzina ma alla fine avrebbero prevalso loro. Decisi

di ignorarli e mi misi a giocherellare col mio nuovo Rolex

d’oro. Contemplavo la possibilità di smerciarlo a Stazione

Termini in cambio d’un panino e del biglietto di ritorno a

casa. Mi sforzavo di guardare alla situazione con ottimismo:

non era da escludere che prima o poi ci sarei tornato alla

mia amata casetta, magari persino sulle mie proprie gambe, o

alla peggio su un paio di stampelle.

Adesso sembrava che fosse in programma un altra sortita

contro di me. Li vedevo che si scaldavano i muscoli, si

preparavano all’azione. Alcuni avevano scovato delle corde

chissà dove e saltavano ritmicamente per fare fiato, uno due,

uno due. Come misura precauzionale tornai a rifugiarmi sotto

la poltrona. Intanto sentivo da qualche parte sotto lo

sterno il mio vecchio amor proprio che palpitava e frullava

come un passero spaventato. Era evidente che si trovava in

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Page 95: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

condizioni di disagio particolare perché non l’avevo mai

sentito agitarsi a quella maniera. Abbassai lo sguardo per

rassicurarlo ma stentai a riconoscerlo: rincantucciato al

suo solito posto, tra il cuore e lo sterno, il mio vecchio

amor proprio si era completamente cammuffato. Aveva in viso

una mascherina nera simile a quelle usate dalla Banda

Bassotti e un numero di matricola sul petto... (Da quel

giorno non ha più smesso il travestimento da ex-galeotto.

Non gli importa, dice, se adesso lo prendono per un

delinquente: si sente protetto da questo travestimento, è la

sua sola arma di difesa.)

Un giovane appena arrivato mi si avvicinò con fare

cortese e chiese di punto in bianco se ero io lo scrittore

italiano che aveva incontrato Henry Miller un anno prima

della morte. Gli risposi di sì. Il giovane mi chiese di

dirgli dell’incontro, di com’era Henry Miller da vecchio. Io

uscii da sotto la poltrona e gli raccontai che da vecchio

Henry Miller era lo stesso che da giovane, la testa calva e

liscia come una melanzana. Poi lui mi chiese perché non

avessi mai scritto la cronaca del mio incontro con Henry

Miller. Io gli spiegai che quell’incontro m’era sembrato

molto malinconico a causa dell’età dello scrittore e del

fatto che sapevamo entrambi che sarebbe morto molto presto.

Lui insistette che sarebbe comunque valsa la pena di

descrivere l’episodio, io allora tagliai corto confidandogli

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Page 96: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

che a me interessava solo scrivere storie esilaranti,

nient’altro.

“Esilaranti!” ripetè lui facendo tanto d’occhi. Poi

rimase a guardarmi in silenzio per un po’. Avvertivo il suo

sguardo posarsi delicatamente sulle mie ferite. Infine mi

ringraziò dicendo che era commosso dalla nostra

conversazione. “Storie esilaranti,” disse ancora a bassa

voce mentre si allontanava.

Gli altri gli si precipitarono intorno, volevano sapere

che cosa mai ci fossimo detti. Lui si spiegava con un gran

gesticolare tra le espressioni sbalordite dei miei

aggressori, i quali mi lanciavano occhiate sempre più

languide man mano che il giovane procedeva nel racconto. Io

li rimiravo da lontano e mi chiedevo cosa ci trovassero di

tanto interessante nella mia amicizia per uno scrittore

defunto. A meno che, ragionavo realisticamente, non mi

considerassero appartenente di già al numero dei più,

relegato al celeste empireo delle vittime di morte violenta.

Li rallegrava magari il pensiero che avrei incontrato una

faccia nota al mio arrivo lassù?

In parole povere la situazione subì un drastico

capovolgimento. Tutti apparivano commossi ora, tutti si

volevano congratulare con me e smettevano il cipiglio

minaccioso di prima. Si formò una specie di corteo davanti

alla mia poltrona. Io mi ci ero disteso siccome le ferite

continuavano a gocciolare, e volevo serbare qualche forza

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Page 97: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

per l’esame. Gli altri esaminandi mi sfilavano dinanzi

scrutandomi come se fossi una sacra reliquia, mi

accarezzavano, dicevano che ero troppo timido, troppo

riservato.

Mi feci forza e riacquistai un pizzico di verve, una

parvenza di facondia che mi permise di rizzarmi in piedi

sulla poltrona e improvvisare lì per lì un discorso di

circostanza. Non ricordo cosa dissi di preciso, siccome

ignoravo sia a cosa fosse dovuto l’odio di prima che l’amore

di adesso, ma parlai a vanvera, parlai e parlai perché mi

sembrava il minimo che potessi fare di fronte alle prove di

tanta considerazione. Intanto che arringavo, mi premuravo di

tenere le mani a coppa al di sotto delle ferite più

profonde, per evitare di spruzzare coloro che si accalcavano

da presso.

Vennero spalancate alla buon’ora le porte dell’aula

d’esame. Ci fecero prendere posto agli scrittoi,

opportunamente distanziati l’uno dall’altro per evitare

scopiazzature. Venne fatto circolare un foglietto su cui gli

esaminandi dovevano scrivere nome, cognome e professione.

Quando toccò a me, scrissi: Vittorino Surrettizio, Scrittore. Scorsi

rapidamente la lista dei presenti: contabili, pubblicitari,

salumieri, baristi, principi del Foro... A giudicare da

questo foglietto, ero l’unico scrittore in aula.

La Commissione d’Esame fece il suo ingresso, preceduta

dall’Altissimo Poeta. In uno slancio di simpatia accennai un

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Page 98: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

timido applauso e i miei ammiratori mi seguirono a ruota.

Per la durata del nostro applauso l’Altissimo Poeta conservò

sulle labbra una piega che dava l’impressione di un sorriso:

forse fu anche per quello che l’applauso venne tanto

prolungato. Io però non ignoravo la natura verace di quella

smorfia... Era un sorriso, come no: il Sorriso della Fame.

Lo avevo riconosciuto a volo, volendo lo avrei potuto

imitare alla perfezione. Mi stupivo che l’Altissimo Poeta

non avesse ancora imparato, all’età veneranda che si

ritrovava, a controllare i muscoli boccàli e nascondere quel

triste marchio di appartenenza alla nostra categoria.

Neanche gli altri scrittori della Commissione d’Esame

avevano le facce allegre: chi ci aveva le toppe ai

pantaloni, chi la camicia lisa. Si difendevano come

potevano, bisognava riconoscere, non a caso avevano

escogitato questa Fondazione: per ragranellare qualche

spicciolo, lo stratagemma della catena di lettere che in 77

giorni ti restituisce l’importo della spesa d’iscrizione

moltiplicato per 36 non era malaccio.

L’Altissimo Poeta annunciò che si teneva quel giorno

l’ultima sessione dell’anno, riservata agli scrittori della

Capitale. Aggiunse che gli era stata annunciata la presenza

in aula di un concorrente forestiero in ritardo sulla

tabella d’esame, un beniamino della Fondazione: Vittorino

Surrettizio. La Commissione aveva deliberato di fare una

piccola eccezione in mio favore. Mi alzai dal banco e

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Page 99: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

strinsi delle mani non appena si levò una ovazione di

solidarietà nei miei confronti. Era un peccato però, pensavo

intanto: quei miei nuovi amici avevano un aspetto talmente

nomade, con quelle sacche a spalla e l’aria stralunata che

assumono i clandestini sui cargo e i convogli mercantili,

eppure avevo appena appreso che erano tutti residenti della

Capitale, magari abitavano proprio qui, dietro l’angolo. Un

vero peccato, ripensai... In quella mi ricordai che mi ero

messo in viaggio senza prendere nemmeno un ricambio di

biancheria, nessun bagaglio di sorta a essere preciso.

Sollevai impercettibilmente la cintura dei pantaloni e diedi

un’annusatina in basso: il profumo trapelava, eccòme.

Nel frattempo l’Altissimo Poeta spiegava le formalità

relative alla segretezza del testo d’esame. Gli sentivo

intimare che se qualcuno tra gli astanti aveva ragione di

dubitare che la segretezza fosse stata violata in

qualsivoglia maniera, bene, questo qualcuno doveva farsi

avanti adesso o mai più. Nessuno fiatò. Il Segretario di

Commissione dissigillò solennemente la busta d’esame e

l’Altissimo Poeta ne lesse il testo.

Si trattava di scrivere un saggio a proposito di

solitudine e letteratura. L’Altissimo Poeta si limitò a

raccomandarci di lavorare con calma e senza perdere la

testa. Ci fece gli auguri da parte sua e della Commissione

d’Esame. I miei compagni d’esame distesero i loro quinterni

dattiloscritti sui banchi e cominciarono a ricopiarne

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Page 100: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

alacremente il contenuto sui fogli timbrati e numerati che

erano stati distribuiti dagli addetti. Il tizio alla mia

destra s’era portato un saggio sulla solitudine di Emma

Bovary, quello alla mia sinistra copiava da un nutrito

mazzetto di fogli sulla cui prima pagina spiccava il titolo:

La solitudine della Montagna Incantata. Mi girai nel banco per

vedere che cosa combinava l’esaminanda alle mie spalle:

scriveva con il fervore di un’indemoniata, e non le davo

torto considerato che si era portata un intero volumetto di

appunti da ricopiare. Non staccava la penna dalla pagina.

Quando si accorse che la spiavo cercò di colpirmi con un

affondo della stilografica. Mi mancò ma una grossa goccia di

inchiostro si staccò dal pennino e volò disinvolta verso le

mie Adidas: una delle due Adidas, la più vorace, spalancò il

tomaio sfibrato e gnam! s’inghiottì la goccia in un baleno.

Nemmeno le calze m’ero cambiato dal giorno della partenza,

realizzai subitamente: doveva essersi sviluppata una bella

fanghiglia là sotto.

Decisi di scrivere un saggio su Henry Miller e su

Kerouac e su tutti i grandi Re della Strada, Wim Wenders e

Rudiger Vogler inclusi. Sì, sapevo bene come affrontarlo

questo tema della solitudine, avevo un paio di cosette da

dire in proposito... Perché mai, cominciai col domandare,

erano tanto soli questi leggendari Re della Strada? Perché

mai l’epopea della soltudine virile era nata proprio negli

Stati Uniti? E poi risposi affermando che la solitudine non

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Page 101: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

è mai una scelta, che l’epica della solitudine non è mai

veramente passata per la testa di coloro che oggi ne sono

considerati i fautori letterari. Scrissi che la solitudine è

la più orribile delle sventure. Che nessun grande scrittore

ha mai cantato gli elogi della solitudine. Che secondo Henry

Miller la solitudine dello scrittore, una maledizione

inevitabile, sta tutta quanta nella parola, la parola parlata

e specialmente la parola scritta, e per quello gli autentici

scrittori amano la vita vera molto più della parola parlata

e della parola scritta. Scrissi che quando la solitudine

corteggia lo scrittore, quando lo tenta promettendo pompe e

circostanze a colui che saprà votarle la propria opera, lo

fa perché rendendo grande lo scrittore che la loda la

solitudine rende gigantesca se stessa, enorme la sua letale

credibilità. E che il preconcetto della solitudine come

requisito del genio letterario era un’invenzione propagata

dalle accademie pantofolaie, dai poeti da esposizione con

tanto di pedigree familiare.

La mia pancia vuota brontolava mentre scrivevo ed io

sognavo un frigorifero pieno di luce eterea ed affettati

misti: forse era un po’ dovuta a questo la perentorietà del

mio discorso... Tant’è: consegnai lo scritto e ritirai in

cambio l’agognato biglietto di ritorno. Mentre mi

allontanavo dal tavolo della Commissione vidi che

l’Altissimo Poeta sovrapponeva alle pagine del mio saggio un

foglio perforato di minuscoli rettangoli distribuiti

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Page 102: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

asimmetricamente: muoveva i rettangoli un tantino verso

destra, un tantino verso sinistra, come speranzoso di

vederci comparire qualcosa di noto. Gli sentii mugugnare a

mezza voce:

“... neppure una delle parole-chiave...” Poi si rivolse

ai colleghi in tono alterato: “Vittorino Surrettizio non ha

utilizzato nessuna delle parole di prammatica!”

Ne avevo combinata un’altra delle mie! Mi precipitai

alla porta di uscita per paura che si facessero restituire

il biglietto ferroviario.

“EHI TU, SURRETTIZIO!” mi urlò dietro l’Altissimo

Poeta, “SI PUÒ SAPERE DOVE HAI IMPARATO A SCRIVERE?”

Richiusi la porta alle mie spalle senza voltarmi né

cercare di replicare. Ma la domanda mi aveva punto nel vivo

e mi stavo chiedendo pure io dov’è stato mai che ho imparato

a scrivere. Se lo avessi saputo avrei volentieri spartito

l’informazione con l’Altissimo Poeta, i membri della

Commissione d’Esame e tutta quella folla di esaminandi:

quanta riflessione inutile gli avrei evitato...

Otto

L’orologio Rolex s’era volatilizzato a Stazione Termini

in cambio delle provviste per il viaggio di ritorno ed un

ricambio di biancheria che avevo indossato nella toilette

del vagone ferroviario. Così per il mio 35simo compleanno

Amaranta mi regalò un orologio al quarzo in sostituzione del

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Page 103: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

vecchio Longines che aveva smesso di girare poche settimane

prima. Mi ero informato da un artigiano orologiaio ma non

conveniva più riparare quel genere di mecanismo, mi spiegò:

adesso c’erano gli orologi al quarzo che duravano finché

duravano e poi si gettavano via. Mi spiaceva rinunciare al

Longines, lo portavo al polso dal tempo delle scuole e

insieme ne avevamo vissute di esperienze simpatiche, ma

sembrava che non ci fosse più nulla da fare.

Questa novità, l’ordigno al quarzo, si chiamava Crystal

come marca ed era prodotto in Marocco. A quel tempo avevano

preso a risalire verso l’Europa dei giovani marocchini che

smerciavano quel tipo di prodotto: passavano di casa in

casa, di porta in porta, si introducevano tanto nelle

abitazioni private quanto nei negozi di gioielleria e

convincevano gli acquirenti con mille argomenti e mille

moine. Che questi giovani marocchini sapessero per quale

verso prendere il cliente era universalmente noto: laggiù al

Sud facevano i mercanti a dorso di cammello molto prima che

noi attaccassimo ad esportare le nostre colonie ed i nostri

imperi. Avevano avuto il tempo di smaliziarsi a dovere,

adesso si piccavano di darci qualche sonora lezioncina a

proposito delle nostre decantate tecnologie leggere. Alla

fine, si diceva in giro, avrebbero occupato il Paese.

Il mio Crystal era garantito per un anno di

funzionamento. Trascorsi dodici mesi l’avrei potuto gettare

via per comprarne uno nuovo. Sul quadrante compariva l’ora

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Page 104: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

esatta in cifre blu, e c’era tra la cifra delle ore e quella

dei minuti un puntino pure blu che pulsava al ritmo del mio

battito cardiaco. Se premevo il pulsante che sporgeva dalla

cassa, le cifre dell’ora esatta venivano sostituite dal

giorno e mese della data odierna. Se premevo il pulsante due

volte consecutivamente, compariva il numerario dei minuti

secondi. Era un congegno pratico e preciso, somigliava alle

macchinette elettroniche di Mastro Birraio, e infatti

impiegai ore e ore, il primo pomeriggio, nell’inutile

tentativo di confonderlo e farlo cadere in errore: non c’era

verso, non sbagliava mai.

Tutto questo manipolare il Tempo, il tempo presente

rappresentato dall’innovazione dell’orologio al quarzo ma

anche in tempo andato incorporato nel vecchio Longines che

ruggine e acciacchi avevano messo a riposo, tutto questo

giocherellare con la misura del Tempo mi induceva a

considerare, era inevitabile, il tempo intero della mia

vita, la vita trascorsa, la vita presente e la vita futura.

Avevo compiuto 35 anni, e mi scoprivo inaspettatamente alle

soglie dell’età adulta. Insieme al fido Longines era la mia

fanciullezza che si eclissava in sordina. Alla mia età

c’erano altri che avevano composto opere durature e

provveduto a lasciare un ricordo indelebile di sé e del

proprio pensiero. Era il momento di darsi da fare, mi

ripetevo insistentemente: prendevo congedo dalla

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Page 105: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

spensieratezza di un tempo, dai giochi innocenti, dai

passatempi.

Amaranta aveva ripreso a battere la città in cerca di

lavoro. Rispolverammo la mappa su cui avevamo tracciato la

ripartizione delle strade in otto dipartimenti a seconda dei

percorsi dei tram e degli autobus. Cominciammo collo

scartare i dipartimenti che sarebbero stati certamente

infruttuosi alla sua ricerca, quelli dove lei aveva trovato

in passato gli studi abbandonati, gli uffici vuoti, le

scrivanie sguarnite, i tecnigrafi rovesciati a gambe

all’aria. Accantonammo gli studi dove sarebbe stato inutile

chiedere qualche incarico perché anche gli architetti che ci

lavoravano si preparavano a disertarli, e gli studi i cui

dipendenti avevano abbandonato volontariamente l’impiego in

cambio del sussidio di disoccupazione, e gli studi dove i

topi si contendevano quel che rimaneva delle attrezzature, e

gli studi dove i pochi disegnatori superstiti cincischiavano

a vuoto sulla carta millimetrata... Le peregrinazioni di

Amaranta dell’anno passato non erano state inutili, tutto

sommato: le risparmiavano adesso un sacco di viaggi

superflui. Concordammo di considerare solamente i due

dipartimenti centrali della città: Amaranta avrebbe

concentrato tutti i suoi sforzi su quella zona. Stimando che

ci fosse una media di otto studi tecnici per ciascuno di

questi due dipartimenti, risultava un totale di sedici studi

dove potevano magari avere bisogno di lei.

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Page 106: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Nel corso d’una singola mattinata Amaranta si

installava a più riprese nelle sale d’attesa di questi

sedici studi, uno alla volta secondo l’ordine topografico.

Ciononostante le rimaneva a disposizione un sacco di tempo

libero: è che non le conveniva calcare la mano con la sua

permanenza in questi studi, dopotutto nessuno ce l’aveva mai

invitata. Alla lunga poteva fare una cattiva impressione, se

fosse sembrata troppo insistente: l’avrebbero presa per una

sfaccendata. Allora decise di rimettersi a completare il suo

portfolio. Imparò a usare l’aerografo. Io le tenevo

compagnia tornando ad acquerellare al suo fianco.

L’inverno era la stagione che ispirava al meglio le mie

velleità pittoriche. Mi venivano spontaneamente fuori certe

grandi vedute opache, certe distese monotone di tetti a un

colore solo, le geometrie delle strade, i cieli d’asfalto.

Il mattino presto sfilava sotto casa la colonna delle

automobili dirette in fabbrica: la scena si ripeteva sempre

identica, senza variazioni apparenti. Ritraevo il tutto

dall’alto, nel ghiaccio elettrico e pesto dell’alba:

frammentavo la veduta con il crepitio snodato di un tram

elettrico in modo da variare la sequenza delle vetturette

Fiat, e spezzare un tantino la compatta avanzata operaia

verso il posto di lavoro.

Stefano e Marilina Kronskij avevano imballato tutto

quanto, libri, vestiti, scarpe, profumi, bambole, medicine,

lenzuola, coperte e trapuntini. La loro stanza era piena di

106

Page 107: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

scatoloni impilati, per attraversarla e raggiungere il letto

o la finestra che dava sul terrazzo bisognava passare lungo

i cunicoli ricavati tra i cartoni.

Da quando avevano finito di imballare le loro cose,

Stefano e Marilina non si cambiavano più d’abito siccome

tutti i capi di vestiario erano stati riposti insieme al

resto: lui sempre la stessa camicia, lei sempre la stessa

maglietta. Quando si fermavano per un po’ in cucina a

mangiare, lasciavano l’ambiente impregnato d’un odore come

di cane bagnato. Forse, pensavamo Amaranta ed io, avevano

fatto male i loro conti, erano stati troppo precipitosi: la

nuova casa in fondo non se l’erano ancora trovata.

La notte dormivano vestiti. Io entravo nella loro

camera, strisciavo carponi lungo i cunicoli tra gli

scatoloni e facevo un inventario di massima per soddisfare

la mia curiosità: 119 scatole, 120, 121... Aumentavano ogni

giorno, certo che ne avevano di roba da spostare.

Il telefono squillava continuamente, sempre per loro

due. Era gente che voleva proporgli un appartamento, un

alloggio ammobiliato, un residence, un bungalow in collina.

Era impressionante questa disponibilità di case sfitte in

città, si sarebbe detto che i proprietari si facevano in

quattro a sfrattare i vecchi inquilini pur di offrire un

tetto ai nostri Kronskij. Eppure tutti sanno che il

tentacolare mondo della rendita immobiliare è spietato e

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Page 108: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

senza cuore: Stefano ci aveva fatto sopra addirittura una

ricerca. Che ci fosse lo zampino del Partito?

Febbraio piccolo e maligno ci pioveva addosso senza

sosta da una settimana quando ci giunse in casa la notizia

del decesso di Lazare, l’analista di Marilina. L’avevano

trovata impiccata al cavetto del telefono, il capo riverso

sul saggio incompiuto che intendeva dedicare alla psicologia

di Marilina.

Di lavoro per Amaranta non se ne trovava, né stabile né

precario, né a ore né a cottimo. Niente di niente. Un

temperamento meno determinato del suo avrebbe finito col

demoralizzarsi. Questi architetti del centro-città, una

cricca di Superboni postmoderni, si somigliavano tutti alla

fin fine. Vestivano così e cosà, i capelli li portavano a

ricciolo col tirabaci in fronte, la erre la pronunciavano

moscia per ragioni di lignaggio familiare. Se non eri uno

dei loro, se ne accorgevano subito e non volevano saperne di

starti ad ascoltare. Amaranta si presentava con quel suo

pestilenziale giaccone operaio e se li inimicava senza

volere: il cuoio del giaccone si distribuiva in scagliette

minute sui tappeti dello studio o gli inzaccherava i

pavimenti a palchetto. Si accigliavano al vedere Amaranta

che arrivava nel loro studio, questi architetti, e si

nascondevano, le facevano dire che erano partiti per un

convegno a Venezia, che avevano lasciato il paese. Lei non

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Page 109: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

si perdeva d’animo, aspettava qualche giorno per non parere

importuna e poi tornava alla carica.

Come sempre, colla fine dell’inverno i seni di Amaranta

tornavano a crescere di dimensioni. Comperò un reggiseno di

seta ad una svendita, un modello passato di moda che la

avviluppava stretta sul davanti, e si provò a metterlo sotto

la maglietta per darsi maggior compostezza quando usciva in

cerca di lavoro. Ma dopo i primi tentativi preferì lasciar

perdere perché con quell’impalcatura acquistava troppo

volume sul davanti. I suoi seni avevano guadagnato qualche

centimetro di circonferenza e le si erano fatti più sodi ed

elastici. La notte dormivamo abbracciati, le sue cosce

all’erta e i piedi prensili come in arcione intorno ai miei

polpacci: la guardavo rivoltarsi nel sonno, dava da pensare

ad una bestia in letargo che succhiava succhi vitali dal

fiore segreto dell’esistenza. Mi aggrappavo alle sue poppe e

mi lasciavo trascinare nel mondo dei sogni.

Quanto a soldi, stavamo sul livello di guardia. Dal suo

lavoro alla Biblioteca della Facoltà di Architettura avevamo

risparmiato sì qualcosetta ma non molto. Bisogna riconoscere

che se i Kronskij avessero sbaraccato sul serio, noi due ci

saremmo trovati in un bel pasticcio, bruscamente privati

delle loro derrate alimentari.

Quest’ultimo inverno era trascorso bene, non ci si

poteva lamentare. Aveva tirato per casa la solita aria

commestibile, il clima mangereccio di sempre. A giorni

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Page 110: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

pareva di stare in una sezione staccata della rosticceria

del rione: i cibi oltretutto arrivavano già cotti per lo più

e non dovevamo neanche darci la pena di cucinare. Di quando

in quando io facevo una capatina in palestra e sudavo via un

paio di chili alla corda o alle barre: bastava appena a

mantenermi in forma, col regime alimentare che ci imponeva

la presenza dei Kronskij. In Gennaio, in occasione

dell’organizzazione della Festa per la Fine del Mondo,

Marilina era stata assunta come Archivista dell’Alto

Commissariato ai Festeggiamenti. E da quel momento i due

avevano smesso di presentarsi in ufficio del tutto. Si

alzavano tardi, sbrigavano insieme qualche pratica urgente,

poi chiamavano la rosticceria e facevano la loro solita

ordinazione principesca, a base vuoi di fagiano farcito,

vuoi di tomini all’olio d’oliva, vuoi di pesce spada in

maionnese. Io aspettavo che avessero finito di ordinare e

sgusciavo quatto nell’androne del condominio, dove

alleggerivo di tutto un po’ il garzone della rosticceria.

Questo ragazzo, si chiamava Luca, era cresciuto di due

annetti e cominciava a coltivare le prime ambizioni adulte.

Di solito non gli sequestravo l’intera ordinazione perché i

Kronskij ordinavano porzioni smisurate e avrei finito col

buttarne via una buona parte. Avevo specializzato il mio

frigorifero en plein air e ci stipavo soltanto più lo

scatolame. Non volevo ritrovarmi, ai primi disgeli, con la

casa allagata di salse e sughetti... Di modo che sovente

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Page 111: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

facevo la ripartizione delle derrate sotto gli occhi di

Luca, questo a me, questo a loro, questo non mi piace,

questo sì. Asportavo una metà all’incirca dell’ordinazione e

l’altra metà lui saliva a consegnarla a Stefano e Marilina.

Dicevo poc’anzi delle ambizioni adulte di Luca.

Ispirato dalla mia pratica dell’esproprio, arrivò a propormi

delle vere e proprie malefatte. Voleva derubare i datori di

lavoro, parlava di svaligiare i magazzini e riempire un

camion-frigorifero colla refurtiva. Io per forza di cose gli

nascondevo di subire il fascino della sua trovata: un

camion-frigorifero colmo di vettovaglie e via on the road!

Cercavo di dissuaderlo insistendo sulla differenza di natura

politica che separa il furto volgare dall’esproprio

proletario. Ma lui si ostinava a volermi come complice e non

voleva vederla questa differenza. Diceva che gli serviva uno

con la mia esperienza.

Poi i Kronskij modificarono ancora i piani di trasloco

e disfarono le casse che contenevano il loro vestiario di

mezza stagione. Recuperarono qualche libro di lettura

immediata e smantellarono la cassa dei medicinali. Stefano

venne a dirmi che adesso per loro due era impossibile

partire, non subito perlomeno. Gli era appena stata

preannunciata la visita del Capo della Città, mi disse: il

Capo della Città in persona sarebbe venuto ad onorarci della

Sua presenza:

“Qui!” esclamò. “In casa nostra!”

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Page 112: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Era una fortuna che lui e Marilina non avessero già

cominciato a traslocare, pensa l’inghippo in cui si

sarebbero ritrovati, disse. Per prima cosa mi spiegò che

dovevamo intervenire sulla condizioni generali della nostra

casa: un’aggiustatina qua e una mano di tinta là, disse, e

ne avremmo fatto la residenza degna d’un funzionario del suo

calibro.

Io non mi opposi alla proposta di rinfrescare la casa.

Quella era comunque una cosa da fare; Amaranta ed io

aspettavamo soltanto che i Kronskij si decidessero a

sloggiare per cominciare i lavori di riattamento. Che ora

noi quattro si facesse una parte della fatica assieme mi

sembrava più che opportuno. Ce la saremmo cavata in metà

tempo, , e ne saremmo usciti con una magione degna dell’Alto

Commissario ai Festeggiamenti. Sai, lo sfarzo! Questi lavori

ci tennero occupati una settimana esatta. Avevamo appena

steso l’ultima mano di tinta i cucina quando venne

programmata la nostra serata in compagnia del Capo della

Città. Nella camera dei Kronskij avevamo stipato, oltre ai

loro bagagli, tutto il ciarpame della casa che non era stato

possibile rifilare alla nettezza urbana. Il resto

dell’appartamento era ridipinto a nuovo, i pavimenti tirati

a specchio, le porte e gli infissi riverniciati. Per tutta

la durata dei lavori i Kronskij avevano dovuto adattarsi a

dormire per terra nel vestibolo. La loro stanza era

decisamente impraticabile, oltre a essere rimasta lurida

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Page 113: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

quanto prima: questa mi sembrava una ragione in più per cui,

passata la visita del Capo della Città, avremmo potuto

accelerare la loro dipartita. Se ne sarebbero

definitivamente andati, pensavo senza boria, lasciandoci

padroni di casa, monarchi incontrastati di una magione dalle

dispense vuote. Le provviste di scatolame accumulate sui

terrazzi potevano durarci sì e no un mesetto: sarebbe presto

venuta la bella stagione ma per me e Amaranta avrebbe

comportato una vera e propria carestia. Non ci sarebbe

rimasto che sperare nella ripresa dell’edilizia e nel

propagarsi a catena dei suoi effetti benefìci: dagli

architetti-tirabaci agli architetti diseredati di periferia,

da questi agli ingegneri-specialisti del cemento armato,

dagli ingegneri ai geometri dei piani regolatori, ai

disegnatori con l’anzianità professionale e il record di

presenze sul lavoro, ai muratori dei cantieri, ai

capomastri, i carpentieri, gli idraulici, gli elettricisti,

i mobilieri, i piastrellatori, gli imbianchini, i tecnici

dei telefoni, degli ascensori, dei termosifoni, dei

citofoni, gli operai dei cementifici, delle fornaci, della

cave di pietra, di marmo, di sabbia, gli apprendisti, i

lavavetri... Una volta toccato questo anello della catena,

si sarebbero agilmente inseriti i grandi nomi del design

nazionale, ovverossia gli stessi architetti-tirabaci di

prima con le loro nuove forme per abitare, le forme per

illuminare, le forme per arredare, le forme per cucinare,

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Page 114: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

macellare, torturare, derubare, speculare, mortificare e via

dicendo. Da Tizio a Caio a Sempronio, il meccanismo di

propagazione della ricchezza si sarebbe mosso necessario e

implacabile, una volta che fosse stato attivato dalla

ripresa dell’edilizia. Nessuno ne sarebbe rimasto escluso,

nemmeno l’ultimo pidocchio nel mondo delle costruzioni

edili, nemmeno noi... Tutto stava a rimanere in vita e

aspettare il nostro turno.

