UNIVERSITA' IUAV DI VENEZIA Facoltà di Pianificazione del territorio Corso di laurea specialistica in Pianificazione della città e del territorio I - - - U - - - A - - - V CONSUMO DI SUOLO E DISPERSIONE URBANA: APPROCCI ALLA DESCRIZIONE ED INTERPRETAZIONE. Il caso-studio della Provincia di Fermo. Laureando: Andrea Carosi Relatore: prof. Giulio Ernesti Correlatore: Ruben Baiocco Anno Accademico 2010-2011
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CONSUMO DI SUOLO E DISPERSIONE URBANA. Il caso-studio della Provincia di Fermo
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UNIVERSITA' IUAV DI VENEZIA
Facoltà di Pianificazione del territorio
Corso di laurea specialistica in Pianificazione della città e del territorio
I- - -U
- - -A
- - -V
CONSUMO DI SUOLO E DISPERSIONE URBANA:
APPROCCI ALLA DESCRIZIONE ED
INTERPRETAZIONE.
Il caso-studio della Provincia di Fermo.
Laureando: Andrea Carosi Relatore: prof. Giulio Ernesti
Correlatore: Ruben Baiocco
Anno Accademico 2010-2011
in collaborazione con la Provincia di Fermo, servizio Urbanistica
dedicata a Studenti Cà Tron
Perché la rivoluzione possa essere più che una parola,
perché la reazione non ci riporti domani alla situazione
di ieri, la conquista di oggi deve comportare lo sforzo di
esser difesa; il povero di ieri non può essere il povero di
domani.
P. A. Kropotkin, 1902.
Consumo di suolo e dispersione urbana:
approcci alla descrizione ed interpretazione.Il caso-studio della Provincia di Fermo.
Non ereditiamo la terra dai nostri padri: la prendiamo
in prestito dai nostri figli.
Proverbio dei Nativi Americani
keywords: suolo e consumo di suolo
sostenibilità1
dispersione urbana e urban sprawl
governo del territorio
Da diversi anni ormai la Comunità Europea lancia l'allarme sulla necessità di frenare il processo di
cementificazione che sta portando ad un progressivo quanto inarrestabile depauperamento delle
risorse naturali e alla crescita smisurata dei costi, economici ed energetici, cui viene sottoposto il
territorio. Un processo che, oltre ad influire negativamente sulle attività agricole, degenera
nell'opposta crescita smisurata dei costi, economici ed energetici, legati al territorio. Processi di
espansione raramente motivati dall'esigenza della comunità, spesso risultato dell'interesse di pochi.
Il problema del consumo di suolo nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” è un cancro che si porta
via decine di migliaia di ettari ogni anno; in tale processo i terreni acquistano valore economico
principalmente a discapito della produzione agricola e del capitale paesaggistico-ambientale. Le
aree destinate all'edilizia privata, alle zone produttivo-artigianali, commerciali, industriali, con le
relative opere di urbanizzazione, si sono moltiplicate, ed hanno fatto da traino a nuove grandi opere
infrastrutturali.
Il mancato parallelismo tra aumento demografico e ripresa economica da un lato e nuove
costruzioni dall'altro è indice del fatto che il consumo di suolo, nella maggior parte dei casi, nasce
come puro spreco, con decine di migliaia di capannoni vuoti e case sfitte, nonostante la
cementificazione ponga problemi crescenti (primo su tutti il rifornimento delle falde idriche) e non
rechi alcun beneficio né sull'occupazione2, né sulla qualità di vita dei cittadini.
1 Intesa nell'accezione anglosassone, dunque in maniera onnicomprensiva.2 Dalla bolla del 2008 l'edilizia ha perso 210.000 occupati che arriveranno a 290.000 nel 2011, considerando i settori
collegati (fonte ANCE, Associazione Nazionale Costruttori Edili).
I
Questo processo, irreversibile, rischia di portarci ad un punto di non ritorno; molti scienziati
sostengono addirittura che il 31 Dicembre 1986 ha visto l'alba il primo Overshoot Day, il giorno del
sorpasso3: il giorno in cui lo sfruttamento delle risorse (aree agricole, pascoli, foreste, aree di pesca
e spazio utilizzato per le infrastrutture e per assorbire il biossido di carbonio, CO2) supera l'effettiva
biocapacità globale (cioè la capacita dei sistemi naturali citati di produrre risorse e assorbire rifiuti).
Eppure la legge italiana tutela il territorio, addirittura a partire dalla Costituzione: l'art. 9 prevede
che la Repubblica tuteli il paesaggio ed i beni storico-artistici come fatto assolutamente preliminare
a qualsiasi iniziativa di tipo politico e progettuale4.
Vari sono i perchè della situazione attuale, in particolar modo di quella italiana: su tutti
monetizzazione del territorio, speculazione immobiliare e rendita fondiaria. Edoardo Salzano (2010)
sintetizza mirabilmente i due concetti affermando che per un lungo periodo in Italia si è ritenuto
che il predominio della speculazione e della rendita fondiaria, cioè la valorizzazione immobiliare,
fossero qualcosa che bisognava combattere ed ostacolare, o almeno regolare; da un certo momento
in poi è invece accaduto che la legge è stata la massima valorizzazione di tutte le proprietà e la
rendita è tutt'ora considerata un elemento importante per lo sviluppo.
Se da una parte si assiste allo svuotamento di molti centri storici, dall'altra si verifica l'aumento di
nuovi residenti e di nuove attività in spazi che prima erano “periurbani”, o quantomeno non erano
classificati come “urbani”; questo aumento significa a sua volta nuove domande di servizi, e così
via all'infinito, con effetti alla lunga devastanti.
Oggi la città, nelle sue componenti originarie, sta venendo meno; componenti originarie che la
vedono nascere con gli spazi pubblici. L’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo
nell’ambiente, ha generato quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento
della sua vicenda (Salzano, 2010): precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo,
lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a
determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.
Quello che si sta verificando oggi è un processo inesorabile, che ha dato vita a quella che viene
definita la città continua; dove esistevano comuni, paesi, identità municipali, oggi troviamo
3 Fonte Global Footprint Network.4 Art. 9 della Costituzione della Repubblica Italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
II
immense periferie urbane, quartieri dormitorio e senza anime. Una conurbazione che è ormai
completa in molte aree del Paese; il sistema urbano è stato sostanzialmente investito dal fenomeno
dell'urban sprawl, una manifestazione particolare dello spazio costruito5 che può essere definito
come un insediamento a densità molto bassa esterno ai centri urbani, solitamente su terreni di nuova
urbanizzazione, con effetti negativi in particolar modo sulla qualità ambientale e sul benessere della
collettività.
Il contributo delle politiche pubbliche nell'orientare le dinamiche insediative costituisce ad oggi una
variabile esplicativa rilevante dei fenomeni di dispersione periurbana, dunque è assolutamente
necessario riconsiderare in maniera critica gli approcci che interpretano tali fenomeni come
puramente spontanei, guidati e regolati dalle leggi del mercato, e pertanto non governabili
attraverso l'azione pubblica di pianificazione e governo del territorio6; ed è altresì necessario
ripensare e riformare gli strumenti di pianificazione per renderli più efficaci nel governo di quella
che viene ormai definita l'insostenibile dispersione urbana, sull'esempio della maggior parte dei
Paesi europei, in particolare Germania, Francia e Gran Bretagna7.
La frammentarietà e l'inesattezza dei dati disponibili circa l'uso del suolo fanno sì che qualsiasi
tentativo progettuale di governo della dispersione urbana sia impresa ardua e comunque inefficace.
Serve perciò conoscere a fondo il fenomeno, servono informazioni, dati, numeri per sensibilizzare
la coscienza di chi il territorio lo governa e serve informare chi il territorio lo vive. Servono
strumenti che facilitino la conoscenza e servono conoscenze che supportino le politiche attraverso le
quali il territorio viene governato.
E' necessaria una sensibilità comune del fenomeno del consumo di suolo tale che il processo non
prosegua in maniera indiscriminata ed indipendente, ma perché si tenda alla ricerca di un suo limite,
di una sua forma precisa, di un suo disegno pianificato.
Occorre dunque ripensare all'attuale modello di sviluppo, ormai chiaramente in crisi e superato,
riportando al centro dell'attenzione questioni fondamentali come lo è quella, appunto, del consumo
5 Kratochwil Susanne, European Images around Sprawl(ing), relazione presentata alla Conferenza Internazionale City Futures, Chicago, 2004, p. 2.
6 E' nota la posizione di esperti come Bernardo Secchi, per il quale non solo è vano, ma è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo (tratto dal saggio “Descrizione/interpretazioni”, contenuto in Le forme del territorio italiano, 1996).
7 Ma anche sull'esempio di esperienze locali italiane, seppur sporadiche, prima su tutte il nuovo PGT “a crescita zero” del Comune di Cassinetta di Lugagnano (Mi): saturate le zone di espansione, non ne sono state previste altre .
III
di suolo8.
Se si vuole salvare il prezioso suolo che ancora rimane, è fondamentale cambiare rapidamente
anche la legislazione: da supporto passivo ad altre attività economiche, spesso effimere, il suolo
deve diventare ente economico in se stesso, produttore di servizi insostituibili riconosciuti
dall'economia di mercato. Quest'ultima ha tuttavia dimostrato in una cinquantina d'anni di non
essere sufficiente a regolare il prezzo del suolo in base alla sua scarsità: si tratta di uno di quei casi
di “tragedia dei beni comuni” descritta dal biologo Garrett Hardin dove, quando ci si accorge del
guasto, è ormai troppo tardi per ripararlo. Quando avremo nuovamente bisogno del suolo perché la
crisi energetica e climatica sposteranno radicalmente i flussi economici di materia e di energia, il
prezzo dei suoli superstiti forse salirà alle stelle, ma non servirà a restituire alla collettività il suolo
perduto.
I campi di intervento sono innumerevoli e svariano in qualsiasi ambito disciplinare; per quanto
riguarda la scienza della “Pianificazione urbana e territoriale” i punti chiave su cui “investire”
potrebbero essere i seguenti:
• una presa di coscienza della non rinnovabilità della risorsa suolo, che è alla base della
sopravvivenza dell'uomo e di tutte le altre forme di vita sul nostro pianeta;
• avere innanzitutto un quadro conoscitivo completo circa il reale consumo di suolo nazionale,
visto che non abbiamo a tutt'oggi un censimento aggiornato sull'uso del suolo italiano;
• un ritorno nelle priorità politiche delle amministrazioni del criterio dell'urban containment;
• rivedere ed aggiornare il quadro legislativo a livello nazionale, provinciale e comunale,
dettando vincoli rigidi in materia di nuova urbanizzazione, riuso e riqualificazione del
patrimonio edilizio esistente e salvaguardia del patrimonio agricolo, promuovendo politiche
di governo e gestione del territorio nuove e sostenibili;
• una presa di coscienza dell'importanza della dimensione locale intercomunale nelle politiche
di governo della dispersione insediativa periurbana, attraverso innovazioni procedurali,
regolamentari e progettuali di scala vasta e locale;
• il rilancio della pianificazione di area vasta e, per dirla alla Bagnasco, la sua “ri-messa in
squadra”;
• la promozione della cooperazione intercomunale.
8 Con tutte le calamità ad esso connesse, ultima su tutte l'alluvione delle Marche (marzo 2011).
IV
PARTE PRIMA
IL CONSUMO DI SUOLO
- 1 -
La risorsa suolo
Premessa
Il capitale reale delle nazioni, che è permanente e
indipendente da ogni altra cosa...è il suolo. Per
utilizzare e salvaguardare questa importante risorsa è
essenziale il mantenimento della fertilità.
Albert Howard6
Il 31 dicembre 1986 ha visto l'alba il primo Earth Overshoot Day7, giorno del sorpasso. Il giorno
dell'anno in cui l'uomo esaurisce le risorse annuali prodotte dal pianeta, in cui incomincia a vivere
intaccando il capitale, mangiando l'albero dopo averne divorato tutti i frutti, compromettendo così le
risorse dell'anno successivo. Nel 2009 il sorpasso è avvenuto il 25 settembre, nel 2010 il 21 agosto.
A chiunque abbia un minimo di senno verrebbe da chiedersi se non sia forse il caso di rallentare ed
invertire la tendenza. La risposta risulterebbe ovvia, la pratica, però, è esattamente contraria.
Ad oggi, proprio secondo il Global Footprint Network (GFN), noi impieghiamo meno di 10 mesi
per consumare il quantitativo di risorse che la natura genera in 12 mesi.
Il cambiamento climatico è il risultato più drastico di questo continuo dilapidare le risorse della
natura. Ma non è l’unico: la perdita della biodiversità, la deforestazione, la diminuzione del
pescato, l’erosione del suolo, la carenza di acqua potabile sono tutti sintomi del fatto che la natura
sta esaurendo il credito a nostra disposizione.8
Il mese di anticipo (rispetto al 2009) con cui è caduto l’Earth Overshoot nel 2010 non è dovuto ad
un improvviso cambio nella domanda umana, ma piuttosto ad un miglioramento della metodologia
6 Botanico britannico (1873-1947), in An agricultural Testament, Oxford University Press, 1943. E' considerato il padre dell'agricoltura biologica del mondo anglosassone.
7 Da elaborazioni del Global Footprint Network (GFN), organizzazione statunitense di ricerca ambientale, creata nel 2003 con l'intento di rendere possibile un futuro sostenibile, in cui tutti abbiano la possibilità di vivere in maniera soddisfacente con le risorse messe a disposizione dall'unico pianeta di cui disponiamo. Viene misurato l'impatto umano sulla Terra, in modo da poter così prendere decisioni sulla base di maggiori informazioni, utilizzando l'Impronta Ecologica, uno strumento di contabilità delle risorse che misura quanta natura abbiamo a disposizione, quanta ne utilizziamo, e chi usa cosa. Il GFN e la sua rete internazionale di partner è focalizzata a risolvere il problema dell’overshoot, lavorando con i capi dei governi e delle compagnie commerciali del mondo per portare i “limiti ecologici” al centro dei processi decisionali. Fonte: www.footprintnetwork.org
8 Mathis Wackernagel, presidente del GFN.
- 2 -
di calcolo che permette al GFN di valutare con più precisione l’estensione dell’overshoot: i dati più
aggiornati, ad esempio, mostrano che il pianeta ha una minor biocapacità rispetto a quanto si
stimava precedentemente, soprattutto nel settore dei terreni da pascolo.
Impronta ecologica mondiale
fonte: GFN (2010).
Dal programma del GFN si legge: pensiamo comunque che i nostri calcoli sono, se mai,
sottostimati. Sappiamo che viviamo ben al di là dei mezzi che il nostro unico pianeta ci mette a
disposizione. La buona notizia è che molta della tecnologia che abbiamo per cominciare a far
fronte a questo problema è disponibile ed è “open source” come la progettazione urbana compatta,
l’abitare in modo energeticamente efficiente, la riforma per le tasse ecologiche, la rimozione dei
sussidi perversi, una pianificazione familiare sicura e alla portata di tutti, biciclette, diete a basso
contenuto di carne, l’analisi del ciclo di vita.
Possiamo cominciare a ridurre il nostro impatto personale andando meno in macchina, facendo
durare di più le cose che acquistiamo, evitando l’usa e getta, bevendo l’acqua del rubinetto,
mangiando carne meno frequentemente ma di miglior qualità (biologica), risparmiando energia
nella propria casa, ristrutturando l’esistente senza cementificare nuovo territorio.
Chiediamo con forza ai nostri leader locali e nazionali di rinnovare le strategie e spingiamoli a
prendere iniziative necessarie per creare una società più efficiente nell’uso delle risorse. Occorre
investire nelle energie rinnovabili, nell’uso intelligente degli spazi già urbanizzati, nell’abitare e
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nei trasporti eco-efficienti, in primis la bicicletta, e nel contenimento del consumo del suolo.
Impronta ecologica italiana / biocapacità
fonte: GFN (2010).
E' chiaro come la disciplina della Pianificazione Territoriale si inserisce nel dibattito, creando
coscienza critica nei cittadini e negli amministratori e dunque indirizzando le politiche di governo
del territorio all'uso intelligente degli spazi già urbanizzati e al “presidio” di quelle che sono ancora
le aree libere dal processo di antropizzazione o comunque non irreversibilmente trasformate da
esso. Sono necessarie politiche di governance territoriale dichiaratamente mirate al conseguimento
di una più generale ed allo stesso tempo fondamentale forma di governo, gestione e sviluppo dello
spazio urbano, periurbano ed agricolo: politiche di governo che, sin dopo queste prime battute,
sembrano essere imprescindibili dal contenimento del consumo di suolo, dal recupero e
riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e dalla tutela della risorsa suolo in quanto bene
comune e non rinnovabile.
Il dibattito circa il consumo di suolo è dunque tema di estrema importanza ed attualità e, come di
solito accade, si rischia di essere o troppo ideologici o poco attenti alla questione. Trattando di
consumo di suolo, è necessario rispondere dapprima alla domanda su cosa sia “il suolo”.
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Il suolo
Il suolo è un ecosistema che svolge un insostituibile ruolo nei processi ecologici e nei cicli della
materia e dell'energia che li governano. Generalmente però viene banalmente considerato come un
semplice strato di terra nel quale le piante sviluppano il loro apparato radicale e quant'altro.
Con il termine suolo si intende lo strato superiore della crosta terrestre formato da componenti
minerali, humus, acqua, aria ed organismi viventi. Il suolo è un sistema estremamente complesso
costituito quindi da numerosi componenti viventi e non viventi strettamente in relazione tra loro. La
roccia sotto forma, per esempio, di sabbia, ciottoli, limo o argilla, i batteri che hanno un grande
ruolo nella decomposizione e nella fissazione dell'azoto (simbiosi), gli artropodi (larve, ragni,
millepiedi...) ognuno con una sua funzione (decompositore, consumatore, predatore), altri animali
tra cui: molluschi, vermi, mammiferi (che svolgono una funzione importante nell'aerazione del
suolo), le piante che con le loro radici interagiscono sul ciclo degli elementi e dell'acqua, l'humus e
la materia in decomposizione, i funghi, importantissimi decompositori della materia vivente. Tra le
particelle solide del terreno si formano piccole cavità (i cosiddetti pori) dove viene immagazzinata
l'acqua e circola l'aria. I pori possono rappresentare il 50% del volume complessivo del suolo9.
Non c'è componente che sia più importante di un'altra, sono tutte correlate ed hanno proprie
funzioni insostituibili, e il risultato della loro interazione è la biodiversità del suolo. Si passa da un
tipo grezzo ricco in materiale roccioso, le cui caratteristiche dipendono dalla storia geologica del
sito, verso un suolo elaborato e sempre più differenziato, ricco di strati differenziati denominati
“orizzonti”. Il processo di formazione è legato al tipo di roccia e alla topografia, al clima, agli esseri
viventi che lo popolano (e che lo arricchiscono di materia organica) e al tempo. L'irreversibilità
della perdita del suolo non è dunque data solamente dalla sua struttura complessa, ma, appunto,
dalla lunghezza dei tempi necessari per la sua formazione.
Ad esempio i prati da sfalcio o le scarpate lungo le strade, comunque in cui c'è povertà di specie,
richiedono una cinquantina d'anni per cominciare a mostrare un suolo con una struttura definitiva; il
discorso cambia notevolmente per quanto riguarda i prati ricchi di specie o le foreste alluvionali,
con tempi di formazione del suolo che vanno dai 150 ai 250 anni. Prati secchi o paludi hanno tempi
di formazione che vanno da 300 a 1.000 anni, per non parlare poi delle torbiere, che crescono di
9 2009. L'anno del cemento. Dossier sul consumo del suolo in Italia.
- 5 -
circa 1 mm ogni anno.
Il paradosso della realtà attuale sta nel fatto che questi tempi lunghissimi di formazione sono in
assoluta disarmonia con l'estrema rapidità con cui si consuma il suolo, considerando che sono
sufficienti solamente alcune poche ore di lavoro di una ruspa per distruggerlo.
La disponibilità e la possibilità di assorbire sostanze nutritive minerali dal terreno da parte di piante
e microrganismi, sono dei buoni indicatori della fertilità minerale di un suolo. La fertilità è la
capacità produttiva di un suolo: questa produzione non va intesa solo in termini agricoli, ma si
estende a lungo termine a tutta la catena alimentare, dai microrganismi all’uomo. Nel suolo si
possono trovare un numero enorme di forme di vita diverse, concentrate di norma nello strato
superficiale profondo non più di 10 centimetri. Lo strato superiore di un suolo ben sviluppato
contiene, al metro quadro, circa 200 vermi, un miliardo di funghi e 60 mila miliardi di batteri, senza
contare gli insetti, le larve, gli acari o i millepiedi. Non bisogna inoltre dimenticare le piante che,
attraverso le loro radici e l’apporto di materia organica, giocano un ruolo altrettanto importante nel
rendere vivo e funzionale il suolo.
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Le funzioni del suolo
Il suolo svolge come ecosistema numerose funzioni, regolando il ciclo naturale dell'acqua, dell'aria
e delle sostanze organiche e minerali. Filtra e depura l'acqua, immagazzina, trasforma e decompone
le sostanze; è un anello fondamentale del flusso energetico e del ciclo dei nutrienti che
contraddistinguono ogni ecosistema. Con la sua superficie e la sua sostanza, il suolo serve anche per
la produzione di alimenti e di foraggio, funge da fonte di energia e di materie prime e fa da
substrato ai boschi, agli agglomerati urbani, alle infrastrutture di trasporto ed agli impianti di
approvvigionamento e smaltimento. Svolge anche funzioni immateriali in quanto componente della
natura e del paesaggio, memoria storica dell’evoluzione culturale e geologica, luogo sacro per
determinate religioni, oggetto di una sempre più attenta ricerca scientifica, specialmente nel
dibattito internazionale.
I servizi ecosistemici garantiti dal suolo possono dunque essere riassunti in quattro funzioni:
• funzione ecologica: elemento indispensabile nella regolazione dei cicli naturali dell'acqua,
dell'aria, delle sostanze minerali ed organiche: filtra, depura, degrada ed accumula;
• funzione biologica: è l'ambiente di vita di moltissimi esseri viventi, tra i quali
microrganismi, funghi, piante, animali e uomini;
• funzione economica: rappresenta la base della produzione agricola e forestale, è fonte di
materie prime come minerali, argilla, sabbia e ghiaia;
• funzione culturale: inteso come paesaggio, memoria storica e culturale delle attività
antropiche e naturali.
Presupposto fondamentale per assicurare tali funzioni è la non compromissione del bilancio idrico e
della porosità: le piante trovano sufficiente spazio per l'apparato radicale, vi è equilibrio tra i
nutrienti, il tipo e la quantità di organismi che vivono nel terreno ed il tenore degli inquinanti si
mantiene ad un livello tollerabile per le piante e gli organismi del suolo, il quale immagazzina
anche gli inquinanti, motivo per cui spesso anche la contaminazione chimica è un processo
irreversibile. Solamente una struttura intatta può garantirne la piena funzionalità.
Numerose sono le minacce per la sua conservazione, su tutte la distruzione per modifica della
struttura o consumo irreversibile al volere dei principi di edificazione ed infrastrutturazione,
l'eccessivo sfruttamento agricolo (che porta alla condizione dei “suoli esausti”), il compattamento
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del suolo a causa dell'eccessiva lavorazione meccanica pesante e l'inquinamento, dato dai concimi
minerali, dai metalli pesanti e dalle sostanze non biodegradabili immesse in esso.
La protezione del suolo come ecosistema è dunque una necessità primaria che non può prescindere
da una maggior conoscenza di cosa effettivamente il suolo è e dal riconoscimento della sua
importanza e del suo valore, affinchè vi sia una maggior consapevolezza della sua funzione, agendo
nel rispetto del suo ruolo ecologico cruciale. Il coinvolgimento deve essere esteso a tutti, dalla gente
comune ai professionisti dei settori economici, dai decisori politici a tutte quelle figure professionali
che comunque hanno a che fare con il territorio in senso lato.
In questa breve digressione su cosa è il suolo non si può fare a meno di ricordare la posizione
assunta dall'Unione Europea in materia di protezione di suolo, la cui strategia definisce appunto il
suolo come lo strato superiore della crosta terrestre costituito da componenti minerali, organici,
acqua, aria e organismi viventi. Rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua e ospita gran
parte della biosfera. Visti i tempi estremamente lunghi di formazione del suolo, si può ritenere che
esso sia una risorsa sostanzialmente non rinnovabile. Il suolo ci fornisce cibo, biomassa e materie
prime; funge da piattaforma per lo svolgimento delle attività umane; è un elemento del paesaggio e
del patrimonio culturale e svolge un ruolo fondamentale come habitat e pool genico. Nel suolo
vengono stoccate, filtrate e trasformate molte sostanze, tra le quali l’acqua, i nutrienti e il
carbonio10.
Si comprende dunque ancor meglio quanto la “questione suolo” non sia materia esclusiva di
discipline settoriali, ma attraversi temi e interessi plurimi, ribadendo che il suolo è una risorsa
ambientale cruciale per l’uomo e per le sue attività.
Poiché l’uso della risorsa suolo viene effettivamente regolato dai piani urbanistici e territoriali
(regionali, provinciali e comunali) che ne definiscono le norme, la gestione e le trasformazioni, ne
deriva che essi hanno un ruolo particolarmente centrale e delicato in tal senso. Ma, soprattutto,
hanno una grande responsabilità per quelli che saranno gli effetti e le loro ricadute sulla
popolazione.
Si parla dunque di “suolo minacciato”11, frase-slogan che a qualcuno potrebbe sembrare
10 Tratto dalla Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Strategia Tematica per la Protezione del Suolo (COM (2006) 231), art.1.
11 Titolo anche di un illuminante film-documentario di Nicola Dall'Olio (2010), prodotto da WWF e Legambiente di Parma in collaborazione con Il Borgo, Lipu e Città Invisibili.
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eccessivamente ideologica, ma che in realtà è estremamente efficace nel restituire la condizione cui
è sottoposto quotidianamente il suolo, sia a scala vasta che a scala locale: la condizione, appunto,
della minaccia.
- 9 -
Normative e competenze istituzionali: la situazione internazionale
Si è parlato sopra di una strategia per la protezione del suolo, ma allo stato attuale non esiste a
livello europeo una normativa specifica, come ad esempio lo è per l’acqua o per l’aria; il tema viene
trattato in modo trasversale all’interno di altre politiche comunitarie, che dunque rappresentano, per
ora, l’unico modo per consentire e regolare la protezione del suolo.
Negli ultimi anni è però cresciuta la consapevolezza che il suolo, al pari di altri temi e beni comuni,
necessiti di una politica comunitaria ad hoc e l’importanza della protezione del suolo viene oggi
riconosciuta sia a livello internazionale che nell’ambito dell’Unione Europea.
Già al summit di Rio de Janeiro del 1992 furono adottate una serie di dichiarazioni riguardanti la
protezione del suolo. Due anni dopo la Convenzione delle Nazioni Unite per Combattere la
Desertificazione stabilì la necessità di prevenire e ridurre il degrado del territorio, riabilitare i terreni
degradati e quelli affetti da processi di desertificazione. Nel 2001 la Strategia per lo Sviluppo
Sostenibile dell’Unione Europea ed il VI Programma Comunitario di Azione Ambientale hanno
sancito l’obiettivo di proteggere il suolo dall’erosione e dall’inquinamento evidenziando che il
declino della fertilità del suolo è stato causa della riduzione della produttività di molte aree agricole
in Europa.
Nel 2002 la difesa del suolo è stata oggetto di ulteriore attenzione da parte della Commissione
Europea, che ha adottato la Comunicazione definitiva Verso una Strategia Tematica per la
Protezione del Suolo, al quale viene riconosciuto lo svolgimento di molte funzioni vitali dal punto
di vista ambientale, quali la produzione di biomassa, lo stoccaggio e la trasformazione di elementi
minerali, organici e di energia, il filtro per la protezione delle acque sotterranee e lo scambio di gas
con l’atmosfera. Rappresenta inoltre il supporto alla vita ed agli ecosistemi, è riserva di patrimonio
genetico e di materie prime, custode della memoria storica, nonché elemento essenziale del
paesaggio.
