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rappresentanti delle Istituzioni, gentili ospiti, rivolgo a voi tutti un caloroso ringraziamento per essere qui oggi a celebrare con noi il 9° Congresso della Uiltrasporti.
Un Congresso che, come il precedente, si svolge in una fase di estrema criticità non solo per l’economia, la stabilità, gli equilibri sociali, ma persino per gli ordinamenti politici e istituzionali, del nostro Paese e, più in generale, dell’intero contesto europeo. La dimensione della crisi Allora, nello scorso Congresso del 2010, non si aveva ancora l’esatta percezione di quanto questa crisi sarebbe risultata profonda e duratura. Una crisi tale, da non avere precedenti dall’ultima guerra mondiale, iniziata come crisi finanziaria e poi trasformatasi in crisi economica, crisi sociale e politica, alla quale si è risposto con politiche e logiche sbagliate di austerità che hanno prodotto recessione, disagio sociale e innescato un pericoloso processo di impoverimento del Paese. Abbiamo toccato il massimo storico con un livello di disoccupazione, nei primi tre mesi di quest’anno, pari al 13,6% e al sud il 21%, con un calo medio dello 0,8% rispetto lo stesso periodo del 2013. In complesso sono più di 6 milioni e mezzo le persone che non hanno lavoro, considerando i 3,5 milioni di disoccupati e coloro che in gergo statistico vengono definite forze di lavoro potenziali, ovvero gli inattivi e gli scoraggiati nella ricerca di un posto di lavoro. Una disoccupazione che non risparmia nessuno, che diventa un dramma per un over 40 e delinea un orizzonte cupo e sfiduciato per i giovani, oramai arrivati alla media del 46% per la fascia di età dai 15 ai 24 anni e, al sud del Paese addirittura oltre il 60%. La conseguenza è la grande fuga dei nostri ragazzi che a decine di migliaia ogni anno emigrano all’estero, in cerca di lavoro in altre Nazioni che diano loro l’opportunità di affermarsi, di valorizzarsi come persone e lavoratori; traditi da un’Italia che, a prescindere dal livello di scolarità, non offre possibilità, se non lavori precari, con bassi salari e dove l’affermazione del merito appare, con tutto ciò che ne consegue, un mero esercizio teorico.
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Dopo quasi sette anni di crisi che hanno ridotto di oltre il 10% i redditi delle famiglie dei lavoratori e dei pensionati, del 25% l’attività industriale, del 15% la capacità produttiva e di 9 punti il PIL del Paese, lo scenario economico è ancora pieno di rischi nonostante le esportazioni siano tornate a livelli del 2007. Dal 2007 si sono perse, infatti, oltre 120.000 aziende e si è perduto più di 1 milione di posti di lavoro. Altre centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori (più di 600.000 full-‐time all’anno) sono in cassa integrazione, moltissimi con scarsissime prospettive di una ripresa delle loro aziende. I consumi delle famiglie, sui quali si basa principalmente il nostro sistema economico e produttivo, sono ancora inferiori di circa otto punti alla situazione pre-‐crisi, naturale conseguenza del peggioramento delle condizioni degli italiani, e le differenze sociali si allargano sempre più con una sempre più iniqua distribuzione della ricchezza, pericolosamente polarizzata e sostanziata dall’aumento delle persone che vivono in condizioni prossime alla soglia di povertà. Aumenta, infatti, lo squilibrio tra i redditi degli italiani, nel rapporto tra i salari relativamente più ricchi e il salario medio, così come aumenta la concentrazione della ricchezza in mano a pochi. Tanto è che l’1% più ricco detiene il 16% della ricchezza nazionale, quota che nei primi anni 90 era del 10%, fino a scoprire che le 10 persone più ricche del paese dispongono di un patrimonio complessivo di 75 miliardi, pari a quello di 500 mila famiglie operaie. Di contro, il tasso di povertà relativa è aumentato di 8 punti percentuali, dal 15% dei primi anni 80 al 23% del 2012. Nello stesso tempo le crisi aziendali non tendono a diminuire, mettendo a pregiudizio il sistema di finanziamento degli ammortizzatori sociali, soprattutto quello in deroga, la cui stima approssimativa per il 2014 vede ancora mancare circa 1 miliardo di euro e per il cui rifinanziamento, il Sindacato proprio in queste ore sta intraprendendo le giuste ed indispensabili forme di sollecitazione e mobilitazione. L’aumento della richiesta di cassa integrazione straordinaria per crisi aziendale, dimostra poi quanto sia rilevante il processo di deindustrializzazione in atto nel Paese, tema che richiama l’assoluta necessità, per consentire il passaggio alla ripresa senza traumi irreversibili, di un sistema di ammortizzatori sociali tanto
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sostenibile quanto universale, per evitare il rischio di creare altre centinaia di migliaia di nuovi disoccupati. Ci si protegge dalla crisi anche mettendo al mondo meno figli. Nel 2013 abbiamo raggiunto il record negativo della natalità, 11.000 in meno del precedente record negativo del 1995, e si adottano strategie difensive, come il prolungare la convivenza con i genitori; si rinviano acquisti e investimenti, così come decisioni fondamentali per il proprio progetto di vita come la convivenza, il matrimonio e, appunto, la nascita di figli. Anche sospendere il contributo alla previdenza complementare, in alcuni casi, è una forma difensiva, visto che 1,4 milioni di persone ha adottato questa scelta. Tutto ciò rappresenta un’Italia che fatica, un Paese bloccato che si svuota, dove si vive di più, ma al tempo stesso si vive peggio e dove la vecchiaia per troppi è una condizione di assoluto disagio sociale, come dimostra la rilevazione statistica che vede un pensionato su due con un reddito da pensione inferiore a 1000 euro. Quanto tempo ancora si potrà reggere questa situazione drammatica senza che venga messa in discussione la stessa tenuta sociale del Paese, che, se pure con difficoltà e per il contributo determinante del Sindacato, ha sin qui retto?? Cambiare le strategie Un Paese, insomma il nostro, che non ha guardato al proprio futuro, che ha pensato per troppo tempo alle emergenze piuttosto che avviare processi di modernizzazione ed efficientamento del sistema complessivo, motivo principale per cui la crisi è stata ed è ancora così significativa. Quando si è tentata qualche cosiddetta riforma, come quella previdenziale, con la legge Fornero è stata principalmente una operazione di cassa, fatta a danno delle lavoratrici e dei lavoratori e per trovare le risorse per il bilancio nazionale, piuttosto che avviare una seria revisione degli sprechi della spesa pubblica e dell’apparato istituzionale, nonché un riequilibrio delle entrate fiscali. Modificando le regole di un sistema previdenziale giudicato in equilibrio e sostenibile, senza sentire le ragioni del sindacato confederale, si sono gettate migliaia di persone in una situazione di grande incertezza, senza lavoro e con nuovi requisiti pensionistici e si è aumentato il problema del ricambio
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occupazionale, con norme tanto rigide quanto inique, perfino applicate alle lavoratrici e ai lavoratori riconosciuti esposti all’amianto, nonché a quelli adibiti ad attività particolarmente faticose e pesanti, nonostante la loro aspettativa di vita sia drasticamente ridotta. Tutto ciò va cambiato, riportando fiducia nel sistema previdenziale e più complessivamente non è rimandabile una politica economica e fiscale che ridia competitività alla nostra economia, giustizia fiscale e un modello sociale evoluto ed inclusivo, che superi le ingiustizie prodotte da una politica sbagliata e autoreferenziale. Così come va superato l’attuale deficit di infrastrutture e collegamenti strategici per lo sviluppo del sistema Paese, individuando quelle priorità che possano realmente accrescere la competitività del sistema produttivo, dell’economia reale, l’inclusione sociale e la qualità della vita dei cittadini, piuttosto che puntare al mero consenso politico, spesso locale, o alla mera speculazione economica. Carenze strategiche che vanno dalla banda larga, alla necessità di dotarsi di un efficiente sistema di produzione, di trasmissione e di accumulo dell’energia, che impatta sui costi di produzione e sulla convenienza ad investire in Italia. Carenze nel sistema dei trasporti che incidono sulla competitività logistica, sul trasporto delle merci e sul diritto primario alla mobilità delle persone, garantito dalla Costituzione, ma negato per gran parte del Sud del Paese e nelle isole. Carenze che alcuni economisti stimano, per la mancata realizzazione delle opere più utili, in costi economici, sociali ed ambientali, per almeno 60 miliardi annui. Bisogna fare in fretta e passare dalle parole ai fatti; soprattutto occorrono riforme efficaci e non effimere o peggio ancora vendicative. La crisi, infatti, ogni giorno di più sta passando da congiunturale a strutturale. Se in altri tempi l’aumento progressivo dei prezzi al consumo e dell’inflazione, che distruggeva i redditi reali, ha rappresentato un pericolo per l’economia del Paese, si presenta oggi un altro pericolo. Corriamo, oggi il rischio di deflazione, generata principalmente dalla mancanza di risorse per il consumo, ma anche dalla percezione che i prezzi al consumo possano continuare a scendere, innescando un continuo rinvio agli acquisti, anche da parte di chi se li potrebbe permettere, alimentando di conseguenza un
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progressivo blocco della produzione, dei salari e il peggioramento occupazionale. Il riavvio del ciclo dei consumi, attraverso principalmente la leva fiscale e la contrattazione, costituiscono, per la UIL, e per la Uiltrasporti la prima e più importante riforma per fare riprendere una economia asfittica che rincominci a produrre in modo sostenuto per il mercato interno e faccia ripartire l’economia. Ma, altresì, non è più rinviabile un processo di riforma complessivo e strutturale volto a ricostruire il quadro di quelle opportunità che ora mancano e dalle quali passa una più ampia affermazione di diritti primari per lo sviluppo della società, per la dignità delle persone, per il futuro di questo Paese. Opportunità occupazionale, di buon lavoro, di salario equo, di valorizzazione professionale, di sicurezza sociale, di sicurezza sul lavoro. Il quadro dell’Europa Il semestre di presidenza europea, con la forza del risultato elettorale nel nostro Paese, ha messo in evidenza la necessità di cambiamento, verso politiche tese al rilancio della domanda, con maggiori margini di spesa e di investimento, e deve rappresentare una vera svolta. Occorre riaffermare uno sviluppo europeo basato sulla crescita economica equilibrata, sulla economia sociale di mercato, competitiva e al tempo stesso tesa alla piena occupazione, al progresso sociale e tecnologico, alla qualità dell’ambiente, ma pure al progresso infrastrutturale, alla coesione sociale ed economica, con regimi fiscali armonizzati, onde evitare concorrenza sleale nelle attività produttive e sui redditi da lavoro. Un’Europa non solo unita per la moneta o per la vigilanza bancaria e per i mercati, bensì unita negli obiettivi di crescita e sviluppo delle opportunità, dove la stabilità e le regole di finanza pubblica devono essere premessa di modernizzazione e di sviluppo e non obiettivi di politiche rigoriste ed inflessibili. Un’Europa unita sul problema dell’immigrazione, con concrete e coordinate azioni riguardo al triste fenomeno, che vede centinaia di migliaia di persone fuggire dalla fame e dalle guerre e mettere in gioco la propria vita col viaggio della speranza. L’Italia in tutto questo non può e non deve essere lasciata sola.