Il Capo della Città venne a trovarci una sera dopocena.

Era un signore anziano con una cresta di capelli candidi, un

personaggio differente da quello che mi ero aspettato. I

giornali quotidiani di solito non parlavano del Capo della

nostra città perché dovevano dare la precedenza al Capo

della Capitale, che era più popolare di lui e partecipava

con passione, era risaputo, ai quiz di indovinelli in

televisione. Così, per ragioni di priorità politica, io non

sapevo che avevamo al governo della città un tipo del tutto

diverso dal Capo della Capitale, un uomo dal viso franco ma

grave, uno che proprio non te lo immaginavi seduto in uno

studio televisivo a sventolare una bandierina gialla o una

bandierina blu a seconda della risposta all’indovinello di

turno. L’accordo con i Kronskij era che loro due avrebbero

recitato la parte dei padroni di casa quella sera, io e

Amaranta quella dei conviventi in procinto di andarsene.

Stefano e Marilina si erano messi in ghingheri per

l’occasione. Lui indossava una specie di marsina con i

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Page 115: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

risvolti in seta nera. I capelli se li era generosamente

imbrillantinati di modo che le borse sotto gli occhi

risaltavano per contrasto come due uova affogate: gli si

rovesciavano contro i lobi delle orecchie al minimo

movimento. Lei s’era truccata stile coquette e aveva

gonfiato i capelli a soufflé. Da parte mia avevo messo un

bel maglione da sciatore. Amaranta portava una gonna

aderente blu, una camicetta bianca e, dietro consiglio mio,

il reggiseno fasciante: la rivedo come se fosse ieri, che

tende la mano al Capo della Città, oscillando discretamente

la morbida fioritura delle sue poppe di stagione.

Il Capo della Città portava giacca, cravatta, jeans e

Adidas da podista ai piedi. Accettò una tazzina di caffé e

cominciò a parlarci della nostra città. Disse che

ultimamente le cose avevano smesso di precipitare, si erano

stabilizzate o in qualche caso si limitavano a smottare ma

non troppo alla volta. Disse che la gente aveva smesso di

perdere la calma, e anche questo lui lo considerava un

piccolo progresso. Si lamentò che però adesso gli abitanti

della città preferivano barricarsi in casa e uscivano

all’aperto solamente nei casi di emergenza. Si lamentò anche

che i suoi subordinati non si facevano scrupolo di

trascurare le proprie incombenze, e pur di non esporsi

all’aria di fuori erano disposti a timbrare a turno i

cartellini di presenza in Municipio. Ad ogni modo non c’era

più la disperazione di prima nelle strade, concluse: era

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Page 116: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

rimasta solo una tetraggine, e una specie di malinconia

collettiva che tormentava gli animi e assillava le menti. Il

suo credo era che bene o male bisognava stringere i denti e

tirare avanti.

Poi la parola passò a Stefano e lui ci parlò della Fine

del Mondo. Disse che a sopravvivere sarebbe stata una

ristretta minoranza, solo i membri del Partito per la

precisione, ma al Capo della Città sarebbe stato concesso di

salvarsi lo stesso. Disse che i sopravvissuti si sarebbero

presto trovati circondati da belve ed enormi topastri, ragni

giganti e radiazioni mortali. Sarebbe stato loro compito

primario bruciare i cadaveri delle vittime, rimettere in

funzione le fonti di energia, fare incetta di armi. I

sopravvissuti si sarebbero rifugiati ad abitare nel

Palazzetto dello Sport, dove avrebbero accumulato i libri

della Cultura dell’Uomo sulle gradinate, al riparo dalle

intemperie.

“Lei,” deliberò rivolgendosi al Capo della Città, “sarà

eletto Responsabile dei Canali di Informazione.”

Un settore-chiave, precisò, quello dei canali di

informazione, perché nessuno potrebbe imporre una dittatura

senza prima impadronirsi dell’informazione.

“Una dittatura sui membri sopravvissuti dello stesso

Partito?” obiettò il Capo della Città.

“E su chi altri, se no?” sbottò Stefano meravigliato,

gli occhi più sporgenti che mai.

116

Page 117: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

“Ma parlatemi di voi quattro, invece,” propose il Capo

della Città rivolto ad Amaranta. “Ditemi della vostra

storia.”

“La nostra è una storia semplice e comune,” esordì

Amaranta. “La storia di due coppie che vivono insieme senza

sapere il perché, che vorrebbero separarsi ma non ci

riescono, che potrebbero separarsi ma non lo vogliono più, e

poi cambiano ancora idea. Due coppie che finiscono

coll’andare avanti per forza d’inerzia, senza motivi

sufficienti per proseguire o cambiare rotta...”

“E ora?” insistette lui.

“Ora siamo finalmente pronti a prendere la nostra

strada, costi quel che costi.”

Pensai che Amaranta si era espressa bene, che io al

posto suo, malgrado lavorassi da tanto tempo a questo

resoconto delle nostre traversie, non avrei potuto dire di

meglio o più concisamente.

Il Capo della Città non replicò alle parole di

Amaranta. Si avvicinò alla finestra, di dove poteva vedere

la fabbrica con la ciminiera a tortiglione e i triangoli

delle vetrate sui tetti, il viale di sotto, le carcasse

delle macchine abbandonate, e il cielo pulito sopra la

città, terso come una lama. Di punto in bianco si sfilò la

giacca, sotto la quale esibiva un paio superbo di ali

biancopiumate. Aprì la finestra, fece un saltino oltre il

davanzale, flop! e prese il volo. Ricomparve brevemente nel

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Page 118: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

riquadro della finestra, sospeso a mezz’aria, per congedarsi

con un cenno della mano e poi schizzò come una molla verso

l’orizzonte. Da quel giorno nessuno sentì più parlare di lui

e si dovette andare alle urne per eleggergli un sostituto.

L’indomani della sua visita in casa nostra i Kronskij erano

andati, armi e bagagli.

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Page 119: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

IIFrigorifero ad alta fedeltà

“È una galleria cieca. Torniamo indietro.”“No, continuiamo.” Avanzò goffamente. “E quella luce laggiù?”“Luce? Non vedo nessuna luce. Dove?”“È la luce dei robot.”

—Isaac Asimov, Io, robot

Torino, 1983

Uno

Amaranta aveva avuto l’idea di un paio di lenti opache

per proteggere gli occhi dalla luce del sole e io l’avevo

accompagnata a provare gli occhiali nuovi. Eravamo andati

nell’ingresso della stazione centrale, quello sovrastato dai

lucernari polverosi e retto da pilastri colossali, e stavamo

seduti contro la base di uno dei pilastri nella luce gialla

e grigia che scendeva dalle vetrate. Amaranta diceva che le

lenti cambiavano il colore della luce, la facevano nera

nera, e coloravano di nero la gente che ci passava dinanzi e

119

Page 120: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

le cose intorno. Il colore nero, diceva, inghiottiva tutto

con rapidità.

L’inverno si trascinava da settimane, era cominciato

molto prima del Natale—gelo a tappeto giorno e notte, senza

tregua. Nessuno in città sentiva il bisogno di occhiali da

sole, non era rimasto nessuno che li portasse dopo la fine

dell’estate. La città, per così dire, stava a occhi nudi;

molti occhi lustri ed arrossati intorno alle palpebre

muovevano con desolata lentezza sugli autobus, per le

strade, tribolati o smarriti, imbambolati dalle

interminabili ore di veglia che intercalavano i turni del

lavoro in fabbrica. Non c’era proprio nessuno che pensasse

agli occhiali scuri in quella stagione. E ad Amaranta era

venuta l’idea delle lenti opache! Amaranta aveva sfrontati

occhi luminosi, piccole pupille agili e indipendenti rese

impudiche, d’una sensualità come sordida, dalla troppa

lucentezza—occhi tanto belli da diffidarne! Questo degli

occhiali neri, io l’avevo capito, era un pretesto,

un'occasione di anonimato: ma non sapevo cosa dirle. Lei si

rannicchiava ombrosa dietro le sue nuove lenti, si

infagottava nel cuoio squamato del giaccone, seduta a piedi

giunti contro la colonna, e io non la vedevo praticamente

più la mia Amaranta, la mia Amaranta di sempre, in quella

luce muschiosa, gialla e grigia. Mi vedevo accanto solamente

quelle due lenti quadrate, salde sul suo viso, sopra il

naso, salde come uno scudo nero, una inamovibile barriera,

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Page 121: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

qualcosa di forte, solido, respingente, che mi guardava

senza vedermi.

Non avevamo una ragione al mondo di passare il

pomeriggio alla stazione ferroviaria. Stavamo parcheggiati

vicino all’anfiteatro ingombro di treni, coll’aria di niente

e in attesa di niente. Eravamo sui trentacinque di età, io

un po’ più, lei poco meno. Trentacinque anni appena, eppure

i ricordi comuni parevano inceneriti, i bei souvenir e le

nostalgie del tempo andato setacciati dalla memoria,

bruciati da tanti errori, macerati, dissolti. Non ci restava

che il futuro.

In quella successe qualcosa. Vidi quattro ragazzi

entrare da uno dei portali trascinando per la collottola un

grosso cucciolo di cane; uno dei quattro lo tirava tenendolo

sollevato per il collare, lo trascinava come si trascina un

fagotto in stazione, senza riguardo per i cocci di lampadina

e i fondi di bottiglia e le pozze di urina in cui andava a

incappare; gli altri tre gli stavano accanto, due di fianco

e uno dietro a coprirgli le spalle, e si impadronivano passo

a passo dell’androne. Quei pochi individui che sostavano

presso i pilastri, donne, vagabondi, ferrovieri e

viaggiatori, si portarono tutti discretamente e con solerzia

nelle zone d’ombra delle navate laterali; parecchi

imboccarono il portale per cui erano sbucati i quattro

giovani e scomparvero inghiottiti dalla pioggia. Fuori

iscuriva.

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Page 122: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

I quattro ragazzi vestivano pressapoco come Amaranta,

salvo che i loro giacconi erano nuovi, imitazione cuoio, e

avevano catene tintinnanti agganciate alle spalline e alla

fibbia della cintura. Portavano i capelli alla paggetto,

vagamente striati di méche bionde. Avevano le dita

incrostate di grasso d’automobile intorno alle unghie.

Malgrado il loro vociare, che rintronava contro le arcate

della cupola, s’era aperta una pozza di silenzio intorno al

loro gruppetto, un invisibile igloo refrattario ai rumori

che si allargava tra i pilastri dell’androne a mano a mano

che i giovani avanzavano tirandosi dietro il cane.

Uno dei quattro estrasse di tasca un paio di forbicine

da unghie, un altro un temperino svizzero, un terzo un

coltello a serramanico, e cominciarono seri seri, come se si

trattasse di un’operazione lungamente premeditata, a tosare

l’animale. Il quarto ragazzo ne immobilizzava le zampe

posteriori con fatica evidente. Si divincolava morbido e

spigoloso, il cucciolo, rivelando una feroce consapevolezza

istintiva delle maniere di sottrarsi ed attaccare, ma i tre

complici continuavano a strappargli via imperterriti ampie

porzioni della pelliccia.

Poco alla volta il cucciolo si abbandonava al terrore.

Guaiva invece di ringhiare, scalciava all’impazzata e,

smarrito il vigore iniziale, si contorceva debolmente;

latrava, mugolava, sintomi questi che stimolavano

visibilmente i quattro ragazzi ad infierire con maggior

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Page 123: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

lena. Ci si consacravano con verbosità ed animazione alla

tosatura, ci si votavano anima e corpo, la scorticavano

letteralmente la loro povera vittima; saldavano certo sulla

pelle del cane i conti in sospeso serbati per chissà chi

altro. Ecco che ora uno dei quattro menzionava ad alta voce

l’episodio d’una vecchia inimicizia di quartiere e zac!

sollevava trionfante una manciata di pelo, a mo’ di scalpo;

un secondo rammentava agli amici quel certo astio

d’officina, quel mai smaltito livore di partito, e via,

whaff! se ne mondava la coscienza con un colpo di lama. La

scena così fanatica, ingiusta, crudele, che io non riuscivo

a credere che fosse meramente sulle vecchie inimicizie che

si accanivano i quattro teppisti, sugli asti trascorsi o

recenti per cui li si sentiva imprecare a gran voce—i

rancori cotti e ricotti della povera gente di città, povera

financo di immaginazione, che non arriva ad amare la propria

brutta miseria, l’indigenza, che nulla arriva ad amare se

non la gamma avvilente di complicità che il bisogno gli

impone di stringere coi ricchi, coi benestanti, sempre a

spese, sempre e comunque, di quelli della propria sorta. No,

era sul mondo intero che quel pomeriggio i quattro giovani

rovesciavano la propria ritorsione, conclusi dopo un momento

di riflessione, sul loro intero mondo di tutti i giorni;

forse si illudevano di scovare in un eccesso di ingiustizia,

nell’ebbrezza di essere loro stessi ad infliggere

l’ingiustizia per una volta, il toccasana alla propria dose

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Page 124: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

di patimento quotidiano, oppure una maniera sbrigativa di

rifarsi a danno del più debole, una scappatoia forsanche

dalla monotonia del sempre-uguale, del mai-niente-di-nuovo.

Guardavo Amaranta che osservava la scena impassibile.

Le sue lenti opache afferravano, perdevano, riafferravano

cialde acquose di luce, dissimulando l’espressione dei suoi

occhi. Ma io riconoscevo il tremolio della bocca e la linea

tirata delle labbra, che si schiudevano ogniqualvolta gli

incisivi mordevano la pelle.

I miei occhi erano invece ben in vista e lacrimavano;

non sapevo dove guardare, come atteggiarmi, esitavo tra

l’alternativa di uno sfogo spontaneo di pianto dinanzi alla

ribalderia di quello spettacolo cruento oppure una

noncuranza ostentata e diplomatica—la maniera di disimpegno,

questa, che fa da sempre, dopotutto, la fama della gente

della nostra città. Ma il mio stomaco si contraeva

gorgogliando, segno inequivocabile della mia paura. Provavo

paura, è vero, una paura maggiore dello sdegno e

dell’imbarazzo di starmene lì seduto contro un pilastro a

guardare la scena, passivo, intanto che i quattro teppisti

scuoiavano o pressapoco quel batuffolo vivo che gli si

dimenava tra la mani. Se mi alzai ed avanzai alla volta del

gruppo dei quattro fu per la paura allora, forse.

I ragazzi avevano le facce truci e le catene della

giacca a portata di mano. Avanzavo senza troppa verve. Le

mie Adidas facevano un rumore bavoso sul pavimento della

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Page 125: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

stazione, come un risucchio frenato, da lumaca, ad ogni

passo, mentre un’occasione tanto impegnativa avrebbe

richiesto il tacchettio delle suole vero-cuoio ed un

incedere spedito e marziale da carabiniere. Non ci contavo

di uscirne bene dall’avventura. Una volta che fossi

penetrato oltre il sipario volatile di pelliccia canina che

dissimulava parzialmente la scena, staccandosi dal gruppo in

fiocchi leggeri, non avrei più beneficiato dell’immunità a

quel che stava succedendo né di qualche forma subdola di

connivenza passiva, mi sarei trovato anzi a rispondere in

prima persona del destino dell’animale—nonché del mio,

naturalmente. Così procedevo riluttante, i piedi torti

all’indentro e il bacino sbilanciato in avanti a causa del

perpetuo dietro-front che abbozzavo ad ogni passo ma non

osavo effettuare.

Dovevo aver sottovalutato comunque la mia prestanza

fisica (oppure furono i tratti particolarmente asimmetrici

del mio viso ad ottenere l’effetto) perché i quattro giovani

se la diedero a gambe al vedermi avvicinare e non ebbi

bisogno di fare le mie ragioni. Raggiunsi la corolla

sbiadita di piastrelle al centro dell’androne e raccolsi il

cucciolo gemente, affondato in una montagnola calda di

pelame.

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Page 126: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Due

Quell’inverno il freddo non dava scampo. I serramenti

di porte e finestre erano troppo tarmati e slabbrati per

offrirci anche appena una parvenza di protezione contro il

gelo che stringeva il caseggiato come una morsa. I muri

tutt’una fessura, c’erano tanti spifferi che filavano

indomiti attraverso gli usci di casa come spiritelli fatui e

mal intenzionati, presenze incorporee occupate a tendersi

trabocchetti e ghermirsi a vicenda: installate al centro di

ogni stanza, certe trombe d’aria sornione allacciavano in un

frullio questi soffi allo sbando e li trascinavano di parete

in parete, dal soffitto al pavimento, in su e in giù. Le

ciminiere della fabbrica di fronte a casa e le bocche delle

automobili in corteo lungo il viale alberato sputavano verso

sera una sbuffata tosta e densa, come un collettivo,

simultaneo sbocco di tosse malsana che oscurava la strada,

si sollevava in cielo per qualche istante e poi cascava sul

tetto del caseggiato col rumore d’uno straccio inzuppato. Di

quando in quando una finestra nel palazzo di fronte si

accendeva improvvisamente ma poi svaniva altrettanto

fulminea—dovuto sicuramente a misure di economia domestica,

questo andare e venire saltuario della luce. Le finestre

comparivano e scomparivano alla vista, era come se l’intero

edificio si divertisse a sorprendere le tenebre di brevi,

irriverenti linguate; gettavano fuori, insieme agli sprazzi

di luce, qualche istante di vita privata, la scena delle

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Page 127: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

famiglie che si preparavano alla notte incombente, assiepate

intorno ai pintoni del barbera. L’oblio operaio calava il

suo inconfondibile ronzio sul rione, sulla città—una

moltitudine livida e remota stava assiepata nei solchi

stretti che separano le case dalla trincea del lavoro

remunerato, dalla inesauribile scaramuccia pecuniaria. Poi

si faceva buio del tutto e le strade si illuminavano di luce

propria: allora la città era sommersa dal salmodiare di

innumerevoli canzoni, un maroso di canzoni che si

inerpicavano lungo le pareti indistinte dell’oscurità, si

spargevano brusienti nel cielo contendendosi fino alle fasce

più irrisorie della modulazione di frequenza, di qui

rovinavano come in risacca sulla massicciata anonima dei

palazzi, sulle antenne riceventi schierate all’insù come una

milizia sconfinata di bellicosi fioretti. Si contavano a

centinaia le lunghezze d’onda radiodiffuse che penetravano

l’intimità degli insonni, degli spiriti afflitti, un muto

boato sospeso al di sopra delle tegole dei tetti che

filtrava nelle orecchie in ascolto e nelle menti in attesa

un messaggio radiofonico di speranza musicale, praticamente

lo stesso ogni notte.

Era da quattro o cinque settimane che conducevo una

rubrica notturna per conto di Radio Blue, una delle maggiori

emittenti private in città. Vi leggevo le storie e le poesie

che scrivevo nel corso della giornata. Tenevo cinque o sei

trasmissioni la settimana, ogni volta che mi andava

127

Page 128: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

praticamente, a condizione che fosse nottetempo. Quelli di

Radio Blue erano venuti a cercarmi e mi avevano assegnato la

rubrica perché, dicevano, gli occorreva qualcuno con dei

racconti che conciliassero il sonno degli ascoltatori; la

verità, io lo avevo capito, è che pensavano che non sapessi

più cosa farmene del mio tempo libero di scrittore e

volevano approfittarne. Io avevo accettato di buon grado la

proposta siccome, considerato il tasso crescente di gente

affetta da insonnia notturna in città, mi sembrava un

incarico delicato e di una certa responsabilità.

Da principio avevo battezzato la rubrica col mio nome,

Vittorino Surrettizio Live, e come sigla avevo adottato Up Patriots di

Franco Battiato. In radio mi avevano dato carta bianca fin

dal principio. Zompavo sul microfono intorno alla mezzanotte

e non lo mollavo più; mi ero scoperto la vena innata del

favolista notturno. Ogni paio d’ore i disk jockey di Radio

Blue—pargoli fanatici di canzonette d’oltremanica, infantili

zucche cave sormontate di capelli spinescenti—mi piombavano

alle spalle per strapparmi la seggiola dinanzi al microfono.

Per lo più me li scuotevo di dosso con un manrovescio,

talvolta cedevo invece e gli lasciavo campo libero per un

po’, il tempo di un intervallo musicale. In fondo, se non

fossero intervenuti loro a farmi smettere, io non avrei mai

trovato uno spunto appropriato di congedo dal mio pubblico:

mi saltava sempre fuori un foglietto d’avanzo tra gli

appunti, una storiella inedita che legava colla precedente,

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Page 129: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

un episodio decisivo da raccontare all’istante, qualche

verso particolarmente soporifero ideato a beneficio delle

orecchie più sensibili. I testi dei miei racconti—storie

alla Dostoevskij, alla Mark Twain, alla Thomas Mann—si

impilavano sul pavimento dello studio e nella dispensa tra

le provviste per gli spuntini, ne conservavo a strati sotto

le scansie dei dischi, nell’armadio tra i cappotti, nello

sgabuzzo della telescrivente. Guai a chi me li toccava! Mi

ripetevo giornalmente che dovevo decidermi a schedarli per

ordine di argomento prima che i topi di Radio Blue li

sottoponessero alla loro critica rodente.

In principio, novellino inesperto delle

apparecchiature, privo peraltro ancora della compagnia

rassicurante del cane Lupo, che si occupò più tardi di

guardarmi le spalle dalle intrusioni dei disk jockey, finiva

che leggevo i miei pezzi a precipizio, la lingua arroventata

dal timore di venire interrotto sul più bello, e così non

riuscivo a riferire tutto quel che mi premeva e dire tutto

il dicibile. Leggevo a singhiozzo dimenandomi sulla

seggiola, facevo delle grandi insalate di storie brevi,

versi, resoconti d’attualità. La tinta complessiva delle mie

narrazioni notturne, il rumore di fondo diciamo, riusciva

fosco nel complesso, oltremodo plumbeo, niente affatto

distensivo e conciliante il sonno come era invece nei voti

della redazione di Radio Blue; paonazzo in volto di fronte

al microfono, le vene del collo mi si imbraciavano e la

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Page 130: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

testa m’aumentava di volume, acquistando una sua sorta di

pachidermica, inquietante leggerezza.

Con l’arrivo del cane Lupo, susseguente all’episodio

nella stazione centrale, avevo cambiato il nome della

rubriva, la chiamavo l’Ora del Lupo adesso, e avevo adottato

uno stile più compassato, da professionista. Prendevo fiato

tra un paragrafo e l’altro, premettevo puntualmente sia il

tema che la durata del racconto che mi apprestavo a leggere,

mi concedevo pause frequenti, variavo il tono e la

musicalità della voce; di tanto in tanto inserivo uno

stacchetto musicale appropriato. Lupo mi affiancava

volentieri al microfono ogniqualvolta non era distratto

dalle sortite dei disk jockey; nient’affatto imbarazzato in

prossimità dei congegni di trasmissione radiofonica,

tossicchiava discreto e disinvolto nell’etere senza farsi

pregare: ... arf, arf...

I miei racconti, ora che arrivavo finalmente a renderli

piani ed intellegibili, narravano di cataclismi locali,

piccole sciagure collettive, di rovine dinastiche e tracolli

finanziari, pestilenze a carattere regionale, epidemie più o

meno circoscritte, flagelli di portata limitata. Che

scrivessi alla Dostoevskij, alla Mark Twain, alla Thomas

Mann, puntavo sempre sull’attualità.

Nel buio dello studio, al di là della vetrata che

guardava al cubo della saletta di regia, credevo talora di

veder emergere, per stadi successivi di luminescenza, il

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Page 131: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

tavolo piatto e regolare della città che mi ascoltava: lo

stretto impacchettaggio sonnolento delle case-dormitorio,

ferme l’una addosso all’altra in lunghe processioni di

porte, muri e finestre, raccolte sotto la cappa notturna del

deliquio operaio per otto ore estenuanti di incubi, di

febbri, di paure. Leggevo i miei foglietti con una voce

fattasi di notte in notte più autorevole. Sillabavo le

parole con disinvoltura e le visualizzavo spandersi alacri

nell’etere come un’armata di spermi: cozzavano contro la

barriera delle porte, dei muri e delle finestre, vi

s’infiltravano in minuscoli drappelli che finivano

accalcati, pigiati in un’unica mistura, un’unica pozione che

sedava della propria zelante vitalità il grottesco ronzio

alloggiato nei cuori.

Da quando c’era Lupo a coadiuvarmi in tramissione ero

molto più soddisfatto del mio lavoro. Lupo ammutoliva

durante gli stacchi musicali, il muso piegato nella stessa

espressione interdetta che gli vedevo assumere sovente

durante le zuffe coi disk jockey esasperati, creature

spigolose che dovevano costituire una novità assoluta nella

sua esperienza di cucciolo. Ammutoliva di colpo ascoltando

Battiato e dondolava in bilico sui teneri artigli. Quando

l’amarezza della lotta contro i tormenti notturni dei miei

ascoltatori si faceva opprimente, lo stuzzicavo un po’, me

lo tiravo di fianco e, tanto per rasserenare l’ambiente, gli

lasciavo sibilare uno dei suoi struggenti uggiolii nelle

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Page 132: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

orecchie degli altoparlanti. La presenza della bestia nella

mia trasmissione dal vivo otteneva credito e simpatia;

l’indice di ascolto dell’Ora del Lupo cresceva

vertiginosamente. Diventavamo popolari in città.

Di notte a Radio Blue c’era un’addetta alla

distribuzione di vivande e provvigioni. Si chiamava Ella,

una brunetta pallida e sinuosa, perfetta come un gioiello.

Era lei a portarmi birra o latte fresco in studio durante la

trasmissione—latte e birra che, insieme al mio tesserino

settimanale del tram, l’economo di Radio Blue rubricava alla

voce: “Rimborsi Spese e Trasferte.” Ero considerato alla

stregua di un collaboratore esterno volontario e come tale

non mi spettava alcuna retribuzione. Non che a me garbasse

particolarmente il fatto di lavorare gratis, ma era pur vero

che se avessi avanzato qualche pretesa quelli di Radio Blue

mi avrebbero messo alla porta senza pensarci due volte, e al

diavolo gli ascoltatori tribolati della notte. Dal punto di

vista della Redazione, indice o non indice di gradimento, io

rimanevo un elemento usa-e-getta, intercambiabile—lo siamo

tutti del resto, nel grande schema della Vita. Che ci fosse

un cucciolo enorme, un cagnaccio di razza indeterminata, a

coadiuvarmi in trasmissione non contribuiva a cambiare i

termini della questione. Io mi sforzavo di prendere la

situazione con ottimismo. Cercavo di convincermi che se in

tutti questi anni non mi era ancora mai riuscito di

smerciare il mio lavoro di scrittore, era troppo tardi

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Page 133: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

adesso per imparare a contrattare sui prezzi. Anche in

questo mestiere notturno senza volto, insomma, bisognava

fare la gavetta.

Non era la prima volta che una questione a carattere

mercantile mi coglieva impreparato. Maneggiare danaro

liquido non è esattamente il mio forte. Sono figlio di

bottegai (droghieri di paese, i miei), eppure sono

cronicamente incapace di vendere checchessia a chicchessia:

non ho niente da vendere, non vendo niente a nessuno. Quello

che però ritenevo di aver appreso con discreta perspicacia

nei trentacinque anni e rotti che avevo trascorso sul

pianeta in qualità di figlio di bottegai (trenta e più anni

passati dapprima al paese natio, perennemente congelato in

quella ghiacciaia di drogheria dalle pareti così spesse che

il calore non le violava nemmeno l’estate, e più tardi

lontano dal paese e dai miei genitori)—quel che ritenevo di

aver veramente appreso era la maniera di discriminare i due

essenziali caratteri antitetici della natura umana,

ovverossia, il versante di chi vende beni al prossimo dal

versante di chi i beni li acquista. A lungo andare mi ero

detto che non c’era scampo, che dovevo fare anch’io la mia

scelta prima o poi tra i panni dell’acquirente e quelli

dell’imbonitore—a meno che, sotterfugio ideale, non trovassi

la maniera di rivestirli entrambi! Per un momento mi ero

illuso, il mese scorso, di aver scovato una terza opzione

insperata nella mia nuova vocazione di favolista notturno:

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Page 134: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

se ne stava rintanata, quest’inedita possibilità, al Vicolo

della Fame, c/o Radio Blue. Un post nient’affatto chic,

credetemi... Uno scantinato stretto e umido, i pavimenti

chiazzati di aureole saline e l’intonaco alle pareti ridotto

ad una carta assorbente smangiucchiata: una vera e propria

catacomba debordante di figuri esili dai connotati scavati,

taluni accalcati con fare borioso intorno al piatto d’un

giradischi, tal’altri appartati con fare smarrito intorno

alle veline di notizie di cronaca tendenziose ed irrilevanti

—un popolo sotterraneo di morti di fame, come non avrei

tardato ad appurare, cammuffati sì, tutti senza eccezione,

dietro la maschera indaffarata del reporter e dell’uomo di

spettacolo, ma soltanto perché la merce di cui trafficavano—

una riserva imponente di fame arretrata!—era del tipo di cui

è più arduo disfarsi.

