Corso di Laurea Magistrale in Economia e Gestione delle Aziende Tesi di Laurea Corporate Social Responsibility - La gestione del rischio reputazionale e la violazione dei diritti civili. Analisi del caso H&M. Relatore Prof. Chiara Mio Laureando Stefano Rizzo Matricola 823928 Anno Accademico 2015 / 2016
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Corso di Laurea Magistrale
in Economia e Gestione delle Aziende
Tesi di Laurea
Corporate Social Responsibility - La gestione
del rischio reputazionale e la violazione dei
diritti civili. Analisi del caso H&M.
Relatore
Prof. Chiara Mio
Laureando
Stefano Rizzo
Matricola 823928
Anno Accademico
2015 / 2016
INDICE
Introduzione
Capitolo Primo - La nascita della Corporate Social Responsibility e il
concetto di sostenibilità
1.1. Gli albori della Responsabilità Sociale d’Impresa
1.2. La CSR negli anni ‘60
1.3. La CSR negli anni ‘70
1.4. Le teorie degli anni ‘80
1.4.1. Corporate Social Performance
1.4.2. La teoria degli stakeholder
1.4.3. L’etica degli affari
1.5. La CSR negli anni ’90 e il concetto di sostenibilità
1.6. La CSR nelle teorie moderne
1.7. Riflessioni
Capitolo Secondo - Analisi del caso H&M
2.1. Il Gruppo H&M
2.2. L’approccio alla sostenibilità
2.3. H&M Conscious
2.3.1. Offrire moda a clienti consapevoli
2.3.2. Selezionare e premiare partner responsabili
2.3.3. Comportamento etico
2.3.4. Azioni favorevoli nei confronti del cambiamento climatico
2.3.5. Ridurre, riutilizzare, riciclare
2.3.6. Utilizzo responsabile delle risorse naturali
2.3.7. Rafforzamento delle comunità
2.4. Analisi finali
2.4.1. Analisi rispetto ai principi internazionali
2.4.2. Best practice nella moda
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Capitolo Terzo – La gestione del rischio reputazionale e la violazione
dei diritti civili
3.1. Reputazione e rischio reputazionale
3.2. I rischi della gestione irresponsabile della supply chain
3.3. Reputation Risk Management
3.4. CSR e rischio repuatazionale. Un modello di Sustainable Supply Chain
3.5. La CSR rappresenta una soluzione efficace per intercettare il rischio
reputazionale?
Conclusioni
Bibliografia
Sitografia
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INTRODUZIONE
Le grandi aziende e le multinazionali sono spesso causa di gravi problemi sociali e ambientali
come la violazioni dei diritti civili e lo sfruttamento delle risorse naturali. Questa realtà ha
portato nel tempo all’evolversi di alcune tematiche quali la responsabilità sociale delle imprese
e il concetto di sostenibilità.
Allo stesso modo si sono evolute anche le dinamiche d’acquisto e i neo-consumatori oggigiorno
vogliono stare bene con se stessi indossando capi che non pesino sulle loro coscienze, che diano
loro la possibilità di soddisfare l’esigenza di comportarsi in maniera responsabile, inoltre la
consapevolezza li rende più selettivi e pretenziosi, cercano capi di qualità ad un prezzo
accessibile e realizzati in maniera sostenibile. Le aziende devono quindi riconosce che si tratta
di esigenze che devono essere messe al centro dell’attività al fine di instaurare rapporti più
stretti con i consumatori e fornire loro un vero valore aggiunto.
La sostenibilità da così la possibilità alle aziende di differenziarsi puntando su un nuovo asset
strategico intangibile ovvero la corporate reputation. La reputazione diventa quindi un
elemento da ottimizzare attraverso il controllo dei rischi che possono impattare negativamente
sulla sua percezione, rischi derivanti in particolar modo dalla gestione irresponsabile della
suppy chain.
Nel primo capitolo si vogliono fornire al lettore le nozioni teoriche necessarie per comprendere
in maniera chiara il significato di Corporate Social Responsibility (CSR) e il concetto di
sostenibilità. Entrambi si sono evoluti attraverso gli anni grazie al contributo di studiosi e
istituzioni sovrannazionali. Il percorso proposto parte indagando le prime forme di
responsabilità sociale riscontrate negli stati uniti sul finire del 19° secolo e terminerà con
l’analisi delle moderne teorie di CSR.
Il secondo capitolo prende in considerazione il caso concreto dell’azienda svedese H&M che
opera nel cosiddetto mercato fast fashion caratterizzato da bassissimi costi di produzione e
tempistiche brevi. Il capitolo si compone di una prima parte di raccolta dati riguardanti la
performance di sostenibilità dell’azienda, mentre nella seconda parte viene svolta un’analisi dei
dati raccolti mettendo in relazione le politiche di CSR rispetto alla letteratura, ad alcune best
practice della moda e infine rispetto ai principi sociali e ambientali proposti dal global compact.
Nel terzo capitolo il focus viene posto sulla violazione dei diritti civili lungo la supply chain,
su quanto questo possa rappresentare un rischio reputazionale per le aziende e come tale rischio
può essere gestito. Elementi di letteratura e casi pratici spiegheranno cosa comporta la gestione
irresponsabile della catena di fornitura. Verrà quindi proposto un modello di Sustainable Supply
Chain Management per dimostrare come la CSR possa rappresentare una soluzione efficace per
intercettare i rischi reputazionali derivanti dalla violazione dei diritti civili.
1
CAPITOLO PRIMO
LA NASCITA DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY E IL CONCETTO
DI SOSTENIBILITA’
1.1 – Gli albori della Responsabilità Sociale d’Impresa
La Corporate Social Responsibility è diventata una realtà con cui le aziende, soprattutto le
grandi aziende, devono inevitabilmente fare i conti. E’ un argomento giovane e recente ma allo
stesso tempo molto articolato. E’ giovane perché i primi studi e le prime pubblicazioni risalgono
circa agli anni ‘40/’50 ma solo dagli anni ’90 vengono delineate linee guida ed emanati i primi
regolamenti, è articolata perché abbraccia l’intero operato aziendale andando a cambiare il
modo di pensare e agire dei manager.
Procedendo con ordine lungo la linea temporale dello sviluppo della CSR (o RSI) possiamo
riconoscere le prime forme di responsabilità sociale negli anni a cavallo tra la fine dell’800 e
l’inizio del 900. In quel periodo negli Stati Uniti un forte Populist Movememt denunciava alcuni
grandi industriali dell’epoca considerati come dei predoni o sciacalli che per soddisfare i loro
interessi non si facevano scrupoli. Le pressioni portarono così il presidente dell’epoca Theodor
Roosevelt a emanare le prime legislazioni antimonopolistiche (1896) a cui seguirono episodiche
forme di filantropia da parte degli imprenditori più influenti come Jhon D. Rockfeller e Andrew
Carnagie1.
Vent’anni più tardi il meccanismo si ripeteva, nuove spinte dal basso producevano i loro effetti
attraverso le lotte sindacali ma questa volta ad essere al centro dell’attenzione erano le
condizioni abitative, di salute e di sicurezza previdenziale dei lavoratori. Tutto ciò portò
all’introduzione delle prime forme di welfare aziendale che avranno però vita breve in quanto
1 Derber C. “The Fourth Wave”, in Notizie di Politeia, 72, 2003, pp. 43-49
2
la Grande Depressione del 1929 distolse l’attenzione da tali pratiche che subirono una
inevitabile battuta d’arresto2.
Circa un decennio più tardi il tema della responsabilità sociale delle aziende intraprese un nuovo
corso superando i confini della lotta sindacale e iniziando a interessare studiosi ed economisti
che si interrogavano su argomenti quali la separazione tra proprietà e controllo, manager e
portatori d’interesse. Da questo momento in poi si susseguirono numerosi studi e diverse
correnti di pensiero che negli anni ’50 portarono la CSR ufficialmente a far parte della
letteratura accademica e manageriale.
Berle e Means (1932) furono tra i primi ad affrontare il tema della separazione tra proprietà e
controllo aziendale. Il loro studio, “The Modern Corporation and Private Property”3,
dimostrava come in molte grandi imprese americane fossero i manager ad avere l’effettivo
controllo sulle scelte di governo tanto da identificare questa realtà come capitalismo
manageriale. L’ampia discrezionalità dei manager però metteva in luce altri quesiti che gli stessi
Berle e Means si ponevano, ovvero: nei confronti di chi il management aziendale deve rendere
conto? Di chi deve fare gli interessi l’azienda? Secondo Berle “i poteri dell’impresa sono in
custodia per conto degli azionisti”4, per altri autori come Dodd sono invece in custodia per
l’intera collettività. Lo stesso Dodd spiega infatti come “l’opinione pubblica impone oramai di
considerare l’impresa un’istituzione economica che svolge un servizio sociale, così come la
funzione di produzione del profitto”5.
Lo studio di Berle e Means funge da apripista e negli anni successivi numerosi sono gli autori
che si interessano alla tematica. Allo stesso tempo inizia a diffondersi la concezione secondo
cui l’impresa non debba rendere conto unicamente agli azionisti e alle banche, ma anche ai
dipendenti, ai clienti e in generale a tutta la società in cui essa si trova immersa poiché, con i
suoi comportamenti, influenza significativamente anche la vita di tutti loro6.
Negli anni ’50 il capitalismo manageriale continua ad essere al centro dell’attenzione e ad
affrontare il dibattito sull’argomento sono Bowen e Selekman.
La separazione tra proprietà e controllo aveva portato i manager ad essere individuati come una
nuova figura professionale a cui erano inevitabilmente collegate responsabilità tecniche e
2 Morri L., “C’era una volta l’America… - Una nota sulle origini della responsabilità sociale d’impresa”, in
Bertagni B., La Rosa M. e Salvetti F., 2007 3 Berle A., Means G., “The Modern Corporation and Private Property”, Transaction Publishers, New Brunswick,
N.J., 1932 4 Berle, 1954, pag. 169, citato in Wedderburn, 1986, pag. 39 5 Dodd, 1932, pag. 1148, citato in Wedderburn, 1986, pag. 41 6 Alaimo, A., “Etica del lavoro: verso un nuovo paradigma della responsabilità sociale delle imprese”. Roma:
ANIMA per il sociale nei valori d’impresa. 2007
3
morali. Per Selekman la responsabilità primaria dei manager rimaneva quella di creare profitto
e il benessere sociale passava inevitabilmente in secondo piano inoltre, sosteneva l’autore,
“l’unico giudice morale del management è la società intesa come investitori, clienti e opinione
pubblica. Il vero problema è come sviluppare codici e filosofie che possano diventare a tal punto
accettate come fatti di costume, che l’individuo reo di violarli diventi più o meno un reietto”.7
In sostanza secondo Selekman la responsabilità sociale dei manager doveva essere controllata
da sindacati e governo limitando la loro discrezionalità e imponendo oneri economici al
mancato rispetto dei vincoli sociali e morali imposti dall’alto.
Bowen invece, che in quegli anni aveva appena pubblicato il suo studio sulla formazione di una
coscienza sociale degli uomini d’affari, sosteneva che “gli obblighi dei businessman sono
perseguire quelle politiche, prendere quelle decisioni e seguire quelle linee di azione che siano
desiderabili in rapporto agli obiettivi e valori della nostra società”8. Parlando di valori l’autore
sostiene che il businessman o manager non deve anteporre i propri a quelli socialmente accettati
in quanto “servitore della società”. In opposizione con il pensiero di Selekman, Bowen ritiene
che l’uomo d’affari debba riconoscere l’importanza sociale delle grandi imprese guidando le
proprie azioni in maniera responsabile e soprattutto volontaria, senza quindi subire imposizioni
dall’alto.9 L’autore inoltre evidenzia come stia diventando necessario considerare, oltre ai fini
economici, anche gli effetti che l’impresa ha sulla società e il territorio in cui essa è
localizzata10. Proprio grazie alla sua opera “Social Responsibilities of the Businessman” del
1953 Bowen viene considerato il padre dell’era moderna della CSR.
1.2 – La CSR negli anni ‘60
Negli anni ’60 il contributo maggiore in tema di CSR viene fornito da K. Davis che con la sua
opera “Iron law of responsibility” (1960) mette in evidenza il rapporto tra responsabilità e
potere delle grandi aziende. Le sue convinzioni derivavano da un semplice pensiero sul fatto
che responsabilità e potere sono legati in tutti gli aspetti della vita umana e di conseguenza lo
sono anche nella relazione tra azienda e società. Secondo l’autore “il rifiuto di responsabilità
7 Selekman B., “A Moral Philsophy for Management”, McGraw-Hill, New York. 1958 8 Bowen H., “Social Responsibilities of the Businessman”, Harper & Brothers, New York, 1953 9 Ibidem 10 Bressan A., “La salute e sicurezza sul lavoro nelle piccole e medie imprese italiane, un approccio socialmente
responsabile”, Milano: Italian Centre for Social Responsibility. 2008
4
sociale conduce a una graduale erosione di potere sociale” e “social responsibility of
businessmen need to be commensurate with their social power”.11
Davis nella sua opera riprende poi due concetti di Bowen (1953): in primo luogo la
discrezionalità dei manager i quali devono prendere le decisioni andando oltre i meri interessi
economici, in secondo luogo sottolinea la volontarietà delle scelte responsabili e l’importanza
di essere attori attivi e propositivi riducendo così il rischio di venire imbrigliati da vincoli e
limiti imposti da sindacati e governi.
Allo stesso modo è Walton12 nel 1967 a condividere la tesi sulla volontarietà, aggiungendo che
l’impresa non dovrebbe agire responsabilmente solo se obbligata per legge o sotto pressione di
sindacati e opinione pubblica, come avveniva effettivamente in quegli anni, ma appunto su base
volontaria. Lo stesso autore sottolinea infine come un’azienda responsabile debba essere
disposta a sostenere costi non direttamente collegabili a un ritorno economico, un concetto che
in quegli anni veniva elaborato per la prima volta ma che successivamente sarà oggetto di
grande studio.
Come si può notare, dagli importanti contributi citati, la CSR prende sempre più piede grazie
anche al crescente interessamento da parte del mondo accademico all’etica degli affari, che
diventa oggetto di corsi universitari dedicati, di specifici centri di ricerca e di riviste scientifiche
di settore.13
Se da un lato le teorie di CSR venivano sempre più prese in considerazione da studiosi ed
economisti, dall’altro lato raramente erano condivise dai manager che di fatto non le
consideravano redditizie per l’azienda. Della stessa idea dei manager era Milton Friedman che,
a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 e in opposizione al pensiero di Davis e Walton, riprendeva la
teoria neoclassica sostenendo che l’unico compito dei manager era creare profitto e che usare
il denaro degli azionisti per azioni socialmente responsabili non rientrava tra i loro diritti.
Rifiutando il modello della separazione tra proprietà e controllo Friedman ritiene, poiché sono
gli investitori a possedere l’impresa e ad assumere i manager per gestirla per loro conto, che i
manager siano “agenti” degli investitori e pertanto abbiano l’obbligo fiduciario riconosciuto
dalla legge di agire nel loro interesse esclusivo.14 Secondo questa corrente di pensiero
11 Davis, K., “Can business afford to ignore social responsibilities?” California Management Review, Spring, 1960,
pp.70-76 12 Walton C., “Corporate Social Responsibilities”, Wadsworth Publishing Company, Belmont, Ca, 1967 13 Nobili, V., “La responsabilità sociale e la responsabilità penale delle imprese”, Rapporto sullo sviluppo
sostenibile n.4, Fondazione ENI Enrico Mattei. 2003 14 Friedman M., “The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits”, New York Times Magazine, 13
settembre 1970
5
l’impegno di un’impresa nel raggiungimento di scopi etico-sociali si trasforma in attività poco
efficienti ed efficaci, poiché l’impresa stessa non dispone di esperienza e competenze
adeguate.15 Si prospetta il rischio che questo impegno diventi addirittura antisociale poiché tali
attività, se svolte dalle imprese, distolgono dagli obiettivi di economicità non perseguendo reali
obiettivi di benessere economico per le masse, nonostante possano riscuotere il loro consenso
emotivo.16 Lo stesso Friedman sostiene che “Poche tendenze possono minare in modo
veramente profondo le fondamenta stesse della società libera come l’accettazione da parte dei
dirigenti d’impresa del criterio della responsabilità sociale a differenza di quello di fare più
soldi possibili per i loro azionisti”17.
L’idea quindi di questo pensiero è che le attività di responsabilità sociale dovrebbero essere
delegate ad altre tipologie di organizzazioni, quali la pubblica amministrazione e le associazioni
ambientaliste18.
1.3 – La CSR negli anni ‘70
Come detto in precedenza a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 prendeva piede la corrente di pensiero
neoclassica che vedeva come esponente principale l’economista Milton Friedman. I dubbi circa
l’applicazione della CSR erano contenuti nell’opera scritta dallo stesso autore nel 1970, The
Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits19, nella quale veniva sottolineato
come il comportamento socialmente responsabile sarebbe giustificabile solo come risposta a
incentivi che provengono dai mercati in cui l’impresa opera20.
Nonostante l’acceso dibattito e le teorie contrarie, la CSR continua il suo percorso di crescita e
affermazione poiché da un lato, come detto in precedenza, rappresentava un modo per le
aziende per non essere controllate dai governi, mentre dall’altro lato permetteva di
differenziarsi, rispetto ai concorrenti, attraverso strumenti diversi dal prezzo.
Proprio in questi anni assistiamo quindi ad una ulteriore evoluzione del pensiero accademico e
alla nascita di nuovi importanti studi e contributi scientifici a partire da quelli forniti da C.
Johnson nel 1971 attraverso la sua opera “Business in Contemporary Society: Framework and
15 Di Toro, P., “L’etica nella gestione d’impresa”. Padova: Cedam Editore. 1993 16 Nibale, G., “L’economia e l’etica d’impresa”. Cacucci Editore, Bari. 1991 17 Friedman, M. “Capitalism and freedom”, Chicago, University of Chicago Press. 1962 18 Bowie, N., “New directions in corporate social responsibility”. Business Horizons, luglio – agosto. 1991 19 Friedman M., “The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits”, New York Times Magazine, 13
settembre 1970. 20 Zarri Francesca, “Corporate Social Responsibility: un concetto in evoluzione”, Impronta Etica, Aprile 2009
6
Issues”21. L’autore ritiene che le aziende sono inserite in un sistema socio-culturale dove le
norme sociali definiscono i compiti del business e il ruolo quindi delle aziende. Lo stesso
Johnson, anticipando quella che verrà denominata in seguito “teoria degli stakeholder”,
avvalora l’obiettivo di massimizzazione del profitto aggiungendo che i manager devono tenere
conto non solo degli interessi degli azionisti ma anche di quelli dei dipendenti, fornitori e delle
comunità in cui opera l’azienda.
I concetti introdotti da questi nuovi studi erano sicuramente innovativi per l’epoca di
riferimento ma non facevano ancora emergere con chiarezza un significato univoco di CSR e
quali comportamenti adottare per essere socialmente responsabili.
Proprio in risposta a questi dubbi interviene il CED (Committee for Economic Development),
un'organizzazione no-profit, con sede a Washington D.C., formata da alti dirigenti aziendali e
esperti universitari che offre analisi studiate e soluzioni ragionate ai problemi più critici delle
nazioni. Nel loro rapporto del 1971, “Social Responsibilities of Business Corporation”22, si può
notare l’importanza crescente data al contesto socio-culturale di riferimento come strumento
per identificare i compiti di responsabilità delle aziende. Viene quindi ideato un modello per
semplificare la relazione tra azienda e comunità denominato approccio dei “tre cerchi
concentrici” nel quale vengono individuate e suddivise le responsabilità aziendali.
Responsabilità legate alle funzioni economiche
Responsabilità legate ai valori
e alle priorità sociali
Responsabilità legate al miglioramento
delle condizioni dell’ambiente sociale
21 Johnson C., “Business in Contemporary Society: Framework and Issues”, Belmont, CA: Wadsworth, 1971 22 CED Committee of Economic Development, “Social Responsibilities of business corporation” 1971
Fig. 1.1: Rappresentazione del modello dei tre cerchi concentrici
7
Analizziamo l’approccio proposto dal CED partendo dal cerchio più esterno per poi spostarci
verso l’interno.
Cerchio esterno: qui vengono identificate le responsabilità primarie di cui fanno parte
le funzioni core dell’azienda come produzione, forza lavoro e crescita economica.
Cerchio intermedio: si trovano le responsabilità derivanti dalle funzioni economiche
principali dell’azienda dal punto di vista dei valori e delle necessità sociali. Si parla
quindi in questo caso di rispetto delle risorse naturali e delle relazioni interne
all’azienda.
Cerchio interno: vengono qui inserite tutte le responsabilità che le aziende possono
assumersi per migliorare le condizioni sociali dell’ambiente di riferimento. Queste
responsabilità vengono ricondotte specialmente a temi come il degrado e la povertà, il
miglioramento delle condizioni economiche, culturali e della viabilità urbana.
L’operato del CED risulta in quegli anni molto prezioso per le aziende in quanto rappresenta la
prima vera guida per identificare quali tipologie di azioni responsabili eseguire e con quali
priorità, soprattutto ora che si stava cominciando a mettere in luce tematiche quali ambiente,
sicurezza sul lavoro e tutela di consumatori e lavoratori.
Due anni più tardi nel 1973 l’economista Keith Davis, citato nel paragrafo precedente, riprende
in una nuova opera le sue teorie sulla CSR in cui spiega che “è obbligo dell’azienda valutare
nel processo decisionale gli effetti delle sue azioni sul sistema sociale esterno in modo da
ottenere benefici sociali insieme ai tradizionali guadagni economici”.23 Sempre nella stessa
opera Davis afferma che “la responsabilità sociale inizia dove finisce la legge. Un’azienda non
è socialmente responsabile se si limita a rispettare i requisiti minimi di legge, perché questo è
quello che ogni buon cittadino avrebbe fatto”.24 In questo caso la CSR viene ancora considerata
un costo (non un investimento strategico) che porta a una inevitabile diminuzione del profitto
ma che, sottolinea l’autore, comporta nel lungo periodo benefici quali ritorno d’immagine e una
più solida posizione sociale.
23 Davis, K., “The case for and against business assumption of social responsibilities”. Academy of Management
Journal, n.16, 1973 24 Ibidem
8
Vicino agli studi di Davis si posiziona Friederick nel 1978, la sua visione sottolineava però
“l’importanza delle aspettative della comunità nella quale l’impresa è inserita e il conseguente
ruolo sociale nell’aumentarne il benessere”25
Gli anni ’70 si chiudono con l’importante contributo di A. B. Carroll che, similmente agli studi
del CED, elabora la relazione tra impresa e società proponendo un nuovo schema di
responsabilità. L’autore infatti spiega come “la responsabilità sociale ingloba le aspettative
economiche, legali, etiche e filantropiche che la società ha dell’impresa in un dato momento
storico”26. Con questa frase si sottolinea in primo luogo l’importanza delle aspettative che
influiscono sulle scelte dell’impresa, in secondo luogo la multidimensionalità della
responsabilità sociale che viene rappresentata in una nuova visione piramidale. La struttura che
viene quindi a crearsi può essere rappresentata come in figura 2.