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Altrettanto fondamentale è il ruolo della BCE, con una politica monetaria e del credito che non ripeta gli errori del passato con vantaggi al solo sistema bancario, e che sia di sostegno allo sviluppo e alla crescita, correggendo gli elevati squilibri a danno del sistema produttivo e delle famiglie, sempre più in difficoltà a ottenere il credito dalle banche e a reggere il peso dei tassi di interesse dei mutui. Servono, infatti, aziende maggiormente dimensionate e maggiormente capitalizzate per consolidare innovazione di processo e di prodotto, investimenti soprattutto sul lavoro stabile e non precario, in ricerca e formazione, in prevenzione e sicurezza, dai quali dipende il livello di qualità e competitività dell’impresa e lo sviluppo del Paese. Una maggiore liquidità finalizzata all’economia reale, piuttosto che sull’economia virtuale della finanza, è condizione principale per la ripartenza, per scongiurare i pericoli della deflazione e per mitigare gli effetti della crescita della quotazione dell’euro, che riduce i margini della nostra capacità di esportare. Puntare sul nostro cambiamento Ma soprattutto è facendo leva sulla nostra capacità di realizzare i cambiamenti necessari ed efficaci, che potremo tornare a crescere e cambiare i destini di questo Paese, ricreando quelle opportunità di affermazione che ora mancano. Servono riforme strutturali che siano di forte stimolo all’economia, ma anche istituzionali e costituzionali, riforme che eliminino ataviche diseconomie che frenano gli investimenti e deprimono la competitività del sistema. Le opportunità di sviluppo non sono slegate da mali atavici che si chiamano corruzione, evasione fiscale, burocrazia, speculazione finanziaria, spreco di denaro pubblico, forse comuni in tutte le Nazioni, ma che oggi si fanno sentire con particolare virulenza. E questo perché il loro manifestarsi ultradecennale non ha trovato in tempo misure e politiche atte, se non a prevenire gli effetti di una crisi non solo italiana, almeno ad attenuarne i contraccolpi. Fatto è che l’evasione fiscale, tra le più alte d’Europa, costa 180 miliardi l’anno e la corruzione, che sembra aver trovato stabile alloggio in quasi tutti i settori della società, ne costa più o meno altrettanti.
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Expo e Mose sono solo gli ultimi esempi di una giungla che si alimenta con appalti al massimo ribasso, spreco di denaro pubblico, tangenti, controlli inadeguati, la non certezza delle norme e così pure la non certezza del diritto. Il tema della correttezza e della dimensione etica riguarda tutti. Non c’è bisogno di formule retoriche ma di meccanismi politici, culturali e normativi per impedire che certe cose si ripetano. Sbaglieremmo se pensassimo che corruzione ed evasione fiscale siano mali antropologici, solo perché troppo radicati ed estesi, perché ciò significherebbe alimentare l’economia sommersa e la criminalità organizzata. Non solo, tutto ciò ha effetti sullo sviluppo dell’economia e sulla concorrenza leale tra le imprese. Oltre una maggiore moralità serve un disegno organico che restituisca agli italiani la fiducia nelle istituzioni e nel Paese. Servono misure efficaci che ci facciano risalire la classifica degli indicatori di appetibilità di investimenti industriali, crollati del 58% dal 2007 e che ci pongono oggi al 65° posto della graduatoria mondiale, per capacità attrattiva di capitali, considerando le procedure, i tempi e i costi necessari per avviare un’impresa, ottenere permessi edilizi, allacciare una utenza elettrica, risolvere una controversia giudiziaria su un contratto. Peggio di noi in Europa solo Grecia, Romania e Repubblica Ceca, con costi annui a carico del sistema produttivo stimati in almeno 5 miliardi, considerando che una impresa spreca circa 45 giorni all’anno per lo svolgimento degli adempimenti burocratici. Tutto ciò va corretto, automatizzando le procedure, riducendo al massimo quelle autorizzative, eliminando inutili doppioni e riorganizzando in questo senso la pubblica amministrazione, (è questa la vera riforma non quella inutile, approssimativa e punitiva che oggi si prospetta). E’ indispensabile intensificare nello stesso tempo l’efficacia dei controlli, al fine di evitare che la semplificazione aumenti le pratiche elusive e la non applicazione delle norme, con una diretta ricaduta sui diritti delle lavoratrici e dei lavoratori già molto precari nel settore, soprattutto dei servizi. Questo tanto per l’acquisizione di appalti privati, quanto per appalti pubblici, anche nel sistema Consip, con l’aggravante che la pubblica amministrazione non
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viene assoggettata all’obbligo di responsabilità in solido a tutela dei dipendenti dell’appaltatore. Tutto ciò in un contesto dove è una costante che imprese private ed enti pubblici conferiscano appalti, non tanto per esigenze produttive ed organizzative, bensì per risparmiare sui trattamenti economici e normativi dei dipendenti/soci lavoratori. Questa modalità di risparmio si scarica tutta su di loro, non solo per salari più bassi, soprattutto per il rischio frequente di non percepire le retribuzioni laddove l’aggiudicazione dell’appalto non abbia tenuto conto dell’affidabilità di tali imprese. Soprattutto ciò non può essere contrabbandato con la necessità di ridurre la spesa pubblica e con la mancanza di risorse. La scelta dell’impresa appaltatrice che offre il prezzo più basso, oltretutto senza alcun accorgimento e responsabilità laddove le lavoratrici e i lavoratori non venissero pagati per il loro lavoro allarga, di fatto, l’area dell’illecito e dell’impoverimento del Paese. In ragione di ciò non ci vede d’accordo un ulteriore indebolimento di questa norma a tratto generale. L’esperienza che in questo periodo stanno vivendo tutte le realtà in appalto, clamorosa quella dei servizi e delle pulizie, è tragica e pretende radicali interventi di riassetto in direzione di una selezione che faccia emergere aziende serie, realmente produttive e attente alle condizioni del lavoro. Le riforme istituzionali In questo contesto non può essere neppure sottaciuto quanto i costi della politica e di un assetto istituzionale, non più adeguato, rappresentino in termini di costi al sistema Paese. Diminuire i costi della politica, che complessivamente valgono più di 23 miliardi, come rileva lo studio della UIL e utilizzare questa fase costituente per abolire realmente le Province, accorpare i piccoli Comuni, riformare il Senato e il Titolo V della Costituzione e rivedere gli sprechi pubblici, deve rappresentare la necessaria discontinuità. Si possono così liberare risorse pubbliche, sommandole a quanto recuperato dall’evasione, da destinare alla diminuzione della pressione fiscale sui salari e sui redditi d’impresa, per il rilancio dei consumi e di conseguenza delle produzioni e dell’occupazione. Questo è ciò che serve prima di ogni altra cosa, questa è la base per un rilancio della politica economica e industriale.
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Su circa 800 miliardi di spesa pubblica, il 60% è decentrato alle Regioni, Province e Comuni, riproducendo sovente sprechi e costi per servizi mal organizzati o predisposti spesso solo per garantirsi il consenso politico. Questo è il risultato di un sistema federale distorto, che ha alimentato la frammentazione delle competenze e le contraddizioni tra i vari soggetti istituzionali, fino a generare moltiplicazione dei costi e blocco dei processi di realizzazione delle opere. Si pensi solo che, per abbattere un albero, bisogna coordinare 5 competenze autorizzative. Non è rimandabile, pertanto, la riforma del titolo V della Costituzione, correggendo rapidamente il quadro delle competenze legislative decentrate e concorrenti, i cui danni, prodotti a distanza di circa 13 anni, sono incalcolabili, ennesima dimostrazione di quanto le logiche partitiche ed elettoralistiche possono essere deleterie per il Paese. In particolare occorre rivedere le materie strategiche che in ogni nazione, anche tra quelle a più vocazione federalista, rimangono di competenza dello Stato, come grandi reti di trasporto, porti aeroporti, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, assetto e struttura della comunicazione. Non è un caso se il processo di infrastrutturazione si è fermato proprio dai primi anni 2000, se i costi per la realizzazione delle opere, ad esempio autostrade, ferrovie e metropolitane sono il triplo che in altri paesi, se il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni ha raggiunto dimensioni abnormi, con perdita di denaro pubblico e blocco degli investimenti pubblici, e privati. Correggere i danni prodotti da un federalismo legislativo nato male e completare l’attuazione del federalismo fiscale significa intervenire sui meccanismi di finanziamento, significa passare da un sistema paludoso come quello attuale, ad un sistema più trasparente di spesa. E’ necessario passare dal meccanismo della spesa storica, dove più spendi più prendi, a quello dei costi e fabbisogni standard, che razionalizza la spesa, finanzia l’efficienza e riduce gli sprechi. Un passaggio che impone meccanismi strutturali direttamente collegati ai livelli essenziali delle prestazioni; che presuppone la piena responsabilizzazione delle amministrazioni regionali e locali; che in nessun caso deve essere sostituito dalla
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scorciatoia dei tagli lineari o del ricatto di chiudere asili o eliminare servizi essenziali come il trasporto pubblico locale. Anche la riforma del Senato va inquadrata con gli obiettivi di efficientare il sistema Paese. Il problema, infatti, non sta solo nell’eccessivo numero dei parlamentari suddivisi tra Senato e Camera, ma sta nel fatto che essi hanno le stesse funzioni, nel mentre si sono decentrate molte competenze legislative. Una situazione che ha generato veti incrociati, con incalcolabili costi indiretti, che esige un processo di riforma adeguato alla scelta politica del federalismo, eliminando così le complicazioni e la confusione prodotta da un processo rimasto a metà. Questo è ciò che vogliamo, questo è ciò che la UIL, prima tra tutti, ha messo in evidenza per una più ampia coesione e giustizia sociale, per una migliore democrazia. Un diverso assetto del sistema fiscale Temi come quello del riassetto della spesa pubblica, degli squilibri sociali e del fisco non sono solo obiettivi etici, devono essere obiettivi di politica economica, che stanno alla base delle possibilità di ripresa. Non è rinviabile, pertanto, una riforma del sistema fiscale, un sistema oggi iniquo, finanziato in misura preponderante dai redditi da lavoro dipendente e dalle pensioni, che riduca la possibilità di evasione e di elusione, introducendo il contrasto di interesse tra fornitore di servizi e consumatore. L’introduzione del bonus di 80 euro è stato un segnale positivo, rivendicato con forza dal sindacato confederale; deve ora essere reso strutturale e ampliato ai pensionati ed incapienti, diversamente non si avrebbe il risultato che il mercato dei consumi si aspetta. Più in generale va recuperata la tematica della progressività e unicità della tassazione su tutto il reddito disponibile, al netto delle spese necessarie ed essenziali. Questo rappresenterebbe il vero cambiamento, la riforma fiscale necessaria per una più incisiva crescita economica.