Tre

Amaranta guadagnava una miseria disegnando barche da

diporto per uno studio sgangherato del centro. Il suo

impiego, part-time, non ci aveva coperto i tre pasti

giornalieri nemmeno prima che si aggiungesse Lupo a pesare

sul bilancio. Fintanto che avevamo condiviso l’appartamento

con Marilina e Stefano Kronskij, convolati a nozze e

trasferitisi di recente, in casa nostra non erano mai

scarseggiate le provvigioni. Marilina e Stefano Kronskij

(lui s’era messo in politica, l’anno prima) erano due

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Page 135: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

buongustai, andavano pazzi per il prosciutto di cinghiale e

il paté di selvaggina; soffrivano di una spiccata

predisposizione masochista però, un’accentuata propensione

morbosa per gli avvilimenti di ordine spirituale, di modo

che non era mai stata impresa difficile alleggerirli delle

loro derrate alimentari—me ne incaricavo io. E va aggiunto

che quanto più infierivo, derubandoli e tartassando senza

ritegno le loro finanze, tanto più grati e affezionati me li

ritrovavo. Ma poi, come succede sempre, la coabitazione a

quattro s’era fatta precaria, ed era venuto il momento di

farli sloggiare. Fino a quel momento, Marilina e Stefano

Kronskij avevano funto per me ed Amaranta da vero e proprio

istituto di beneficenza. Non ignoravamo a cosa andavamo

incontro nel farli sloggiare; di sole barche, lo sapevamo,

che Amaranta ne progettasse pure a iosa, non avremmo campato

a lungo.

Ad ogni modo i due Kronskij avrebbero preferito

rimanere e dapprima non c’era stato verso di smuoverli;

facevano ricorso alla resistenza passiva e ai ricatti

sentimentali, in quello non mancavano di fantasia né di

risorse. Del disutile netto che ricavavano dalla nostra

convivenza, dei costi iniquamente ripartiti non volevano

sentirne parlare; oppure, fatto più grave che curioso, non

se n’erano mai resi conto del tutto. Ma se ne andarono un

bel giorno, e di colpo le scorte alimentari accumulate in

casa, i rifornimenti di prelibatezze di cui li avevo

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Page 136: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

sistematicamente alleggeriti e che tenevo stivati sotto il

letto o nascosti sui terrazzini, presero a scemare a vista

d’occhio; da qual momento non mi si porse più l’occasione di

veder aggirarsi per casa la faccia simpatica del garzone

dello Spiedo, la rosticceria rionale, le cui consegne

munifiche erano state un tempo all’ordine del giorno. Una

settimana dopo la partenza dei Kronskij già lamentavo la

perdita di un chilo tondo tondo di peso. Passarono dieci

giorni e i chili svaniti erano saliti a due. Anche le mie

Adidas, specie quella destra, avvertivano a modo loro la

mancanza dei Kronskij; una bocca deforme gli si spalancò

giusto sotto la punta del tomaio, dalla parte dell’alluce—

aprivano e chiudevano ad ogni passo quella ripugnante cavità

sdentata. Una caterva di boccucce minuscole si distribuì

fatalmente sulla biancheria intima di Amaranta, lisa dai

troppi lavaggi intorno alle cuciture di reggiseni e

mutandine.

Come ogni cucciolo, Lupo manifestava un bisogno

sostenuto di sali minerali per la formazione e

l’assestamento dell’ossatura; ne assumeva a più non posso

nel corso delle nostre passeggiate intorno al caseggiato,

raspando la terra del viale alberato e trangugiandone grosse

zolle senza darsi la pena di masticare. Io pativo

dell’inadeguatezza di questo regime e avrei voluto

provvedere di persona alla sua alimentazione bilanciata, ma

i prezzi dei prodotti dietetici Bayer esposti nella vetrina

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Page 137: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

del Paradiso del Cucciolo, dietro l’angolo, erano

proibitivi. I cani che frequentavano il Paradiso del

Cucciolo per la toilette e l’integrazione alimentare non gli

somigliavano per niente, d’altronde: camminavano altezzosi

in punta di zampa con movenze affettate degli appiombi,

odoravano d’acqua di colonia, e vantavano colonne dorsali

stilizzate come quella di Carla Fracci, prive delle

gibbosità del mio Lupo. Lui era irrimediabilmente diverso;

doveva avere ascendenze selvatiche, di branco. Ciononostante

era un cucciolo pure lui e come tutti i cuccioli abbisognava

in primo luogo del nutrimento appropriato. (Al contrario di

quel che si crede comunemente, affetto ed attaccamento

vengono in second’ordine nel cucciolo rispetto all’esigenza

del pasto giornaliero. Il rovesciamento di priorità

sopravviene con l’età adulta: da adulti è di vitto, non

d’amore, che si è disposti a fare senza.)

Siccome ora aveva anche il cucciolo a carico, Amaranta

s’era messa in cerca di un nuovo lavoro ma intanto, per

sbarcare il lunario, continuava a disegnare imbarcazioni da

diporto in questo studiolo del centro città.

Da parte mia cominciavo a chiedermi con esitazione se

non sarebbe toccato piuttosto a me di trovare un’occupazione

adeguatamente retribuita. Mi ponevo il quesito di frequente,

più volte al giorno, ma finivo sempre col concludere (col

rassicurarmi, diciamo pure) che, rapportati i costi ai

benefici, non concepivo sbocchi accettabili al mio futuro

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Page 138: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

che esulassero dal ramo delle comunicazioni, dal ramo,

insomma, della parola parlata e scritta; tutt’al più,

consideravo, avrei potuto diversificare i miei impegni

radiofonici: forse tentare la strada del disk jockey oltre

che del favolista notturno, o magari, chissà, improvvisarmi

cantastorie, con tanto di organetto e scimmia in spalla. La

radio sta a un passo dalla televisione, si sa... Quali

alternative mi si proponevano? Operaio di fabbrica, no, non

me la sentivo di diventarlo: i grandi spazi funzionali dei

robot alla catena di montaggio, risuonanti del rumore

minaccioso d’acciaio in movimento, frammischiati di macchine

coadiuvanti e rottami di macchine in obsolescenza, affollati

delle tute blu che attaccano col turno e delle tute blu che

staccano col turno, attaccano, staccano, oppure si

avvicendano in coda senza fretta apparente ai tavoli della

mensa aziendale... E tutto un popolo proletario di

trapassati cui rendere conto della tua vita presente, la

sontuosa teoria dei sepolcri operai affondati nella terra al

di sotto della città, le tombe allineate come altrettanti

soldatini di piombo... E poi ancora Carlo Marx, una maestosa

barba bianca infestata di interrogativi d’ordine contabile:

anche a lui sarebbe venuto il momento di rendere conto, di

fare delle scuse, se solo mi fossi mai... No, in fabbrica

non me la sentivo di entrarci nemmeno per il bene di Lupo.

Mi restava l’alternativa del commercio, per dirne una

comica: il campo della libera iniziativa e della

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Page 139: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

sistemazione in proprio. Ma quanto più consideravo

l’eventualità di aprire un negozietto (avrei potuto trattare

generi di cartoleria oppure affiliarmi alla Olivetti, erano

prodotti di cui, come scrittore, mi intendevo bene)—quanto

più consideravo questa eventualità, tanto più mi pareva

buffa, tortuosamente buffa, improponibile. Quando si dice

l’ironia della sorte, l’assurdità dei corsi e ricorsi... A

ben vedere, e a pari reddito, avrei considerato di gran

lunga più dignitosa la carriera dell’impiegato di concetto,

del passacarte. Quest’ultimo gode, in primo luogo, di due

vantaggi indiscutibili sull’operaio di fabbrica, quello

ovverossia della vanità e quello della rassegnazione. Il

piccolo negoziante non può opporgli un granché: su cos’altro

può costantemente contare, il bottegaio, nella profonda buia

intimità delle ore trascorse in retrobottega ad aspettare il

prossimo cliente, nel raccoglimento del silenzio fervido di

colui che non può e non deve mancare il tintinnio della

porta d’ingresso, se non sulla permanenza della

disperazione? Hanno una gravità tutta loro, i piccoli

bottegai, dovuta alla caustica, ingiustificata sofferenza

del loro mestiere. Io questo lo capivo anche troppo bene:

vengo dal ramo. In casa mia, da bambino al paese, si

mangiava coi gomiti sulla tela cerata e si masticava in

silenzio, la bocca piena, per non coprire coi denti il

tintinnio della campanella sistemata sull’architrave della

porta d’ingresso. La sera, prima di dormire, i miei genitori

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Page 140: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

tiravano le somme sul librone maculato della contabilità. Ci

si farcivano la testa, le orecchie e gli occhi, di quelle

colonne impressionanti di numeri (sempre in rosso!) impilati

compostamente a pie’ di pagina. Doveva essere una sorta

perversa di voluttà, pensavo io, ancora bambino, che li

induceva ad esporre notte dopo notte i contorni labili del

sonno alla tortura di quei conteggi. Verso l’alba sentivo

mio padre gemere attraverso la parete che separava le nostre

camere—in preda all’ultimo attacco sferrato dal suo demonio

contabile, stremato sul far del giorno... Anche volendo, non

lo potrei fare il commerciante. Ci sono nato in una bottega,

io. D’inverno.

Per interrogarmi a piacimento sulla faccenda, per

stabilire se avessi o meno commesso un errore nell’adottare

questo cucciolo d’impulso, se il fato non mi avesse così

definitivamente messo alle strette—era soprattutto a questo

fine che portavo Lupo a spasso tutte le notti che non

andavamo in radio, in giro un po’ dovunque, qua e là per la

città. Sospettavo d’essermi compromesso il destino colle mie

stesse mani. Avrebbero retto le mie memorabili velleità

poetiche, i sogni di libertà e indipendenza, alla vita di

trincea di chi si guadagna il pane? Come avrei superato gli

incubi, le febbri, la paura del massacro giornaliero? Uscire

allo scoperto ogni mattino al solo scopo di guadagnarmi da

vivere: ecco un cimento che differivo da anni! Era

specialmente lungo il fiume che me lo rimasticavo in pace il

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Page 141: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

mio bolo di infelicità. Mi sentivo come in obbligo, senza

ragione, di voltolarmici e rivoltolarmici nella mia scorta

segreta di infelicità; me ne facevo carico e me ne

martirizzavo alla maniera di un Grande Inquisito. Intanto

accarezzavo Lupo sulla sua zucca ossuta e aguzzavo gli occhi

alla volta dei casamenti distribuiti sul lungofiume: se ne

stava raccolta dietro i vetri delle finestre, dietro muri e

pareti, la moltitudine sudata dei colletti bianchi e i

colletti blu che mi aspettava al varco, quella stessa massa

dei dannati che di lì a qualche ora si sarebbero alzati,

spinti dalla fame, per scendere in strada al solo scopo di

rimediare qualche briciola.

Lupo, che in casa allora lo si poteva ancora scambiare

per un cucciolo di husky siberiano, per un’indole domestica

insomma (rotondo, molle, pacioso), all’aperto di notte si

trasformava da capo a piedi, non lo si poteva più sfiorare.

Lo si sarebbe detto un altro animale: si teneva

sull’offensiva da far paura, galoppava a filo d’erba tra i

sentieri del lungofiume, si rannicchiava negli anfratti bui

della macchie, strisciava pancia-a-terra nel sottobosco, e

poi svaniva d’un soffio, come se tutte le ombre della notte

convergessero sul suo manto argenteo per assecondarne la

caccia : faceva la posta, ci avrei scommesso, ai fantasmi

delle femmine del branco... Poi rieccotelo all’aperto,

bilanciato di muscolo in muscolo, i tendini trasparenti come

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Page 142: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

radiografie nei riflessi della luce del fiume. Più grosso,

più svelto. Non era più lui!

Quando veniva l’ora di rientrare, Lupo andava a

stazionarsi per un momento vicino all’acqua ferma del fiume

e lanciava certi ullati appassionati alla volta della luna.

La vedeva anche dietro le nuvole lui, la luna.

Quattro

Amaranta spendeva le mattinate a disegnare nello studio

di progettazione del centro e il pomeriggio girovagava in

cerca di un impiego migliore (full-time e a ferie pagate,

possibilmente). La sera, di ritorno a casa, si gettava a

corpo morto sul suo tecnigrafo, gli occhi celati dietro le

lenti opache che ormai non smetteva più, e tirava avanti

fino a notte inoltrata a ridisegnare i progetti di natante

che le erano stati bocciati in giornata dai datori di

lavoro. Mi chiedevo se la faceva per i posteri, la fatica di

sottoporsi a questo inutile tour de force. Io consumavo una

parvenza di cena seduto al tavolo vicino alla dispensa,

osservando in silenzio attraverso la porta socchiusa la sua

schiena tenacemente china sui fogli—come sospesa tra cielo e

terra, la mia Amaranta di sempre, come reclina nel gesto

deliberato di raccogliere su di sé tutto il peso del

silenzio della notte. Salvo il cono incerto di luce del suo

tavolo da disegno, la penombra dilagava dappertutto.

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Page 143: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Dopocena mi occupavo delle faccende di casa. Bisognava

spazzare le montagnole di tenia che Lupo distribuiva per

ogni stanza: vermi tondi o piatti, avvolgibili come

ippocampi, che giacevano aggrovigliati sul pavimento,

fulminati dal freddo dell’appartamento. E bisognava

occasionalmente recuperare da sotto a qualche mobile uno dei

dentoni da latte di Lupo, zanne prive di radice e sbreccate

alla base che gli saltavano via dalle mandibole a mano a

mano che la dentatura regolare premeva per spuntare fuori.

In cosa mai affondasse con regolarità quelle sue fauci per

temprarle tanto rapidamente e favorirne la crescita, era un

mistero che non avrei saputo svelare; il lobo centrale degli

incisivi da latte appariva palesemente livellato rispetto ai

lobi laterali del fior di giglio, prova questa lampante,

avevo letto, di una ricorrente pratica masticatoria da parte

di Lupo, del tutto inspiegabile però—mica lo rimpinzavamo,

in casa.

Quando mi andava, ramazzavo il pianerottolo sulle

scale. Il tubo al neon era fuori uso dal principio

dell’inverno; mi dovevo aiutare con una torcia elettrica.

Talvolta, intento a spazzare il pavimento lercio, quasi non

m’avvedevo del minuscolo ascensore, una bara di quattro

assicelle trainata da parecchi cavi tremolanti, compressa

prodigiosamente nell’esigua tromba delle scale—quasi non lo

vedevo che transitava cigolante, scortato dagli odori di

frittura delle cucine in basso e delle cucine in alto. Ma

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Page 144: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

quando mi accorgevo che arrivava, evitavo di incontrare

collo sguardo gli occhi dei nostri coinquilini, che

lumeggiavano divertiti dietro i vetri della porticina

semovente. Il fatto è che trovavo il pianerottolo

crescentemente ingombro di detriti e pattume. Non appena

venuto a conoscenza del trasloco di Marilina e Stefano

Kronskij, l’amministratore delegato del condominio aveva

istruito l’impresa di pulizie affinché il lavaggio delle

scale venisse limitato al primo piano; aveva argomentato poi

nell’assemblea plenaria di condominio che la decenza di una

casa come si deve traspare, oltre che dal lindore

dell’ingresso naturalmente, dal decoro della prima rampa di

scale, le uniche utilizzate dai visitatori quando l’edificio

disponga d’un ascensore adeguato alla bisogna. Gli inquilini

erano stati invitati a pronunciarsi in suffragio segreto a

proposito di questa iniziativa. Dei tagliandi colorati, su

cui avrebbe scritto un SÌ chi era a favore e un NO chi era

contrario, erano stati distribuiti tra i presenti. Avevano

prevalso i SÌ a stragrande maggioranza. L’anno prima, in

occasione dell’assemblea plenaria in cui s’era deliberato

che la pulizia delle scale coprisse fino al secondo piano,

fino di fronte, cioé, alla porta dell’appartamento che

Amaranta ed io dividevamo ancora con i Kronskij, avevo

creduto di veder passare un blocchetto intero di tagliandi

colorati dalle mani dell’amministratore a quelle di Stefano

Kronskij. Ma potevo essermelo soltanto immaginato.

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Page 145: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Molto più apertamente dell’amministratore delegato

erano però i bottegai dei dintorni a lamentare l’assenza dei

Kronskij dal rione.

Ovino, il macellaio d’angolo, era un uomo di mezz’età

dalle mani molli e biancastre, colla testa inscatolata

dietro un paio di lenti bifocali che gli conferivano uno

sguardo incostante e pieno di guizzi. Ovino, per cominciare,

mi chiedeva con insistenza notizie dei Kronskij,

esprimendosi in maniera svisceratamente complimentosa nei

loro riguardi. E Ovina, la sua signora, appartata dietro il

registratore di cassa, voleva che le dicessi dov’erano

finiti esattamente i nostri due amici (cosa che Amaranta ed

io ignoravamo) e domandava se si trovavano bene dove

abitavano adesso e da chi si servivano per la carne, che se

volevano un nuovo macellaio glielo raccomandava lei. Aveva

quest’abitudine particolare, Ovina, di parlare colle labbra

strette e arricciate, senza quasi articolare i suoni, e

scuotendo nervosamente i capelli radi, che le si disponevano

in una raggera di esili barbigli intorno alle gote.

Pecorino invece, il titolare della rivendita di

formaggi e salumi, non era tipo da formulare altrettanto

schiettamente i propri favoritismi. Si trattava di un

giovanottone dalla pelle lucida e tesa, i capelli lisci,

bruni, servile dietro il bancone eppure obliquamente

risentito nei confronti di tutte le clienti, chissà perché;

teneva le braccia perennemente premute contro i fianchi

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Page 146: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

dello spolverino nella posizione dell’attenti! Pecorino non si

sbilanciava troppo quanto ai Kronskij però assecondava

sempre con compunzione la moglie Pecorina, la quale invece,

quando non era intenta a piluccare dietro la vetrinetta del

reparto insaccati, sosteneva litigiosa che i Kronskij

sarebbero prima o poi tornati a vivere all’ombra della

nostra Parrocchia.

Per ultimo veniva Burbero il verduriere nel suo

magazzino seminterrato, dove d’inverno l’acqua ti saliva

alle caviglie. Burbero si appassionava più degli altri

negozianti alla scomparsa dei Kronskij. Inguainato fino alle

anche in un paio di stivaloni verdi da pescatore, stillante

umidità dalle narici e dalle ascelle, Burbero sosteneva

convinto che Amaranta ed io non avremmo dovuto lasciarli

partire, che la perdita dei Kronskij era una faccenda grave

per tutto il vicinato. I due figli teen-agers di Burbero, un

ragazzo ed una ragazza calzati di gambaletti fluorescenti,

correvano smuovendo l’acqua sul pavimento, che gli sbandava

attorno in piccoli vortici; davano una mano in bottega.

Burbera, la moglie, nascosta in fondo al magazzino dietro

una coltre di luce color bile, coperta di capi in lana resi

pesanti dall’aria fradicia, si limitava a farfugliare

bisbigli e rimbrotti da dietro ai suoi formidabili incisivi

intanto che riempiva la sporta di Amaranta cogli ortaggi

guasti in offerta speciale; la sottana a mollo nell’acqua,

inzaccherata di minute alghe trasparenti, le si allargava

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Page 147: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

intorno come la foglia di una ninfea. Dei negozianti del

rione, Burbera era la più buona con noi.

Certo che si erano affezionati ai Kronskij, questi

nostri bottegai. Non avevo di che biasimarli: parlavano il

dialetto in tutte le sue inflessioni, Stefano e Marilina, e

non lasciavano mai debiti in sospeso. Sapevano come farsi

benvolere dalla categoria dei negozianti. Amaranta ed io, al

contrario, arrivavamo alla fine del mese per il rotto della

cuffia, col nostro nome di famiglia, SURRETTIZIO, impresso a

caratteri cubitali sui quaderni in cartoncino nero che i

bottegai del rione adottavano per annotare i conti in

sospeso. I Kronskij e la loro cortesia fasulla! I Kronskij e

la loro dottrina dei piccoli passi! Non erano che in due,

dopotutto, Marilina e Stefano Kronskij, ma nel nostro

quartiere si erano comportati coll’intelligenza politica

d’un intero Partito. La cosa più difficile da digerire era

stata che con il loro contegno di vicinato ineccepibile,

Stefano e Marilina avevano inimicato a me e ad Amaranta

tutte le botteghe del rione; la gente sapeva che noi quattro

si viveva assieme e, chi più chi meno, tutti erano portati a

fare dei paragoni per stabilire quale delle due coppie fosse

da preferire quanto a onestà e dirittura civica. Dal punto

di vista della solvibilità commerciale, non era una

decisione difficile.

Conservavo impresso nella memoria un episodio anteriore

di qualche mese al mio incontro con Lupo. Un pomeriggio mi

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Page 148: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

era saltato il ghiribizzo di cucinare le suprême di pollo,

un piatto che riusciva particolarmente gradito ad Amaranta.

Ci eravamo accordati di recente con i Kronskij, che

abitavano ancora con noi, riguardo ad un avvicendamento

serale nella cucina all’ora dei pasti: il primo turno

spettava a me ed Amaranta, il secondo a loro. L’elemento

fondamentale per le suprême consiste di due petti di pollo;

quelli li presi a credito da Ovino. Per le uova e il burro

della salsa, avrei utilizzato la scorta dei Kronskij nel

frigorifero. Una piccola riserva di mandorle tostate la

tenevamo sempre nella dispensa in cucina. Non mi mancavano

che il prosciutto crudo e la ricotta; decisi di andarli a

cercare da Pecorino.

In salumeria, qualche massaia arrivata prima di me

faceva la coda per il prosciutto. Era Pecorina a manovrare

l’affettatrice elettrica, alternando lunghe pause a scatti

repentini delle mani, intanto che Pecorino serviva le

clienti all’altra estremità del bancone e badava al

registratore di cassa. Al momento di ordinare i miei due

etti di ricotta, mi soffermai senza intenzione a sogguardare

i capelli bruni di Pecorino che, freschi di parrucchiere e

impomatati alle tempie, gli facevano una testa burrosa e

puntuta, da foca. Pecorino si accorse del mio sguardo.

Soverchiato dal suo solito risentimento, prese a

scucchiaiare senza una parola la ricotta sul piatto della

bilancia; intanto lanciava occhiate infuocate e impermalite

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Page 149: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

alla volta mia e poi alla volta di Pecorina, alla volta mia

e poi di nuovo alla volta di Pecorina. Fu così, seguendo il

diramarsi delle sue occhiate, che man mano lo facevano un

po’ levitare dietro al bancone, che rammentai con

apprensione il prezzo proibitivo del prosciutto crudo—me ne

servivano quattro fettine almeno, sennò che suprême erano?

Ficcai precipitosamente entrambi le mani in tasca e

cominciai a frugare in cerca di soldi. Animandosi e

tossicchiando, le altre clienti si scambiavano adocchiamenti

apprensivi, guardandomi che armeggiavo. Pecorina aveva

frattanto captato i segnali iracondi del marito e metteva su

uno dei suoi micidiali cipigli.

Un momento più tardi scovai qualche spicciolo nella

piega lanuginosa di una tasca; ne accarezzai le graniture

con riconoscenza prima di farmi scorrere furtivamente le

monete nel palmo della mano in modo da contarle senza dare a

vedere. Ma in un niente le avevo contate e ricontate dieci

volte: non bastavano neanche per pagare i miei due etti di

ricotta, figuriamoci il prosciutto crudo! Smisi di contare e

mi portai discretamente verso l’uscita, intenzionato a

filarmela per evitare discussioni mortificanti. In quella la

rastrematura anteriore di una limousine nera si arrestò di

fronte all’entrata della salumeria ed una faccia dietro i

vetri posteriori, resa indistinguibile dal beccheggio delle

balestre, prese a indirizzarmi dei cenni. La portiera si

spalancò e chi spunta fuori dalla limousine con autista se

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Page 150: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

non Stefano Kronskij in persona, vestito d’un completo color

crema con panciotto! Stefano K. entra nel negozio e si da

alacremente a stringere la mano di tutte le clienti.

“Cosa fai tu qui, Vittorino?” domanda Stefano K. nel

suo tono più cordiale.

“Niente,” risponde Vittorino S. “Mi serviva del

prosciutto ma ho dimenticato di portare i soldi—”

“PRONTI!” lo interrompe Stefano K. “CI SONO QUA IO!” E

detto fatto, si tende sulle punte dei piedi, stacca un

prosciutto intero dai ganci del soffitto e lo porge a

Vittorino S.

Io mi sorprendo a tendere spontaneamente le braccia in

avanti e verso l’alto nel momento in cui vedo Stefano K.

afferrare quella specia di clava rossa e gialla e coprire

brandendola i pochi metri che ci separano. È stato più che

altro per difesa istintiva che l’ho fatto, ma a chi mi

coglie in questo frangente a braccia levate dopo che Stefano

K. vi ha depositato il prezioso fardello, devo dare

veramente l’impressione del tipo avvezzo a ricevere

donazioni e offerte a fondo perduto.

Il negozio di Pecorino è a due passi da casa ma Stefano

K. insiste perché accetti un passaggio sulla sua limousine.

L’autista in livrea scende ad aprirci la portiera e al

passaggio di Stefano K. da una sventolata del berretto a

visiera. Quelli del Municipio, mi spiega StefanoK , gli

hanno appena concesso l’uso di limousine con autista.

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Page 151: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Stefano K. è fresco fresco di nomina, a Presidente,

nientemeno, di una nuova Unità Sanitaria Locale. “Molto più

grande della u-esse-elle di prima,” precisa.

Stefano K. racconta queste novità intanto che l’autista

mi deposita dinanzi a casa. Quanto al prosciutto che reggo

in grembo, Stefano K. si raccomanda che ne utilizzi pure

quanto mi pare senza stare a lesinare. Ci penserà lui a

rifilare il rimanente alle cucine del suo ospedale, dice: il

suo nuovo incarico di Presidente prevede un rimborso-spese

per gli acquisti estemporanei.

Aveva un’aria ordinaria malgrado il completo color

crema, Stefano Kronskij, e non l’avrei detto, solo a

guardarlo, che era diventato super-Presidente. Lo si capiva

ad ascoltarlo parlare, però: si capiva chi e che cosa era

diventato dal tono dei suoi discorsi. Parlava prezioso e

cesellato adesso, tutt’una gamma di frasi d’occasione che si

rimestava a lungo in bocca e solo dopo molti indugi e molti

ripensamenti mi travasava nel padiglione auricolare. E...

accidenti! mi dicevo: coi suoi subdoli salamelecchi li

seduceva ad uno ad uno i bottegai del rione, li teneva tutti

in pugno. Bene, se lo meritavano davvero, concludevo tra me,

furente: si meritavano di trovarsi esattamente dove si

trovavano, questi bottegai, al fondo dei recessi della scala

sociale, laggiù nei sordidi gironi cui vengono relegati da

quelli che da sempre pesano loro addosso: là, giù nel fondo,

a farsi schiacciare e calpestare più in basso della terra!

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Page 152: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

La preparazione delle suprême di pollo è lunga e

laboriosa:

Si dorano i petti di pollo nel burro. Si mescola un composto di

ricotta, uova, mandorle tostate sbriciolate, sale, pepe. Si

approntano delle specie di sandwich: il pollo sta nel mezzo,

spalmato del composto e avvolto nelle fettine di prosciutto crudo.

Si inforna a dorare.

Mentre cucinavo disossai dal prosciutto una bella fetta

di polpa e la nascosi, avvolta in un panno di tela, sul

terrazzo che dava nel mio studio. Fuori faceva un freddo che

non vi dico: si sarebbe conservata in eterno. Il resto del

prosciutto lo avrei restituito a Stefano Kronskij a tempo

debito, che diavolo.

Cinque

Non che ad Amaranta facessero difetto le qualità

dovute, questo no. Gliene riconoscevo a iosa, di qualità, e

quando venivo preso dal malumore o da un certo risentimento

mi premuravo di stilarne lunghi elenchi particolareggiati a

mo’ di promemoria. C’era, per fare un esempio quanto

all’aspetto della tenerezza, la camicia da notte che lei

metteva per dormire d’inverno, ricamata di tante ochette

ridicole pettinate alla Gastone Paperone, coi riccioli

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Page 153: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

ondulati in cima al cocuzzolo. E c’era, tanto per menzionare

il resto tutto in una volta, la grande ampiezza mobile,

fragrante e fiduciosamente volonterosa delle anche:

un’imprudenza anatomica avresti detto, una svista generosa

della Bellezza su quel suo torso esile benché modellato con

dovizia. Persino le piccole borse che le erano spuntate

sotto gli occhi da che le toccava provvedere al mantenimento

di Lupo oltreché al mio, donavano profondità alla sua

espressione, tutto sommato; si intravvedevano rare frenesie

navigare agilmente tra le quinte del suo sguardo, con un

brillio intermittente poco discosto dalle pupille.

Ai tempi della mia guerra campale contro i Kronskij,

quando facevo spedizioni notturne nella loro cameretta rosa,

strisciando carponi sul pavimento oppure rimanendomene

acquattato per ore dietro i cassoni semipieni del loro

trasloco (sempre imminente e perennemente rinviato), a

ululare come un dentuto Signore della Notte, oppure quando

mi ritiravo in studio tra i libri col pretesto di scrivere

le mie Cronache del Delitto e Castigo nella Torre d’Avorio, e trascorrevo

la nottata a tamburellare coi tasti della Olivetti portatile

sulle tempie precariamente addormentate dei due Kronskij—

bene, allora sì che mi veniva fuori tutto da solo, a

missione compiuta, l’ardore coniugale con Amaranta, l’ardore

incontenibile. Ma adesso che finalmente i Kronskij li

avevamo sbattuti fuori, i miei lombi languivano e non

trovavo la maniera di ravvivarli. Nei momenti di intimità

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Page 154: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

con Amaranta i contorni dei miei muscoli si facevano vaghi,

la simmetria tronca del mio bacino era compromessa in una

sorta di svogliatezza: qualcosa che non mi riusciva di

riconoscere come interamente mio affiorava, certo, a tratti,

soggetto al bisogno tirannico di impennarsi, ma si svuotava

in un attimo e ricadeva svanendo. Il corpo di Amaranta così

intensamente aperto ai miei bisogni che avrei potuto

annullarmici dentro anche senza ricorrere all’immaginazione,

eppure tutto al mio interno era sbarrato.