Per consentire al suolo di svolgere tali funzioni è necessario difenderlo dalle “minacce” e dai
processi di degrado, individuati nella Comunicazione:
• l’impermeabilizzazione;
• l’erosione causata dall’acqua o dal vento;
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• la diminuzione della materia organica causata da una costante tendenza al calo della frazione
organica del suolo, esclusi i residui animali e vegetali non decomposti, i relativi prodotti di
decomposizione parziale e la biomassa;
• la compattazione per aumento della densità apparente e diminuzione della porosità del suolo;
• la salinizzazione per accumulo di sali solubili;
• gli smottamenti dovuti allo scivolamento verso il basso moderatamente rapido o rapido di
masse di suolo e materiale roccioso;
• la diminuzione della biodiversità;
• la contaminazione dei suoli.
Nel 2003 sempre la Commissione ha dato il via allo sviluppo della Strategia Tematica per la
Protezione del Suolo12 attraverso l’istituzione di Gruppi Tecnici di Lavoro per l’elaborazione di
raccomandazioni sulle diverse tematiche e minacce individuate: adottata nel settembre 2006, è
composta dalla Commissione e da una proposta di direttiva quadro.
La Comunicazione presenta il punto di vista della Commissione Europea sulla difesa del suolo e
stabilisce gli obiettivi di tale politica, che possono essere riassunti nella necessità di raggiungere un
elevato livello di protezione dei suoli su scala europea, con particolare riguardo per le funzioni che
il suolo svolge per lo sviluppo economico e per gli ecosistemi.
La proposta di Direttiva, che istituisce un quadro per la protezione del suolo e modifica la Direttiva
2004/35/CE sulla “responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale”, nasce invece dalla constatazione che la degradazione dei suoli non solo non si è
stabilizzata, ma va aumentando e dunque è sempre più urgente adottare nel contesto della strategia
una normativa specifica per la protezione del suolo.
Il testo della Proposta è fondato sui principi di:
• precauzione e azione preventiva;
• correzione dei danni causati all'ambiente (in via prioritaria alla fonte);
• "chi inquina paga";
• conservazione delle funzioni del suolo;
12 STS: Soil Thematic Strategy.
- 11 -
• prevenzione del suo degrado e ripristino dei suoli degradati;
• mitigazione degli effetti da esso derivanti;
• integrazione di queste problematiche in altre politiche settoriali.
Nell'ambito della proposta di Direttiva, tra le misure indicate:
• istituzione di un quadro comune per la difesa del suolo;
• obbligo di individuare, descrivere e valutare l'impatto di alcune politiche settoriali sui
processi di degrado del suolo;
• obbligo per i proprietari di terreni di adottare misure di prevenzione del degrado dei suoli;
• approccio al fenomeno dell'impermeabilizzazione del suolo;
• individuazione delle aree a rischio di: erosione, diminuzione di materia organica,
compattazione e frane;
• istituzione di programmi nazionali di misurazioni;
• istituzione di un inventario dei siti contaminati e di un meccanismo di finanziamento per
bonifica dei siti "orfani"13 e formulazione di una strategia nazionale di bonifica dei siti
contaminati individuati;
• definizione di "sito contaminato";
• elenco di attività potenzialmente inquinanti per il suolo;
• obbligo, per i venditori o i potenziali acquirenti di terreni, di fornire un rapporto sullo stato
del suolo per ogni compravendita di terreni in cui siano avvenute o siano in corso attività
potenzialmente inquinanti.
La proposta di Direttiva segue il classico iter della procedura di co-decisione, e dunque, dopo essere
passata al vaglio del Parlamento Europeo, è ora in attesa della lettura da parte del Consiglio.
13 Con modifica della direttiva 2004/35/CE.
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Normative e competenze istituzionali: la situazione italiana
Il “governo del territorio”, rientrando nella cosiddetta legislazione “concorrente” tra Stato e
Regioni14, assume i caratteri di una competenza e di una responsabilità condivisa dove entrambi i
soggetti pubblici appunto “concorrono”, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, per il
raggiungimento di una finalità (idealmente parlando) aventi interessi collettivi.
Sulla base di questa riforma si è aperto un dibattito che tentava di far luce sul fatto se l’urbanistica
rientrasse o meno nelle tematiche proprie del governo del territorio; tema apparentemente cavilloso,
ma in realtà fondamentale, poichè teso a chiarire se le competenze dell’urbanistica fossero o meno
esclusive delle Regioni. A chiarire in via definitiva la questione è stata ovviamente la Corte
Costituzionale, che ha affermato che il governo del territorio comprende tutto ciò che attiene
all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti ed attività15.
Nel Bel Paese si costruisce applicando una legge, ripetutamente modificata, che è però impostata su
concezioni ed esigenze che sono oggi lungamente superate. La nostra legge urbanistica nazionale
(L. 1150/1942, la cosiddetta “legge fascista”) risale infatti al 1942, epoca in cui il Paese era da
ricostruire, sviluppare ed industrializzare.
Ciò nonostante introduceva già allora attenzioni e prescrizioni che sono state poi disattese e che
hanno prodotto molti degli scempi sotto i nostri occhi. C'è da chiedersi se ad oggi abbiamo bisogno
di una legge che regolamenti un’esigenza ed una spinta costruttiva, oppure se abbiamo bisogno di
una norma che contenga l'urbanizzazione, di una norma cioè che parta del presupposto che il nostro
territorio è ormai “saturo di cemento” e che il nostro Paese ha bisogno di forme di sviluppo diverse
rispetto a quelle del dopoguerra.
Molti sono stati i tentativi politici fatti per una riforma organica dell’urbanistica; per ricordare i più
recenti basta citare quello dell’On. Maurizio Lupi16 nella XV legislatura. Di fatto la legge
L.1150/1942 è stata modificata ed integrata, ma mai cancellata e soprattutto mai davvero
radicalmente riformata.
14 Il concetto costituzionale del “governo del territorio” è stato introdotto nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione sostituendolo al termine “urbanistica” contenuto nel vecchio testo dell’art. 117.
15 Corte Costituzionale, sentenza n. 307/2003.16 Durissimamente contestato dal mondo ambientalista.
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E' sufficiente scorrere anche in maniera superficiale l’elenco delle modifiche apportate alla legge
per rendersi conto di quanto contorta e tribolata sia la questione:
• legge 21 dicembre 1955, n. 1354;
• legge 6 agosto 1967, n. 765;
• legge 19 novembre 1968, n. 1187;
• legge 1° giugno 1971, n. 291;
• legge 22 ottobre 1971, n. 865;
• legge 28 gennaio 1977, n. 10;
• d.l. 23 gennaio 1982 n. 9, convertito in legge 25 marzo 1982 n.94;
• legge 28 febbraio 1985, n. 47;
• d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito in legge 21 giugno 1985, n. 298; legge 24 marzo 1989,
n. 122;
• legge 17 febbraio 1992, n. 179;
• DPR n. 380/2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia”).
Il tutto contornato da ben tre leggi su condoni che hanno prodotto un numero imprecisato (nessuno
lo sa con esattezza) di abusi sanati e centinaia di migliaia di pratiche ancora giacenti presso i
comuni (molte di queste addirittura da oltre 20 anni).
Ma non è finita qui: verso la fine del febbraio 2009 è cominciata a circolare tra gli organi
istituzionali una strana voce, che prendeva il nome di “Piano Casa”, sancendo definitivamente
l'adozione del concetto costruire = sviluppo da parte dei nostri decisori politici.
Il 20 marzo del 2009 è stata trasmessa ufficialmente dal Governo alle Regioni una prima ipotesi di
decreto legge, in cui si prevedeva tra l'altro:
• aumenti del 20% per tutti gli immobili realizzati, anche in sanatoria, entro il 31 dicembre
2008;
• possibilità di ampliare sino a 300 metri cubi ciascuna unità abitativa;
• possibilità di aumentare le altezze dei fabbricati sino a 4 metri oltre quelle previste dagli
strumenti urbanistici vigenti;
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• ammessi i cambi di destinazione d'uso;
• possibilità di aumentare del 35% la superficie occupata, in caso di abbattimento e
ricostruzione, sia per gli edifici residenziali che per quelli commerciali17.
A fronte della proposta del Governo le Regioni hanno sollevato dubbi di incostituzionalità in merito
alla loro competenza, con riferimento al governo del territorio in senso lato e alle “concessioni
edificatorie” in senso stretto. Ma con la solita e deprimente astuzia che lo caratterizza
quotidianamente, il Presidente Berlusconi smentisce il testo circolato, che viene dunque messo da
parte, e affidato poi ad un tavolo tecnico l'incarico di redigere una nuova proposta “entro una
settantina di ore”18.
Per superare i dubbi suddetti, in sede di Conferenza Unificata è stata raggiunta un’intesa tra lo Stato
e le Regioni19, che riaffida alle Regioni il compito di approvare proprie leggi ispirate a diversi
obiettivi, quali:
• ampliamenti attraverso incrementi volumetrici entro il limite del 20% della volumetria
esistente di edifici residenziali uni-bifamiliari o comunque di volumetria non superiore ai
1.000 metri cubi, al fine di migliorare la qualità architettonica e/o energetica degli edifici;
• demolizione e ricostruzione per edifici residenziali entro il limite del 35%;
• introdurre forme semplificate e celeri per l’attuazione degli interventi di ampliamento e
demolizione, purché in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e
della pianificazione comunale.
Da parte sua lo Stato si impegnava ad emanare, nei successivi trenta giorni dall’intesa, un decreto
legge con l’obiettivo di semplificare le procedure di competenza esclusiva dello Stato per rendere
più rapida ed efficace l’azione amministrativa di disciplina dell’attività edilizia.
L’iniziativa del Governo, formalizzata con l’atto di intesa (fa sorridere il termine) con le Regioni ha
dato la stura ad un moltiplicarsi di iniziative e proposte, tutte sulla falsariga di quelle che (senza le
necessarie competenze) si sarebbe voluto far passare a livello nazionale.
Risultati: tutte le Regioni hanno consentito, seppur con modalità ed attenzioni sensibilmente
17 Aumento possibile solo in caso di adozione di tecniche di bioedilizia o di energie rinnovabili, senza stabilire però nessun indice di efficienza energetica. Venivano fatte salve le zone inedificabili, ma con l'esclusione delle sole zone A dei Parchi, rendendo dunque possibile gli aumenti di volume e di superficie occupata anche nelle aree protette. Inoltre, gli interventi previsti non erano soggetti a concessione edilizia, ma a semplice DIA, e tutte le procedure di controllo venivano fatte mediante autocertificazione.
18 24 marzo 2009.19 31 marzo 2009.
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diverse, un aumento delle cubature esistenti in termini molto simili a quelli proposti dal Governo.
Nel frattempo il 19 luglio 2009 viene dato l’annuncio del varo di un “Piano Casa” del Governo che
in realtà nulla ha a che fare con il “Piano Casa” in discussione da marzo. Si tratta infatti di un
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (e quindi non di un provvedimento legislativo) che
come previsto dalla legge 133/2008 vara il “Piano nazionale di edilizia abitativa”. Non si tratta di
aumenti di cubature, ma del sostegno finanziario ai cosiddetti interventi per social housing; si tratta
insomma principalmente di case popolari, anche se poi il provvedimento prevede pure forme di
finanziamento all’edilizia residenziale pubblica.
Indubbiamente in Italia, nonostante l’enorme quantità di alloggi sfitti e di doppie case, c’è
un’emergenza abitativa sociale. E’ dunque ragionevole che si provveda in tal senso. Il Ministro
Altero Matteoli a seguito di questo provvedimento ha previsto interventi in un quinquennio pari ad
un investimento di oltre 500 milioni di euro con la realizzazione di circa 100.000 nuove unità
abitative per le fasce sociali più deboli. Provando a giocare sui numeri questo potrebbe trasformarsi
in circa 30/35 milioni di metri cubi con un occupazione di circa 1.200 ettari. Si dovrebbe dare così
alloggio a 3-400.000 persone. Numeri importanti ma “relativi” se considerati sul territorio nazionale
e se rapportati al consumo di suolo che ogni anno registriamo.
Il problema non è dunque il provvedimento del Governo sull’edilizia sociale, ma come questo si va
ad inserire sui piani regolatori dei comuni e come si somma sui piani casa delle Regioni.
A questo punto, purtroppo, non occorre neanche rimarcare il chiaro atteggiamento assunto in
materia da parte del Governo Italiano rispetto quello dell'Unione Europea, chiaramente opposti: il
primo, di orizzonti ben più ristretti e limitati rispetto il secondo, basato sulla moneta e
sull'insostenibilità20.
Sono dunque molte le ragioni che condurrebbero ad assumere il consumo di suolo come una delle
minacce più gravi al nostro patrimonio, lo sprawl come una delle sue cause principali ed il suo
contenimento uno degli obiettivi centrali del governo del territorio in Italia21.
La devastazione provocata dal consumo di suolo nel nostro Paese è ormai sotto gli occhi di tutti e i
danni economici di entità smisurata. Danni economici, da ricordare, registrati in Stati coerenti con
una concezione dell'economia che vede l'indicatore del progresso nella crescita quantitativa di
20 Ancora una volta intesa nell'accezione anglosassone.21 M.C. Gibelli, E. Salzano, No Sprawl (2006).
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qualsiasi entità prodotta e con una pratica della politica che la vede serva di quella concezione
dell'economia.
Alla questione suolo va dunque affiancata quella economica, generando un connubio che,
nell'attuale modello di sviluppo, potrebbe esser tradotto con le espressioni di “diritti edificatori” e
“rendita fondiaria urbana”.
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Il suolo e i diritti edificatori
Nei primi mesi del nuovo millennio venne presentato il nuovo Prg capitolino, in gestazione da oltre
un decennio. A partire dalla metà degli anni Novanta la politica urbanistica romana era stata
caratterizzata dagli accordi definiti volta per volta con gli interessi immobiliari, secondo i principi
del “pianificar facendo”: in sostanza, adottando la prassi di definire le scelte sull'uso del suolo con
singoli atti slegati da ogni coerenza complessiva. Approfittando delle smagliature introdotte nella
legislazione urbanistica per consentire deroghe alle regole garantiste della pianificazione, fu
possibile autorizzare l'edificazione di 44 milioni di metri cubi, in aggiunta alle gigantesche
previsioni edificatorie del vecchio piano del 1962 e delle successive varianti22.
Chiaramente non tutti si dichiararono accondiscendenti alle mire del nuovo Prg, in particolar modo
un gruppo di esperti, con a capo Vezio De Lucia, che pubblicarono un testo in cui emersero dati
impressionanti: in una città nella quale la popolazione tendeva a decrescere, i volumi aggiuntivi
realizzabili previsti dal piano ammontavano a quasi 67 milioni di metri cubi, mentre i nuovi spazi
urbanizzabili misuravano quasi 15.000 ettari (una superficie superiore all'intero comune di Napoli),
con un incremento del 45%23. In pratica uno spropositato consumo di suolo, la devastazione delle
ampie porzioni residue del mitico Agro romano, celebrato dalla cultura mondiale, ed un vistoso
regalo agli interessi immobiliari, che riprendevano saldamente nelle loro mani le redini del
comando.
Ma ciò che soprattutto indignava era la formulazione, ampiamente sviluppata e propagandata da
Campos Venuti, di una tesi del tutto infondata, con la quale si sosteneva che una volta che un piano
urbanistico avesse assegnato l'edificabilità ad un'area, questo attributo diventava un titolo che non
poteva esser tolto al proprietario senza un indennizzo adeguato. Era praticamente stata coniata
l'espressione “diritti edificatori”, mai adoperata prima nel diritto italiano.
Paolo Berdini24 documenta che nella capitale sorgevano ovunque palazzoni in aree prive di servizi,
di spazi pubblici, di efficaci collegamenti, mentre il problema della casa per chi non aveva reddito
22 I sostenitori del nuovo Prg sostengono che nel complesso i volumi edilizi del piano non sono aumentati rispetto a quelli del 1962-65. Essi però computano, tra le cubature pregresse cui fanno riferimento, anche le vastissime zone destinate dal vecchio piano a servizi pubblici generali (zone M1). Quindi ammettono almeno un poderoso trasferimento da edificabilità pubblica ad edificabilità privata.
23 Dati tratti dalla relazione Troppo consumo di suolo nel nuovo Prg di V. De Lucia, A. Abbaterusso, G.J. Frisch e A. Giuralongo (2002).
24 Docente di Urbanistica presso l'Università Tor Vergata di Roma.
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sufficiente per accedere al mercato privato continuava a non essere risolto25.
La presunta impossibilità di cambiare le decisioni del passato aveva fornito un ulteriore decisivo
sostegno ad un modo tutto nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o quasi, sulla contrattazione
con la proprietà privata. Riferendosi alla molteplicità di piani “anomali”, derogatori della classica
pianificazione urbanistica, elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli ed approvati a getto
continuo in quelli immediatamente successivi, Salzano osserva che ciò che accomuna la quasi
totalità di questi piani anomali è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo,
celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l'interesse particolare
e subordinano ad esso l'interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e
disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di
(quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento
promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di
derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro
complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia delle pubblicità delle decisioni
prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)26.
Su questa linea si era proceduto, ed il nuovo Prg di Roma era un buon passo in avanti in direzione
del passato più oscuro, comunque preceduto da un'iniziativa del comune di Milano, tesa a superare
in maniera ancor più esplicita i principi ed il metodo della pianificazione pubblica, mediante
l'accordo preliminare con la proprietà immobiliare, teorizzandolo con chiarezza.
Luigi Mazza, colto ed appassionato urbanista, consulente del comune milanese, aveva proposto agli
amministratori un modello alternativo alla cosiddetta pianificazione tradizionale, consistente nel
decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in
un documento “strategico” a maglie larghissime, si potrebbe azzardare “poco più di un
ideogramma”. Il comune da parte sua aveva accolto il suggerimento e approvato un documento,
“Costruire la grande Milano”, sul quale, ovviamente, si aprì subito una vivace polemica, che però
culminò solamente in qualche occasione in critiche (Salzano su tutti), le quali sostenevano che il
nuovo modello di pianificazione si proponeva di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo
per il privato e flessibile per il pubblico, a vantaggio degli interessi del primo, e che ciò avrebbe
provocato una giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno
dell'interesse generale. Comunque sia, l'innovazione milanese incontrava lo spirito dei tempi, cui
25 P. Berdini, Roma tra pianificazione e contrattazione (2008).26 E. Salzano, Il paesaggio, la storia, l'uomo, relazione alla I Conferenza nazionale per il Paesaggio, Roma, 1999.
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l'urbanistica ufficiale era sensibile.
Ma, come accennato sopra, il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle
scelte sulla città e sul territorio fu costituito dalla proposta di legge per il governo del territorio
dell'On. Maurizio Lupi.
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La mancata approvazione della legge Lupi e il ritorno dell'attenzione sul tema
“consumo di suolo”
Maurizio Lupi (a quei tempi esponente di Forza Italia) presentò la riforma di governo del territorio
del centrodestra nel 2003. Egli proveniva dalla Lombardia, dove era stato assessore allo sviluppo
del territorio a Milano. La legge era fondata su “principi etici” immediatamente criticati da una
parte della cultura urbanistica, di cui Salzano è uno tra i maggiori esponenti, sottolineandone i suoi
aspetti più negativi:
• assunzione della contrattazione tra pubblico ed interessi immobiliari privati come motore
della pianificazione urbana, territoriale ed ambientale;
• introduzione del concetto di diritti edificatori, nella formula secondo la quale assegnata
l'edificabilità ad un'area tale attributo diventava un titolo che non poteva esser tolto al
privato senza adeguato indennizzo;
• tendenziale privatizzazione degli spazi pubblici.
Approvata alla Camera dei Deputati, fortunatamente non ebbe la stessa sorte in Parlamento: la sua
approvazione definitiva fu infatti impedita, grazie sopratutto al Senatore dei Verdi dell'epoca, Sauro
Turroni, che tradusse in pratiche parlamentari la critica portata avanti da Salzano e dalla sua scuola,
da Italia Nostra, dal WWF, da parlamentari nell'area della sinistra, non solo radicali e, ovviamente,
dai Verdi.
La prima edizione della Scuola di eddyburg27, svoltasi nel 2005, consacrò definitivamente il ritorno
dell'attenzione su temi quali urbanizzazione e consumo di suolo; era infatti da venti anni circa che
nessuno si occupava più del fenomeno, anni in cui Giovanni Astengo diresse la ricerca campionaria
“It.Urb. 80. Rapporto sullo stato dell'urbanizzazione in Italia”.
Dai dibattiti emersero chiaramente sia l'entità ed i danni provocati dall'indiscriminato consumo di
suolo, sia l'arretratezza in cui si trovava l'Italia (la declinazione del verbo al presente sarebbe più
opportuna) nei confronti degli altri Paesi europei e degli Stati Uniti. Arretratezza che appariva in
tutta la sua drammaticità, a partire dalla mancanza di dati nazionali e regionali attendibili sull'entità
e sugli effetti del fenomeno.
27 Nata nel 2005 come forma di finanziamento del sito da cui prende il nome gestito da Salzano. La finalità della Scuola è fornire ai partecipanti chiavi di lettura critica delle trasformazioni territoriali e degli strumenti di pianificazione.
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La tesi principale si articola a partire dall'assunzione del concetto secondo cui la terra, il territorio
naturale, il suolo non ancora urbanizzato e lasciato libero allo svolgimento del ciclo naturale è una
ricchezza collettiva, un vero e proprio patrimonio. Risorsa essenziale è la sua struttura fisica, come
essenziali sono le azioni che su di essa compiono la flora e la fauna. Le esigenze della società,
dunque gli interessi pubblici, possono richiedere che qualche ulteriore porzione di terreno venga
consumata dall'urbano: ma è doveroso dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non possa
essere soddisfatta altrimenti, e bisogna comunque percepire tale scelta come una “necessaria
perdita”, comunque da risarcire, restituendo alla natura una porzione di territorio non più necessaria
all'urbanizzazione28. Il consumo di suolo non giustificato da un reale e dimostrato fabbisogno
sociale è quindi a tutti gli effetti, per quanto detto sinora, un danno per l'intera umanità.
Rispetto a quanto accadeva fino a pochi anni fa, oggi in molti, perlomeno a parole, considerano il
fenomeno del consumo di suolo come qualcosa da combattere: una calamità da frenare, se non da
arrestare del tutto. Grave e scandaloso è tuttavia il fatto che nessuno sa quanto la dispersione urbana
e il fenomeno dell'urban sprawl (lo sguaiato espandersi di un'urbanizzazione rada e disordinata sui
terreni rurali) incidano quantitativamente sul nostro territorio.
Vengono spesso enunciati dati, grossolani ed estremamente imprecisi ma efficaci nell'esprimere
l'entità del fenomeno visto nella sua tendenza recente. Dati che ci dicono che solamente un decimo
di tutte le aree oggi urbanizzate lo erano prima del secondo conflitto mondiale, il che significa che il
novanta per cento di tutto ciò che oggi è sottratto alla natura, coperto da mattoni, cemento ed
asfalto, è stato prodotto negli ultimi sessant'anni. E, come solitamente accade, specialmente nel
nostro Bel Paese, il disastro prosegue, indisturbato ed addirittura ignorato nella sua reale
consistenza.
Ma i sostenitori delle “attuali forme di sviluppo” hanno vita facile nello smentire qualsiasi tipo di
messa in discussione delle loro teorie, già solo per il fatto che “chi critica” lo fa non disponendo di
dati seri ed attendibili circa l'entità effettiva del danno prodotto. C'è infatti chi si basa:
• sulle statistiche dell'Istat, che misurano la riduzione dei terreni agrari, la quale non è però
solamente dovuta all'espansione urbana, ma in larga misura anche all'abbandono delle
pratiche agricole ed alla progressiva scomparsa delle aziende agricole marginali;
• sui numeri derivati dal programma europeo di rilevazione satellitare del territorio Corine
(Coordination of Information on Environment), non in grado di misurare aree urbanizzate
28 Principio tradotto in termini legislativi dalla “compensazione ecologica preventiva”, che si sta tentando di introdurre nella Regione Lombardia ma anche in altri enti istituzionali, sia provinciali che comunali.
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inferiori ai 25 ettari, trascurando dunque grandissima parte degli insediamenti più
sparpagliati, quali i capannoni isolati, le strade e le altre infrastrutture (il vero e proprio
sprawl).
Gli ultimi tre rapporti dell'EEA confermano la dinamica sempre più preoccupante del fenomeno,
sottolineando come la crescita dei sistemi urbani in Europa sta avvenendo ad un tasso insostenibile,
che comporterebbe il raddoppio delle città nell'arco di poco più di un secolo: essi riguardano infatti
il land cover change (consumo di suolo), lo sprawl e l'evoluzione delle aree costiere.
Si sa molto su ciascun indicatore e fenomeno dell'economia del Paese, si conosce ogni vagito e ogni
sospiro che modifica le componenti della società, ma i dati quantitativi che legano la vita di noi tutti
a quella del territorio che ci ospita ci sono del tutto sconosciuti. Tutto ciò è estremamente
preoccupante sia perchè rende difficili eventuali azioni di gestione, riorganizzazione o salvaguardia
territoriale, ma soprattutto perchè è indice della profonda sottovalutazione di un fenomeno che
definire allarmante è alquanto riduttivo. Una sottovalutazione che, partendo dal mondo
dell'accademia e da quello della ricerca, pervade inevitabilmente quello della politica e
dell'amministrazione.
In Italia, gli urbanisti più sensibili al tema e qualche amministrazione hanno provveduto a proprie
rilevazioni: l'INU e Legambiente hanno dato vita ad un osservatorio, e poco altro è accaduto29. Al
momento i dati disponibili sono parziali, limitati a singole zone, oppure sono desunti dalle solite
fonti insufficienti, oppure ancora derivanti da stime approssimative. Non c'è oggi proposta
legislativa nè atto di pianificazione regionale, provinciale o comunale che non deprechi l'invasione
del cemento o lo “svillettamento” del territorio, e rarissimi sono quelli che realmente ne dispongono
la fine. Fortunatamente nella società è però ampio il movimento che spinge a contrastarli: in tal
senso in Italia la rete “Stop al consumo di territorio”30 è quella di riferimento, e il numero delle
persone, dei comitati e dei gruppi di cittadini che vi aderiscono è sempre maggiore.
29 In tal senso si sono mosse le Regioni Lombardia, Friuli Venezia-Giulia ed Emilia Romagna, e le Provincie di Torino e Lucca.
30 Nata nel 2007 nell'Astigiano, subito sostenuta da Luca Mercalli, popolare meteorologo e critico della devastazione del territorio dai canali televisivi; da Carlo Petrini, l'inventore di Slow Food e di una sana alimentazione; da Domenico Finiguerra, sindaco del comune di Cassinetta di Lugnagano (Milano) che ha fatto il primo PGT a “consumo zero”.
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Il consumo di suolo: definizione
Il consumo di suolo è la misura dell'espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e
naturali, il che equivale a dire che è l'utilizzazione di suolo extraurbano, agricolo o naturale per
nuovi usi insediativi, un effetto collaterale inevitabile della crescita delle città e delle reti31; è
probabilmente la trasformazione più evidente tra quelle che colpiscono il comparto ambientale della
pedosfera (o suolo).
Sorgono necessariamente determinati quesiti. Per citare i più importanti:
• cosa significa realmente consumare suolo?
• Com'è percepito il problema dalla gente comune, dai decisori politici e dalle figure
professionali?
• Il fenomeno è realmente riconosciuto come un problema?