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Dalla maggiore capacità di spesa, dal maggiore salario disponibile, da una riduzione del peso fiscale per lavoro e pensioni, passa, infatti, la nostra possibilità di ripresa e di sviluppo sostenibile ed equilibrato, essendo la nostra economia fondata per l’80% sul mercato domestico e quindi sui consumi. La ripresa per il lavoro Senza questi strumenti di forte stimolo all’economia, senza una chiara politica economica e industriale, la nostra potrebbe essere al massimo una crescita trainata dalla crescita mondiale e non realizzata dal processo di modernizzazione del Paese, dallo sviluppo delle competenze, dalla riacquisita velocità di risposta ai mercati, dagli investimenti, dalla ripresa delle produzioni. Sarebbe, in effetti, una crescita più debole di quella che potremmo e dovremmo pretendere, ovvero, come è accaduto per troppo tempo, una non-‐crescita, senza lavoro e senza opportunità. Non ci sono scorciatoie, i posti di lavoro non si creano per legge. Il fallimento del bonus per l’assunzione dei giovani è la dimostrazione di ciò che sosteniamo da tempo: non bastano tagli dei contributi ed incentivi per invertire il trend che vede la disoccupazione in aumento. Così come non servono continui interventi sulle regole del mercato del lavoro, con sempre maggiori flessibilità in entrata e in uscita, soprattutto se non riescono neppure a sostituire i contratti precari ed elusivi, delle finte partite Iva e delle finte collaborazioni. Deve fare riflettere il dato del primo trimestre 2014: calo dei contratti di apprendistato, calo dei contratti a tempo indeterminato; crescono invece le attivazioni dei contratti a termine, in genere di breve durata, spesso inferiore al mese, con un saldo complessivamente negativo rispetto lo stesso periodo del 2013. Pur non respingendo a priori l’idea che semplificare le regole di accesso al mercato del lavoro, in una fase così pesante di disoccupazione, potrebbe anche facilitare maggiori opportunità d’impiego, restiamo convinti che questa sia una strada che svia dai reali obiettivi e che il lavoro non si difende aumentandone la precarizzazione e soprattutto siamo convinti che né le imprese né tantomeno il contesto sociale si sviluppano se non valorizzando ed investendo sulle lavoratrici e sui lavoratori.
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La priorità deve essere la creazione di posti di lavoro; lavoro buono e ben retribuito. La questione di come regolare tali rapporti è una questione successiva, altrimenti continuiamo a prenderci in giro e a fare regali a chi basa il profitto di impresa lucrando sul costo del lavoro. Non solo; alla rincorsa di una norma sempre più vantaggiosa per chi deve assumere, si potrebbe produrre un’ulteriore degenerazione del sistema, ancor più pericolosa se si dovesse modificare il sistema degli ammortizzatori sociali, spostando la tutela sulla risoluzione dei rapporti di lavoro piuttosto che sulla sospensione degli stessi. Tutto ciò non ci convince, non per visione ideologica, ma perché quanto sta accadendo in questi anni, sta dimostrando che è più che mai necessario affermare al massimo il valore del lavoro, per vincere la concorrenza che ogni giorno di più si fonda sul driver della conoscenza. Per creare le opportunità di lavoro non si esce dall’equazione: più salario – più consumi – più produzioni – più occupazione. Questo è ciò che pensiamo ed è ciò che vogliamo. Il ruolo del sindacato In una società sempre più liquida, dove è palpabile la separazione tra potere, inteso solo nel possedere le leve per fare, e politica, ovvero reale capacità di decidere cosa fare, è necessario un cambiamento importante, riportando la fiducia dei cittadini nel sistema politico, per le cose fatte e non solo per le cose annunciate. Non condividiamo però l’idea dell’uomo solo al comando, e neppure l’idea della democrazia diretta, che bypassa i comparti intermedi della società. Il Governo non riconosce più il valore della concertazione, benché sia stata utile per il Paese. Non abbiamo, però nessuna intenzione di abdicare al nostro ruolo di portatori di innovazione, di stimolo al reale cambiamento per la tutela degli interessi collettivi, secondo una visione del bene comune e dell’interesse generale, spesso non riscontrabile nelle logiche della politica e dei partiti. Il cambiamento non va teorizzato, va praticato e noi siamo pronti a fare la nostra parte, non perché aspettiamo che qualcuno ci riconosca il nostro ruolo; ce lo
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riconoscono le lavoratrici e i lavoratori che ci sostengono giorno per giorno per un progetto di società migliore, per le nostre proposte, per le nostre iniziative che devono realmente intercettare il consenso e porsi come sfida sul terreno del cambiamento. Rappresentanza e Contrattazione Con l’Accordo sulla rappresentanza abbiamo dimostrato di saperci adeguare ai cambiamenti della società, di accettare la sfida di chi metteva in discussione la nostra reale rappresentanza e rappresentatività, per indebolire, nel sistema della contrattazione, il quadro delle tutele collettive. Un sistema maggiormente identificato con regole chiare, atte a determinare chi abbia il diritto alla contrattazione collettiva e quali siano le regole per “l’erga omnes”, è fortemente legato allo sviluppo del Paese e delle aziende, facendo leva sulla contrattazione, sulle relazioni industriali, così come sulla tenuta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e della stessa competitività delle aziende, messe a rischio da contratti dumping sottoscritti da sindacati privi di rappresentanza. Questo è ciò di cui siamo convinti, c’è un forte legame tra contrattazione, relazioni sindacali, crescita e occupazione. Prescindendo da logiche autoreferenziali, c’era bisogno di fare chiarezza nella giungla dei contratti, tutti legittimati dal concetto del reciproco riconoscimento tra gli stipulanti, a prescindere dalla loro reale consistenza di rappresentanza, fino a determinare situazioni di degenerazione dei diritti e delle tutele per effetto di contratti pirata. Per lo stesso motivo molte imprese hanno dovuto scontare gli effetti della concorrenza sleale, fino a metterne in discussione la capacità stessa di stare nel mercato. L’accordo quadro e le intese, sottoscritte con Confindustria, Confservizi e con le Centrali Cooperative, rappresentano un momento di svolta importante anche dal punto di vista del processo democratico delle organizzazioni sindacali, la cui consistenza passa attraverso la forte mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori nei processi di elezione delle rappresentanze in azienda. Un processo che passa dalla prospettiva privilegiata delle RSU e, a tratto generale, dalla necessità di intensificare il rapporto tra il sindacato e le lavoratrici e i lavoratori.