È a motivo di Lupo che la situazione si è

momentaneamente sbloccata tra lei e me, intanto che i

rapporti precipitavano con tutti quanti i vicini e in

particolare con i negozianti di generi alimentari del

circondario. Ma da principio furono i maestri della scuola

elementare di quartiere a farmisi l’uno dopo l’altro

acerrimi nemici, senza che io avessi combinato niente per

meritarlo. La scuola elementare era subito di fronte a casa

nostra non appena svoltato l’angolo. Io mi trovavo spesso ad

aiutare i bambini del vicinato nei compiti del pomeriggio, e

tra questi bambini c’erano specialmente i due piccoli che

abitavano nel nostro condominio, due marmocchi di nome

Susanna e Rocky. Siccome era facile trovarmi a casa a tutte

le ore del giorno, Susanna, che era la figlia di un tassista

diurno rimasto vedovo di recente, e Rocky, il nipotino della

nostra ex-portinaia, la quale divideva con lui e la sua

giovane mamma il monolocale di ex-portineria a pianterreno,

154

Page 155: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

venivano sovente su da me in cerca di aiuto. Studiavamo

insieme.

Da quando l’edificio disponeva di un citofono e di un

apriporta elettrico, la nonna di Rocky, sollevata dal

servizio di portineria, aveva cominciato a pagare un affitto

per il loculo che occupava colla figlia e il nipotino. Il

papà di Susanna, invece, era stato sfrattato dal padrone di

casa; avrebbe dovuto andarsene ma non gli riusciva di

trovare un appartamento alla portata delle sue tasche.

Susanna aveva l’ordine di asserragliarsi in casa quando

rimaneva sola dopo la scuola e non aprire la porta a

nessuno, meno che mai a quei bravacci dell’agenzia

immobiliare che volevano appropriarsi dell’appartamento.

Quello di aiutare gli scolaretti della scuola

elementare fu il mio primo errore. Gli insegnanti di ruolo

avvertirono una minaccia al loro ascendente didattico, tanto

più in quanto Susanna e Rocky e gli altri bambini finivano

coll’affezionarmisi più che non al corpo insegnante. C’era

sotto, naturalmente, la questione pedagogica. I maestri

avevano un bel burlarsi di me in aula, chiamandomi perdigiorno

apertamente di fronte alla scolaresca—coinvolgendo a questo

modo anche quei bambini che, non avendomi fino allora

incontrato di persona, salivano il giorno stesso a farmi

visita, intimiditi ma sospinti dalla curiosità di constatare

di persona se riuscivo veramente simpatico come sostenevano

gli amichetti oppure antipatico come sostenevano i maestri.

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Page 156: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Avevano un bel denigrarmi, questi maestri e maestre, e

avevano un bel confutare le nozioni che Susanna e Rocky

apprendevano in casa mia! L’impresa di dipingermi alla

stregua di un ignoramus agli occhi dei bambini riusciva

oltremodo ardua ai maestri perché questi soffrivano di un

punto cruciale a sfavore che avvicinava vieppiù me, anziché

loro, al cuore dei bambini, e consisteva questo tenace

vantaggio del fatto che io non mentivo mai, a nessun bambino

e in nessun caso. Dicevo la verità in tutta naturalezza in

quanto non avevo un posto di lavoro da difendere, non ero

oberato come i docenti titolari, pertanto, dai metodi in

voga della didattica istituzionale, che sono sempre basati

sulla menzogna, l’ipocrisia e la falsità. A differenza degli

insegnanti della scuola elementare, non ero tenuto a

negoziare la permanenza del posto di lavoro né a confidare

nella deterrenza del patteggio sindacale quanto a stipendio

e pensionabilità; insomma non avevo una ragione al mondo di

mentire ai bambini! Dicevo sempre la verità, e la verità, è

risaputo, i fanciulli la registrano d’istinto.

La seconda negligenza da parte mia era stata quella di

fare scrupolosamente gratis quello che facevo per i miei

piccoli amici. L’aspetto remunerativo soprattutto aveva

contribuito a incanalare i dubbi e l’imbarazzo di molti

genitori e la malevolenza scoperta dei più taccagni. Toccò

alle mamme per prima, impensierite oltre ogni dire, ed ai

papà subito a ruota (altamente coercibili, i papà, quanto a

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Page 157: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

faccende educative) di diffondere certe implacabili e

sorprendenti invenzioni sul mio conto, da principio con

discrezione e poi apertamente senza più ritegno: se non era

per denaro che io faticavo insieme ai loro piccoli, allora

era incontestabilmente su qualche mia ribalda e segreta

inclinazione che speculavo, su un secondo fine oltraggioso e

inconfessabile.

Era nelle botteghe del circondario che mi capitava per

lo più di incrociare le vicine, e lì si aveva l’opportunità

di scambiare quattro chiacchiere. Dapprima avvertii l’aria

di complotto nella bottega di Burbero e nella bottega di

Pecorino. Scendevo nel magazzino allagato di Burbero e vi

trovavo le solite massaie pigiate in coda, insieme a Burbero

seminascosto dalle cassette della frutta, a Burbera

avviluppata nei suoi panni zuppi, e al figlio e la figlia

teenagers sempre elettrici; fuori magari faceva buio e

pioveva o nevicava, e dentro al magazzino l’aria putrida e

gli aliti pesanti stimolavano la gente alle confidenze. Non

appena comparivo sulla porta la formazione compatta delle

massaie in coda si scomponeva e queste scoppiavano a gridare

un coro confuso di mille argomenti alla rinfusa, mille

strilli scoordinati. Lupo mi si stringeva accanto e io stavo

fermo sui gradini ad ascoltare senza capirci niente. Le

massaie urlavano in maniera sconnessa come se avessero tutte

smarrito simultaneamente il filo del discorso. Era fin

troppo evidente che intendevano, ciascuna a modo suo,

157

Page 158: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

distrarre la mia attenzone da quel che si stavano confidando

un momento prima del mio arrivo. Ma di cosa poteva mai

trattarsi?

Poi attaccarono col boicottaggio vero e proprio. Un

giorno che ero sceso in salumeria per comperare qualche etto

di prosciutto di coscia, Pecorino si ostinava ad affibbiarmi

il prosciutto di spalla, insistendo che quello di coscia era

finito. Io l’avevo riconosciuta non appena entrato in

negozio, la sua mezza forma di prosciutto di coscia adagiata

sul tavolo del retro, seminascosta dalle tendina, ma

Pecorino negava risolutamente l’evidenza e non voleva

saperne di dare un’occhiata alle proprie spalle; se volevo

del prosciutto cotto, dovevo prendere quel che c’era oppure

andarmene a mani vuote. Intanto Pecorina faceva l’occhiolino

alle clienti in coda e certe altre smorfie di repertorio. Si

intendevano colle clienti a spese mie senza bisogno di tante

parole, i due bottegai—ci voleva poco a capirlo. Riconosco

che in quell’occasione palesai una forma eccessiva di

insofferenza; sbraitavo che la si poteva vedere anche da

dove stavo io, la forma di prosciutto nascosta nel retro, e

che se Pecorino non me ne avesse subito affettata una

porzione come si deve non avrei risposto delle mie azioni. E

poi, visto che Pecorino e consorte rimanevano indifferenti

alla minaccia, passai maldestramente a buttare per aria i

cartoni di latte inquadrati ai piedi del bancone; i cartoni

lambivano il soffitto con traiettorie diverse, urtando vuoi

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Page 159: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

un salame appeso a un gancio, vuoi una caciotta, e si

tiravano tutto dietro nella ricaduta. Ma i coniugi Pecorino

non vollero mollarlo comunque il loro prosciutto di coscia.

Dopo l’episodio del prosciutto mi misi a spiare le

espressioni delle massaie che incrociavo per strada, le

facce che facevano quando mi vedevano, e sebbene fossero

dopotutto le stesse facce di sempre, pure era discernibile

una prevenzione dietro i profili scostanti, rapidi a

scantonare al mio approssimarsi. Non promettevano nulla di

buono quelle facce: per il momento si limitavano a tenermi

d’occhio, i lineamenti induriti, i ghigni sprezzanti, ma

sentivo che alla lunga non si sarebbero accontentate di

restare a guardarmi. C’era sicuramente chi preparava

qualcosa di concreto ai miei danni, c’era sicuramente chi si

organizzava. Col passare dei giorni i malumori del rione si

concentravano a mio sfavore—e io non avevo ancora afferrato

il perché!

Questi erano stati gli antefatti. A peggiorare le cose

salto fuori il caso Des Valois. Uscendo dalla scuola un

mattino i bambini mi sorpresero fermo sulla porta di casa a

conversare con la vecchia Des Valois. Ecclesia Des Valois,

antica diva del melodramma, abitava in uno stambugio

all’ultimo piano dell’edificio, sola e dimenticata da

parenti, amici, ammiratori—due localini che rispondevano più

propriamente alla nozione del reliquiario che non al

criterio dell’ambiente d’abitazione. Amaranta saliva a

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Page 160: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

trovarla di quando in quando, la aiutava in cucina e le

faceva la spesa. La povera donna era tanto ingracilita che

le mancavano le forze necessarie alle faccende domestiche

più minute.

I bambini compresero che coltivavo rapporti di

confidenza con la vecchietta e reagirono senza indulgenza.

Ecclesia Des Valois era mal vista dalla famiglie del

quartiere; gli adulti facevano a gara nello snobbarla

apertamente. Credo che la ragione della sua impopolarità

fosse dovuta alla sua anzianità: era vecchissima e decrepita

la Des Valois, i suoi coetanei dichiaravano di preferire gli

ospizi e non si mostravano in giro, come faceva invece lei

di quando in quando. Un’altra ragione verosimile

dell’ostracismo operato ai suoi danni, ostracismo che finiva

per coinvolgere anche i marmocchi della scuola elementare,

ai quali capitava sovente di mettere la vecchia alla berlina

per strada—un’altra ragione di ostracismo derivava da una

forma obliqua di sollecitudine da parte delle famiglie dei

dintorni, le quali solidarizzavano con la causa dei

discendenti di Des Valois, i quali non avevano modo di

mettere le mani sul patrimonio del casato fintanto che fosse

sopravvissuta la capostipite. Doveva essere senz’altro una

ragione puerile, incoerente, ad occasionare l’isolamento di

cui soffriva Ecclesia Des Valois, immaginavo sovente, uno di

quei motivi labili e strumentali che surrogano i moti

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Page 161: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

spontanei del sentimento e soffocano le esistenze

abitudinarie della povera gente.

L’indomani Susanna e Rocky mi si presentarono per

chiedere con veemenza infantile che giustificassi la mia

amicizia con la Des Valois. Non trovando di meglio da dire,

mi limitai a raccontar loro di quanto trovavo buona e

gentile la vecchietta, e li indussi affabilmente a

riflettere sul fatto (irrilevante di per sé) che la Des

Valois abitava in quel caseggiato da prima che fossero nati

i loro genitori ed i genitori dei loro genitori; poi

raccontai ai due bambini di come col passare degli anni

Ecclesia Des Valois aveva dovuto traslocare di un piano alla

volta man mano che scemava la sua fama, a partire dal piano

nobile dove abitava al momento del massimo fulgore fin lassù

nel cubicolo dell’ottavo piano.

Discorrendo a questo modo di locazioni e genealogie

spinsi inavvertitamente Susanna e Rocky in uno stato di

imbarazzata esaltazione, tanto che non solo si convinsero

prontamente della mia buona fede ma si diedero subito a

brigare e tramare fino a che, nel giro di pochi giorni, non

mi ebbero riconquistato (cogli interessi!) la dimestichezza

dei loro compagni della scuola elementare. Fu un deciso

rovesciamento di fronte. I piccoli del quartiere

svilupparono un’affezione inattesa verso la Des Valois—come

se avessero scoperto d’un tratto la possibilità di spartire

in tanti la medesima nonnina! In gruppi di due o tre,

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Page 162: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

guidati da Susanna e Rocky, i quali giostravano a menadito

tra i cumuli del pattume sulle scale dei piani alti, oppure

manovrando arditamente la pulsantiera dell’ascensore, i

bambini si inoltravano all’ottavo piano recando piccoli doni

innocenti. La vecchietta li accoglieva volentieri a

qualsiasi ora si presentassero, felice di ricevere i piccoli

visitatori ignari dell’etichetta e inconsapevoli della sua

trascorsa grandezza artistica; a volte si azzardava, la Des

Valois, ad eseguire per loro al pianoforte qualche breve

temerario estratto dalle sue romanze favorite, le dita

ossute ancoa agili sugli avori ingialliti della tastiera.

Per l’ora di pranzo i bambini presero l’abitudine di depore

dinanzi al suo uscio dei piattini in cartone colmi di

vivande: pietanze già cotte, polpettine, semolini fritti,

alimenti teneri di facile masticazione.

La voce del trasporto dei bambini verso la Des Valois

fece presto il giro del quartiere, venne alle orecchie degli

adulti. Questi non osavano intervenire apertamente, timorosi

d’essere accusati di crudeltà verso la categoria degli

anziani. In mancanza di meglio gli adulti del circondario si

misero d’impegno alla ricerca del responsabile di questo

stato di cose, risalirono a me in un batter d’occhio. Così i

vicini serrarono ulteriormente i ranghi. Vittorino

Surrettizio non la smetteva di creare fastidi, si prendeva

delle libertà inammissibili coi loro pargoli: non doveva

passarla sempre liscia!

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Page 163: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Ecclesia Des Valois aveva gli occhi luccicanti in quei

giorni, occhi di un’azzurra fermezza luminosa. Talmente

curva e cadente, il viso pallido scosso di tremori come

infantili, ogniqualvolta la incontravamo nell’androne del

caseggiato smangiucchiava tra le gengive sdentate dei timidi

complimenti al mio indirizzo e certe formulette di cortesia

d’altri tempi rivolte ad Amaranta. Io ero in pace con me

stesso, trovavo bene o male delle giustificazioni alle mie

malefatte. (Sono il tipo del recidivo: in quanti me l’hanno

detto!)

Sei

Veniamo alle malefatte di Lupo. Un pomeriggio, di

ritorno da una passeggiata, io e Lupo incappammo in Rocky,

il quale, chino su un piccione accasciato accanto al

battistrada di un’automobile parcheggiata, stuzzicava il

volatile agonizzante per appurarne le lesioni. Noi gli

arrivavamo da dietro, inavvertiti, e fu d’istinto, contando

evidentemente sul fattore sorpresa, che Lupo si gettò sul

piccione e lo divorò in un sol boccone prima che io oppure

Rocky avessimo la prontezza di impedirglielo.

Fu quella la prima volta che ebbi modo di udire

distintamente il risoluto, perentorio clac! mandibolare che

si ripercosse di pelo i pelo lungo la schiena di Lupo, e poi

corse con una sola ampia carezza elettrizzante dal suo

garretto al garrese. L’asfalto della strada diede in un

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Page 164: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

brivido e gli edifici tremarono ritraendosi... e tremò

distintamente, ahimé, il ditino ancora teso di Rocky a un

filo dalle fauci.

Poche gocce di sangue colate dalle mandibole di Lupo

rilucevano sul parafango dell’automobile accanto alla scena

del delitto, ma Rocky non si mostrava scosso più di tanto.

Come per sincerarsi della scomparsa definitiva del piccione,

esaminò doviziosamente la dentatura tuttora digrignata di

Lupo. “Tanto era spacciato comunque quel piccione,” concluse

in un tono rassicurato, andandosene per i fatti suoi.

“L’aveva investito un pirata della strada.”

Malauguratamente Rocky riferì l’accaduto a Susanna, lei

lo raccontò alle amichette, queste alle altre bambine del

quartiere. Assumendo i contorni distorti e ingigantiti che

abbelliscono questo genere di episodio, la storia fece più

volte il periplo del circondario e alla fine approdò ai

genitori e ai maestri della scuola elementare. Dapprima non

si verificò che un’ulteriore recrudescenza della situazione

in mio sfavore, un incattivimento diffuso, che ruotava

intorno al nome di Vittorino Surrettizio colla calma

ipnotica d’un tornado ancora incapace di sfogo. Certi giorni

mi pareva quasi di vedermela cadere addosso, a sbuffate

attraverso le finestre delle terrazze, la rabbia implacabile

dei vicini.

Pecorino e Pecorina erano i più attivi ad ammutinare le

clienti della salumeria contro di me e a divulgare notizie

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Page 165: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

tendenziose sulle imprese sanguinarie di Lupo. Del resto,

argomentavo ininterrottamene tra me e me, tutti i vicini

potevano vederla agevolmente dai loro balconi la nostra

grande terrazza esposta a sud-ovest, dove a metà giornata si

davano convegno molti colombi obesi, sparute tortorelle

impaurite, e certi piccioni appesantiti dal torpore

invernale: come, alla fine, ci ero arrivato io a spiegarmi

la maniera escogitata da Lupo al fine di reperire il

nutrimento che gli abbisognava, facendo piazza pulita di

quei volatili malamente inurbati, così i nostri coinquilini

non potevano di punto in bianco manifestare tanto

meravigliato ribrezzo per le ormai risapute abitudini

alimentari del mio cane. A meno di non voler destare, con

quel loro gratuito risentimento verso l’animale, un sospetto

(più che fondato, come vedremo) quanto alle proprie

intenzioni verso il suo padrone.

Le cose si erano messe in modo tale che non trovai il

modo di esimermi quando mi venne recapitato anonimamente

l’invito a partecipare ad una Tavola Rotonda di quartiere

sul tema: “La difesa della fauna locale: il fattore natura e

il fattore uomo.”

La saletta d’aspetto degli ex-bagni pubblici,

equipaggiata di sedie e panchette, fu prescelta come luogo

d’incontro per la Tavola Rotonda. La sera dell’incontro non

mancava nessuno. C’erano i genitori degli allievi della

scuola elementare assieme al corpo insegnante al gran

165

Page 166: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

completo, c’erano Burbero e famiglia, Pecorino e Pecorina, e

infine Ovino, il solo tra i bottegai locali, quest’ultimo, a

non arrivare sottobraccio alla consorte. (Ovino fu anche

l’unico dei presenti a non prendere partito alla leggera;

bisogna dargli atto che si tenne fuori dalla mischia per

quanto gli fu possibile.) Avevo riflettuto a lungo, la

vigilia, se fosse o meno opportuna la presenza di Lupo alla

riunione, e avevo alla fine deciso di portarcelo più che

altro per motivi precauzionali. Alla peggio, avrei potuto

salvarmi togliendogli la museruola, ma ero determinato a non

ricorrere a questa misura che nel caso estremo in cui

entrambe le nostre vite fossero state seriamente minacciate.

Misura estrema che ad ogni modo non si rivelò necessaria:

considerati i precedenti nonché il risentimento accumulato

dai miei nemici, le cose assunsero una piega affatto

tiepida, tant’è vero che a due giorni dalla fatidica Tavola

Rotonda avevo recuperato l’uso di tutti gli arti e potevo

deambulare non proprio speditamente ma quasi.

(Inoltre, ad esclusivo beneficio mio e di Amaranta,

ebbi modo di confermare, la notte del dibattito, un’ipotesi

che m’ero trovato a vagliare più d’una volta ultimamente,

l’ipotesi ovverossia di una certa mia predisposizione agli

amplessi di natura marziale, consumati in stato di

belligeranza dichiarata. Dopo il mio scontro coll’intera

assemblea, infatti, sentii rinascere prepotente quel barlume

di speranza, quell’instabile tramestio perineale che mi

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Page 167: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

aveva tanto difettato di recente: ebbi modo dunque di

consumare con Amaranta nel corso della nottata uno scambio

affettuoso come da tempo non ne assaporavamo. Ci abbuffammo

di voluttà, smarriti in un bailamme di garze e cerotti!)

Fecero un vacarme memorabile, i genitori dei bambini

della scuola elementare. Ma più di tutti, Pecorino e

Pecorina erano scatenati e la mettevano apertamente sul

piano personale, tirando in ballo i miei conti sospesi colla

salumeria: e naturalmente non mancarono di riferire

l’episodio del prosciutto di coscia che non avevo voluto

comprare, nonché l’aneddoto del prosciutto intero acquistato

dal mio benefattore Stefano Kronskij per levarmi d’impaccio.

Andarono avanti lungamente a riferire di queste vecchie

ruggini nei più minuti particolari: si comportavano come due

oratori che intrattengono un pubblico di sconosciuti, quando

ad ascoltarli erano le stesse persone di sempre, le massaie

cui avevano raccontato perlomeno una dozzina di volte la

medesima versione del medesimo episodio, giorno dopo giorno

in salumeria. A parte le botte che buscai alla fine, il

prezzo più salato lo pagai quella notte in termini di amor

proprio: me ne sfumò un bella dose davvero! Rimasi, per così

dire, in riserva. Da allora ho purtroppo sviluppato una

specie di frenesia quanto all’amor proprio: mi sono messo

cocciutamente a tesaurizzarne. Il che a volte è più

controproducente che altro...

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Page 168: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Di dibattito vero e proprio ce ne fu pochino. Non ebbi

il tempo di entrare a prendere posto nella saletta adibita a

luogo di riunione che i presenti attaccarono a torchiarmi,

scaglionati lungo il perimetro della stanza di modo che mi

trovavo accerchiato, preso tra molti fuochi incrociati di

parole: troppe voci sovrapposte perché mi riuscisse di

mettere a fuoco le singole accuse che mi venivano rivolte, o

domande che fossero, o sospetti, denunce: argomenti tutti

comunque impossibili da replicare, rappresaglie sarcastiche

giostrate instancabilmente in fil di lingua. Difendersi

sarebbe stata fatica sprecata. Zitto zitto, guardavo le

persone che mi si agitavano intorno, guardavo gli occhi che

stralunavano, le bocche che storcevano, le braccia che

mulinavano. Il moderatore del dibattito era Pecorino, il

quale, sollecitato e ispirato da Pecorina, che gli spediva

tante strizzatine d’occhio stringate stringate, mi

tempestava di insulti e tirava continuamente in ballo la

faccenda dei miei debiti. Pecorino formulava solamente una

piccola parte dei propri argomenti a parole. Preferiva

esprimersi coi gesti delle mani, le palme stirate

all’infuori, esercitate ad una mimica elusiva ma assortita e

ricca di risorse grazie alla sua abitudine inveterata di

mantenersi nella posizione dell’attenti! in negozio. La cosa

che mi riusciva maggiormente sgradevole era proprio però la

maniera che aveva Pecorino di rivolgermi quelle sue rare

parole, di spararmele addosso con un rumore intermittente

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Page 169: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

della bocca come di piselli sgranati. Nel mezzo di quegli

improperi Pecorino si interrompeva di botto, palesemente

stupefatto del proprio coraggio, e cercava di assumere un

contegno tornando a far lavorare in silenzio le sue palme

tese.

Pecorina s’era messa in pompa magna per l’occasione

(pellicciotto al collo e manicotto di volpe) e lasciava

trasparire la sicumera di starsene placida a rimirare il

marito che con polso e bellicosità presiedeva la nostra

riunione. Lupo dal canto suo era terrorizzato dalla messa in

scena e moriva evidentemente dalla brama di intervenire con

una zannata risolutoria; io gli strattonavo il guinzaglio a

intervalli, e allora si rincantucciava contro le mie

ginocchia con un’aria decisamente impressionata.

Pecorino impose finalmente il silenzio e a questo

punto, come ad un segnale convenuto, le donne dei bottegai

tirarono fuori da sotto alle seggiole delle grandi sporte

stracolme e presero a vuotarne il contenuto sulle panche e

sul pavimento. La roba che sbucò da quelle borsacce!

Stentavo a credere ai miei occhi: bottiglie d’olio d’oliva,

fiaschi di vino, vasetti d’acciughe, scatolette di tonno,

sedani interi, cavoli e cespi di lattuga, mele, rape, tutto

il necessario per un picnic in piena regola. Mi stava

venendo un’acquolina...! A passettini spediti e le braccia

cariche, i presenti mi si assieparono intorno; tenevano un

fronte compatto, come un battaglione alle grandi manovre. La

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Page 170: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

merce delle sporte l’avevano evidentemente raccolta alla

rinfusa dagli scaffali dei negozi prima di uscire. C’era, è

logico, chi non si voleva sporcare le mani con un farabutto

come me, e c’erano d’altra parte i più avveduti che, restii

a picchiarmi di prima mano per tema di macchiarsi la fedina,

avevano escogitato questa trovata di bombardarmi da lontano

colle derrate del falso picnic.

La gragnola durò un due o tre minuti. Io e Lupo ci

tenevamo rannicchiati sotto la nostra panchetta mentre gli

astanti ci tiravano le cose addosso, dall’alto verso il

basso. Gli oggetti spigolosi, come lo scatolame e i

surgelati, erano i regalini peggiori che potessero pioverti

addosso perché contundevano e laceravano le parti colpite,

mentre i pezzi grossi e pesanti, come i cavolfiori, erano

efficaci soltanto quando centravano le zoni molli del

bersaglio, come lo stomaco o le guance. Irregimentati in un

circolo di postazioni previamente concertate, le facce

irrorate di furia, i papà, i maestri, i negozianti

zagagliavano con metodo i loro proiettili, alternandosi

dentro e fuori ciascuno a turno, dentro e fuori delle bolle

di luce blu che i miei occhi ormai pesti proiettavano sulla

scena tra una scarica e l’altra. Con movenze rapite invece,

pudiche ed avare (una specie di balletto appartato), le

mogli, mamme e maestre si limitavano ad un lancio simbolico

di copertura; impacciate d’ogni sorta di bardatura elegante,

cappellini, velette, medaglioni, lasciavano cadere sulla mia

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Page 171: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

testa vuoi delle uova marce delicatamente frangibili, vuoi

delle castagne secche raggrinzite, vuoi dei confetti e

bonbon. L’avevano presa per una serata di gala...

Se Ovino aveva finito col farsi coinvolgere nella foga

generale, ciò era soltanto dovuto a ovvie ragioni

promozionali e di buon vicinato. Da principio se n’era

rimasto ostentatamente in disparte. Ma alla fine s’era

deciso e m’aveva sbattuto in faccia un paio di grandi

cotolette milanesi, sottili come foglie d’insalata:

posandosi tra la guancia e il lobo frontale, una per parte,

le due fette di carne venata avevano cambiato i miei

connotati nell’istantanea di un mostro. Ma alla fine queste

cotolette s’erano rivelate una provvidenziale maschera

protettiva. In questo frangente imbarazzante, insomma, Ovino

s’era saputo del tutto distinguere dai colleghi bottegai.

Poi io e Lupo eravamo rimasti soli, distesi in mezzo a

tante esigue pozze che al tatto avrei detto d’acqua, di vino

e d’olio misti al nostro sangue. L’aria intorno s’era fatta

aspra e pesante. Amaranta venne a cercarci poco più tardi e

ci ritrovò doloranti, circondati di tutto quel succoso ben

di Dio. Sentii la sua voce che mi chiamava nel buio.

“Amaranta, siamo qui!” gridai. “Sono diventato cieco!”

Mi raggiunse e liberò i miei occhi dalle cotolette che

ci aveva incollato Ovino, poi mi afferrò per le ascelle

coll’intenzione di sollevarmi. Le intimai di non muovermi,

di non toccarmi!

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Page 172: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

“Ma cosa c’è adesso?” chiese. “Ti senti qualcosa di

rotto?”

“No, no! Rotto no!” gridai. “Ma devi correre subito a

casa a prendere delle borse di plastica!”

“Quali borse?” replicò. “A cosa ti servono le borse di

plastica?”

Dovetti ancora spiegarle a cosa ci sarebbero servite

quelle borse. Poi si decise e corse a casa a prendere la

nostra scorta di borse del supermercato.

Mentre la aspettavo mi tirai su da solo e aiutai Lupo a

risollevarsi. Quando lei fu tornata raccattammo tutte le

derrate sparse sul pavimento e ne riempimmo mezza dozzina di

borse, dopodiché Amaranta mi prese sottobraccio per aiutarmi

a rientrare. Nel buio della notte, a passo claudicante,

mentre poche stelle ritmavano di lena la danza vitrea del

cielo invernale, tornavo finalmente, circospetto, all’aria

aperta, alla vita gioiosa di sempre.

Bilancio dell’accaduto: avevamo ricavato dall’agguato

una scorta di provviste sufficienti a riempirci il

frigorifero, la credenza e tutti i ripostigli. E per

sovrammercato, come ho già detto, quella notte prima

dell’alba appurai la mia natura di estroso amante da guerra

guerreggiata; ritrovai come per magia il vigore riposto dei

lombi e gustai l’abbraccio penetrante di Amaranta. Certe

prerogative personali, mi dicevo, tanto vale sviscerarle

quanto prima e tenerle bene a mente: nessuno è perfetto.

172

Page 173: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Sette

All’ora che raggiungevo Radio Blue per l’Ora del Lupo,

l’acqua del fiume non assorbiva che in parte i fanali che

dal grande ponte si sgranano fin sopra la ferrovia e oltre

le insegne luminose delle fabbriche; un duro strato di

freddo perdurava sospeso tra fiume e fanali. Sugli autobus

incontravo soltanto i guaglioni di periferia, quelli che

sono troppo curiosi della vita in centro e non rincasano

dopo il lavoro—fermi in piedi accanto al posto di guida,

seriosi, intenti a consigliare l’autista del mezzo pubblico

sui percorsi alternativi per evitare i bivacchi notturni.

Pattugliavano la città, battevano i corsi da parata,

scrutavano attraverso le finestre accese dei palazzi

signorili, nell’intimità buia degli anditi delle case, nelle

tenebre dei portici intorno alle piazze; finivano tutti

coll’imboscarsi (questo si sa) tra le macchie intorno al

fiume dove certe donne, sole o a gruppi, risalgono gli

argini aprendo le sottane al rombo umido delle onde.

Mezza città rimaneva sveglia ad ascoltarmi adesso,

secondo i sondaggi di gradimento. Ma nel frattempo Radio

Blue era diventata un caravanserraglio: tutti i ragazzini

scontenti fuggiti da casa, i disk jockey dilettanti, i

fanatici di musica rock, gli appassionati di comunicazioni

di massa venivano ad installarcisi in pianta stabile.