Fig. 1.2: Rappresentazione della “Piramide di Carroll”27
25 Chirieleison C., “L’evoluzione del concetto di corporate social responsibility”, in Rusconi G., Dorigatti M.,
2004 26 Carroll, A.B., “A three dimensional model of corporate social performance”. Academy of Management Review,
vol.4, 1979, pp.497-505 27 Ibidem
Responsabilità Filantropica
Responsabilità Etica
Responsabilità Legale
Responsabilità Economica
9
Partendo dal basso esaminiamo i quattro livelli proposti dall’autore:
La responsabilità economica fa riferimento alla performance economica
dell’azienda in termini di soddisfazione dei bisogni della società qui intesa come
azionisti e consumatori. Come nel modello dei cerchi concentrici del CED, la
responsabilità economica risulta dalle funzioni core dell’azienda e sta quindi alla
base della piramide, proprio per sottolinearne l’importanza rispetto agli altri livelli.
La creazione di valore per gli azionisti e per i consumatori è quindi fondamentale
per la vita dell’azienda.
La responsabilità legale riguarda, come suggerisce il nome, il rispetto di leggi e
normative dei paesi in cui l’azienda opera, contribuendo così alla creazione di un
mercato competitivo equo e corretto. Giocare rispettando le regole.
La responsabilità etica si riferisce invece a norme non scritte, consuetudini e buone
prassi che le aziende dovrebbero rispettare per operare secondo criteri di equità e
giustizia e per non arrecare danno agli altri. E’ quindi una responsabilità attesa dai
membri della società ma non prevista per legge. In questo caso è l’azienda che in
maniera volontaria deve applicare queste pratiche sociali riconoscendo i bisogni
della società e spingendosi oltre i limiti normativi.
La responsabilità filantropica o discrezionale riguarda sempre azioni intraprese dalle
aziende su base volontaria ma, a differenza di quella etica, non presuppone
aspettative da parte della società. Si sta parlando quindi di filantropia derivante dal
desiderio della società di impegnarsi in pratiche socialmente utili che vanno al di là
della sfera commerciale. Quest’ultima responsabilità, riconducibile al cerchio più
esterno del modello proposto in precedenza dal CED, è posizionata al top della
piramide proprio per evidenziare come prima di arrivare a essa sia necessario
soddisfare le prime tre.
Negli anni ’70 Carroll introdusse il suo concetto di CSR basandosi su queste quattro aspettative
di responsabilità, ma solo nel 1991 pubblicò un nuovo studio28 dove organizzava i quattro livelli
in maniera gerarchica all’interno della famosa piramide. Per molti studiosi il contributo
28 Carrol A.B., “The pyramid of corporate social responsibility”, Business Horizons, n. 34, june-august 1991
10
dell’autore rimane ancora oggi fondamentale proprio perché per la prima volta incorporava
volontarietà e discrezionalità all’interno delle responsabilità aziendali.
Un’ultima corrente di pensiero che si sviluppa in questi anni propone di adottare un approccio
strategico per la gestione della CSR in cui sia la responsabilità a guidare le decisioni dei
manager. A tal proposito Frederick, nel suo studio del 1979, elabora il termine Corporate Social
Responsiveness (CSR2), considerato superiore alla normale Corporate Social Responsibility
(CSR1), che presuppone l’accettazione da parte dell’impresa degli obblighi che derivano dalla
sua attività all’interno di uno specifico contesto sociale. Con la CSR2 si effettua un salto di
qualità entrando nella sfera organizzativa non solo per affermare la necessità di un’assunzione
di responsabilità da parte dell’impresa rispetto agli obblighi sociali derivanti dalla sua attività,
ma per individuare gli strumenti più idonei a tradurre in pratica tali definizioni di principio.29
1.4 – Le teorie degli anni ‘80
Come si può notare sono molteplici i contributi e le interpretazioni in tema di CSR viste fin ora.
Tutte queste teorie, negli anni ’80, contribuirono alla nascita di tre importanti filoni di studio
strettamente collegati alla responsabilità d’impresa: la Corporate Social Performance (CSP), la
Teoria degli Stakeholder e gli studi di business ethics.
1.4.1 – Corporate Social Performance
Il primo filone di studio sviluppatosi in questi anni è quello della Corporate Social Performance
(CSP), che attraverso il contributo di diversi autori cerca di fornire una visione della CSR
orientata ai processi piuttosto che ai risultati.
1979, il già citato Carroll spiega nella sua opera “A Three-Dimensional Conceptual Model of
Corporate Performance”30 come dal suo punto di vista la CSP sia composta da tre dimensioni:
Corporate Social Responsability, intesa come l’insieme di responsabilità indicate nella
piramide di Carroll.
29 Zarri Francesca, “Corporate Social Responsibility: un concetto in evoluzione”, Impronta Etica, Aprile 2009 30 Carroll, A.B., “A three dimensional model of corporate social performance”. Academy of Management Review,
vol.4, 1979, pp. 497-505
11
Corporate Social Responsiveness, intesa come la sensibilità dell’azienda verso
l’ambiente esterno.
Social Issues, con cui si definiscono quegli obiettivi o aree di interesse verso cui
l’azienda dimostra interesse sociale.
1979, anche Sethi, come Carroll, individua delle dimensioni con cui identificare la CSP. Nel
suo lavoro “Dimensions of corporate social performance”31 vengono evidenziati tre tipi di
comportamenti che le aziende adottano in risposta agli stimoli sociali:
Social Obligation, comportamenti obbligati in rispetto della legge e dei vincoli di
mercato.
Social Responsibility, comportamenti che vanno oltre i limiti di legge nel rispetto di
valori etici e aspettative sociali.
Social Responsiveness, fa riferimento ai comportamenti volontari che l’azienda adotta
in maniera attiva, per prevenire o far fronte a bisogni sociali.
1980, Jones nel suo articolo32 non parla espressamente di CSP ma definisce il “fair process”,
attraverso cui si cerca di conciliare gli interessi e i desideri dei differenti stakeholder con le
esigenze dell’impresa.33
Come accennato a inizio paragrafo anche qui si cerca di focalizzare l’attenzione sui processi e
sui metodi con cui si concretizza la responsabilità sociale dell’azienda (come nella CSP). Si
passa quindi da una visione orientata ai risultati, dove la CSR non entra nei processi di decision
making, a una visione orientata ai processi dove invece l’azienda identifica fin da subito gli
obiettivi sociali cercando di coniugare al meglio le aspettative dei vari portatori d’interesse.
1985, Wartick e Cochan nell’articolo “The evolution of the corporate social performance
Model”34 riprendono il concetto della triplice dimensione della CSP fornita da Carroll
realizzando un modello analogo. La CSP viene così definita dai seguenti tre elementi:
La definizione dei principi che motivano alla responsabilità, si rifà alla CSR così come
intesa nella piramide di Carroll.
31 Sethi, “Dimensions of corporate social performance: An analytical framework”, California management review,
n. 17, Spring 1975 32 Jones T.M., “Corporate social responsibility revisited redefined”, California Management Review, Spring1980 33 Chirieleison C., “L’evoluzione del concetto di corporate social responsibility”, in Rusconi G., Dorigatti M., “La
responsabilità sociale di impresa”, Franco Angeli, 2004 34 Wartick, Cochran, “The evolution of the corporate social performance Model”, The academy of management
review, 1985.
12
Il processo che determina i comportamenti dell’impresa, si rifà alla CSR2 o Corporate
Social Responsiveness e può dare vita a quattro tipi di comportamento responsabile,
reattivo, difensivo, accomodante e pro-attivo.
Le politiche da cui derivano i risultati sociali, dimensione definita Social Issue
Management in cui i problemi vengono identificati, analizzati e infine si sviluppa una
risposta.
1991, Wood definisce la CSP come “la configurazione di una organizzazione aziendale che
basa i suoi principi sulla responsabilità sociale, i processi di risposta sociale, le politiche, i
programmi e l’osservazione dei risultati che l’azienda ha nei confronti della società”35.
Il modello di Wood riprende il contributo di Wartick e Cochran ma a differenza di questo per
ogni dimensione sono presenti ulteriori tre sottolivelli.
Principi di CSR1:
- Livello istituzionale, si riferisce alle responsabilità descritte dalla piramide di
Carroll (economica, legale, etica, discrezionale)
- Livello organizzativo, definito dalla responsabilità pubblica
- Livello individuale, si riferisce alla discrezionalità dei manager
Processi di CSR2:
- Environmental assessment
- Stakeholder management
- Issues management
Risultati delle politiche aziendali:
- Social impacts
- Social programs
- Social Policies
Il modello di Wood superando alcune critiche rivolte ai modelli precedenti prende in maggiore
considerazione i risultati nell’analisi della performance aziendale e, in secondo luogo, considera
le tre dimensioni contemporaneamente in modo da poter analizzare meglio le relazioni tra di
esse.
35 Wood, D. “Corporate Social Performance Revisited”, The Academy of Management Review, Vol. 16, No. 4,
1991, pp. 691-718
13
1.4.2 – La teoria degli stakeholder
Di chi l’azienda deve soddisfare gli interessi? Questo dibattito come abbiamo potuto notare è
stato molto accesso negli anni ’60 e ’70 e, anche se alcuni studiosi avevano riconosciuto la
presenza di una pluralità di portatori di interesse, nessuno aveva mai concretizzato quelle che
fino a quel momento erano state solo teorie.
Di fatti già nel 1963 l’istituto di ricerca dell’università di Stanford elaborò uno studio in cui
veniva nominato per la prima volta il termine stakeholder, con il quale si voleva indicare tutti
coloro che hanno un interesse nell’attività dell’azienda e senza il cui appoggio un’impresa non
è in grado di sopravvivere.36
Nel 1984 questi concetti vengono ripresi da Edward Freeman nel testo “Strategic management:
A stakeholder approach”. Per l’autore sono definiti stakeholder i “gruppi o soggetti che sono
influenzati o possono influenzare il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa”37.
Freeman propone una distinzione individuando due categorie di stakeholder:
Primari, sono rappresentati da individui o gruppi chiaramente identificabili e da cui
l’azienda dipende in maniera vitale. Identificati in azionisti, dipendenti, clienti, fornitori
e agenzie governative.38
Secondari, sono rappresentati dagli individui chiaramente identificabili che possono
influenzare o essere influenzati dall’operato aziendale. Identificati in movimenti di
protesta, enti di governo, comunità locali, gruppi di interesse pubblico, concorrenti,
sindacati e stampa.39
Chiaramente agli stakeholder primari viene data maggiore importanza in quanto fondamentali
ma quello che vuole sottolineare Freeman con questo approccio è l’equilibrio che l’azienda
deve cercare di raggiungere nel soddisfare i bisogni di tutti i suoi portatori d’interesse, non solo
quelli degli azionisti.
Facendo un piccolo salto in avanti nel tempo, la suddivisione degli stakeholder viene ripresa da
Clarkson nel 1995 il quale allargava la visione di Freeman definendo gli stakeholder “persone
o gruppi che hanno pretese, titoli di proprietà, diritti o interessi relativi a un’impresa e alle sue
36 Chirieleison C., “L’evoluzione del concetto di corporate social responsibility”, in Rusconi G., Dorigatti M., “La
responsabilità sociale di impresa”, Franco Angeli, 2004 37 Freeman E.R., “Strategic management. A stakeholder approach”, Pitman, Boston, 1984 38 Ibidem 39 Ibidem
14
attività passate, presenti o future”40. Clarkson ripropone quindi le definizioni di stakeholder
primari e secondari, individuando i primi in quei soggetti che hanno un rapporto contrattuale
con l’impresa (dipendenti, clienti, fornitori), mentre i secondi sono rappresentati da quei
soggetti che non hanno interessi diretti (comunità locale, università, associazioni dei
consumatori o ambientalistiche). Anche per Clarkson come per Freeman gli stakeholder primari
rimangono quelli fondamentali per la sopravvivenza dell’azienda che deve comunque cercare
di rispondere alle aspettative di tutti i portatori di interesse.
Il lavoro di Freeman viene arricchito dal contributo di Donaldson e Preston i quali ritenevano
che la teoria degli stakeholder “raccomanda atteggiamenti, strutture e pratiche che nell’assieme
permettono la gestione degli stakeholder, e intende quindi guidare la scelta delle strutture
organizzative, delle politiche aziendali generali e delle decisioni giorno per giorno”41. Secondo
loro quindi si trattava di una vera e propria teoria manageriale in quanto non si limitava
esclusivamente a descrivere lo scenario di riferimento. I due autori propongono un’analisi delle
possibili modalità di utilizzo della teoria degli stakeholder in quanto convinti dell’esistenza di
tre tipi di versioni:
Versione descrittiva; l’azienda è vista come una moltitudine di interessi cooperativi e
conflittuali fra i diversi stakeholder e la sua natura è quella di coordinare e far cooperare
tutti i portatori d’interesse.
Versione strumentale; se l’azienda vuole raggiungere lo scopo prefissato, qualunque
esso sia, è necessario gestire al meglio le relazioni con i vari stakeholder. Tale
comportamento responsabile porta vantaggi nel lungo periodo.
Versione normativa; richiede la definizione di due presupposti, il primo è che gli
stakeholder sono considerati tali in quanto hanno interessi legittimi verso l’impresa e
non viceversa, il secondo presupposto è che questi interessi hanno valore intrinseco e
non solo strumentale per lo scopo. Per questi motivi gli stakeholder devono essere
considerati i fini e non i mezzi del management aziendale.
Sugli studi di Freeman e la teoria degli stakeholder sono state mosse anche alcune critiche. Ad
esempio il fatto che si cerchi di bilanciare i fini economici con quelli sociali e i fini dei manager
40 Clarkson M., “A Stakeholder Framework for Analizing and Evaluating Corporate Social Performance”.
Academy of Management Review, vol. 20, 1995 41 Sacconi L., “Etica e teorie normative degli stakeholder”, 2005, in Sacconi L., “Guida critica alla responsabilità
sociale e al governo d’impresa”, Bancaria Editrice, 2005
15
con quelli degli altri stakeholder nonostante ciò non risulti di facile realizzazione a causa delle
differenti pretese dei vari gruppi. Secondo altri Freeman non prende in considerazione valori e
moralità essendo una teoria prettamente manageriale. Altri ancora sottolineano come l’autore
non fornisca in maniera completamente chiara come distinguere chi ha i requisiti per essere
considerato stakeholder e chi no.
Nonostante diversi economisti e studiosi abbiano provato a proporre i propri modelli di
classificazione degli stakeholder, tutti hanno presentato la stessa problematica di eccessivo
schematismo e staticità nel definire i rapporti tra azienda e stakeholder.
Ciò che si può sicuramente affermare è che la Stakeholder Theory ha contribuito in maniera
massiccia nell’identificazione dei soggetti rispetto ai quali l’impresa deve assumere
comportamenti responsabili, concetto che fino agli anni ‘80 era rimasto ancora solo teorico e
troppo vago. Assistiamo quindi ad un cambiamento nei modelli di gestione della governance e
al passaggio da un approccio monostakeholder ad un approccio multistakeholder.
1.4.3 – L’etica degli affari
Parallelamente al concetto di CSP e alla teoria degli stakeholder, si sviluppa negli anni ’80 lo
studio dell’etica degli affari o business ethics, un’indagine etica sui fini dell’impresa, sulle
norme che orientano la sua condotta e sui principi alla base delle sue scelte.42
Per gli studiosi di questa corrente la CSR era vista solamente come una risposta a pressioni
esterne all’impresa, è per questo che lo sviluppo dei loro studi nasce proprio dall’esigenza di
giustificare in qualche maniera l’assunzione volontaria di responsabilità da parte delle aziende
stesse.
I presupposti alla nascita di questi studi sono dati dal fatto che esistano teorie di etica normativa
in ambito economico, che si propongono di indicare come dovrebbe essere la società e le
istituzioni economiche e che forniscono giustificazioni astratte ad azioni e comportamenti che
dovrebbero essere considerati da tutti come accettabili sulla base di un universo di valori di
riferimento comune.43
42 Chirieleison C., “L’evoluzione del concetto di corporate social responsibility”, in Rusconi G., Dorigatti M., “La
responsabilità sociale di impresa”, Franco Angeli, 2004 43Zarri Francesca, “Corporate Social Responsibility: un concetto in evoluzione”, Impronta Etica, Aprile 2009
16
Uno dei primi autori sugli studi etici è Frederick che nel 1986 introduce il concetto di
“Corporate Social Rectitude”44 che lui stesso abbrevia in CSR3, proprio per sottolineare la
necessità di incorporare la dimensione etica e morale che mancava alla CSR1 e alla CSR2. Il
vuoto normativo lasciato dalle due precedenti versioni viene così colmato con l’introduzione di
quei valori etici che secondo Frederick erano fondamentali per regolare e governare i
comportamenti dell’impresa.
Un altro importante contributo viene fornito dal Professor Lorenzo Sacconi il quale descrive
l’etica degli affari come “lo studio dell’insieme dei principi, dei valori e delle norme etiche che
regolano (o dovrebbero regolare), le attività economiche più variamente intese”.45 Per l’autore
quindi si tratta di un’etica applicata alle pratiche economiche che può essere utilizzata su tre
diverse dimensioni:
Dimensione Macro, l’etica viene applicata per valutare moralmente il comportamento
delle principali istituzioni economiche della società (stato e mercato), al fine di creare
un migliore sistema economico.
Dimensione Meso, in questo livello sono le organizzazioni intermedie ad essere oggetto
di valutazione morale (imprese).
Dimensione Micro, nell’ultimo livello infine sono le scelte dei singoli manager ad essere
oggetto di giudizio morale.
1.5 – La CSR negli anni ’90 e il concetto di sostenibilità
Negli anni ‘90 il dibattito sulla CSR viene legato ad un nuovo concetto che stava acquisendo
sempre più rilevanza ovvero la sostenibilità. Già da qualche anno infatti le istituzioni
sovrannazionali avevano denunciato la necessità di regolare la crescita economica che destava
più di qualche preoccupazione a causa delle molte modificazioni dell'ecosistema da parte
dell'uomo, tra cui l'evoluzione tecnologica incontrollata, il consumismo sfrenato e l'utilizzo
irresponsabile delle materie prime. Il tutto portava all'esaurimento delle limitate risorse naturali
della terra più rapidamente di quanto essa fosse in grado di rigenerare e ad un pericoloso
44 Frederick, “Why ethical analysis in indispensable unavoidable in corporate affairs”, California Management
Review, n.28, 1986 45 Sacconi L., “Etica e teorie normative degli stakeholder”, 2005, in Sacconi L., “Guida critica alla responsabilità
sociale e al governo d’impresa”, Bancaria Editrice, 2005
17
aumento dell'inquinamento. Per denunciare il rischio ambientale si parlava quindi di
sostenibilità, indicando la capacità di mantenere nel futuro i processi ecologici che avvengono
all’interno di un ecosistema e la sua biodiversità. Era questo il concetto usato negli anni ‘70 per
sottolineare lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle grandi aziende.
Gli studi sulla sostenibilità, forse a causa del delicato argomento, non vengono trattati in ambito
accademico ma bensì in quello istituzionale grazie alle principali organizzazioni internazionali
come ONU, OCSE o Unione Europea. Risale infatti al 1987 il rapporto Brundtland (Our
common future) rilasciato dall’allora commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo
(WCED), in cui viene definito per la prima volta il concetto di sostenibilità inteso anche come
sviluppo sostenibile: “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la
possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.46
Il concetto di sviluppo sostenibile rappresentava una sorta di principio guida strettamente
collegato alla responsabilità di un soggetto verso altri soggetti. Chiaramente, gli attori principali
della nostra società che contribuiscono allo sfruttamento delle risorse ambientali sono le
aziende, ed è proprio su di loro che ricade la responsabilità maggiore. A riguardo di ciò, il
rapporto Brundtland aggiungeva che lo sviluppo economico viene definito sostenibile se tiene
conto degli effetti sociali e ambientali, oltre che di quelli meramente economici, identificando
così una triplice dimensione della sostenibilità oggi riconosciuta come Triple Bottom Line.
Le tre dimensioni della sostenibilità sono così definite:
Sostenibilità ambientale: intesa come capacità di mantenere qualità e riproducibilità
delle risorse naturali.
Sostenibilità sociale: intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano
Le imprese multinazionali erano considerate il principale fattore di sviluppo delle economie e
per questo l’OCSE con il suo operato si prefiggeva di stimolare il loro contributo positivo al
progresso economico, ambientale e sociale minimizzando gli impatti negativi.
Le Linee Guida in se rappresentano dei principi e delle norme che si sono progressivamente
evolute nel tempo per adeguarsi ai cambiamenti del contesto economico e che le imprese o i
governi si impegnano a rispettare in maniera volontaria attuando un comportamento
responsabile.
Il testo dove vengono presentate è suddiviso in due parti:
Parte 1: contiene la descrizione dei comportamenti e delle modalità operative alle quali
si devono attenere le imprese multinazionali nell'esercizio dell'attività e nella gestione
dei rapporti con i terzi, direttamente o indirettamente, coinvolti nel loro operato. In
particolare, le raccomandazioni riguardano i seguenti ambiti dell'attività delle imprese:
Divulgazione di Informazioni, Diritti Umani, Occupazione e Relazioni Industriali,
Ambiente, Lotta alla Corruzione e alla Concussione, Interessi del Consumatore, Scienza
e Tecnologia, Concorrenza, Fiscalità.
Parte 2: è dedicata alla descrizione della struttura e dell'attività degli organismi
strumentali alla corretta diffusione ed applicazione delle Linee Guida, quali i Punti di
Contatto Nazionali (PCN) ed il Comitato degli Investimenti dell’OCSE.
Come detto in precedenza, le pratiche di Responsabilità Sociale d’Impresa rappresentano lo
strumento che permette alle aziende di raggiungere l’equilibrio tra le tre dimensioni della
sostenibilità e promuovere quindi uno sviluppo sostenibile.
47 Zarri Francesca, “Corporate Social Responsibility: un concetto in evoluzione”, Impronta Etica, Aprile 2009 48 OCSE, Linee guida destinate alle imprese multinazionali, 2007
20
L’importanza del legame tra CSR e sostenibilità veniva riconosciuto anche dalle istituzioni
Europee che dagli anni ’90 erano intervenute diverse volte su questo argomento lanciando dei
forti segnali alle imprese.