• Come si pone la nostra legislazione al cospetto della “questione suolo”?
• Cosa significa “contenere il consumo di suolo”?
Come accennato sopra, si dibatte da tempo circa il consumo di suolo, ma, perlomeno nel Bel Paese,
non è stato ancora fatto nulla a livello nazionale di concreto e serio per affrontare il problema32.
Anni fa la cultura urbanistica ed ambientalista, riferendosi all'aggressione cui erano sottoposte ad
esempio le coste, le zone archeologiche ed i parchi naturali, chiamava la progressiva urbanizzazione
del territorio in vari modi: cementificazione, urbanizzazione selvaggia, aggressione di aree protette,
abusivismo edilizio. Il problema era comunque visto come un qualcosa di locale, con assoluta
31 Da un intervento di Damiano Di Simine, Presidente di Legambiente Lombardia, al meeting interdisciplinare TERRA! Un bene comune da preservare, Milano, 2009.
32 In molti Paesi europei invece il fenomeno del consumo di suolo non è solo tema da tempo indagato, ma soprattutto è oggetto di disciplina normativa di livello statale o regionale. In alcuni Paesi del Nord Europa in materia di governo del territorio sono state abbandonate le tendenze deregolative (degli anni Ottanta e primi Novanta) in favore di nuove strategie perseguite attraverso pochi regolamenti, chiari e condivisi, attraverso visioni territoriali strategiche e progetti di sviluppo territoriali, non solamente immobiliari.In Francia è stata rilanciata la pianificazione di area vasta e “l'ambito dell'urbanizzazione” è stato separato dalle esigenze di finanza pubblica.In Germania addirittura nel 1998 sono stati fissati limiti al consumo di suolo. Gli strumenti di governo del territorio hanno indicato i nuovi modi di concepire lo sviluppo urbano, nel segno dell'urban containment, recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, rinaturalizzazione, fiscalità premiale di programmi virtuosi (v. politica “30 ettari al giorno”).Anche in Gran Bretagna viene fissato un limite quantitativo di consumo di suolo e si punta al contenimento dello sviluppo urbano e della conurbazione e alla tutela del paesaggio agrario.In Olanda le politiche urbane e territoriali sono sempre più mirate alla concentrazione dell'urbanizzazione in sei grandi network urbani di livello nazionale ed allo scoraggiamento della competizione urbanizzativa dei comuni.
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inconsapevolezza della vastità e dell'importanza del tema.
Oggi con l'espressione consumo di suolo ci si riferisce in maniera più specifica al fenomeno della
cosiddetta dispersione urbana delle aree metropolitane e dei nuclei urbani minori, a discapito delle
aree agricole e naturali: si intende, insomma, la crescita dell'urbano.
Il linguaggio è mutato, così come lo scenario territoriale di riferimento, ma l'attenzione, la
questione, è sempre sulla crescita dell'urbanizzato; una crescita disordinata, molto spesso irrazionale
ed il più delle volte figlia del mondo della speculazione immobiliare e della monetizzazione del
territorio33.
Raramente il fenomeno viene chiamato col proprio nome, più spesso muovendo da specifiche
dimensioni percettive del fenomeno, che talora si manifestano in sussulti emotivi e piccoli moti di
indignazione34: si parla di urbanizzazione diffusa e destrutturazione della forma urbana,
cementificazione e perdita di superficie agricola, degrado del paesaggio, costruzioni in zone a
rischio sismico o idrogeologico, città dispersa, urban sprawl e sue importanti e negative esternalità
socio-economiche, energetiche ed ambientali.
L'EEA afferma che il consumo di suolo è un processo dinamico che altera la natura di un
territorio, determinando il passaggio da condizioni naturali a condizioni artificiali, di cui
l’impermeabilizzazione rappresenta l’ultimo stadio. Il fenomeno riguarda l’insieme degli usi del
suolo che comportano la perdita dei suoi caratteri naturali dando origine ad una superficie
artificializzata, la cui finalità non è la produzione e la raccolta di biomassa da commerciare
(agricoltura e selvicoltura).
Tale problematica pone una serie di questioni, connesse in primo luogo oltre alla perdita e
degradazione di superfici idonee alla produzione agricola come appena detto, alla perdita e
degradazione di superfici idonee all'espressione di biodiversità e qualità paesaggistica, ma anche
alla destrutturazione della forma urbana e dei suoi valori, connessi al sistema delle relazioni sociali
di prossimità, con crescente inefficienza energetica e funzionale di un modello insediativo estensivo
ad alta domanda di trasporto, alla conseguente generazione di inquinamento atmosferico dovuto
all'uso irrazionale dell'auto, alla perdita dei sistemi regolativi associati ai cicli biogeochimici e a
33 Anche Carlo Azeglio Ciampi parlò in termini di “anarchia urbanistica”, fotografando il modo prevalente in cui sono cresciuti negli ultimi quaranta anni gli insediamenti urbani lungo l’intera penisola, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia (Messaggio del Presidente della Repubblica, in Italia Nostra, n. 406, 2004).
34 V. C. Dezza, F. Oliva, Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo. Primo Rapporto 2009.
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quelli idrogeologici, che proprio nel suolo hanno sede.
I fenomeni visibili direttamente sulla morfologia urbana delle città prodotti dal consumo di suolo
sono dunque sostanzialmente tre:
• urban sprawl;
• diffusione dell'insediamento;
• dispersione dell'urbanizzato35.
Il consumo di suolo si accompagna infatti ad un uso sempre più estensivo dello spazio, alla perdita
dei confini della città, alla progressiva formazione di un magma di costruzioni, infrastrutture ed aree
relitte.
Per riprendere le parole di Mathis Wackernagel, la limitazione del consumo di suolo è dunque una
delle scelte strategiche per una effettiva sostenibilità urbanistica, insieme con una politica della
mobilità che sposti quote rilevanti di trasporto individuale motorizzato verso un trasporto collettivo
che utilizzi mezzi non inquinanti e non energivori e insieme con una politica energetica per la città
ed il territorio che riduca gli sprechi attuali ed utilizzi al massimo le fonti alternative. Ciò,
evidentemente, perchè il suolo è una risorsa ambientale finita, non riproducibile e non
rigenerabile, e quindi la sua tutela, che deve necessariamente passare per la progressiva riduzione
del suo consumo, è insita nel concetto stesso di sostenibilità.
Per tentare di capire bene il meccanismo perverso del consumo di suolo è opportuno fare di nuovo
riferimento all'EEA ed ai suoi rapporti in materia36.
Nel Report Land accounts for Europe 1990-2000, tramite la figura interpretativa del triangolo delle
transizioni, vengono concettualizzate le possibili trasformazioni delle coperture del suolo, aiutando
a ricomporre il concetto di consumo all'interno di un quadro tecnico e problematico piuttosto che
ideologico37.
35 Per qualcuno sinonimo di urban sprawl.36 Urban Sprawl in Europe. The ignored challenge. EEA Report no. 10/2006 e Land accounts for Europe 1990-2000.
Towards integrated land and ecosystem accounting. EEA Report no. 11/2006.37 Il termine consumo ha in sé un'accezione non sempre positiva e anche, secondo qualcuno, ideologica.
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Dinamiche dei principali usi del suolo in Europa, 1990-2000
Fonte: EEA. Triangolo delle transizioni:le cifre indicano i kmq di superficie
trasformata nel corso del decennio considerato.
I vertici del triangolo sono le macroclassi di uso e copertura del suolo (urbano, agricolo e naturale),
le punte delle frecce indicano in che direzione è avventa la trasformazione e le cifre mostrano le
quantità di superficie trasformata (in kmq).
Quantitativamente emblematico l'enorme divario tra le nuove superfici “artificializzate” e quelle
urbane restituite all'agricoltura o alla natura, ma il dato più impressionante è la quantità di terreno
sottratto all'agricoltura a favore dell'industria del cemento38.
Una rielaborazione dell'ONCS39 aiuta a far meglio comprendere, seppur superficialmente, le
modalità di trasformazione.
38 Chiaramente la copertura urbana, artificiale, comprende edifici, infrastrutture e spazi pubblici (tra cui le aree verdi).39 Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo.
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Fonte: ONCS. Triangolo delle transizioni.
I vertici rimangono gli stessi, mentre i lati rappresentano i caratteri delle possibili trasformazioni:
continua), esito (artificiale, naturale e seminaturale).
Ne deriva che è possibile classificare una trasformazione del suolo da agricolo a naturale come
permanente, non omologa ed artificiale, mentre una trasformazione da suolo naturale ad agricolo
può essere considerata transitoria, non omologa e seminaturale.
In tal modo le trasformazioni assumono connotazioni differenti a seconda del tipo di transizione,
ovvero dall'origine e dalla destinazione delle coperture. In particolar modo le transizioni verso la
copertura del suolo urbana sono considerabili trasformazioni che alterano tutte le funzioni dello
spazio iniziale, sopratutto in maniera permanente (“frecce continue”). Queste ultime trasformazioni
stanno proprio ad indicare i consumi di suolo.
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Il consumo di suolo in Italia: questione o problema
Fatte salve le precedenti considerazioni, il consumo di suolo, inteso come conseguenza dell'attività
antropica che riduce qualitativamente e quantitativamente i suoli, le aree naturali o libere e le aree
rurali, trasformandole, è un concetto che a prima vista potrebbe dunque sembrare semplice ed
intuitivo.
Formulato in questi termini, a qualcuno verrebbe da pensare che esso sia un'ovvia implicazione
delle attività umane, inevitabili ed irrinunciabili, dal momento in cui tali attività sono da sempre
state praticate dall'uomo al fine di nutrirsi, abitare, muoversi sul territorio e sviluppare relazioni
socio-economiche e, perchè no, ricreative. Si tratterebbe, insomma, di una necessaria conseguenza
della cosiddetta “civiltà del benessere”, dello stile di vita “moderno”.
E' doveroso ricordare che il problema principale sta nel fatto che i più ignorano che il benessere
dell'uomo può essere garantito solamente se il consumo del suolo si mantiene entro una certa soglia,
consentendo di mantenere ecosistemi vitali e funzionali per il benessere della collettività e della
Terra. Se non saremo capaci di invertire l'attuale tendenza, il consumo di suolo e le innumerevoli
conseguenze negative ed irreversibili ad esso connesse saranno sempre più dannose per la
biodiversità40 e, dunque, per la condizione di benessere di tutte le forme di vita sul pianeta,
compreso l'uomo.
Purtroppo non c'è consapevolezza neanche del fatto che il territorio è una risorsa esauribile, tant'è
che le scelte politiche e le tecniche costruttive hanno consentito un'urbanizzazione diffusa,
costruendo dappertutto o quasi; oggi non si salvano dalla dinamica della cementificazione neppure i
posti più impervi. Si è costruito e si continua in maniera spregiudicata a farlo addirittura sfidando la
natura: basta pensare, per fare un esempio, all'urbanizzazione lungo le sponde fluviali, affidandosi
sulla tenuta di opere di contenimento che, specialmente oggi che i cambiamenti climatici hanno
determinato picchi assolutamente imprevedibili di precipitazioni, sono davvero una specie di
scommessa col destino.
40 L'insieme di tutte le forme viventi geneticamente diverse e degli ecosistemi ad esse correlati. Implica tutta la variabilità biologica: di geni, specie, habitat ed ecosistemi. L'anno 2010 è stato dichiarato dall'ONU l'Anno internazionale della biodiversità.
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Ed è così che, in Italia come in Europa, l'occupazione di terreno libero da parte di infrastrutture
viarie ed insediamenti antropici è cresciuta in maniera esponenziale, consumando e logorando una
risorsa non rinnovabile, quale è appunto il suolo del territorio libero.
Tutto ciò è stato possibile, perlomeno in Italia, grazie alla tessitura di una trama normativa che
consentisse tutto ciò, cioè che portasse l'urbanistica verso una deregulation la quale ha visto, in
tempi di crisi finanziaria, da una parte un contraente molto forte, il privato, dall'altra gli enti locali,
messi in una situazione di debolezza, molto bisognosi di incassare gli oneri di urbanizzazione o di
avere qualcuno che facesse in vece propria le opere utili e necessarie per la collettività.
E' chiaro che su uno sfondo complessivo di assenza di cultura di governo del territorio, forse anche
assenza di minima coscienza amministrativa, gli effetti sono stati devastanti, in modo irreversibile.
È arrivata poi la crisi economica, calata impietosamente su questa situazione, calata su questa mole
di architettura, spesso cattiva e fuori scala rispetto al contesto. Un contesto dal quale è slegata sul
piano delle esigenze sociali e civiche. Un'architettura potente e determinata soprattutto, in tempi di
crisi economica, dalle necessità delle imprese di non fermarsi, visto e considerato che l'attuale e
dissennato modello di sviluppo vede gli interventi di nuova costruzione come motore dell'economia.
Crisi economica che se da un lato spingeva l'impresa a continuare a fare, per non fermarsi, dall'altro
lato ha determinato un forte calo di domanda nel mercato. Si potrebbe quindi azzardare che sia
stato il mercato, non la politica o la cultura, a limitare in minima parte questo processo di
“cannibalismo” del territorio.
Rispondere alla domanda se la questione “consumo di suolo” sia anche un problema è opinabile e
assolutamente personale, anche se basterebbero da soli corretti principi etici per far pendere l'ago
della bilancia chiaramente verso un netto e preciso schieramento.
Comunque sia, la sottovalutazione del fenomeno non è priva di motivazioni forti: essa non è
distrazione o quant'altro, ma è coerenza con quella concezione dell'economia che vede l'indicatore
del progresso nella crescita quantitativa di qualsiasi entità prodotta. Concezione dell'economia che
fa da padrona e che detta dunque gli indirizzi “strategici” alle pratiche politiche che governano la
nostra società ed il nostro territorio. Ed è coerenza con una connotazione specifica e tipica italiana,
che rende il nostro Paese distante dalla maggior parte degli altri Stati Europei: l'imponente peso
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assunto dalla rendita immobiliare nel nostro sistema socio-economico.
Nell'effettuare una valutazione delle condizioni economiche e territoriali della penisola non si può
fare a meno di ricordare l'incompiutezza della rivoluzione capitalistico-borghese del nuovo Stato
italiano, il compromesso che la borghesia del nord strinse con la proprietà latifondista del sud, e
poi con l'aristocrazia all'ombra del Cupolone41. Le distorsioni parallele tra territorio ed economia
radicano proprio a partire da questa situazione: la rendita fondiaria come componente rilevante della
ricchezza della classe dirigente, lo sfruttamento del territorio a fini edilizi come sua vocazione.
Alla strategia celata in questa distorsione di fondo è funzionale anche l'altra caratteristica principale
del nostro sistema socio-economico, cioè la forte spinta all'affermazione della proprietà privata in
tutte le sue forme e declinazioni. Una concezione della proprietà privata intesa non come premessa
e base per l'invenzione di nuove forme di produzione e di arricchimento, ma come assicurazione
contro le incertezze quotidiane; non come fattore di dinamismo, dunque, ma come fattore di
stabilità sociale. In termini più consoni alla dialettica territoriale, la proprietà privata come
formatrice di quelle “fanterie” che, aggregate attorno agli stati maggiori del “blocco edilizio”,
hanno impedito ogni riforma seria dei modi di governo del territorio42.
Chiamare in causa tali tematiche che fanno da sfondo al problema del consumo di suolo potrebbe
essere d'aiuto nel tentativo di far comprendere le ragioni per cui in Italia tale fenomeno è
generalmente ignorato, mentre in tutti gli altri Paesi europei è riconosciuto, temuto, misurato e
combattuto.
Stefano Pareglio43 ha ben sintetizzato la situazione in cui si viene a trovare il dibattito pubblico
italiano in materia:
quando sul consumo di suolo non cala un silenzio testimone di sostanziale disinteresse, o non si
abbattono roboanti quanto vuote affermazioni di (soli) principi, il dibattito pubblico rimbalza tra
due posizioni ormai cristallizzate: da un lato, la pervicace rivendicazione del superiore interesse
per la “libertà” di impresa e di scelta individuale; dall'altro, il tenace tentativo di difendere un
bene irriproducibile e in via di rapido esaurimento.
In questo confronto di valori, tra individuo e comunità, tra breve e lungo periodo, è necessario
schierarsi, e farlo in difesa del suolo: non solo per un doveroso principio di precauzione nell'uso di
41 M.C. Gibelli, E. Salzano, No Sprawl (2006).42 V. Parlato, Il blocco edilizio, da Il Manifesto, n. 3-4 (1970).43 Docente di Economia Ambientale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia.
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una risorsa scarsa e indispensabile alla vita dell'uomo, ma anche perchè il consumo di suolo è
correlato a una crescente inefficienza – ambientale, economica e sociale – nell'organizzazione
territoriale (2006).
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La mancanza di dati
Una prima ragione a favore del contenimento del consumo di suolo è dunque di ordine quantitativo,
dal momento che sia il dato sulla quantità totale di territorio urbanizzato, sia il dato sul suo
incremento sono condizionati dai limiti analitici propri dei database impiegati. Nessun Ministero o
istituzione si è mai preoccupato di fornire dati in tale orizzonte, e dunque essi non sono mai stati
raccolti ed elaborati con sistematicità e criteri univoci, a partire dalla definizione di cosa debba
intendersi per consumo di suolo.
Dieci anni dopo l'ultimo censimento nazionale non esistono infatti dati aggiornati e credibili sul
consumo di suolo in Italia; l'unica certezza è che per governare tale dinamica è assolutamente
necessario conoscere i dati reali di partenza. Sono d'accordo con Campos Venuti quando sostiene
che una visione ideologica della questione ha fatto dimenticare che la riduzione della superficie
coltivata (la Superficie agricola utilizzata, Sau nelle statistiche) non è dovuta che in parte alla
cementificazione, ma più in larga misura all'abbandono dell'attività agricola; anche perchè la
politica agricola comunitaria con il set aside44 finanzia la eliminazione di certe coltivazioni, per far
crescere il valore dei prodotti.45
Corrado Barberis, direttore dell'Insor46, in La rivincita delle campagne parla di “analfabetismo
statistico”: si citano le cifre del telerilevamento, che indicano in 2,7 milioni su 30 totali gli ettari di
territorio italiano urbanizzato (12,7 sono invece gli ettari coltivati, 10,5 quelli a bosco). Le minacce
incombono, annota Barberis, ma siamo ancora in tempo per salvare il salvabile. L' Italia non è
ancora tutta cemento. Il telerilevamento è fondamentale per cogliere i grandi insiemi (città,
campagna, boschi) ma, segnalano urbanisti e agronomi di diversa scuola, non coglie ciò che accade
al di sotto di una certa estensione. Sfugge, per esempio, la villetta con un ettaro di giardino intorno,
che è il modello insediativo prevalente negli ultimi anni fuori dai confini della città. Un tempo
l'espansione cittadina dipendeva da una variabile ben precisa: la popolazione. Oggi la variabile è
impazzita. Cresce l'Italia rurale, per molti aspetti si pareggiano i conti con la città, ma il rullo
compressore dell'edilizia potrebbe schiacciare tutto, in campagna come in città.
44 La UE ha sempre avuto dei problemi si sovrapproduzione e quindi per ridurne la quantità ha dato premi a chi volontariamente "metteva a riposo" (questo il significato del termine) i terreni, togliendoli dalla normale rotazione agraria.
45 In Città senza cultura. Intervista sull'urbanistica.46 Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, fondato nel 1959 da Manlio Rossi-Dora, Giuseppe Medici e Umberto
Zanotti-Bianco.
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Barberis sostiene inoltre che la superficie coltivata in Italia fra il 1962 ed oggi è passata da 158.000
a 127.000 chilometri quadrati, dunque una perdita di 31.000 chilometri quadrati in 46 anni, ma allo
stesso tempo fornisce una serie di dati socio-economici che testimoniano una sorta di rilancio
dell'agricoltura italiana47.
Resta il fatto che ad oggi i dati generali di livello nazionale che circolano sono totalmente
inattendibili. Essi si riferiscono o alla riduzione delle aree agricole calcolata dall'Istat, pari a
3.500.000 ettari nel periodo 1990-200548, o alle rilevazioni satellitari su base Corine.
Gli unici dati ufficiali disponibili su base nazionale sono dunque quelli elaborati da APAT (poi
ISPRA)49 sulle coperture del suolo nell'ambito del progetto europeo Corine Land Cover50. Da tali
dati risulta che la superficie urbanizzata in Italia è di 1.474.000 ettari, con tasso di crescita di 8.400
ettari l'anno e un valore procapite pari a 225 mq/abitante di superfici urbanizzate. Come già
accennato, il grosso limite del Corine risiede però nel fatto che, essendo l'unità minima di territorio
omogeneo rilevato pari a 25 ettari, sfuggono all'indagine l'edificazione sparsa, i nuclei di abitazioni,
47 Quello che emerge è il ritratto di una nuova società rurale, più ricca, più istruita, più giovane. Quel che si racconta è una storia nuova: gli italiani le campagne le hanno prima abbandonate, fuggendo la miseria e rincorrendo i miraggi industriali, poi il flusso si è arrestato e quindi invertito.Da anni è in atto un contro esodo che, si può aggiungere, è anche l'effetto della città che si disintegra e che invade scompostamente il territorio circostante. Il fenomeno è controverso: da una parte c' è la marmellata di villette e capannoni, che forma insediamenti i quali non sono più città, ma neanche campagna e solo paesaggi massacrati; dall'altra c' è questa nuova vita rurale raccontata da Barberis, con caratteristiche che fanno sbiadire le istantanee di un mondo contadino con i volti ossidati dal sole, gli interni delle case sberciate; un paese simile a se stesso dal Veneto alla Basilicata.
48 Da ribadire che tale riduzione non dipende solamente dal consumo di suolo, ma anche dall'uscita dal mercato di aziende agricole, dalla rinaturalizzazione di aree marginali e dall'abbandono di aree coltivate.
49 Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ex APAT (Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici).
50 Corine (CooRdination of Information on the Environment). Il progetto è nato a livello europeo specificamente per il rilevamento e il monitoraggio delle caratteristiche di copertura e uso del territorio, con particolare attenzione alle esigenze di tutela ambientale. La prima realizzazione del progetto CLC risale al 1990 (CLC90), mentre gli aggiornamenti successivi si riferiscono all’anno 2000 tramite il progetto Image & Corine Land Cover 2000. L’iniziativa, cofinanziata dagli Stati membri e dalla Commissione Europea, ha visto nel 2000 l’adesione di 33 Paesi tra i quali l’Italia, dove l’Autorità Nazionale per la gestione del progetto è stata identificata nell’APAT, in quanto punto focale nazionale della rete europea EIOnet. Nel Novembre del 2004 il Management Board dell’EEA, a seguito delle discussioni tra gli Stati Membri, l’Unione Europea e le principali istituzioni della stessa (DG ENV, EEA, ESTAT e JRC), ha valutato la possibilità di aumentare la frequenza di aggiornamento del CLC ed ha avviato un suo aggiornamento riferito all’anno 2006 e sviluppato nell’ambito dell’iniziativa Fast Track Service on Land Monitoring (FTSP) del programma GlobalMonitoring for Environment and Security (GMES). Con questo progetto si è inteso realizzare un mosaico Europeo all’anno 2006 basato su immagini satellitari SPOT-4 HRVIR, SPOT 5 HRG e/o IRS P6 LISS III, ed è stata derivata dalle stesse la cartografia digitale di uso/copertura del suolo all’anno 2006 e quella dei relativi cambiamenti. Nell’ambito del progetto saranno inoltre prodotti due strati ad alta risoluzione; il primo consiste nella mappatura delle aree impermeabilizzate, mentre il secondo è relativo alla copertura forest/no forest con discriminazione di conifere e latifoglie.
le infrastrutture, le catene di capannoni e di casette51.
Nel 2009 Paolo Berdini52, interpretando i dati forniti dall'Istat sulle volumetrie realizzate in Italia
nel periodo di tempo che va dal 1995 al 2006, ha stimato con ragionevole approssimazione il valore
del consumo di suolo in atto nel nostro Paese, anche se si deve sottolineare preliminarmente che le
informazioni Istat sono sicuramente sottostimate rispetto alla realtà53, basandosi sull'invio dei dati
relativi al rilascio delle concessioni edilizie da parte delle amministrazioni comunali. Un “invio”
non sistematico54 a cui si aggiunge la mancanza dei dati figlia del fenomeno dell'abusivismo
edilizio, quantitativamente importante in molte regioni italiane, sopratutto quelle meridionali.
Sempre Berdini afferma che pur con questi limiti i dati riescono a fornire un quadro attendibile e
soprattutto verificabile attraverso le letture della crescita dell'urbanizzazione del territorio che
iniziano ad essere prodotte alla scala locale.
In conclusione, ne viene fuori un quadro piuttosto approssimativo ma comunque abbastanza
sconcertante, se paragonato ai principali dati territoriali della Penisola55:
• 390.000 ettari circa di territorio consumato dal segmento residenziale56;
• 210.000 ettari circa di territorio consumato dal comparto produttivo57;
51 Nella Provincia di Lucca, per esempio, l'amministrazione ha fatto un confronto puntuale tra il consumo reale, misurato sulle mappe topografiche, e quello del Corine. Il consumo reale è risultato essere pari a 17.000 ettari, a differenza degli 11.000 ettari rilevati dal Corine: più del 50% in meno (cfr. M. Baioni, M. P. Casini (a cura di), a cura di, Prospettive per il governo del territorio, Provincia di Lucca, 2006).
52 Ingegnere, svolge attività di pianificazione urbanistica e consulenza per le pubbliche amministrazioni. Membro del consiglio nazionale del WWF, collabora con il quotidiano “Il manifesto”.
53 Da Il consumo di suolo in Italia: 1995-2006.54 Causa principale della sottostima dei dati rispetto la situazione reale.55 Superficie territoriale 30.133.600 ettari, superficie forestale 6.857.100 ettari, superficie ad alta sismicità 2.802.600
ettari, superficie aree protette 5.971.600 ettari. Fonte: Rapporto Istat Italia in cifre, 2010. 56 Valore risultante dalla somma tra 136.000 ettari di territorio fondiario consumato dai 562.885 edifici residenziali
costruiti nell'arco temporale considerato (per calcolare la dimensione del lotto impegnato dall'edificio medio si è assunto il valore del rapporto tra superficie coperta e superficie fondiaria contenuto nel decreto ministeriale sugli Standard urbanistici che per le zone “B” stabilisce un parametro pari a 1/8 tra impronta dell'edificio e superficie fondiaria), 196.000 ettari di terreno per urbanizzazioni primarie, servizi e parcheggi (si è considerato che per le zone a bassa densità il rapporto tra la superficie fondiaria e quella territoriale è generalmente di 4 a 6) e 65.000 ettari di terreno consumato dall'abusivismo edilizio (il peso dell'abusivismo è sistematicamente stimato da Ecomafia, pubblicazione annuale curata dall'Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente che stima intorno al 20% la percentuale dell'abusivismo sulla quota legale).
57 Valore risultante dalla somma tra 164.300 ettari di superficie fondiaria con destinazione produttiva (l'Istat ha certificato che sono stati realizzati 246.451.984 mq di manufatti produttivi; assumendo un indice di occupazione medio dei lotti pari al 30% si raggiunge un valore fondiario dei lotti edificati pari a 82.150 ettari, che raddoppiano tenendo conto delle strade di allacciamento e distribuzione e dei parcheggi), 10.000 (9.194) ettari di terreno consumato per ampliare gli edifici produttivi esistenti (anche in questo caso l'Istat certifica che i metri quadri utilizzati per ampliare edifici produttivi sono stati pari a 45.974.441, da raddoppiare tenendo conto delle opere di urbanizzazione) e 34.700 ettari di terreno consumato dall'abusivismo edilizio (anche qui per quel 20% di cui sopra).
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• 150.000 ettari circa di territorio consumato per la realizzazione di infrastrutture58.