Arrivavano con la scusa o magari soltanto l’intenzione di

173

Page 174: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

trascorrere la notte e finiva che non se ne andavano più:

innumerevoli ombre transitorie e fugaci senza identità

formavano piano piano un improprio, abusivo giardino

d’infanzia. Radio Blue era situata nei sotterranei del

Palazzo che vide i natali del primo Re d’Italia. Dai

corridoi su cui si aprivano gli studi di emissione partivano

certi cunicoli che correvano a diramarsi nel profondo delle

fondamenta del centro cittadino. Nessuno conosceva di

preciso l’ubicazione e la vastità del reticolo sotterraneo

ma si veniva a saperne di più man mano che aumentava il

numero degli ospiti clandestini. Questi facevano

esplorazione loro malgrado: quando veniva il momento di

coricarsi, andavano—era giocoforza—a sistemare i sacchi a

pelo lungo le pareti dei cunicoli, e rispuntavano l’indomani

odorosi di piscio e di muffa, impazienti di raccontare le

avventure notturne. Erano storie di topi giganteschi cogli

occhi grandi come macine da mulino, storie di scheletri in

abiti risorgimentali e di tumuli piramidali di palle da

cannone. Il mattino gli studi di Radio Blue si popolavano

dei redattori, giovanotti colla sfumatura alta e la cravatta

a pois che senza dare retta a nessuno si precipitavano sul

tabulato Ansa, mandavano a mente le ultime notizie, e ne

fagocitavano lestamente il testo appallottolato sì da

conservare per sé soli l’esclusiva. Un altro mondo insomma,

questo dei redattori, fatto di personaggi che dormivano a

ore regolari e abitavano a sbafo nella casa paterna. Toccava

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Page 175: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

ancora a me, prima di rientrare verso l’alba, il compito

umanitario di porgere orecchio ai racconti dei pargoli

cunicolari. Qualcuno tra i più piccoli già mi si

affezionava; quand’erano a corto di paradossali eventi

notturni da riportare, se ne inventavano di originali a

bella posta, di affatto incredibili. In diverse occasioni

ascoltai dei cunicolari parlarmi di una ridotta in muratura

su cui era inciso col temperino il nome di Pietro Micca.

Cercavano di rendersi interessanti come potevano.

Da un po’ di tempo in qua andavo in onda in pessime

condizioni fisiche. Ero ridotto a uno straccio. Non mangiavo

e non bevevo. Quando mangiavo o bevevo qualcosa, vomitavo

subito tutto. Non dormivo mai. Mi facevano male le ginocchia

e i polpastrelli delle dita. Perdevo l’udito. Nel nostro

quartiere titava un’aria sempre meno simpatica, e questi

miei erano malori di ordine psicosomatico. Dopo la notte

della Tavola Rotonda i vicini non avevano desistito dalla

mia persecuzione, al contrario: mi citofonavano vituperi in

piena notte, azionavano a bella posta gli antifurto delle

loro automobili sotto le nostre finestre, mi chiamavano al

telefono per dirmi cose turpi e farmi delle minace. Di

giorno, se venivamo sorpresi al’aperto, Amaranta ed io

venivamo bersagliati di palle di neve, una neve resa

particolarmente dura, pressata e lasciata preventivamente a

ghiacciare sui davanzali. E niente più credito nei negozi,

naturalmente! Non era né guerra né pace. Come guerra, si

175

Page 176: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

trattava di un tipo troppo circoscritto di belligeranza per

i miei gusti, che manco attivava le mie prelibate velleità

perineali; e come pace, ecco, il nostro frigorifero era

troppo sfornito dal boicottaggio sul credito per far

somigliare quelli ai giorni pulcri della pace. Diciamo che

era uno stato di embargo inteso a snervarci, a logorarci, a

metterci in ginocchio.

Una di quelle notti mi presentai in radio con due

unghiate profonde scavate sotto gli occhi. Ero depresso e

sfiduciato. Accortisi del mio umore nero, i disk jockey mi

si stringevano intorno proponendosi a turno per la

sostituzione ma io tergiversavo, riluttante a cedere: me ne

rimanevo imbambolato davanti al microfono.

Ella, la vivandiera notturna di Radio Blue, venne a

posare una birra gelata vicino alla mia console. Mi sussurrò

qualche parola di incoraggiamento. Allora mandai in onda la

sigla dell’Ora del Lupo e buttai giù una sorsata dalla

lattina. Mentre la voce di Battiato inondava gli auricolari

della cuffia, la birra invadeva il mio stomaco, si dilatava

e schiumava rintuzzandomi i crampi; scendi scendi, alla fine

la bevanda toccò una specie di fondale dal quale,

stranamente, non accennò la sua solita acida risalita. Ella

mi guardava con aria interrogativa senza smettere un momento

di tormentarsi un labbro coll’unghia dell’indice. Le chiesi

di portare un’altra lattina; finii di bere la prima e

tracannai la seconda. Quando finalmente fui pronto a sfumare

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Page 177: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

la sigla per attaccare col mio monologo in diretta, sentivo

che una nube euforica di bollicine mi pugilava le tempie;

prima di uscirmi di bocca ogni singola parola risuonava

ripetutamente contro le pareti del cranio, comunicandomi un

gran senso ingiustificato di commozione.

Non avevo preparato niente per la trasmissione e

attaccai a parlare a vanvera di tutto un po’. Era la prima

volta che improvvisavo così al microfono. Quanto potevo

reggere a quella maniera, senza uno straccio di copione,

senza un canovaccio? Un mio predecessore era durato una

notta a blaterare versi estemporanei: l’indomani l’avevano

messo alla porta... Ma la birra dava una mano, mi teneva su.

Ella faceva la spola tra lo studio e la dispensa. Lupo era

accucciato sulla soglia, per entrare lei lo scavalcava d’un

balzo leggero. Tra le pause e gli stacchi musicali guardavo

Ella presa ad armeggiare colle linguette metalliche delle

mie lattine, guardavo le sue braccia ingombre di birra

gelata, guardavo il suo spolverino, corto sopra le

ginocchia, bagnato dalle lattine all’altezza dei seni, le

guardavo i polpacci nudi color madreperla.

Dopo una decina di minuti che procedo a questa maniera

sbilenca, un’ispirazione improvvisa mi fa sfilare di tasca

l’ultimo romanzo di Gran Dangolo, che ho comprato quel

pomeriggio in libreria. È intitolato Gabbie e Voliere. Strappo

il cellophane, apro a caso e comincio a leggere ad alta voce

come se si trattasse d’una cosa mia. Da principio la voce mi

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Page 178: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

trema un poco per la novità dell’espediente. Ho la lingua

spessa, allappata dalla birra. Mi sento parlare come da una

grande distanza ovattata. Sto leggendo uno strano passaggio

che parla di semicrome discordanti che alternano le tinte

del racconto, di spazi sonori in cui involucri si lacerano

originando pensieri, sensazioni, sentimenti inediti nel

protagonista.

Scelgo a caso i capitoli, salto di paragrafo in

paragrafo. Qui si dice che la poesia dell’amore non può

morire per opera della sessualità. “Giusto!” grido nel

microfono battendo un pugno sul tavolo. Qui si parla di un

telefono che raglia al di sopra di un televisore acceso;

poche righe più sotto compare lo stesso telefono, a mollo

stavolta in un catino d’acqua. Mi domando se i miei

ammiratori si sono accorti del trucco. Si sente la diversità

di tono? la differenza di stile? Comincio a domandarmelo ad

ogni frase, ad ogni parola: diventa un’ossessione, tra i

fumi dell’alcool. Ma via, che differenza può fare? In quegli

strani momenti tutta quanta la realtà della mia trasmissione

diventa sfuggente e capricciosa; se un attimo prima le

pareti dello studio si erano dilatate per colmarsi di

scampanii, ecco che improvvisamente si ripiegano su se

stesse e mi implodono addosso, scolorate. Di indubbiamente

autentico, vero, solido, non è rimasto che lo sguardo con

cui Ella mi confronta al di là della vetrata.

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Page 179: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Volto pagina e vi trovo un tizio che sta per morire

impallinato. No, viene soltanto ferito. Si tuffa in una

vasca da bagno. La ferita tinge l’acqua di rosso.

Ormai leggo con flemmatica sicumera, a voce distesa.

Ella ammicca. Ci scambiamo molti sorrisi d’intesa. Di quando

in quando lei entra in studio con una lattina fresca; sennò

se ne rimane, bianca e rossa come una mela, oltre il vetro

appannato della sala di regia. Continuo a bere per non

perdere di tono. La vista mi si fa incerta. Ci sono parole

che arrivano ai miei occhi dilatate, ingigantite e distorte,

poi mi si frantumano tra le labbra in una scalinata di

sillabe. Altre parole non sembrano più ingombranti di una

virgola, mi sdrucciolano contro il palato, leggère come

sassolini in risacca.

L’eroe del romanzo di Gran Dangolo si dibatte tra i

trasporti dell’amore e gli azzardi della lussuria. La storia

si fa piccante... Vorrei volare alla fine del libro per

vedere come va a finire. Salto di pagina in pagina, di

capitolo in capitolo. Verso la metà del volume trovo il

protagonista impelagato in una baraonda di exploit sessuali.

Si domanda l’autore: riuscirà l’amore dell’eroina a

trionfare del malcostume sessuale che seduce il nostro eroe?

Mi tiro Lupo accanto al microfono perché allieti coi suoi

latrati il silenzio dei momenti in cui spulcio impaziente le

pagine di qua e di là. Ad un mio cenno ci raggiunge pure

Ella per reggere la mia lattina quasi vuota. Questa lettura

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Page 180: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

improvvisata mi rende lirico... sognante... licenzioso...

Qua bisogna suggerire l’intensità del trasporto che spinge

il protagonista nelle braccia dell’amata. Qua invece bisogna

evocare la tentazione carnale che lo tormenta.

“Birra! Birra!” grido assetato. “Ella, svelta, vieni

più vicino!” E senza darle il tempo di fiatare: “Ella, sei

la mia salvezza!”

Lupo ringhia risoluto dentro al microfono, reso audace,

contagiato dal mio slancio: woff! woff! woff! Ella me la siedo

sulle ginocchia—che me lo regga lei tutto l’armamentario di

fili, pulsanti, cuffia auricolare, libro, lattina... I

capelli dell’amata sono bruni, lisci, profumati: leggo d’un

delirio di baci. L’eroe si ferma ad ogni passo per palpare,

stringere, accarezzare. Lo spolverino di Ella ha mille

fessure: tocco le parti più calde e le più fredde. Ella

sembra contenta. Anche Lupo si dà da fare, le lecca le gambe

nude a rapide lappatine. Poi tutto si fa buio.

... Una notte più buia che non giù in città, un vasto

silenzio in cui arrivavamo a sentire distintamente il cofano

nero del fiume che tremava tra le rive dabbasso. Il buio era

spezzato dalla luce della sua pelle. Dimenticavamo che era

ancora lì ai nostri piedi, la città, tant’eravamo presi

l’uno dall’altra... Ma dopo il buio tornava la luce, sempre

accompagnata dalla stessa domanda: lei non era Amaranta,

questa non era la mia casa, questo non era il nostro letto.

Cosa ci stavo a fare quassù?

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Page 181: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Otto

Ella era orfana di padre e di madre ma i suoi genitori

erano stati ricchi. Le avevano lasciato la casa in collina

dove abitava, uno chalet a due piani con orto e giardino, il

pianoforte a coda che suonava egregiamente, una gran

biblioteca zeppa di volumi rilegati in cuoio, e un armadione

debordante di palle da tennis sbucciate. Apparentemente

avevano trascurato di lasciarle i soldi necessari per

mantenere il tutto. Ella era molto riservata quanto alla

propria famiglia e io evitavo di ficcare il naso.

Si era organizzata delle modeste entrare periodiche.

Come vivandiera notturna a Radio Blue non guadagnava niente,

lo faceva pro gratia artis; erano le lezioni private di musica

che impartiva ai bambini residenti nel villaggio attiguo

alla sua casa che le rendevano il gruzzolo sufficiente per

tirare avanti. La reputazione musicale della famiglia di

Ella godeva di un prestigio evidente in quei paraggi—erano

lontanamente imparentati con Ecclesia Des Valois, mi rivelò

lei.

Una vecchia pensionata di nome Lucia veniva a farle le

faccende di casa, il bucato, le grandi pulizie. Veniva per

antica affezione alla famiglia di Ella, faticava

completamente gratis. E poi non aspettava di meglio che

qualcuno per casa, io oppure Ella, le suggerisse di

181

Page 182: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

piazzarsi davanti ai fornelli delle cucine per sbizzarrirsi

a sfornare in tavola certi suoi speciali manicaretti della

cucina regionale. Quand’andavo di corvé in radio era Lucia,

pensate un po’, a passarmi con fare casuale gli spiccioli

per le piccole spese personali, offerti di tasca propria a

fondo perduto, senza che io ne avessi mai palesato il

bisogno apertamente. Lavorava in perdita, Lucia; mi

ripromettevo di rimborsarla il giorno in cui i miei scritti

mi avessero reso ricco. La famiglia di Ella, mi raccontò un

giorno Lucia, era decaduta a causa di speculazioni

avventate.

Anche a rifare il letto ci pensava Lucia. Mi faceva

sgomberare quando mi attardavo sotto le coperte e sostituiva

lenzuola fresche odorose di spigo a quelle intrise dei

profumi che Ella ed io ci lasciavamo dietro. Di conseguenza,

Lucia era l’unica persona del villaggio a conoscere la

verità sul mio conto: Ella aveva deciso che agli occhi del

vicinato dovevo risultare alla stregua di un cugino, ospite

temporaneo.

A fare la spesa ci pensavo io. Il magazzino alimentare

più vicino, quello dove si serviva l’intero villaggio, si

trovava all’incrocio di due strade in salita attorniate di

qualche casa. Era a mezz’ora di cammino. C’era un servizio

di autobus intercomunale ma a me mancava la pazienza di

aspettare; tagliavo a piedi per i prati, su e giù, una

collina e poi un’altra. Nel villaggio la gente s’era passata

182

Page 183: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

la voce; erano tutti al corrente del nuovo cugino di Ella.

Volevano saperne di più, è naturale.

Scendevo in città con l’ultimo bus notturno. Capitava

sovente che io e Lupo facessimo orari sfasati rispetto a

quelli di Ella, che di giorno doveva occuparsi dei suoi

piccoli allievi di piano. La incrociavamo talvolta mentre

usciva dai sotterranei della radio, oppure ferma in attesa

sotto la pensilina dell’azienda tranviaria, diretta a casa.

Io adesso evitavo di ripetere esibizioni radiofoniche

risqué, del tipo di quella che aveva cambiato la mia vita

elevandomi, per così dire, dal piano al colle; mi premunivo

dalle sorprese, entravo in studio da sobrio, a digestione

avanzata.

Ero contento di rincasare tutto solo con Lupo dopo la

trasmissione. Salivamo di buon passo per la strada

asfaltata, avvolti nello spessore intimo e confortevole del

buio. Discutevo a voce alta con Lupo, gli prospettavo un

bilancio tentativo della nostra nuova vita di collina, mi

premuravo di evidenziargli gli aspetti favorevoli del

cambiamento: cucina buona e abbondante, tanto spazio a

disposizione per scorazzare a nostro piacimento, tutti

quegli scoiattoli che lui si poteva divorare impunemente...

Gli rammentavo di sfuggita l’incidente del piccione di Rocky

e i guai che ci aveva procurato. Questi miei monologhi a

edificazione di Lupo erano interrotti sul più bello dal

rumore di qualche motore nottambulo; l’auto in arrivo

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Page 184: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

divincolava i fari sulla costa dell’altura e poi ci superava

spruzzando di faville la mole malleabile delle nostre ombre,

fattasi incontenibile. Lupo non perdonava l’intrusione:

scagliava latrando il suo corpo agile e pesante in un

inseguimento rabbioso, azzannava i copertoni della vettura,

appioppava qualche craniata decisa contro le fiancate—era

come se dovesse sfogare un qualche risentimento... Ma poi

tornava a marciare al mio fianco come se niente fosse, anzi,

si sarebbe detto che cercasse di contenere il fiatone che

gli scoppiava in petto. Che mi stesse nascondendo qualcosa?

Che stesse soffocando una sua particolare emozione? Provavo

l’impulso irresistibile di tradurre questa sua calma

ostentata in un tacito rimprovero diretto a me e ai discorsi

che mi incaponivo ad ammannirgli la notte. Ma perché mai,

questo bisogno di giustificarmi con Lupo? A che pro

dimostargli, conti alla mano, che il nostro bilancio

quadrava?

Questa era dunque la mia nuova vita insieme a Ella.

C’erano le sue lezioni di musica ai bambini del villaggio,

le mie compere al magazzino alimentare, la gente che si

informava sul mio conto, il paesaggio alto collinare cogli

abeti ricurvi notte e giorno sotto un mantello di neve, e il

silenzio saturo di echi, l’aria buona, le dispense piene.

La domenica mattina Ella ed io facevamo un pupazzo di

neve in giardino. Qualche vicino di casa usciva sul retro e

si sporgeva dallo steccato per guardarci lavorare. Ella si

184

Page 185: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

presentava temerariamente senza calze all’aperto, con

indosso soltanto una sottanina estiva a forma di petalo ed

un maglione di alpaca. Correva sulla neve rincorsa da Lupo,

spiccava grandi balzi figurati tra i cespugli, ad ogni zompo

i seni le sbattevano sul torace o sotto il mento; la gonna

le rallentava la ricaduta aprendosi a mo’ di ombrello. Si

può ben dire che Ella non avesse segreti per quei vicini:

l’avevano vista crescere fin dal tempo ch’era glabra come la

statua d’un putto. Non la perdevano d’occhio e, ci avrei

giurato, le volevano sempre più bene.

Avevamo un letto enorme al secondo piano, un due-per-

due King Size. Ella saliva a salutarmi non appena ero

sveglio; la tazza fumante del caffé, la musica liscia e

amichevole dello stereo, le sue parti bianche che

cominciavano subito a rotolarmi intorno, sempre più vicino,

e si moltiplicavano sgambettando... Niente tendine in camera

né tapparelle o persiane! C’era quest’immensa vetrata che

non si poteva oscurare in alcun modo. Richiamati dal cigolio

del letto, i vicini si piazzavano alle finestre delle loro

villette e restavano nascosti dietro le ante a spiare. Le

parti di Ella si facevano più bianche a mano a mano che io

strisciavo incontro al suo centro—riempivano la stanza di

riflessi indigo e madreperla. L’identità del cugino di Ella

suscitava i primi dubbi.

Ella aveva un dono speciale, misterioso, tutto suo, di

provocare una sorta di concentrazione collettiva, un

185

Page 186: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

raccoglimento di condiviso intenerimento genitale. Quante

volte l’avevo osservata in radio! Capitava che nel gesto

disadorno di sfilare la maglia dal collo o di scalciarsi via

le Superga dai piedi o di pizzicarsi gli zigomi per

colorirli, sintonizzasse con il suo il cuore di estranei,

visitatori occasionali, intrusi e curiosi. Adesso nel letto

con me, noncurante, sventata, dimentica dei suoi progetti di

discrezione, gonfiava il petto nudo contro lo sterno,

scompigliava i capelli, contrastava inarcandosi la chioma

pesante colla massa puntuta dei seni. E a me... A me

rimaneva una paura costante, quella di vedere l’avvenenza

prestante di Amaranta, la sua affusolata bellezza ancillare,

trasfigurarsi un giorno nelle curve cespugliose della

collina—il silenzio innaturale di rivalsa che avrebbero

acquistato le positure familiari del suo corpo, una volta

trasportate tra le nevi di quassù...

Nove

Una di queste giornate piovose me ne stavo chiuso in

casa a scrivere. Abbozzavo sulla IBM elettronica di Ella un

racconto da leggere l’indomani notte nell’Ora del Lupo.

Scrivevo a ritmo discontinuo perché avevo deciso di

esplorare un genere nuovo per me, quello delle storie

umoristiche. Basta colle solite vicende cupe! Ne avevo

abbastanza della cronaca delle mie traversie! Quella era

roba che si accordava meglio col passato, coi miei trascorsi

186

Page 187: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

vita da travet di pianura. Adesso volevo farli ridere i miei

ascoltatori. Dopotutto, mi ero ricavato una situazione

niente male qui in collina. Mettevo su peso e scordavo i

vecchi problemi. Prendevo parte finalmente anch’io al coro

festoso del Creato.

Stavo tamburellando spensieratamente sulla tastiera,

trasportato da un certo qual estro, quando sollevai gli

occhi e intravvidi attraverso la finestra un fantasma

grigio, infagottato in un pastrano, che vogava due grosse,

inconfondibili ginocchia nella neve del giardino. Chiunque

altro mi sarei aspettato di veder comparire così di punto in

bianco nel giardino di Ella salvo lui: Stefano Kronskij!

Staccai le dita dalla IBM, indeciso sul da farsi. Stefano K.

attraversava la neve in diagonale, fuori del tracciato del

sentiero, mentre la sua scia di orme si riempiva

rapidamente di acqua alle sue spalle. Non mi andava di

affrontarlo. Ero sul punto di incaricare Lucia di riferire

che non c’era nessuno in casa. Ma ci ripensai.

Lucia aveva introdotto Stefano K. nel vestibolo. Anche

dallo studio potevo sentire come lui si dava già da fare per

divertirla ed ingraziarsela: le dava del tu parlando in

dialetto, le raccontava qualcuna delle barzellette riservate

ai suoi subordinati, faceva il galante. Poi Stefano K.

comparve sulla porta dello studio e prima di mettersi a

sedere propinò pure a me qualcuna delle sue cortesie

diplomatiche.

187

Page 188: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Era venuto a proporre un armistizio. Aveva sentito dire

che avevo finalmente rotto con Amaranta. Lui approvava in

tutto e per tutto la mia decisione. “Non era la donna giusta

per te. Un caratteraccio che ti rovinava l’esistenza.” Io

non mancavo di stoffa: lui era convinto che sarei potuto

riuscire in qualsiasi campo di attività. Questo impegno

della radio, com’è che si chiamava...? Radio Blue, sì—era

solamente un ripiego per me, non ne dubitava. Marilina

diceva sempre un gran bene di me, la notte aveva nostalgia

del ticchettio della mia macchina per scrivere. Cosa ne

pensavo di andare a cena da loro, una di queste sere? Potevo

portarci anche la mia nuova amica, avrebbero fatto la sua

conoscenza. Era stata una serie di malintesi ad

allontanarci... No, non dovevo giustificarmi, lui e Marilina

lo sapevano che era stato tutto per colpa di Amaranta. Io

invece ero un tipo dolce di carattere, tutto sommato.

Frattanto Stefano K. si avvicina a Lupo e comincia ad

accarezzarlo contropelo, assorto nelle sue chiacchiere,

senza avvedersi della cresta di crine che freme sulla

schiena a contatto delle sue palme. Se c’era una cosa che

Lupo non mandava giù...

Ora con un sospiro Stefano K. aggrotta la sopracciglia

e si mette a parlarmi della Fine del Mondo. La Fine del

Mondo, dice, è il motivo che lo ha indotto a venirmi a

trovare quassù in collina. Ha consultato una cartomante di

recente: è assodato che sopravviveremo solamente in tre—lui,

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Page 189: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

io e Marilina—circondati di belve impazzite, ragni

ciclopici, radiazioni multicolori. Bruceremo i cadaveri

delle vittime in grandiosi falò all’aperto per evitare il

contagio, riattiveremo le dighe e le altre fonti di energia,

generatori nucleari inclusi, faremo incetta di armi. Ci

trasferiremo ad abitare nel Palazzetto dello Sport—20.000

posti a sedere—dove accumuleremo i libri sottratti alla

distruzione. Gradinate piene di libri, dice, i libri della

Cultura dell’Uomo.

“Tu, Vittorino,” delibera, “sarai il responsabile

plenipotenziario dei canali di informazione.” Un settore

chiave, dice, perché nessuno potrebbe imporre una dittatura

sui superstiti senza prima ottenere il controllo dei media.

“Nessuno dei tre sopravvissuti, intendi?” domando.

“E chi altri, sennò?”

Ho come un senso di déjà-vu. Gli chiedo se ha finito di

parlare oppure se ha qualcos’altro da dirmi. Quanto alla

cena a casa loro, possiamo sempre metterci d’accordo per

telefono. Stefano K. si fa confidenziale e comincia a

inquisire a proposito del mio reddito attuale. Guadagno

abbastanza a Radio Blue? Lui teme di no. “Adesso non c’è più

Amaranta a mantenerti. Non è per caso che ti fai mantenere

da questa nuova signorina—ho scordato, com’è che si

chiama? ... Ella, sicuro—Ella: me lo avevano detto che ha un

bel nome.” Mi farebbe piacere ragranellare qualche soldino

extra, un po’ di argent de poche?

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Page 190: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Taglio corto dicendo che mi farebbe piacere eccòme. Gli

propongo di raggiungermi in radio una di quelle notti per

parlarne con calma. Adesso ho una montagna di cose da fare,

soggiungo additandogli la IBM accesa sul tavolo. Dico che

approfitteremo della sua visita in radio per fare un giro

negli studi e gli mostrerò gli impianti di emissione. Prima

di congedarsi vedo che si annota l’indirizzo di Radio Blue

sul taccuino degli appuntamenti.

Una volta che Stefano K. se ne fu andato, spensi la IBM

e rilessi concitatamente le prima pagine del mio nuovo

racconto umoristico. Arrivato al fondo dovetti assicurarmi

che i fogli non si fossero mescolati in ordine sparso, poi

rilessi il tutto da capo, oppresso da una premonizione...

No, non mi ingannavo: avevo scritto una storia che metteva

una tristezza da morire! Come avevo potuto illudermi di far

fidere i radioascoltatori colle mie trovate, con un racconto

del genere? Come avevo potuto illudermi di riciclarmi e

diventare umorista? Accartocciai il mazzetto dei fogli

dattiloscritti e li cestinai. In fondo in fondo, diciamolo,

io me lo sentivo che non c’era niente da fare. Mi ero

trasferito dal pianoro alle alture coll’intenzione di

snobbare una volta per tutte il demone del mio destino,

seminarmelo alle spalle e diventare un uomo nuovo, un blasé

ben introdotto nel mondo chic alto-collinare. Beh, non c’è

che dire, era il mio destino, non io, ad avere la stoffa

dell’arrampicatore: era salito fin quassù per rintracciarmi—

190

Page 191: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

s’era presentato sotto mentite spoglie, aveva

temporaneamente assunto le fattezze del mio ex-coinquilino,

ma io l’avevo riconosciuto subito!

Poco più tardi scendevo in città coll’autobus del primo

pomeriggio e andavo a camminare nei miei vecchi paraggi. Lì

intorno la neve era sparita quasi del tutto, restava

solamente tanta acqua raccolta nelle porosità dell’asfalto.

Me ne ero andato da appena qualche settimana, ritrovavo il

vicinato pressoché immutato. Forse soltanto l’aria era

cambiata, un tantino più buia di prima a causa del malumore

che pesa su tutti i quartieri in tempo di Carnevale.

Attraversando il corso davanti alla pasticceria del rione mi

sorpresi a considerare quanto rapidamente fosse aumentata la

taglia di Lupo in questo breve intervallo di tempo;

confrontai mentalmente l’immagine che ne serbavo dalla notte

del mio vacillante trasferimento alla collina con la belva

possente che mi stava di fianco adesso, gli occhi due

tizzoni. La trasformazione era innegabile. Lupo mi

restituiva lo sguardo, e io ero tentato di immaginare che

pure lui stesse facendo considerazioni analoghe—anche io

avevo acquistato in peso e in colorito, dopotutto.

In strada, tanto cambiati, avevao incontrato Susanna e

Rocky. Susanna s’era fatta una donnina—e sì che non n’era

passato troppo di tempo dall’ultima volta che l’avevo vista.

Rocky aveva messo su una faccia più larga, piatta e

quadrata, da boxeur suonato. La comparsa delle loro

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Page 192: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

personcine in via di rapida espansione rendeva eclatante per

contrasto il perdurare immutato del rione. Adesso Susanna e

Rocky volevano sapere dove ero andato ad abitare, chiedevano

per quale ragione avevo lasciato il quartiere e come mai

Amaranta era rimasta lì invece. Io rispondevo evasivo.

Tergiversavo.

I due bambini si offrirono di fare un po’ di strada

assieme a me e Lupo. Io mi preoccupavo che qualcuno mi

riconoscesse in loro compagnia e spargesse la voce del mio

ritorno. Ero indeciso sulla direzione da prendere. Parlavo

poco. A un certo punto Rocky, esasperato dal mio silenzio o

forse dalla mia reticenza di poco prima a giustificare la

mia scomparsa dal vicinato, estraeva di tasca un minuscolo

cacciavite a stella e senza parlare, incurante e metodico,

si metteva a pugnalarmi all’altezza del braccio destro. Io

lo lasciavo fare senza reagire. Lupo abbozzava una mossa di

intervento in mia difesa ma riuscivo a bloccarlo in tempo.

Diverse venuzze rosa e blu mi si crepavano al di sopra del

polso e prendevano a zampillare vivacemente sull’asfalto.

Susanna attendeva con pazienza che Rocky si fosse sfogato,

poi gli toglieva di mano il cacciavite dandogli un buffetto

insofferente sulla guancia.

Mi sono tamponato la ferita alla meglio dopo aver

ottenuto in prestito il fazzoletto di Rocky, che ne aveva

uno in tasca, quasi pulito. Giunti allo slargo dei semafori

abbiamo finito per separarci, i due bambini diretti a casa,

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Page 193: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

io alla fermata del bus. Susanna ha ancora fatto dietro

front, mi ha rincorso fin sotto la pensilina del bus per

dirmi che aveva avuto brutti voti in storia e geografia.

Sarei andato ad aiutarla quando mi fossi ritrovato a passare

da quelle parti? Dovevo comunque tornare per restituire il

fazzoletto a Rocky, no?

Dieci

Il figlio maggiore dei vicini, Orsetto, un biondo col

baffo a righino, era il più solerte ad accorrere in giardino

quando si trattava di ammirare il passo sciolto di Ella e le

sue giravolte nella neve, o ad occhieggiare dietro le

tendine della finestra quando dal buio della nostra camera

da letto la mappa tremula della schiena di Ella si dava a

copulare colle brume del mattino.