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La RSU è quindi l’opzione privilegiata per rappresentare congiuntamente con le OO. SS territoriali, l’impegno per la tutela degli interessi collettivi, che premia il sindacato confederale per l’alta adesione dei votanti. Ogni qual volta esercitiamo questa opzione, ed in particolare nella nostra categoria, come è avvenuto in occasione dell’”election day” nel settore dell’igiene ambientale, così come in altri settori ed in particolare nel trasporto pubblico locale, alla GTT di Torino, le lavoratrici e i lavoratori premiano col loro voto la nostra sigla. E’ pertanto necessario accelerare il percorso di piena attuazione dell’Accordo, portando a termine la rilevazione e certificazione nazionale della reale consistenza delle sigle sindacali che ne hanno diritto. Così come è positivo il percorso intrapreso con FILT CGIL e FIT CISL per addivenire ad un accordo di categoria, per le parti demandate dall’accordo quadro. In tal senso non deve neppure sfuggire l’opportunità che i contratti collettivi nazionali di lavoro, che stipuleremo, recepiscano le disposizioni del Testo unico e dell’intesa di categoria, che perfezioneremo, in modo tale che tutte le aziende che applicano tale contratto ne siano vincolate. Così come non deve sfuggire l’opportunità di contestualizzare le regole di accesso al diritto di sciopero nel settore trasporti con le nuove regole introdotte sulla rappresentanza, almeno per ciò che attiene alla regola della rarefazione. A tratto generale tutto ciò rappresenta anche un forte impulso ai rapporti unitari con le rispettive categorie di CGIL e CISL con le quali condividiamo la rappresentanza nei comparti contrattuali di nostra competenza, una unità non come fine a se stessa, ma funzionale al conseguimento degli obiettivi condivisi. Da un quadro di regole meglio definito passa una più ampia affermazione della contrattazione, quale salvaguardia delle garanzie di tutela dei diritti e dei trattamenti economici collettivi, così come l’individuazione delle norme che influenzano la concorrenza delle imprese nel mercato o per il mercato. L’assetto contrattuale Va da sé che in una dimensione economica sempre più globalizzata e sempre più europea, con mercati sempre più aperti, la contrattazione nazionale e lo stesso
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quadro delle tutele siano condizionati da regole, direttive, ma anche da regimi fiscali, sovranazionali. Condizioni che nel contesto della libera circolazione dei servizi e delle merci, incidono pesantemente ed in modo particolare sull’occupazione dei lavoratori italiani e sul loro salario, minati dalla concorrenza con regimi salariali decisamente più bassi con differenze che raggiungono anche il 300%. Ciò presuppone una azione sindacale della CES e dell’ETF e ITF contro i fenomeni competitivi basati sulla compressione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, contro la degenerazione della concorrenza esasperata, che altera il processo di unificazione dell’Europa e di sviluppo sociale armonico. La contrattazione nazionale rappresenta pertanto, specie per i settori particolarmente esposti alle privatizzazioni, all’apertura dei mercati e nell’accesso alle infrastrutture, (così come nei settori dove è particolarmente presente la scomposizione dei cicli produttivi) la condizione per tutelare le lavoratrici e i lavoratori con norme di salvaguardia occupazionale e salariale, per mezzo di clausole sociali efficaci che puntino a surrogare i carenti regimi normativi. A tratto generale è sbagliato pensare ad un sistema di contrattazione basato sull’alternativa tra il contratto di lavoro nazionale e la contrattazione aziendale. I due regimi sono invece complementari e dalla stessa capacità di esaltarne le peculiarità e gli spazi dipende la possibilità di crescita, come Paese, come imprese, come contesto sociale. Dalla contrattazione di primo livello dipendono le regole generali, quale massimo comun denominatore di tutele omogenee dalle quali non si può prescindere. Con la contrattazione collettiva di secondo livello si valorizzano, invece, spazi per rispondere alle specificità delle aziende, al maggiore equilibrio tra produttività, flessibilità e maggior salario, al problema della prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Per queste ragioni va salvaguardato questo impianto di opportunità e rafforzata questa complementarietà, estendendo l’esercizio della contrattazione aziendale e territoriale agli ambiti che ora ne sono privi.
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Non saremo, poi, mai d’accordo a sostituire la contrattazione collettiva con la contrattazione individuale, sarebbe l’ennesimo attacco alla tutela collettiva, con l’esaltazione dell’individualismo e della disgregazione sociale. Il lavoratore sarebbe solo davanti al proprio datore di lavoro, sarebbe più debole e privo di strumenti di protezione collettiva. Così come non siamo d’accordo all’introduzione del salario minimo; introdurre questo sistema produrrebbe ancora una riduzione dei salari, con ulteriori danni al sistema economico, e segnerebbe la fine della contrattazione e della rappresentanza sociale, minando alla radice la stessa capacità di sviluppo equilibrato del Paese. Dal momento che già i contratti nazionali di lavoro coprono quasi interamente la totalità dei lavoratori subordinati, si dovrebbe invece agire sulla loro estensione “erga omnes” per completare tale copertura. Partecipazione e Bilateralità Un sistema evoluto deve rafforzare il sistema della partecipazione e della rappresentanza degli interessi collettivi, potenziare il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori, nelle scelte dell’azienda su tematiche che poi finiscono per avere una incidenza diretta sugli stessi dipendenti e sul tessuto sociale circostante. Mantenendo, poi, inalterati e distinti ruoli e funzioni, una maggiore democrazia economica, concepita come strumento non ideologico ma finalizzato alla riduzione della distanza tra capitale e lavoro e ad influire sulle dinamiche strategiche ed organizzative delle aziende, rappresenta la condizione per generare ricadute positive in termini di crescita e di equità distributiva, come pure per condividere e financo anticipare le scelte per attutire gli effetti delle crisi. Dobbiamo in tal senso avviare un processo avanzato di relazioni sindacali che, superando l’attuale sistema, si incammini verso forme più avanzate di partecipazione e co-‐decisione delle lavoratrici e dei lavoratori, tanto nelle aziende private, quanto in quelle pubbliche.
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Nei Paesi dove ciò è avvenuto si registra maggior competitività delle aziende, maggior innovazione, maggior reddito per le lavoratrici e per i lavoratori, maggiore sicurezza sul lavoro. Una crescita delle aziende e delle tutele delle lavoratrici e dei lavoratori che passi dalla corresponsabilizzazione, dalla conoscenza, da un modello economico socialmente sostenibile e non, invece, basato su scorciatoie che non portano sviluppo, prima tra tutte la scelta delle esternalizzazioni, peggio ancora se affidate con criteri di massimo ribasso. Per questi motivi dobbiamo impegnare la nostra strategia sindacale su queste tematiche, puntando con determinazione ad un coinvolgimento attivo che vada oltre il dover affrontare solo le emergenze. Noi rivendichiamo un ruolo diverso, vogliamo misurarci su nuove sfide per il cambiamento del Paese e lo vogliamo fare da protagonisti. Non partiamo da zero. La bilateralità è appunto espressione di co-‐decisione, di affermazione del reciproco riconoscimento fondato sulla logica partecipativa, nella quale tutte le parti si impegnano e sottraggono al conflitto alcune tematiche di comune interesse e sulle quali decidono di operare in modo paritetico. Le iniziative assunte su temi quali la salute e sicurezza sui posti di lavoro, la formazione professionale continua, la previdenza e l’assistenza sanitaria integrative, il welfare aziendale, il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali, esprimono la sintesi di questi principi e si collocano all’interno di logiche bilaterali, dove il pubblico si ritira e affida alle parti maggiori responsabilità di autoregolarsi. Tra queste materie la sanità integrativa, è per noi un obiettivo già raggiunto in molti CCNL e da raggiungere negli altri, per la tutela della salute, sempre più indebolita da un sistema sanitario pubblico che, per fette del Paese sempre più larghe, sempre meno riesce ad offrire certezze in qualità e tempi, e che, per effetto dell’incremento del valore dei ticket, è sempre più esoso e sempre meno sostenibile per i cittadini. E’ poi nelle azioni e strategie di contrasto degli infortuni sul lavoro e dell’insorgenza delle malattie professionali, che sono necessarie azioni di sistema, tanto più efficaci quanto più le parti sociali condividono che la ricerca
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della produttività, la qualità dei servizi e la tutela del lavoratore e della lavoratrice siano fattori inscindibili. Troppo spesso assistiamo a situazioni dove l’attività di prevenzione viene subordinata e messa in secondo piano rispetto ad obiettivi aziendali sostanzialmente basati sul mero risultato del bilancio d’esercizio, considerando, a torto, gli investimenti sulla salute e sicurezza un mero costo. Tanto la contrattazione quanto gli organismi bilaterali e paritetici, assumono pertanto centralità attraverso il dialogo costante e partecipativo di tutti gli attori della prevenzione, a partire dal datore di lavoro e dalla figura del RLS, a supporto dell’equilibrio ottimale tra tutela della sicurezza ed esigenze produttive. Conciliazione vita e lavoro Così come va sempre di più articolata nei livelli della contrattazione un’incisiva azione sindacale per politiche di conciliazione, volte a meglio conciliare i tempi di lavoro con la sfera familiare. Esse non riguardano solo le donne, bensì anche gli uomini, toccano la sfera privata e la sfera pubblica, la politica sociale e quella economica e hanno un impatto evidente sull’organizzazione del lavoro e dei tempi delle città, nonché sul coordinamento dei servizi di interesse pubblico. La realizzazione di tali politiche, risulta fondamentale non solo per distinguere la qualità di una democrazia; realizzare concretamente politiche che conciliano le esigenze lavorative e le esigenze familiari è una necessità reale per l’economia delle famiglie e più in generale del Paese. Quanto ci sia ancora da fare lo dimostrano gli effetti di questa crisi economica che infierisce in particolare sul dato dell’occupazione femminile, lo dimostra il fatto che negli ultimi 10 anni le donne che hanno perso il lavoro entro i primi due anni di vita dei figli sono il 40%, dimessesi per mancanza di aiuto familiare o per non aver ottenuto il part-‐time. Il 24% delle donne in attesa di un figlio viene, per giunta, licenziato. I dati della Banca d’Italia inoltre mostrano che vi è un crollo dei redditi familiari, soprattutto nei nuclei con a capo una componente femminile, anello debole di una società carente di riforme strutturali.
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Le donne devono poter stare nel mondo del lavoro non rinunciando alla famiglia e ai figli e senza rinunciare ai percorsi di carriera. Occorre ripensare a modelli diversi di protezione sociale, introducendo politiche di conciliazione e di riequilibrio, che stanno conquistando l’attenzione della stessa Commissione Europea. Servono a tal proposito azioni sistemiche che prendano in considerazione le esigenze della famiglia, dei congedi parentali, di soluzioni per la cura dei bambini e degli anziani, in un contesto lavorativo che valorizzi la donna e l’uomo come madre e padre. In tal senso riteniamo importante una normativa che preveda uno scambio tra la maggiore flessibilità, chiesta alle aziende su orari e organizzazione, e la detassazione e defiscalizzazione del salario di produttività per il sostegno delle politiche di conciliazione. Questo è ciò su cui ci impegniamo (lo testimonia la valorizzazione al nostro interno del Comitato Pari Opportunità e differenze di genere e la scelta di proporre che un componente della prossima Segreteria Nazionale verga riservato al genere femminile), così come deve essere un impegno d’interesse pubblico che coinvolga aziende e istituzioni. Una politica di infrastrutture e mobilità Non può esserci crescita, sviluppo e occupazione senza una efficace politica dei trasporti, della logistica e delle infrastrutture. L’Italia, in effetti, è un Paese strano, dove non solo l’orografia frena l’infrastrutturazione, ma soprattutto i localismi frenano lo sviluppo nazionale, e dove i particolarismi spesso dettano le strategie di sviluppo industriale. In questo quadro drammatico si innestano i più recenti provvedimenti legislativi, da ultimo la legge di stabilità 2014, che invece di introdurre elementi più qualificanti per rilanciare il sistema trasportistico e produttivo, si sono invece limitati “al mero effetto annuncio” e a “rattoppare”, attraverso provvedimenti legislativi non organici, le mancanze di due decenni di assenza di programmazione infrastrutturale.