La somma totale porta ad un valore di 750.000 ettari di territorio consumato, in media calcolato su
cifre che vanno oltre i 68.200 ettari ogni anno, pari a 11,6 mq di suolo per abitante ogni anno. Tale
risultato è stato verificato con quelli desunti da concrete indagini di campo, in particolar modo con
la Provincia di Milano59, risultando sottostimato.
58 Valore esito di una stima prudenziale, considerando che in questo caso non si può fare affidamento su alcun dato statistico. Per stimare si è operato sui valori della larghezza standard degli impalcati infrastrutturali per le tipologie ferroviarie e per quelle autostradali e stradali, mentre il parametro lunghezza è stato calcolato sulle più recenti opere, quali tratta di alta velocità ferroviaria tra Napoli e Torino, terze corsie autostradali (Roma-Orte, tratta Adriatica, ecc), nuove tratte (variante di valico appenninico, ecc), adeguamento del GRA a Roma e Salerno-Reggio Calabria.
59 La quale ha pubblicato nel 2009 il Quaderno n. 28 del Piano Territoriale dedicato al consumo di suolo: Consumo di suolo. Atlante della provincia di Milano.
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Crescita demografica, nuove urbanizzazioni e monetizzazione del territorio
Tra le domandi frequenti alle quali non c'è generalmente una risposta convincente ed esaustiva c'è
quella che riguarda l'antinomia tra andamento demografico e nuove urbanizzazioni.
A titolo di esempio, nella regione Molise la popolazione è pressochè costante dal 1861, a fronte
dell'enorme incremento di suolo urbanizzato. In realtà il discorso vale un po' per tutta l'Italia, negli
ultimi decenni caratterizzata da una certa stabilità demografica, in totale controtendenza con i dati
forniti dall'Istat, secondo i quali sarebbero stati urbanizzati 3 milioni di ettari di territorio, un terzo
dei quali agricolo, tra il 1990 ed il 2005, e dall'EEA, che rileva un incremento di quasi 8.500 ettari
ogni anno nel periodo compreso tra il 1991 ed il 2001.
Una prima risposta deve tener conto del fatto che la società attuale ha necessità di spazi di azione
maggiori che non nel passato e possiede una capacità di spostamento a velocità infinitamente
superiori. Ciò comporta una variazione enorme nel rapporto tra le superfici edificate, quelle
effettivamente coperte dal sedime degli edifici, e le superfici urbanizzate, quali pertinenze
pubbliche, private e viabilità.
Nell'insediamento storico uno degli obbiettivi di una buona “progettazione” era quello di
minimizzare i tempi di accesso tra abitazioni e servizi urbani. Oggi non c'è più interesse a garantire
tale rapporto.
In secondo luogo, la geografia dei nuovi insediamenti, in Italia fortemente vincolata dal disegno
della proprietà fondiaria, con enormi difficoltà nel conseguimento di quegli assetti di aggregazione
spaziale che potrebbero addirittura creare forme di economie di scala negli spostamenti e
nell'erogazione di servizi comuni. Ciò comporta un'elevata dispersione territoriale degli interventi,
con polverizzazione degli stessi, spesso a bassissime densità60.
La proliferazione edificatoria sganciata dall'andamento demografico è poi provocata anche da
fenomeni squisitamente economici, tanto che anche nelle realtà meno produttivamente dinamiche
ed economicamente marginali il modello di ripresa e di sviluppo economico si basa in gran parte
60 Se si pensa poi al sistema infrastrutturale connesso, nel 2005 si contavano quasi 200.000 chilometri considerando solamente le autostrade, le nazionali e le provinciali, a meno del reticolo più denso, quello comunale, vicinale e rurale, che probabilmente porterebbe questo dato ad un valore almeno triplo.
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sull'industria delle costruzioni, anche in presenza di una recessione conclamata delle iniziative
produttive ed industriali. Si aggiunga a ciò la fluttuazione dei titoli finanziari che ha reso per lunghi
periodi conveniente e remunerativo investire nel mattone alimentando il mercato immobiliare in
misura del tutto scollegata dalle esigenze residenziali reali.
Nel 2004 l'ISPESL (Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro) dichiarò che l'industria
delle costruzioni in Italia, allo stato attuale, è l'unico settore industriale che non è in declino. Anzi
per il quinto-sesto anno il settore vede un'evoluzione positiva che si traduce in un incremento,
rispetto allo scorso anno, degli investimenti dell'1,8% ed una crescita della manodopera occupata
in edilizia di oltre 48.000 unità. Dal 1998 al 2003 gli investimenti nelle costruzioni sono aumentati
del 17,6%, il PIL è aumentato del 7,2%. Ciò a testimoniare che parte della ricchezza nazionale è
dovuta all'industria delle costruzioni. Gli investimenti nelle abitazioni sono quelli che presentano
una costante crescita. Su 61.590 milioni di euro investiti in abitazioni, 29.717 milioni riguardano le
nuove abitazioni. Per il 2004 si valutano investimenti di 30.704 milioni di euro in nuove abitazioni.
La crisi di fiducia da parte degli investitori azionari fa sì che la bolla speculativa nel settore
immobiliare non accenni a terminare anche se nelle grandi aree metropolitane il livello dei prezzi
degli immobili (abitazioni nuove) è fortemente aumentato (10,2% rispetto allo scorso anno) mentre
è aumentato del 7,7% nelle città intermedie. Lo sviluppo dell'industria delle costruzioni,
ovviamente, trascina uno sviluppo dell'occupazione del settore e dell'intero sistema economico: il
tasso di sviluppo dell'occupazione nel settore è doppio a quello che si registra nell'intero sistema
economico. Gli occupati sono passati da 1.707.000 unità nel 2001 a 1.840.000 unità nel I trimestre
del 2004.
E ancora il Centro Studi dell'ANCE (Associazione Nazionale dei Costruttori Edili) nel 2008: il
comparto delle costruzioni ha trainato negli ultimi nove anni l'economia nazionale crescendo del
27,1% e, significativamente, più di quanto sia cresciuto il PIL nel medesimo periodo (13,5%). Il
2007 è il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l'anno in cui i
volumi produttivi raggiungono i livelli più alti dal 1970 ad oggi. Dal 2005, però, la produzione
cresce a ritmi più contenuti e si registra la più bassa performance di sviluppo tra i Paesi dell'UE,
che senza l'apporto delle costruzioni sarebbe stata ancor più modesta. In nove anni, infatti,
l'incidenza degli investimenti in costruzioni sul PIL è passata dall'8,2% del 1998 al 9,9% del 2007.
Solamente nel 2004 in Italia sono state autorizzate con permesso a costruire quasi 54.000 fabbricati,
per un volume totale di oltre 115 milioni di metri cubi (il 20% in più dell'anno precedente) tra i
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quali sono da annoverare circa 250.000 unità abitative con quasi 20 milioni di metri quadrati di
superficie utile abitabile (il 13% in più dell'anno precedente)61.
E' a questo punto ancora più chiara la tendenza italiana: mentre i governanti di molti Paesi Europei
da anni hanno attivato politiche capaci di ridurre il fenomeno, in Italia non si fa nulla. Anzi,
costruire nuove strade, case, quartieri, incoraggiare la disseminazione di edifici e capannoni sul
territorio, come dimostrato dai dati appena elencati, è considerato un incentivo allo sviluppo: un
fatto che si ritiene comunque positivo, indipendentemente dalla effettiva utilità di ciò che si
costruisce.
Il giocatore che dovrebbe ricoprire un ruolo strategico nella partita urbanistica è il Comune, al
quale, come sostiene il Testo Unico degli Enti Locali all'articolo 13, spettano tutte le funzioni
amministrative che riguardano l'assetto e l'utilizzo del territorio. In realtà i comuni ed il loro sindaci
hanno abdicato, o sono stati destituiti, dal ruolo di “gestori del territorio”. Da almeno due decenni si
assiste a politiche urbanistiche pensate ed orientate non dalla competente autorità comunale,
nell'interesse generale della collettività, bensì dai grandi operatori immobiliari che, ovviamente,
perseguono i loro legittimi interessi privati. Questo a causa delle sempre più precarie condizioni
economiche in cui versano i comuni, a seguito dei tagli previsti dalle leggi finanziarie. L'abolizione
dell'ICI ha provocato un ulteriore aggravamento della situazione. Dunque, entrate in forte
diminuzione e uscite in costante aumento, con l'inevitabile produzione di bilanci in forte
disequilibrio.
In assenza di una reale autonomia finanziaria per un sindaco e per la sua giunta è sempre più arduo
far quadrare i conti, realizzare le opere pubbliche, garantire ai cittadini servizi indispensabili e
costruirsi il consenso presso gli elettori. Risulta dunque difficile trovare il modo di pareggiare il
bilancio.
Ma la legislazione offre un ottimo escamotage per far fronte (almeno nell'immediato) a questa
difficoltà: monetizzare il territorio, considerato solamente come merce da svendere ai privati per far
quadrare i conti pubblici. La legge 449/199762 consente infatti di applicare alla parte corrente dei
bilanci gli oneri di urbanizzazione. Un servizio deleterio, che permette di finanziare i servizi ai
cittadini con l'edilizia, la quale produce nuovi residenti e nuove attività, e quindi una maggior
61 Dati Istat.62 Legge 27 dicembre 1997, n. 449: “Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”.
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domanda di servizi, e così via, fino all'esaurimento del terreno a disposizione. Essendo infatti il
suolo un elemento finito, prima o poi queste entrate termineranno, lasciando i comuni in una
situazione ben più grave di quella di partenza. Si tratta dunque di un vero e proprio circolo vizioso
insostenibile nel tempo.
Si fa quindi riferimento a ciò che è stato definito come un “conflitto d'interesse” dei comuni che, da
un lato, dovrebbero pianificare il proprio territorio ispirati dalla tutela e valorizzazione ambientale e
paesaggistica, dalla sostenibilità del progetto di sviluppo economico, urbanistico ed infrastrutturale,
dall'attenzione alla qualità e accessibilità sociale dell'abitare, lavorare, muoversi e usare il tempo
libero, dalla valorizzazione delle attività produttive agricole; dall'altro, sono spinti dalla discutibile
politica finanziaria dello Stato, dichiarata come volta al contenimento della pressione fiscale e della
spesa pubblica, a favorire nuove urbanizzazioni col solo fine di incassare gli oneri di costruzione.
Monetizzazione del territorio dunque, che ha contribuito in larga parte al formarsi di aree di
conurbazione tra comuni un tempo separati ed alla formazione delle cosiddette “città continue”.
Attorno a tutte le aree metropolitane d'Italia si sono formate immense periferie urbane, quartieri
dormitorio, luoghi senza storia né anima. Eppure, nonostante la previsione di un collasso
urbanistico, il finanziamento delle spese correnti attraverso gli oneri di urbanizzazione è una pratica
ormai normalizzata e considerata l'unica via possibile da percorrere. Una prassi che vede l'ente
comunale come soggetto debole nei confronti dell'operatore privato, il quale può mettere in gioco
quelle risorse necessarie alla chiusura annuale dei bilanci.
Operatore privato che, chiaramente interessato solo al proprio capitale, non bada ai beni comuni ed
alla collettività; si è dinnanzi ad interessi economici che, in presenza di privati ed imprenditori,
lievitano proporzionalmente all'aumentare della rendita fondiaria urbana, la quale può esser
considerata come il vero e proprio motore del fenomeno del consumo di suolo.
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Il motore del consumo di suolo: la rendita fondiaria
E' a questo punto chiaro come la rendita fondiaria urbana si inserisce nel discorso assumendo un
ruolo di primo ordine nella partita che vede tra i protagonisti le istituzioni pubbliche, i privati
economicamente più “forti” e il territorio (appartenente alla collettività).
Storicamente è accaduto infatti che nella fase di espansione urbana, che va dalla ricostruzione del
secondo dopoguerra fino agli anni Settanta, ha prevalso la cosiddetta rendita marginale, prodotta
dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: le scelte “pubbliche” di ampliare i confini
dell'edificato valorizzavano i terreni limitrofi, sottraendoli quindi all'uso agricolo. Il salto era
enorme e corrispondeva ad una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori
redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo
semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di
sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di
gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano
pochi e chiaramente definiti: il politico ed il costruttore prendevano le decisioni ed il tecnico
svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo63.
Salvo qualche rara esperienza positiva di pianificazione territoriale ed urbana, nella maggior parte
dei casi è prevalso il metodo clientelare basato su favoritismi, scelte moralmente scorrette volte
esclusivamente ad interessi estremamente personali: un vero e proprio trionfo della speculazione
immobiliare64.
Negli anni Ottanta, caratterizzati dalla “rivoluzione terziaria”, cambiò il verso della trasformazione:
per rispondere ai bisogni localizzativi e di prestigio delle nuove funzioni terziarie si tornò ad
operare all'interno dello spazio urbano, utilizzando gli immobili resi nel contempo sfitti dalla
dismissione industriale. In tal modo prevalse la cosiddetta rendita differenziale, che trova proprio
impianto sulla diversità di fertilità dei terreni e che, in tal caso, sta ad indicare la valorizzazione di
immobili interni alla città, chiaramente dotati di vantaggi localizzativi differenti tra loro e
comunque superiori a quelli marginali.
63 Tocci W. (2009), “L'insostenibile ascesa della rendita urbana”, saggio pubblicato sul Trimestrale dell'Associazione CRS “Democrazia e Diritto”.
64 Tematiche approfondite anche in letteratura e cinema. Tra i più importanti: I. Calvino, La speculazione edilizia (1963) e F. Rosi, Le mani sulla città (1963).
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La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile sia per quanto riguarda gli attori
che per le modalità. Tipicamente le scelte pubbliche consistevano nello stabilire cambi di
destinazioni d'uso degli immobili, necessitando comunque della concertazione di soggetti sia
pubblici che privati. Affianco agli enti comunali, che fino a quel momento giocavano un ruolo
leader nel tenere in mano il pallino della situazione, subentrarono l'amministrazione statale e le
stesse aziende pubbliche.
Il capitalismo industriale, che fino a quel momento non aveva particolari interessi nel mercato
dell'edilizia, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei
grandi impianti produttivi65. La dismissione industriale “illuminò” i capitalisti circa i vantaggi
immeritati derivanti dalle plusvalenze immobiliari, una modalità estremamente più semplice di
arricchimento, senza dover fare i conti con la complessa organizzazione del ciclo produttivo. Fu la
fine di qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto ed il discorso venne così archiviato.
Con la rendita differenziale non bastava l'avida furbizia del palazzinaro, era necessario un soggetto
coordinatore in grado di allineare le decisioni delle pubbliche amministrazioni, dei politici, dei
proprietari, degli industriali, e in grado di gestire la complessità tecnica, logistica e di marketing
concessa alle nuove funzioni terziarie, di sostenere finanziariamente i tempi lunghi della
trasformazione e di catturare il consenso dell'opinione pubblica, ovviamente mediante adeguate
campagne mediatiche. Fu così che nello scenario dei poteri urbani si affermò la nuova figura
dell'immobiliarista-finanziere, tanto che oggi bastano pochi nomi per riassumere le vicende
urbanistiche delle maggiori città italiane, quasi sempre legati alla proprietà dei giornali più diffusi.
Per quanto i vecchi palazzinari soffrivano di cattiva stampa i nuovi finanzieri sono in grado di
muovere le corde del consenso popolare, non solo con le tradizionali campagne giornalistiche, ma
con affinate strategie di elaborazione degli apparati simbolici a sostegno dei programmi
immobiliari. Nacque proprio negli anni Ottanta il cosiddetto “effimero strutturale”, cioè
l'organizzazione di grandi eventi che focalizzano le decisioni pubbliche, anche mediante
legislazioni d'emergenza, in modo da assicurare un termine ai progetti immobiliari che altrimenti
andrebbero troppo alle lunghe (Tocci, 2009).
L'esplosione della bolla immobiliare dei primi anni Novanta chiuse definitivamente questa fase,
determinando, non solo in Italia, un breve raffreddamento della febbre edilizia. Breve poiché già
alla fine di quel decennio prese il via un nuovo ciclo di valorizzazione immobiliare con livelli di
65 Per citare due casi emblematici, il Lingotto e la Bicocca.
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crescita che in passato erano solamente auspicabili. Stavolta lo strumento principe è stato il fondo
immobiliare, introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri Paesi,
che consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e
di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata,
godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. La valorizzazione approda in tal
modo ad una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della
trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla
finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità
delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria, la quale non ha certo brillato per
trasparenza (Tocci, 2009). A tale abbondanza di opacità contribuisce anche il fatto che le
metodologie di controllo delle performance dei gestori immobiliari non sono ancora ben sviluppate
come quelle che vengono applicate per controllare i gestori dei fondi mobiliari66.
La rendita immobiliare pura non riguarda solo le nuove costruzioni, ma, perlomeno potenzialmente
tutto il patrimonio esistente, superando dunque e allo stesso tempo assorbendo sia le rendite
marginali che quelle differenziali. Ne deriva così una generale euforia immobiliare, che stimola la
produzione edilizia e alimenta la domanda (Tocci, 2009), determinando in tal modo un balzo in
avanti della valorizzazione.
Secondo le stime Cresme nel decennio 1997-2006 la produzione edilizia residenziale è aumentata di
circa il 40 per cento; le compravendite annue sono raddoppiate, riguardando circa un terzo del
patrimonio esistente; i valori immobiliari sono aumentati in media del 63 per cento, quasi
raddoppiando a Milano e Roma; la crescita degli investimenti nelle costruzioni è stata del 13,6 per
cento, doppia rispetto a quella del PIL. Dati spaventosi, a testimonianza del ciclo immobiliare più
intenso degli ultimi cinquant'anni, secondo solo a quello della ricostruzione nel dopoguerra. La
rendita immobiliare, con lo strumento del fondo, si comporta a tutti gli effetti come un vero e
proprio prodotto finanziario. Già Marx aveva colto nella fase di passaggio dall’agricoltura
all’industria tale processo, osservando una comune natura di capitale fittizio67 tra la rendita
fondiaria e quella finanziaria.
Solo con la moderna economia di carta e di mattone (Tocci) questo processo raggiunge la completa
66 F. Cesarini, P. Gualtieri, I fondi comuni di investimento, (2005).67 Inteso come diritto di proprietà su un qualche reddito futuro. La conclusione cui giunge Marx, ma senza spiegare
bene il suo percorso, è che la terra dev’essere considerata come una pura risorsa finanziaria, perché si è trasformata in una forma di «capitale fittizio». Questa è la condizione, a mio parere, che determina la forma pura di proprietà fondiaria nel capitalismo. D. Harvey, L'esperienza urbana (1998).
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maturità. La rendita immobiliare pura dei fondi costituisce una fase più avanzata del processo di
astrazione già avviato dalla rendita marginale e dalla rendita differenziale. Infatti, ciò che distingue
queste tre diverse fasi, è proprio il ruolo crescente della componente finanziaria, la quale durante il
periodo espansivo si presentava nelle classiche forme del prestito bancario, per poi diventare
soggetto organizzatore nel riuso urbano, arrivando ad una presa di distanza dalla trasformazione
fisica. Il distacco dalla realtà si compie con la terza fase68: la rendita marginale rappresentava la
forza centrifuga che spostava i confini dell’espansione (Tocci) e la differenziale costituiva la forza
centripeta che induceva il riuso della città industriale (Tocci). Ora, invece, la città reale diventa
quasi un pretesto per una valorizzazione immobiliare che tiene in scacco il meccanismo
finanziario69.
In questa fase la valorizzazione immobiliare porta a compimento il carattere di capitale fittizio
descritto da Marx anche nella dimensione spaziale, non solo in quella temporale. La rendita pura
immobiliare partecipa al primato della rendita nella cosiddetta economia del “turbocapitalismo”:
con l’ascesa della finanza la rendita ha sopravanzato il profitto, intrappolandolo nella propria
logica70.
E' così che oggi la rendita si trova a svolgere un ruolo di trascinatrice dell'innovazione economica.
Tanto che, come spesso accade, il nuovo contiene una rielaborazione dell'antico. Infatti, la novità
della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario
dell’appropriazione capitalistica, a lungo dissimulato dall’economia classica e consumato non a
caso nel campo della proprietà immobiliare. L’accumulazione del capitalismo nasce infatti nel
momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta; in seguito si afferma
il mercato che cerca di far dimenticare nell’equilibrio concorrenziale quella prepotenza iniziale.
68 Poiché la prima e la seconda mantenevano pur sempre un rapporto con la mutazione fisica.69 La pervasività della rendita pura libera gli operatori dal problema del consenso che aveva sconfitto i palazzinari e
che invece era stato risolto brillantemente dai finanzieri-immobiliaristi. Ora il consenso è determinato dalla circolazione generale della finanza (almeno fino a quando le cose vanno bene) e dalle convenienze più o meno reali distribuite ad ampi strati sociali. Non c’è bisogno di conquistarlo sulle singole operazioni, poiché è connesso all’immagine del mondo creata dalla globalizzazione finanziaria. È l’ideologia della rendita pura. Ne fornisce una rappresentazione la griffe del grande architetto che aiuta la valorizzazione proprio perché produce un oggetto sradicato dalla città e connesso all’immaginario globale. Le archistar non progettano luoghi, ma creano brand per la borsa mondiale della moda. Come un prodotto finanziario che ha smarrito il collegamento con l’economa reale, i grattacieli di CityLife a Milano si staccano dalla città per creare figure insolite e contorte. Per ritrovare un principio di realtà allora rimane solo lo sberleffo di chi interpreta l’immagine dei grattacieli come due amici che sostengono il terzo mentre vomita, secondo l’icastica battuta di Gianni Biondillo (Tocci, 2009).
70 Il profitto è tale in quanto entra in un prodotto finanziario. E questa subordinazione diventa ancora più forte verso il lavoro. Nella ripartizione della ricchezza l’aumento più forte è andato a favore della rendita, poi del profitto e il tutto a discapito dei redditi da lavoro. Nella regolazione dei processi e nell’allocazione delle risorse la componente finanziaria è diventata il dominus rispetto all’economia reale. Perfino la struttura dell’impresa è stata piegata nell’unico interesse degli azionisti finanziari, a discapito di tutti gli altri stakeholders.
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Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso sulla
produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un
terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo.
Il recintare è un atto fondativo non solo per l’economia ma anche per la politica. Il nomos viene da
nemein che significa appunto dividere un pascolo, e da qui discende, secondo la classica lettura
schmittiana, una categoria fondamentale del politico. Più semplicemente, basta aver visto un film
western per sapere che quando si recinta un terreno si forma una rendita e allo stesso tempo si crea
un nemico (Tocci).
Si assiste così all'affermazione della forma pura della rendita, la quale ha goduto della fortunata
convergenza di diverse politiche pubbliche, rimaste immuni anche dall’azione demolitrice del
nostro incerto bipolarismo. Il mondo degli affari immobiliari, anzi, ha costituito l'unica certezza
disponibile per la ristrutturazione delle aziende industriali.
I grandi gruppi italiani hanno scoperto le gioie del Real Estate nella seconda metà degli anni
Novanta. L'esternalizzazione dei patrimoni industriali in appositi fondi immobiliari viene realizzata
in pochi anni da tutti i grandi gruppi italiani (Fiat, Benetton, Falck...), da banche e assicurazioni
(Ina, San Paolo-Imi...) e dai grandi enti pubblici (Eni, Enel, Fs...). Si tratta della più importante
ristrutturazione del capitalismo italiano di fronte alla sfida della globalizzazione (Tocci). I gruppi
industriali ottengono in tal maniera enormi profitti, che non sarebbero possibili con nessun'altra
ristrutturazione della produzione.
Molti sono i benefici, e di diverso tipo: dalla copertura dei debiti accumulati, alla ricapitalizzazione
delle imprese, ai nuovi prestiti e così via all'infinito Le perdite nella competizione mondiale
vengono dissimulate da una forte ristrutturazione degli asset patrimoniali. Sull’altro lato del
processo agiscono le banche, che hanno il compito di valorizzare i patrimoni ricevuti tramite le
cosiddette società veicolo. A questo punto, per raggiungere l’obbiettivo, è necessario promuovere
una forte crescita della domanda di acquisto, spostare nel settore dell'immobiliare l’offerta di credito
e stimolare le famiglie ad indebitarsi per la casa. Nel 1999 i prestiti per l'acquisto di immobili
superano per la prima volta quelli per l’acquisto di macchinari industriali fino a raggiungere nel
2005 un rapporto di tre ad uno71. Tre sono i fattori che hanno reso possibile il processo.
71 G. Caudo e S. Sebastianelli, Dalla casa all'abitare, in L'Italia cerca casa, Catalogo della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, Edizione 2008, a cura di F. Garofalo.
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In primo luogo, il funzionamento capovolto del mercato della rendita che, al contrario di quello
delle produzioni, aumenta il valore all’aumentare della domanda. Il sistema creditizio riesce così ad
innalzare le rendite immobiliari ricevute dalle esternalizzazioni dei gruppi industriali.
In secondo luogo, l’innovazione del fondo immobiliare, che ha portato la rendita alla condizione
pura di astrazione dalla realtà fisica, consentendo un rapporto “armonico” tra la crescita dei valori
tra usi residenziali e non residenziali, in modo tale che l’aumento della domanda di alloggi da parte
delle famiglie abbia effetti sulla generalità del mercato immobiliare, valorizzando anche gli ex
patrimoni industriali.
In aggiunta a tutto ciò l’abbassamento dei tassi d'interesse determinato dall'introduzione dell'euro,
che aiuta la concretizzazione dell'intero processo.
Tra l’inizio e la fine del circolo vizioso della valorizzazione della rendita pura si impone un
trasferimento del debito delle imprese a carico delle famiglie, con enorme vantaggio esclusivo del
sistema creditizio, che lo ha organizzato e gestito. Nel frattempo, le famiglie perdevano quota di
reddito anche nel circuito della produzione a favore dei profitti, ottenendo salari insufficienti a
pagare l’indebitamento immobiliare. Questa morsa sui bilanci familiari, sia dal lato della rendita
sia da quello della produzione, ha causato alla fine il collasso del sistema per insolvenza, non a
caso proprio nel modello americano caratterizzato dalla massima intensità del fenomeno (Tocci).
Un altro catalizzatore del processo è stato il superamento dell'equo canone72 nel 1998, con la
conseguente liberalizzazione dei fitti; decisione obbligata in seguito al pronunciamento della Corte
Costituzionale, ma che comunque doveva essere necessariamente accompagnata da una riforma
delle politiche di edilizia sociale. L'euforia del mercato di quegli anni convinse invece la sinistra a
smantellare le politiche pubbliche, affidando la tutela dei redditi bassi solamente all’erogazione di
un bonus73.
Il governo di centrodestra ha poi dato impulso a tutti i fenomeni di valorizzazione immobiliare: lo
strumento dello scudo fiscale ha consentito, per due volte in pochi anni, il ritorno quasi gratuito di
72 Per equo canone viene inteso in Italia il canone di locazione il cui ammontare non è lasciato alla libera contrattazione delle parti, ma è stabilito dalla legge, secondo parametri generali, riferiti al tipo di immobile (rurale, ultrapopolare, popolare, economico, civile, signorile), al livello di piano, allo stato di conservazione, alla zona ed alle dimensioni della città.
73 Bonus che consisteva in un contributo pubblico al pagamento dell’affitto, rivelatosi in seguito incompatibile con il debito pubblico.
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capitali spesso inconfessabili, che hanno trovato una sponda sicura nei fondi immobiliari. Il
condono edilizio ha celebrato la legalità di una grossa fetta del patrimonio abusivo, con un
coinvolgimento politico e ideologico di ampi strati popolari nella valorizzazione immobiliare.
Infine, addirittura la sedicente Tecnotremonti, legge “di incentivazione tecnologica”, è stata uno
strumento per detassare la costruzione di nuovi fabbricati industriali, con lo scopo di favorire la
dismissione dei vecchi impianti, liberando quindi le relative rendite differenziali74.