Con il Summit di Lisbona del 2000 l’Europa si era prefissata l’obiettivo di diventare l’area
economica più dinamica e competitiva del mondo e capace di una crescita sostenibile. Per
raggiungere quest’ultimo obiettivo il trattato aveva sottolineato l’importanza di promuovere i
principi della CSR, diffonderne le pratiche, omogeneizzare i sistemi di valutazione delle buone
prassi e favorire quindi l’adozione di politiche e strategie coerenti con gli obiettivi del Summit.
Nel 2001 la commissione europea pubblicò il Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per
la responsabilità sociale delle imprese” con cui si diffondeva la conoscenza del tema, si
promuovevano iniziative e soprattutto si ufficializzava, per la prima volta in ambito
istituzionale, una definizione di CSR.
La commissione europea infatti la definiva così:
“la decisione volontaria di contribuire al progresso della società e alla tutela dell’ambiente,
integrando preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle operazioni aziendali e nelle interazioni
con gli stakeholder”.49
Sezionando tale definizione possiamo notare come essa sia formata da tre elementi principali
che mettono in luce i seguenti aspetti:
La volontarietà, con cui si sottolinea che la responsabilità è necessariamente una
condizione volontaria e non soggetta a leggi o imposizioni.
L’approccio Triple Bottom Line, con cui si sottolinea l’importanza della triplice
dimensione della sostenibilità.
Il riferimento agli stakeholder, con cui si mette in evidenza l’importanza dei rapporti
con i vari portatori d’interesse.
Un altro importante aspetto che viene riconosciuto dalla commissione europea è la connessione
della CSR con la strategia delle imprese e con la loro competitività nel mercato, adottando
quindi una visione di CSR come investimento e non più come costo.
49 Commissione delle Comunità Europee, “Libro Verde – Promuovere un quadro europeo per la responsabilità
sociale delle imprese”, Bruxelles, 2001
21
La stessa commissione nel 2006 introdusse l’”alleanza europea per la responsabilità sociale
delle imprese” con l’obiettivo da un lato di valorizzare le aziende impegnate nella CSR dando
loro maggiore visibilità e, dall’altro, responsabilizzare gli stakeholder affinché possano
esercitare pressioni sulle aziende in merito soprattutto alla trasparenza.
L’alleanza individua inoltre le priorità che le aziende dovrebbero assumere al fine di orientare
le pratiche di CSR in maniera coerente con le politiche comunitarie.
Tali priorità vengono così esposte in dieci temi fondamentali:
1. Innovazione in tecnologie, prodotti e servizi sostenibili e in campo ecologico
2. Sviluppo di competenze per favorire l’occupazione
3. Pari opportunità e gestione della diversità
4. Salute e sicurezza
5. Tutela ambientale
6. Mainstreaming (allineamento di politiche e strategie; allineamento delle funzioni
aziendali rispetto alla CSR; traduzione della CSR in obiettivi, valutazioni,
riconoscimenti)
7. Coinvolgimento degli stakeholder
8. Direzione e governance
9. Comunicazione e trasparenza
10. Cooperazione e alleanze fra imprese.
1.6 – La CSR nelle teorie moderne
Nel paragrafo precedente abbiamo potuto notare come, negli anni 90, il contributo maggiore in
tema di sostenibilità e CSR sia stato fornito dalle istituzioni sovrannazionali europee e non. La
crescente importanza di questa tematica aveva di conseguenza influito anche sugli studi
accademici di CSR avvenuti successivamente, nei quali l’azienda veniva vista non più come
un’entità singola, ma come un soggetto fortemente interconnesso con l’ambiente e la società
circostante.
Nel 2006 l’economista statunitense Michael Porter pubblica, sulla rivista Harvard Business
Review, l’articolo “Strategy and society. The thing between competitive advantage and
22
corporate social responsibility”.50 In questo lavoro l’autore riconosce che molte aziende si
stanno impegnando per migliorare l’impatto ambientale e sociale delle loro attività ma che gli
approcci utilizzati risultano spesso frammentati e scollegati dalla strategia di business con la
conseguente perdita di opportunità migliori. “If corporations were to analyze their prospects
for social responsibility using the same frameworks that guide their core business choices, they
would discover that CSR can be much more than a cost, a constraint, or a charitable deed, it
can be a source of opportunity, innovation, and competitive advantage.”51
Un altro atteggiamento che osserva Porter è che l’attenzione alla CSR spesso non viene
riconosciuta in maniera volontaria ma a causa di scandali che colpendo alcune grandi aziende
fanno salire l’interesse verso la tematica. Le conseguenze sono rappresentate da reazioni
difensive a breve termine, da parte delle imprese, che hanno l’unico scopo di placare l’opinione
pubblica creando un valore minimo per la società e nessun beneficio strategico per il business.
Questa visione della CSR è quindi ben lontana da quella di Porter il quale ritiene che aziende e
società sono interdipendenti tra di loro e che questa relazione non avvenga come un “gioco a
somma zero” ma che rappresenti, per le aziende, una fonte di opportunità per la creazione di un
vantaggio competitivo, mentre, per la società, una fonte di grande progresso sociale. Per
colmare il gap tra i diversi punti di vista l’autore spiega come “successful corporations need a
healthy society” e “at the same time, a healthy society needs successful companies”52.
Istruzione, sanità, prodotti sicuri, condizioni di lavoro favorevoli, pari opportunità, utilizzo
efficiente delle materie prime, rispetto delle risorse naturali del territorio, un buon governo sono
tutti indici di una società sana da cui il business di un’azienda non può che trarre benefici.
Secondo questa prima interazione, in cui è l’azienda a influenzare la società, Porter propone un
modello per “identificare tutti gli effetti, positivi e negativi, che le aziende hanno sulla società,
determinare quelli che meritano un loro intervento e individuare un modo efficace per
intervenire”.53
Secondo l’autore la relazione tra impresa e società viene così rappresentata:
Le imprese, per avviare il loro processo produttivo, assorbono risorse economiche,
sociali e ambientali dal territorio in cui operano,
50 Porter, Kramer, “Strategy and society. The thing between competitive advantage and corporate social
responsibility”, Harvard Business Review, Dicembre 2006 51 Ibidem 52 Ibidem 53 Ibidem
23
Alla fine di questo processo l’azienda restituisce valore economico, sociale e
ambientale al territorio,
Il processo infine ricomincia con un nuovo prelievo.
In questo caso se l’azienda, con il proprio processo produttivo, restituisce al territorio più
risorse di quelle che ha prelevato allora avrà creato un cosiddetto valore aggiunto. Questo
valore andrà a beneficio del territorio e delle aziende che avranno così a disposizione maggiori
risorse per un nuovo processo produttivo.
L’analisi delle risorse assorbite e del valore aggiunto generato permette alle imprese di
identificare i propri impatti sul territorio e individuare le aree d’intervento che presentano
maggior valore strategico e maggior beneficio per impresa e società. Tutto ciò si traduce in una
rivisitazione della catena del valore di Porter già progettata nel 1985 che, applicata alla CSR,
si trasforma in catena del valore sociale.
La catena del valore (figura 4) descrive la struttura di una organizzazione attraverso le
operazioni o processi che l’azienda svolge e che generano un valore. I processi vengono
suddivisi in primari e di supporto, i primi sono quelli che contribuiscono in maniera diretta alla
creazione dei prodotti o dei servizi, mentre i secondi non contribuiscono in maniera diretta ma
sono necessari per il funzionamento dei primi. I processi primari si distinguono in: logistica in
entrata e in uscita (attività di gestione dei flussi di beni materiali verso l’interno e verso
l’esterno dell’organizzazione), attività operative (produzione di beni e servizi), marketing e
vendite (attività di promozione dell’output aziendale e gestione delle vendite), servizi e
assistenza clienti (attività di supporto post vendita). I processi di supporto si distinguono in:
approvvigionamenti (acquisto delle risorse necessarie al funzionamento dell’organizzazione),
gestione risorse umane (le attività connesse ai rapporti tra azienda e dipendente), sviluppo
tecnologie (le attività di ricerca e sviluppo finalizzate al miglioramento di prodotti e processi),
attività infrastrutturali (ad esempio i processi di pianificazione, contabilità, finanziamento,
affari legali, governance).
24
Fig. 1.4: Catena del valore di Porter, 1985
Come detto in precedenza, la catena del valore di Porter se applicata alla CSR permette di
identificare gli impatti (positivi o negativi) sulla società da parte dei processi aziendali primari
e di supporto. Ciò viene spiegato chiaramente dalla tabella che segue.
Impatti dei processi aziendali sulla società
Attività primarie
Logistica interna Esternalità legate ai trasporti ad es. gas serra, traffico
Attività operative Emissioni e rifiuti, impatto ecologico, utilizzo dell’energia e dell’aria,
sicurezza sul lavoro, materiali pericolosi
Logistica esterna Utilizzo e smaltimento degli imballaggi, impatto dei trasporti
Marketing e vendite Pubblicità ingannevoli o rivolte ai bambini, pratiche di pricing,
privacy, informazioni ai consumatori
Servizi Smaltimento prodotti obsoleti, gestione dei beni di consumo come
olio motore o inchiostri per stampanti, privacy dei clienti
Attività di supporto
Approvvigionamenti Pratiche inerenti la corruzione, il lavoro minorile, l’utilizzo di
prodotti particolari come le pellicce animali, impiego di risorse
naturali
25
Sviluppo tecnologie Rapporti con le università, pratiche etiche nell’ambito dei test sugli
animali o su OGM, sicurezza dei prodotti, conservazione materie
prime, riciclaggio
Gestione risorse
umane
Istruzione e formazione, condizione di lavoro sicure, diversità e
discriminazione, benefit, politiche retributive e licenziamenti
Infrastruttura
dell’impresa
Reporting finanziario, pratiche di governance, trasparenza
Tab. 1.1: Gli impatti dei processi aziendali sulla società
Allo stesso tempo le imprese rappresentano la più grande fonte della società per la creazione di
ricchezza, posti di lavoro e innovazione, tutti fattori che incidono sulla qualità della vita e sul
benessere sociale, sarà quindi fondamentale che governo, ONG e gli altri membri della società
valorizzino il contributo delle aziende creando un contesto competitivo favorevole alla loro
produttività. In base a questa seconda interazione, in cui è la società a creare valore per le
aziende, Porter suddivide lo scenario competitivo in quattro grandi aree:
Qualità e quantità degli input disponibili come risorse umane, università e istituti di
http://about.hm.com/it/About/sustainability.html#cm-menu 4 The Higg Index. Fonte http://apparelcoalition.org/the-higg-index/
38
e i centri di ricerca. Tutto ciò costituisce la base per l'adozione di quelle azioni che
continueranno a fare la differenza.”5
A breve analizzeremo nel dettaglio i punti e le tematiche toccate in questa intervista ma, già in
queste prime righe, possiamo notare come l’azienda, per raggiungere l’equilibrio di lungo
periodo, prende in considerazione i bisogni di tutti i suoi portatori d’interesse in linea con la
“Teoria degli Stakeholder”6 elaborata dal Professor Robert Edward Freeman nel 1984. Un'altra
cosa che si nota è come, per H&M, la sostenibilità sia un valore imbrigliato in ogni azione, una
condizione necessaria che non si deve limitare a ridurre gli impatti ma andare oltre i limiti di
legge e generarne di positivi. Tutto questo per l’azienda svedese si può riassumere in una parola,
consapevolezza. La consapevolezza che il consumatore moderno si sente meglio quando
acquista prodotti sostenibili poiché si preoccupa dell’ambiente, degli animali e delle persone
più svantaggiate. La consapevolezza che lo stesso consumatore attento a queste tematiche non
è però ancora disposto a pagare un prezzo superiore per beni e servizi e pertanto, incorporando
efficacemente pratiche sostenibili nel business, si potrà generare solo un enorme vantaggio
competitivo. Infine H&M è consapevole del fatto che concentrarsi sui profitti di breve periodo,
e prendere tutto quello che le serve da questo mondo senza preoccuparsi di dare qualcosa in
cambio non è il modo giusto d’agire per una società del futuro.
5 Ibidem 6 Freeman E.R., “Strategic management. A stakeholder approach”, Pitman, Boston, 1984
39
2.3 - H&M Conscious
Come abbiamo potuto notare H&M è attenta alle dinamiche di lungo periodo fin dai primi anni
della sua nascita. I temi della sostenibilità vengono però regolamentati a livello europeo
solamente dagli anni ’90 e l’azienda svedese, per dimostrare il suo impegno verso ambiente e
comunità e per una maggiore trasparenza verso tutti i suoi stakeholder, dal 2002 inizia a
pubblicare annualmente un report sulle azioni sostenibili intraprese e sui risultati ottenuti.
L’ultimo report in ordine temporale è quello del 2015, che descrive i sette impegni ambiziosi
che l’azienda ha intrapreso ormai da anni e che riassume tutte le azioni messe in atto per rendere
la moda sostenibile. Questo programma si chiama H&M Conscious e di seguito vengono
riportati i sette impegni:
1. Offrire moda a clienti consapevoli
2. Selezionare e premiare partner responsabili
3. Comportamento etico
4. Azioni favorevoli nei confronti del cambiamento climatico
5. Ridurre, riutilizzare, riciclare
6. Utilizzo responsabile delle risorse naturali
7. Rafforzamento delle comunità
L’importanza e la grandezza raggiunta negli anni dall’azienda fanno sì che questi impegni
risultino ancora più fondamentali. H&M ha, infatti, punti vendita e fornitori in tutto il mondo e
le sue attività esercitano senza dubbio una notevole influenza sui paesi e le comunità in cui sono
presenti. Proprio per questo l’azienda si impegna per ridurre e limitare gli impatti negativi delle
sue attività ma anche per generare effetti positivi lungo tutta la catena del valore, oltre che al di
fuori con la creazione di H&M Conscious Foundation di cui tratteremo più avanti.
Questo è tutto quello che l’azienda si impegna a fare per un futuro più sostenibile della moda e
che dal paragrafo successivo verrà analizzato nel dettaglio, in quanto, come specificato dal CEO
Karl-Johan Persson, l’obiettivo di H&M è che tutte le operazioni vengano gestite in modo
sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale.
40
Fig. 2.1: Catena del valore di H&M7
7 Catena del valore. Fonte http://about.hm.com/it/About/sustainability/hm-conscious/value-chain.html
41
2.3.1 - Offrire moda a clienti consapevoli
E’ stata nominata in precedenza la consapevolezza spiegando cosa significa questa parola per
H&M. Il primo impegno dell’azienda è infatti incentrato sulla consapevolezza da parte di clienti
e consumatori, dei problemi che l’industria della moda causa all’ambiente, alle persone e agli
animali. I consumatori oggigiorno vogliono stare bene con se stessi indossando capi che non
pesano sulle loro coscienze, che diano loro la possibilità di soddisfare l’esigenza di comportarsi
in maniera responsabile, allo stesso modo la consapevolezza li rende anche più selettivi e
pretenziosi, cercano capi di qualità ad un prezzo accessibile e realizzati in maniera sostenibile.
L'azienda riconosce che si tratta di esigenze e desideri del cliente che devono essere messi al
centro dell’attività al fine di instaurare rapporti più stretti con i consumatori e fornire loro un
vero valore aggiunto. Un approccio sostenibile può tramutarsi in una grande forza aziendale
non solo per la fedeltà dei clienti, ma anche per l'impegno dei dipendenti e per migliori
prestazioni di business, diventando così un vantaggio competitivo.
Ovviamente non tutti i consumatori sono così attenti ai problemi che si celano dietro la
produzione di vestiti da parte dell’industria della moda, spesso le poche informazioni che
arrivano al cliente sono solo la punta dell’iceberg e non tutti hanno voglia di andare a scavare
a fondo. Per H&M offrire moda a clienti consapevoli significa anche informare i consumatori
su quelle che sono le tematiche principali della produzione di vestiti, mettere a disposizione
dati, report e qualsiasi informazione riguardante i propri prodotti o servizi. Quello che in questo
caso è da sottolineare è l’approccio dell’azienda che non si limita a “mettere a disposizione”
del cliente ma invoglia quasi le persone a saperne di più. Questo avviene grazie alle numerose
iniziative di sensibilizzazione intraprese dall’azienda, attraverso il sito internet che mette a
disposizione un’intera area dedicata alla sostenibilità o ancora attraverso le etichette dei
prodotti.
Le tematiche che l’azienda si preoccupa di divulgare riguardano tutto ciò che sta dietro a un
prodotto come ad esempio chi coltiva il cotone, come lo coltiva, la provenienza dei prodotti
animali e il rispetto di questi ultimi, il lavoro minorile, l’utilizzo di sostanze chimiche inquinanti
e molto altro. Avviene quindi una sorta di responsabilizzazione del cliente meno informato,
mentre quelli più informati hanno la possibilità di riscontrare come effettivamente l’azienda si
comporta nei confronti di una certa tematica.
L’impegno nel responsabilizzare i consumatori non si limita a informazioni pre-acquisto ma
continua anche dopo aver venduto il prodotto. Le buone prassi che l’azienda sostiene riguardano
ad esempio il lavaggio dei vestiti a meno gradi per ridurre il consumo di energia (lavaggio e
42
asciugatura rappresentano circa il 26% dell’impatto ambientale degli indumenti), oppure
l’invito a non buttare i vestiti vecchi o rotti ma portarli in un qualsiasi negozio H&M per la
raccolta e il riciclaggio. Se ad esempio si entra in uno degli store non si può non notare alla
cassa gli enormi cartelli che invitano a riciclare i vestiti vecchi di qual si voglia marca. Tutta
questa collaborazione con i clienti porta ad instaurare un legame più profondo tra le parti oltre
che avere un impatto maggiore sull’ambiente.
A dimostrazione dell’impegno profuso dall’azienda per soddisfare le esigenze dei clienti più
consapevoli ed esigenti, H&M è stata una delle prime grandi aziende dell’industria della moda
a proporre una collezione “verde” denominata Conscious Collection che propone capi fatti
almeno con il 50% di materiali certificati sostenibili da enti indipendenti. Il riconoscimento del
successo e dell’importanza di questa iniziativa lo dimostrano i diversi volti famosi dello
spettacolo che hanno sfilato, con abiti H&M Conscious Collection, sul red carpet alla cerimonia
degli Oscar del cinema nel 2013.
2.3.2 - Selezionare e premiare partner responsabili
La globalizzazione ha portato le grandi aziende a delocalizzare la produzione in paesi emergenti
dove il costo della manodopera e delle materie prime risulta minore. Gli aspetti negativi di
questo fenomeno sono stati analizzati alla fine del primo capitolo, ma la globalizzazione non è
solo questo. L'industria dell'abbigliamento opera spesso in alcuni dei paesi più poveri del
pianeta creando milioni di posti di lavoro e rappresentando spesso il primo passo verso una
migliore situazione economica. Tuttavia, se la crescita non avviene in maniera sana, le aziende
rischiano di fare delle scelte che portano inevitabilmente a danneggiare in primo luogo le
comunità colpite e in secondo luogo l’azienda stessa, proprio come successe a Nike negli anni
’90 quando fu accusata di sfruttare i lavoratori nei paesi in via di sviluppo e servirsi di lavoro
minorile. Dopo il polverone sollevato da queste notizie, Nike adottò immediatamente pratiche
sostenibili per migliorare la situazione nelle fabbriche dei propri fornitori, a dimostrazione di
quanto l’opinione pubblica, i media e le ONG possano fare pressione sulle imprese attraverso
la leva della reputazione e dell’immagine di marca, fino a indurre rapidi mutamenti nei
comportamenti e nelle strategia di un’azienda.8
8 Rinaldi F. R., Testa S., “L’impresa moda responsabile – Integrare etica ed estetica nella filiera”, Egea, 2013
43
Per quanto riguarda H&M, nel 2014 si avvaleva di 850 fornitori operanti in 1.926 fabbriche
dove lavoravano circa 1,6 milioni di persone (il 64% donne). Con questi numeri così elevati
mantenere il controllo di tutto non è assolutamente facile ma questo non ha sconfortato
l’azienda svedese che si è posta l’obiettivo di garantire un salario equo a circa 850.000 operai
(gli operai dei propri fornitori strategici9) entro il 2018.
L’impegno di H&M per raggiungere gli obiettivi parte dalla redazione di un proprio codice di
condotta dove sono delineate le condizioni che i fornitori, una volta selezionati, devono
sottoscrivere per poter mantenere il rapporto lavorativo con l’azienda. Il rapporto che viene a
instaurarsi crea una collaborazione reciproca dove:
I fornitori, oltre a sottoscrivere i valori dell’azienda rappresentati nel codice di condotta,
devono dimostrare di essere disposti a migliorarsi e collaborare attivamente. Allo stesso
modo devono dare garanzie in termini di qualità, prezzo e tempi di consegna.
L’azienda a sua volta, dopo aver selezionato accuratamente il fornitore, deve dimostrarsi
un partner onesto, trasparente nelle comunicazioni ed equo (tempi di consegna
ragionevoli, prezzi equi, puntualità dei pagamenti). Inoltre H&M, laddove ce ne sia
bisogno, fornisce assistenza su pratiche commerciali e sostenibilità in maniera da
allineare eventuali distorsioni. Questi investimenti permettono di instaurare un rapporto
a lungo termine con il fornitore che sarà così incentivato a rispettare le regole imposte
dal codice di condotta.
Per scoraggiare pratiche inappropriate H&M si avvale principalmente di controllori eseguiti da
propri dipendenti che si occupano di verificare l’applicazione dei principi di condotta presso le
fabbriche fornitrici. A sostegno e garanzia di ciò, l’azienda si avvale anche dei servizi di un
organismo di controllo indipendente, il Fair Labor Association10 (FLA).
Le ispezioni, quasi sempre senza preavviso, vengono effettuate con rigidi standard e a 360° su
condizioni lavorative, ambiente, metodi di produzione e molto altro. Il risultato del controllo
dà origine ad un rapporto dove sono indicati un punteggio (ICoC11) e le aree di miglioramento
necessarie che il fornitore deve cercare di sanare entro una certa data, data in cui un nuovo
controllo verificherà se effettivamente sono stati apportati i miglioramenti necessari. Il
9 H&M distingue i fornitori normali dai fornitori strategici ovvero quei fornitori che garantiscono migliori
performance. I fornitori strategici rappresentano circa 1/6 dei fornitori totali ma garantiscono il 60% degli
approvvigionamenti di H&M. 10 Fair Labor Association è una organizzazione no-profit che si occupa di individuare e fornire le migliori soluzioni
per le pratiche di lavoro illecite, offrendo strumenti e risorse alle imprese, offrendo formazione ai lavoratori e
valutazioni indipendenti. Fonte http://www.fairlabor.org/ 11 Index Code of Concuct (ICoC) è un indice basato sul codice di condotta di H&M che l’azienda applica per
valutare la performance di sostenibilità dei fornitori. Questo permette di fare un’analisi accurata di ogni fabbrica,
individuare le priorità e apportare miglioramenti mirati.