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Molti sono stati negli anni i tentativi di creare una “regia comune” per le opere infrastrutturali in Italia, legate al trasporto merci e persone, da ultimo il piano nazionale della logistica. Inutilmente; la situazione reale è tragicamente negativa e vede il nostro Paese arretrato come dotazione infrastrutturale rispetto i grandi Paesi europei, incapace di pianificare e realizzare le opere, ed in particolare quelle che meglio corrispondono all’interazione funzionale tra domanda e offerta di trasporto e di mobilità. Nello stesso tempo non riusciamo ad utilizzare i fondi europei, nonostante la grande necessità e carenza, e anche la previsione del Documento di economia e finanza di destinare ogni anno lo 0,3% del PIL alle infrastrutture, potrebbe rimanere una mera illusione, facendo fallire un obiettivo strategico per lo sviluppo del Paese. L’Italia è, infatti, all’ultimo posto della classifica per l’incremento della dotazione infrastrutturale, con una bassa crescita, ad esempio, della rete autostradale dal 1990 del 7% a fronte di un 12% del Regno Unito, del 17% della Germania, del 62% della Francia e del 172% della Spagna. Lo stesso vale per quanto attiene alle infrastrutture pertinenti al Trasporto Pubblico Locale e per la rete ferroviaria ad Alta Velocità, come pure per la dotazione italiana di ferrovie regionali e suburbane, pari a meno della metà della dotazione media europea; quella di chilometri di metropolitane urbane è pari a poco più di un terzo della dotazione media dei Paesi europei. Anche per quanto concerne il settore portuale e logistico la situazione non è molto dissimile e traspare un’immagine di un Paese arretrato “culturalmente” in termini logistici. I dati diffusi annualmente dalla World Bank, che analizzano l’indice di performance logistico, collocano, infatti, l’Italia al 22° posto in una graduatoria di 155 Paesi, dove alcuni nostri competitor, quali le nazioni del nord Europa, Germania, Olanda e Belgio, si collocano nelle prime posizioni di questa classifica. Un’inefficienza logistica che costa al Paese almeno 40 miliardi di euro annui. Oltretutto, a ulteriore dimostrazione dell’assurdità di questa totale mancanza di strategia dei trasporti, in Italia, Paese inventore del ferro-‐bonus, non vengono implementate politiche volte a favorire l’equilibrio modale ferro-‐gomma, e anzi gli ultimi interventi sul costo energetico, a carico della rete ferroviaria, i cui
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maggiori costi saranno ribaltati sulle imprese di trasporto, finiranno col generare l’ulteriore riduzione dell’utilizzo della ferrovia. E’ debole la cultura del “fare”, che non significa solo la mancata realizzazione delle iniziative, bensì, ancor più grave, il vuoto nel determinarne le precondizioni ed in particolare la programmazione, pianificazione, studi di fattibilità, analisi costi-‐benefici; il tutto in una logica che deve partire dalla domanda futura, dalla fattibilità economica e finanziaria, dalle compatibilità socio-‐territoriali. Evitando comunque le inerzie. Per un Paese la capacità di progredire è, infatti, direttamente proporzionale ai tempi con cui si adegua ai cambiamenti di contesto; anche il mercato richiede ai Paesi e alla loro politica tempi veloci di adeguamento, e, laddove tali tempi non sono compatibili, il mercato comunque si organizza da sé oppure si organizza altrove. Se pensiamo che la galleria del Gottardo nel 1882, benché situata nel mezzo della Svizzera a oltre 100 Km dall’Italia, fu realizzata con risorse per metà italiane, ci rendiamo conto di quanto allora, più di oggi, fosse percepita la strategia sui trasporti. Una strategia e una cultura che conosceva quanto fosse pericoloso il rischio dell’isolamento commerciale, al quale corrisponde la riduzione del traffico merci, passeggeri e la riduzione delle opportunità di sviluppo. La combinazione, poi, della mancanza di strategia e del sistema paludoso della burocrazia, con le teorie contraddittorie della decrescita felice, realizzano un formidabile mix di inerzia che mina la capacità del Paese di investire sul futuro. E’ quanto mai evidente come nelle politiche di sviluppo infrastrutturale si siano sovrapposti e scontrati da una parte l’interesse nazionale e dall’altra quelli particolaristici presenti nei territori e nelle Regioni. Questo ha prodotto nel corso del tempo notevoli diseconomie e sovrapposizioni di infrastrutture (si veda quanto è accaduto negli aeroporti e interporti), dove, nell’ambito della stessa Regione, a pochissima distanza, si sono realizzate infrastrutture spesso simili e di dimensioni inadeguate alla competizione che queste strutture sono chiamate ad affrontare anche a livello internazionale. Per non citare poi l’arcinoto italico malcostume di costruire cattedrali nel deserto…..
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Le cause di questa difficoltà sono molteplici, ma in generale ascrivibili ad una motivazione di fondo, vale a dire la mancanza di una visione di sviluppo condivisa e l’assenza di una cabina di regia unitaria. E’, infatti, inutile pensare al rilancio dello sviluppo industriale prescindendo dalla rete dei trasporti, per le persone e per le merci, da una efficace connettività tra i nodi logistici, tra il nostro Paese e l’Europa e più in generale con il resto del mondo. Porti, interporti e aeroporti, collegamenti funzionali ferroviari, e stradali devono essere pensati come un unico sistema sinergico e armonico, dove la logistica realizza la migliore razionalizzazione del flusso delle merci e delle persone. E come può essere esportato il made in Italy se ancora si vende franco fabbrica e se dai porti del nord Europa passano importanti volumi di traffici merce, destinati al Piemonte e alla Pianura Padana, perché più convenienti in termini logistici? Come primo obiettivo infrastrutturale sicuramente c’è la realizzazione di quelle reti di collegamento con i corridoi europei, fondamentali per la libera circolazione delle persone, per la ripresa del commercio estero e, nel frattempo, indispensabili per rendere più sostenibile il sistema di distribuzione e approvvigionamento delle merci e dei prodotti, in considerazione del fatto che i finanziamenti europei saranno rivolti unicamente a una rete fondamentale “core network” molto ristretta e selettiva. In secondo luogo è fondamentale, al fine di non disperdere le limitate risorse a disposizione, che le infrastrutture da realizzare siano immediatamente integrabili nella rete infrastrutturale nazionale e che, a questo proposito, al fine di recuperare il gap tra le diverse aree del Paese, si dia precedenza a quelle opere intermedie e di sostegno che garantiscano collegamenti e intermodalità. Se l’analisi della domanda è sicuramente uno degli indicatori della necessità e dell’urgenza della realizzazione di una determinata infrastruttura, è altrettanto indispensabile stabilirne il potenziale, che è comunque condizionato dalla possibilità di operare in rete con le altre infrastrutture, dando quindi la possibilità di esprimere pienamente i benefici che da essa si possono ottenere. Nel caso del trasporto delle merci, tale analisi non può prescindere dalla necessità di intercettare e collegare il sistema infrastrutturale italiano alle reti TEN-‐T e, per raggiungere questo ambizioso obiettivo, è imprescindibile una
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profonda revisione del titolo V della Costituzione, che nella sua attuale articolazione ostacola questo processo. Qualsiasi riforma dei porti, degli interporti e lo stesso piano aeroporti non può non partire da questi presupposti. In particolare al modello delle reti TEN-‐T, che integra, per le merci, il trasporto navale e ferroviario, è essenziale il sistema portuale e la sua infrastrutturazione retro portuale, con hub efficienti e connessi alla rete principale. Le politiche dei trasporti Nonostante la favorevole posizione geografica, la nostra portualità e la logistica sono scarsamente competitive. Scontiamo un clamoroso gap infrastrutturale, rappresentato da fondali inadeguati e da inadeguati collegamenti al sistema ferroviario e con i centri intermodali. Registriamo altresì tempi e procedure per i controlli, legati alle merci, altrettanto inadeguati. Più che focalizzarsi sugli accorpamenti tra Autorità portuali, in ragione di una mera presunta riduzione di spesa, che sarebbero ancora una volta nascondere la testa sotto la sabbia, va articolato un dibattito politico che si ponga l’obiettivo di intercettare i volumi di traffico che transitano nel Mediterraneo, da est a ovest. Occorre pensare come adeguare i porti all’evoluzione dello shipping e delle strategie commerciali delle compagnie armatoriali, in base alle quali navigheranno navi sempre più grandi e per le quali le infrastrutture dei nostri porti sono sempre più inadeguate. Solo il 6,3% dei volumi che transitano per Suez giungono in Italia. Bisogna ribaltare la filosofia di questa politica, che tanto discute della governance dei porti e dei comitati portuali (dai quali si punta semplicisticamente a eliminare la rappresentanza sociale) e non ci si sta accorgendo che stiamo rischiando di essere emarginati dalle rotte di traffico, non solo a vantaggio dei porti del nord Europa, ma, soprattutto, di un sistema ampiamente più competitivo, rappresentato dai porti dell’ Africa del Nord. Con l’aggravante ulteriore di subirne gli effetti sulla produzione in caso di instabilità politica, se il nostro sistema di mercato dovesse concentrarsi e consolidarsi principalmente su di essi. Questo noi non ce lo possiamo permettere.