Tempo addietro Orsetto si era diplomato in danza

moderna all’Istituto Nijinski di Roma; di recente, uno zio

immanicato alla Scala di Milano gli aveva ottenuto

un’audizione col corpo di ballo del Grand Théâtre di

Ginevra. Ella e Orsetto erano stati amici d’infanzia finché

le due famiglie non avevano rotto i rapporti a causa della

débâcle finanziaria dei genitori di lei, dopodiché Ella era

stata bandita dalla casa di Orsetto. Era la stessa storia,

veramente, con tutti gli altri vicini: la trattavano con i

guanti (in molti quassù l’avevano vista nascere, e poi

adesso, a ventun anni, opulenta e magnifica, chi poteva

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Page 194: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

resisterle?), ma si profilava un’incessante condiscendenza,

una sufficienza, dietro il garbo di quella élite.

Ella non amava parlarmi dei vicini e in particolare

evitava di far riferimento alla famiglia di Orsetto, che era

stata in rapporti di particolare intimità colla sua; quelle

rare volte che si confidava con me a proposito del vicinato,

metteva nel discorso una punta di acredine che non le si

confaceva, come se covasse in fondo all’animo un qualche

proposito di rivalsa. Finché un giorno, colla scusa di

fargli incontrare il cugino Vittorino, Ella invitò Orsetto

per il the delle cinque. Io non ne sapevo niente.

Quel mattino ero uscito a camminate con Lupo intorno a

mezzogiorno. Al ritorno nel pomeriggio m’ero subito accorto

dell’atmosfera inconsueta che aleggiava per casa. Lucia ci

era corsa incontro per dare una vigorosa strigliatina a

Lupo, che altrimenti, come al solito, avrebbe infangato il

pavimento. Le luci del tinello erano tutte accese e arrivava

un brusio di parole dal salotto buono: riconobbi la voce di

Ella e due altre, d’un uomo e d’una donna, che conversavano

vivaci. Ella parlava in tono pétillant, l’altra donna

assentiva un sacco, a monosilabi squillanti, e la voce

maschile protestava ch’era tardi e reclamava scherzando la

sua tazza di the. Ella aveva scordato di avvertirmi della

visita di questi amici? Dopo qualche indugio decido di

rimanere dietro la porta ad ascoltare e mi appoggio contro

il battente—in quel momento un frastuono secco e breve

194

Page 195: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

esplode nel salotto. La conversazione ammutolisce. La prima

voce a staccarsi dal silenzio è quella di Lucia, affranta,

seguita da quelle di Ella e dell’altra donna che cercano di

consolarla. Lucia si offre di ripagare a Ella il costo della

teiera infranta. L’uomo ride ma è una risata non troppo

simpatica.

Mi decido a entrare. Tutti curvi sulle ginocchia,

Lucia, Ella, Orsetto e una giovane spilungona raccattano

cocci. L’acqua fumante della teiera ha invaso l’impiantito

davanti al caminetto acceso. La povera Lucia non smette di

giustificarsi, le è sfuggito il vassoio di mano, e gli altri

a turno dicono parole a caso per tranquillizzarla. Senza

essersi ancora accorta della mia presenza, Ella va a

stazionarsi dinanzi al caminetto, la schiena rivolta alle

fiamme, e solleva drasticamente gli orli bagnati della gonna

per farli asciugare. “Oh, quant’era che non accendevamo il

caminetto in questa stanza!” esclama. Ancheggia dal piacere,

smuove le ginocchia nude.

Io do un colpo di tosse e la gonna di Ella ricade su se

stessa come un battito d’ali. Lucia abbandona contrita il

salone reggendo nel grembiule il fagotto dei cocci di

porcellana. Ella, Orsetto e la spilungona si dispongono

gomito a gomito dinanzi al caminetto. Ella non accenna

presentazioni di sorta ma la spilungona mi rivolge

un’occhiata mesta, come per discolparsi di qualche cosa.

Ella e Orsetto si sorridono parlottando sottovoce, poi si

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Page 196: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

fanno seri, poi sghignazzano come adolescenti colti in

fallo. Mi guardano impacciati. Mi chino, tanto per darmi un

contegno, raccolgo una bignola dal pavimento e me la mangio.

Undici

Io mi sono tenuto alla larga fin dal principio. Dopo il

mio arrivo i bambini che Ella riceveva in casa per le

lezioni di musica presero ad andare e venire deliberatamente

nel giardino anche lontano dalle ore di lezione, in un

andirivieni immotivato la cui sola ragione plausibile era il

desiderio di mettersi in mostra ai miei occhi. No, non avevo

dovuto aspettare nemmeno che scoprissero esattamente dove

abitavo prima di afferrare le intenzioni di quei tipini

intraprendenti. La prima settimana del mio soggiorno nella

casa di Ella, quando incrociandomi per strada o tra le

scansie del mercato alimentare nessuno sapeva ancora chi

fossi o di dove venissi, erano stati proprio i bambini a

farsi disinvoltamente avanti per strapparmi una qualsivoglia

dichiarazione sul mio conto. Un forestiero nel piccolo borgo

rappresenta sempre una bella novità, bisogna dire; e c’era

per sovrammercato la presenza di Lupo al mio fianco ad

accrescere, se vogliamo, l’attrattiva e il mistero.

Io mi sono tenuto sempre ben abbottonato ed evitavo di

incrociare questi bambini di collina. Le disavventure del

vecchio vicinato mi erano più che bastate: a cosa valeva, mi

dicevo, incoraggiare questi amichetti potenziali quando la

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Page 197: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

gente del posto si sarebbe senz’altro premurata di

inimicarmeli tramite pretesti ignobili e bassi espedienti?

Quando non potevo fare a meno di trovarmi faccia a faccia

con qualche marmocchio, gli rivolgevo la parola in maniera

scostante—messo alle strette, gli davo del voi. Tutti

sotterfugi inutili! I bambini avvertivano la mia mancanza di

spontaneità in queste misure precauzionali e non si

lasciavano intimidire. La loro insistenza a fare di me un

nuovo amico, però, poteva prendere una brutta piega,

provocare magari un altro scandalo della portata di quello

che mi aveva coinvolto giù in città. Inoltre la labilità

della mia condizione di cugino fasullo di Ella, sempre meno

difendibile peraltro, consigliava la massima circospezione:

non appena fosse diventata di dominio pubblico la verità a

proposito del nostro concubinato, i genitori dei bambini del

villaggio avrebbero certamente sottratto i propri figliuoli

alla guida didattica di Ella. Privato degli introiti dalle

lezioni di musica, il nostro budget domestico si sarebbe

fatto insostenibile.

Le cose hanno preso per tutt’altro verso, in maniera

più che imprevista, il giorno che sono entrato nella

macelleria del villaggio e chi ti riconosco, fermo di spalle

a parlare col macellaio, se non Pecorino in persona, il mio

nemico giurato! C’era una coda di clienti davanti a me,

almeno sette o otto massaie e domestiche, che aspettavano di

essere servite dalla moglie del macellaio intanto che questi

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Page 198: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

conversava affabilmente col visitatore. E io, preso dal

panico, ho cercato di passare davanti a tutte quante!

Neppure nella foga del tafferuglio che si è scatenato a

causa del mio sgarbo, con urla e insulti di stampo alto-

collinare, mi è passato per la testa che invece avrei dovuto

sgattaiolare fuori dal negozio alla chetichella, prima che

Pecorino si avvedesse della mia presenza. Quella sì che

sarebbe stata la mossa giusta! Così invece, per eccesso di

precipitazione, avevo compromesso tutto.

Pecorino mi riconobbe a volo, inutile dirlo. Anzi, si

fece in quattro per sedare l’alterco tra me e le clienti. Fu

lui in un certo senso a strapparmi al linciaggio, benché io

a quel punto avessi deciso di giocarmi il tutto per tutto,

impuntandomi nel corpo a corpo colle avversarie ed

ingegnandomi specialmente nell’occultare la faccia tra i

loro pugni e le loro ginocchiate, in modo da non essere

riconosciuto dal mio nemico.

Pecorino era imparentato alla lontana col macellaio del

villaggio; questo me lo spiegò lui stesso poco dopo nel

retro del negozio. Quando il resto della clientela venne

finalmente disperso, fu la moglie del macellaio ad invitarmi

a seguirla nel retro, col pretesto di medicarmi ma al fine

veritiero di mettermi sotto pressione per svelare alla

buon’ora il mistero del cugino di Ella. Io accettai le sue

cure di buon grado ma non aprii bocca. Per diffondere la

verità sul mio conto sarebbe bastato Pecorino, ad ogni modo.

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Page 199: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Comunque la voce dei miei trascorsi cittadini imboccò

la strada meno prevedibile. Figuratevi che fu Orsetto a

spedirci la prima missiva anonima, proprio lui che alla

peggio avrebbe potuto inguaiarmi lasciando semplicemente

trapelare la verità sui rapporti che mi legavano a Ella.

Riconobbi la sua missiva ancor prima d’averla aperta: fu

l’inizio d’una lunga serie di scritti anonimi che dovevano

venirci recapitati in quei giorni, tutti indirizzati a Ella,

tutti vergati apparentemente nell’intento di aprirle gli

occhi sulla vita segreta e le inconfessabili propensioni del

cugino che da qualche tempo si prendeva gioco della sua

buona fede, approfittava della sua ospitalità, sfruttava la

generosità della vecchia Lucia. Riconobbi l’origine della

busta grazie ai caratteri tipografici inconfondibili con cui

era stato anonimamente vergato l’indirizzo della

destinataria: le lettere erano state tutte ritagliate, tanto

le minuscole quanto le maiuscole, dalla copertina

dell’ultimo numero di Harper’s Bazaar, un periodico che nessuno

si sognava di leggere da da quelle parti salvo Orsetto.

L’edicola locale ne teneva una copia sola, esposta in

vetrina finché non se la prendeva lui. Anche Ella aveva

afferrato l’identità del mittente di quei capolavori di

diplomazia che, un tocco di qui e un tocco di là, finivano

coll’aggiungerne di false, di inventate di sana pianta, alla

lista delle malefatte che Pecorino s’era premurato di

divulgare in forma esaustiva. Ma Ella non volle mai

199

Page 200: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

riconoscere apertamente, malgrado i miei inviti pressanti,

l’origine di quelle lettere anonime, né, ahimé,

l’infondatezza delle calunnie che promuovevano. A distanza

di tanto tempo lo riconosco volentieri e senza rancore:

Orsetto disponeva di un fascino agli occhi di Ella che a me

mancava del tutto, il pregio, diciamo, d’una marcia in più e

d’una carburazione migliore. Quando sei stata ricca come lo

era stata Ella, via, non è dall’oggi al domani che ci perdi

l’abitudine.

Passa qualche altro giorno. Il grosso delle lettere

anonime viene recapitato, letto, discusso, cestinato. Una

sera Ella ed io siamo in cucina davanti alla porta aperta di

un frigorifero vuoto. Sarebbe toccato a me fare la spesa ma

mi sono fermato tutto il giorno in studio a leggere un

Maigret. Lucia s’è eclissata una volta sbrigate le faccende

più pressanti. Ella è rincasata tardi da una visita alla

sorella di Orsetto, che abita in periferia (non è la prima

che le fa, di recente) e m’ha subito domandato cos’ho

preparato di buono per cena. Stiamo litigando quando si

sente bussare alla porta dell’ingresso di servizio. È

Orsetto!... La sua mamma ha appena sfornato una bella

focaccia, guarda caso il tipo alla vaniglia e cioccolata che

piace tanto a Ella, e lui ha pensato di venire a dividerne

una fetta con lei. È corso qui da lei senza neanche

aspettare che la focaccia si freddasse! Il dolce fumante

sotto gli occhi, Ella saltella battendo le mani dalla

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Page 201: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

contentezza, salta al collo di Orsetto con un bacio, poi si

dirige verso la stufa dicendo che vuole preparare un the

caldo.

Io parlo senza riflettere: “Il the non mi va a

quest’ora.”

“Nessuno ti ha invitato,” mi sibila lei contro.

Esco dal retro sbattendo la porta. Ho calzato due

vecchie Superga scovate giorni addietro nell’armadione della

palline sbucciate. Avanzo a fatica nel prato allagato mentre

la neve si liquefa sotto i miei piedi. Cammino senza

direzione. La luce della luna prolunga la collina di

versanti inesistenti su cui cerco di inerpicarmi per

scomparire. A un certo punto mi appendo ad un ramo sporgente

e mi sollevo a forza di braccia, più volte, senza ragione,

fino ad essere imbrattato da capo a piedi di foglie fradicie

e aghi di pino. Siedo esausto sul bordo d’un parapetto,

piegato in due. L’immagine mentale ricorrente è quella di

Ella riversa sul canapé del salotto, Ella rovesciata sul

tappeto persiano... Correndo intorno Lupo mi solleva addosso

grandi ventagli d’acqua gelida.

Torno in giardino. Sbircio da una finestra. Seduti al

tavolo in cucina, Ella e Orsetto parlano guardandosi

intensamente negli occhi. Ella non indossa più la gonna a

petalo che portava al momento del rientro; ora veste un paio

di jeans sdruciti e una maglietta Lacoste. Sparita la gonna,

sparito anche il maglione di alpaca, jeans e maglietta sono

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Page 202: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

comparsi durante la mia assenza. Non ci vuole troppo per

capire cos’è successo mentr’ero via.

La collina è dominata da un curioso smagliarsi

dell’oscurità a est; infiniti corpuscoli di luce convergono

in un punto di ritrovo nascosto nel cielo, tanti corpuscoli

il cui furioso palpitare sembra destinato a richiamarne

altri ed altri ancora prima che si faccia l’aurora. Comincio

a camminare alla volta della luce, alla volta della città.

Dodici

... Non erano pezzi lustri di porcellana inservibile

questi sprazzi di luce e nemmeno tizzoni incandescenti nel

caminetto. Quaggiù non c’erano focolari domestici da

accudire né convenzionali rotture di convenzionali servizi

da the: si libravano due a due gli sprazzi di luce, azzurri

e globulari, ogni coppia uniformemente simile alle altre,

eppure a modo loro individuali, come innumerevoli occhietti

di gatto. Però non si trattava nemmeno di gatti randagi,

tant’è vero che il silenzio intorno era rotto da uno

squittire sommesso e da uno zampettio infaticabile,

intercalato di tanto in tanto dal tonfo di due ratti

occupati a contendersi qualche rimasuglio di alimento

ossificato. C’erano molti topi, è vero, ma quanto agli

sprazzi di luce, non si trattava propriamente di topi,

neanche...

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Page 203: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Da qualche giorno dividevo il cunicolo di Radio Blue

con dozzine di anonimi occhi luminosi che si tenevano

nascosti dietro le travi di legno corroso, dietro le nuvole

di odore acre (terra, ruggine, nafta, sudore, sterco),

dietro le ombre che disegnava l’intrusione occasionale di

qualche luce artificiale, vuoi la fiamma d’un cerino o il

cono di luce d’una torcia elettrica. Però la luce non si

portava mai dietro il giorno, a questa profondità.

Il cunicolo di Radio Blue consisteva di un buio

affollato di presenze infantili, non fantasmi, malgrado

l’apparenza, bensì autentiche presenze corporee: esseri

umani, minuscoli finché volete data l’età ma pur sempre

dotati di un’ombra di raziocinio, impossibili peraltro a

catalogarsi per sesso o per età ... infiniti occhietti

riservati, un numero considerevole di fuggiaschi rifugiatisi

qui dal mondo di fuori, di sopra anzi, parcheggiati in un

limbo transitorio in attesa di qualcosa di meglio, di

qualcosa di più allettante diciamo, degli abusi che erano

stati loro proposti alla luce del sole: pupille smaglianti

la cui luminosità naturale schiariva l’insieme della scena

che avevo dinanzi ai miei, di occhi, coi quali scrutavo la

vista sempre uguale, lacera e consunta, dell’assortimento di

sacchi a pelo disposti sopra un impasto molle di detriti

misti a terriccio umido. Qualcuno di questi sacchi a pelo

era pieno e qualche altro vuoto, flaccido. Quelli pieni

respiravano gemendo debolmente, come mummiette reincarnate,

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Page 204: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

quelli vuoti coloravano lo sfacelo complessivo d’una nota

patetica, arbitraria, stonata.

Entrato a far parte della comunità sotterranea, mi ero

accaparrato il sacco a pelo e l’attrezzatura da campo che

erano appartenuti ad uno di questi pargoli cunicolari, il

quale aveva evacuato i tunnel di Radio Blue senza lasciare

detto nulla. Non che ci fosse molto da recuperare tra le

cose che s’era lasciato dietro; l’umidità aveva eroso lacci

e imbottiture, le cerniere erano tutt’una ruggine. Come

dovevo presto appurare, i pargoli cunicolari erano ragazzini

provenienti dalla periferia, maschi per la maggior parte ma

anche qualche femminuccia alquanto immaschilita

dall’esperienza underground. Di giovani provenienti dal

centro città non ce n’era nessuno; quelli del centro,

piuttosto, venivano in radio, i crini a serpentello e gli

occhi bistrati, per fare i disk jockey e intraprendere a

quel modo una carriera nel settore musicale. Nemmeno i

giovani di provincia abbondavano: era il regno assoluto del

soggetto periferico in fuga centripeta. I pargoli

cunicolari, mi trovai più volte a considerare, erano del

genere che a una certa età apprende a scuoiare gli animali

sul bordo della strada senza manco darsi la pena di finirli—

io e Lupo ne sapevamo qualcosa ma strano a dirsi, non

provavamo nessuna ostilità verso i nostri nuovi conviventi.

Se c’era una disciplina nascosta dietro il rituale di

vita della comunità cunicolare (e c’era eccòme, immutabile,

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Page 205: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

giorno dopo giorno!), dovetti penare non poco prima di

afferrarne le regole implicite. Da principio non vedevo che

caos. Ogni mattino cominciava da capo la lotta per la

conquista delle posizioni migliori ove disporre il proprio

sacco a pelo, le posizioni cioè più prossime agli ingressi e

pertanto riccamente ossigenate nottetempo. Il principio di

non mollare mai il posto occupato, a meno di fare la posta a

qualche possibilità più vantaggiosa, equivaleva per molti

dei pargoli cunicolari ad una specie di codice d’onore, una

vera e propria ossessione che li induceva a trascorrere

giornate intere seduti a gambe incrociate sul proprio sacco

a pelo (anche quello straccio, sovente, trofeo di

conquista), senza mettere il naso fuori del sotterraneo a

respirare una boccata d’aria fresca. Simultaneamente,

correva lungo i corridoi umani delimitati dalle loro

posizioni statuarie la folla degli intemperanti, i quali,

meno ferocemente affezionati al proprio giaciglio, non

rinunciavano a vivere questa parvenza di vita di trincea in

uno spirito cameratesco da soldatacci di ventura: avanti e

indietro confondendosi coll’andirivieni dei topi... Lupo si

adattava con prontezza alla bolgia. La notte dormiva dove

gli capitava, un occhio aperto alle evoluzioni dei ratti, e

di giorno si introfulava per lo più nella colonna dei

pargoli deambulanti e si accodava al viavai forsennato

attraverso il tracciato dei cunicoli.

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Page 206: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Alla fine io sottrassi un abat-jour dagli studi in

radio e lo sistemai vicino ad un ingresso per mezzo d’un

cavo elettrico collegato alla presa d’un trasmettitore.

L’apparato spandeva una fievole bolla di luce rosata sul mio

sacco a pelo, e anche conferiva al mio soggiorno quaggiù,

per via di contaminazione vicaria diciamo, un carattere di

autorevole permanenza che nessuno tra i pargoli si sognò mai

di contestare. Dal momento della comparsa dell’abat-jour nel

cunicolo, la mia figura guadagnò grandemente in

rispettabilità e, per quanto aerata e vantaggiosa, la

collocazione del mio sacco a pelo non venne più messa in

discussione.

Essendo sia i cunicoli che gli studi di Radio Blue

sforniti di adeguati impianti igienici, ognuno provvedeva

alla bisogna in maniera diversa, talora maniere altamente

originali, talora francamente indescrivibili. C’era, sì, un

gabinetto alla turca in dotazione alla radio, un minuscolo

vano dalle pareti catramate, ma era in uno stato di

manutenzione tale che ad avventurarcisi si correva il

rischio di provocare piccole quanto sordide inondazioni.

Qualche spiritoso aveva messo a disposizione della comunità

cunicolare dei grossi fiaschi trasparenti che un tempo

dovevano aver contenuto del bel vino limpido di Chianti, ma

nessuno si era curato di vuotarli una volta che erano

risultati colmi di nuovi liquidi dorati. Dal canto mio,

uscivo in strada ogni mattino, presto presto per evitare la

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Page 207: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

prima ora di punta, e andavo a consumare una colazioncina al

banco del Caffé Pepino, un locale di lusso a due passi dalla

radio. La sala principale del bar era piena di camerieri

sfaccendati, occupati a bilanciare il peso del corpo su una

gamba sola in attesa che si riempisse qualche tavolo.

Fortunatamente per me, di avventori non se ne vedevano mai a

quell’ora. I camerieri restavano sparpagliati per le salette

come tanti manichini immacolati ed io potevo concedermi

lunghe pause indisturbate nella toilette del retro. Un

numero impressionante di specchi era disposto sulle pareti

piastrellate dei gabinetti nonché lungo il corridoio che vi

conduceva; era inevitabile che di quando in quando io

posassi lo sguardo sulla mia faccia riflessa: verdastra a

causa della vita al chiuso, le occhiaie terribili come

feritoie sotto a due pupille da assassino. Succedeva

talvolta che uno dei camerieri azzimati in posa da

trampoliere mi sibilasse un insulto, un abbozzo di

vituperio, oppure un’esplicita raccomandazione di maggior

pulizia personale, intanto che consumavo il mio cappuccino

al banco di mescita.

Una parte dei pagoli cunicolari risolveva i problemi

igienici col mio stesso sistema: chi frequentava questo, chi

quest’altro caffé del centro, tutti alla spicciolata nelle

vie in modo da passare inosservati. Qualcun altro,

purtroppo, a corto di spiccioli, era costretto ad

addentrarsi nel più profondo dei cunicoli, torcia elettrica

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Page 208: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

e foglio di giornale alla mano. Questi paria si rifacevano

su di noi prendendosela comoda una volta che s’erano

placidamente accosciati al buio; ci ammannivano lunghe

geremiadi senza fine di piccoli soffocamenti compiaciuti. Il

puzzo ci impiegava una mezz’oretta prima di risalire alle

postazioni dei sacchi a pelo, e poi non eri mai sicuro se si

trattava di un puzzo nuovo oppure del residuo di un puzzo

vecchio.

Le notti che andavo in onda coll’Ora del Lupo mi portavo

dietro in studio un branchetto di questi marmocchi

cunicolari. Li sceglievo tra le indoli meno indurite; davo

la precedenza a quelli ancora in fase di formazione, quelli

ancora redimibili, forse, tramite le buone maniere e la

pedagogia del trattar cortese, e li facevo intervenire nel

vivo della trasmissione. Tra una poesia ed un raccontino, i

pargoli intercalavano le loro riflessioni a proposito della

vita cunicolare, e specialmente disquisivano sulle forme

economiche di scambio vigenti sottoterra. È inutile dire che

il baratto era il canale di scambio più sofisticato cui

arrivavano a pensare: non ci voleva nessuna immaginazione

per raffigurarseli seminudi, dipinti e tatuati, coperti di

cascanti perizoma in pelle di bufalo e armati di zagaglie

spuntate. Contavo sulla fantasia del pubblico radiofonico...

Gli ascoltatori della mia rubrica non si formalizzavano a

causa dell’intrusione, telefonavano anzi in studio e

questionavano i frugoli, prospettavano alla loro benevola

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Page 209: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

considerazione ipotetici scenari alternativi di economia

palafittare, volevano sapere come si sarebbero comportati in

questa situazione oppure quest’altra... Scoprivo nei miei

ammiratori notturni un radicato quanto inconfessato timore

che una fine imminente incombesse sulla vita regolare del

mondo di sopra.

Subito dopo l’Ora del Lupo, resi arzilli e ottimisti dal

lavoro di equipe, uscivamo tutti in escursione all’aperto,

nel freddo spietato degli ultimi sedimenti di oscurità.

Andavamo dalle parti del lungofiume, ci sistemavamo contro i

parapetti o sui murazzi, guardavamo la neve che cadeva di

sbieco sulle lingue immobili d’acqua, facevamo i commenti

del caso: i fiocchi ben distanziati in turbinosa risacca

contro gli argini rinforzati, la densità plumbea delle

brezze profonde... Si tenevano discorsi d’inconsueta

maturità al cospetto del liquido, muto pachiderma. Parlavano

tutti assieme senza darsi troppo ascolto reciproco, i

marmocchi; nella foga di pronunciarsi sulla propria

esistenza underground e ancor più di predirsi a vicenda le

forme della loro futura emancipazione dal mondo di sotto,

erano tutti, indistintamente, noncuranti ed ignari (proprio

in quella città, tra tutte le città italiane!) del passato

prossimo e del passato remoto: indifferenti a quel che li

aveva strappati alla vita di superficie come pure ignari di

quel che della loro sorte emarginata aveva provveduto le

premesse civiche e domestiche—noncuranti e ignari, per farla

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Page 210: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

breve, della Storia del nostro Paese. Le Weltanschauung si

accavallavano e finivano coll’incorporarsi le une alle altre

in tutte le salse.

Un luogo comune voleva che Radio Blue fosse del tutto

sprovvista di prese d’aria collegate con l’esterno. Era

questo un tasto su cui i disk jockey (alle cui ricettive

corde vocali l’aria fresca era tanto necessaria quanto

l’aria secca alle loro zazzere zebrate) insistevano a

dismisura nel corso delle trasmissioni musicali,

tossicchiando e scatarrando dentro i microfoni a riprova del

fatto lamentevole. Ma i pargoli cunicolari avevano finito

per scovare una finestrina orizzontale, allungata e sottile,

che dalla Sala Stampa si apriva sul marciapiede della strada

sovrastante. Nessuno l’aveva ancora notata in quanto era

stata previamente imbottita di stracci e iuta per via del

freddo di fuori. La finestrella, immediatamente ripulita,

venne messa in condizione di gettar dentro aria fresca ed

uno spiraglio di luce naturale.

La novità della finestrella fu tale che in principio,

tanta era la calca intorno alla sua fessura rilucente, non

c’era modo di approssimarcisi. Ma dopo pochi giorni,

esauritosi l’interesse, tutti ci fecero l’abitudine e

smisero di perderci tempo intorno. Allora finalmente ebbi

modo di sbirciare per il pertugio aperto sulla strada,

questa sorta di feritoia orizzontale schiusa sul mio mondo

d’un tempo (una fetta di quel mondo a livello di suola di

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Page 211: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

scarpa, quantomeno), bagnata della luminosità piena,

naturale e inevitabilmente nostalgica del giorno fatto,

delle ore d’ufficio.

Recentemente doveva essere tornata di moda la minigonna

perché d’ordinario, malgrado il freddo intenso, c’era un

contingente ininterrotto di gambe femminili in parata sopra

la finestrina: intimità esposte con velata consapevolezza,

carni piene e radiose, talora palesemente intirizzite dal

clima impietoso, un tutto vivente in superbo, diabolico,

tremulo movimento di trasparenze—tanto che lo spettacolo

ossessionante di mille e mille polpacci ben molati in

rivista sul marciapiede, il banchetto invitante di una

gioventù forte e sana, disinibita e festosa, presto

diventava più forte del rancore che bene o male nutrivo

verso la sbrigatività con cui Ella si era regolata quanto

alla nostra breve relazione. Informatomi presso un

annunciatore affiatato cogli ambienti altolocati, mi sentii

però confermare che Ella si era fidanzata con un ballerino

che abitava dalle sue parti e per di più aveva deciso di

troncare la sua collaborazione con Radio Blue. La notizia

non mi stupiva troppo. Se avevo segretamente inteso

ricontattare Ella, l’impulso era dovuto all’esasperazione

sensuale cui mi sottoponeva lo spettacolo quotidiano di una

flotta di scattanti gambe femminili a passeggio sopra i miei

occhi pesti e torturati. Mi ero illuso, ecco, di ripetere

per una volta almeno con lei gli scambi e gli assaggi fugaci

211

Page 212: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

che avevano allietato una delle più riuscite sequenze

dell’Ora del Lupo.

Amaranta era un chiodo fisso, invece, ma non osavo

contattarla perché sentivo che la sua affusolata bellezza

ancillare si sarebbe accordata male con la libidine

degradante di questo mio purgatorio erotico: sempre e poi

ancora sempre la stessa smilza striscia di mondo

sotterraneo, ed allineati come per una fiera di campagna

certi scampoli di prelibatezze terrene interamente privi di

carattere e personalità—fantomatiche femmine decollate, né

capo né torso, ridotte all’osso, o meglio all’epicentro

coccigeo del proprio sesso.

Al quarto o quinto giorno di appostamento sotto la

finestrella, le febbri della mia lascivia presero il

sopravvento col loro canto impazzito. Avevo cominciato ad

interrogarmi sulla veridicità delle provocanti indecenze che

mi balenavano sopra il naso a ritmo sostenuto. Nuovi

scattanti bacini femminili sorgevano furtivi attraverso le

intercapedini dei muri, di continuo, per farsi ammirare, e

si sprigionavano da sotto al manifesto pubblicitario al lato

opposto della strada, e facevano capolino da dietro alle

crepe dell’asfalto, e traforavano gocciolanti i rigagnoli

d’acqua vicino ai tombini: imperdonabili valchirie animate

dall’ombelico in giù sollevavano ancor di più la gonna per

evitare gli spruzzi delle auto in corsa, facevano la

spaccata e il passo dell’oca, il salto sulle punte e tutti i

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Page 213: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

contorcimenti che sia dato innestare sull’asse lombo-

perineale, sfacciate e impudiche, e si libravano e

capriolavano di fronte al mio spiraglietto strappandosi via

l’un l’altra le vesti e le sottovesti con tanti lievi gemiti

di gola...