L'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può
fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di
obbiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e
sinistra. Poi sul piano istituzionale, con un'inusuale consonanza tra l'intervento dello Stato e quello
di Regioni, Province e Comuni, tranne poche e meritorie eccezioni (Tocci). Neppure i media, prima
della recente crisi, avevano mai approfondito i meccanismi più o meno occulti del fenomeno.
Certo, la pubblicistica è stata ingenerosa con la rendita immobiliare, non ne ha mai parlato prima
quando tirava la carretta dell’economia italiana e ora che le cose vanno male si sprecano le accuse
di aver drogato lo sviluppo. Eppure in questi anni è stata l’unica componente del PIL in forte e
costante aumento. Per il resto è prevalso l’andamento negativo. Se l'economia italiana si fosse
raccontata nella verità dei fatti, avremmo avuto una percezione più chiara della nostra fragilità. Il
declino si è nascosto sotto il mattone (Tocci, 2009).
Questa politica ha aiutato la ricollocazione del capitalismo italiano nella sfera internazionale, in un
sistema che vede le proprie leggi ed i propri processi dettati dalla globalizzazione. I grandi gruppi
industriali si resero conto molto presto dell'impossibilità di reggere la concorrenza con i Paesi
emergenti e già alla fine degli anni Ottanta, e più decisamente nel decennio successivo, intrapresero
politiche di ripiegamento nei settori protetti dalla decisione pubblica e in quelli tendenzialmente
monopolistici. In una situazione di piena bolla speculativa, la rendita pura è stata in grado di offrire
livelli di redditività di gran lunga maggiori a quelli sempre più incerti dei profitti industriali, messi
in pericolo dalla concorrenza con i Paesi in via di sviluppo, specialmente per quanto riguarda i bassi
74 A questa coerente politica di sviluppo della rendita è mancata solo la ricetta americana del mutuo sulla casa impiegato per sostenere i consumi delle famiglie. Ad avanzare tale proposta fu proprio Tremonti, oggi passato a parole tra i nemici giurati del mercatismo. Se fosse stata attuata avrebbe portato tante famiglie italiane sul lastrico, come si vede oggi negli Usa. Una volta scoppiata la crisi l'unica risposta che ha saputo immaginare Berlusconi è stata una nuova sollecitazione al mercato immobiliare con l'introduzione del premio di cubatura per gli ampliamenti edilizi (Piano Casa).
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costi di manodopera.
E' per tali motivi che il bilancio del decennio si presenta come fortemente ambiguo: sorge il dubbio
se la fortuna della risorsa immobiliare, contribuendo alla seppur debole crescita del PIL, sia andata
a discapito di altre opportunità. L’acqua si dirige dove trova la strada e l’immobiliare è in grado di
aprirla meglio di altri settori. E' stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa
crescita, poiché ha sottratto risorse importanti agli impieghi produttivi per destinarle a finalità
speculative75 (Tocci). A forza di creare valore spostando risorse dall’industria al mattone alla fine si
ottiene bassa produttività del sistema. E' come se la rendita, mentre deprime pesantemente
l'economia, si vantasse di salvarla, ed è proprio in questo senso che “ha acquisito” una propria forza
ideologica, ambiguamente creando ricchezza, mostrando una capacità intrinseca di mistificare la
realtà.
La bassa produttività, il vero malanno italiano degli ultimi anni, è quindi determinata per larga parte
dallo straordinario successo della politica pro-rendita. Esso corrisponde ad un modo d’essere
profondo del Paese, ad una sorta di genius loci che solo nel mattone è in grado di rendere coerenti e
durature le strategie di molti attori pubblici e privati. Questo è un periodo di grande retorica sulla
società della conoscenza, di innovazioni tecnologiche e di produzioni immateriali, ma nella realtà
ha vinto la componente più vecchia e pesante dell’economia italiana.
E' in tal modo che negli ultimi anni l’onda di valorizzazione mostra una certa saturazione nelle aree
centrali e una forte impennata verso le periferie e le aree suburbane. Emblematici i numeri del caso
capitolino: nel 2006 i prezzi delle abitazioni sono diminuiti dello 0,7 per cento nel centro, a fronte
di un aumento dell'1,2 per cento nelle aree immediatamente esterne al centro, del 3,2 per cento nella
periferia, del 5,5 per cento nella corona metropolitana fino al massimo del 9,3 per cento negli altri
comuni della provincia76. Questo tasso di valorizzazione dipende dall’aumento della domanda
innescato dall’espulsione dei cittadini con redditi medio-bassi, i quali, in seguito all’abbandono di
qualsivoglia politica di edilizia sociale, sono costretti a cercare casa nei comuni dell’hinterland,
rilanciando il ruolo della rendita marginale, in forme nuove rispetto agli anni Cinquanta: non più per
spostamenti incrementali del confine urbano, ma per superamento del concetto stesso di confine in
una disseminazione di brani di città e di campagna ad una scala tendenzialmente sovraprovinciale.
75 Giulio Sapelli individua in questo meccanismo la ragione generale della bassa crescita mondiale e quindi ancora di più nel caso italiano, si veda La crisi economica mondiale.
76 Borsa immobiliare di Roma, VIII Rapporto sul mercato immobiliare in Italia e a Roma nel 2006, Camera di Commercio di Roma, 2006.
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La rendita pura crea un’onda di valorizzazione che agisce sull’intero sistema urbano, prima
colmando la città compatta e poi traboccando (spill-over) nello sprawl delle aree metropolitane. In
assenza di efficaci politiche pubbliche questa forza espansiva si traduce in un bulimico consumo di
suolo. E’ una forma territoriale dissipativa non solo delle memorie del passato, ma anche delle
risorse del presente (Tocci).
Per soddisfare le esigenze in termini di servizi a queste agglomerazioni urbane a bassa densità tutte
le reti devono essere “allungate”, determinando in tal modo alti costi infrastrutturali che
appesantiscono i bilanci pubblici, tralaltro già impegnati a recuperare una dotazione di servizi
spesso insufficiente. Quello che preoccupa, oltre tutto, è il fatto che nel Bel Paese non si è soliti
analizzare gli effetti di questa forma spaziale diradata. Modelli di simulazione elaborati da
ricercatori americani hanno stimato gli aumenti di costo degli schemi a bassa densità rispetto a
quelli più compatti: 25 per cento per il consumo di suolo, 12 per cento per le strade e 7 per cento per
i servizi municipali77. Chiaramente il sistema americano è totalmente diverso da quello europeo ed
italiano, ma i numeri rendono comunque bene l'idea di ciò che sta accadendo.
La sregolata dispersione dell'insediamento ha sicuramente accumulato un significativo
appesantimento dei costi di investimento e di gestione dei servizi urbani, contribuendo in maniera
rilevante alla crisi fiscale dei comuni.
Le scelte pianificatorie degli enti pubblici competenti hanno poi solitamente peggiorato il
fenomeno. Il comune, non avendo le risorse necessarie per realizzare infrastrutture, le ottiene dai
privati, in cambio di varianti urbanistiche, le quali sono però quasi sempre realizzate in uno
squilibrio tra la rendita incamerata dai privati e i costi a carico del pubblico, con il conseguente
aggravio dei bilanci comunali. Tale effetto, non essendo interpretato correttamente, o per malafede o
per ingenuità, innesca un circuito vizioso senza fine, reiterando il processo con ulteriori varianti
urbanistiche e progressivi peggioramenti del deficit pubblico.
L’equilibrio dovrebbe essere assicurato dallo strumento degli oneri di concessione e di
urbanizzazione, previsti dalla legge. Le pressioni dei proprietari, soprattutto quelle dei grandi gruppi
industriali, hanno convinto gli amministratori e i legislatori a tenere bassi tali oneri, secondo l'ormai
radicata mentalità della necessità di incentivare lo sviluppo edilizio con risorse pubbliche, come se
77 La ricerca è stata realizzata dal TPRC, ente federale incaricato di studiare soluzioni innovative in materia di trasporto urbano. I risultati sono commentati da M. C. Gibelli in No Sprawl.
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non bastasse la rendita (Tocci). Veri e propri favori ai proprietari, che hanno impedito al pubblico di
incassare parti significative della bolla immobiliare degli ultimi anni. A Milano gli oneri furono
fissati nel 1991 a 120 euro/mq corrispondenti al 3 per cento del prezzo medio di vendita delle case,
rimanendo fermi fino al gennaio del 2009. A Roma gli oneri sono più alti, 217 euro/mq,
corrispondenti al 6 per cento dei prezzi di vendita, eppure secondo fonti comunali sono in grado di
coprire solo il 60 per cento dei costi di urbanizzazione strettamente connessi alle singole
costruzioni. A Napoli sono molto bassi, 56 euro/mq, seppure in linea per la percentuale dei prezzi di
vendita al 3 per cento, ma non vengono aggiornati dal 198578. Come se non bastasse, è stato
cancellato il vincolo di utilizzazione delle entrate da oneri per gli investimenti, dando la possibilità
ai comuni di utilizzare quelle risorse per le spese correnti.
Camagni ha analizzato i costi e le valorizzazioni di alcuni piani urbanistici rappresentativi del caso
milanese, rilevando una quota aggiuntiva di oneri pari all'1 per cento del valore di mercato e del 14
per cento rispetto agli oneri già previsti dalla legge. Se questi fossero stati aumentati per tempo,
superando un blocco quasi ventennale, si sarebbe ottenuto un risultato ben maggiore. Lo studio
mette inoltre a confronto questi piani con analoghe trasformazioni della capitale tedesca, ottenendo
per Milano livelli di oneri complessivi tre-quattro volte più bassi79.
Tutto lo sviluppo territoriale italiano è intrappolato in questo circolo vizioso, di cui la saturazione di
vaste aree a bassa densità è il suo esito finale; aree a bassa densità che per giunta si trovano nella
strana condizione di essere nel contempo troppo vuote e troppo piene. Vuote perché costituite da
insediamenti poco densi con un alto consumo di suolo pro-capite. Piene perchè ormai sprovviste di
corridoi liberi dove realizzare le infrastrutture pur necessarie a quel modello insediativo disperso.
Tutti, allora, si stracciano le vesti contro il campanilismo italico che non consente di attuare le
opere pubbliche e i più sofisticati denunciano la sindrome NIMBY per spiegare il fenomeno. Ma
c’entra poco la psicologia sociale, è un problema strutturale determinato dalla forma territoriale
dominante, la quale presenta il paradosso di strutturarsi sulle autostrade e allo stesso tempo di
renderne alla lunga impossibile la realizzazione. Che la saturazione sia causata
dall’organizzazione del territorio è dimostrato dall’accorciarsi dei percorsi medi sulle autostrade
della Val Padana, con una diminuzione del 10-20 per cento nel ventennio 1980-2000. Tali
78 A. Arona, Oneri concessori, record a Roma e saldi a Milano, in Il Sole 24 Ore del 13/01/2006. L'articolo riassume uno studio Nomisma-Cresme relativo a dieci città italiane.
79 R. Camagni, Il finanziamento della città pubblica, in La costruzione della città pubblica (2008). Gli oneri dei progetti milanesi costituiscono il 9 per cento del valore di mercato.
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infrastrutture erano state pensate come collegamenti a grande distanza e invece hanno assunto una
funzione di organizzazione locale del territorio con tutte le patologie conseguenti80.
Un modo alternativo per affrontare il problema poteva consistere nel realizzare nelle aree regionali
potenti assi ferroviari, come le S.Bahn tedesche o la RER parigina, che avrebbero funzionato come
travi portanti per le altre modalità di trasporto urbano (metro, tram e bus), costituendo così moderne
reti integrate di trasporto, il più delle volte avendo anche la possibilità di ristrutturare impianti
esistenti piuttosto che costruirne di nuovi.
I due tipi di trasporto hanno impatti diversi sull’organizzazione del territorio e, di conseguenza,
sullo sviluppo della rendita. L’autostrada consente lungo tutto il suo tracciato la formazione di
rendite marginali, tramite la costruzione di nuovi quartieri che non hanno bisogno di altre
infrastrutture per funzionare. A Roma, ad esempio, negli ultimi quindici anni quasi tutte le nuove
edificazioni sono state realizzate sul Grande Raccordo Anulare, divenuto così l’asse portante della
nuova periferia regionale. Al contrario, la linea ferroviaria consente una valorizzazione immobiliare
“puntuale”, in aree limitate ed “isolate”, in corrispondenza cioè delle stazioni e spesso in condizioni
fondiarie complesse che implicano la dismissione dei sedimi ferroviari.
L’autostrada favorisce il diradamento urbano lungo il suo percorso, la ferrovia induce la
concentrazione urbana nelle zone intorno alle stazioni; l’investimento pubblico sulla strada
diminuisce la sua efficienza all’aumentare degli utenti, fino alla saturazione e alla richiesta di una
nuova opera pubblica, l’infrastruttura su ferro migliora l’efficienza all’aumentare degli utenti e
paradossalmente produce un effetto benefico anche sulla strada, che sarà meno ingolfata in seguito
allo spostamento di una quota di automobilisti sul mezzo pubblico, ottimizzando in tal modo anche
il rendimento degli investimenti pubblici pregressi. La strada, invece, svuota la ferrovia fino a farla
La concorrenza del mercato immobiliare è in tal modo impoverita dal primato della rendita. La
scelta del costruttore edile non è figlia delle caratteristiche produttive della trasformazione, ma di
una competizione sulla compravendita del terreno. Un’amministrazione che autorizza un piano è di
fatto costretta a discutere la qualità dell’intervento con un solo operatore che, avendo comprato
80 A. Dufruca, Strumenti per interpretare e governare la città diffusa: accessibilità e mobilità, in No Sprawl (2006). La rete autostradale del nord è ormai un'infrastruttura prevalentemente di servizio locale. Ad esempio, sulla Milano-Bologna lo spostamento medio è di soli 70 km. La mitica “autostrada del sole” costruita negli anni Cinquanta per unire il Paese oggi funziona per gran parte come un asse interno alla metropoli padana.
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l’area, ha raggiunto una posizione monopolistica, dal momento che dove domina la rendita è esclusa
la competizione tra imprese che operano solo sul profitto generato dalla trasformazione.
Quella che ormai è accettata come condizione ineluttabile è solamente frutto di un’ideologia
patrimonialista, molto radicata e mai messa in discussione, tant'è che viene presa a modello anche
quando il proprietario in questione è il pubblico: infatti nel caso degli immobili di proprietà
pubblica solitamente si procede ad una vendita all’asta, ricostituendo il monopolio privato per poi
procedere alla trasformazione delle zone interessate. Le proprietà pubbliche da alienare potrebbero
essere invece inserite in progetti urbani da realizzare mediante una concorrenza tra operatori che
non siano proprietari, scegliendo, tra le proposte, quella più vantaggiosa per la collettività, sia per
quanto riguarda il prezzo di acquisto che il privato paga al pubblico, sia, e soprattutto, per quanto
riguarda la qualità urbana e la dotazione infrastrutturale del nuovo insediamento.
Fondamentale è dunque il ruolo del pubblico, il quale non dovrebbe ridursi alla sola funzione
proprietaria, ma dovrebbe tener conto delle responsabilità ben più importanti di regolazione della
trasformazione urbana.
Entra qui in gioco la nuova legge urbanistica, che dovrebbe occuparsi di regolare anche i suoli
pubblici, vincolando le politiche di alienazione alla qualità urbana degli interventi e alla
concorrenza tra i produttori stessi della trasformazione. Una indicativa dimostrazione del tutto
potrebbe esser fatta con riferimento ad amministrazioni che, seguendo spontaneamente tale
approccio, hanno ottenuto risultati molto positivi81.
E' così che la politica pubblica dei suoli, dichiarata come impossibile da praticare, la si è in realtà
realizzata nel peggiore dei modi, nel segno di alienazioni dissennate. Il patrimonio pubblico, sia
statale che comunale, è talmente enorme da poter consentire in ogni città nostrana di sviluppare
intelligenti politiche pubbliche dei suoli, purtroppo considerate vecchi strumenti proprio dalla
cultura urbanistica riformista. E' stato sufficiente dichiarare che i comuni non dispongono di
81 Ad esempio, a Roma è stato applicato efficacemente il metodo concorrenziale nella riqualificazione del complesso edilizio di via Giustiniano Imperatore. Sulla base di un progetto comunale si è bandito un appalto-concorso tra operatori per ricostruire gli alloggi pericolanti dei cittadini, realizzando nuove case e migliorando tutti i servizi del quartiere. L’operatore che ha vinto con l’offerta più vantaggiosa per la qualità urbana ha ottenuto in cambio i suoli comunali e ha stipulato accordi privati con i 300 proprietari. Per una descrizione dell’esperienza si veda Edilizia e Territorio, n. 37 (2005). In tal modo si opera poi anche una benefica politica industriale che incoraggia la crescita di una moderna imprenditoria della trasformazione urbana in linea con il mercato europeo. Inoltre, questi interventi abbattono la quota di rendita incamerata dai privati, quindi servono a calmierare il mercato e soprattutto a fissare i valori degli immobili in modo realmente competitivo, così da poter essere presi a riferimento per le politiche attive di acquisizione pubblica dei suoli o nei casi previsti di esproprio.
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sufficienti risorse economiche per acquisire aventuali aree. Ciò che non fa quadrare i conti è il fatto
che spesso e volentieri neanche gli immobiliaristi dispongono del denaro in contanti per speculare,
che viene solitamente prestato loro dalle banche e poi, una volta che gli immobili vengono
rivenduti, il prestito non solo viene restituito, ma viene incamerato il plusvalore della rendita. Non è
dunque chiaro perché l'amministrazione pubblica non possa fare la stessa operazione, con un
conseguente triplo vantaggio: incamerare quel plusvalore a favore dei cittadini, sviluppare una
concorrenza ottimale tra gli operatori e progettare la trasformazione senza interferenze della
proprietà.
Non si tratta di una nazionalizzazione dei suoli, ma di una sorta di sospensione della proprietà
privata nella fase della trasformazione, per poi ritornare ad un regime privatistico, ma molto più
concorrenziale.
La politica pubblica dei suoli può essere attuata con una moltitudine di strumenti, riducendo al
minimo il momento della proprietà pubblica82.
Stessi obbiettivi possono essere ottenuti saltando il momento dell’acquisizione e ricorrendo alle
tecniche regolative elaborate per la liberalizzazione dei servizi pubblici, quali telefonia, elettricità,
gas e acqua. La cultura economica ha sviluppato procedure sofisticate per superare il blocco della
proprietà delle reti e favorire la competizione tra gli operatori che erogano i servizi, consentendo
l’accesso secondo condizioni contrattuali definite da apposite authorities. L’ideologia della rendita
ha impedito agli economisti di estendere tali tecniche, neppure in via solo teorica, al caso della
trasformazione urbana, peraltro molto più semplice (Tocci).
Nelle reti infatti il problema del controllo della proprietà è a tempo indeterminato e nel caso dei
suoli riguarderebbe solo il periodo della trasformazione. Basterebbe considerare l'esempio di un
ipotetico comune che realizza un progetto urbanistico, ovviamente su suoli privati, magari
lanciando una gara europea tra gli operatori, con esclusione dei proprietari (come si fa appunto nelle
gare di gestione delle reti). Il vincitore del bando sarà poi quello che acquisterà l’area dai proprietari
82 L’esproprio è solo uno di questi strumenti, da utilizzare in condizioni particolari e soprattutto a scopo dissuasivo per superare le resistenze ad una temporanea acquisizione pubblica. La procedura è semplice: il comune acquisisce sul mercato le aree prima di pianificarle e poi le rivende, rientrando del prezzo di acquisto e incamerando la rendita prodotta dalla decisione pubblica. Con queste entrate può acquisire altre aree, portando quindi a regime il processo, come nella gestione di un normale fondo di rotazione. E’ falso dire che l’acquisizione pubblica è un intervento oneroso, anzi, al contrario, è un modo per arricchire la collettività rendendo più aperta la concorrenza, come è stato ampiamente dimostrato dalla consolidata esperienza dei paesi nordici. Essa è una politica per il mercato, non contro il mercato; serve cioè a rimuovere il monopolio naturale della rendita per creare una vera concorrenza non tra proprietari ma tra industriali della trasformazione urbana.
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secondo un prezzo di riferimento stabilito già nel bando, in base ai valori correnti di mercato. Nel
caso in cui la transazione tra i privati non si perfezionasse entro un tempo dato, il comune
esproprierà l’area al prezzo indicato e la rivenderà al vincitore: efficace strategia di liberalizzazione
anche della proprietà immobiliare, favorendo ancora una volta l’interesse pubblico.
Il riformismo degli anni Cinquanta puntava ad espropriare al valore agricolo perchè aveva di fronte
il fenomeno della rendita marginale, ma oggi, idealmente parlando, non sarebbe un problema basare
la politica pubblica dei suoli sul prezzo di mercato precedente alla trasformazione, dal momento che
è essenziale far tornare a vantaggio della collettività il plusvalore aggiunto a quel prezzo.
La legge dei suoli urbani deve consentire quindi una nuova politica pubblica del territorio. Le
tecniche da impiegare sono diverse, alcune già consolidate nelle esperienze europee e altre da
elaborare in una ricerca davvero innovativa. Occorre solo liberarsi di una ideologia della “roba”
che ha oscurato le menti e giustificato la peggiore trasformazione della penisola nella sua lunga
storia (Tocci).
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PARTE SECONDA
LA DISPERSIONE URBANA
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Diffusione e dispersione insediativa
L'urbanizzazione a bassa densità è oggi un modello insediativo ben consolidato. Ma a distanza di
qualche decennio dalla sua iniziale affermazione, si è ancora alla ricerca di quadri analitici ed
interpretativi condivisi e, soprattutto, di efficaci indicazioni normative per governare gli effetti
indesiderabili in termini di benessere collettivo di lungo periodo.
Si parla di città-dispersa e città-diffusa, due modelli che hanno un'importante distinzione
terminologica, sia in senso analitico-interpretativo che normativo.
I termini diffusione e dispersione insediativa consentono di distinguere due fenomeni spesso legati
tra loro1. Con il termine diffusione insediativa si descrive la crescita progressiva di centri urbani di
piccole e medie dimensioni posti nelle corone più esterne delle aree metropolitane2, oppure in aree
lontane dai centri principali, nei fondovalle, nelle pianure interne, lungo la costa. Anche in Italia,
come in molti altri Paesi, ad un modello urbano denso e centripeto, sviluppatosi a partire dal primo
grande sviluppo industriale, si è sovrapposto un secondo modello privo di gerarchie riconoscibili3.
Il fenomeno della diffusione urbana assume caratteri massicci a partire soprattutto dalla seconda
metà del Novecento, ovvero da quando la diffusione dell'automobile, del telefono e di altri elementi
favorevoli a questa tendenza, spinge ad una accelerazione di processi già iniziati nell'epoca del
dibattito sulla Città Giardino all'inizio del secolo passato. Non a caso è nel secondo dopoguerra, e in
Italia soprattutto a partire dagli anni Sessanta con la costruzione di autostrade e superstrade, che il
tema della grande dimensione dei processi insediativi, di quella che allora si chiamava città-
regione4, diventa oggetto dei primi piani urbanistici territoriali5.
1 Per descrivere questi fenomeni, geografi e urbanisti utilizzano termini quali urban sprawl (étalement urbain), urban spill (desserement, déversement urbain), exurbanization. Si veda ad esempio N. May, P.Veltz, J. Landrieu eT. Spector, La ville eclatéee (1998), G. Bauer e Roux, La Rurbanization ou la ville (1976), Dorier-Apprill E. , Vocabulaire de la ville (2001).
2 Si definisce disurbanizzazione o contro-urbanizzazione la crescita di centri di piccole e medie dimensioni, accompagnata al declino delle aree centrali.
3 Sulla progressiva costituzione di relazioni di rete in sostituzione di rapporti gerarchici fra le città, si vedano in particolare gli scritti di G. Dematteis. Sugli esiti territoriali di tali trasformazioni si veda in particolare F. Indovina, 1990, La città diffusa.
4 Termine coniato dai geografi negli anni Trenta e ripreso dagli urbanisti.5 Di particolare interesse quello più famoso, il Piano Intercomunale Milanese, studiato per l'area metropolitana
secondo uno schema teso a governare la crescita favorendo sia lo sviluppo economico, sia la tutela degli elementi naturali (le fasce dei fiumi, le zone agricole), sia una migliore distribuzione dei valori (immobiliari, di uso dello spazio, di qualità generale), che non privilegiasse più solo il centro della grande città. E' tuttavia doveroso precisare che i tentativi di affrontare il tema della diffusione urbana con piani di dimensione superiore a quella comunale
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Favorita dalla presenza di nuove forme di organizzazione e specializzazione produttiva,
dall’incremento della dotazione di infrastrutture, dalla crescita del reddito e della domanda di beni e
servizi, la diffusione insediativa costituisce una tendenza di lungo periodo di sistemi economico-
territoriali di successo6.
A volte la densità della popolazione e delle attività produttive nelle aree più lontane dal centro è
talmente bassa che diventa complicato stabilire un confine tra urbano ed extraurbano. Questo
fenomeno si verifica sia ai margini delle aree urbane, sia lontano da queste ultime, attraverso il
progressivo “coagulo” di costruzioni.
La diffusione è dunque una tendenza di fondo dei sistemi economico-territoriali di successo e ad
alto reddito, in presenza di tecnologie vecchie e nuove che limitano l'impedenza dello spazio fisico,
in presenza di ridotte necessità di spazio per l'agricoltura e di elevate rendite fondiarie ed
immobiliari nel cuore delle grandi aree metropolitane (Gibelli, 2006). Essa deriva dalla
progressiva concentrazione dello sviluppo in ampie regioni urbane o corridoi e dalla conseguente
estensione del perimetro dei territori densamente urbanizzati per traboccamento al di là delle
conurbazioni storiche (Merlin, 1998); dal successo economico, sociale ed ambientale di città di
dimensione media e piccola; dalla scelta di suburbanizzazione da parte di famiglie a reddito medio e
basso per effetto della crescita dei valori delle aree centrali e dalla parallela scelta di
suburbanizzazione7 da parte di famiglie a reddito medio-alto in fuga dalla città congestionata ed alla
ricerca di maggiore spazio abitativo e di naturalità.
La diffusione costituisce pertanto un fenomeno fisiologico di lungo periodo (Gibelli, 2006),
chiaramente influenzato dalle innovazioni nei sistemi di trasporto e dall'affermarsi di nuovi
paradigmi economici e tecnologici. Per governarla, a partire dalla metà degli anni Sessanta dello
scorso secolo in poi, in molti Paesi Europei sono state sperimentate strategie di pianificazione
caratterizzate da approcci di area vasta e da posizioni prescrittive finalizzate al “contenimento
della crescita”, con risultati più o meno efficaci a seconda dei contesti e della fase del ciclo di vita
metropolitano (Gibelli, 1998).
La dispersione si configura invece come la forma specifica contemporanea dell'urbanizzazione
incontrano comunque in tutto il mondo molte difficoltà, prima fra tutte quella del coordinamento tra le varie amministrazioni responsabili dei territori che dovrebbero coordinarsi.
6 R. Camagni, M.C. Gibelli, P. Rigamonti (2002), I costi collettivi della città dispersa.7 Più tardiva almeno in Italia, anche se attualmente in crescita.
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diffusa e come un fenomeno per taluni aspetti patologico. Essa rinvia ad una esplosione, ad una
frammentazione della forma urbana ed alla apparente casualità delle nuove localizzazioni
residenziali e produttive (Gibelli, 2006); alla discontinuità del costruito accoppiata a crescente
segregazione funzionale (secondo i neo-riformisti anche sociale), e spesso ad una esasperata
specializzazione dell'uso dei suoli; ad un consumo di suolo non giustificato dalle dinamiche di
crescita demografica ed occupazionale, ed al conseguente spreco di preziose risorse territoriali
(perchè sempre più scarse); all'incessante incremento della mobilità su gomma, con effetti di
sovraconsumo di energia, di congestione delle infrastrutture stradali, di elevato inquinamento
ambientale (quest'ultimo aspetto messo in discussione nel dibattito neo-liberista)8.