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Il problema, infatti, non sta nel numero di porti che abbiamo o di quanti debbano essercene per il miglior funzionamento del sistema. Sono tutti utili se incardinati in sistemi aperti. Ognuno di essi ha una vocazione specialistica e caratteristiche consolidate, vanno messi a sistema e meglio integrati con gli altri nodi logistici per valorizzarne le potenzialità e razionalizzare l’utilizzo delle risorse sulla base di questi principi cardine. In questo quadro i porti con traffici di transhipement svolgono una funzione utile quanto gli altri porti di origine e destinazione finale e vanno messi in condizione di essere competitivi anche intervenendo in Europa perché in essi siano riconosciute zone franche. Qualsiasi riforma che non metta al centro questi temi rilevanti non serve e sarebbe dannosa. Il nostro concetto di autority di sistema, pertanto, trascende il mero e spurio dibattito di accorpamento delle autorità portuali e presuppone nelle sue motivazioni un progetto industriale e di sistema, che attualmente non vediamo e che ci porterebbe a non condividere una volontà politica che non lo prevedesse. Non deve venir meno il ruolo pubblico di regolazione di tali enti, così come invece una più adeguata autonomia finanziaria consentirebbe maggiore funzionalità e sviluppo infrastrutturale. Per le stesse ragioni è fondamentale un quadro di regole che non trasformi la concorrenza in precarietà e minore sicurezza per i lavoratori portuali e nei servizi tecnico-‐nautici, particolarmente esposti se si innescassero forme di concorrenza selvaggia per il mercato o peggio ancora nel mercato. Altrettanto necessario è poi risolvere il problema che vede i dipendenti delle autorità portuali essere stati assoggettati ai vincoli della pubblica amministrazione, in modo ingiustificato. Da come si riuscirà ad efficientare il sistema portuale e logistico, deriverà la qualità e lo sviluppo dell’intero sistema Paese. Ad esempio uno dei motivi del parziale fallimento del progetto Autostrade del Mare sta proprio nel fatto che, nonostante gli incentivi, il trasporto su gomma è ancora più conveniente. Nonostante si siano spesi 400 milioni di euro in 6 anni, solo il 5% del traffico merci è stato trasportato via mare, di cui buona parte su tratte dirette alle isole e che non avrebbe avuto, quindi, alternativa.
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Incidono i costi dei servizi, ma soprattutto i tempi organizzativi, da abbattere con interventi strutturali di adeguamento delle infrastrutture alle necessità del traffico cabotiero e non solo legati agli incentivi fiscali. Dare maggiore competitività al trasporto cabotiero significa realizzare un sistema di trasporto maggiormente sostenibile sotto l’aspetto della congestione del traffico, della sicurezza stradale e della qualità dell’ambiente, oltre che rappresentare una straordinaria valenza sociale, con la garanzia della continuità territoriale con le isole. E’ necessario organizzare, pertanto, terminal dedicati a questo tipo di traffici, snellire e automatizzare le procedure di imbarco e sbarco per velocizzare le operazioni, rendendo meno onerose le tariffe. A tratto generale tutto il settore marittimo rappresenta una concreta opportunità di sviluppo per il Paese. Serve pertanto una vera politica marinara, servirebbe un vero Ministero solo dei Trasporti e, in esso, una sezione dedicata alle politiche del mare. L’orientamento politico sta andando invece nella direzione opposta; questo dimostra quanta poca consapevolezza ci sia in questa politica, rispetto alle potenzialità rappresentate dai trasporti e in particolare del settore marittimo. Anche in questo settore la crisi ha inciso in modo significativo determinando un eccesso di offerta che ha portato alla riduzione del nostro armamento e inciso sulla già ridotta possibilità di impiego del personale marittimo italiano. Con l’eccezione del cabotaggio, dove si è riusciti a introdurre regole che vincolano all’utilizzo di tutto personale italiano/comunitario e all’applicazione del contratto nazionale di lavoro italiano, e con esso alle protezioni sociali del nostro Paese, il sistema del trasporto marittimo è completamente globalizzato. La conseguenza di tutto ciò è una accesa competizione che si svolge senza alcuna regola che impedisca all’armatore di cambiare bandiera e di ricercare equipaggi a basso costo, in un comparto in cui il costo del personale incide per il 44%. In questo quadro fortemente liberalizzato, dove il dumping salariale è particolarmente esteso, è fondamentale il ruolo del sindacato internazionale sia a livello mondiale ITF, che a livello europeo ETF. Un ruolo che deve comunque avere la capacità di esercitare un’equilibrata sinergia tra le normative internazionali e quelle nazionali, in modo particolare in materia di tutele contrattuali, al fine di evitare incomprensibili penalizzazioni.
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Altrettanto fondamentale è stato il ruolo da noi svolto con FILT e FIT per ciò che rappresenta l’istituzione del “Registro Internazionale” che ha riportato in bandiera nazionale circa 770 navi. Nonostante ciò, è pressante il problema dell’impiego dei marittimi italiani, in modo particolare nelle qualifiche medio-‐basse, basse e per gli allievi di coperta e di macchina. E’ necessario recuperare una sistemica attività di formazione, a regia nazionale, attraverso finanziamenti pubblici per il rinnovo delle costose certificazioni e per l’abilitazione professionale. Le nostre previsioni di uno spezzatino, determinato dal processo di privatizzazione del cabotaggio nazionale, hanno purtroppo trovato conferma nei fatti. Escludendo, infatti, la CIN, che ha mantenuto la sua unicità e progredisce per occupazione, organizzazione e qualità del servizio, permangono ancora incertezze che confermano i nostri iniziali dubbi. Va da sé che, soprattutto in questo settore, il contratto nazionale di lavoro rappresenta un formidabile strumento di regolazione del mercato. Bisogna in tal senso urgentemente terminare il processo di unificazione contrattuale per salvaguardare l’occupazione italiana, anche in vista delle gare per il rilascio delle concessioni nel servizio di rimorchio. La totale assenza di una politica di sistema, unitamente alla mancanza di regole della filiera produttiva e dell’accesso ai servizi, ha determinato anche nel settore del trasporto aereo e aeroportuale difficoltà competitive per le aziende, dovute alla presenza di operatori che, pur svolgendo la loro attività nel nostro Paese, eludono le regole, determinando dumping sociale e concorrenza sleale o che beneficiano di vantaggi in sussidi pubblici diretti o indiretti, che le aziende italiane non hanno. Il caso Alitalia ne è la triste prova ed è il risultato drammatico dovuto ad una gestione condizionata da un management non all’altezza, a cui si aggiunge la difficoltà di concorrere nel mercato domestico con regole che avvantaggiano ancora le compagnie straniere low-‐cost. Alitalia, in effetti, sicuramente catalizza l’interesse dell’opinione pubblica e della politica per le dimensioni e per ciò che rappresenta come infrastruttura di interesse nazionale per la connettività del Paese con il resto del mondo. Motivi questi per i quali abbiamo condiviso la necessità di un forte processo di sviluppo, rafforzandola sul piano industriale e sul piano della consistenza
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finanziaria, attraverso una forte alleanza con un operatore che ne valorizzi le potenzialità, all’interno di un solido network. Tutto ciò deve significare una decisa inversione di tendenza rispetto ad oggi e la prospettiva che gli attuali sacrifici delle lavoratrici e dei lavoratori non siano vani e si possa produrre crescita ed occupazione. Serve soprattutto una strategia industriale che fino ad ora è mancata, una strategia maggiormente calata sulle attuali prospettive di mercato, nel quale si sono determinati margini operativi e di sostenibilità economica sempre più risicati per il traffico domestico. Ci convince una politica industriale maggiormente orientata al lungo raggio perché rappresenta la scelta migliore per lo sviluppo della Compagnia così come per il sistema dei trasporti del Paese. Non di minore importanza dal punto di vista occupazionale e di tutele del lavoro sono comunque altri segmenti del settore del trasporto aereo e aereoportuale, altrettanto in condizioni precarie. Potremmo citare Meridiana, Ground Care e, con esse, molte altre situazioni, dove il processo di liberalizzazione, avvenuto in modo disordinato e senza regole adeguate e aggravato dagli effetti della crisi, ha determinato la proliferazione di operatori e un eccesso di offerta con ricadute drammatiche sul lavoro. In tal senso la proroga del Fondo di sostegno al trasporto aereo è stata importante, per mitigare gli effetti di questa degenerazione, ma non sono rinviabili azioni di sistema e regole per l’accesso al mercato, che eliminino l’attuale dumping sociale e la concorrenza sleale con clausole sociali efficaci, che abbiano in sé l’applicazione contrattuale “erga omnes”. Condividiamo pertanto la strategia di un contratto di riferimento, che elimini distorsioni e concorrenza sleale, particolarmente presente tra gli handlers. Questo è quello che pensiamo debba avere come obiettivo il CCNL del settore, che non deve tuttavia mortificare ed annullare le diverse specificità che concorrono a determinare il complesso quadro del trasporto aereo; gli obiettivi di tutela del lavoro sono ampiamente condivisi, ma occorre definire regole che non introducano contraddizioni dannose per le lavoratrici e per i lavoratori che fanno parte della filiera. Queste contraddizioni si sono manifestate nella filiera logistica con particolare virulenza, un settore dove l’eccesso di offerta di aziende di autotrasporto, troppo piccole per competere nel mercato, e di cooperative di facchinaggio, sulle quali si
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scarica la concorrenza sleale di un sistema fuori controllo, sta generando ricadute occupazionali e perdita di tutele sociali e salariali. La necessità di introdurre misure efficaci, finalizzate alla crescita dimensionale delle imprese e a favorire gli investimenti e lo sviluppo della piattaforma telematica nazionale, devono essere conseguenza di una nuova politica che abbandoni i finanziamenti a pioggia, non più adeguati nella loro finalità e nei criteri di assegnazione. Le regole europee di libera circolazione delle merci e dei servizi impongono, poi, misure di controllo e regole chiare, finalizzate ad eliminare il dumping sociale causato dall’utilizzo del distacco transnazionale e del cabotaggio. In tal senso è necessario sviluppare un forte contrasto a questo istituto, che porta ad impoverire il settore, produce disoccupazione di autisti italiani e meno sicurezza sulle strade. Questo fenomeno è alimentato dall’impiego di personale dei paesi dell’est Europa da parte di imprese che, pur di sopravvivere, utilizzano espedienti come la intermediazione di mano d’opera da questi Paesi, oppure trasferiscono la propria sede in quei territori. L’impegno quindi per un quadro di regole europee più chiaro e meno permissivo deve essere assunto non solo da noi e dall’ETF, bensì anche dal Governo italiano, pena la completa perdita del settore e degli autisti italiani. Altrettanta degenerazione della qualità delle tutele del lavoro si è particolarmente presentata nel sistema cooperativo del settore della logistica. Un’involuzione che tradisce gli scopi stessi della cooperazione, scopi mutualistici come chiaro esempio di democrazia economica, di partecipazione attiva alla vita associativa, che si è trasformata oggi in sfruttamento ed emarginazione dalle possibilità di incidere sulle scelte di carattere sociale. Si eludono diritti e tutele, si evade fisco, IVA, contributi sociali e previdenziali in un quadro dove mancano controlli e dove il dumping è alimentato dagli stessi committenti che al tavolo contrattuale sostengono la necessità di regole. Ciò vale soprattutto per le cooperative spurie, per le quali rivendichiamo una incisiva iniziativa di controllo e sanzione, ma anche le stesse Centrali cooperative, ancora oggi, non hanno sottoscritto l’ultimo rinnovo contrattuale, a distanza di un anno, e in molti casi ancora non applicano neppure gli elementi salariali di quello precedente.