44
punteggio del rapporto (ICoC), invece, permette di classificare i fornitori sulla base di una
valutazione da 1 a 100 che prevede che i fornitori con i punteggi più alti (fornitori strategici)
vengano premiati con incentivi come contratti di fornitura più lunghi. Tuttavia, se un fornitore
non rispetta gli standard minimi o dimostra una mancanza di volontà nel migliorarsi, le
conseguenze possono essere due: ridurre il volume degli ordini come sorta di avvertimento
oppure interrompere il rapporto d’affari. In quest’ultimo caso, se le condizioni lo permettono,
H&M concede al fornitore un periodo di transizione per trovare nuovi clienti e per evitare
quindi la perdita di posti di lavoro.
Fig. 2.2: Key performance – Progressi nelle performance di sostenibilità dei fornitori indicate con il
miglioramento del ICoC. Fonte H&M Sustainability report 2015
La responsabilità dell’operato delle fabbriche non è quindi solo dei fornitori ma, indirettamente,
ricade anche su H&M ed proprio per questo che l’azienda svedese intrattiene numerosi rapporti
istituzionali con governi, sindacati e ONG per migliorare le condizioni di lavoro degli operari.
L’ambizione dell’azienda svedese è riuscire a migliorare le condizioni dei lavoratori
dell’industria tessile, obiettivo che da sola non è in grado di raggiungere e proprio per questo si
avvale della collaborazione di molteplici soggetti.
76,5
77,377,8
81
82,2
77,7
79,1
80,1
82,7
83,6
2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
Tutte le fabbriche Fabbriche strategiche
45
H&M ha sottoscritto un accordo con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) per
attuare una serie di azioni mirate a sostenere trattative di lavoro eque che garantiscano orari di
lavoro umani e salari dignitosi, dialoga con i governi per migliorare a livello giuridico i diritti
dei lavoratori come ad esempio il diritto alla libertà di associazione e inoltre collabora con
UNICEF offrendo finanziamenti e strumenti di supporto per la lotta al lavoro minorile. Aprendo
una piccola parentesi su questo argomento è interessante capire come l’azienda intervenga in
questi casi poiché spesso, se non si trova un’alternativa al lavoro, questi bambini corrono ancora
più rischi. Quando il bambino viene scoperto si cerca di trovare la migliore soluzione per il suo
bene e quello della sua famiglia, la prima possibilità è fornirgli un’istruzione rigorosamente
pagata dal fornitore, la seconda opzione è quella di sostituire il bambino con un membro più
anziano della famiglia. Qualora lo stesso fornitore venisse scoperto nuovamente a dare lavoro
a minori si interromperebbe il rapporto di fornitura.
Per quanto riguarda invece i salari equi H&M sta dedicando molte risorse e investimenti per la
realizzazione di progetti e nuovi strumenti di contrattazione per gli operai dei paesi più arretrati.
Se infatti analizziamo la situazione attuale ci rendiamo conto che in molti stati i lavoratori non
hanno la possibilità di contrattare i salari collettivamente e ciò spesso non garantisce loro di
guadagnare abbastanza per vivere una vita decente. Tutte le persone che lavorano nel settore
dell'abbigliamento dovrebbero essere in grado di concordare i loro salari e le condizioni di
lavoro negoziando in maniera equa con i loro datori di lavoro. H&M, proprio per questo, aiuta
i lavoratori e i datori di lavoro a sviluppare le strutture e le conoscenze necessarie e sostenere
attivamente il diritto alla contrattazione collettiva, riconoscendo di essere pronta a riflettere
l'aumento dei costi di approvvigionamento derivanti da aumenti salariali.
Tutto questo ovviamente non può essere perseguito da un’unica azienda, seppur influente come
H&M, per questo il coinvolgimento dei governi, ONG e altre parti interessate risulta necessario
per promuovere un cambiamento progressivo e duraturo.
46
Fig. 2.3: Key performance – Numero di fabbriche fornitrici che hanno implementato sistemi di guadagno
equi per i lavoratori (2016 obiettivo da realizzare). Fonte H&M Sustainability report 2015
E’ chiaro che l’operato di H&M punta sulla costruzione di relazioni forti, a lungo termine,
caratterizzate da fiducia reciproca e trasparenza. In questo modo l’azienda svedese con il suo
impegno mette in moto un circolo virtuoso dove:
I fornitori che dimostrano interesse nel migliorare le loro pratiche di gestione sostenibili
ottengono una performance economica migliore e duratura.
La fiducia dei fornitori favorisce l’applicazione di salari migliori per i lavoratori che
migliorano così la loro vita, quella della loro famiglia e della comunità di appartenenza.
Il miglioramento dei redditi e dell’economia portano alla crescita dei mercati e dei paesi
più arretrati.
Il tutto si riflette sull’azienda in termini di maggiore stabilità e affidabilità degli
approvvigionamenti, nonché in termini di meno rischi di scandali legati alle condizioni
dei lavoratori che potrebbero danneggiare la reputazione e l’immagine della marca e
portare con se conseguenze pesanti.
3
68
14
6
2 0 1 4 2 0 1 5 2 0 1 6
47
2.3.3 - Comportamento etico
Un’azienda delle dimensioni di H&M intrattiene rapporti con milioni di persone appartenenti a
diversi paesi e culture nonché con legislazioni e regolamenti diversi da paese a paese e questo
non può che comportare un impegno enorme in termini di attenzione e costanza nel “fare
sempre la cosa giusta”. Ciò significa il rispetto di una miriade di principi tra cui annoveriamo
ad esempio il rispetto dei diritti umani, il rispetto delle leggi, dell’ambiente, pagare le tasse.
H&M adotta comportamenti etici sia all’interno dell’azienda sia al suo esterno concentrandosi
particolarmente su cinque aspetti critici della gestione:
Lotta alla corruzione. La corruzione è un rischio molto alto nella maggior parte dei paesi
e mercati dove operano le grandi aziende e proprio per questo è necessaria una politica
severa a tolleranza zero nei confronti di chi non adotta comportamenti trasparenti.
L’aspetto fondamentale per H&M nella lotta alla corruzione è la prevenzione intesa in
questo caso come controlli nelle fabbriche, formazione a operari, dipendenti e manager
e infine sistemi di denuncia anonimi. In primo luogo l’azienda svedese conduce controlli
periodici nelle fabbriche per valutare le possibili minacce, soprattutto in quei paesi
considerati “ad alto rischio”. In secondo luogo fornisce un training obbligatorio di
formazione, mirato a sensibilizzare dipendenti e manager, che ha raggiunto l’83% delle
fabbriche a rischio. Infine l’azienda, oltre ad aver applicato sistemi di controllo interni,
ha adottato una procedura di denuncia in loco con cui possono essere segnalati casi
sospetti, il tutto in maniera anonima e confidenziale in modo da non incorrere in
ripercussioni.
Nel 2013 erano stati studiati 36 casi di potenziale corruzione, nel 2014 i casi sono scesi
a 30. Sempre nel 2014 le indagini hanno portato H&M ad un’azione incisiva in 18 casi,
9 dei quali si sono conclusi con un avviso mentre i restanti 9 si sono conclusi con la
terminazione del rapporto di lavoro.
Essere il miglior datore di lavoro possibile. Qualsiasi azienda in continua evoluzione e
in continua crescita ha la necessità di mantenere e sviluppare il personale che già
possiede e attirare a sé nuovi talenti. Per realizzare ciò H&M ha sviluppato un ambiente
di lavoro dove le persone sono considerate la risorsa più importante e per questo
vengono costantemente incoraggiate nuove idee e iniziative. I principi a cui ci si ispira
48
riguardano il garantire un ambiente di lavoro sano, orari che permettano un buon
equilibrio vita/lavoro, incoraggiare il dialogo franco e rispettoso e il lavoro di squadra.
Come detto in precedenza il sistema di gestione dei dipendenti è stato implementato con
corsi di formazione, spesso obbligatori, volti a migliorare le competenze e le conoscenze
dei lavoratori. Il sistema permette inoltre ai dipendenti di gestire la propria formazione
accedendo a corsi opzionali di e-Learning o corsi in aula. L’azienda punta a mantenere
gerarchie basse offrendo benefici sia generali (H&M Incentive Program che permettere
ai dipendenti di partecipare alla distribuzione dell’aumento degli utili dopo 5 anni
dall’assunzione) sia mirati alle esigenze e ai contesti locali come ad esempio la
collaborazione con ILOAIDS, principale agenzia delle Nazioni Unite per le politiche e
i programmi di HIV nel mondo del lavoro, al fine di garantire programmi di prevenzione
o accesso alle cure per le zone ad elevato rischio di contagio.
E’ chiaro che la soddisfazione dei dipendenti è un elemento importantissimo per
l’azienda in quanto dipendenti più soddisfatti saranno maggiormente motivati a lavorare
bene e a dedicarsi al loro lavoro, andranno a lavorare in maniera positiva e questo si
rispecchierà non solo sulla performance individuale ma anche nei rapporti con i colleghi
che beneficeranno di maggiore armonia. La cura e l’attenzione ai dipendenti risulta
quindi un atteggiamento vincente per l’azienda che andrà a creare un ulteriore circolo
virtuoso alimentato dalle positive influenze reciproche.
Gestione dei diritti umani. Una grande impresa, come sottolineato nel paragrafo
precedente, spesso si trova a svolgere operazioni in paesi in cui i diritti umani sono a
rischio. Tra questi alcuni dei più importanti risultano essere le condizioni di lavoro, i
diritti delle donne e il diritto all’acqua. Abbiamo già parlato dell’impegno di H&M nel
garantire che i lavoratori delle fabbriche non subiscano ingiustizie, ma quello che non
si era specificato è che l’azienda ha sviluppato un programma di formazione che aiuta i
responsabili delle funzioni chiave a implementare la giusta policy sui diritti umani. Tale
protocollo è in linea con i “Principi Guida per Imprese e Diritti Umani”12 delle Nazioni
Unite il quale specifica che il compito delle imprese è in primo luogo rispettare i diritti
umani e tutte le leggi applicabili e in secondo luogo apportare rimedi efficaci per le
vittime di abusi. Per misurare l’efficacia dei programmi di formazione sono presenti,
12 Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Guiding Principles on Business and Human Rights. 2011. Fonte
lungo tutta la filiera, una serie di strumenti orientati proprio a valutare l’impatto
dell’azienda su questi temi fondamentali.
Diversità e uguaglianza. L’azienda svedese trattando questi temi parla della “personalità
di H&M” intesa come consapevolezza che la diversità fa parte della nostra cultura e
intesa come tolleranza e apertura mentale. Questi valori sono tanto rivolti all’interno
dell’azienda quanto all’esterno. All’interno dell’azienda tutto il personale,
indipendentemente da sesso, età, etnia, credo religioso, orientamento sessuale o
disabilità, ha la possibilità di fare carriera ed essere promosso. Allo stesso modo
l’azienda si fa promotrice di questi principi anche verso l’esterno ad esempio con
pubblicità particolari che permettano di guardare le cose da un punto di vista diverso.
Marketing responsabile. Le campagne pubblicitarie sono uno dei più importanti modi
con cui H&M comunica la sua idea di business poiché garantisce un ampio impatto in
tutti i 55 mercati in cui è presente. L’azienda lavora con alcuni dei migliori fotografi,
modelli e icone di stile del mondo, con l'obiettivo di ispirare un ampio e diversificato
gruppo di consumatori, il che porta inevitabilmente a dover fare i conti con la percezione
della stessa immagine da parte di culture diverse. La sfida è quindi riuscire a bilanciare
le percezioni individuali e culturali con le richieste dei clienti, la diversità dei modelli e
al tempo stesso fornire immagini di alta moda, che rispecchino le ultime tendenze in
maniera stimolante.
La politica dell’azienda svedese rimane quella di agire in maniera responsabile cercando
di generare un impatto positivo con la propria pubblicità. A dimostrazione di ciò nel
2005 l’azienda, in linea con i sui principi, è stata costretta ad interrompere la campagna
pubblicitaria con la top model Kate Moss in seguito allo scandalo di droga che la vedeva
coinvolta.
Il comportarsi in maniera etica riassume un po’ tutto quello che fa H&M attraverso i suoi sette
impegni per diventare una società sempre più sostenibile o, in altre parole, essere un buon
cittadino del mondo. Come sostenevano negli anni ’80 Frederick13 e Sacconi14, i principi etici
13 Frederick, “Why ethical analysis in indispensable unavoidable in corporate affairs”, California Management
Review, n.28, 1986 14 Sacconi L., “Etica e teorie normative degli stakeholder”, 2005, in Sacconi L., “Guida critica alla responsabilità
sociale e al governo d’impresa”, Bancaria Editrice, 2005
50
e le regole morali rappresentano due elementi fondamentali della responsabilità sociale
d’impresa che permettono di regolare e governare i comportamenti delle aziende. Ecco che
allora l’etica può diventare il collante necessario per unire le tre dimensioni della sostenibilità
e soddisfare gli interessi economici contemporaneamente a quelli sociali e ambientali definiti
nell’approccio Triple Bottom Line.
2.3.4 - Azioni favorevoli nei confronti del cambiamento climatico
Il cambiamento climatico è una delle maggiori preoccupazioni del nostro tempo. Numerosi
rapporti hanno stimato che entro il 2050, la temperatura globale aumenterà di più di 2° C
rispetto ai livelli pre-industriali, rendendo ancora più gravi le conseguenze di un cambiamento
irreversibile. A fronte di questa preoccupante realtà i leader mondiali, radunatisi a Parigi il 12
Dicembre 2015, hanno firmato un accordo per limitare l’aumento del riscaldamento globale al
limite massimo di 1,5° C. Gli esperti lo hanno definito un obiettivo “coraggioso” dato che la
popolazione mondiale è in continua crescita come di fatto la classe media, il che porterà ad
un’inevitabile innalzamento dell’uso di energia elettrica. Per far capire il loop negativo che il
cambiamento climatico contribuisce a creare pensiamo al boom degli impianti di
climatizzazione. L’energia utilizzata dall’uomo porta alle emissioni di CO2, le emissioni
causano il riscaldamento globale, il riscaldamento porta all’utilizzo di maggiori climatizzatori,
ciò porta al consumo di ulteriore energia fino a ricominciare il ciclo. E questo è solo uno dei
più semplici esempi che si possono fare, ma bisognerebbe citare anche lo scioglimento dei
ghiacciai, l’aumento di eventi climatici estremi, la crescita del livello del mare, la perdita di
biodiversità o ancora la migrazione di interi popoli.
E’ chiaro che in questo caso ognuno debba fare la sua parte e l’impegno dimostrato da H&M
nella lotta al riscaldamento globale è significativa. L’azienda svedese si è posta obiettivi
importanti quali ad esempio l’utilizzo di energia derivante da fonti rinnovabili nei negozi, uffici
e magazzini o l’utilizzo di trasporti a basso impatto ambientale.
Per quanto riguarda l’utilizzo di energia, l’attenzione principale ricade sui punti vendita in cui
si verifica l’80% del consumo di elettricità. L’obiettivo postosi dall’azienda è duplice, ridurre
il consumo generale di energia elettrica e laddove possibile utilizzare solo energia derivante da
fonti rinnovabili. Come possiamo notare dal grafico sottostante, rispetto al 2007 (anno di
riferimento o anno zero), le riduzioni sono state costanti e l’obiettivo è quello di migliorare
ancora di più entro il 2020. Tutto ciò è reso possibile grazie ad un più efficiente utilizzo
51
dell’elettricità e a una consistente riduzione degli sprechi che oltre a generare un impatto minore
sull’ambiente permettono di ottenere un risparmio in termini di consumi e quindi di costi.
Fig. 2.4: Key performance – Riduzione percentuale dell’uso di energia elettrica nei negozi H&M rispetto
al 2007. Fonte H&M Sustainability report 2015
Parte di tutta l’energia utilizzata dall’azienda deriva da fonti rinnovabili. Le soluzioni sono
spesso difficili da trovare a causa della mancanza di capacità rinnovabili “credibili” in alcuni
paesi come Cina e India. Nonostante le difficoltà l’azienda ha avviato una collaborazione con
la ONG internazionale The Climate Group che si occupa di sviluppare, assieme alle imprese,
strategie climatiche intelligenti, oltre che dotarsi di strumenti e tecnologie già esistenti.
Guardando al grafico sottostante si può verificare come i pannelli solari, installati presso
magazzini, uffici e negozi, abbiano generato energia sostenibile coprendo circa il 27% del
fabbisogno totale.
-8%
-10
%
-14
%
-14
%
-12
%
-8%
2 0 1 0 2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
52
Fig. 2.5: Key performance – Quota percentuale di energia elettrica, derivante da fonti rinnovabili,
utilizzata nei negozi, uffici e magazzini del marchio H&M. Fonte H&M Sustainability report 2015
Gli obiettivi raggiunti fino adesso e quelli previsti per il futuro contribuiscono a ridurre le
emissioni dell’azienda che attraverso cambiamenti strutturali e duraturi vuole fare la sua parte
per mantenere la temperatura globale entro il limite degli 1,5° C posto dai vertici mondiali. La
sfida principale per H&M, come per tutte le aziende, è quella di ridurre le emissioni di CO2 a
fronte dell’aumento di produzione e vendite. A tal proposito gli investimenti effettuati
dall’azienda svedese hanno permesso, nel 2015, di ridurre le emissioni totali del 56% rispetto
al 2014 nonostante una crescita delle vendite del 11%.
15
% 18
%
18
%
27
%
78
%
2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
53
Fig. 2.6: Key performance – Variazione delle emissioni di CO2 rispetto all’anno precedente VS. crescita
delle vendite rispetto all’anno precedente. Fonte H&M Sustainability report 2015
Detto questo, se osserviamo il ciclo di vita dei prodotti H&M, scopriamo che i più significativi
impatti climatici avvengono al di fuori delle operazioni aziendali. Ad esempio, il 12% degli
impatti negativi si verifica nella produzione delle materie prime come il cotone, il 36% deriva
dalla produzione e la lavorazione dei tessuti nelle fabbriche e il 26% deriva dall’utilizzo di
lavatrici e asciugatrici da parte dei consumatori. Nella maggior parte dei casi, H&M non ha
rapporti d'affari diretti in queste fasi del ciclo di vita dei prodotti, nonostante ciò la scelta di
agire in maniera cosciente e sostenibile si intravede anche in questi casi. L’azienda infatti
dotandosi della collaborazione di partner e fornitori responsabili fa in modo di influenzare
anche i fornitori di secondo livello e i fornitori di trasporto. In termini di materie prime vale lo
stesso principio, ovvero scegliendo i materiali giusti come ad esempio cotone o altre fibre
biologiche di cui parleremo più avanti. Infine, l’azienda cerca di guidare e ispirare i propri
clienti anche nelle scelte post acquisto, fornendo loro indicazioni e consigli come ad esempio
lavare i vestiti a temperature più basse per risparmiare energia, usare le giuste dosi di detersivi
o portare i vestiti che non si indossano più nei propri negozi per il riutilizzo e il riciclaggio.
+12%+9%
-4%
-56%
+11%+9%
+14%
+11%
2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
Emissioni Vendite
54
Fig. 2.7: Key performance – Ripartizione percentuale degli impatti climatici lungo la catena del valore
di H&M. Fonte H&M Sustainability report 2015
Soffermandosi brevemente sulla fase del trasporto, si possono distinguere i diversi mezzi in
base al loro impatto ambientale: l’aereo è quello che sicuramente inquina di più (158 kg di
anidride carbonica/tonnellata di prodotto) mentre l’alternativa più ecologica sono le navi (0.7
kg di anidride carbonica/tonnellata di prodotto). H&M non possiede mezzi di proprietà, per
questo si avvale di servizi di trasporto via mare e via terra rigorosamente coperti da iniziative
ambientali atte a garantire il rispetto degli standard aziendali.
I fornitori di trasporto via terra devono obbligatoriamente essere partner SmartWay15, se
operano nel Nord America, o registrati con WayAhead se si trovano in Europa e Asia.
Quest’ultimo rappresenta uno strumento, sviluppato grazie alle collaborazione con ERRT16,
che permette di valutare le prestazioni ambientali dei fornitori europei e verificare se rispettano
i requisiti minimi17 imposti da H&M.
15 SmartWay è un programma gestito dalla US Environmental Protection Agency (EPA), che si occupa della
valutazione e la certificazione delle prestazioni ambientali dei veicoli stradali. Tutti i partner SmartWay sono
riconosciuti per il loro impegno nella riduzione delle emissioni. Fonte http://www3.epa.gov/smartway/ 16 L’European Retail Round Table (ERRT) è un’organizzazione che riunisce i CEO delle principali società di retail
europee per promuovere la creazione di un mercato unico, un modello di consumo più sostenibile e la creazione
di nuove opportunità di mercato. Fonte http://www.errt.org/ 17 Requisiti minimi: almeno il 70% dei conducenti di mezzi di trasporto merci su strada deve aver ricevuto una
formazione in guida a basso consumo, i camion che trasportano le merci non devono avere più di 10 anni, le
36% Produzione dei tessuti
12% Produzione materie prime
26% Uso dei consumatori
10% Vendita
6% Trasporti
5% Imballaggio
6% Produzione dei vestiti
55
Per quanto riguarda i fornitori che operano via mare valgono le stesse regole. Per loro è stato
sviluppato uno strumento denominato Clean Shipping Index ideato all’interno del progetto
Clean Shipping Project di cui ha fatto parte anche H&M. Lo strumento ha le stesse finalità di
quelli nominati in precedenza ovvero valutare le performance ambientali dei fornitori per
verificare se rispettano determinati requisiti di sostenibilità. Originariamente limitato alla
Svezia, il Clean Shipping Index è stato lanciato nel 2010 a livello europeo riscuotendo enorme
successo tanto da essere premiato, nello stesso anno, come “Green Initiative of the year” ai
Sustainable Shipping Awards di Londra.
aziende di trasporto devono avere un obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 accompagnato da un piano
d’azione e misurazione periodiche.
56
2.3.5 - Ridurre, riutilizzare, riciclare
Secondo uno studio condotto da WRAP18, circa il 31% di tutti i prodotti tessili nel Regno Unito
finiscono nella spazzatura. Secondo invece l’EPA19, il 5% delle discariche negli Stati Uniti sono
costituite da tessuti. Di tutti questi rifiuti circa il 95% potrebbero essere riutilizzati o riciclati e
ricominciare così un nuovo ciclo di vita.
H&M nel campo del riciclaggio è presente da poco
tempo ma ha già ottenuto risultati importanti che fanno
presumere che si sta muovendo nella direzione giusta.