In sintesi, la dispersione urbana è quindi identificabile con un modello di urbanizzazione a bassa
densità relativa, dilatato fino ai margini estremi della regione metropolitana, ad alto consumo di
suolo, discontinuo, tendenzialmente segregato e specializzato per destinazioni monofunzionali,
prevalentemente dipendente dall'automobile, fondato su processi di filtering down che consentono
l'accesso dell'abitazione in proprietà a gruppi sociali a reddito prevalentemente basso, caratterizzato
dall'assenza di strumenti di pianificazione strategica, e quindi con debole capacità di pianificazione
e gestione alla scala vasta dei processi di trasformazione insediativa.
Dunque, quella che a metà secolo scorso era solamente ancora una tendenza potenzialmente
negativa, comincia così ad affermarsi e consolidarsi, a diventare da “diffusione”, “dispersione”, da
fenomeno fisiologico, a fenomeno patologico. In altre parole, quello che l'urbanista della Tennessee
Valley Authority, Earle Draper, con una parola vagamente insultante aveva chiamato per la prima
volta, nel 1937, sprawl.
Ed è a partire dagli anni Ottanta che la città dispersa si è affermata anche in Europa, per effetto di
stili abitativi e di tendenze localizzative delle attività economiche che hanno privilegiato gli spazi
suburbani, ma anche per effetto delle politiche di deregolamentazione che, in molti Paesi, hanno
delegittimato la pianificazione d'inquadramento d'area vasta consentendo l'affermarsi di politiche
locali svincolate da un quadro di coerenze complessive.
8 E' dunque possibile definire la dispersione insediativa come un fenomeno di frammentazione esasperata, che attiene alla casualità delle nuove localizzazioni, alla frammentazione della forma urbana, al bricolage della pianificazione urbanistica e territoriale avulso da ogni principio di economia delle risorse territoriali, alla tarmatura del territorio.
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La deconcentrazione della popolazione e gli effetti sul territorio
L'occupazione di suolo per fini urbani slegato dalle dinamiche demografiche ed economiche rischia
di creare un equivoco fra chi annuncia il rallentamento della crescita urbana, basandosi sull'analisi
di dati demografici ed economici e chi invece vive l'affollamento dei centri urbani e l'intasamento
delle arterie di comunicazione. L'ipotesi della morte delle città si scontra così visivamente con
l'interminabile espansione dell'urbanizzazione dei suoli e con gli inevitabili problemi ambientali ad
essa connessi.
Le ipotesi di declino delle città si basano infatti soprattutto sugli andamenti demografici. Se per
crescita urbana si intende un processo di concentrazione della popolazione che implica un
movimento da uno stato di minore concentrazione a uno stato di maggiore concentrazione9 (1942),
il fenomeno del suo rallentamento appare indiscutibile, specialmente in Italia.
Come è ampiamente dimostrato, la crescita urbana in Italia segue, fino all'inizio degli anni Settanta,
la regola tradizionale: tassi di crescita crescenti per dimensioni urbane crescenti. Ovvero, dall'inizio
dell'urbanesimo a metà dell'Ottocento fino agli anni Settanta del secolo successivo, più sono grandi
le città, più è alto il loro tasso di crescita. Dagli anni Settanta in poi si registra invece una brusca
inversione nella curva dell'aggregato dei comuni sopra i 100.000 abitanti, introducendo una
variazione nel sistema urbano italiano “comparabile”, per profondità se non per segno, a quella
introdotta dall'industrializzazione e dall'unificazione nella seconda metà dell'Ottocento (Martinotti,
1993).
Se con crescita urbana si intende, invece, il fenomeno di espansione fisica della città, allora non
risulta leggibile alcuna inversione della curva di crescita. In Italia, in tutti i contesti locali dove è
stata riconosciuta la dinamica storica dell'occupazione di suolo per fini urbani risulta che, dalla
rivoluzione industriale in poi, lo sviluppo insediativo segue, nella propria tendenza di crescita,
quello demografico. Fino agli anni della ricostruzione nel secondo dopoguerra la crescita è lenta ma
costante. Dagli anni Cinquanta in poi, sia la crescita demografica che quella insediativa subiscono
una decisa accelerazione, ma della stessa intensità. Solo dalla metà degli anni Settanta la dinamica
dei due fenomeni diverge decisamente, azzerandosi la crescita demografica. L'espansione urbana,
9 Definizione a lungo indiscussa di Hope Tisdale, in The process of urbanization, citato in Martinotti (Martinotti, 1993).
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invece, continua con gli stessi tassi di crescita.
Oggi le città si trovano di fronte a due fenomeni legati fra di loro. Dal punto di vista demografico, la
maggior parte delle aree metropolitane e non presenta una crescita pressochè nulla. Alla stasi della
dinamica demografica corrisponde però un aumento della mobilità delle persone ed un conseguente
massiccio movimento demografico in uscita dalle città. L'uso antropico dello spazio è invece in
crescita costante. Se la pressione sugli usi del suolo era dovuta, in passato, alla crescita della
popolazione, oggi è alimentata dalla competizione fra usi diversi, residenziali e di consumo, da
parte della popolazione residente e di altre popolazioni: pendolari, turisti, studenti, eccetera (Cori,
1999).
Nella sostanza si tratta della tendenza al decentramento dalla città centrale alle aree più periferiche,
dal comune capoluogo ai comuni di corona. Brian L.J. Berry ha probabilmente coniato la
definizione più precisa di questa tendenza al rallentamento dello sviluppo urbano centrale,
rovesciando con il termine counter-urbanization l'originaria definizione di Tisdale, definendola un
processo di deconcentrazione della popolazione che implica un passaggio da uno stato maggiore di
concentrazione a uno minore di concentrazione10. La tendenza di fondo, secondo l'autore, è quella
che punta ad una civiltà urbana senza città, in linea con quell'ideologia antiurbana che è una
componente importante del pensiero anglosassone.
Fra gli urbanisti italiani c'è chi, descrivendo lo stesso fenomeno di deconcentrazione della
popolazione, ne dà un'interpretazione culturale in qualche maniera opposta. Secondo Indovina più
che di controurbanizzazione si dovrebbe parlare di diffusione dell'effetto città a livello territoriale.
La stessa contrapposizione fra città e campagna non avrebbe più alcun significato, in quanto il
territorio assomiglierebbe sempre più ad un enorme città con alcune zone agricole interclusive. Si
viene a configurare un territorio costituito da una città diffusa, mentre al suo interno trova
collocazione la città concentrata. Il fenomeno urbano, cioè, si estende senza modificarsi del tutto,
assume la sua tradizionale caratteristica ma solo a livello dimensionale più ampio (Indovina,
1990).
Il fenomeno della deconcentrazione della popolazione, interpretato di volta in volta come
controurbanizzazione oppure come diffusione urbana, è stato dunque anche in Italia oggetto di una
10 Berry, a cura di (1976), Urbanization and counter-urbanization, in Urban Affairs Annal review, citato in Martinotti (1993).
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notevole quantità di studi, sia nel campo della sociologia urbana (Martinotti su tutti), sia in quello
dell'urbanistica e della geografia urbana (Dematteis, Indovina, Secchi).
D'altra parte, il paesaggio italiano è stato profondamente trasformato dai fenomeni in atto. Tutte le
grandi città italiane sembrano ormai essersi dissolte nelle loro aree metropolitane le quali possono
essere descritte come una rete policentrica poggiante su una trama di reticoli che a sua volta si
distacca da un sottofondo interstiziale continuo di localizzazioni diffuse (residenze, verde, ecc.)
(Dematteis, 1990). E c'è addirittura chi si spinge a descrivere il nord Italia come una “megalopoli
padana”, rete di città interessate da continui flussi economici e sociali, e dove il territorio privato
ormai dei riferimenti storici, politici e culturali che un tempo costituivano l'anima della grande
pianura, scenario di storia come pochi altri in Italia e in Europa, ci appare sempre più indistinto ed
unificato (Turri, 2000).
Non si può però non rilevare una certa incongruenza fra l'enfasi data al concetto della diffusione
urbana, accompagnato dall'immagine di una campagna ridotta ad alcuni brandelli di un paesaggio
storico sopravvissuto, e i molteplici significati del fenomeno. Dopo oltre tre lustri di
sperimentazione e teorizzazione della città diffusa, sembra troppo ottimistica la presunzione che
essa non sarebbe mera urbanizzazione diffusa. L'ipotesi che la diluizione della città sul territorio
arricchirebbe quest'ultimo di qualità e servizi tipicamente urbani sembra, in larga misura,
un'illusione. La città diffusa non si differenzia poi tanto dalla periferia dormitorio e non sembra vero
che essa eluda attese speculative e segregazione sociale, in risposta a quanto sostenuto da Indovina
nell'affermare che in futuro ci potremmo trovare con una popolazione insediata in modo diffuso, ma
con una accresciuta concentrazione del potere di decisione e, quindi, con una più strutturata
gerarchizzazione dello spazio. Non è indifferente, infatti, cosa si diffonde e cosa si concentra
(Indovina, 1990).
Per dare sostanza alle diverse interpretazioni che hanno affollato il panorama disciplinare negli
ultimi anni, sembra fondamentale tener presente la dimensione quantitativa del fenomeno. Neanche
nel caso peggiore, alla scala nazionale il rapporto fra aree urbanizzate e superficie complessiva del
territorio è significativamente superiore al 10%. Non c'è alcun dubbio che lo spazio rurale e aperto
costituisce ancora un oggetto centrale nel governo del territorio, non fosse altro in ragione della sua
estensione.
La diffusione urbana è descritta piuttosto accuratamente in tutti i suoi aspetti demografici. Per
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quanto riguarda invece gli aspetti spaziali, molte ricerche si limitano ad interpretazioni qualitative,
spesso condizionate più dai convincimenti degli autori che supportate da dati oggettivi. Ciò
sorprende soprattutto per il fatto che la crescita fisica delle città, sia dei nuclei centrali, sia dei
filamenti che con essi formano le nuove conurbazioni, rimane una delle caratteristiche principali del
fenomeno urbano.
Certamente si tratta di una crescita diversa da quella sperimentata dalla città moderna, sia per
quanto riguarda la forma urbana che ne consegue (non più compatta ma dispersa appunto), sia per
quanto riguarda gli usi che determinano tale crescita (prevalgono sempre più usi legati alla mobilità,
al consumo, al loisir). A lungo, la cultura urbanistica italiana ha sottovalutato l'enorme domanda
di spazio espressa dagli stili di vita emergenti. Il teorema della fine dell'espansione urbana era
legato, infatti, alla constatazione dell'inversione della crescita demografica, al rallentamento della
produzione di nuove abitazioni, al forte incremento alla riabilitazione del patrimonio residenziale
invecchiato, alla sempre più rapida espulsione dell'industria ed alla conversione a nuovi usi degli
spazi liberati (Campos Venuti, 1987).
L'enfasi posta sul passaggio da una cultura dell'espansione a una della trasformazione ha di fatto
cancellato parole come crescita, espansione ed ampliamento dal lessico urbanistico. Ma l'uso di
parole come riqualificazione ha portato addirittura a classificare come riqualificazione urbana
interventi di mera espansione11.
Forse è stato l'apparente superamento dell'espansione urbana che ha comportato l'abbandono di ogni
ricerca sulle dimensioni fisiche della città, a cui si è preferito il mondo infinito delle interpretazioni
sociologiche, geografiche e territoriali. In Italia infatti, come ricordato sopra, la più importante
ricerca quantitativa su scala nazionale risale alla ricerca coordinata da Astengo negli anni Ottanta:
It.Urb. '80, la quale sottende comunque un preciso e definito approccio alla dispersione urbana.
Anni Ottanta, appunto.
11 Si consideri l'uso che in alcuni contesti locali si è fatto dei cosiddetti articoli 11, ovvero dei programmi di recupero urbano, istituiti con il decreto-legge 5 ottobre 1993, n.398. A Roma per esempio, gli interventi previsti da tali programmi riguardano una superficie complessiva di 7.000 ettari e prevedono una nuova edificazione pari a quasi 5 milioni di metri cubi. In molti casi non si tratta della rivitalizzazione di aree già urbanizzate ma di aree pubbliche non edificate, di aree agricole intercluse, o addirittura di aree esterne al perimetro urbano, connotate anche dalla presenza di beni paesistici ed archeologici.
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Approcci alla descrizione ed interpretazione della dispersione urbana
I contenuti delle due principali ricerche condotte a livello nazionale sulla misura
dell'urbanizzazione, It.Urb '80 e Itaten, riflettono i diversi orientamenti maturati nel mondo
dell'urbanistica nel corso degli ultimi venti anni12.
It.Urb '80, coordinata da Giovanni Astengo attorno alla metà degli anni Ottanta, attraverso il
coinvolgimento di ben dodici sedi universitarie, indaga l’evoluzione dell’urbanizzazione nel
periodo compreso tra il 1951 ed il 1981 su un campione di 25 aree scelte in tutte le regioni d’Italia13.
La ricerca testimonia la grande trasformazione del territorio italiano: nelle aree urbane osservate,
estese per più di 200.000 ettari, risiedono oltre 13 milioni di abitanti. Gli insediamenti si accrescono
con ritmi nettamente superiori a quelli della crescita della popolazione: aree produttive,
infrastrutture, attrezzature speciali generano una domanda di aree sempre più pressante. L’esito
territoriale di questa crescita è ben rappresentato nelle tavole allegate al rapporto: la dilatazione
degli insediamenti attorno ai nuclei originari porta alla formazione di vere e proprie costellazioni di
centri ormai privi di soluzioni di continuità14.
Una conferma di quanto la diffusione (poi dispersione) degli insediamenti costituisca il tratto
distintivo dello sviluppo urbano dal 1970 in poi, viene da una ricerca molto più piccola, ma assai
significativa, condotta nel 1995 da due ricercatori dell’Università IUAV di Venezia15.
L’osservazione della distribuzione della popolazione testimonia il compimento di una radicale
trasformazione del sistema insediativo: nel 1991 il 58% della popolazione italiana risiede in vere e
proprie conurbazioni, cioè in aree urbane formate da centri abitati contigui l’uno all’altro. La
diffusione caratterizza regioni assai differenti fra loro (dalla Toscana alla Campania), interessa le
principali aree metropolitane16 e regioni prive di un polo centrale (Veneto, Emilia), aree di sviluppo
economico più antico e altre dal recente sviluppo. Una nuova geografia dell’Italia vede affiancarsi
12 Esiste comunque fra i due indirizzi una sostanziale convergenza sulla necessità di una struttura urbana policentrica, organizzata su piccola e media scala, con centri urbani compatti, collegati tra loro da una rete efficiente di trasporto pubblico.
13 It.Urb.'80. Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia, pubblicato in Quaderni di Urbanistica Informazioni n. 8 (1990).
14 Il tema del consumo di suolo è stato poi ripreso dalla ricerca Cnr-Ipra, Interazione e competizione dei sistemi urbani con l’agricoltura per l’uso della risorsa suolo, Borachia, V., Boscacci, F. e Paolillo P.L., a cura di, (1990), Analisi per il governo del territorio extraurbano.
15 La ricerca condotta da F. Torres e F. Morellato si basa sull’analisi dei dati statistici sulla popolazione residente in centri e nuclei urbani nel 1971, 1981 e 1991.
16 La conurbazione milanese comprende 166 comuni, quella napoletana 111.
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alle grandi città come Napoli, Roma e Milano, altre prive di un’identità e di un confine preciso, ma
altrettanto popolate, come la Romagna, la Versilia, la piana dell’Arno, il Veneto centrale.
In anni più recenti, la ricerca Itaten, Le forme del territorio italiano, promossa dal Ministero dei
Lavori Pubblici17. Questa nuova ricerca avvicina lo sguardo e indaga la trasformazione degli
insediamenti ad una scala micro-urbanistica, descrivendo il rapporto fra edifici, lotti ed
infrastrutture e fra questi e le diverse forme del paesaggio. Vengono individuati alcuni “tipi
insediativi” ricorrenti nell’intera penisola e privi di identità e qualità. I ricercatori ricorrono ad
alcuni termini particolarmente evocativi, quali non-luoghi, fuori-scala, spazi ibridi, nuove
centralità a-topiche. Un paesaggio nato come esito di piccole cause, come se a nessuno fosse
venuto in mente nulla di originale e si fosse copiato gli uni dagli altri, fino a dar luogo a territori
fatti di oggetti ovunque uguali18. Una vera e propria idiosincrasia per intenzioni programmatiche e
pianificatorie sostiene questa crescita per continue aggiunte, lascia spazio ovunque possibile ad
interventi edilizi di piccola scala e riduce al minimo possibile gli investimenti parziali e spesso
marginali riguardanti le infrastrutture.
It.Urb. '80 segue l'approccio definito neo-riformista ed interventista, il quale sottolinea i rischi e le
contraddizioni della nuova suburbanizzazione e il suo impatto negativo in termini socio-economici
ed ambientali (Commissione Europea, 1990; 1996. Oecd, 1995; 2000), promuovendo l'idea di città
compatta e sostenendo la regolazione ed il governo del fenomeno in atto, il che comporta una
ridefinizione della dimensione normativa in materia e la ricerca di politiche e strumenti d’intervento
innovativi.
Itaten segue invece l'altro, quello neo-liberista e giustificazionista, adottato dai teorici della ville
émergente (Chalas e Dubois-Taine, 1997), contrario ad ogni tentativo di pianificazione territoriale
su larga scala e di controllo della mobilità e delle preferenze individuali circa la dislocazione delle
attività di produzione e consumo. Il modello di città compatta sostenuto dai neo-riformisti è
sottoposto a critiche che si riferiscono alla mancanza di chiarezza circa la scala con la quale
pianificare gli interventi (Jenks et al., 1996) ed all'insorgere di diseconomie di scala una volta
oltrepassate determinate soglie di densità ed ampiezza (Henderson, 2003).
Al di là delle predilezioni per l'uno o l'altro approccio, sembra che questa evidente contrapposizione
17 Gli esiti della ricerca sono pubblicati in A. Clementi, G. Dematteis. e P. C. Palermo (1996), Le forme del territorio italiano.
18 C. Bianchetti (2000).
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riproduca e perpetui, su un ambito problematico specifico, l'opposizione più generale fra piano e
mercato, tant'è che secondo i sostenitori dell'approccio neo-riformista le deregolazione neo-liberista
porta al cosiddetto governo degli affari, del potere economico, non contano volontà ed interessi
collettivi, ma il peso, la forza di pressione e persuasione del denaro (lecito e non) in una sorta di
connubio strumentale alla finanziarizzazione.
Ma questa divaricazione ideologica rischia di occultare, come è proprio di ogni ideologia, gli
interessi che a seconda dell'approccio privilegiato possono essere premiati o penalizzati. Quali sono
gli interessi in gioco? Quali i potenziali vincitori a seconda del modello privilegiato dall'azione
pubblica, ed in particolare delle amministrazioni locali?
Indubbiamente privilegiando la città densa e compatta risultano premiati gli interessi che si
riconoscono nel patrimonio urbano esistente, che sono legati cioè ai rilevanti valori patrimoniali
incorporati nelle città (come ad esempio il milieu finanziario), ed indubbiamente privilegiando la
“emergente” città a bassa densità si premieranno gli attori che hanno prevalenti interessi di
produzione (operatori immobiliari ed industria edilizia).
E' significativo come l'OCSE abbia rilevato per tempo il costo ed il rischio insito nella caduta dei
valori immobiliari manifestatasi a più riprese agli inizi degli anni Ottanta e degli anni Novanta, a
seguito delle crisi di trasformazione delle città19.
Ma sempre in quegli anni alcuni ricercatori già sottolineavano che strategie di compattamento
urbano via intensificazione ed infilling, se realizzate in assenza di strategie e quadri di coerenza alla
scala metropolitana, avrebbero potuto ulteriormente accelerare processi spontanei di sostituzione
funzionale e sociale, e determinare di conseguenza una banalizzazione del mix funzionale nei cuori
metropolitani, aumentando congestione e doppia velocità urbana.
Era d'altra parte già ben evidente in quegli anni che gli operatori immobiliari ed edilizi avrebbero
ottenuto vantaggi cospicui da un'onda deregolativa in campo urbanistico e di pianificazione che
consentiva ampi margini di libertà nelle aree periurbane e rurali, dove si offrivano maggiori
opportunità edificatorie e minori resistenze alla lottizzazione estensiva da parte delle
amministrazioni locali. La ricerca da parte di queste ultime di nuove entrate a fronte di una
19 Il Segretario Generale dell'OECD Jean-Claude Paye, in apertura di una Conferenza sul futuro delle città nel 1992, indicava, fra i molteplici “segni del malfunzionamento delle città” la caduta dei prezzi relativi dei beni immobiliari in numerosi Paesi (OECD, 1994: 9).
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generalizzata crisi fiscale della pubblica amministrazione avrebbe infatti accelerato ovunque la
tendenza alla dispersione insediativa.
Ciò che è importante sottolineare è che sia l'approccio neo-riformista che quello neo-liberista
appaiono condizionati da un limite ben preciso, da un elemento di debolezza: la spiccata prevalenza
di analisi di tipo qualitativo, che rischiano di essere viziate da pregiudizi ideologici, e l'ancora
insufficiente approfondimento a carattere quantitativo, sia in merito ai costi economici, sociali ed
ambientali della città dispersa, sia in merito ai costi della congestione e della iper-valorizzazione
della città densa.
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L'approccio neo-riformista
La “città dispersa”, una locuzione contro-intuitiva costituita da due termini apparentemente
irriducibili, si caratterizza dunque in linea di tendenza come l'opposto della città, come un
fenomeno di urbanizzazione cui non compete il titolo di città (Salzano, 2002); è solamente un
amalgama di edifici, privo di identità riconoscibile, e in cui infatti nessuno si riconosce. Sparisce
progressivamente lo spazio pubblico (della piazza, della strada pedonale, della città percorsa ed
utilizzata in ogni sua parte da tutti i cittadini), sostituito da ambiti specializzati, quasi sempre di
natura privata o privatistica: la casa, l'ufficio, il centro commerciale, lo stadio, solo per fare qualche
esempio. Ad unire questi spazi specializzati ed incomunicanti tra loro, solo la rete dei trasporti,
nell'insediamento diffuso dominata dall'auto, e da strade di scorrimento veloce che attraversano
indifferentemente i territori.
Nelle sue versioni estreme ed idealtipiche si configura come un mosaico di luoghi privi di identità,
sfigurati da una edilizia residenziale di qualità modesta e prevalentemente monofamiliare; di luoghi
senza urbanità dove le relazioni sono labili, i rapporti di vicinato poco amichevoli, gli spostamenti
quotidiani sempre più su misura con prevalente peso della mobilità non sistematica all'interno di
territori colonizzati da non luoghi (grandi centri commerciali, sale multiplex, factory outlet,
discoteche, parchi a tema...); la sua organizzazione complessiva è prevalentemente individualistica,
con segregazione dissociata (Lacaze, 1994) e crescenti deficit di vivibilità e di socialità anche nei
cuori delle regioni metropolitane, dove i contatti face to face tendono a privilegiare luoghi
molteplici, ma sempre più esclusivi ed appartati (Hall, 2001).
L'atteggiamento critico rispetto al consumo di suolo ed alla dispersione urbana assunto dai neo-
riformisti non ha trovato il necessario consenso (ovviamente nell'altra linea di pensiero): l'equazione
consumo elevato = spreco è stata giudicata troppo semplicistica e inutilmente moralistica, in un
certo qual modo accettando forme di sviluppo estensive e diffuse; in un'unica parola, disperse.
Emblematico in tal senso è il pensiero di uno dei più intelligenti studiosi e sapienti urbanisti italiani,
Bernardo Secchi, il quale afferma che nella grande città dispersa ogni sistema di stima di
fabbisogno, dimensionamento e zonizzazione diviene non solo futile, ma anche perverso. Il
problema non è dire dove si costruisce, ma come costruire; dirne la grammatica e la sintassi;
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stabilire regole, non quantità; abachi, non piani di zona20.
Questo sparpagliarsi della città, questa dispersione di funzioni urbane spesso segregate e
specializzate in un territorio privo di un disegno insediativo coerente, procede in parallelo con
altre frammentazioni che in parte rappresentano concause del fenomeno in esame e in parte ne
sono una conseguenza (Camagni e Gibelli, 1996):
• la frammentazione del mercato del lavoro, resa possibile dalla forte riduzione del lavoro
salariato nella grande impresa e dalla crescita di professionalità e specializzazioni che
sempre più si organizzano in rapporti di lavoro autonomo o flessibile;
• la crescente segregazione sociale che si manifesta sia nella città densa che nelle corone
metropolitane, e che segnala l'emergere di nuove forme di nuove forme di doppia velocità
urbana e di urban deprivation (OECD, 1998), che oppongono isole di povertà e di
esclusione ad isole di privilegio e di ricchezza auto-segregate, dove si sta affermando con un
certo successo anche il modello, di importazione nordamericana, della gated community21;
• l'esplosione dei bacini di mobilità, sia per quanto riguarda i percorsi casa-lavoro che gli
spostamenti non sistematici che ormai stavano diventando prevalenti;
• l'affermarsi di nuovi modelli di consumo spersonalizzati;
• la frammentazione amministrativa e la conseguente crescente competizione atomistica fra
gli attori della regolazione urbana.
Sorgono inevitabilmente specifici quesiti: esiste un rischio che le città europee perdano la propria
identità, morfologica e culturale, nella omologazione e banalizzazione prodotta dalla dispersione
insediativa? Quali sono i margini di compatibilità con il paradigma dello sviluppo urbano
sostenibile? E ancora, quali direzioni di ricerca privilegiare e quali criteri di valutazione utilizzare
per stimare i costi pubblici e collettivi indotti dalla dispersione urbana e per individuare misure
correttive?
20 Tratto dal saggio “Descrizione/interpretazioni”, contenuto in Le forme del territorio italiano, 1996).21 Zone residenziali private, spesso protette da cancelli e muri, in genere abitate da persone appartenenti a ceti medio-
alti. Ad esempio, nel Regno Unito si contano 1.000 interventi residenziali nuovi o di riuso del costruito riconducibili a questa tipologia, prevalentemente localizzati nel South-East (la ricca regione metropolitana di Londra) (ICRRDS, 2004); ma anche in Francia sta crescendo un'offerta abitativa costituita da “environments sécurisés, surveillés et ultrarèglementés” (Mangin, 2004).
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L'approccio neo-liberista
Nella storia delle città si sono avuti mutamenti subitanei ed altri più lenti, mutamenti che con
grande fatica e mai completamente hanno cancellato il passato, ed altri che lo hanno incorporato, lo
hanno fatto proprio assegnandogli nuovi ruoli e significati; la cultura neo-liberista sostiene che il
periodo che stiamo vivendo oggi fa riferimento, molto probabilmente, al secondo tipo, ed è
l'emergere negli ultimi decenni in tutti i Paesi ed in tutti i continenti di ciò che Robert Bruegmann
indica come il più importante fatto nello sviluppo urbano della nostra era. L'emergere cioè della
forte dispersione urbana sui territori di inusitata dimensione, il rapido formarsi, in ogni parte del
globo, di vaste Megacities.
Viene fatta una lettura della dispersione insediativa (non solo della città europea) che la vede non
risultare sempre da un movimento centrifugo, da una esplosiva fuoriuscita dalla città, ma all'opposto
è spesso l'esito di una progressiva densificazione di una ben più antica forma insediativa ed è
indice di un mutamento radicale della condizione moderna; un mutamento che investe le forme di
organizzazione sociale e politica, dei rapporti tra società e mondo degli oggetti, tra società e
territorio22.