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Tutto ciò va superato. In tal senso con FILT e FIT e FEDIT abbiamo impostato un nuovo approccio a questi problemi, che muove dalla necessità di riportare legalità e dignità al settore e ai lavoratori, attraverso la contrattazione per un efficace processo di stabilizzazione e internalizzazione dei servizi di ribalta, che porterà entro la fine del 2015 a circa 1.500 assunzioni a tempo indeterminato, con maggiori certezze occupazionali e garanzia salariale. La domanda, particolarmente in un’ottica di non breve periodo, non può comunque essere considerata solo l’unico indicatore per l’indirizzo delle politiche di riassetto e per la realizzazione delle opere infrastrutturali. Ciò vale soprattutto per quelle legate ai servizi di trasporto delle persone, che devono essere garantiti anche nelle aree a domanda debole, con preminente finalità sociale, e possono svolgere un ruolo determinante per la crescita delle Regioni meno sviluppate del Paese. In tal senso l’efficienza dei trasporti su rotaia è condizione fondamentale per l’economia del Paese, per uno sviluppo sociale equilibrato ed inclusivo, del quale non si può fare a meno. Finora la politica non ha però considerato tali priorità. E’ grave, infatti, il ritardo circa l’ottimizzazione dei collegamenti veloci e la grande disparità di infrastrutture e servizi tra la rete ad Alta Velocità e il sistema universale. Non degno di un Paese avanzato come l’Italia è il collegamento tra il Sud e il resto del Paese, sia lungo l’asse Tirrenico che quello Adriatico, e lungo le trasversali Tirrenica/Adriatica. Dei 15.720 Km di linea ferroviaria, solo 1.350 Km sono ad Alta Velocità ed essa, salvo il prolungamento Roma-‐Napoli-‐Salerno, è tutta concentrata sulla linea Padana/Appenninica ed esclude i versanti Tirreno/Adriatico, rimasti anch’essi marginalizzati. I riflessi di queste scelte scellerate rischiano di condannare il Sud ad un impoverimento irreversibile, sia sul piano economico che sul piano sociale. Di fatto si è spostato l’interesse solo sull’Alta Velocità e ridotto l’interesse sul trasporto universale di lunga e media percorrenza, determinando una vera frattura, nella qualità del servizio ai cittadini, che va superata.
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Per questi motivi non condividiamo volontà politiche nazionali volte a forzare la normativa europea del cosiddetto IV pacchetto ferroviario, di scorporo della rete RFI dalla holding FSI, né, tantomeno, quotazioni in borsa, se non dell’intero gruppo. La tentazione di quotare solo la parte Alta Velocità sarebbe ghiotta per il mercato, ma metterebbe a rischio la tenuta del Gruppo e certamente non sarebbe altrettanto positiva per gli italiani che utilizzano il treno, ai quali invece vanno garantiti, a tratto generale, treni dignitosi e collegamenti efficaci ed efficienti. Anche per questi motivi la liberalizzazione del trasporto ferroviario e per l’accesso alla rete e alle infrastrutture in genere, deve vedere nella Autorità dei trasporti, un soggetto di vera regolazione, senza sovrapporsi con le competenze proprie della politica e dei Ministeri competenti per la programmazione dei servizi. Questo soggetto, soprattutto, deve operare con imparzialità e autonomia in nome dell’interesse generale, nel quale comunque le tutele del lavoro sono fondamentali. In questo senso l’Autority di regolazione dei trasporti dovrà essere in grado di evitare ogni forma di conflitto di interesse tra gestore della rete e gestione del servizio, rifuggendo da suggestioni di stampo generalistico, impostate ad un malinteso europeismo, che non apporterebbero benefici né al Paese e neppure alla fluidificazione del mercato Diversamente, il quadro dei rapporti tra i competitori rischia di divenire insostenibile e dare più forza alle tesi di coloro che sostengono, ad esempio, che ancora non sia avvenuta, nei fatti, la separazione tra l’esercizio e la gestione della rete nel settore ferroviario. Un’imparzialità che dovrà essere esercitata anche sul sistema tariffario autostradale, un meccanismo non chiaro ed inefficace, che appare non direttamente collegato agli investimenti realizzati dai concessionari, come invece dovrebbe essere, determinando un vero monopolio privatizzato che punta in sostanza a mantenere gli stessi livelli di redditività, nonostante la crisi ed il calo del traffico e degli investimenti. A fronte di ciò la Uiltrasporti propone che, in assenza di investimenti da parte dei concessionari, corrisponda una diminuzione delle tariffe di pedaggio rapportata alla dimensione degli utili.
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Un altro caposaldo del rilancio è rappresentato dal processo di apertura al mercato del Trasporto Pubblico Locale che deve essere considerato un mezzo e non un fine. Il fine dovrebbe essere quello di avere un sistema industriale più efficiente, meno frammentato, gestito in maniera manageriale, nel prevalente interesse della collettività. Le oltre 1.180 aziende del settore rappresentano una insostenibile pluralità di centri di costo, con sovrapposizioni ed eccessivi apparati dirigenziali, che sembrano rispondere più a logiche di collocamento politico che industriali, e il cui costo è divenuto insostenibile. Troppo tempo si è perso nel dibattito se sia meglio il “pubblico” o il “privato”, troppi anni sono trascorsi senza alcun processo di modernizzazione; con il risultato che il sistema non funziona, le aziende falliscono, le lavoratrici e i lavoratori rischiano il posto del lavoro, i costi a carico della collettività sono comunque alti e, mentre la domanda di mobilità aumenta, non corrisponde ad essa un’adeguata offerta. L’elemento di fondo è la finalità del servizio che deve rimanere pubblica, così come l’ambito di regolazione e di controllo. Intervenire su questo settore non rappresenta solo una misura di politica sociale, bensì è una forte misura di politica economica. In presenza infatti di un servizio inefficiente non c’è alternativa all’uso del mezzo privato, con costi maggiori per la collettività e soprattutto con riduzione del reddito disponibile del cittadino. Perché si apra un vero “mercato” del Trasporto Pubblico Locale è però necessario che questo diventi appetibile, per chi vuole investire con competenze e risorse. Allo stato attuale i vincoli previsti nei contratti di servizio (modalità di erogazione, tariffe, mezzi e strutture), la cronica scarsità di risorse e le notevoli carenze infrastrutturali riducono la partecipazione e l’investimento in questo tipo di attività. Di fatto l’esperienza di liberalizzazione vissuta in questo settore è stata fino ad ora del tutto fallimentare. E’ ancora prevalente il sistema di affidamento diretto in-‐house. Nelle poche realtà, poi, dove si è proceduto attraverso gara, nella maggioranza dei casi hanno vinto i gestori precedenti del servizio a partecipazione pubblica, che hanno perpetuato un sistema dove sono evidenti gli effetti della sovrapposizione tra controllore e controllato, e dove, di conseguenza, emergono
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bilanci in perdita, sprechi gestionali e la mancanza di una gestione industriale del servizio, spesso a scapito dell’utenza. Per questo bisogna prevedere un sistema di gare che contempli bacini ampi, di dimensione regionale, che traducano nella sostanza anche la maggior integrazione del trasporto regionale su ferro e trasporto su gomma, così come il biglietto integrato per combattere l’evasione tariffaria. Parimenti bisogna evitare che il processo di aggregazione delle attuali aziende produca, senza adeguate clausole sociali, forti impatti sulla occupazione e sulle condizioni dei lavoratori e venga, nella realtà, bypassato dalla pratica degli appalti di servizio, che replicherebbe nei fatti l’attuale configurazione del settore. Partendo dalla modifica del Titolo V della Costituzione, con la finalità di chiarire l’ambito delle competenze tra Stato, Regioni ed Enti Locali, occorre pertanto recuperare una forte iniziativa nazionale, rafforzando il processo di regolazione e organizzazione, con criteri di efficienza come i costi e i fabbisogni standard, adeguandoli comunque alle caratteristiche morfologiche del territorio e ai livelli essenziali dei servizi. Va evitata, in tutto ciò, un’inutile stratificazione normativa che mantenga inalterate le inefficienze. In tale ottica è indispensabile che le Regioni pianifichino correttamente i servizi necessari, coinvolgendo le parti sociali quali portatrici di interessi nei confronti dell’utenza e dei dipendenti. In questo quadro assai articolato, che compone il mondo dei trasporti, il vero fattore comune è quindi rappresentato dal lavoro. Lavoro spesso dimenticato specialmente nei processi di liberalizzazione. Lavoro che però si è dimostrato essere in questi settori, caratterizzati da elevata meccanizzazione e spesso ingegnerizzazione del ciclo produttivo, il vero filo conduttore tra domanda di servizio ed offerta, tra utente e gestore, tra consumatore e produttore. L’apporto del lavoro va valorizzato e deve trovare la sua giusta possibilità di espressione e di realizzazione ed il suo riconoscimento. Dopo 7 anni di attesa delle lavoratrici e dei lavoratori, il rinnovo del CCNL del Trasporto pubblico Locale non è più rinviabile. Dobbiamo sviluppare una forte iniziativa in tal senso, più incisiva di quanto abbiano prodotto i 13 scioperi già fatti.