Dal 2013, infatti, collabora con uno dei leader mondiali
nel riciclaggio di prodotti tessili, I: Collect (I: Co)20, per
raccogliere vestiti inutilizzati in tutti i mercati. Sempre
dallo stesso anno sono state disposte delle cassette di
raccolta indumenti in quasi tutti i negozi del marchio,
dove i clienti possono lasciare gli abiti che non
desiderano più o di cui non hanno più necessità (a
sinistra la Fig. 2.8). Il riciclaggio non si limita ai soli
prodotti H&M ma vale per qualsiasi prodotto tessile di
qualsiasi marca e ogni cliente che fornisce tale
contributo viene premiato con un buono sconto da spendere all’interno del negozio. Nel corso
del 2013, il primo anno dell’iniziativa Garment Collecting (raccolta indumenti), l’azienda
svedese ha raccolto 3.047 tonnellate di indumenti. Nel 2014, il risultato è più che raddoppiato
arrivando a 7.684 tonnellate che, per rendere l’idea, rappresentano una quantità di fibra tessile
corrispondente a oltre 38 milioni di t-shirt. Probabilmente si tratta del più grande sistema di
raccolta di abbigliamento usato del mondo.
18 WRAP (Waste & Resources Action Programme) è un ente di beneficenza inglese che collabora con le imprese
e le comunità fornendo sostegno per la riduzione dei rifiuti, lo sviluppo di prodotti sostenibili e l’utilizzo delle
risorse in modo efficiente. Fonte http://www.wrap.org.uk/ 19 Environmental Protection Agency (EPA) è un'agenzia del governo federale degli Stati Uniti d'America con lo
scopo di proteggere ambiente e salute umana attraverso l’applicazione delle leggi in materia approvate dal
congresso statunitense. Fonte http://www3.epa.gov/ 20 Società svizzera leader mondiale nel riciclaggio degli indumenti. Fornisce alle aziende le infrastrutture
necessarie per riciclare le materie prime dei vecchi tessuti facendole così rientrare in un ciclo di produzione chiuso.
http://about.hm.com/it/About/sustainability.html#cm-menu 24 Rinaldi F. R., Testa S., “L’impresa moda responsabile – Integrare etica ed estetica nella filiera”, Egea, 2013
ambientale della catena del valore, come la coltivazione del cotone, la tintura dei tessuti e i
lavaggi da parte dei consumatori finali.
L’impegno di H&M in questo caso parte dalla progettazione dei prodotti scegliendo materiali
sostenibili, a ridotto consumo d’acqua, come il cotone biologico o materiali riciclabili. Ad
esempio, nel 2014 è stata lanciata la prima collezione “Conscious Denim” realizzata con almeno
il 50% di materiali sostenibili tra cui il cotone riciclato dai vestiti raccolti. La produzione di
questo genere di tessuto permette un risparmio di energia ma soprattutto una riduzione del
consumo di acqua del 56% rispetto a un denim convenzionale. Questi risultati sono in gran
parte stati ottenuti grazie alla collaborazione con Jeanologia, una società di consulenza
spagnola esperta di produzione denim, che ha realizzato uno strumento per la valutazione degli
impatti ambientali specifico per i processi di lavaggio dei tessuti. Questo strumento,
denominato EIM25, permette ad H&M di valutare l’impatto ambientale dei propri fornitori
dando loro un giudizio espresso in tre diverse categorie: verde, giallo e rosso. Per soddisfare gli
standard della collezione “Conscious Denim” i processi di lavaggio devono raggiungere
punteggi verdi ovvero garantire che vengano utilizzati un massimo di 35 litri di acqua a capo
durante i lavaggi. L’azienda svedese, visti gli ottimi risultati ottenuti, sta ora lavorando per
aumentare l'uso di questo strumento tra tutti i suoi fornitori di denim e attualmente circa la metà
di questi rientrano nella categoria verde.
Per far sì che i tutti si allineino con gli standard previsti, l’azienda svedese ha messo a punto un
programma di formazione tecnica per i propri fornitori con processi di lavaggio e tintura. Fino
ad ora, 457 stabilimenti (89%) sono stati addestrati in tre diverse aree: la consapevolezza
generale dell'acqua, i requisiti necessari sull’uso delle risorse idriche e i test tecnici per
monitorare il loro consumo. Inoltre, assieme ad altri marchi della moda con cui condivide i
fornitori, è stata intrapresa una collaborazione per sostenere e monitorare il rispetto delle regole
per lo smaltimento delle acque reflue che ha portato il 75% dei fornitori dell’azienda al
raggiungimento dei livelli di conformità26. Come si può notare dal grafico sottostante, da
quando l’azienda monitora e sostiene i propri fornitori ad implementare i migliori programmi
per il trattamento e l’uso delle risorse idriche, si sono registrati notevoli miglioramenti.
25 EIM (Environmental Impact Measuring) è un software per la misurazione degli impatti ambientali specifico
per l'industria dell'abbigliamento, creato per fornire alle fabbriche di lavaggio e tintura uno strumento per
realizzare processi più sostenibili. Fonte http://eim.jeanologia.com 26 Requisiti sviluppati da Sustainable Water Group in collaborazione con BSR (Business for Social
Responsibility), Organizzazione no profit globale che lavora con diverse aziende per trovare nuove strategie e
soluzioni sostenibili.
62
Fig. 2.10: Key performance – Percentuale di fornitori H&M che sono conformi ai requisiti di qualità
delle acque reflue. Fonte H&M Sustainability report 2015
Laddove invece, la legislazione sulla gestione delle acque, presenta lacune o arretratezza, H&M
si impegna a collaborare con i governi e le ONG per stimolare l’assunzione di interventi e piani
di regolazione adeguati. Un esempio di tale impegno lo si riscontra in Bangladesh dove
l’azienda sta conducendo un'analisi del rischio economico che le attuali pratiche commerciali
comportano e di come queste possano influenzare la crescita e la produzione del paese nel lungo
periodo. Lo scopo della ricerca è quello di formare una solida base legislativa per una migliore
gestione delle risorse idriche in Bangladesh. Come conseguenza delle esigenze e degli stimoli
forniti dell’azienda svedese, i fornitori hanno investito oltre 30 milioni di euro nel
miglioramento delle proprie attività con conseguenti sviluppi positivi per tutta la comunità.
Per quanto riguarda invece il consumo di acqua interno all’azienda, è stato lanciato un
programma di e-learning, con sessioni obbligatorie, per sensibilizzare i dipendenti e formarli
su alcune soluzioni pratiche. Al momento i dipendenti raggiunti da questa iniziativa sono
43.000 (33%) dei quali circa 5.800 hanno preso parte ad ulteriori programmi di apprendimento
più avanzati. Inoltre, nonostante i negozi del marchio influiscano minimamente sul consumo
d’acqua, si sono apportati miglioramenti anche al loro interno per diminuire gli sprechi e
41%
57%
65%
71%
75%
2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
63
naturalmente ridurre alcuni costi di gestione. L’obiettivo postosi dall’azienda è quello di
utilizzare attrezzature più efficienti, come i rubinetti a basso flusso, in tutti i negozi, magazzini
e uffici entro il 2020. Un’iniziativa interessante è stata messa in pratica in alcuni magazzini ad
Amburgo, Ghlin, Pozan e Madrid, nonché in una serie di negozi nel Regno Unito dove sono
state implementate strutture di raccolta dell’acqua piovana. Ciò ha permesso nel 2015 di
raccogliere circa 21,1 milioni di litri di acqua da poter riutilizzare nei modi più utili.
Infine, l’impegno di H&M nel ridurre gli sprechi d’acqua continua anche dopo che i prodotti
sono stati venduti. Come abbiamo infatti spiegato a inizio capitolo, lungo la catena del valore
uno dei maggiori impatti sull’ambiente è dato dal consumo d’acqua dei consumatori per lavare
i vestiti. L’azienda in questo caso non ha molta influenza per cambiare le abitudini delle
persone, nonostante ciò, per cercare di ridurre anche in minima parte gli sprechi, dal 2014 in
tutti i capi venduti, è presente l’etichetta Clevercare27 che incoraggia i clienti a prendersi cura
responsabilmente dei propri vestiti consigliando alcune buone prassi su lavaggi, asciugatura e
altro.
Il secondo focus riguarda la produzione di cotone, la materia prima più utilizzata dall’azienda.
Spieghiamo innanzitutto che per coltivare il cotone sono necessari ingenti quantitativi d'acqua,
e molto spesso, per migliorare o velocizzare i raccolti, i coltivatori ricorrono a prodotti chimici
e pesticidi in quantità dannose. Secondo il rapporto Fashioning Sustainability28, ad esempio,
per coltivare il cotone utilizzato in un paio di jeans sono necessari fino a 10.000 litri d'acqua.
Affinché la produzione di cotone abbia un minor impatto sull’ambiente, l’azienda svedese si è
imposta come obiettivo quello di utilizzare entro il 2020 solo cotone proveniente da fonti
sostenibili ovvero:
Cotone biologico; H&M è il secondo più grande utilizzatore di cotone biologico al
mondo (primo nel 2013) secondo l’Organic Cotton Market Report 2014 redatto
dell’azienda americana Textile Exchange29. Cotone biologico significa cotone più
costoso perché coltivato senza pesticidi, fertilizzanti chimici o OGM, quindi sottoposto
a severi standard di produzione e controlli certificati da un organismo indipendente.
27 Fonte http://www.clevercare.info/it 28 Draper, Murray, Weissbrod. “Fashioning Sustainability: A review of the Sustainability Impacts on the
Clothing Industry”. London, 2007 29 Textile Exchange è un organizzazione no profit globale che lavora con aziende dell’industria tessile non solo
per ridurre gli impatti ambientali ma anche per portare avanti un cambiamento positivo per il futuro. Fonte
http://textileexch.wpengine.com
64
Better Cotton, cotone derivante da piantagioni facenti parte della Better Cotton Initiative
ovvero un’iniziativa sostenuta dal WWF per diffondere nelle piantagioni di cotone le
migliori prassi di coltivazione. Questo cotone è realizzato con minori risorse idriche,
minori quantità di sostanze chimiche che non alterano le condizioni del suolo e
promuovendo buone condizioni di lavoro. Dell’iniziativa fanno parte colossi come
Adidas e la stessa H&M e attualmente sono 680.000 i coltivatori registrati.
Cotone riciclato, proviene da capi smessi e residui tessili tritati per ricavare le nuove
fibre necessarie per produrre nuovi tessuti. Le prassi di H&M sul riciclaggio sono già
state spiegate in precedenza, al momento l’utilizzo del cotone riciclato è poco inferiore
all’1% del totale utilizzato ma i numeri sono destinati a crescere.
Fig. 2.11: Key performance - Percentuale di cotone sostenibile sul totale del cotone utilizzato da
H&M. Fonte H&M Sustainability report 2015
L’impegno da parte dell’azienda svedese è notevole anno dopo anno. Attualmente il 31,4% di
tutto il cotone utilizzato da H&M deriva da fonti sostenibili e l’obiettivo è quello di arrivare al
100% entro il 2020. Come possiamo immaginare il cotone ha un’importanza cruciale, non solo
per l’azienda presa in esame ma per tutto il mondo dell’industria tessile, poiché rappresenta una
fibra naturale e rinnovabile che presenta diversi vantaggi di lavorazione ma che allo stesso
tempo desta alcune preoccupazioni che molti consumatori non conoscono. Ad esempio per
7,6% 7,8%10,8% 13,7%
14,3%
3.6%
5%
7,5%
16,9%
0,2%
2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
Cotone biologico Better Cotton Cotone riciclato
65
coltivare il cotone contenuto in una t-shirt sono necessari in media 2.500 litri d’acqua, lo stesso
vale per i pesticidi che inquinano il terreno, basti pensare che il 10% di tutti i prodotti chimici
usati nella coltivazione vengono impiegati nelle piantagioni di cotone.30 H&M è però disposta
a pagare il cotone di più se proviene da fonti che non utilizzano pesticidi dannosi o che usano
in maniera efficiente l’acqua, contribuendo così ad alimentare un circolo virtuoso che migliora
la reddittività dei contadini, l’ambiente e il futuro dell’azienda.
Oltre al cotone, H&M sceglie di utilizzare anche altri materiali più sostenibili come la gomma
naturale FSC® (utilizzata nelle scarpe), il Lyocell (vestiti), plastica riciclata (sacchetti e
accessori), poliestere e poliammide riciclati (vestiti), seta, canapa e lino biologici (vestiti), pelle
biologica (vestiti) e lana riciclata (vestiti). Assieme al cotone sostenibile, questi materiali
rappresentavano, nel 2015, il 20% di tutto il materiale utilizzato dall’azienda (nel 2014: 14%,
2013: 11%). Tutti questi materiali vengono selezionati sulla base del Environmental Benchmark
for Fibres31 redatto e aggiornato da Made-By32. Il report mette in luce l’impatto ambientale
delle fibre più comunemente utilizzate dall’industria della moda promuovendo delle alternative
http://about.hm.com/it/About/sustainability.html#cm-menu 31 Made-By. Benchmark for Fibres report 2013. Fonte http://www.made-by.org/ 32 Made-By è una pluripremiata organizzazione europea senza scopo di lucro che agisce per migliorare le
condizioni ambientali e sociali nel settore della moda.
globale o di certificazione per la produzione di lana sostenibile. Per cercare di colmare il vuoto
normativo, nei primi mesi del 2014, l’azienda svedese ha avviato il Responsible Wool Standard
in collaborazione con Textile Exchange (con cui collabora anche per il cotone) e l'ente di
certificazione Control Union35, nonché una serie di altri marchi della moda e parti interessate.
L'obiettivo del progetto è quello di lanciare uno standard certificabile globale per la produzione
di lana sostenibile.
Altro trattamento particolare è riservato alle piume che proprio negli anni recenti sono state al
centro dell’attenzione mediatica a causa del caso Moncler, che vedeva l’azienda italiana
rifornirsi di piume ricavate con pratiche crudeli da animali vivi. Anche in questo caso la politica
di H&M vieta rigorosamente la spiumatura da vivo oltre che l’alimentazione forzata per
ricavare il foie gras, prevede invece l’utilizzo di piume provenienti da allevamenti certificati
Responsible Down Standard36 (RDS) con l’obiettivo previsto nel 2016 di utilizzare solo piume
certificate.
E’ chiaro che per garantire tutte queste buone prassi è necessario sapere esattamente da dove
provengono i prodotti animali e le condizioni con cui vengono raccolti. In questo senso
l’azienda svedese, avvalendosi della collaborazione di molteplici partner, ha l’obiettivo di
raggiungere la completa tracciabilità della lana, delle piume e di tutti gli altri tipi di pelli come
cashmere, mohair o alpaca, richiedendo inoltre a tutte le aziende di rispettare le condizioni
elencate nel Basic Farm requirements for Good Animal Husbandry, ovvero l’elenco dei
requisiti base di H&M per le buone prassi zootecniche, stilato sulla base del Five Freedoms37.
35 Ente di certificazione globale indipendente per rilevamenti e ispezioni. Fonte http://www.controlunion.com 36 E’ uno standard globale volontario, il che significa che le aziende possono scegliere di certificare i loro prodotti
con la RDS, anche se non esiste una legislazione che richiede loro di farlo. RDS è stato sviluppato con la
collaborazione di associazioni per la salvaguardia degli animali, esperti del settore, aziende e rivenditori. RDS
riconosce le aziende che adottano le migliori pratiche per il benessere degli animali, ed esclude quelle che al
contrario le violano. Fonte http://responsibledown.org 37 Le Five Freedoms rappresentano cinque aspetti del benessere animale sotto il controllo umano. Formalizzate nel
1979 dal Welfare Council del Regno Unito, sono stati adottati dalle più importanti organizzazioni internazionali
tra cui l'Organizzazione mondiale per la salute degli animali, la Royal Society per la Prevenzione della Crudeltà
verso gli Animali e la Società Americana per la Prevenzione della Crudeltà verso gli Animali. Queste “cinque
libertà” attualmente sono:
Libertà da fame o sete, fornendo un facile accesso all’acqua fresca e una dieta per mantenere la piena
salute e vigore;
Libertà dal disagio, fornendo un ambiente appropriato tra cui un riparo e una confortevole area di riposo;
Libertà dal dolore, infortunio o malattia fornendo prevenzione o diagnosi e trattamenti rapidi;
Libertà di esprimere comportamento normale, fornendo uno spazio sufficiente, strutture adeguate e la
compagnia della stessa specie animale;
Libertà da paura e angoscia, fornendo condizioni e trattamenti che evitano la sofferenza mentale.
La valutazione dell’azienda presa in considerazione all’interno di questo capitolo parte
dall’identificazione dell’approccio strategico nei confronti della sostenibilità che può essere
suddiviso in quattro diverse situazioni:
Strategia passiva, si verifica quando “l’azienda subisce la sostenibilità e la vive come
una costrizione, evitando di includerla nei propri ragionamenti strategici.” 43 Approccio
caratterizzato da interventi end of pipe che vengono realizzati a valle dei processi
produttivi senza quindi intervenire nella loro progettazione.
Strategia adattiva, si verifica quando l’azienda prende coscienza della propria
responsabilità ambientale e sociale ma, tuttavia, non investe risorse in questa direzione.
L’azienda si limita ad adattarsi alla legislazione e alle pressioni dei diversi stakeholder,
lasciandosi influenzare da questi ultimi sulle modalità d’azione e le risorse da investire.
Strategia reattiva, si verifica quando l’azienda approccia alla sostenibilità in maniera
volontaria solo per non perdere opportunità di mercato. In quest’ottica gli investimenti
sono mirati esclusivamente al vantaggio economico e al non perdere la propria
posizione competitiva. Un esempio sono le tecnologie di depurazione o tecnologie
pulite.
Strategia proattiva, si verifica quando “l’azienda vive la sostenibilità non solo come
un’opportunità competitiva, ma come una responsabilità che contraddistingue il modo
di essere nel contesto socio-economico di riferimento.” 44 L’azienda si impegna a
sensibilizzare dipendenti e manager sui temi più rilevanti e la sostenibilità viene inclusa
nei processi decisionali come elemento da ottimizzare.45
Dovendo valutare quindi H&M sulla base di questa distinzione e sulla base di tutta l’analisi
riportata lungo questo capitolo si può affermare senza dubbio che l’azienda svedese ha adottato
un approccio strategico proattivo verso la sostenibilità. Le parole utilizzate per descrivere
questo approccio racchiudono appieno i principi e la presa di coscienza dell’azienda nonché i
suoi comportamenti e il suo operato. A dimostrazione di ciò possiamo scomporre la definizione
di approccio proattivo per semplificare l’analisi.
43 Mio C., Il budget ambientale. Programmazione e controllo della variabile ambientale, Milano, Egea, 2001 44 Ibidem 45 Ibidem
73
“L’azienda vive la sostenibilità non solo come un’opportunità competitiva…”: è vero.
Sicuramente per H&M la sostenibilità rappresenta anche un’opportunità competitiva poiché,
come spiegato in precedenza, i consumatori così come i mercati finanziari richiedono alle
aziende sempre più impegno nel rispettare ambiente e comunità, inoltre gli investimenti
sostenibili possono portare alla creazione di nuove tecnologie o migliori prassi di produzione.
L’azienda svedese ha però dimostrato di andare oltre quest’ottica impegnandosi per la crescita
economica delle comunità e delle persone lungo tutta la filiera, nonché per la creazione di un
economia circolare. Si può quindi dire che H&M vive la sostenibilità come un’opportunità per
migliorare se stessa e tutti gli stakeholder che, direttamene o indirettamente, influenzano o
vengono influenzati dal suo operato, in un’ottica di creazione di valore condiviso.
“…ma come una responsabilità che contraddistingue il modo di essere nel contesto socio-
economico di riferimento”: è vero anche questo. Innanzitutto in questo caso si parla di
responsabilità che per H&M si traduce in un riconoscimento dell’enorme influenza che ha su
milioni di persone. L’azienda svedese ha deciso di utilizzare questa influenza in maniera
positiva, influenza i consumatori proponendo scelte consapevoli, influenza i dipendenti
promuovendo l’etica, influenza i fornitori promuovendo le migliori prassi di lavoro, influenza
i coltivatori e gli allevatori creando standard di certificazione e migliori tecniche, influenza
infine il mercato investendo in nuove tecnologie. La presa di coscienza avviene quindi nel
riconoscere la propria grandezza e le conseguenti responsabilità che ne derivano. Oltre a ciò
H&M riconosce di operare in contesti socio-economici a rischio, non sceglie di sfruttare i limiti
legislativi di alcuni paesi o la facile violazione dei diritti umani ma bensì di affrontare le sfide
e contribuire, assieme a governi e ONG, a rafforzare le leggi, regolare i salari minimi e creare
un quadro giuridico per il rispetto dei diritti umani.
“L’azienda si impegna a sensibilizzare dipendenti e manager sui temi più rilevanti…”, è vero.
H&M attua un notevole piano di comunicazione lungo tutta la piramide organizzativa per
sensibilizzare dipendenti e manager. I temi più rilevanti riguardano gli sprechi di acqua e di
energia per i quali vengono forniti corsi obbligatori base e corsi di approfondimento liberi che
come dimostrato hanno raggiunto quasi 6.000 dipendenti. Altri corsi riguardano la formazione
dei responsabili delle funzioni chiave per temi come la corruzione nelle fabbriche. La
sensibilizzazione da parte dell’azienda passa anche da H&M Conscious Foundation che ha
chiesto la collaborazione di dipendenti e clienti per scegliere i tre settori in cui concentrare le
proprie attività. La fondazione di aiuti umanitari si concentra attualmente su tre tematiche
principali, l’accesso all’acqua, l’istruzione primaria e l’emancipazione femminile, scelti
attraverso una votazione globale online in cui tutti hanno potuto esprimere la propria preferenza.
74
“…la sostenibilità viene inclusa nei processi decisionali come elemento da ottimizzare”, è vera
anche quest’ultima affermazione. L’azienda svedese si è posta dei chiari obiettivi ambientali e
sociali oltre che economici e, per raggiungerli, ha integrato la sostenibilità in tutte le funzioni
aziendali. I processi decisionali partono dalla progettazione dei prodotti scegliendo materiali
più sostenibili come quelli biologici o riciclati che hanno un minor impatto ambientale e
rispettano la salute degli animali. La scelta dei fornitori avviene con coscienza, per verificare
che questi siano all’altezza dei requisiti di sostenibilità vengono effettuati controlli preliminari
prima di inserirli nella catena del valore. Anche la scelta dei fornitori di trasporto viene
effettuata valutando quelli che garantiscono minori impatti ambientali o che sono certificati
“trasporti a ridotte emissioni”. Infine la sostenibilità è un elemento ottimizzato anche nelle
scelte pubblicitarie come dimostrano l’attenzione alla sensibilità delle diverse culture o
l’interruzione del rapporto con la modella Kate Moss dopo lo scandalo per droga.