Sino a tutta la prima metà del Ventesimo secolo la società urbana è concepita come formata da
grandi aggregati, classi o ceti al loro interno fondamentalmente omogenei nei comportamenti e nelle
aspirazioni. La città è il luogo ove questi aggregati, muovendo specifiche retoriche, si incontrano e
scontrano conquistando riconoscibilità, egemonia e potere. La maggior parte delle politiche urbane
cerca di costruire pragmaticamente un ponte tra le esigenze dei diversi gruppi tra loro in
competizione.
Nell’ultima parte del Novecento molte ricerche antropologiche, concentrandosi in particolare sulla
cultura materiale, sostituiscono al naturalismo ottocentesco un’interpretazione culturale
dell’emergere di bisogni, desideri ed aspirazioni incomprimibili. Il cibo che si mangia, gli abiti che
si indossano, l’impiego del proprio tempo e delle proprie risorse, il cinema, i libri, l’automobile e le
vacanze sono opinioni relative alla forma di società che si desidera. Il sistema di valori di una
società come le preferenze dei consumatori non possono essere presupposti, ma debbono essere
osservati empiricamente. In una città quale quella europea di fine secolo, connotata da un forte
22 Secchi, Le forme della città (2008).
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pluralismo culturale, ciò sposta il centro dell’attenzione verso l’identificazione di differenti gruppi
culturali, verso le diverse forme con le quali essi si esprimono nei confronti dell’ambiente e della
città, verso i loro miti ed immaginari e le loro radici, verso la storia delle mentalità, verso la
differenza e la sua storia, verso la lunga durata e le diverse dimensioni del tempo. Il
multiculturalismo non può essere ridotto alle sole differenze etniche e religiose.
La società urbana, non più interpretabile come formata da grandi aggregati omogenei, si disperde
così nell’innumerevole: in una dispersione di gruppi gelosi dei propri stili di vita dei quali la varietà
di situazioni presenti nella città diffusa diviene concreta rappresentazione.
Anche nell'approccio neo-liberista è riconosciuto il fatto che la nuova forma di città pone una serie
di gravi problemi, anche se si sostiene l’impressione che le lamentele e le critiche nei confronti
della dispersione abbiano le loro radici non dette in una serie di presupposti estetici e metafisici
piccolo borghesi, in una mancanza di conoscenza ravvicinata dei comportamenti dei diversi attori e
gruppi sociali e delle loro ragioni (Secchi, 1984). Nella riflessione odierna viene fortemente
accusata la mancanza di una seria valutazione anche delle opportunità che la città a bassa densità
offre o che spinge ad indagare.
La città dispersa viene criticata dai neo-riformisti principalmente su tre diversi terreni. Tali critiche
sono a loro volta criticate nell'approccio neo-liberista per vari motivi (i quali, perlomeno
appellandosi ad un minimo di buon senso, non possono essere accettati come validi).
Nel dibattito neo-riformista, essa appare, in primo luogo, come la negazione del valore della
prossimità, se non di valori comunitari che si rappresenterebbero nella città compatta. La risposta
dell'”altra sponda” sostiene la stranezza della critica dopo più di un secolo di messa in discussione
dell’anomia prodotta dalla città moderna, antitesi già per Durkheim della solidarietà sociale e
dovuta al continuo mutamento sociale proprio di una moderna società industriale. Una critica non
confortata dalle ricerche empiriche che riprende il pensiero degli “antilluministi”, da Herder a J.
Berlin. La coesione sociale non sembra essere superiore nelle parti compatte della città diffusa, nei
centri urbani e nelle loro periferie, di quanto lo sia nella sue parti disperse; identità, comunità e
tradizione sono concetti che non riescono a descrivere le società contemporanee dominate dalle
retoriche della competizione e della comunicazione23.
23 Secchi, Le forme della città.
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In secondo luogo, la città a bassa densità appare come il regno dell’automobile e quindi concausa
dei rischi ambientali, anzi delle certezze di degrado ambientale cui il pianeta va incontro. La contro-
critica prende le mosse dall'idea che le relazioni tra la dispersione ed un sistema della mobilità
prevalentemente affidato al mezzo individuale di trasporto non sono poi così chiare e limpide
quanto si vorrebbe, ma è fuori da ogni dubbio che questa forma di città non avrebbe avuto modo di
prodursi, perlomeno nelle dimensioni odierne, senza il largo privilegio e sostegno che da tutti i
Paesi ed a partire dai primi decenni del secolo Ventesimo è stato dato alla produzione e diffusione
dell’automobile come principale simbolo del benessere. E’ dubbio secondo i neo-liberisti che la
produzione di gas serra e di polveri sottili sia nella città dispersa più elevata che nelle aree
congestionate della città compatta.
Negli ultimi decenni del ventesimo secolo la mancata osservazione dell’emergere di una nuova
forma di città da un lato, e l’enfasi posta sul ruolo delle telecomunicazioni e delle città globali
dall’altro, hanno posto nell’ombra uno spazio dei flussi assai più concreto e tangibile, che
appartiene all’esperienza quotidiana della maggior parte della popolazione, smorzando la spinta
verso il progresso tecnico del mezzo individuale di trasporto, un progresso che tutti peraltro
possono immaginare essere a portata di mano e che, probabilmente, non tarderà a diffondersi.
Le nuove forme della città, in tutte le loro articolazioni, suscitano degli importanti dubbi che
possono esser tradotti con una domanda: è più facile e prossimo un cambiamento delle tecniche
della mobilità, o è più vicina a noi nel tempo e più facile una modifica della forma di città che,
radicata in un tempo più antico, è prepotentemente emersa nella seconda metà del ventesimo
secolo e della quale ci siamo accorti con grave ritardo? (Secchi, 2008)
Perché la nuova forma di città, con la sua grana larga, con i suoi vasti spazi interclusi, inedificati e
tutt’ora destinati all’agricoltura, offre grandi opportunità per politiche che si confrontino seriamente
ed in modo complessivo con i problemi ambientali.
A riguardo, un banale quanto superficiale esempio lo dà Bernardo Secchi, sostenendo che la gran
parte del pianeta, come il nostro Paese, ha seri problemi di gestione delle acque, di loro raccolta,
conservazione ed intelligente distribuzione. Il che implica un rovesciamento delle tecniche
tradizionali di gestione delle acque: rallentamento del deflusso delle acque dei fiumi, costruzione di
vasche di laminazione, di bacini di stoccaggio delle acque piovane, riutilizzo delle acque reflue. In
territori fortemente antropizzati come l’Europa e l'Italia, non saranno grandi bacini la soluzione,
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ma numerosi bacini di minori dimensioni (Secchi, 2008). La gran parte dei Paesi ha inoltre la
necessità di aumentare il manto vegetale, misura che si accompagna alla gestione delle acque. In
territori fortemente antropizzati come l’Europa non saranno grandi foreste la soluzione, ma una
rete di aree boscate estesa ed intelligentemente disegnata per assicurarne la compatibilità sia con
le aree agricole, sia con quelle urbanizzate. Gestione delle acque e aumento del manto vegetale
costruiscono l’opportunità di un grande progetto che non proceda in via incrementale, ma il
coraggio della costruzione di un nuovo paesaggio; un progetto che richiede rigore, coerenza e
perseveranza. Si tratta di ridisegnare l’intero paesaggio e la sua architettura, come è stato per il
ridisegno del paesaggio toscano da parte degli agronomi del Granducato, come prima era stato
per il ridisegno del paesaggio della bassa Lombardia con le marcite e le risaie, come è stato per il
ridisegno del paesaggio olandese e di molti altri paesaggi europei e di altri continenti; un
paesaggio che nasce da una nuova relazione tra popolazione e territorio mediata da una nuova
fase delle tecniche; costruito come quelli del passato ed altrettanto bello. (Secchi, ibidem)
In terzo luogo, la città a bassa densità viene critica sulla base di considerazioni estetiche. Secondo il
pensiero neo-liberista prevale nel giudizio estetico corrente un idealismo antistorico, un culto della
memoria, il mito della continuità.
Eppure ciò che ci colpisce a Siena, come a Venezia ed in molte altre città anche moderne che
giudichiamo belle, è lo straordinario deposito di intere generazioni che hanno aggiunto o tolto
qualcosa alla loro compagine, che l’hanno lavorata, trasformata, modificata attraverso intrusioni e
sostituzioni. E’ lo spessore di questo palinsesto urbano e territoriale che ce le rende amiche.
Nei suoi primi cinquant’anni di vita Siena era certamente meno bella di quanto ce l’abbia
consegnata la sua storia successiva e se si osserva con attenzione cosa sta avvenendo oggi nelle
periferie urbane, la numerosità di progetti che, entro una loro generale densificazione funzionale e
semantica, inserendosi nelle situazioni esistenti e trasformandole, propongono una nuova lettura del
loro spazio attraverso l’individuazione dei caratteri e dei ruoli specifici che possono essere assegnati
ad alcuni luoghi, è possibile immaginare che lo stesso fenomeno si produrrà anche nelle aree della
dispersione in futuro.
La nostra incapacità nel cogliere appieno le opportunità che le nuove forme della città e della
società ci propongono, la nostalgia per le forme del passato, mi appare come un indicatore del
nostro disorientamento, della nostra mancanza di solidi strumenti critici, della nostra riluttanza ad
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esplorare progettualmente orizzonti più lontani. Tutti sanno quanto Siena ed il paesaggio toscano
siano belli, quanto siano belle Ferrara o Montichiello, ma pochi fanno uno sforzo analitico per dire
di cosa siano fatti quei paesaggi e quelle città, di quali materiali essi siano composti, quali si
rappresentino nelle loro grammatiche e sintassi compositive. Prevale nel giudizio estetico corrente
un idealismo antistorico, un culto della memoria, il mito della continuità. La città non si costruisce
in un giorno e la città diffusa può costruire oggi l’infrastruttura di base di una nuova forma di
città. Cosa della quale si sono accorti per ora solo gli immobiliaristi che propongono di vivere
nella campagna, vicino al grande centro metropolitano ed al piccolo centro urbano.
Le diverse forme di città che nel tempo si sono succedute, trascinandosi od ostacolandosi a
vicenda, sempre sono state figlie di un progetto: è questo che oggi ci manca24.
Date per appurate le sue cause (rendita fondiaria, deregulation dei poteri comunali, monetizzazione
del territorio e speculazione edilizia), sulla città dispersa si potrebbe ragionare e riflettere
all'infinito; ma mentre si continua a scrivere, a dibattere e a criticare (rischiando di cadere nella più
alta “sterilità concettuale”) il meccanismo del consumo di suolo e la sua proiezione su scala urbana-
territoriale, la dispersione urbana, continuano ad alimentarsi (o forse, ad auto-alimentarsi).
E' necessario e doveroso, una volta presa coscienza di quello che significa città dispersa e di quelle
che sono le sue implicazioni, tentare di porre un freno in maniera piuttosto rigida alla progressiva
urbanizzazione dissennata e disorganizzata che, sia che sia più consono l'approccio neo-riformista o
quello neo-liberista, ci ha portato all'attuale situazione.
24 Da un intervento di Secchi al convegno Città in mutamento: è necessario non subire il cambiamento, tenutosi a Ferrara il 17 aprile 2008.
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I costi della dispersione urbana
Recentemente ha cominciato a svilupparsi anche in Europa un'attenta riflessione sui costi collettivi
della città a bassa densità: sui costi economici, ambientali e sociali che un modello insediativo
rarefatto, discontinuo, segregato e specializzato è destinato a produrre. Ciò che accomuna le
ricerche consiste nell'individuare parametri oggettivi di valutazione dei costi della dispersione come
supporto alle politiche urbane e territoriali.
In tal senso la ricerca quantitativa sui costi della dispersione potrebbe aiutare a focalizzare
oggettivamente gli elementi di indesiderabilità, dal punto di vista del benessere collettivo, di
modelli insediativi a bassa densità, al di là delle contrapposizioni fra interessi, ideologie e
predilezioni culturali. I motivi sono molteplici.
In primo luogo è d'aiuto a capire “come funziona il mercato”, in quanto consente di mettere a fuoco
non solamente i costi, ma anche i “vantaggi”, seppur privati, della dispersione.
In secondo luogo perchè contribuisce a giustificare le misure di intervento che si rendono opportune
o necessarie.
In terzo luogo perchè consente di qualificare queste misure in senso non esclusivamente regolativo
e prescrittivo, con riferimento alle misure orientate alla realizzazione di un “corretto mercato”
attraverso il principio economico di internazionalizzazione delle esternalità, allorchè dai
comportamenti individuali scaturiscano effetti negativi sulla collettività che non sono presi in
considerazione dalle forze di mercato (in quanto non entrano nei bilanci, e dunque nei calcoli di
profittabilità, individuali) (Gibelli, 2006).
Si tratta in questo caso di individuare l'equivalente in campo urbanistico ed edilizio del principio
“chi inquina paga”, imponendo di far pagare il giusto prezzo in termini di oneri, tasse e tariffe,
laddove siano chiare le conseguenze negative di comportamenti individuali spontanei sia sui costi
pubblici sostenuti dalle amministrazioni locali che sui costi collettivi25.
25 In tal senso è opportuno ricordare il principio della compensazione ecologica preventiva, lanciato a Milano il 7 novembre 2007 da Legambiente e da alcuni studiosi del Politecnico, tra i quali Pileri e Lanzani, come legge di iniziativa popolare: prima di costruire, garantire un'area verde equivalente a quella che è diventata edificabile.
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Infine, può contribuire alla messa a fuoco di strategie di medio e lungo periodo, di piani alla scala
pertinente e di mirate regole non negoziabili, sulla base di evidenze quantificabili e falsificabili.
Naturalmente la definizione di tali strategie e regole spetterà al sistema politico ed amministrativo,
ma una obiettiva stima dei costi della dispersione urbana autorizzerà i cosiddetti approcci
interventisti a sostenere con maggiore autorevolezza le proprie ragioni.
In sintesi si potrebbe affermare che la misurazione e la valutazione dei costi collettivi della città
dispersa possono essere interpretate come facenti parte del classico campo tematico dell'analisi
della discrepanza tra costi privati e costi sociali del processo economico; possono dunque essere
considerate come l'estensione alla città di un campo di indagine che si è affermato in termini di
legittimità metodologica e significato pratico: la misurazione e valutazione dei costi sociali,
l'equità della loro distribuzione e l'esplorazione della sostenibilità ambientale del processo
economico (Calafati, 2003).
Si parla dunque di costi pubblici e costi collettivi26: i costi pubblici sono quelli che gravano sui
bilanci delle pubbliche amministrazioni (e indirettamente su tutti i cittadini), per fornire servizi ed
infrastrutture ad insediamenti sempre più sparpagliati sul territorio: i costi di investimento e di
gestione per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture di trasporto, per la realizzazione e
la manutenzione dei servizi locali, per la realizzazione e l'erogazione dei servizi a rete. Tali costi
tendono ad aumentare in maniera esponenziale al ridursi della densità.
I costi collettivi sono invece quelli che non incidono pecuniariamente su un bilancio privato e che
un economista definirebbe costi sociali o esternalità tecnologiche negative: si tratta dei costi che gli
individui e la società nel suo complesso si trovano a sopportare indirettamente per effetto
dell'inquinamento, della congestione, del rumore, della caduta di qualità estetica della città, della
caduta di qualità del vivere sociale, della riduzione o compromissione di risorse ambientali
portatrici di utilità come fonti dirette di benessere o come opzioni aperte per fruizioni future.
E' dunque importante effettuare valutazioni e stime sui nuovi modelli di insediamento, sulle nuove
tipologie alternative possibili di espansione della città. L'affinamento di questo campo di ricerca
potrebbe ridimensionare molta contrapposizione spesso ideologica all'interno del dibattito culturale
(e molto lessico condizionato dai giudizi aprioristici, quali città dispersa vs. città compatta, ville
26 A differenza di quanto sostiene Luigi Mazza secondo il quale “pubblico” è sinonimo di “collettivo”, visto che, a mio parere, “pubblico” sottende le istituzioni, i soggetti, le regole mediante cui si governa e amministra la collettività e “collettivo” un insieme di individui, una comunità sociale.
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émergente vs. ville éclatée, urban intensification vs. town cramming...), fornendo altresì robuste
evidenze empiriche che, essendo per loro natura verificabili e falsificabili, possono costituire un
utile supporto per la definizione di mirate e coerenti politiche di controllo della forma complessiva
della città.
La ricerca nordamericana si è impegnata con largo anticipo rispetto quella europea nella produzione
di copiose indagini, sia quantitative che qualitative, sull'urban sprawl: sulle sue cause, le sue
caratteristiche, i suoi effetti. In particolare, già dagli anni Settanta27 si sono sviluppate molte
ricerche dedicate a stimare l'impatto di modelli insediativi differenti sui costi pubblici e sui costi
collettivi, attraverso la costruzione di indicatori appropriati e l'utilizzo di tecniche econometriche e
di modelli di simulazione.
L'anticipo dei tempi degli Americani è diretta conseguenza della lunga durata del fenomeno dello
sprawl e della sua ininterrotta fortuna in un Paese in cui le propensioni individuali per l'abitazione a
contatto con la natura sono state con continuità supportate dalle politiche del governo federale.
Le ricerche empiriche statunitensi sui costi dello sprawl, da quella pioniera elaborata nel 1974 dalla
governativa Real Estate Research Corporation (RERC,) a tutte quelle successivamente sviluppate,
utilizzano una metodologia comune: individuano alcuni modelli alternativi ed idealtipici di
espansione di frangia metropolitana, o casi di studio locali riconducibili a tali modelli idealtipici, e
stimano per ciascuna tipologia insediativa l'impatto in termini di costi pubblici e costi collettivi.
Negli anni le ricerche ovviamente si sono approfondite e affinate, con una maggiore sofisticazione
delle elaborazioni empiriche ed il ricorso esteso a modelli di simulazione e a tecniche
econometriche; ma i risultati ottenuti hanno costantemente confermato gli elevati costi pubblici e
collettivi di modelli di urbanizzazione spontanei prevalentemente guidati dal mercato (business as
usual, trend development) rispetto a modelli guidati dal piano (attraverso growth management e
urban intensification).
27 Un decennio in cui si è avviata negli States una nuova ondata di suburbanizzazione, molto più dispersa di quelle che l'avevano preceduta, ad elevatissimo consumo di suolo e di mobilità individuale su gomma, ma anche un decennio che ha registrato la prima grande crisi petrolifera.
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Urban sprawl e costi associati: una ricerca americana
Robert Burchell, uno dei più eminenti ricercatori statunitensi in questo campo, in una rassegna del
1998 su trent'anni di ricerche sullo sprawl ed i suoi costi realizzata nell'ambito del Transit
Cooperative Research Program per conto del governo federale (TCRP, 1998)28, ha proposto una
disamina esauriente della letteratura analitica, degli studi empirici e delle politiche suggerite o
sperimentate a livello locale.
Da questa minuziosa rassegna emergono le principali caratteristiche dello sprawl:
• bassa densità;
• opportunità di espansione illimitata;
• specializzazione e segregazione degli usi del suolo;
• sviluppo discontinuo;
• assenza di pianificazione di area vasta;
• prevalenza del trasporto su gomma;
• frammentazione amministrativa e pianificatoria;
• divari nel prelievo fiscale locale;
• grandi strutture commerciali;
• scoraggiamento implicito delle abitazioni per gruppi a basso reddito.
Come è facile intuire, si tratta di caratteristiche ravvisabili ampiamente nelle modalità di
occupazione del territorio di estrema frangia metropolitana all'opera anche in molte agglomerazioni
urbane in Europa.
Comunque un accenno più dettagliato lo merita la ricerca elaborata più recentemente, sempre da
Burchell, per il TCRP, per l'imponente base di dati disaggregati territorialmente su cui si sono
effettuate le elaborazioni empiriche, e per le interessanti valutazioni critiche sugli esiti delle
differenti strategie ed azioni sperimentate in anni recenti nei contesti locali per il governo dello
sprawl (TCRP, 2002).
28 TCRP è un ente di ricerca istituito dal governo federale nel 1992 per studiare soluzioni innovative in materia di trasporto pubblico. Le analisi sui costi dello sprawl costituiscono un progetto unitario.
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La ricerca ha utilizzato una base di dati disaggregata a livello di contea (3.100 contee, a loro volta
classificate in contee sprawl e no sprawl) ed a livello di Aree Economiche (si sono costruite le basi
di dati per 15 grandi aree metropolitane statunitensi).
Le tecniche econometriche ed i modelli di simulazione sono stati applicati a due scenari alternativi
proiettati al 2025: uno scenario tendenziale di uncontrolled sprawl ed uno scenario desiderabile di
controlled sprawl. I costi stimati sono relativi a consumo di suolo, infrastrutture a rete (reti idriche e
fognarie), strade locali, servizi pubblici locali, sviluppo immobiliare, costi individuali di trasporto e
qualità della vita.
I risultati delle simulazioni di scenario di crescita controllata evidenziano:
• un risparmio complessivo di suoli del 25% senza impatti significativi sul mercato delle
abitazioni;
• un risparmio di 12,6 miliardi di dollari per consumo idrico ed allacciamenti all'acquedotto
ed alle fognature;
• un risparmio dell'11,8% nelle infrastrutture stradali locali;
• un risparmio del 7% dei costi per servizi locali;
• un risparmio del 6% dei costi di sviluppo immobiliare.
Per la misurazione dei costi individuali di trasporto si è utilizzato un modello econometrico di
mobilità per stimare le miglia/persona come funzione della forma urbana. I risultati del modello di
regressione sono integrati con un modello di localizzazione della popolazione per fornire una stima
delle miglia percorse e dei costi di viaggio nei due scenari di sviluppo alternativi.
Lo scenario di crescita controllata evidenzia una riduzione del 4% delle miglia complessive
percorse quotidianamente e del 2,4% dei costi quotidiani di trasporto. In questa riduzione
complessiva, le miglia percorse con il mezzo privato diminuiscono del 4,7% e quelle percorse con
mezzi pubblici aumentano del 19% (TCRP, 2002).
Per quanto riguarda la stima della qualità della vita, se ne è tentata una misurazione attraverso 26
indicatori, ottenendo risultati poco significativi: a livello di contea, lo scenario di controllo dello
sprawl non sembra determinare miglioramenti sensibili. Il risultato è comunque significativo, in
quanto evidenzia ancora una volta la complessità del problema del governo dello sprawl, la scarsa
utilità di posizioni partigiane preconcette, la necessità di associare regole non contrattabili e
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pedagogia diffusa in merito ai rischi associati a stili di vita e di consumo dissipatori di risorse
scarse (Gibelli, 2006).
E' stato poi ulteriormente approfondito un aspetto rilevante, peraltro già indagato nei precedenti
rapporti del TCRP ma in maniera molto più qualitativa e descrittiva: l'efficacia delle differenti
strategie ed azioni effettivamente sperimentate a livello locale per il governo dello sprawl.
Si sono individuate sette principali strategie riconducibili a quello che oggi viene definito nel
dibattito urbanistico statunitense come il modello di Smart Growth29, e che rinvia al paradigma dello
sviluppo urbano sostenibile; per ogni strategia, si sono evidenziate le “tattiche” che sono risultate
più efficaci e quelle più povere di risultati.
Le sette strategie sperimentate nei contesti locali sono:
• “incoraggiare modelli insediativi più compatti”: le azioni che sono state più efficaci
riguardano la perimetrazione di Urban Growth Boundaries (confini urbano-rurali) alla scala
dell'intero territorio metropolitano e la definizione di bacini di servizi urbani alla scala
metropolitana, mentre vengono valutati come poco efficaci gli UGB urbani, i bacini di
servizi definiti alla scala locale, l'aumento dei development fees (simili, ma più ampi degli
oneri di urbanizzazione) e delle tasse, ed il trasferimento dei diritti edificatori (la “nostra”
perequazione urbanistica).
• “Ridurre la dipendenza dall'automobile”: si ritiene efficace un cospicuo aumento del costo
della benzina e molto meno efficace l'aumento del costo delle patenti di guida e delle tasse
sull'acquisto dell'automobile. Si riconosce comunque la difficile accettabilità politica della
prima misura in assenza di gravi crisi petrolifere.
• “Ridurre la dipendenza finanziaria dalle entrate locali (municipali) sulle proprietà e sulle
entrate commerciali”: quella che in Italia è definita perequazione territoriale è riconosciuta
come uno strumento cruciale per ridurre lo sprawl, anche se vengono sottolineate le
difficoltà incontrate nel promuovere forme di associazionismo intercomunale e di messa in
comune delle entrate fiscali (tax-base sharing) fra amministrazioni locali con basi fiscali
molto differenziate.
29 Le politiche di Smart Growth, diffuse negli anni Novanta, sono sistemi di regole pensati per ridurre lo sprawl suburbano e governare la crescita. Tendono a incoraggiare le persone ad abitare più vicine, a distanze percorribili a piedi da negozi e uffici. Uno degli scopi è quello di ridurre l’uso dell’automobile. Un altro di creare quartieri ricchi di interessanti “paesaggi stradali”. Un terzo di raggruppare gli abitanti entro densità maggiori per mantenere ampie zone di spazi aperti.
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• “Ridurre la concentrazione spaziale di gruppi a basso reddito realizzando migliore
differenziazione funzionale e sociale locale”: gli strumenti più efficaci sono considerati il
non-exclusionary zoning30 ed il frazionamento delle grandi abitazioni unifamiliari, ma
soltanto se praticati alla scala dell'intero territorio metropolitano.
• “Introdurre regole di buona progettazione locale”: anche se il tema è stato centrale nel
dibattito culturale e nelle proposte riconducibili al New Urbanism, non è considerato
particolarmente efficace per contrastare gli effetti negativi dello sprawl, poiché circoscritto
alla micro-scala territoriale.
• “Rivitalizzare le città centrali”: sono considerate efficaci le politiche per la riduzione della
criminalità, per la sicurezza, per il miglioramento delle scuole pubbliche e la realizzazione
di servizi pubblici. Un altro gruppo di politiche destinate a rimuovere gli ostacoli che si
frappongono alla riqualificazione di molti ambiti metropolitani possono essere tutte
ricondotte alla deregolamentazione urbanistica. Nel rapporto si sottolinea che non sono
risultate efficaci; in particolare, si fa riferimento alla flessibilizzazione degli strumenti
urbanistici locali, ai progetti in deroga, all'abbattimento fiscale, alla riduzione dei controlli
sulle rendite.
• “Istituire agenzie metropolitane preposte al controllo ed al coordinamento delle politiche
delle singole municipalità”. E' considerata la strategia prioritaria, la carta vincente per
combattere lo sprawl: in particolare, si sottolinea la grande efficacia delle esperienze locali
in cui enti o agenzie di livello metropolitano hanno ottenuto competenze, e l'autorità legale e
politica, in materia di pianificazione di inquadramento territoriale e di
coordinamento/integrazione delle politiche urbanistiche locali.
Va necessariamente sottolineato che in tale rapporto le valutazioni in merito all'efficacia relativa
delle politiche antisprawl non discendono da giudizi soggettivi e qualitativi degli autori, ma da
un'analisi empirica effettuata a livello disaggregato su tutto il territorio federale che ha valutato le
dinamiche dello sprawl (ed i relativi costi) relazionandole alle politiche ed alle misure
effettivamente sperimentate a livello locale.
Al di là delle significative differenze fra la suburbanizzazione nordamericana e quella europea, le
strategie e gli strumenti di azione che vengono valutati come i più efficaci per garantire uno
sviluppo nel lungo periodo più intelligente e sostenibile, presentano delle affinità interessanti con
30 Nei contesti statali o locali dove è stato introdotto, il non-exclusionary zoning sancisce che nelle zone a destinazione residenziale tutti i progetti proposti dagli operatori privati devono includere quote di edilizia abitativa destinata ai gruppi sociali a basso livello di reddito.
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quelli che si stanno sperimentando nelle migliori pratiche europee, perchè privilegiano la
pianificazione di area vasta e la definizione di nuove regole in materia di consumo di suolo e di
tutela delle risorse territoriali non compromesse, e di coesione sociale.