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Questo è il nostro impegno che intendiamo riconfermare e potenziare. E’ altresì prioritaria una forte iniziativa sindacale affinché sia modificata la recente previsione legislativa, che vede le aziende di servizi pubblici locali a rilevanza economica assoggettate alle regole della Pubblica Amministrazione, con il conseguente blocco della contrattazione e distorsione del processo di industrializzazione e liberalizzazione. Senza la modifica di tale norma, sarebbe altresì più difficile procedere alle assunzioni o al trasferimento del personale nella fase di aggregazione delle aziende, favorendo l’espansione degli appalti e le riduzioni delle tutele per le lavoratrici e per i lavoratori coinvolti. Come nel Trasporto Pubblico Locale, anche nel settore dell’Igiene Ambientale la sottodimensione delle aziende non stimola gli investimenti di capitali per efficientare i servizi. Servono, in tal senso, norme chiare e sistemi di gestione integrata dei rifiuti, ispirati alla prevenzione, riutilizzo, riciclaggio, per poi finire con l’impiego dei rifiuti come fonte di energia, relegando al minimo l’utilizzo delle discariche. Una filiera complessa, che pone alle imprese un mutamento di assetti strutturali, con il passaggio da aziende meramente comunali ad aziende industriali, con il superamento dei vincoli localistici, assumendo riferimenti organizzativi e gestionali in ambiti territoriali di scala sovracomunale. Da qui l’esigenza della costituzione e attuazione degli A.T.O., che sovraintendano ed affidino il ciclo completo del servizio che comprenda, almeno, l’intero territorio provinciale. Soprattutto è fondamentale superare l’attuale confusione legislativa e l’inerzia delle Amministrazioni Pubbliche, che ha di fatto realizzato un Paese diviso in due, dove ad aziende industrializzate e quotate in borsa, fanno da contraltare aziende rimaste incardinate nel vecchio sistema delle municipalizzate, che si limitano soltanto alla raccolta e allo spazzamento. Industrializzare il settore significa generare migliore economia di scala, dalla quale deriverebbe, se solo la Tari non fosse principalmente una patrimoniale, una riduzione della tariffa e una migliore qualità del servizio. Il Congresso e il futuro della UILTRASPORTI Con queste idee, questi programmi e questi obiettivi noi ci misuriamo, delegati e delegate, in questo nostro Congresso e verso il Congresso Confederale.
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Facendo nostre le direttive per una nuova e più funzionale UIL già sancite, dall’ultimo Consiglio Generale della UIL Nazionale. In un contesto intriso di problemi, che investono il vivere quotidiano, la fase congressuale è stata soprattutto una grande opportunità di crescita democratica dell’organizzazione, rafforzata dalla partecipazione attiva dei delegati e delle delegate che, nei congressi ai vari livelli, non hanno mancato di segnalare i loro problemi di cittadini, di lavoratrici e di lavoratori, consegnandoci idee e proposte per la nostra azione sindacale. Da ciò esce la fotografia di una Organizzazione viva, che ha saputo rinnovarsi, una Organizzazione non piegata su se stessa, fortemente impegnata, a tutti i livelli, per dare quel contributo di cui il Paese ha necessità. Dopo questo straordinario risultato, che ha coinvolto tutta la nostra categoria, dobbiamo continuare nella costruzione di un Sindacato all’altezza delle aspettative, fianco a fianco con tutte le strutture della UIL, per incidere sempre di più sui grandi temi, primi tra tutti crescita, sviluppo e occupazione Più larga e incisiva presenza sul territorio, legami sempre più profondi con gli iscritti e con le lavoratrici e i lavoratori dei settori di nostra competenza, equilibrio rappresentativo di genere e rinnovamento degli organismi, con maggiori opportunità per i giovani, formazione costante di quadri, stretta coordinazione con i “servizi”, ITAL, ENFAP, CAF-‐UIL, ADOC. Non vogliamo proclamare soltanto questi propositi. Questi sono gli obiettivi che ci siamo dati, che abbiamo iniziato a realizzare e che saranno maggiormente consolidati nei prossimi anni La revisione organizzativa territoriale, è ormai conclusa, stiamo accentuando le sinergie necessarie a rendere omogenea l’attività dei servizi con la pratica quotidiana dell’azione sindacale. Declinando il concetto di rete, quale concetto di coesione e sinergia tra le Uiltrasporti e i Servizi della UIL, abbiamo in questo senso ridotto le sovrapposizioni e ottimizzato le strutture territoriali, riducendo le sedi congressuali da 111 a 76 e mantenendo salda la presenza, nei territori, delle sedi operative.
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Abbiamo fatto tutto ciò insieme, convinti che porterà ad un più proficuo utilizzo delle risorse umane ed economiche a disposizione, per coprire meglio l’articolato panorama delle realtà contrattuali che rappresentiamo. Dal 1° agosto poi una quota maggiore di risorse economiche, che abbiamo deciso sia destinata alle strutture territoriali e regionali, sarà certamente il presupposto per esercitare più efficacemente l’attività sindacale, visto che le agibilità sindacali derivanti dalla contrattazione sono in progressivo calo. Essere forti nei territori è infatti condizione da cui non si può prescindere per la crescita dell’organizzazione, come prodotto di una sempre più efficace capacità di rapporto e confronto con le lavoratrici e i lavoratori sui posti di lavoro. Dai posti di lavoro, dal confronto dentro le aziende dobbiamo partire per meglio intercettare i bisogni di chi vi lavora. Non serve un Sindacato autoreferenziale, un Sindacato che non cerca il rapporto quotidiano con le lavoratrici e i lavoratori. In tal senso, anche per i prossimi anni, dovrà proseguire il costante percorso di modernizzazione del sistema di comunicazione e informazione, così come il percorso formativo iniziato col “Master 500” e con la formazione svolta in collaborazione con ITAL. Sono 250 coloro che hanno terminato il percorso formativo, ragazzi e ragazze con età generalmente sotto i 35 anni e, di questi, 87 sono già stati eletti dai Congressi, ai vari livelli, negli organismi di categoria. Un rinnovamento che è avvenuto in modo equilibrato, senza alcun processo forzato di rottamazione, volto a non disperdere le utili esperienze e altrettanto aperto al nuovo, al cambiamento, ai giovani che intendono impegnarsi, alle differenze di genere. Con la conclusione di questa fase congressuale la presenza femminile è fortemente aumentata in tutte le sedi, perché siamo convinti che le differenze di genere possano esprimere una grande energia ed essere una risorsa da valorizzare, se messe concretamente in condizione di poterlo fare. Abbiamo quindi potenziato le nostre ambizioni, non solo puntando al riequilibrio della rappresentanza di genere, ma soprattutto abbiamo innescato un processo di rinnovamento dei quadri e dei dirigenti basato sul merito e competenze, che riguarda sia donne che uomini. Questa fase congressuale è stata particolarmente importante, perché ha messo in luce la grande forza di questa organizzazione; questo è il risultato di tutti i
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Congressi a tutti i livelli, la stragrande maggioranza dei quali si è svolta in modo fortemente unitario e coeso e per i quali dobbiamo tutti quanti essere fieri, per la qualità in essi emersa. Esprimo inoltre grande soddisfazione in riferimento ai territori della Valle d’Aosta e di Bolzano, che hanno celebrato il loro 1° Congresso Uiltrasporti, a dimostrazione della vitalità della nostra categoria e della sua progressiva, continua crescita. Un’organizzazione sempre più rappresentativa, sul piano associativo, del mondo dei trasporti e in esso del mondo dei servizi, considerando che le lavoratrici e i lavoratori ad esso iscritti raggiungono circa il 40% dell’intera categoria. Pensiamo sia importante sottolineare la stretta connessione e la rilevanza di questo elemento. Il nostro logo da questo Congresso è giusto divenga: “UILTRASPORTI: IL SINDACATO DEI LAVORATORI DEI TRASPORTI E DEI SERVIZI”. La Uiltrasporti, che vogliamo esca da questo Congresso e per il futuro, è quella nella quale prevale l’attaccamento per l’organizzazione, dove l’impegno per i problemi altrui viene prima dei propri interessi, dove la militanza e la pluralità delle idee devono essere un valore e dove deve prevalere la lealtà e l’onestà. In questa Uiltrasporti tutti si devono sentire protagonisti, in questa sfida al cambiamento. E non deve venir mai meno, in tal senso, la correttezza. Quella correttezza che ha permesso di superare difficoltà importanti a livello nazionale e, attraverso la coesione, di mantenere salda la rappresentanza politica e organizzativa anche nei momenti più difficili che abbiamo anche vissuto. Abbiamo fatto crescere la categoria, sotto il profilo degli iscritti e delle relative entrate economiche, di circa il 13%, rispetto al precedente Congresso, seppur in questa fase di crisi occupazionale e di reddito. Questa deve rimanere la nostra stella polare, valori che ci porteranno rapidamente a superare la gestione commissariale della Uiltrasporti Sicilia e ad uscire dall’attuale situazione di stallo, nella Uiltrasporti Basilicata, eleggendo i nuovi organismi. Il cambiamento non va solo teorizzato, ma va praticato.
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Continuando nel percorso di efficientamento complessivo della struttura, proseguendo, come abbiamo fatto, nella trasparenza, nell’utilizzo al meglio delle risorse economiche che le lavoratrici e i lavoratori assegnano alla Uiltrasporti, con grandi sacrifici, per farci noi carico dei loro problemi collettivi. Lasciatemi dire: possiamo farcela, tutti insieme. Consapevoli che c’è un bene prezioso da affermare, la comune difesa del mondo del lavoro. Da organizzazione democratica e riformista non perderemo la nostra fisionomia e la nostra cultura, ma avanzando, col nostro patrimonio, verso il domani, non con lo sguardo alle nostre spalle. Saremo garanti, in ogni nostro convincimento, delle istanze di miglioramento delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, nel quadro più generale e complesso del settore dei trasporti e dei servizi in esso inclusi e, più in generale, del nostro Paese. Ora è tempo di guardare solo al futuro, al passato non si torna. Dobbiamo aiutare con il nostro lavoro a trasportare nel futuro la crescita del nostro Paese. Abbiamo oggi tutte le condizioni per riuscire a fare della nostra UILTRASPORTI quel soggetto di tutela e di cambiamento a cui aspiriamo. Sta solo a noi, al nostro impegno, alla nostra determinazione, alla nostra coesione, alla consapevolezza della bellezza e alla responsabilità dell’importanza di quello che facciamo: migliorare le condizioni di occupazione, lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Viva la UIL e Viva la UILTRASPORTI