L’ottimizzazione della sostenibilità altro non significa che generare profitti riducendo gli
impatti ambientali e migliorando quelli sociali.
Per concludere questa prima analisi è necessario specificare che adottare una strategia proattiva,
ed essere sostenibili, non significa aver raggiunto uno stato di fatto, in quanto la sostenibilità è
più un obiettivo in costante aggiornamento a cui si deve tendere. Proprio per questo uno dei
modi per dimostrare l’impegno delle organizzazioni è valutare i progressi e i miglioramenti
ottenuti nell’arco di un certo periodo di tempo. A tal proposito, con i dati raccolti in questa tesi,
si può affermare che H&M non è un’azienda che si limita a vedere la sostenibilità come punto
di arrivo, bensì dimostra di impegnarsi costantemente per migliorare se stessa e gli altri anno
dopo anno. I principali dati che lo dimostrano sono di seguito elencati: l’aumento del numero
dei fornitori che hanno implementato sistemi di guadagno equi per i propri dipendenti,
l’aumento delle performance di sostenibilità dei fornitori, la diminuzione dei casi di corruzione
grazie ai controlli interni, la riduzione dell’uso di energia elettrica nonostante l’apertura di nuovi
negozi, l’aumento di energia elettrica derivante da fonti rinnovabili, la riduzione delle emissioni
di CO2 rispetto all’aumento delle vendite, l’aumento del numero di vestiti raccolti che dimostra
l’impegno costante nel sensibilizzare i clienti, la riduzione dei rifiuti prodotti, il risparmio
d’acqua per le collezioni Conscious, l’aumento di fornitori che hanno implementato migliori
tecniche di lavaggio e tintura per ridurre gli sprechi d’acqua e sistemi efficienti di smaltimento
delle acque reflue nonché dei prodotti chimici, l’aumento di coltivatori che hanno aderito alla
Better Cotton Initiative, l’aumento di utilizzo di materiali riciclati, l’aumento dei posti di lavoro
e delle assunzioni e per ultimo ma non meno importante l’aumento del numero di bambini
75
raggiunti dai programmi di accesso all’acqua potabile e dai programmi educativi. A sostegno
di questa analisi H&M è stata inserita nel Sustainability Yearbook 201546 redatto da
RobecoSAM,47 ricevendo il premio di Industry Mover che viene assegnato all’azienda che ha
dimostrato il più grande miglioramento della performance di sostenibilità rispetto all’anno
precedente.
2.4.1 – Analisi rispetto ai principi internazionali
Una seconda valutazione dell’azienda svedese può essere fatta sulla base dei Dieci Principi
fondamentali contenuti all’interno del Global compact, un’iniziativa promossa nel 1999 dalle
Nazioni Unite per incoraggiare le aziende ad adottare politiche sostenibili e creare un quadro
economico, sociale e ambientale, in cui possa svilupparsi un economia sana.
Il Global Compact è probabilmente la più grande iniziativa di sostenibilità aziendale del mondo
poiché permette alle aziende di collaborare con le agenzie della Nazioni Unite, i gruppi
sindacali e la società civile favorendo così lo sviluppo di partnership fra soggetti di diversa
natura.
Il compito delle aziende e delle organizzazioni, che vi aderiscono volontariamente, è quello di
condividere, sostenere e applicare nella propria sfera di influenza un insieme di principi
fondamentali, relativi a diritti umani, standard lavorativi, tutela dell'ambiente e lotta alla
corruzione. Si tratta di principi solenni e condivisi universalmente in quanto derivati dalla
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, dalla Dichiarazione di Rio sull’ambiente
e sullo sviluppo del 1992, dalla Dichiarazione OIL sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro
del 1998 e dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003.
Diritti Umani
Principio 1: Le imprese dovrebbero sostenere e rispettare la protezione dei diritti umani
universalmente riconosciuti;
Principio 2: fare in modo di non essere complici di abusi dei diritti umani.
46 Annuario delle aziende con le migliori performance di sostenibilità per ogni settore. Fonte
http://yearbook.robecosam.com/home.html 47 RobecoSAM, specialista in investimenti di sostenibilità e servizi alle aziende. Oltre al Sustainability Yearbook,
pubblica il Dow Jones Sustainability Indices. Per fornire le sue valutazioni ha compilato uno dei database più
completi al mondo di materiale informativo sostenibile.
considerazione potrebbe essere quella che la dimensione ambientale passa anche per quella
sociale. Immagino che un operaio faccia fatica a preoccuparsi dell’ambiente se lavora in
condizioni disumane e il suo salario non è sufficiente per prendersi cura della sua famiglia.
Mentre una persona che vede riconoscere i suoi diritti e che ha una paga e una vita dignitosa
riesce più facilmente a preoccuparsi di altro. In questo senso l’impegno di H&M per far
rispettare i diritti dei lavoratori e in generale i diritti umani rappresenta anche il primo passo per
far rispettare quelli ambientali.
89
CAPITOLO TERZO
LA GESTIONE DEL RISCHIO REPUTAZIONALE E LA VIOLAZIONE DEI
DIRITTI CIVILI
3.1 – Reputazione e rischio reputazionale
Le dinamiche del mercato oggigiorno sono caratterizzate da maggiore incertezza rispetto al
passato, il ciclo di vita dei prodotti si è abbassato, il progredire delle tecnologie viaggia
rapidamente, la volatilità della domanda e la sua più difficile previsione rendono l’ambiente
economico più instabile.1 La globalizzazione ha facilitato gli spostamenti di capitali, beni e
persone e ha portato alla delocalizzazione dei processi di produzione nei luoghi in cui si può
generare il maggior risparmio di costi diretti. Avviene quindi che i beni sono prodotti in paesi
che non coincidono con il mercato di destinazione, allungando così le catene di fornitura da un
capo all’altro del globo. L’attuale ambiente economico comporta maggiori rischi per le Supply
Chain, rischi derivanti dall’eccessiva stratificazione dei fornitori che non permette un
trasparente flusso delle informazioni, complicando le procedure di controllo che spesso
rimangono superficiali.2
In tutto questo si inserisce il mercato fast fashion che, come suggerisce il nome, prevede che i
capi siano progettati e prodotti in modo rapido ed economico per consentire al consumatore di
acquistarli in base alla moda del momento e ad un prezzo inferiore.
1 Christopher M., “Logistics & Supply Chain Management”, Pearson Education Limited, 2011 2 Hoffman H., C. Busse, C. Bode, M. Henke, “Sustainability-Related Supply Chain Risks: Conceptualization and
Management in Business Strategy and the Environment”, vol. 23, John Wiley & Sons, 2014
90
I paesi di produzione di questi capi spesso sono paesi in via di sviluppo, i quali presentano delle
condizioni particolari come basso costo della manodopera e delle materie prime e legislazioni
non troppe severe. Spesso infatti i governi d questi paesi, pur di attirare i capitali delle grandi
aziende, sono disposti a sacrificare norme più severe per la sicurezza dei lavoratori o addirittura
vietare la creazione di organizzazioni sindacali. Queste condizioni di carenza degli strumenti di
tutela dei diritti dei lavoratori spesso sfociano in pratiche di sfruttamento o casi di lavoro
minorile.
Per le aziende operare in questi paesi comporta dei vantaggi ma anche maggiori rischi che, se
non si analizzano e gestiscono attraverso una adeguata strategia, possono sfociare in
ripercussioni a livello mediatico ed economico3, andando ad intaccare quella che viene definita
corporate reputation. Tale concetto è stato approfondito in ambito accademico solo negli ultimi
anni in quanto in passato veniva visto come un fattore astratto, sfuggente e soprattutto non
misurabile. L’argomento si è poi diffuso in ambito scientifico e il dibattito, nato dalle opinioni
dei vari studiosi, ha portato allo sviluppo di molteplici definizioni. Quella proposta da Bennet
e Kottasz è considerata dal mondo scientifico la più esaustiva: “la reputazione di un
organizzazione è la fusione di tutte le aspettative, percezioni ed opinioni sviluppate nel tempo
da clienti, impiegati, fornitori, investitori e vasto pubblico in relazione alle qualità
dell’organizzazione, alle caratteristiche e ai comportamenti, che derivano dalla personale
esperienza, il sentito dire o l’osservazione delle passate azioni dell’organizzazione”4.
Da tale definizione emerge chiaramente come la reputazione non sia univoca e uguale per tutti
i portatori d’interesse ma dipenda dalle percezioni degli stakeholder interni ed esterni e
soprattutto dalle azioni e i comportamenti posti in essere dall’azienda.
Al giorno d’oggi la reputazione non è più un’incognita per le aziende ma è diventata un asset
strategico da gestire per influenzare diverse variabili e contribuire al successo dell’impresa nel
tempo.5 I manager aziendali hanno quindi il compito di preservarla da eventuali eventi negativi
che potrebbero comprometterla, perciò si parla di reputational risk. Tale rischio è strettamente
legato agli studi sulla corporate reputation e proprio come per quest’ultima non vi è una
definizione univoca. Il comitato di Basilea lo definisce “il rischio di perdite potenziali per
un’impresa a causa di un deterioramento nella propria reputazione o affidabilità, dovuto ad
3 Schettini Gherardini J., “Reputazione e rischio reputazionale in economia. Un modello teorico”, Franco Angeli,
2011 4 Bennett Roger, Rita Kottasz, "Practitioner perceptions of corporate reputation: an empirical
investigation", Corporate Communications: An International Journal, Vol. 5 Iss: 4, 2000, pp.224 - 235 5 Schettini Gherardini J., “Reputazione e rischio reputazionale in economia. Un modello teorico”, Franco Angeli,
una percezione negativa dell’immagine dell’impresa stessa tra clienti, controparti, azionisti
e/o autorità di vigilanza”6.
Kitchen e Schultz lo definiscono “il rischio per un’impresa di subire conseguenze economiche
dovute ad un peggioramento dei rapporti con i propri stakeholder, a seguito di eventi che
incidono negativamente sulla fiducia e credibilità dell’impresa presso i pubblici”.7
In linea con queste definizioni viene considerato come:
Un rischio di primaria importanza che può influenzare variabili determinanti per la
competitività dell’azienda;
Un rischio di secondo livello, ovvero derivante da un evento o un errore precedente
(rischio di primo livello);
Un rischio non completamente controllabile, nel senso che non dipende interamente
dall’azienda ma anche da altri fattori esterni.8
3.2 - I rischi della gestione irresponsabile della supply chain
Lungo la catena di fornitura sono diversi i fattori di rischio che possono causare un danno
reputazionale all’azienda, di questi, la violazione dei diritti civili rappresenta il caso a più alto
clamore sociale e mediatico.
Il comportamento irresponsabile delle imprese va soprattutto a danni dei lavoratori e della
popolazione dei paesi in cui viene delocalizzata la produzione. Tuttavia esiste un collegamento
diretto tra l’atteggiamento dell’impresa e una serie di rischi reputazionali che si possono correre.
“Ci vogliono vent’anni per costruirla e cinque minuti per rovinarla”. La frase del noto
economista Warren Buffet riassume in pieno quanto siano importanti i rischi reputazionali e
quanto le moderne catene di fornitura risultino un terreno insidioso.
Un caso recente (2013) è il crollo, in Bangladesh, del Rana Plaza, un edifico di otto piani adibito
alla realizzazione di prodotti tessili per marchi quali Benetton, Inditex, Walmart e molti altri.
L’episodio rientra tra i casi di violazione dei diritti civili poiché lo stabile era stato dichiarato
inagibile pochi giorni prima del crollo ma, nonostante le pessime condizioni di lavoro, i
supervisori costrinsero i dipendenti, sotto minaccia, a presentarsi ugualmente a lavoro
6 Bank for International Settlements, BIS, Proposed enhancements to the Basel II framework - Consultative
Document, Basel Committee Publications, 2009 7 Kitchen P. J., D. E. Schultz, “Raising the corporate umbrella”, Palgrave-Macm Basingstoke, UK, 2001 8 Floreani Rudi. Il rischio reputazionale. Risk Management Evolution. The Innovation Group. 2012
92
condannando di fatto alla morte circa 1130 di loro. Il caso rappresenta un tipico esempio di
come la catena di fornitura non sia stata gestita in maniera responsabile dalle aziende citate, che
hanno inevitabilmente scatenato le proteste di consumatori, ONG, lavoratori e istituzioni.
Benetton non esce bene da questa vicenda che l’ha vista inizialmente mentire pubblicamente
sulle sue relazioni con il Rana Plaza per poi essere costretta, da prove evidenti, a riconoscere di
aver affidato parte della produzione all’edificio in questione. In definitiva la società italiana ha
dimostrato, in primo luogo, di non essersi mai accertata delle condizioni di lavoro dei dipendenti
dei propri fornitori e, in secondo luogo, di non aver saputo gestire la crisi una volta scoppiata.
Un altro esempio, seppur non in ambito tessile, è lo scandalo che ha coinvolto Apple e i suoi
fornitori cinesi nel 2012. Le gravi accuse mosse contro il colosso statunitense riguardavano
lavoratori minorenni, scarse condizioni igieniche nei posti di lavoro, sovraffollamento, minacce
e umiliazioni ai dipendenti. Sullo scandalo Apple ha preferito tacere ma dai rapporti emerge
che annualmente i controlli rilevano, in oltre la metà dei fornitori, diversi casi di violazione dei
diritti civili.9
Questi sono solo due dei molti casi che avvengo all’interno delle catene di fornitura delle grandi
aziende, la maggior parte delle quali svolgono un lavoro inadeguato di reputation management,
concentrando le loro energie sulla gestione delle minacce già emerse, il cui scopo è limitare i
danni, e non sulla gestione del rischio.10
Con tale approccio le aziende si espongono al rischio di subire conseguenze economiche e
peggiorare i rapporti con i propri stakeholder, a seguito di eventi che impattano negativamente
sulla fiducia e la credibilità dell’impresa.11
Tra le conseguenze economiche possiamo incorporare:
l’incremento dei costi. Benetton dopo il crollo del Rana Plaza pagò 1.6 milioni di dollari
come risarcimento alle vittime. Ma i costi sostenuti non si limitano ai risarcimenti,
pensiamo ad esempio alle spese giudiziarie a cui si può andare in contro, alle sanzioni
nel caso di violazione delle normative, o anche più semplicemente ai costi di gestione
per cercare ulteriori fornitori in tempi brevi. Un'altra spesa necessaria può riguardare la
pubblicità a sostegno del brand per il recupero della reputazione. Un approccio di
9 http://www.nytimes.com/2012 10 Eccles Robert G., Scott C. Newquist, and Roland Schatz. “Reputation and Its Risks”. Harvard Business Review,
February 2007 11 Kitchen P. J., D. E. Schultz, “Raising the corporate umbrella”, Palgrave-Macm Basingstoke, UK, 2001
93
gestione delle crisi e non del rischio porta all’investimento di enormi somme di denaro
per limitare i danni già creati.12
Mancati ricavi. Nel 2009 Greenpeace pubblica su YouTube un video nel quale Nestlè,
viene accusata di complicità nella deforestazione delle foreste pluviali, invitando i
consumatori a boicottarne i prodotti.13 Mattel nel 2007 è stata coinvolta nello scandalo
delle pitture tossiche dei propri prodotti che l’ha portata a rimuovere dal mercato tutti i
giocattoli coinvolti. Mancati ricavi può significare anche mancate opportunità
strategiche, come fusioni o acquisizioni, che sfumano a causa dell’incertezza dovuta a
uno scandalo. Il consumatore moderno esprime sempre di più l’esigenza di acquistare
capi di abbigliamento che siano stati realizzati in maniera sostenibile, a basso impatto
ambientale e senza ledere i diritti dei lavoratori. I valori non economici assumono quindi
una rilevanza importante per garantire la stabilità del rapporto tra azienda e cliente nel
lungo periodo14. Gli impatti maggiori in questo caso potrebbero riguardare la perdita di
fiducia da parte dei consumatori nonché fedeltà al marchio e boicottaggio.15
Rischi finanziari. La reputazione non è un elemento che interessa solo consumatori e
ONG, negli ultimi anni anche i mercati finanziari hanno dato sempre più importanza ai
valori etici e di trasparenza che dimostrano le aziende. La reputazione unita alla
performance di sostenibilità è diventata un indice d’investimento come testimoniano il
FTSE4Good Index o il Dow Jones Sustainability Index e le altre numerose classifiche
stilate ogni anno sulla base dei risultati economici, ambientali e sociali. Mattel,
successivamente allo scandalo vernici tossiche, perse 3,35 punti percentuali in borsa16,
Volkswagen, dopo il dieselgate, addirittura il 18,6%17 nel 2015. La stessa casa tedesca
sta facendo ancora i conti con la sfiducia degli investitori che hanno presentato richieste
di indennizzo per 3,25 miliardi di euro. Questi casi alimentano i numerosi studi che si
stanno sviluppando per dimostrare che un’impresa che non adotta comportamenti
12 Eccles Robert G., Scott C. Newquist, and Roland Schatz. “Reputation and Its Risks”. Harvard Business Review,
February 2007 13 Wolf Julia. “The Relationship Between Sustainable Supply Chain Management, Stakeholder Pressure and
Corporate Sustainability Performanceù”. Journal of business ethics, 2014, 119:317–328 14 Vlachos, P.A., “Corporate Social Responsibility and Consumer. Firm Emotional Attachment: Moderating
Effects of Consumer Traits”. Atene: Athens University of Economics & Business, 2008 15 Jens K. Roehrich Johanne Grosvold Stefan U. Hoejmose , " Reputational risks and sustainable supply chain
management Decision making under bounded rationality", International Journal of Operations & Production
Management, Vol. 34 Iss 5, 2014, pp. 695 - 719 16 www.repubblica.it 17 Malan Andrea, Antonio Larizza, Mario Cianflone. Vw crolla in Borsa (-18,6%) dopo il «trucco» sulle emissioni
diesel. Usa, indagine e test estesi ad altre case. Il sole 24 ore. 21 settembre 2015
94
responsabili può generare peggiori performance finanziarie.18 Uno di questi è quello
svolto dall’Agenzia Europea di Investimenti Standard Ethics che ha condotto una
ricerca in cui venivano prese in considerazione le aziende italiane appartenenti all’indice
SP-MIB 40. Lo studio ha dimostrato come vi fosse una correlazione tra chi adottava
politiche di CSR e performance finanziaria.19 E’ chiaro quindi che perdere la fiducia dei
mercati finanziari nonché degli investitori risulta economicamente svantaggioso per le
imprese.
Danneggiare il rapporto con le autorità pubbliche. Comportamenti socialmente
irresponsabili aumentano il rischio reputazionale e possono contribuire ad alimentare
sospetti o rovinare i rapporti di fiducia con governi e autorità pubbliche, spingendoli ad
aumentare i controlli o a limitare i traffici economici dell’impresa.20 A loro volta
maggiori controlli potrebbero aumentare il rischio di incorrere in sanzioni e multe
pecuniarie e quindi ricollegarsi all’aumento dei costi.
Le conseguenze dei casi riportati come esempio ricadono sulla corporate reputation che,
sebbene intangibile, rappresenta uno dei più preziosi asset di cui un’organizzazione può
disporre poiché induce gli stakeholder a porre fiducia nell’azienda e, quindi, a cooperare con
essa, portando in definitiva ad una riduzione dei costi di controllo e negoziazione delle
operazioni svolte con loro.21
Il filo conduttore degli esempi riportati finora riguarda la modalità di gestione del rischio da
parte delle imprese, interpretata come l’individuazione di una strategia per gestire i casi in cui
il rischio si è già concretizzato. Più volte l’opinione pubblica ha dimostrato la sua influenza per
spingere le aziende a modificare le proprie prassi dopo casi di violazione dei diritti umani o
ambientali.22 Nike negli anni ’90 fu accusata di sfruttare i lavoratori nei paesi in via di sviluppo
e servirsi di lavoro minorile. Dopo il polverone sollevato da queste notizie, l’azienda adottò
immediatamente pratiche sostenibili per migliorare la situazione nelle fabbriche dei propri
fornitori. Altro esempio è fornito da Levi Strauss & Co., una delle prime multinazionali a dotarsi
18 Phillips, R. and Caldwell, C.B. “Value chain responsibility: a farewell to arm’s length”, Business and Society
Review, Vol. 110 No. 4, 2005, pp. 345-370 19 AEI STANDARD ETHICS GEIE, “La Relazione tra i Rating etici e le performance delle Società appartenenti
all’Indice italiano SP-MIB 40” [online] 2006 20 BEDA, A., e BODO, R., “La responsabilità sociale d’impresa. Strumenti e strategie per uno sviluppo sostenibile
dell’economia”. Milano: Il Sole 24 Ore Editore, 2006 21 Sacconi, “Corporate social responsibility (CSR) as a model of extended corporate governance. An explaination
based on the economic theories of social contract, reputation and reciprocal conformism.” Castellanza: Liuc
Papers, n.142. 2004 22 Rinaldi F.R., Testa S., “L’impresa moda responsabile. Integrare etica ed estetica nella filiera”, Egea 2013
95
di un codice di condotta per cercare di migliorare la propria reputazione a seguito di una causa
legale per violazione dei diritti umani.
3.3 - Reputation Risk Management
Si è appurato come la violazione dei diritti civili lungo la catena di fornitura possa costituire un
rischio reputazionale per le aziende. La gestione di tale rischio passa quindi inevitabilmente dal
rapporto che le aziende costruiscono con i loro fornitori.
Normalmente la gestione di tali rapporti avviene tramite la Supply Chain Management (SCM)
definita da Christopher nel 1998 come “la gestione dei rapporti a monte e a valle con fornitori
e clienti per fornire un valore superiore ad un costo inferiore per la catena di fornitura nel suo
complesso”23. La funzione originale della SCM è quella di migliorare i servizi e ridurre i costi
e, se svolta abilmente, rappresenta una capacità aziendale distintiva e difficilmente imitabile
dalla concorrenza nonché fonte di vantaggio competitivo. Tuttavia le tendenze più recenti, come
ad esempio la crescente importanza di approvvigionamento da paesi in via di sviluppo, hanno
portato una vasta gamma di soggetti a evidenziare le questioni sociali, etiche e ambientali nelle
catene di fornitura.24 Sono difatti numerosi i casi di violazione dei diritti umani susseguitisi
negli ultimi 20 anni a causa del comportamento irresponsabile e negligente delle grandi aziende,
il che ha posto la lente di ingrandimento sul ruolo che queste organizzazioni ricoprono
all’interno delle società in cui operano.