Tredici

Una di quelle notti, come pattuito, Stefano Kronskij

era venuto a cercarmi in radio. Mentre aspettavamo che si

liberasse lo studio per l’Ora del Lupo, lo accompagnavo in

visita ai locali dell’emittente, gli mostravo la

telescrivente con i dispaci Ansa srotolati in un mucchio sul

pavimento, gli facevo vedere gli archivi utilizzati dai

redattori per la stesura dei notiziari, gli leggevo per

intero il servizio già pronto in vista del decesso imminente

del nuovo Capo della Città, di recente elezione. Poi

imboccammo uno dei cunicoli e ci inoltrammo per una ventina

di metri nell’oscurità, aprendoci la via con una torcia

elettrica. La carezza della torcia iridava le macchie di

nafta mista ad acqua sparse sul fondo in terra battuta;

c’erano sedie impagliate colle gambe all’aria e in una

rientranza, sopraffatti dalle ragnatele, due tromboni di

grammofono che non avevo mai notato fino allora. Facevo

pressione con la punta delle scarpe sui sacchi a pelo più

vicini per dimostrare a Stefano K. che erano effettivamente

abitati; i sacchi reagivano mugolando ed animandosi ad ogni

213

Page 214: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

botterella. Stefano K. storceva il naso, menzionava le

responsabilità dell’Ufficio d’Igiene.

Ci infilammo finalmente nello studio. Invitai Stefano

K. a sedere accanto al microfono, attivai l’apparato

trasmittente, e senza preamboli, sullo sfondo della solita

sigla di Battiato, mandai in onda la voce del mio ospite.

Ignaro del raggiro, Stefano K. voleva sapere di cosa si

trattava: che cos’è il disco che gira sul piatto e perché le

lancette del quadrante oscillano e come mai quelle lucine

rosse vanno e vengono... Io eludevo la sua curiosità

raccontandogli che quella notte intendevo trasmettere

soltanto una colonna musicale. “Questo sul piatto,” dissi,

“è il disco di Battiato”: mi concedevo una specie di vacanza

insomma, gli spiegai, in modo da chiacchierare indisturbato

col mio vecchio amico. Suggerii a Stefano K. di calzare un

paio di cuffie e godersi la musica intanto che mi spiegava

quel che era venuto a propormi: gli passai un auricolare

allacciato al giradischi.

Invece di discutere del mio argent de poche come mi

aspettavo, Stefano K. si infervorò ancora una volta a

parlare della Fine del Mondo. Non aveva dubbi, disse:

sarebbe presto tutto finito sul pianeta, tutto esaurito,

concluso, terminato. Non più terra o aria né riserve di

acqua potabile, disse, non più piante, alberi, montagne,

foreste—niente vita animale o vegetale. In una parola,

l’estinzione... Sarebbero perite anche le specie più

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Page 215: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

coriacee: gli insetti, le alghe, le ocotone, e tutti i

crostacei. Non sarebbe rimasto che il deserto. Così disse:

“Deserto a perdita d’occhio!”

A questo punto Stefano K. si interruppe e rimase

qualche secondo in attesa di una replica da parte mia. Io mi

guardavo dall’intervenire in diretta sull’argomento della

Fine del Mondo. Ne avevo d’avanzo di apocalissi, colla mia

economia palafittare di tutte le altre notti! Lasciavo che

Battiato coprisse il silenzio colla sua voce monotona.

Stefano K. si riprese e cominciò di nuovo a parlare: privati

dello Spazio e del Tempo, disse, i sopravvissuti si

sarebbero scoperti inabili all’azione ed estranei alle

manifestazioni della Volontà.

“Mancherà l’azione consapevole!” dichiarò in tono

altisonante. “Niente più Azione: niente Volontà! Di Libero

Arbitrio non sarà più il caso di parlare.”

Quest’ultima affermazione la sparò tutta d’un fiato,

come se gli procurasse un piacere particolare. I miei

auricolari filtravano la sua voce distorcendone le

inflessioni dialettali: spaziava senza sforzo da un estremo

all’altro dei registri tollerati dal trasmettitore. Le sue

parole, tante e ancora tante parole dedicate alla Fine del

Mondo, sciorinate colla lestezza d’un formichiere, si

miscelavano nella mia cuffia ai suoni ripetitivi di Battiato

e avevano l’effetto sedativo di una ninna nanna. Dovevo

lottare contro il torpore incalzante. Mi davo dei pizzicotti

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Page 216: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

sotto le ascelle. Mi ripetevo che avevo la responsabilità di

una trasmssione in corso. Fingevo di aggiustare manopole e

cursori. Stefano K. procedeva alla bersagliera sulle ali dei

suoi oracoli apocalittici.

Una volta esaurita la tirata sulla Fine del Mondo,

Stefano K. mi confessò finalmente la ragione della sua

visita in radio. Partì da lontano... Cominciò dalle

premesse... Non aveva più potuto tirarsi indietro! Tutte le

sue richieste erano state soddisfatte, triplicato il numero

degli stanziamenti, approvato persino il progetto di

happening musicale sulle acque del fiume... “Sono stato

costretto ad accettare, capisci?” cercava di giustificarsi.

A beneficio degli ascoltatori, ho replicato che non

capivo di cosa stesse parlando. Allora lui mi ha mostrato

con fare da cospiratore il suo nuovo biglietto da visita:

Stefano Kronskij, ho letto ad alta voce nel microfono, Alto

Commissario alla Seconda Celebrazione in Memoria di John Lennon. Dovevano

organizzare i festeggiamenti entro Pasqua, pareva.

“Non ti perdi d’animo,” osservai. “Dici che il mondo è

sull’orlo del Giudizio Universale ma intanto organizzi una

festa popolare.”

“Lo faccio per ingannare l’attesa,” rispose con

prontezza.

Era venuto in radio per parlarmi di quella festa,

disse. Era venuto a propormi un lavoretto in vista della

Celebrazione. Le feste cittadine, come certamente sapevo,

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Page 217: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

comportano un tremendo gravame di responsabilità. Questa

Celebrazione era l’occasione propizia per stimolare i

giovani alla riscoperta dei valori propagati dai mitici Anni

Sessanta. Ma bisognava sconfiggere in primo luogo il

complotto repressivo in atto, la strumentalizzazione delle

tematiche del passato, la falsa esegesi delle liriche del

cantante di Liverpool...

Stefano K. voleva circondarsi di gente fidata e mettere

in piedi un piccolo staff operativo. Quanto a me, mi voleva

dei suoi a tutti i costi! Molti dei settori organizzativi

erano tutt’ora scoperti, potevo riservarmi quello che più mi

andava a genio. Non mi sarebbe piaciuto fungere da Economo

della Celebrazione, per esempio? O da Capo Contabile?

Stefano K. ci teneva a sottolinearlo: era di destini umani

che si trattava, non dei soliti personaggi immaginari dei

miei racconto notturni. Lui faceva politica, non

letteratura! E io non potevo tirarmi indietro. Sì, sì,

l’avevamo vissuta insieme l’esperienza del Sessantotto, il

Femminismo e la Macrobiotica, ma adesso bisognava che ci

occupassimo di educare le nuove leve, queste sfortunate

generazioni abbandonate a se stesse...

Ascoltavo con emozione gli argomenti di Stefano K.

Avevo smesso di occuparmi di congegni e cursori. Guardavo le

mani con cui Stefano K. sottolineava i punti salienti del

suo discorso; mani grassocce e minute, ingombre di anelli

che imprigionavano la carne delle dita tra nocca e nocca.

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Page 218: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Stefano K. aveva accostato le palme a coppa poco fa, come

non notarlo, mentre pontificava sul destino delle nuove

generazioni. Io meditavo sulla mia nozione confusa di

destino individuale, di fato soggettivo, di premeditazione e

di scelta: mi interrogavo su quale fosse il parere di

Stefano K. a proposito di questi scottanti argomenti. Certo

la sua doveva essere un’idea di destino personale ben

particolare, un’idea di fato individuale piccola piccola,

un’idea non più grande di una lumaca o una tartarughina, se

pensava di racchiuderne una moltitudine addirittura, di

destini altrui, tra quelle sue esigue palme appaiate.

Accovacciato ai miei piedi, Lupo guatava Stefano K. di

sottecchi, una sorda opacità selvatica riflessa negli occhi.

Non era tipo, Lupo, da scordare l’affronto delle carezze

contropelo di quel giorno in collina. Io consideravo le

manocce pingui di Stefano K.—più le guardavo, più mi veniva

fame.

Quattordici

Il primo di Marzo, un perentorio Comunicato Stampa

dell’Azienda Tranviaria annunciava che, considerato il

diradarsi delle nevicate, la preannunciata e tanto

pubblicizzata Rivoluzione dei Trasporti Urbani sarebbe

cominciata quanto prima. La notizia colse la gente

largamente impreparata. Da una parte c’era la fascia della

cittadinanza avvezza all’uso dei mezzi pubblici: i giovani

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Page 219: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

che andavano a lavorare, i guaglioni di periferia che

pattugliavano le strade fino ai limiti estremi della notte,

i bambini e i pensionati che sfruttavano gli autobus per

brevi escursioni cittadine. Di questa categoria i meno

favoriti erano ovviamente gli anziani, i quali si

rifiutavano ostinatamente di consultare le mappe della nuova

rete tranviaria esposte sotto le pensiline delle fermate—

impressionanti queste mappe, a vederle da lontano, certe

teste di Medusa in prospettiva con tutte le strade, le vie,

i corsi e le piazze che si attorcigliavano tentacolari in

giallo, verde, marrone e blu! Gli anziani avevano fatto

pressione fino all’ultimo sull’Amministrazione Civica perché

fosse posto un veto all’innovazione dei trasporti. Ci fu

anche qualche opportunista che approfittò dell’occasione per

fondare un non meglio caratterizzato “Partito dell’Anziano”—

una controversa abiezione politca. Poi veniva la categoria

di quelli che viaggiavano in automobile e non si servivano

dei mezzi pubblici; questi ultimi dovettero fare i conti fin

da subito coi lavori stradali, che erano partiti in tromba

dopo il Comunicato Stampa. Non sembrava però che l’Azienda

Tranviaria fosse granché propensa ad ultimare celermente la

sistemazione delle nuove rotaie e delle nuove pensiline. Gli

stradini che fecero improvvisa comparsa in città, delle

specie di Unni in canottiera, le braccia muscolose ramate di

catrame, si occupavano di disselciare con evidente

accanimento tutte le rotaie e i cavi di potenza delle linee

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Page 220: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

urbane preesistenti alla Rivoluzione dei Trasporti, ma

quanto a piazzare il nuovo apparato, per ora non se ne

faceva niente. Gli automobilisti se la videro brutta quanto

a ingorghi, scontri, intasamenti, forature.

Le notizie riguardanti questa novità arrivavano nel

cunicolo sotto forma di diceria per lo più, bofonchiate a

mezza voce dai disk jockey che ogni giorno, terminato il

turno in radio, emergevano all’aperto nelle ore d’ufficio e

avevano modo di appurare di persona l’andamento delle cose.

I redattori di Radio Blue si tenevano molto più abbottonati

dei disk jockey quanto agli sviluppi di questa Rivoluzione,

ma la maniera in cui trattavano l’argomento nel corso dei

notiziari tradiva un profondo scontento. Sembrava che i

maggiori quotidiani cittadini fossero in sfavore della

Rivoluzione; qualche affermato giornalista locale aveva

cominciato ad aizzare la popolazione contro l’operato del

nuovo Capo della Città. Ma i lavori di rinnovamento della

rete tranviaria procedevano, benché a fatica e tra mille

intoppi...

Passò del tempo. La notte in cui dovevano essere

finalmente attivate le nuove linee urbane, una banda di

pargoli cunicolari tanto fece e tanto brigò che mi

convinsero a seguirli in un giro di perlustrazione

all’aperto. Gli esserini immondi bruciavano dalla curiosità

di appurare come sarebbe andata a finire—potete scommetterci

se non facevano affidamento sul disastro totale... La prima

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Page 221: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

di quelle che dovevano essere le non poche sorprese della

nottata fu che trovammo tanta gente a zonzo per le strade,

malgrado l’ora tarda. Le pensiline delle vecchie fermate in

particolare, quelle risparmiate per errore o per

dimenticanza dai guastatori in canottiera, erano ingombre di

gente che, in attesa, agitava il tagliando della corsa da

duecento lire: stavano accodati in ranghi serrati di diedi,

dodici utenti, ondeggiando alla volta del tram in arrivo e

ritraendosi tutti assieme al suo passaggio sferragliante,

come steli mossi dal vento, e reclinandosi e ritraendosi di

nuovo alla comparsa fugace del tram successivo, giubilanti

d’impazienza—colonne di utenti tanti grandi e compatte da

somigliare ad immobili cortei, che chiudevano il controviale

nel senso della larghezza, dal marciapiede alla pista

ciclabile. I profili delle pensiline di nuova costruzione,

invece, in vetro, acciaio e luci al neon, ondulavano

deserti, come miraggi in lontananza, contro le ombre delle

recinzioni dimenticate dagli stradini.

Io e i cunicolari ci siamo fatti una sgambata al

piccolo trotto dalla radio fino alla stazione centrale dove,

a parte il consueto mercatino dei giornali freschi di

stampa, non succedeva ancora niente di grave, e di lì siamo

passati attraverso i quartieri fatiscenti dei mercati

generali. Era una notte calda per quella stagione; i tetti e

le grondaie avevano inaugurato una specie di disgelo,

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Page 222: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

circoscritto ai palazzi più alti, e rovesciavano un loro

assordante sgocciolio sull’asfalto della strada.

A un certo punto del tragitto, dalle parti delle mura

romane, mi sento gridare: “Attento! Attento!” Mi getto di

lato alla cieca ed evito per miracolo un tram completamente

deragliato che, superato il nostro gruppetto, schizza

sibilando per una traiettoria verticale e si va a scontrare

col monumento a Cesare Augusto. La sagoma pesante del

veicolo esegue una serie di rigide contorsioni prima di

rovesciarsi sul fianco. Le due braccia metalliche aderenti

ai cavi di potenza si ripiegano sul tetto come le ali d’un

coleottero, e con un ultimo sbuffo il motore rovescia sul

fuggi fuggi dei passegeri una gerlata di scintille; più

morti che vivi dallo spavento, i passeggeri prendono a

vagolare in circolo sul prato che circonda la statua romana.

È a questo punto che si è scatenata la tragedia. Su per

il corso vediamo arrivare a piccoli gruppi disordinati,

scantonando paurosamente, una legione di omini vestiti dei

brandelli di quelle che dovevano essere le divise nuove dei

tranvieri cittadini, d’un bel blu carta-da-zicchero. Più

discosto, gesticolando alla maniera di un vigile urbano, un

tipo corpulento convoglia sulle piste dei tranvieri

fuggitivi una torma di uomini inferociti. Giunti alla nostra

altezza, gli omini blu ci scambiano per un’altra banda di

inseguitori, rimbalzano come molle da un marciapiede

all’altro, e continuano a correre senza direzione, pallidi

222

Page 223: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

come cenci. A una trentina di metri converge la sarabanda

degli inseguitori. Senza consultarci, vinti dalla curiosità,

io e i cunicolari ci accodiamo alla corsa generale. Preme da

ogni parte, adesso, un rumore di folla eccitata.

Confluiscono nuovi drappelli e prendono tutti a correre in

direzione della stazione centrale. Ecco che sbuca da un

vicolo, a fari spenti, un autobus scuro come un feretro,

carico di gentaglia che si sbraccia dai finestrini e ci fa

segno di montare a bordo. Il mezzo non accenna a rallentare;

ci saltiamo dentro a turno, aggrappandoci alle braccia

protese degli scalmanati. Al volante non c’è traccia di

conducente in divisa regolamentare: l’autista è un tizio con

la barba lunga e la camicia fuori dei pantaloni che riesce

ad imboccare solamente sensi vietati, in curva dà il tutto

gas al motore, ed effettua ricercati prodigi di destrezza su

tre, due, una ruota sola! I vetri dei finestrini sono stati

infranti a sassate e i seggiolini scardinati dal pavimento.

I regolari passeggeri paganti (mescolati a tanti ceffi

patibolari) si tengono appigliati agli scorrimano; sono

visibilmente rallegrati dall’arrivo dei pargoli cunicolari,

i quali, verdastri e puzzolenti come si presentano, non

mancano di suscitare simpatie ed aperti apprezzamenti. Si

brinda alla riuscita dell’impresa (ma quale, di preciso?),

succhiando a turno da un’unica pinta di vino Barbera; si

intona un coro di canti montanari intanto che il veicolo

sfreccia per la città. Qualcuno urla che il luogo di

223

Page 224: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

convegno generale è dalle parti della stazione centrale. C’è

nell’aria qualcosa di grosso...

Altre bande appiedate si attaccano alle portiere e ai

paraurti, intenzionate a requisire il nostro autobus.

Servendosi del tettuccio di un’auto in sosta come d’un

trampolino, un paio di sfegatati si tuffa a pesce dentro ai

finestrini. Il primo casca incolume all’interno dello

scompartimento e viene ridotto privo di sensi

dall’intervento pronto dei, chiamiamoli così, legittimi

requisitori; il secondo rimbalza contro la fiancata e

capitombola dimenandosi all’indietro. Accorrono nuovi mezzi

pubblici sequestrati—ce ne sono di quelli alimentati a

benzina e di quelli alimentati a elettricità. Le calandre

appaiate in formazione da parata, i veicoli procedono a

rotta di collo lungo il setaccio gocciolante dei porticati

che conducono al fiume. Non si contano i contusi: errano

scombussolati tra i cavi tranciati dell’alta tensione, che

frustano l’aria e saltano come anguille sull’asfalto

bagnato. Gli autisti invasati strombazzano un concerto di

clacsonate, una primordiale e irresistibile avvisaglia

guerresca in diverse cadenze di timbro e tonalità. Davanti

alla stazione centrale troviamo una gazzarra di automezzi

imbottigliati. È già cominciato l’assalto ai treni.

Quindici

224

Page 225: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

A me non fece nessun bene questa sortita notturna

all’umido e nel tumulto. L’indomani soffrii di stordimenti,

crampi, conati di vomito. La febbre saliva e scendeva come

una marea. Uno dei pargoli si offrì di interpellare un

medico ma io dovetti oppormi: la malsana promiscuità

cunicolare coinvolgeva un numero talmente elevato di

fanciulli che anche il più incallito dei dottori si sarebbe

fatto premura di segnalare il caso agli uffici competenti.

Del resto, cercavo di spiegare a destra e a manca, avevo

visto di peggio io, e non sarebbe stato quel briciolo di

malore a stroncarmi. Ben presto cominciai, ad ogni buon

conto, ad essere torturato da fantasie e malumori,

inverosimili prolungati abracadabra visionari che nel corso

della notte dovevano dare luogo al vero e proprio assalto

della follia.

I pargoli frattanto sembravano essersi

straordinariamente sensibilizzati al problema del

malcontento cittadino; potevo sentirli, dal sacco a pelo

dove mi dimenavo, mentre tenevano una specie di conciliabolo

inteso ad architettare una qualche maniera di alleggerimento

del disagio che era divampato la notte innanzi nelle strade.

Io mi ripromettevo di rimanere in disparte. Non era il

momento di farmi coinvolgere in iniziative di pubblica

utilità: le tempie martellavano forte forte, i denti

tremavano nei loro baccelli e di tanto in tanto provavo

l’impulso irresistibile di digrignarli in un ringhio. Con

225

Page 226: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

questa faccenda dei trasporti pubblici non c’era di che

scornarsi. Non volevo saperne.

Nel corso della mattinata brividi e sudore non

accennavano a scemare. Intanto, una sensazione importuna,

penosa eppure anche stranamente gradevole, mi scendeva e

saliva lungo la spina dorsale: era come se la mia schiena

tendesse lentamente ad incurvarsi e formasse piano piano una

gibbosità. Ma alla fine i mammoli, resi mogi e sconsolati

dalla sterilità della propria ignoranza, vennero a

consultarmi sulla decifrazione delle mappe della nuova rete

tranviaria: ed èccomi in piedi, commosso e pasticcione, a

barcollare ingobbito nella loro assemblea per illustrare i

tracciati dei nuovi percorsi di rete nello smozzicato gergo

cunicolare! Si trattava di collaborare in linea di massima

con i piani dell’azienda tranviaria, sostenevo nell’accordo

generale. Cosa fatta, capo ha! Non rimaneva che persuadere

gli utenti a servirsi delle nuove pensiline ed aiutarli ad

interpretare le mappe. Non potevamo lasciare la città in

mano ai sabotatori della notte prima.

Di cosa in cosa, dimentico del mio male, passo il resto

della giornata a fare preparativi in vista del nostro

intervento notturno: impartisco istruzioni, distribuisco

consegne. In un battibaleno arriva l’ora X, e alla testa del

popolo dei meandri cunicolari (tante facce verdastre ma ben

disposte!) emergo in superficie. Ci accoglie luccicante una

città inondata di pioggia. Abbiamo convenuto di operare in

226

Page 227: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

concomitanza con il primo turno dei trasporti serali, dalle

nove in avanti. Ci riportiamo nella zona delle mura romane e

cominciamo ad aspettare un’occasione di intervento a

beneficio della cittadinanza. A parte il tic tac della pioggia

sull’asfalto, non si avvertono segni di vita nel silenzio

intorno ai ruderi, finché non sentiamo il rombo lontano dei

mezzi su ruote e dei mezzi su rotaia che abbandonano i

depositi e si cimentano a correre nelle strade. A giudicare

dall’approssimarsi dello strepito, si direbbe che tutti gli

automezzi vengano convergendo simultaneamente alla volta del

nostro appostamento. Sembra strano ma è così...

Scorgo il primo veicolo svoltare all’altezza della

caserma dei pompieri e puntare diritto verso di noi: poi ne

arriva un secondo da destra, un terzo da sinistra. Viaggiano

rapidi, schierati su più fronti, i bei colori vivaci delle

carrozzerie gialle e rosse sfregano la scorza della notte

traendone fasci di scintille. Non ci vuole un Einstein per

capirlo: quei mezzi pubblici non sono in cerca di passeggeri

paganti bensì di un qualsiasi capro espiatorio per gli

incidenti di ieri notte. Infatti ora compaiono molti omini

in divisa schierati dietro ai tram e armati di randelli—le

divise sono quelle blu carta-da-zucchero, rimesse a nuovo

però e stirate di tutto punto.

Deve essersi sparsa la voce della presenza del nostro

assembramento perché un altro nutrito drappello di divise

blu arriva dal lato dei mercati generali, e una terza

227

Page 228: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

squadraccia, meno numerosa ma chiaramente più agguerrita,

scende lasciandosi alle spalle la piazza del Castello. È

chiaro che siamo vittime di un malinteso! I cunicolari si

consultano con me sulla direzione di fuga: alle spalle siamo

bloccati e il corso di fronte è ostruito da un autobus

sistemato di sbieco. La strategia degli omini blu è

meticolosa, non ci lascia via di scampo. Un pullman rosso

punta alla volta del mio gruppetto: accelera, accelera,

accelera... Faccio appena in tempo a sguinzagliare Lupo

quando mi prende una terribile fitta in mezzo alla fronte; è

come se una stella di luce mi s’aprisse un varco tra i lobi.

Mi mancano le forze; la schiena si inarca come per spezzarsi

intorno alla mia nuova gibbosità, le gambe mi si fanno

malferme. L’ultima immagine che percepisco con qualche

lucidità è quella della silhouette bruna di Lupo che fugge

tallonato dai fanali del pullman-kamikaze. Adesso i

cunicolari mettono su delle espressioni intimorite per

davvero, e mi si accalcano attorno nel tentativo di tirarmi

su. Ma io rifiuto il soccorso con un versaccio di gola. Con

una zampata mi scrollo di dosso le loro manine premurose.

Urlo che la smettano di strillarmi nelle orecchie! Lo so, lo

so anche da me che mi si tornisce la mascella e s’allungano

i canini! Ululando che mi lascino in pace, attacco a correre

a quattro zampe. La colonna dorsale non la smette più di

slanciarsi, inarcata; tanti barbigli setolosi mi spuntano in

faccia, sul collo, tra le gambe, sulla coda. Faccio

228

Page 229: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

schioccare le mandibole: clac! clac! clac! Mi getto latrando

incontro agli omini blu, li attacco a grandi colpi

d’artiglio. Piscio copiosamente dappertutto per segnare il

territorio: sulle ruote degli autobus, sulla faccia delle

mie vittime in divisa. Gli omini blu riparano dietro gli

automezzi e contrattaccano con una fitta sassaiola. Ma io

sventro le fiancate dei loro veicoli, vi penetro a zuccate,

ringhiando e rampando: invado, sfondo.

Sedici

Non potrei giurarci ma fin dal terzo o quarto giorno di

convalescenza credo d’aver visto il sole filtrare tra le

persiane della mia vecchia camera. Non ci volevo credere,

eppure sì, al tramonto il mio convalescenziario era esposto

ai raggi brucianti del sole. E poi ci fu un’occasione in cui

due mani robuste mi agguantarono sotto le ascelle per farmi

camminare fino sul terrazzino, dove fluttuava un bagliore

accecante; sbirciai in basso attraverso un tappeto di fronde

in cui vociavano passeri e rondoni, e ancor più sotto, ai

piedi dei tronchi d’albero, credetti di scorgere parecchi

bambini occupati a giocare lungo il viale, e tra questi

Susanna e Rocky correvano sollevando un sacco di polvere.

Poteva trattarsi soltanto di un’altra delle mie

allucinazioni, mi dissi in un intervallo del delirio—così

come del resto ero convinto che non fosse altro che un

miraggio lo stormo inverosimile di aquile che camminavano in

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Page 230: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

circolo attorno al mio letto. Il giorno era distinto dalla

notte da un labile, iterativo gioco ottico, con cui i miei

occhi inerti apprendevano pian piano a familiarizzarsi;

all’ora della passeggiata sul terrazzino una luce di gesso

mi perforava le pupille, poi mi seguiva in camera per

coricarmisi accanto nel letto; all’ora del pasto il pettine

delle gelosie mi sorrideva del sorriso amabile e posticcio

del Grande Mietitore; all’ora di dormire, tutto nella stanza

assumeva una tinta grigia compatta, salvo poi divincolare

uno sciorinamento di serpentelli luminosi al passaggio di

un’automobile sul viale di sotto.

Un pomeriggio verso la fine della prima settimana di

degenza vidi Burbera, la più bonaria tra i commercianti del

vecchio rione, calcare le piastrelle della mia camera

innaffiandole di una scia di goccioline odorose di timo.

Alle sue spalle entrò Burbero, le braccia cariche di arance

incartate, seguito da Ovino, occhialuto come sempre, e buon

ultimo arrivò Pecorino, che roteava le braccia come

girandole. Burbero e Burbera sedettero di fianco al letto,

uno per lato, e lui rovesciò sulle coperte tutte quelle

arance, che rotolandosi addosso si liberavano dei cappottini

di carta increspata che le avvolgevano. Le gambe

instivalate, il naso tempestato di minuscole chiocciole,

Burbero badava a tenersi discosto dalle lenzuola per non

inzaccherarle del tutto. Ovino e Pecorino stavano in

disparte; il primo, impettito ed eretto, valutava la povertà

230

Page 231: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

del mobilio nella stanza con un lampeggìo libellulare degli

occhiali, il secondo, le dita irrequiete come banderuole,

strisciava le mani sul comodino da notte, sulla testiera del

letto, sulla spalliera delle sedie, dappertutto gli

riuscisse di scovare una superficie priva di asperità. Curva

su di me, Burbera apriva e chiudeva sorridendo le labbra sui

due grandi incisivi; questi dentoni, sporgendo come i tasti

di una pianola, esibivano un’innaturale mobilità nel senso

della latitudine e si scambiavano l’un l’altro di posto

scivolando sulla chiostra bianca e nera della bocca. Poi

Ovino, come risoluto ad animare la conversazione, si informò

con Amaranta—che aleggiava sospesa vicino al soffitto—sulla

sorte dei nostri due vecchi amici, Marilina e Stefano

Kronskij. Sentii Amarana rispondere che non aveva più

notizie di loro. Avrei voluto raccontare ai miei visitatori

dei recenti progetti di Stefano Kronskij, della sua nomina

ad Alto Commissario alla Seconda Celebrazione in Memoria di

John Lennon, ma non potevo: la mia lingua rifiutava di

blaterare. Occhi ed orecchie erano i miei soli canali di

contatto col mondo esterno...

Avevo riconosciuto agevolmente i quattro visitatori ma

non potevo comunicare con loro. Avevo riconosciuto Amaranta

(era la prima volta), ma il suo aleggiare sospesa a

mezz’aria le dava un’aria da angelo e mi induceva a dubitare

della veridicità dell’esperienza. Avrei voluto chiederle che

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Page 232: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

ne era stato delle sue lenti opache, come mai non le metteva

più.

Riconobbi senza sforzo anche la vecchia Des Valois in

visita, che faceva come un grande bouquet colorato ai piedi

del letto a causa del mazzo di fiori che mi aveva portato,

sul cui sfondo spiccavano due scatole di cioccolatini e la

colomba pasquale, oltre al suo visino smunto, piccolo

piccolo, affondato nei petali. L’antica diva del melodramma

si esprimeva nei toni altisonanti delle eroine del

palcoscenico: forse per quello non mi era difficile seguire

il filo del suo racconto. Disse che quanto ai bambini del

caseggiato, la grossa novità riguardava Rocky, che aveva

smesso di frequentare la scuola elementare. I maestri

dicevano che non riusciva bene nelle materie scientifiche e

sulla pagella di Natale gli avevano rifilato tante

insufficienze. Ma la verità era che la giovane mamma

picchiava sovente Rocky sul naso e sugli occhi. Lui era

troppo piccolo per difendersi e la nonna troppo vecchia per

farlo in vece sua. I maestri dal canto loro ritenevano che

il suo grugno da boxeur suonato esercitasse un effetto

deprimente sul resto della scolaresca, e volevano disfarsi

di lui. La mamma di Rocky pensava di metterlo in collegio.