Fino a qualche anno fa la difesa dei diritti umani era sostanzialmente obbligo degli stati, tuttavia
oggi questa responsabilità riguarda direttamente anche le aziende e quindi il loro
comportamento.25 Questo cambio di visione è dovuto in buona parte agli studi compiuti dal
professor John Ruggie, rappresentante speciale delle Nazioni Unite, che, dal 2005 al 2008,
indagò sul rapporto tra imprese e diritti umani elaborando il famoso Protect, Respect and
Remedy framework, nel quale venivano esposti i doveri degli stati e le responsabilità delle
aziende in merito alle violazioni dei diritti umani nonché la necessità di garantire alle vittime
degli abusi la difesa da parte di organismi giurisdizionali e non. Poco dopo, nel 2011, Ruggie
23 Christopher, M., “Logistics and supply chain management: Strategies for reducing cost and improving service”.
London, UK: Financial Times Pitman Publishing. 1998 24 Fabian, T., & Hill, C. “Sourcing overseas for the retail sector: CSR and the ethical supply chain”
(PriceWaterhouseCoopers). 2005 25 Costa, Sarro, Bordignon, Lepore, Pinilla, Solidoro. “Business e diritti umani: una sfida per le imprese?”, Avsi,
2014 www.avsi.org
96
redige i Guiding Principles on Business and Human Rights, i quali rappresentano uno strumento
operativo per attuare il precedente Framework. Come detto in precedenza, questi due strumenti
rappresentano una rivoluzione all’interno del palcoscenico internazionale poiché in primo
luogo sanzionano definitivamente la responsabilità delle imprese e, in secondo luogo, delineano
l’obbligo da parte dello stato nel proteggere i diritti umani e la responsabilità da parte delle
imprese non derivante dall’obbligo di legge ma dalle aspettative della società.
E’ chiaro come questa dichiarata responsabilità delle imprese abbia drasticamente aumentato il
rischio di incorrere in danni economici e reputazionali derivanti dalla violazione dei diritti
umani.26
3.4 - CSR e rischio repuatazionale. Un modello di Sustainable Supply Chain
Diverse ricerche hanno indagato sulle motivazioni che spingono un’azienda a implementare
pratiche sostenibili per la gestione della catena di fornitura, scoprendo che il rischio
reputazionale è un fattore di scelta importante per i manager.27
Quando la CSR viene incorporata nella Supply Chain allora si parla di Sustainable Supply chain
o Sustainable Supply Chain Managemet (SSCM), una sfida che le aziende hanno già intrapreso
attraverso lo sviluppo di nuove strategie che estendono i loro tradizionali processi di governance
interna ai loro partner della catena di fornitura28 (ad esempio i codici di condotta per i fornitori).
Quello che si propone di seguito è un modello di gestione della supply chain che ha lo scopo di
intercettare in anticipo i rischi derivanti dalla violazione dei diritti umani da parte dei fornitori.
In letteratura i modelli presentati per la gestione dei rischi nelle catene di fornitura sono
numerosi, tuttavia non è difficile riconoscere una comunanza sulle principali fasi del processo:
Identificazione dei rischi, Valutazione degli impatti, Analisi della strategia di gestione,
Trattamento del rischio e Monitoraggio dei risultati.29
Il modello scelto per questa analisi è quello proposto da BSR (Business for Social
Responsibility), un’organizzazione no profit mondiale che lavora con le agenzie delle Nazioni
26 Ibidem 27 Jens K. Roehrich Johanne Grosvold Stefan U. Hoejmose, " Reputational risks and sustainable supply chain
management Decision making under bounded rationality ", International Journal of Operations & Production
Management, Vol. 34 Iss 5, 2014, pp. 695 - 719 28 Kytle, B., & Ruggie, J. G., “Corporate social responsibility as risk management: A model for multinationals”.
Corporate social responsibility initiative working paper 10, John F. Kennedy School of Government, Harvard
University, 2005 29 Mihalis G., Thanos P., “Supply chain sustainability: A risk management approach” in International
Journal of Production Economics, Vol. 171, 2015
97
Unite e collabora con oltre 250 aziende per sviluppare strategie di business sostenibili. Nel 2010
hanno pubblicato la prima guida aziendale per lo sviluppo di un programma di filiera sostenibile
(basato sui valori e principi del Global Compact delle Nazioni Unite) e per assistere le aziende
nella definizione delle priorità per un miglioramento continuo delle performance.30 Nel 2015 la
guida viene aggiornata anche sulla base dei lavori del professor Ruggie e dei Guiding Principles
on Business and Human Rights.
Il modello viene proposto attraverso l’identificazione di una serie di fasi che l’azienda deve
necessariamente affrontare e che sono così definite: COMMIT, ASSESS, DEFINE,
IMPLEMENT, MEASURE, COMMUNICATE31.
Fig. 3.1 – Le fasi del modello di Sustainable Supply Chain Management
30 https://www.bsr.org/ 31 BSR, United Nation Global Compact. Supply Chain Sustainability. A pratical guide for continuous
improvement. Second edition. 2015
Commit
Assess
Define
Implement
Measure
Communicate
98
1. Commit
- Comprendere l’ambiente in cui si andrà ad operare. Comprendere l’ambiente significa
che l’azienda deve individuare dinamiche, rischi e opportunità della filiera così da
determinarne le priorità. Per realizzare ciò, l’azienda deve attivare procedure di Due
Diligence avvalendosi della collaborazione di risorse interne (colleghi di altre funzioni)
e risorse esterne (fornitori, esperti del settore, altri Brand, ONG). In particolare il
benchmarking permette di apprendere importanti informazioni, nonché buone pratiche,
da chi si è già inoltrato nello sviluppo di una filiera sostenibile.
- Individuare i driver di business. Significa individuare i driver che spingono l’azienda a
intraprendere il percorso della sostenibilità. Per molte l’etica o la cultura aziendale è
sufficiente, altre invece sono mosse dalla volontà di ridurre i costi di produzione,
aumentare la produttività o l’efficienza, essere fonte di innovazione per il mercato,
evitare dispute legali, proteggere la reputazione aziendale e il valore del marchio,
soddisfare le aspettative degli stakeholder, minimizzare l’impatto sociale e ambientale
delle proprie attività.32
- Individuare le aspettative di sostenibilità degli stakeholder. L’impresa deve investire
nell’identificazione delle aspettative dei propri stakeholder primari, come investitori,
clienti, fornitori e dipendenti, nonché quelli secondari, come governi, sindacati, ONG,
- Stabilire una propria vision e obiettivi di sostenibilità. Entrambi rappresentano un
criterio utile per valutare il successo di un programma e identificare le aree da
migliorare. E’ essenziale che la vision sia sostenuta dai leader aziendali ma è anche
importante includere nel suo sviluppo i dirigenti relativi alla catena di fornitura. Oltre
alla vision è fondamentale definire degli obiettivi specifici da raggiungere come la
creazione di valore a lungo termine, risparmio dei costi, riduzione degli sprechi,
reputazione aziendale.
- Stabilire le proprie aspettative di sostenibilità (codici di condotta). Questo step si
concretizza nel tradurre la vision e le aspettative aziendali in una serie di linee guida per
i fornitori. La creazione di un codice di condotta rappresenta un’estensione della politica
di approvvigionamento interna nei confronti dei fornitori. Particolare importanza
rivestono le modalità di comunicazione del Code of Conduct, il messaggio risulta infatti
più efficace quando il messaggero è un alto funzionario aziendale o quando il codice
32 UN Global Compact LEAD, PRI. See Value Driver Model. 2013
99
viene comunicato ai primi incontri o incluso all’interno del contratto o ancora
sottoscritto annualmente dal fornitore.33
2. Assess
- Valutare i settori della supply chain in cui concentrare gli sforzi. Questa fase prevede
due step: mappare la catena di fornitura e identificare le priorità. Mappare la catena di
fornitura ha lo scopo di comprendere dove sono i fornitori e che relazioni ci sono tra
loro. A causa della complessità delle moderne filiere questa fase potrebbe non essere
semplice tuttavia vi sono delle buone prassi da cui si può partire: iniziare da una
rappresentazione semplificata della catena di fornitura settoriale e a mano a mano
“riempire i buchi”, condividere le informazioni con altre aziende, collaborare con
category managers e fornitori, mappare prima le aree a più alto rischio. Una volta
mappata la filiera si avrà la possibilità di identificare le priorità, le aree più esposte alla
violazione dei diritti umani che spesso si trovano al di sotto dei fornitori di primo livello.
Ulteriori strumenti utili sono rappresentati dai numerosi report e audit, proposti delle
organizzazioni internazionali, sulle problematiche più rilevanti suddivise per paese o
prodotto. Una volta individuate le aree, si potrà identificare gli specifici rischi e la
probabilità che questi si realizzino, nonché l’entità dell’impatto che potrebbero avere.
3. Define and Implement
- Collaborare con i fornitori per migliorare la performance di sostenibilità. L’obiettivo
ultimo di questa fase è quello di sviluppare una mentalità condivisa su quelli che sono i
rischi principali, sensibilizzando e incoraggiando i fornitori a integrare buone pratiche
di lavoro nelle loro attività. Per arrivare a questo obiettivo è utile attivare dei sistemi di
controllo per valutare la performance di sostenibilità rispetto al codice di condotta.
Molte aziende concedono ai fornitori un’iniziale autovalutazione così da poter effettuare
una prima selezione in tempi brevi e a costi minori rispetto ai normali audit. Per quanto
riguarda questi ultimi, diversi sono i protocolli sviluppati dalle organizzazioni
internazionali per identificare le best practice, ad esempio il Global Social Compliance
Programme o il Best Practice Guidance Sedex Members Ethical Trade Audit
(SMETA)34. Per garantire maggiore affidabilità gli audit possono essere effettuati sia da
revisori interni sia esterni all’azienda come ad esempio un esperto, una ONG o un ente
locale. Scegliere il soggetto migliore per il controllo dipende dalle specifiche
competenze necessarie in quella determinata area. I soli sistemi di controllo non sono
33 Ibidem 34 http://www.sedexglobal.com/
100
però sufficienti per garantire adeguate performance di sostenibilità se non si estirpano
le bad practice e non si investe nei fornitori. Eliminare le pratiche dannose significa
lavorare assieme ai fornitori per elaborare un piano correttivo, comunicare in maniera
regolare i progressi, definendo scadenze e obiettivi. E’ importante inoltre che i fornitori
comprendano chiaramente le conseguenze del non allineamento anche se l’interruzione
del rapporto di lavoro è considerata l’ultima risorsa in quanto comporta effetti negativi
sia per il fornitore che per l’azienda. Investire nei fornitori significa dare loro la
possibilità di migliorarsi, ad esempio attraverso corsi di formazione, e successivamente
premiare i più meritevoli attraverso incentivi come un maggior volume d’affari, premi
o includerli in programmi per fornitori preferenziali. Un’ultima parentesi è utile per
identificare quali azioni intraprendere nei confronti dei fornitori al di sotto del primo
livello, i quali risultano maggiormente a rischio nella violazione dei diritti umani a causa
della poca trasparenza della filiera e a causa della scarsa influenza che le aziende hanno
su di loro. Per superare questi ostacoli le aziende, oltre a utilizzare le pratiche descritte
in precedenza, hanno la possibilità di creare collaborazioni di settore per aumentare la
leva, o impegnarsi in politiche pubbliche che coinvolgano governi e ONG.
- Garantire l’allineamento interno delle aspettative aziendali. In alcuni casi ci può essere
un disallineamento tra interessi commerciali, che guidano le decisioni di acquisto, e
prevenzione alla violazione dei diritti umani. La mancanza di allineamento interno può
avere impatti negativi sulle performance di sostenibilità, mettendo l’azienda nella
situazione di contribuire attivamente agli impatti negativi dei propri fornitori.
- Sviluppare collaborazioni settoriali e partnership multi-stakeholder. La collaborazione
è uno strumento fondamentale nelle pratiche di CSR poiché permette di raggiungere
traguardi troppo impegnativi da raggiungere da soli. Tra le opportunità che le
partnership offrono annoveriamo la condivisione delle best practice, la creazione di
nuovi comuni standard, maggiore influenza con i fornitori, la dimostrazione d’impegno
nei confronti degli stakeholder e il coinvolgimento anche delle piccole imprese.35
Viceversa, alcuni risvolti potenzialmente negativi possono essere il dover collaborare
con un concorrente con una vision diversa e quindi dover affrontare questioni di
disallineamento, o il rischio di violare involontariamente leggi antitrust.36
35 BSR, United Nation Global Compact. Supply Chain Sustainability. A pratical guide for continuous
improvement. Second edition. 2015 36 Ibidem
101
4. Measure and Communicate
- Misurare le performance di sostenibilità in relazione agli obiettivi e comunicare in maniera
trasparente i progressi compiuti. E’ importante che gli obiettivi vengano definiti in
collaborazione con i responsabili delle funzioni che avranno la responsabilità di raggiungerli.
Per obiettivi misurabili si intendono valori economici ma anche indicatori ambientali e
sociali (obiettivi d’impatto), obiettivi di prestazione dei fornitori, obiettivi interni come il
numero di dipendenti formati nel campo della sostenibilità o il numero di fornitori che hanno
avuto accesso a corsi di formazione. Infine è importante comunicare agli stakeholder i
risultati ottenuti, contribuendo così a stimolare il miglioramento continuo e la trasparenza
della filiera, nonché dimostrare l’impegno profuso dall’azienda. Gli strumenti più comuni
per comunicare efficacemente i progressi ottenuti sono: il report di sostenibilità (uno
strumento semplice con il quale l’azienda può personalizzare la propria rendicontazione), il
GRI Index (un formato standard di rendicontazione della sostenibilità tra i più usati al
mondo) e il report integrato (uno strumento usato per combinare sostenibilità e informazioni
finanziarie).
3.5 – La CSR rappresenta una soluzione efficace per intercettare il rischio reputazionale?
In altre parole, il modello di Sustainable Supply Chain Management può considerarsi una
soluzione efficace per intercettare il rischio reputazionale derivante dalla violazione dei diritti
civili lungo la catena di fornitura?
Per rispondere a questa domanda può essere utile prendere in considerazione, oltre alla
letteratura esistente sull’argomento, anche casi aziendali che hanno già implementato pratiche
sostenibili all’interno della loro filiera.
Innanzitutto ricollegandosi al capitolo 2, nel quale è stata raccolta ed elaborata una serie di
informazioni sull’impegno nella sostenibilità da parte di H&M, si evince che le strategie e le
prassi implementate dall’azienda svedese nelle relazioni con i propri fornitori calzano in
maniera perfetta con il modello di SSCM proposto in precedenza. H&M, attraverso il proprio
report di sostenibilità e la sua trasparente comunicazione, non solo dimostra di seguire le good
practice fornite dal modello, ma dimostra anche di andare oltre e aver sviluppato nello specifico
proprie prassi di gestione sostenibile diventando essa stessa un modello da imitare. Come
riportato nel capitolo precedente, la vision dell’azienda ha sempre riconosciuto le responsabilità
derivanti dall’essere un leader del mercato di riferimento, non a caso anche in letteratura si
102
riconosce come le imprese più grandi, più visibili e leader di mercato possono essere tenute a
rispettare standard più elevati di comportamento responsabile, rispetto alle piccole.37
Tornando al modello di SSCM, se si pensa alla fase di valutazione dell’ambiente di riferimento,
scegliere di produrre in una regione o un paese notoriamente famoso per le sue bad practice
comporterà sicuramente maggiori rischi. H&M, ad esempio, ha deciso di boicottare il cotone
proveniente dall’Uzbekistan, nonostante il paese sia il quinto maggior produttore al mondo, a
causa dei più che noti impatti ambientali e sociali provocati dalle coltivazioni intensive locali38.
Proseguendo nell’analisi del modello, investire sull’individuazione delle aspettative di
sostenibilità degli stakeholder risulta efficace per selezionare, tra la moltitudine di rischi, quelli
che sono gli eventi che preoccupano maggiormente. Per stabilire dove indirizzare gli sforzi,
H&M Conscious Foundation ha permesso a tutti i dipendenti del Gruppo H&M di votare,
attraverso il sito internet aziendale, quali fossero secondo loro le questioni sociali del terzo
mondo su cui si doveva intervenire. Altro esempio è rappresentato dalla banca australiana
Westpac che nella redazione del codice di condotta consultò fornitori e ONG per comprendere
meglio cosa si aspettavano.39 Collaborare con gli stakeholder e avere un approccio proattivo
nell’identificare le loro aspettative è sicuramente più vantaggioso che scoprire i problemi
attraverso uno spot o una campagna di boicottaggio.40
Il codice di condotta, nominato sopra, risulta essere uno strumento basilare per evitare il
realizzarsi di comportamenti irresponsabili da parte dei fornitori. Il fatto che aziende come Nike
o Levi Strauss & Co lo abbiano adottato solo successivamente a uno scandalo di violazione dei
diritti umani nelle proprie filiere è prova dell’importanza di questo strumento. Come è già stato
definito nei precedenti paragrafi il code of conduct mette in chiaro le aspettative dell’azienda
nei confronti del fornitore che può essere maggiormente incentivato a rispettarlo soprattutto se
incuso nel contratto.41 Ulteriore indicatore di importanza risulta essere il suo ampio utilizzo, nel
2008 oltre il 90% delle principali 250 aziende del mondo ne aveva uno.42
Proseguendo nell’analisi del modello di SSCM si riconosce come la complessità della filiera e
la sua poca trasparenza, soprattutto ai livelli più bassi43, rappresentano l’elemento di maggiore
37 Godfrey, P.C., “The relationship between corporate philanthropy and shareholder wealth: a riskmanagement
perspective”, Academy of Management Review, Vol. 30 No. 4, 2005, pp. 777-798 38 H&M Conscious Actions. Sustainability Report 2015 39 BSR, United Nation Global Compact. Supply Chain Sustainability. A pratical guide for continuous
improvement. Second edition. 2015 40 Ibidem 41 Ibidem 42 KPMG. “KPMG international survey of corporate responsibility reporting 2008” 43 BSR, United Nation Global Compact. “Supply Chain Sustainability. A pratical guide for continuous
improvement”. Second edition. 2015
103
criticità per le imprese nonché una delle sfide più impegnative per la gestione del reputation
risk. Mappare la supply chain è utile per capire con chi si sta lavorando e con chi stanno
lavorando i fornitori. Comprendere chi è presente all’interno della filiera permette di poter
individuare chi viola le regole e quindi chi potrebbe compromettere la reputazione aziendale.
Al contrario, non investire in tutto ciò, conoscendo gli enormi rischi, potrebbe venire visto da
alcuni gruppi di stakeholder come un atto di complicità e sfociare nel cosiddetto “blame and
shame” delle campagne mediatiche della società mirate a colpire l’immagine dell’azienda.44
Nel 2009, Nestlè subì una forte campagna mediatica che la accusava proprio di complicità nella
deforestazione delle foreste pluviali. L’obiettivo era quello di danneggiare l’immagine del
marchio costringendo l’azienda a investire in un maggior controllo della supply chain.
Una questione chiave della SSCM risulta essere la collaborazione con i fornitori. Spesso i
fornitori partono da una performance di sostenibilità che non soddisfa le aspettative
dell’azienda senza avere i mezzi e le conoscenze per migliorare questa situazione. Ecco perché,
se si vuole far rispettare il codice di condotta, è necessario investire sul miglioramento delle
capacità dei fornitori mitigando così gli impatti negativi della loro attività. Non a caso la
Capability Building è una delle caratteristiche che, nella letteratura accademica, accomuna i
principali modelli di supply chain sostenibile.45 Investire nelle competenze e nella
consapevolezza dei lavoratori è una condizione critica per il raggiungimento di rapporti
affidabili e duraturi.46 HP e H&M hanno fatto loro questo concetto, la prima ha avviato un
programma che ha raggiunto oltre 533.200 lavoratori e manager delle aree più a rischio come
Cina, Sud America e Sud-Est asiatico47, mentre la seconda si è impegnata a diffondere un piano
anti corruzione che ha coinvolto l’83% delle fabbriche a rischio ottenendo dei risultati
incoraggianti: 36 casi di potenziale corruzione individuati nel 2013, 30 nel 2014 a fronte di un
aumento della produzione.48 Sempre H&M, collaborando con fornitori ONG e governi, ha
avviato un programma (Fair Living Wage) per garantire ai lavoratori la possibilità di negoziare
annualmente i propri salari, aumentando le soglie minime per garantire loro un adeguato
sostentamento. Nel 2014 erano 3 i fornitori che avevano implementato il Fair Living Wage
Method, nel 2015 68 e nel 2016 146.49
44 Costa, Sarro, Bordignon, Lepore, Pinilla, Solidoro. “Business e diritti umani: una sfida per le imprese?” Avsi,
2014, www.avsi.org 45 Mihalis G., Thanos P., “Supply chain sustainability: A risk management approach” in International Journal of
Production Economics, Vol. 171, 2015 46 Foerstl, K., Reuter, C., Hartmann, E., & Blome, C. “Managing supplier sustainability risks in a dynamically
changing environment”. Journal of Purchasing and Supply Management, 16(2). 2010 47 HP Sustainability Report 2015 48 H&M Conscious Actions. Sustainability Report 2015 49 Ibidem
104
L’efficacia degli impegni descritti non passa solo dalla loro attuazione ma anche da un efficiente
sistema di controllo che permetta di monitorare le performance dei fornitori e scovare quelli
non conformi al codice di condotta. Uno studio condotto dal Business Continuity Institute ha
raccolta la testimonianza di 559 aziende in 62 paesi scoprendo che l’85% di esse aveva subito
almeno un’interruzione di fornitura della supply chain portando alla luce come i rischi maggiori
si trovassero tra i livelli più bassi della catena.50 E’ chiara, quindi, la relazione tra la profondità
degli audit e la probabilità di intercettare un possibile danno all’immagine aziendale. La logica
vuole che maggiori saranno i fornitori sottoposti a controlli periodici, maggiore sarà la
probabilità di individuare quelli non in regola e quindi anticipare un possibile rischio
reputazionale. Per un’azienda accertare una violazioni dei diritti umani all’interno della propria
catena di fornitura tramite controlli propri è sicuramente più conveniente che scoprirlo da un
servizio televisivo o un articolo di giornale.51 L’Oréal, annualmente inclusa tra le varie
classifiche delle società più sostenibili al mondo, ha dichiarato di aver compiuto tra il 2006 e il
2014 più di 6.120 controlli, 834 nel 2014.52 Ricapitolando, la collaborazione tra aziende e
fornitori e la valutazione (controlli) di questi ultimi, giocano un ruolo determinante nel
miglioramento delle performance di sostenibilità.53
Proseguendo nell’analisi si è già spiegato in precedenza l’importanza dell’allineamento interno.
Per dimostrare la criticità di questo passaggio può essere utile ricordare che in letteratura un
approccio proattivo alla sostenibilità si verifica quando quest’ultima viene inclusa nei processi
decisionali come elemento da ottimizzare54, ciò significa che, in questo caso, le decisioni di
acquisto devono essere prese sulla base degli interessi commerciali ottimizzati con le
aspettative di sostenibilità della supply chain. Ad esempio una variazione all’ultimo momento
delle quantità da produrre potrebbe creare pressioni sul fornitore e incentivarlo a impiegare
pratiche dannose (es. orari di lavoro insostenibili) pur di rispettare le ordinazioni. Per H&M
tutto ciò si traduce nell’essere un partner onesto, trasparente nelle comunicazioni ed equo (tempi
di consegna ragionevoli, prezzi equi, puntualità dei pagamenti) ed instaurare così un rapporto
più stabile con i fornitori e disincentivare pratiche rischiose.
50 Business Continuity Institute. Supply Chain Resilience 2011. Novembre 2011. Fonte
http://www.bcifiles.com/SupplyChainResilience2011FullReport.pdf 51 BSR, United Nation Global Compact. “Supply Chain Sustainability. A pratical guide for continuous
improvement”. Second edition. 2015 52 Ibidem 53 Gimenez C., Sierra V. “Sustainable Supply Chains: Governance Mechanism to Greening Suppliers”. J Bus
Ethics. 2013, 116:189-203 54 Mio C., Il budget ambientale. Programmazione e controllo della variabile ambientale, Milano, Egea, 2001
105
Proseguiamo l’analisi del modello di SSCM entrando in una fase essenziale per la gestione del
rischio. La costruzione di collaborazioni settoriali o multi-stakeholder è una condizione
necessaria nella catena di fornitura in quanto le aziende, spesso, non dispongono delle
competenze o le risorse necessarie per affrontare particolari questioni. Un esempio è l’Accord
on Fire and Building Safety in Bangladesh, nato dalla collaborazione tra fornitori, imprese,
ONG e sindacati, che vincola legalmente più di 1500 fabbriche a mantenere uno standard
minimo di sicurezza sul lavoro. L’accordo è stato firmato nel 2013 a seguito del crollo del Rana
Plaza e tutte le fabbriche sono state oggetto di controlli per valutare se fossero necessari
interventi sanatori. Un’azienda sola difficilmente avrebbe raggiunto un risultato simile e in così
poco tempo, ciò dà prova dell’efficacia delle partnership nel far fronte a questioni rilevanti e
quindi abbassare i rischi di catastrofi come quella avvenuta in Bangladesh. Altro esempio è la
Better Cotton Initiative, collaborazione tra WWF, H&M, Adidas e altre aziende del settore per
promuove la diffusione, tra gli agricoltori, degli strumenti necessari per la coltivazione
sostenibile del cotone, intesa non solo come minor impatto ambientale ma anche come rispetto
dei diritti dei lavoratori. Il numero dei coltivatori addestrati e accreditati al progetto sono ogni
anno in costante aumento: dai 28.500 del 2010 si è passati a 1.200.000 nel 2014.55 Ancora una
volta la logica porta a sostenere che maggiori sono i fornitori che implementano pratiche
sostenibili, minore è la probabilità che uno di loro causi impatti negativi, che in altre parole
significa minore rischio reputazionale.
La costruzione di partnership non nasce solamente dalla necessità di controllare il rischio, infatti
può risultare utile anche come scudo nel momento in cui l’evento rischioso si concretizza,
poiché l’azienda può dimostrare di aver adottato misure ragionevoli per evirarlo.56 E’ il caso
dello sfruttamento dei profughi siriani in Turchia che vede coinvolti famosi brand della moda
tra cui H&M. Nel 2015 il Business and Human Rights Resource Centre (BHRRC), una ONG
internazionale che traccia gli impatti sui diritti umani di oltre 6500 aziende in più di 180 paesi,
aveva inviato a 28 grandi marchi della moda un questionario nel tentativo di valutare l’entità
del problema che affliggeva la Turchia già da qualche tempo. Il questionario conteneva una
serie di domande riguardanti le policy, i controlli, i rimedi e le collaborazioni attivate dalle
imprese per far fronte ai rischi derivanti da quella particolare situazione. Molte imprese si
rifiutarono di rispondere alle domande, altre risposero solo in parte mentre i brand che fornirono
55 Ibidem 56 Coombs W. T., “Situational theory of crisis: Situational crisis communication theory and corporate reputation”,
C. E. John Carroll (Ed.), The handbook of communication and corporate reputation. Chichester: John Wiley
Blackwell (Chapter 23), 2013
106
tutte le risposte, tra cui H&M, furono pochi.57 L’azienda svedese ammise che i controlli,
effettuati fino al terzo livello di fornitura, avevano registrato 4 casi di sfruttamento. Con le sue
risposte H&M dimostrò di aver adottato delle appropriate misure per riconoscere i casi di
violazione dei diritti civili e porvi rimedio. Fondamentale, per dimostrare il suo impegno, fu la
collaborazione dell’azienda con ONG, associazioni locali e altre aziende che le permisero di
imporre una policy speciale ai fornitori, effettuare audit in lingua araba al di sotto del primo
livello di fornitura, provvedere al sostentamento delle vittime e mettere pressione al governo
per accelerare i processi relativi al quadro giuridico per i rifugiati siriani. Nel 2016 i risultati
dei vari questionari vennero resi pubblici assieme ad un report dove BHRRC denunciava lo
sfruttamento dei rifugiati siriani in Turchia ma promuoveva l’impegno di H&M. Ciò non
risparmiò l’azienda da duri titoli di giornale ma il caso rimane comunque un esempio di come
le buone pratiche di CSR possano rappresentare uno schermo con cui attutire gli impatti delle
notizie qualora eventi rischiosi si verificassero concretamente.58
Dall’esempio di H&M in Turchia risalta l’importanza della trasparenza come pratica positiva
per salvaguardare la reputazione aziendale a fronte di un accusa, l’azienda se non ha nulla da
nascondere risulta meno attaccabile di chi invece non ha una efficace comunicazione.
Riprendendo la definizione di Bennet e Kottasz la reputazione di un organizzazione è la fusione
di tutte le aspettative, percezioni ed opinioni sviluppate nel tempo da clienti, impiegati,
fornitori, investitori e vasto pubblico in relazione alle qualità dell’organizzazione, alle
caratteristiche e ai comportamenti, che derivano dalla personale esperienza, il sentito dire o
l’osservazione delle passate azioni dell’organizzazione.59 Questo per spiegare che la
comunicazione dei risultati e delle performance di sostenibilità dell’azienda sono importanti
per fornire allo stakeholder le informazioni del suo impegno. Se ciò poi vada a favore o meno
della reputazione questo dipende dalla personale percezione del singolo stakeholder.
Lungo questo capitolo ci siamo soffermati sulla gestione responsabile della supply chain per
controllare il rischio reputazionale derivante dalla violazione dei diritti umani. Allo stesso modo
è ampiamente riconosciuta l’importanza, per l’azienda, di migliorare gli impatti ambientali dei
57 Business & Human Rights Resource Centre. “Syrian refugees in Turkish garment supply chains An analysis of
company action to address reports of serious exploitation & abuse”. Febbraio 2016 58 Burke J., “Corporate reputations: Development, maintenance, change and repair”, In R. J. Burke, G. Martin, &
C. L. Cooper (Eds.), Corporate reputation managing opportunities and threats (pp. 3–44). Surrey: Gower
Publishing Limited (Chapter 1), 2011 59 Bennett Roger, Rita Kottasz, "Practitioner perceptions of corporate reputation: an empirical
investigation", Corporate Communications: An International Journal, Vol. 5 Iss: 4, 2000, pp.224 - 235
fornitori così da tutelare la corporate reputation e ridurre i possibili rischi.60 H&M, ad esempio,
ha attivato corsi di formazione, per i fornitori più a rischio, per lo scarico in sicurezza delle
acque reflue che rappresentano una grave forma di inquinamento del suolo. Nel 2011 i fornitori
a norma erano solo il 41%, nel 2015 il 75%.61 Sempre l’azienda svedese, per cercare di colmare
il vuoto normativo sulle modalità di raccolta della lana ed evitare la diffusa pratica del
mulesing,62 ha avviato nel 2014 il Responsible Wool Standard una collaborazione multi-
stakeholder con l'obiettivo di lanciare uno standard certificabile globale per la produzione di
lana sostenibile.
I risultati e gli esempi proposti lungo tutta l’analisi dimostrano che il modello di Sustainable
Supply Chain Management adottato da H&M effettivamente migliora le performance di
sostenibilità dei fornitori (Fig. 3.2). Il grafico mostra i progressi dei fornitori indicati con il
miglioramento del ICoC (Index Code of Concuct), un indice basato sul codice di condotta di H&M che
l’azienda applica per valutare la performance di sostenibilità delle singole fabbriche. Il punteggio del
rapporto (ICoC) permette di classificare i fornitori sulla base di una valutazione da 1 a 100,
dove quelli con punteggi più alti vengono premiati con incentivi come contratti di fornitura più
lunghi.
I risultati dell’azienda svedese sono quindi in linea con i diversi studi accademici che hanno
evidenziato il ruolo chiave che responsabilità sociale e ambientale ricoprono nel migliorare la
posizione strategica aziendale attraverso la valorizzazione e la tutela della corporate reputation
nonché nella riduzione del reputation risk.63
60 Jens K. Roehrich Johanne Grosvold Stefan U. Hoejmose , " Reputational risks and sustainable supply chain
management Decision making under bounded rationality", International Journal of Operations & Production
Management, Vol. 34 Iss 5, 2014, pp. 695 - 719 61 H&M Conscious Actions. Sustainability Report 2015 62 Il Mulesing consiste nello scuoiamento della pelle della zona anale e perianale di animali vivi. Viene utilizzato
principalmente nei grossi allevamenti di pecore per ridurre le infezioni di larve di mosche. 63 Jens K. Roehrich Johanne Grosvold Stefan U. Hoejmose , " Reputational risks and sustainable supply chain
management Decision making under bounded rationality", International Journal of Operations & Production
Management, Vol. 34 Iss 5, 2014, pp. 695 - 719
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Fig. 3.2: Key performance – Progressi nelle performance di sostenibilità dei fornitori indicate con il
miglioramento del ICoC. Fonte H&M Sustainability report 2015
In conclusione, la letteratura raccolta, i casi aziendali esaminati e l’analisi fin qui svolta portano
a riconoscere che la Corporate Social Responsibility rappresenta una proposta efficacie per
intercettare il rischio reputazionale derivante dalla violazione dei diritti civili lungo la catena di
fornitura. Al contrario, non gestire in maniera responsabile la supply chain può comportare per
le aziende una maggiore esposizione a rischi e ad effetti negativi sulla reputazione.64
In sostanza, si riconosce che l’implementazione del modello di Sustainable Supply Chain
Management può migliorare le performance di sostenibilità dei fornitori lungo l’intera filiera,
innescando così degli effetti positivi per la reputazione stessa:
1. La riduzione dei rischi di violazione dei diritti civili. Chiaramente non si ritiene che
impegnarsi in pratiche sostenibili garantisca la totale esclusione dai rischi derivanti della
supply chain, poiché il rischio, per propria natura, non è completamente controllabile.
Tuttavia, attraverso l’implementazione di buone prassi, come quelle evidenziate dal
modello di Sustainable Supply Chain Management, si può migliorare l’operato dei fornitori
64 Ibidem
76,5
77,377,8
81
82,2
2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5
109
e il conseguente impatto sociale e ambientale della loro attività che, di fatto, si traduce nel
minor rischio di incorrere in eventi negativi.65
2. Attutire gli impatti negativi. Come con il caso H&M in Turchia, i risultati positivi della
gestione sostenibile della supply chain si configurano come uno scudo per l’azienda, un
“valore latente” pronto a manifestarsi nel momento di crisi contenendo gli effetti negativi.66
3. Valorizzare la reputazione. Il SSCM oltre a preservare la reputazione può anche rafforzarla
e migliorarla grazie all’adozione di good practice e programmi specifici finalizzati a
dimostrare in modo tangibile ciò che l’azienda professa, piuttosto che investire
esclusivamente in pubblicità.67 La valorizzazione della reputazione è stato messo come
ultimo impatto poiché nella misurazione di tale fenomeno si deve tenere conto di una certa
asimmetria nei comportamenti degli stakeholder in quanto più propensi a “punire” l’azienda
in caso di comportamenti scorretti, piuttosto che “premiarla” nel caso di azioni positive.68
65 Ibidem 66 Cuomo M. T., C. Metallo, D. Tortora, “Corporate reputation management. Analisi e modelli di misurazione”,
Giappichelli Editore, 2014 67 Burke J., “Corporate reputations: Development, maintenance, change and repair”, In R. J. Burke, G. Martin, &
C. L. Cooper (Eds.), Corporate reputation managing opportunities and threats (pp. 3–44). Surrey: Gower
Publishing Limited (Chapter 1), 2011 68 Klein J., Dawar H., “Corporate social responsibility and consumers’ attribution and brand evaluations in a
product-harm crisis”, International Journal of Research in Marketing, no. 21, 2004
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CONCLUSIONE
Il fine ultimo del presente elaborato era dimostrare come la CSR rappresenti un’efficacie
soluzione per la gestione del rischio reputazionale.
Per capire come è stata affrontata tale analisi può essere utile ripercorrere le tappe del percorso
iniziato nel primo capitolo.
Nella prima parte dell’elaborato (capitolo 1) vengono raccolti gli studi che maggiormente hanno
influenzato la storia della Corporate Social Responsibility. Lo scopo è quello di gettare una
solida base di letteratura per comprendere cosa significa responsabilità sociale d’impresa e per
cogliere la triplice dimensione della sostenibilità, sorpassando l’errata concezione del “fare
beneficienza” ed entrare nell’ottica del Shared Value, secondo cui progresso sociale e progresso
economico sono strettamente interconnessi.1
Alla parte teorica della CSR viene affiancata l’analisi di un caso aziendale (capitolo 2) per
capire come la responsabilità sociale d’impresa possa essere applicata nella pratica. L’azienda
presa in analisi è la svedese H&M e il suo caso è risultato interessante proprio per l’efficace
applicazione della triplice dimensione della sostenibilità con cui l’azienda ottimizza i risultati
economici con quelli ambientali e sociali.
Arrivati a questo punto, e data la vastità dell’argomento, nel terzo capitolo viene focalizzata
l’attenzione su una variabile emergente, il reputational risk.
Mentre la CSR è un argomento trattato già da diverso tempo, la corporate reputation e il
reputational risk sono stati approfonditi in letteratura solo negli ultimi anni e le dinamiche di
mercato attuali, nonché la sancita responsabilità sociale delle imprese, hanno contribuito ad
alimentare l’interesse per queste tematiche. Nonostante ciò, già diversi studi e un’ampia
casistica hanno consacrato la reputazione ad asset strategico intangibile nonché componente
rilevante nella creazione di valore per l’azienda. 2
Nel terzo capitolo si entra quindi nello specifico per dimostrare la tesi secondo cui la CSR
rappresenta un efficacie soluzione per intercettare i rischi reputazionali derivanti dalla
1 Porter, M.; Kramer, M. “Creating Shared Value”, Harvard Business Review, 1-2/2011 2 Cuomo M. T., C. Metallo, D. Tortora, “Corporate reputation management. Analisi e modelli di misurazione”,
Giappichelli Editore, 2014
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violazione dei diritti civili lungo la catena di fornitura. L’analisi viene svolta approfondendo la
politica legata alla gestione della catena di fornitura proponendo un modello di Sustainable
Supply Chain Management, descrivendo i fattori di rischio da tenere in considerazione e le
buone prassi per contenerne gli effetti.
Nel corso della ricerca effettuata si è notato come più di qualche autore ritenga che
l’applicazione di good practice di CSR da parte delle imprese, più che essere una scelta
volontaria, sia una scelta condizionata dalla pressione esterna degli stakeholder, manifestata
attraverso campagne di boicottaggio o scandali mediatici come quelli legati alla violazione dei
diritti civili.3 Effettivamente non si può negare che in diversi casi, soprattutto in passato con
Nike e Levi Strauss & Co, sia andata proprio così. Come del resto la pressione esterna degli
stakeholder ha dimostrato di essere efficace anche per riconoscere le aziende che applicano la
CSR solo in maniera superficiale lasciando senza controllo molte aree di rischio come i casi
Rana Plaza, Apple, Nestlè o Mattel. Tutto ciò, come specificato nell’analisi del terzo capitolo,
dimostra che la gestione irresponsabile della supply chain può comportare maggiori rischi per
le imprese, tra cui quello di intaccate la reputazione causando a catena impatti negativi in
termini di mancati ricavi, maggiori costi e rischi finanziari.4
Gli autori che invece sostengono l’applicazione preventiva della CSR, a modi “good citizen”,
hanno evidenziato che, per le imprese, il rischio reputazionale è un fattore determinate nella
scelta di implementare modelli responsabili di supply chain.5 Tuttavia, la decisione di attuare
una gestione sostenibile della catena di fornitura è spesso complessa e richiede impegno e
investimenti significativi. 6
Soffermandosi brevemente su quest’ultima affermazione nasce la seguente riflessione. La
corporate reputation viene oggi riconosciuta come un asset strategico dell’azienda e come tale
non può essere gestito senza investimenti volti a migliorare e sfruttare tale condizione. Al
contrario, la mancata gestione dei rischi collegati alla reputazione può portare le aziende a
incorrere in eventi negativi che costringono l’azienda ad aumentare i costi per sanare una crisi
(caso Rana Plaza). A questo punto il discoro si ricollega a quello proposto pocanzi, dove chi
subisce la crisi è spinto ad investire in politiche di CSR per recuperare la reputazione ed evitare
altri rischi. Per queste aziende si configura così un potenziale duplice investimento, quello per
3 Wolf Julia. “The Relationship Between Sustainable Supply Chain Management, Stakeholder Pressure and
Corporate Sustainability Performance”. Journal of business ethics, 2014, 119:317–328 4 Kitchen P. J., D. E. Schultz, “Raising the corporate umbrella”, Palgrave-Macm Basingstoke, UK, 2001 5 Walker, H. and Jones, N., “Sustainable supply chain management across the UK private sector”, Supply Chain
Management: An International Journal, Vol. 17 No. 1, 2012, pp. 15-28 6 Linton, J.D., Klassen, R. and Jayaraman, V., “Sustainable supply chains: an introduction”, Journal of Operations
Management, Vol. 25 No. 6, 2007, pp. 1075-1082
112
sanare la crisi (risarcimenti, sanzioni) e quello per implementare successivamente politiche di
SSCM. Viene quindi logico pensare che sia più conveniente investire in maniera strategica fin
dall’inizio, per ridurre il rischio di incorrere in incidenti, generare ulteriori costi e intaccare la
reputazione.7
Lungo l’intera analisi del terzo capitolo viene sviluppato un costante parallelo tra teoria, intesa
come letteratura esistente sull’argomento, e pratica, intesa come casi reali di applicazione o non
applicazione delle teorie proposte. Tutto ciò a sostegno della dimostrazione di come
l’implementazione del modello di SSCM permette alle aziende di gestire il rischio
reputazionale attraverso l’applicazione di buone prassi come l’investimento nell’individuazione
delle aspettative degli stakeholder, l’applicazione di codici di condotta, la mappatura della
supply chain, l’investimento nelle capacità dei fornitori, i controlli periodici, la costruzione di
partnership strategiche e la trasparenza. Dall’analisi svolta si è cercato di dimostrare che, in
primo luogo, l’insieme di questi fattori si traduce in un effettivo miglioramento delle
performance sociali e ambientali dei fornitori e che, in secondo luogo, una migliore
performance porta a minori probabilità di incorrere in pratiche dannose che di riflesso
potrebbero intaccare la corporate reputation. La stessa analisi permette di riconoscere come la
gestione sostenibile della filiera possa dare prova dell’impegno dell’azienda, proteggendo la
reputazione da eventuali impatti negativi o al contrario valorizzandola.
In ultima analisi i risultati legati all’utilizzo del modello di SSCM possono essere visti in
un’ottica di creazione di un circolo virtuoso. La riflessione che si può fare a riguardo parte dal
modello di SSCM proposto a modi cerchio, come una catena i cui gli anelli sono strettamente
legati l’uno all’altro. Il cerchio è una forma cara alle tematiche di CSR in quanto simbolo di
un’economia verde o zero waste nella quale gli scarti e i rifiuti vengono riciclati e reinseriti in
un nuovo ciclo di vita. L’idea intrinseca del circolo virtuoso è quella di attivare un meccanismo
dove buone prassi generano risultati positivi che alimentano altre buone prassi generando così
un effetto di positive influenze, maggiore stabilità e di riflesso minori rischi.
Concludiamo con un’ultima riflessione riservata a H&M. Nella prima parte del secondo
capitolo ci si sofferma sulla raccolta delle informazioni relative al suo impegno nel campo della
sostenibilità. Tali informazioni sono state ricavate dai report di sostenibilità che ogni anno
l’azienda pubblica nel suo sito internet. I report presentano ampie descrizioni degli impegni
della società, riportando i risultati ottenuti in maniera semplice e completa.
7 Eccles Robert G., Scott C. Newquist, and Roland Schatz. Reputation and Its Risks. Harvard Business Review,
February 2007
113
Dall’analisi di queste informazioni emerge che l’azienda svedese è in linea con le moderne
teorie di CSR, come i tre approcci individuati da Porter e Kramer nella creazione di valore
condiviso.8 L’azienda dimostra infatti di adottare una strategia che parte dal riconcepire
prodotti e mercati (ad esempio la progettazione di capi a basso impatto ambientale), ridefinisce
la produttività nella catena del valore attraverso la riduzione dei consumi, il riciclaggio dei
prodotti, la formazione dei fornitori, il benessere dei dipendenti. Infine il terzo approccio di
Porter e Kramer è il facilitare lo sviluppo di cluster locali, ma a causa della supply chain
caratteristica del mercato di riferimento, l’azienda sembra riconoscersi molto meglio nella
teoria della governance partecipata di Simon Zadek, la quale sottolinea l’importanza delle
partnership multi-stakeholder (proprio come il modello di SSCM) per trovare soluzioni ai rischi
sociali.9
Nella seconda parte del secondo capitolo ulteriori analisi dimostrano come, dalle informazioni
raccolte, la società svedese sembri di fatto aver incorporato in maniera positiva le teorie sulla
sostenibilità e i principi guida internazionali del global compact.
Proprio per la dimostrata bontà del suo programma di CSR, l’azienda, nel terzo capitolo, è stata
proposta come principale esempio di good practice nella gestione della supply chain,
contribuendo in maniera importante all’analisi con cui si è dimostrato l’utilizzo efficace della
CSR come soluzione per intercettare il rischio reputazionale derivante dalla violazioni dei diritti
civili lungo la catena di fornitura.
8 Porter, M.; Kramer, M. “Creating Shared Value”, Harvard Business Review, 1-2/2011 9 Zadek, S., “The new economy of Corporate Citizenship”, Copenhagen, 2001
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BIBLIOGRAFIA
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imprese”, 2007
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