Non mi costò poi nessuna fatica identificare il gruppo

dei ceffi cerdastri che a giorni alterni si avvicendavano al

mio capezzale, seduti rigidamente in silenzio nella coda del

mio occhio sinistro, di dove non si spostavano mai. In quei

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Page 233: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

ceffi familiari, devo aggiungere, mi capitava sempre più

spesso di riconoscere questo o quello dei trovatelli

cunicolari, e mi azzardavo persino a chiamarli per nome—

esperienza quanto mai curiosa, se pensate che nei cunicoli

non mi era mai riuscito che di vederli e considerarli

piuttosto nell’insieme di gruppo (un tutto ammuffito e

verdastro) che non scelti singolarmente, ad uno ad uno.

Infine, una sera dopocena, si fecero vivi proprio loro,

Marilina e Stefano Kronskij. Io ero adagiato di sghimbescio

su tre candidi guanciali, la pettorina del pigiama ancora

coperta dei colori vivaci del bavaglino. Amaranta ci lasciò

soli ed io ascoltai senza parere, a occhi chiusi, la

conversazione scambiata sottovoce dai due Kronskij. Stefano

Kronskij aveva appena osservato che quella era la loro

camera di un tempo e Marilina gli diceva che però le pareti

erano state ridipinte, non erano più rosa. Non più tardi di

un anno prima, rammentavo, lo scafo barocco del letto di

Marilina e Stefano Kronskij era accampato al posto del letto

a due piazze su cui giacevo in quel momento. Nei giorni di

congedo dal lavoro per malattia Marilina preferiva tenere le

persiane chiuse e i vetri sigillati, cosicché l’aria nella

stanza si faceva irrespirabile. E teneva montagne di libri

impilati sul pavimento accanto al letto, parecchi aperti al

segno col dorso rivolto al soffitto, e quantità

impressionanti di flaconi medicinali pure sparsi sul

pavimento.

233

Page 234: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Ricomparve Amaranta, un po’ meno sollevata dal

pavimento che nei giorni scorsi, e Stefano Kronskij le

chiese se Vittorino era al corrente della sorte di Lupo.

Amaranta lo pregò di cambiare argomento. Io avrei voluto

tranquillizzarla che sapevo tutto, o meglio, avevo or ora

compreso di sapere tutto quel ch’era successo la notte del

tafferuglio cogli omini blu. Lupo aveva espiato la mia

imprudenza! I dettagli della sua uccisione per opera del

battistrada d’un mezzo di trasporto pubblico non avevano

importanza... Lupo aveva caricato in vece mia, ruggito e

azzannato per proteggere me dall’ira degli assalitori. Tutto

questo, ora, di colpo, ricordavo di saperlo: e conoscevo

finalmente la natura nascosta del mio male... Che Lupo

dovesse prima o dopo riunirsi al suo branco celeste era

inevitabile: la parentesi al mio fianco era stata una breve

vacanza da un destino prestabilito. Lupo era un esemplare di

canide che con i nostri soliti botoli domestici aveva

tutt’al più in comune la coda ritta, il tartufo dilatato

dalla paura, l’odore pungente del pelo. Il resto—io lo avevo

capito subito!—era tutto interamente selvatico, troppo

selvatico per la vita di città... Ma per me adesso era un

po’ come ricominciare da capo, a tabula rasa. Cosa sarei

diventato, lontano dal mio Lupo? Avevo un bel consolarmi di

aver temporaneamente soggiornato ai margini del mondo

gagliardo dei predatori randagi e di essermi sentito

riconoscere come eguale dalla belva, un pari a tutti gli

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Page 235: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

effetti: senza Lupo al fianco, a testimoniare del mio

speciale temperamento e della mia natura brada ed

incostante, tutto il passato recente sarebbe stato

cancellato d’un colpo di spugna. Per ricominciare da solo,

senza il sostegno di Lupo, mi sarebbe occorsa fors’ancora

più una predisposizione alla vigliaccheria che non un

carattere fermo. Insieme a Lupo, mi ero ritrovato come

d’incanto al di sopra delle parti, occupato a scrutare la

vita degli altri per quello che è invece che per quello che

pare o vuole parere d’abitudine; avevo afferrato la ragione

che determina l’immensa differenza tra la gente per bene e

la gente dappoco, tra quelli che hanno i mezzi per comperare

le mercanzie sugli scaffali e quegli altri che al contrario

non hanno quasi niente da vendere, salvo magari il sangue

delle vene. (A voler mettere i puntini sulle i:

quest’immensa ragione di differenza sta nel principio di

mercato che il sangue si misura a once e l’anima non pesa

sulla tara.) Una volta rimasto privo di Lupo, i normali

criteri di misura tornavano a valere anche per me, e non

c’era più nulla da dire, da fare, o da obiettare: a meno di

voltare le spalle una volta per tutte al mondo dei randagi,

della gente dappoco, e con qualche sinistro, agile colpo

gobbo trasportarmi immantinente nell’aureo universo di chi

compera le cose senza bisogno di vendere niente: mors tua...

Sentii Amaranta informarsi in un mormorio su quale

fosse la fonte delle informazioni di Stefano Kronskij. Come

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Page 236: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

aveva saputo dell’incidente occorso a Vittorino? Chi ne

aveva riportato i dettagli? Sentii che lui accennava a certi

suoi contatti personali, radicati nella gioventù cittadina

da che aveva presieduto alla Prima Celebrazione in Memoria

di John Lennon.

Quando Marilina e Stefano Kronskij si alzarono per

congedarsi, li seguii cogli occhi fino alla porta della

stanza. Non riuscivo ancora a piegare il collo ma le mie

pupille avevano riacquistato piena mobilità. Lasciai che la

sagoma di Marilina si perdesse oltre l’uscio. Ma poi sentii

l’impulso di impadronirmi dell’immagine di Stefano Kronskij:

da principio la costrinsi dentro ad un’evanescente capocchia

di spillo, poi la dilatai nello spazio d’un immenso salone

dalle volte a vela—volte tanto alte da risultare invisibili,

nere. Sotto le volte compare un codazzo di giovani

raggruppati dietro uno striscione sospeso nel vuoto che

dice: FESTA IN MEMORIA DI JOHN LENNON. Cerco di indovinare

la veduta d’insieme della celebrazione a dispetto del nero

delle volte... I muri si graffiano all’improvviso di laser

colorati e neon lampeggianti! Riesco ad intravvedere molti

ragazzini stazionanti nei tunnel di penombra che queste

luminarie intermittenti si disegnano intorno, bolle e

riquadri di luce in cui altri giovani danzano a passi

concitati. Forse tra questi giovani ci sono anche, ripuliti,

i miei vecchi amici cunicolari: difficile a dirsi, vista

l’eleganza uniforme che accomuna tutti quanti. Ci sono

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Page 237: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

uomini adulti anche, parecchi adulti in tutto e per tutto

identici a Stefano Kronskij: con barba e basco, baffoni

spioventi, borsa in pelle consunta sottobraccio, suadenti

sguardi dottrinali, questi tizi sussurrano instancabili i

versi e le liriche di John Lennon nelle orecchie protese dei

ragazzini. Sui palchi allestiti all’uopo, strani stormi di

uccelli battono le ali con una fierezza quasi brutale:

uccelli neropiumati in cuoio e borchie che sembrano

sgusciati fuori da spigolose armature medievali; uccelli

sparvieri dal muso di mastino che picchiano grandi becchi

ossuti su tamburi, corde e tastiere; leggiadri arcangeli

dalle chiome paglierine, esserini avvolti in ventagli di

struzzo che cicalano un canto strano e invitante, tutto

trilli e arpeggi. Ecco che la musica vortica arrampicandosi

dentro alle bolle e ai riquadri di luce affollati di

ballerini; questi ne accompagnano il ritmo con mossette

languide e strascicate dell’addome, oppure si limitano a

mimare un robotico tip-tap imperniato su stravaganti

ripetizioni senza fine. Io, nel mio pigiama moscio, ballo il

twist.

Diciassette

L’ultimo incubo della mia malattia non può essere

durato più di un paio di minuti in tempo reale ma occupò

almeno un paio di mesi della mia vagheggiante cronologia

onirica. Sognai che venne inaugurato il programma cittadino

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Page 238: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

di Lotta all’Inflazione. Il nuovo Capo della Città comparve

una sera in televisione e decretò che entro l’anno i prezzi

al dettaglio non sarebbero dovuti aumentare oltre il tetto

del 18%.

“Di aumenti superiori al 18%,” dichiarò in quella

occasione il Capo della Città, “non voglio nemmeno sentir

parlare!”

Il punto di vista del Capo della Città sarebbe stato

imposto ai soggetti recalcitranti colle buone o colle

cattive. C’era di che incorrere in gravi sanzioni. Nel mio

sogno la massima autorità cittadina lo affermava a lettere

tonde tonde dal teleschermo:

“L’OBIETTIVO DEL 18% SARÀ CONSEGUITO SENZA RIGUARDO PER

GLI INTERESSI EGOISTICI DEI SINGOLI!”

Pecorino era assorto in contemplazione dei baffetti

televisivi del Capo della Città e considerava l’eventualità

di farsene crescere un paio simile. “Quello si fa delle

idee!” osservò improvvisamente rivolto alla moglie. “In un

anno i prezzi crescono perlomeno del 30% al giorno d’oggi!”

Uno spettro si aggirava per il Paese (così si era

espresso il Capo della Città): era lo spettro

dell’inflazione galoppante! Ma da adesso in avanti questo

spettro avrebbe avuto a che fare con la Pubblica

Amministrazione! Il Capo della Città in persona si impegnava

ad arrestare l’inflazione nel giro di dodici mesi!

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Page 239: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

“Aspetta, prima di dargli torto!” obiettò Pecorina,

piccata dal disfattismo del marito. Alle elezioni comunali

Pecorina aveva votato per il Capo della Città e riponeva la

sua fiducia di elettrice nello staff governativo.

L’indomani all’alba Pecorina scese in negozio e

sostituì tutti i cartellini dei prezzi. Sognai che quando

Pecorino occupò finalmente il suo posto dietro il bancone

accanto al registratore di cassa, ebbe la sorpresa di

trovare tutti quanti i prodotti del loro assortimento

aumentati del 18% rispetto al prezzo praticato la vigilia.

Alle clienti che si lamentavano della novità, Pecorina

chiariva, rossa in viso dalla soddisfazione, che il Capo

della Città lo aveva raccomandato la sera innanzi in

televisione, di contenere gli aumenti entro il 18%.

“Il 18%!” recitava Pecorina con enfasi: “Il 18% è la

carta vincente contro l’inflazione!”

Colla scusa di cambiare una banconota in biglietti di

piccolo taglio, Pecorino visitò prima il negozio di Ovino e

poi il negozio di Burbero per sbirciare i loro cartellini

dei prezzi. Ovino aveva adottato certi nuovi tesserini

plastificati che riportavano il prezzo in rosso (aumentato

del 18%) su fondo bianco. Burbero si era limitato a scrivere

i nuovi prezzi accanto a quelli vecchi, sui quali aveva

tirato una rigaccia a matita. Allora Pecorino ritornò in

salumeria e, per la prima volta in tanti anni di matrimonio,

si congratulò con se stesso della compagna sagace che si era

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Page 240: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

scelto in gioventù; decise anche, nel rapimento

dell’euforia, di farseli davvero crescere i baffetti a

imitazione del Capo della Città. A metà mattina, però,

Pecorina rientrò dal solito giro di spese nei negozi di

Ovino e di Burbero con la sporta semivuota, agitando in mano

i conti scarabocchiati dai due commercianti. “Hanno

aummentato tutto!” Pecorino dovette faticare non poco per

impedire alla moglie di perdere la testa: se n’era già

scordata, che loro due avevano fede incondizionata nelle

misure antinflazionistiche del Capo della Città? Per

persuaderla ed ammansirla del tutto, le aprì sotto gli occhi

il registratore di cassa per mostrarle il gruzzolo di

banconote che vi avevano lasciato in poche ore le clienti

del mattino.

Quanto alla clientela abituale dei tre negozi, sognai

che le massaie erano tutte prese da una certa perplessità,

da una certa riluttanza a riporre la loro fiducia nelle

misure adottate dal Capo della Città. La gente andava e

veniva per le scale del condominio: una mesta processione di

teste chine che rientravano colle sporte vuote, adattandosi

a scavalcare i cumuli di spazzatura ammonticchiati lungo le

rampe delle scale pur di non scialare almeno sui costi

dell’ascensore. Salivano a labbra strette, senza parlarsi e

senza manco scambiarsi un saluto—sul fiato, almeno, potevano

ancora risparmiare.

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Page 241: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Quanto ai bambini del caseggiato, la conseguenza più

vistosa della politica del 18% riguardò il povero Rocky. La

sua giovane mamma e la sua nonna avevano cominciato a

mettere i soldi da parte per pagargli la retta del collegio;

così la svolta degli aumenti al 18% valse immediatamente a

Rocky, sebbene lui non fosse in grado di afferrare il

significato intrinsico del fenomeno, due nuove lividure

sotto gli occhi per mano della mamma, esasperata dopo il suo

giro di compere mattutine.

Trascorse il primo mese della Lotta all’Inflazione, e

non comparvero i paventati funzionari delegati al controllo

e all’applicazione della nuova normativa sui prezzi al

dettaglio.

“Non ti pare che i suoi siano troppo separati dal

labbro superiore?” domandò quella sera Pecorino alla moglie,

accarezzandosi i baffetti nuovi dinanzi all’istantanea in

prima pagina del Capo della Città, ritratto tra gli scaffali

d’un supermercato intento a controllare i cartellini dei

prezzi.

“I suoi sono come hanno da essere!” tagliò corto

Pecorina.

Il mattino seguente, prima dell’alba, Pecorina scivolò

fuori dal letto in cui Pecorino dormiva sbattendo le braccia

in su e in giù e scese subito in negozio, sul viso ancora

turpe di sonno un’espressione fredda e determinata. Si mise

subito al lavoro e nel giro di un’oretta tutti i cartellini

241

Page 242: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

dei prezzi esposti sul bancone e nelle vetrine erano stati

aumentati del 18%. Non furono i nuovi prezzi, comunque, a

colpire per primi l’attenzione di Pecorino quando scese pure

lui in negozio, bensì lo spiegamento di bandierine tricolore

che adornavano i cartellini dei prezzi, una bandierina

accanto a ciascun prodotto.

Stavolta Pecorina aveva anticipato tutti gli altri

bottegai! Bisognava vederli, i nostro vicini di casa che

sfilavano sulle scale dondolando sconsolatamente il capo, le

sporte sempre più leggere, e Burbero che scribacchiava in

tutta fretta i nuovi prezzi facendosi il conto del 18% sulla

punta delle dita e stringendosi nelle spalle alle lamentele

di Burbera, e Ovino che nascondeva in frigorifero i tagli

della carne migliore, speculando sull’imminenza del mercato

nero. E infine, non vi dico la pena che mi faceva Rocky in

lacrime, più livido e pesto che mai.

Questo spiega perché, nella logica contorta ma efficace

del mio sogno, Amaranta avesse frainteso a tutta prima le

ragioni dell’assenza di Ovina e Pecorina in occasione della

visita della delegazione dei bottegai rionali al mio

capezzale. Amaranta si era convinta che la macellaia e la

salumiera disapprovassero la riconciliazione intrapresa con

quella visita dai rispettivi mariti, ma la verità era

un’altra... Poche ore prima di quella visita, Pecorino aveva

scoperto la moglie nascosta nello sgabuzzino del negozio che

calcolava il 18% di aumento da applicare ai prezzi

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Page 243: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

all’inizio del mese entrante, il terzo mese della Lotta

all’Inflazione. Le tabelle ufficiali degli aumenti decretati

dal Capo della Città erano tuttora in via di pubblicazione;

i funzionari delegati all’applicazione delle nuove norme non

accennavano a farsi vivi. Forte dei suoi nuovi baffetti

filogovernativi, Pecorino si era lasciato andare

all’espressione di qualche dubbio sulla legittimità

dell’operato della moglie. “Tre aumenti in tre mesi?” le

chiese. “Non ti pare di esagerare?” Tanto era bastato per

mandare Pecorina su tutte le furie: il marito era un

assenteista che boicottava lo spirito di solidarietà

cittadina, era invidioso del Capo della Città che era più

attraente, e cosa credeva di ottenere con quei ridicoli

baffetti da gigolò! Basta! Era venuto il momento di dire

pane al pane: bisognava iniziare le pratiche del divorzio!

Pecorina abbandonò precipitosamente il negozio, lasciando

Pecorino solo e in lacrime dietro al bancone.

A partire dall’indomani Pecorina aveva preso servizio

come commessa nella macelleria di Ovino. Questo episodio

giustificava l’intensità dell’amicizia che nel mio sogno la

legava ad Ovina, la quale, oltretutto, ospitava Pecorina in

casa propria dopo che questa aveva disertato il tetto

coniugale, nella camera degli ospiti sopra il negozio.

Inoltre l’episodio spiegava l’origine dei primi dissapori

delle due bottegaie nei confronti di Burbera: quest’ultima

aveva preso partito in favore di Pecorino e aveva anche

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Page 244: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

sollecitato l’atto di buon vicinato eseguito dal marito e

dagli altri bottegai nei miei confronti.

In salumeria, invece, Rocky adesso fungeva da sostituto

di Pecorina; imparava a manipolare i pulsanti del

registratore di cassa sotto la supervisione solerte di

Pecorino. Questi, gli occhi rossi dal gran piangere,

ammaestrava amorevolmente il bambino dagli occhi gonfi di

botte—li si sarebbe potuti scambiare per padre e figlio.

Rocky si era trasferito ad abitare nella casa di Pecorino, e

viveva adesso in un ambiente molto diverso da quello di

origine. Pecorino, che non aveva figli suoi, gli assicurava

pasti regolari, gli concedeva frequenti soste dal lavoro per

una visitina al ricreatorio della parrocchia in compagnia

dell’amica Susanna, lo mandava a letto la sera presto nella

suo nuova spaziosa cameretta. Rocky trascorreva giornate

discretamente uniformi e dall’andamento prevedibile, si

faceva abitudini sue, le occhiaie gli si schiarivano, e i

suoi intestini lavoravano con alacrità.

Ovina e Pecorina avevano subito intrapreso i loro

maneggi. In fondo, era l’avviso delle due alleate, non

sarebbe stato troppo arduo ricambiare Pecorino del genere di

trattamento che lui aveva impartito nel recente passato al

suo ex-nemico Vittorino—specie quando ad occuparsi

dell’impresa fossero le ideatrici stesse del complotto a mie

spese, complotto per cui il salumiere aveva fornito tutt’al

più il braccio esecutore, anzi le due irrequiete braccia

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Page 245: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

esecutrici, non certo la mente. Di comune accordo, le due

donne cominciarono ad imbastire una loro sinistra

cospirazione. Adesso Pecorina era disposta a tutto pur di

riprendersi il marito: considerato il manifesto attaccamento

del marito per il bambino Rocky, infatti, Pecorina aveva

ragione di presagire il proprio definitivo abbandono da

parte di Pecorino, il quale, svanita la moglie litigiosa, si

trovava a vivere d’incanto un insperato, gratificante ruolo

paterno. Il pettegolare insistente di Ovina e Pecorina,

nelle botteghe e in strada, a proposito di certe scabrose

propensioni che avrebbero afflitto Pecorino al tempo della

giovinezza e che potevano facilmente ripercuotersi sulla

formazione e l’equilibrio emozionale di Rocky, ebbe un

impatto strepitoso sulle massaie del vicinato. Lievitando

della propria eterea sostanza, le maldicenze assumevano

molte forme differenti ma una sola, ingombrante consistenza.

Incuriosite dalla faccenda, le massaie—un’imponente quanto

acefala massa di manovra—tornavano ad accalcarsi nella

macelleria di Ovino, sebbene ora fosse rimasta in vendita

solo la carne di seconda scelta a prezzi esorbitanti, per

aggiornarsi sugli ultimi sviluppi. Dal canto suo, Ovino

compariva malvolentieri e sempre meno di frequente dietro il

bancone di vendita.

I maestri della scuola elementare si tenevano in

disparte in quanto il nome di Rocky era stato depennato dai

loro registri; benché invitati ad aderire al fronte del

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Page 246: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

vituperio costituito da Ovina e Pecorina, si

disinteressavano della sorte del bambino che aveva dato loro

troppi grattacapo. Le due nemiche di Pecorino cercavano

alleati, ma la loro proterva politica del 18% contribuiva

non poco a raffreddare gli entusiami delle aderenti

potenziali alla crociata in difesa della moralità pubblica.

Il ricordo elettrizzante della Tavola Rotonda organizzata a

mie spese era tuttora vivo nel quartiere: Ovina e Pecorina

la citavano alle riluttanti e alle indecise, la portavano ad

esempio di quel che possono ottenere gli sforzi congiunti

della gente dabbène, ma innumerevoli volte capitava che la

stessa cliente che s’era lasciata infiammare dalle due

sobillatrici si smontasse bruscamente al momento di pagare

il conto della spesa. Le massaie comunque erano state messe

sul chi vive, agitavano i mestoli dalle finestre come

un’armata senza duce.

Una volta escluse dal panorama delle alleanze sia la

minoranza delle clienti rimaste fedeli a Pecorino e convinte

della sua innocenza, sia la maggioranza di quelle che,

colpevoliste dichiarate, si consideravano favorite dalla

politica dei prezzi moderati praticati in salumeria da

Pecorino dopo la fuoriuscita della moglie, ed erano pertanto

disposte a chiudere un occhio sulle pecche della sua vita

privata, si riducevano a due i sostenitori potenziali della

tresca di Ovina e Pecorina: c’era il parroco della nostra

Parrocchia, col quale la macellaia in particolare coltivava

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Page 247: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

rapporti di stretta amicizia, e c’era la giovane mamma di

Rocky, la quale però, per ragioni che non svelava, non aveva

messo più piede in sacrestia dal giorno del battesimo del

figlio illegittimo. Dunque i due sostenitori facevano ognuno

gruppo a sé.

Ovina non sapeva, veramente, se le convenisse davvero

coinvolgere il parroco nella guerra contro Pecorino.

L’ecclesiastico era certamente avvezzo ad intromettersi

nelle beghe del quartiere, ma in questo caso il diretto

interessato, Pecorino, aveva ottenuto di riavvicinare

all’ovile della sacrestia un soggetto notoriamente

difficile, il più scorbutico e manesco dei bambini della

Parrocchia, che ora compariva di frequente, docile come un

agnellino, nella sala del ricreatorio parrocchiale. Ovina

temeva insomma che a proposito della relazione che legava

Pecorino al bambino Rocky, il parroco si sarebbe limitato ad

assumere un atteggiamento di cauta discrezione. Vista

l’impossibilità, d’altronde, di produrre prove irrefutabili

della colpevolezza di Pecorino, soltanto l’evidenza

circonstanziale nonché il supporto di qualche ferreo

argomento teologico avrebbero indotto il sacerdote ad

ingerire energicamente. Ma in materia di dottrina non c’era

che il parroco stesso in grado di scovare il gabbo

conveniente: questo il circolo vizioso in cui si dibatteva

la macellaia.

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Page 248: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Sull’altro fronte, Pecorina vagheggiava che se un

giorno la mamma di Rocky si fosse decisa ad irrompere in

salumeria, nell’ora di punta magari, e avesse reclamato

l’immediata restituzione del suo bambino, accampando una

qualche cruda supposizione riguardo alla natura dell’affetto

che legava Pecorino al giovane e sprovveduto apprendista, la

mossa sarebbe risultata fondata e convincente agli occhi di

tutte le presenti: avrebbe certamente debellato sul nascere

le risorse delle sostenitrici di Pecorino. La carta

dell’intervento della mamma di Rocky andava giocata con

grande precauzione però, per due ragioni essenziali. In

primo luogo, la giovane mamma di Rocky godeva, insieme alla

nonna del bambino, d’uno spazio domestico considerevolmente

accresciuto da che Rocky aveva sgomberato il loro monolocale

della sua brandina pieghevole: questo primo fattore favoriva

gli interessi di Pecorino a scapito di quelli delle due

congiurate. In secondo luogo c’era la figura pubblica della

mamma di Rocky in quanto ragazza-madre. Abituata a vedersi

riconosciute dalle residenti dei nostri environs tutte le

prerogative della ragazza ma nessuna di quelle solitamente

attribuite alla madre, le si profilava di colpo un’occasione

insperata di rifarsi a spese dell’oppressione pluriennale

con cui l’aveva afflitta da sempre il vicinato, in

particolare il battaglione delle massaie maldicenti. La

giovane donna si apprestava verosimilmente a barattare la

devozione filiale in cambio di adeguate contropartite.

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Persino Pecorina comprendeva che andava evitata a tutti i

costi una incresciosa situazione da vendita all’incanto—chi

le garantiva che Pecorino non potesse offrire di più?

Ogni possibilità offensiva aveva le sue patenti

controindicazioni, insomma. Fu Pecorina, infine, a venirsene

fuori colla trovata del Sindacato.

“Altrimenti,” argomentò una sera, asserragliata con

Ovina a cospirare nella camera degli ospiti sopra il

negozio, “che cosa ci stanno a fare le disposizioni contro

lo sfruttamento minorile, se il Sindacato non si occupa di

farle applicare?”

Innanzitutto bisognava dimostrare che Rocky era un

bambino sfruttato sul posto di lavoro. Pecorino non si era

certamente cautelato dietro la consuetudine d’un contratto

regolamentare di assunzione, pertanto non avrebbe mai potuto

dimostrare la propria buona fede di fronte a un giudice.

Quanto a Rocky, da cui c’era da aspettarsi una presa di

posizione in difesa dell’amico salumiere, non sarebbe stato

difficile metterlo alle strette: se non svolgeva mansioni di

lavoratore dipendente in salumeria, forse che Rocky si

aspettava di essere considerato alla stregua di un

collaboratore esterno, di un prestatore d’opera occasionale?

In questo caso, quando contava di saldare l’imposta sulla

ritenuta di acconto? Aveva emesso regolare fattura di

pagamento a fine mese? Oppure aveva già cominciato a frodare

il fisco, lui così piccolo?...

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Page 250: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

Questo l’incubo che concluse la mia malattia.

Diciotto

L’indomani di questo sogno mi svegliai vibrante in ogni

fibra del corpo, tutti i muscoli al loro posto e gratificati

d’un baldo, sincero slancio perineale. Amaranta mi dormiva

accanto, le cosce all’erta, accanendosi sul sonno come se

fosse una prelibatezza e pompandoselo dentro a dosi

generose. Mi alzai senza svegliarla per andare in cucina a

leggere il calendario: eravamo arrivati al mese di Aprile,

verso la metà. Anche per quest’anno avevamo superato

l’inverno, bene o male. La cucina era inondata d’una luce

benigna, spinta in su dalla strada a onde e scossoni

discontinui; il cielo azzurro copriva senza tremori la

distesa bianca dei tetti, piana e netta, e

l’attorcigliamento delle grondaie, e gli sgocciolatoi

scintillanti, mentre tutti i riflessi della primavera

lampeggiavano esaltati al di sopra del folle can-can

industriale. M’era andata di nuovo bene: a morire era stata

la mala stagione, anche questa volta.

Potevo cantare a squarciagola, spalancare le finestre,

scordare la caffettiera a sbuffare sul gas, scuotere e

abbracciare il frigorifero vuoto. Entrai nel mio studio a

guardare la scrivania, coperta dei foglietti sparsi e degli

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Page 251: Cronache dal frigorifero. (romanzo)

appunti che vi avevo lasciato il giorno, la notte anzi,

della mia fuga con Ella. Gli scaffali: contenevano tanti

libri che conoscevo a menadito. Libri che vanno, libri che

vengono, pensavo con letizia. Per un libro perduto, dieci

libri trovati, pensavo. I libri sono come gli amori dei

marinai, se ne trova uno nuovo ad ogni frangente... I volumi

che avevo lasciato sul tavolo, uno di Mann, due di Twain,

tre di Dostoevskij: nemmeno a quelli, sempre a portata di

consultazione, scoprivo di tenere più di tanto, ormai. Forse

non li avrei mai più aperti! Mi pareva incredibile tanta

improvvisa lucidità, tanto disincanto, ma non è così che va

la vita? Ti svegli un bel giorno, riemergi dalle profondità

del sonno della morte, e scopri di non avere più

predisposizione agli amori fittizi. T’ha preso del tempo per

arrivare a questo stato invidiabile di aderenza alla Vita;

da principio t’è toccato assimilare ed infliggere un sacco

di dolore—una sfilza di sofferenze, un libro per ogni

singola sofferenza, e tu te ne stavi occupato ad

impiastricciartene l’anima delle deliziose parole che

esprimevano il tuo dolore, la tua pena a mille carati. La

ungevi d’un balsamo, la unguentavi perché si mantenesse

fresca. Più tardi hai cominciato a mettere ordine; enormi

scaffali pieni di parole scritte da altri, sempre nuovi

scaffali—il cielo non era abbastanza grande per tutti quegli

scaffali colmi di parole, tante erano le afflizioni altrui

che ti occorrevano per raccontare la tua. E cambiavano a

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poco a poco le parole che avevi stipato sui ripiani,

cambiavano senza darlo a vedere. Con quell’autore lì, assez!

Con quell’altro laggiù, chiuso! La tua infelicità si

aggiornava, per così dire; ne avevi consumata tanta da

esaurirne le possibilità di assortimento, avevi dato del tu

alla disperazione, scialuppato tra angoscia e tormento. Gli

autori letti e riletti, quelli cui volevi somigliare, quelli

da emulare... Non te ne importa più niente, sei a secco. Hai

una stazione al posto del cuore, un aeroporto. Hai letto

tutto, trangugiato tutto, digerito tutto. Hai ancora fame!

Sedetti al tavolo e attaccai a scriverla da me la mia

storia. Punto e a capo.

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