Più in particolare, alcuni strumenti, ritenuti innovativi e promettenti da una parte non irrilevante
della cultura urbanistica e delle amministrazioni locali del nostro Paese, quali ad esempio il
trasferimento di diritti edificatori e le diverse forme di fiscalità associata alla negoziazione
pubblico/privato, sono già da lungo tempo stati sperimentati nei contesti locali statunitensi e si sono
dimostrati, secondo le valutazioni espresse nel rapporto citato, poco efficaci, almeno per quanto
riguarda la riduzione dei costi pubblici e collettivi associati alla dispersione insediativa.
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Per qualcuno è ancora una questione “ideologica”
Questi aspetti del problema del consumo di suolo aiutano a far comprendere le ragioni per le quali,
mentre negli altri Paesi dell'Unione Europea è un fenomeno perlomeno temuto, e comunque
misurato e combattuto, in Italia è ignorato. Questo non può tuttavia esimerci dal dovere di
affrontarlo con decisione, sia per i guasti che provoca, sia per l'ostacolo che costituisce nei confronti
dello sviluppo possibile: parlando per mezzo di termini del diritto patrimoniale, sia per il danno
emergente, che per il lucro cessante.
Un danno emergente certamente costituito dallo spreco di risorse pubbliche e dall'aumento del
disagio sociale da esso derivante: l'aumento del rischio determinato dall'indifferenza della
dispersione insediativa nei confronti delle caratteristiche proprie dei suoli, l'allungamento crescente
del costo e del tempo dei trasporti, la ridotta funzionalità di tutte le reti e dei servizi e la necessità di
ricorrere a modi individuali di soddisfare esigenze di massa, la sottrazione al ciclo biologico di
risorse insostituibili per l'equilibrio tra uomo e natura, l'indebolirsi dei legami cui è affidata la
coesione sociale, la distruzione di testimonianze preziose della storia e della cultura della nostra
civiltà e di quelle che l'hanno preceduta. Per non parlare poi del danno estetico, dell'aggressione alla
bellezza dei paesaggi, pesantemente guastati dai modi che assume la squallida edilizia i cui
disordinati tasselli compongono il conglomerato paesaggistico della città diffusa (Salzano, 2006).
Un lucro cessante invece di duplice ordine, da un lato costituito dal fatto che vengono sottratte
all'uso agricolo parti del territorio storicamente finalizzate all'alimentazione della città: adibite a
produzioni ortive e frutticole rese obsolete dal prevalere dell'agricoltura industrializzata. Dall'altro
lato, costituito dalla perdita di quella risorsa, indispensabile per elevare la qualità dell'habitat
umano, e quindi anche per attirare residenti e visitatori, costituita dalla bellezza, dall'ordine e dalla
civiltà della città e del territorio sul quale si vive.
Danno emergente e lucro cessante insiti in quello che, secondo tutti gli osservatori, è il portato più
vistoso e più generale del modello di urbanizzazione attuale, sintetizzabile con la parola sprawl, che
sta ad indicare appunto l'insediamento umano sdraiato sguaiatamente sul territorio, che lo invade
divorandolo, cancellandone le caratteristiche sotto una massa indifferenziata e anonima di
elementi artificiali. Un gigantesco blob, che avvolge e cancella tutto ciò che incontra nel suo
irresistibile cammino.
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Cancella, in particolare, l'individualità di quella singolarissima creazione dell'uomo che è la città
quale la conosciamo. Una creazione che ha impegnato per secoli e millenni le civiltà che si sono
succedute sulla terra, che ha raggiunto i suoi modelli più alti in secoli e luoghi vicini a noi, che ha
costituito forse la più alta capacità dell'uomo di saldare la soddisfazione delle esigenze materiali e
di quelle spirituali e morali, di fondere in un unico oggetto materia e società. Lasciare indisturbato
l'attuale modello di crescita insediativa significa quindi, per chi è del mestiere, assumersi una
grave responsabilità: la responsabilità di chi è depositario di un'eredità che potrebbe giovare, se
messa a frutto, all'umanità intera, e invece di utilizzarla in tal modo la dissipa e la distrugge,
cancellando per incuria l'insegnamento che è in essa racchiuso (Salzano, 2006).
Viviamo un'epoca che ormai vede apparire i limiti della globalizzazione in maniera sempre più
vistosa, gli squilibri tra le varie parti del mondo e dell'umanità emergono con prepotenza nella realtà
e nelle coscienze degli individui, i drammi da essi provocati riescono con crescente fatica ad essere
contenuti dalle nuove barriere erette per arginarli, e le loro conseguenze sugli assetti degli stessi
Paesi sviluppati sono sempre più difficilmente scongiurate o represse.
E' così che la città della storia europea, la sua realtà fisica, culturale e sociale, costituisce
probabilmente una delle invenzioni della nostra civiltà che più hanno titolo a rappresentare, per gli
sterminati insediamenti dei paesi in via di sviluppo, non tanto un modello da esportare, quanto una
traccia di lavoro sulla quale operare per conferire, o restituire, ordine, bellezza, umanità, rispetto
reciproco, igiene, soddisfacimento delle esigenze elementari e base per la crescita e l'appagamento
di esigenze più alte.
Non compiere lo sforzo di comprendere e superare l'attuale dilagare del consumo di suolo,
conseguente alla crescita continua dello sprawl, non è perciò solamente un contributo doveroso alla
riduzione dei gravi effetti di degrado del pianeta Terra: la perdita di naturalità e biodiversità, lo
spreco di risorse fondamentali quali l'acqua, la terra, l'energia, l'aria, il progressivo affidare il
soddisfacimento delle esigenze umane a tecniche sempre più lontane dalla natura, e perciò meno
affidabili e controllate. Certo, tutto questo è vero, e perciò suscita qualche stupore il fatto che le
associazioni ecologiste abbiano finora prestato poca attenzione al dilagare della dispersione urbana.
Ma per gli studiosi della città, e delle discipline che di essa si occupano e sulla quale operano, c'è
una ragione di fondo in più: tutelare e ricostituire un bene comune, utile all'intera umanità, che essi
meglio di chiunque altro conoscono, o perlomeno dovrebbero conoscere.
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Dalla “città densa” alla “diversità densa”
Le misure di internazionalizzazione delle esternalità e di correzione del mercato devono essere
necessariamente supportate da una stima precisa dei costi prodotti dalla preferenza accordata
dalle attività economiche e residenziali alle tipologie insediative a bassa densità (Gibelli, 2006).
Non si tratta di imporre un autoritario e discrezionale intervento pubblico, ma si propone di
realizzare un modello efficiente di mercato, in cui la pubblica amministrazione si applica ad una
gestione quotidiana attenta ai costi ed ai benefici individuali e collettivi.
Ma oggi, nell'epoca della globalizzazione, della comunicazione globale e della crescente fluidità
spaziale che essa consente, la ricerca sui costi della dispersione urbana tende ad interrogarsi sulla
sostenibilità di tale modello insediativo sul medio-lungo periodo, per trovare soluzioni lungimiranti
ed innovative di riorganizzazione e gestione territoriale.
Come idea di base c'è la chiara consapevolezza dell'impossibilità nel perpetuare modelli insediativi
dipendenti dall'automobile in contesti territoriali che sembrano già connotati dal sovraccarico
urbanistico e dalla congestione; c'è la consapevolezza della necessità di soluzioni che accettino e
consentano processi diffusivi alla scala metropolitana, limitandone per giunta la dispersione micro-
territoriale ed orientandone la mobilità prevalente su infrastrutture e reti di trasporto collettivo31.
La ricerca sui costi collettivi di lungo periodo dello sprawl recentemente si è concentrata, con
rinnovata attenzione, su una variabile cruciale: la densità.
Storicamente tenuta sotto controllo dalla pianificazione urbanistica perchè non superasse verso l'alto
alcuni limiti massimi, oggi la densità viene osservata con preoccupazione anche quando oltrepassa
verso il basso alcuni limiti minimi, non consentendo di raggiungere le necessarie economie di scala
per i trasporti collettivi ed i servizi pubblici.
Molto fertili appaiono in una direzione di maggiore cautela, di giudizioso compromesso fra opzioni
interventiste, rigidamente schierate a favore della città compatta (e potenziali creatrici di
congestione e di costi di town cramming) ed opzioni deregolative, fiduciose nella capacità di
31 Soluzioni che richiederanno, per essere coerentemente formulate e stabilmente condivise, prospezioni di lungo periodo sull'impatto di modelli insediativi alternativi, cooperazione fra attori pubblici locali, piani e progetti pertinenti ed integrati.
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autoregolazione del mercato, le riflessioni, e le conseguenti indicazioni in materia di pianificazione,
sul rilancio del modello policentrico.
Un modello ben radicato nella cultura urbanistica europea del secolo passato che oggi ha ripreso
vigore, anche in previsione dell'elevata domanda abitativa che si manifesterà negli anni venturi in
tutte le aree metropolitane (e che si sta manifestando tuttora), per effetto del pieno recupero del
ruolo di centralità delle città in epoca di globalizzazione.
Il modello insediativo di area vasta che può ridurre i consumi di suolo e migliorare l'efficienza
energetica, e quindi la sostenibilità di lungo periodo delle agglomerazioni metropolitane è, secondo
molti ricercatori, quello del policentrismo a rete: un modello che scoraggia la dispersione
residenziale casuale e a bassissima densità, realizzando nuove centralità periferiche ad alta
diversificazione funzionale; che privilegia l'addensamento ed il raggruppamento funzionale in
corrispondenza dei nodi e dei principali corridoi di trasporto pubblico, superando la logica
settoriale che ha favorito il divorzio fra trasporti e forma urbana, fra pianificazione degli usi del
suolo e pianificazione delle infrastrutture (Gibelli, 1999); che realizza una migliore connessione
trasportistica fra centri del suburbio organizzati in rete così da valorizzare le relazioni intra-
periferiche e ridurre così la dipendenza dalla città centrale.
E' dunque il modello della diversità densa che potrebbe virtuosamente sostituirsi a quello della città
densa (Pouyanne, 2004).
Vincent Fouchier32, utilizzando una ricca date di basi sull'Ile-de-France, l'area metropolitana
parigina, nel 1997 ha evidenziato con accurate validazioni empiriche l'impatto negativo della bassa
densità sulle distanze percorse quotidianamente, sul consumo di mobilità su gomma e sul consumo
di energia procapite. Una vera e propria ricerca sul rapporto fra densità e sviluppo urbano
sostenibile, la quale ha sottolineato che i tanto vituperati grands ensembles33 hanno una densità che
è la metà del valore medio dell'area metropolitana parigina. Riferendosi a tali dati, Mangin
sottolinea che è stato soprattutto un problema di qualità dell'abitare più che di densità ad aver fatto
maturare il rifiuto per le tipologie condominiali (Mangin, 2004) e la fuga verso la cosiddetta
villettopoli.
Considerazioni di egual tipo si potrebbero avanzare anche per il contesto italiano, dove la tipologia
32 Docente all' Ile-de-France Regional Institute of Urban Planning Studies.33 Grandi aggregati, grandi quartieri.
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del condominio speculativo ha tradotto spesso in forme ben più banalizzate e dequalificate il
modello di matrice razionalista e modernista dei grandi quartieri di edilizia economico-popolare.
Da un punto di vista teorico poi, il modello policentrico consente implicitamente di raggiungere un
vantaggio ulteriore: avvicinare la dimensione del singolo centro urbano, inserito nel sistema
complessivo, alla dimensione ottima o efficiente della città che emerge dalla ricerca sui costi dello
sprawl, la quale sta portando nuova legittimità agli studi sulla dimensione ottimale della città
elaborati dagli economisti urbani negli anni Settanta, “ovviamente” all'epoca sottovalutati.
Un centro di 50.000 abitanti, secondo i risultati della ricerca empirica-econometrica, si
avvicinerebbe a tale situazione di ottimalità dal punto di vista dei costi pubblici, ma non per quanto
riguarda i vantaggi collettivi, che necessitano di economie di scala maggiori; ma questi vantaggi
potrebbero essere raggiunti, d'altra parte, attraverso l'organizzazione a rete dei diversi centri del
sistema, che possono fruire in larga misura di economie esterne di sistema (Capello, Camagni,
2000).
Un modello giudiziosamente compatto (Gibelli, 2006) e policentrico potrebbe rivelarsi, in estrema
sintesi, come il più adatto per porre sotto controllo i costi dello sprawl, per valorizzare gli elementi
positivi e, ad un tempo scongiurare i rischi, sia dell'eccessivo addensamento che della dispersione
insediativa:
• interpretando la metafora della città compatta in chiave di riqualificazione urbana: più
elevata qualità dell'ambiente urbano, dei servizi, degli spazi pubblici e della progettazione
urbanistica ed architettonica; maggiore diversificazione funzionale locale, con attenta
salvaguardia delle funzioni deboli;
• contrastando la dispersione insediativa, ma garantendo margini di libertà ai fisiologici
processi di diffusione urbana, all'interno comunque di quadri di coerenza territoriale definiti
alla scala vasta, in particolare per quanto attiene all'individuazione delle risorse territoriali
da tutelare o trasformare ed alla localizzazione dei nuovi interventi in aree ben accessibili al
trasporto pubblico di massa;
• garantendo maggiore coerenza degli strumenti urbanistici comunali con le indicazioni dei
piani di inquadramento territoriale, attraverso un'attenta analisi e valutazione dei giochi di
densificazione e “dedensificazione” possibili ed auspicabili attraverso la sperimentazione di
• sistemi di compensazione e perequazione intercomunale34.
34 Un modello policentrico analogo è stato messo a punto nel PTCP dell'area metropolitana bolognese (2004).
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Molte buone pratiche europee dedicate al governo della dispersione urbana si stanno sviluppando su
queste questioni e su queste sfide. Pratiche comunque inserite in un contesto di rinnovata centralità
della pianificazione, dei suoi principi e delle sue regole. Politiche comunque inserite in un contesto
in cui viene rilanciata la pianificazione di area vasta nel suo aspetto e carattere principale: gestione,
organizzazione territoriale ed attivazione di politiche in una posizione intermedia tra le regioni, che
legiferano, ed i comuni, che traducono gli indirizzi programmatici sovracomunali in piani regolatori
comunali.
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Governare la dispersione: la scala di intervento
Al di là del preciso impegno di molti governi nel monitoraggio dei fenomeni di consumo di suolo e
nella definizione di direttive e guide strategiche nazionali di politica territoriale, un efficace
controllo della dispersione periurbana può essere raggiunto solamente attraverso innovazioni
procedurali, regolamentari e progettuali di scala locale.
E' soltanto operando alla giusta scala territoriale che si può effettivamente realizzare il tanto
auspicato modello policentrico, un modello che scoraggi la dispersione insediativa casuale e a
bassissima densità, realizzando nuove centralità periferiche ad alta diversificazione funzionale; che
privilegi l'addensamento ed il raggruppamento funzionale in corrispondenza dei nodi e dei
principali corridoi di trasporto pubblico, superando la logica settoriale che ha favorito il divorzio
fra pianificazione dei trasporti, governo della forma urbana e protezione dell'ambiente; che realizzi
una migliore connessione trasportistica fra centri del suburbio organizzati in rete così da
valorizzare le relazioni intra-periferiche e ridurre la dipendenza dalla città centrale (Gibelli, 2007).
E' accaduto che gli insiemi di comuni contigui nei quali si sono manifestati itinerari di crescita
demografica ed industriale hanno cambiato natura e si sono trasformati, attraverso processi di
coalescenza territoriale, in aree urbane funzionali (FUA, Functional Urban Area). Si è in pratica
passati da una situazione iniziale costituita da una rete di comuni ad interdipendenza debole ad
una crescente densità relazionale tra insiemi di comuni contigui, fino a raggiungere un così elevato
grado di interdipendenza da identificare un unico sistema socio-territoriale, costituito proprio
dall'area urbana funzionale (Calafati, 2008).
Coalescenza territoriale ed area urbana funzionale. Due nuovi concetti di interpretazione delle
dinamiche urbano-territoriali: in una prima fase si intensificano le relazioni tra gruppi di città
contigue, in una seconda fase la densità delle relazioni, spaziali e di scambio, aumenta a tal punto
da rendere le singole parti indistinguibili, sia da una prospettiva spaziale che relazionale. Questi
sistemi urbani sovracomunali sono cluster di comuni organizzati intorno ad un centro pivot, che
prende il nome di comune centroide e che dà il nome all'area urbana funzionale; cluster in cui la
densità di relazioni è tale da far ritenere ogni comune come una parte di un sistema che lo
ricomprende.
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Schema del processo di coalescenza territoriale
e formazione dell'are urbana funzionale (FUA)
Molti sistemi territoriali hanno un'organizzazione policentrica costituita da matrici di relazioni tra
poli, le aree urbane funzionali35 o sistemi urbani intercomunali, appunto, che comunque non sono
città istituzionali, bensì insiemi di città contigue concettualizzati.
La coalescenza territoriale, generata dal modello di sviluppo relazionale e spaziale, è dunque ciò
che ha trasformato un insieme di città contigue in un'unica unità territoriale che si può definire
ancora una volta città, e che sta ad indicare il nuovo grado di ambito urbano di riferimento.
Ciò che quindi può essere chiamata densità di flussi relazionali tra individui dell'intero insieme di
città contigue (Calafati, 2008) può aumentare nel tempo a seguito di vari fattori; gli individui
estendono le loro potenziali relazioni all'intero insieme di individui/organizzazioni del sistema
locale, che è, appunto, l'area urbana funzionale.
In molti casi si può osservare che alcune città, come conseguenza dello specifico modello di
sviluppo spaziale, si sono fisicamente fuse l'una con l'altra (esempio emblematico la conurbazione
Mestre-Padova). Se si guarda alla loro organizzazione spaziale non è possibile distinguere tra i vari
ambiti territoriali istituzionali.
Il fenomeno della coalescenza territoriale dà quindi luogo, per definizione, almeno nelle sue fasi
iniziali, ad una configurazione territoriale che si presenta con la forma fisica della città dispersa.
Anche se non manifestato come insediamento compatto da un punto di vista fisico, un sistema
urbano può esprimersi come densità relazionale in termini di intensità ed estensione delle relazioni
tra agenti (individui ed imprese) ed anche come conoscenza che gli agenti hanno delle opportunità
35 Individuate e definite nell'ambito della ricerca europea PlaNet CenSE (Planners Network for Central and South East Europe).
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relazionali che la comunità locale offre.
Un sistema urbano ha una configurazione fisica dispersa anche quando i sottosistemi insediativi che
lo compongono sono l'uno dall'altro ad una certa distanza percorribile in breve tempo in auto o con
mezzi di trasporto pubblici (laddove la morfologia lo consente anche in bicicletta). Da un punto di
vista percettivo tali sottosistemi insediativi sono legati da un tessuto connettivo costituito dalla
cosiddetta campagna urbana e appartengono allo stesso sistema locale (o area urbana funzionale) in
quanto poli (stazioni o tappe) dei movimenti (flussi) quotidiani degli individui nello spazio per
scambiare materie ed informazioni (cicli circadiani).
La dispersione urbana è oggigiorno una configurazione territoriale piuttosto stabile, che è dunque
necessario imparare a governare, essendo la nuova forma nella quale si manifesta la dimensione
urbana. Una realizzazione efficace del modello policentrico non può quindi prescindere da
innovazioni che si fondano su un rilancio della pianificazione di area vasta, affidato a tre elementi
principali:
• maggiore flessibilità procedurale;
• nuove regole non contrattabili e dedicate a territori pertinenti, finalizzate a garantire
consumi più giudiziosi delle risorse di suolo;
• nuova progettualità, dedicata da un lato alla correzione delle esternalità negative prodotte
dalle scelte localizzative individuali e dall'altro al sostegno selettivo e premiale alla
cooperazione volontaria intercomunale.
Il piano d'area vasta, appunto. E' infatti da una decina d'anni ormai che si sta assistendo in Europa
ad una rinnovata fortuna della pianificazione d'area vasta, probabilmente anche in conseguenza
della dimensione assunta proprio dai fenomeni di dispersione dell'urbanizzato e di specializzazione
insediativa.
E' come se la pianificazione volesse tornare ad operare alla scala territoriale pertinente, sulla base di
una riflessione critica puntuale in merito agli eccessi di localismo derivanti dall'eccessivo
decentramento amministrativo e dalle politiche di deregolamentazione urbanistica, e accorandosi ai
principi di sussidiarietà e di coesione territoriale.
Tutto ciò è ormai ben noto, ma è opportuno soffermarsi perlomeno sul principio di coesione
territoriale introdotto nel 2005 nei documenti ufficiali dell'Unione Europea, poiché esso apre nuove
opportunità alle innovazioni in materia di politiche urbane (Luxembourg Presidency, 2005).
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Nel mettere a fuoco questo principio si è infatti introdotto, per la prima volta, il concetto di
“capitale territoriale”: un concetto che allude al territorio sia come risorsa che può generare
incrementi di efficienza e di produttività economica e di benessere per le popolazioni (beni pubblici,
capitale fisso sociale, capitale fisico), ma anche al “capitale sociale” incorporato nei luoghi sotto
forma di senso di appartenenza e di tradizioni consolidate e come “capitale relazionale” (inteso
come capacità di cooperazione e di “fare reti” su ambiti territoriali pertinenti e su sfide complesse).
Oggi, per ridare legittimità alla pianificazione di inquadramento territoriale, si privilegia il modello
che tende ad accoppiare iniziative top-down (come nuove leggi urbanistiche, direttive e linee guida
nazionali, incentivi finanziari e fiscali, ecc.) e bottom-up (costruzione di coalizioni metropolitane, di
visioni condivise e di azioni coerenti con le visioni alla scala della regione urbana). Alcune buone
pratiche si stanno orientando in questa direzione.
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Cooperazione intercomunale: qualche esperienza europea
Regno Unito
Nel Regno Unito il tema del livello intermedio è ritornato da qualche anno nell'agenda del governo
laburista, dopo che la pianificazione di area vasta era stata delegittimata durante l'era Thatcher con
l'abolizione nel 1986 delle authorities metropolitane; l'obiettivo è di attenuare l'eccessiva
centralizzazione del sistema di pianificazione attraverso la riterritorializzazione del processo
decisionale e la realizzazione di un modello di governance multilivello e reticolare.
A tal proposito sembra interessante il processo di rilancio della pianificazione a scala metropolitana
che si sta realizzando per iniziativa coordinata delle maggiori aree metropolitane del Paese, Londra
esclusa. Una rete informale di cooperazione costituita dalle cosiddette Core Cities (Birmingham,
Bristol, Leeds, Liverpool, Manchester, Newcastle, Nottingham, Sheffield) sta promuovendo un
modello a geometria variabile di costruzione dal basso di coalizioni metropolitane che si
differenziano sulla base di specificità locali di ogni conurbazione e delle istituzioni coinvolte,
attraverso il coordinamento intergovernativo ed il partenariato pubblico/privato. Supportata da un
gruppo di esperti (New Local Government Network) che ha ricevuto il sostegno del governo e
dell'opposizione, si è costituita una commissione (City Regions Commission) che ha elaborato un
progetto per la ricostituzione di un livello intermedio: la City Region.
Olanda
Sempre sul tema del rilancio della pianificazione di area vasta attraverso modelli cooperativi di
concertazione intergovernativa, il governo olandese, con il Quinto Rapporto nazionale sulla
Pianificazione Fisica del 200436 ha stabilito di concentrare l'urbanizzazione nei national urban
networks ed in particolare nelle concentration areas (le aree già densamente urbanizzate, le aree
immediatamente contigue ed alcuni nuovi clusters) per garantire opportunità localizzative
all'imponente domanda insediativa prevista nel medio-lungo periodo.
In continuità con il passato, spetta alle province ed alle municipalità attuare il compattamento
insediativo attraverso le visioni spaziali ed i piani urbanistici, e al governo verificare la
36 National Spatial Strategy: Creating Space for Development (VROM, 2004).
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compatibilità con gli obiettivi nazionali dei piani provinciali (streekplannen) e la conformità dei
piani urbanistici comunali.
La novità risiede nelle grandi aspettative riposte negli accordi informali realizzati in ambito
intercomunale: il governo si sta infatti impegnando nel promuovere forme di accordo volontario fra
comuni su problematiche che travalicano i confini municipali, in particolare in materia di
pianificazione degli usi del suolo e trasporti e, a questo scopo, intende introdurre incentivi
economici alla cooperazione.
Il modello privilegiato è il policentrismo: le opportunità di nuovo sviluppo insediativo si
concentrano nei sei National Urban Networks: le aree metropolitane policentriche (poly-nucleated
urban regions) caratterizzate al proprio interno da relazioni di complementarità fra centri. La
strategia per il rafforzamento delle relazioni fra i centri della rete si affida ad un modello flessibile,
aperto ed argomentativo: le reti dovranno infatti essere partenariali e orientate all'azione, e
scoraggiare, con strategie ed azioni condivise, la competizione atomistica fra municipalità.
Il progetto più avanzato di rafforzamento dall'alto e dal basso della rete urbana policentrica è quello
per la Randstad Holland, una megacity di 6.900.000 abitanti che vuole darsi una strategia di
pianificazione di lungo periodo integrata, interconnessa, coerente e coordinata. Nel 1998, per
iniziativa dal basso delle amministrazioni locali e delle rappresentanze degli interessi, si è costituita
nella Randstad un'associazione volontaria estesa al territorio metropolitano, Deltametropolis
Association, la quale ha dato luogo già nel 2002 ad un coordinamento formale fra enti locali.
Questo per quanto riguarda due tra le più importanti e solide esperienze europee. Un altro ambito
importante di innovazione possibile è comunque quello relativo al rafforzamento della cooperazione
volontaria fra comuni e della compensazione territoriale.
Francia
L'esperienza di successo più nota è francese e risale al 1999, anno in cui è stata approvata una legge
importante che ha preso il nome di Simplification et renforcement de la coopération
intercommunale.
Le problematiche emergenti che si intendono affrontare sono sostanzialmente tre:
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• limitare la dipendenza dei comuni da fonti di finanziamento legate allo sviluppo
immobiliare, una dipendenza che ovunque costituisce la principale ragione della
propensione all'espansione fisica;
• migliorare l'efficienza economica arginando la competizione fra comuni per l'attrazione di
nuove attività;
• attenuare la “doppia velocità” territoriale.
In estrema sintesi si può sottolineare che le tre tipologie di associazioni intercomunali previste dalla
legge sono tutte definite Communautés, a rimarcare l'ampliamento di competenze in materia di
pianificazione integrata e il valore identitario che si intende attribuire loro; il trasferimento di
competenze, obbligatorie ed opzionali, commisurato all'importanza demografica delle
agglomerazioni, si fonda sul principio di sussidiarietà, e a tutte e tre le tipologie vengono trasferite
competenze in materia di sviluppo economico e di pianificazione spaziale.
L'innovazione principale risiede comunque nell'istituzione della TPU (Taxe Professionnelle Unique)
con la quale si rilanciano le associazioni intercomunali volontarie a fiscalità propria, già
sperimentate con scarso successo nel 1992. La legge impone alle Communautès d'Agglomeration
(ed auspica per le Communautès de Communes) la messa in comune della tassa sulle attività
economiche extra-agricole (TP), la cui aliquota è stata armonizzata in maniera equa tra le varie
realtà locali, al fine di scoraggiare la loro stessa concorrenza, garantire una maggiore coerenza fra
scelte localizzative e offerta di accessibilità (quindi servizi), scoraggiare la dispersione
dell'urbanizzato e il consumo esasperato di risorse territoriali. Contemporaneamente lo Stato ha
istituito un fondo di compensazione proporzionale all'intensità della cooperazione realizzata a
livello locale.
I risultati dell'applicazione della legge sono stati molto superiori alle aspettative e hanno fatto
parlare di una rivoluzione silenziosa (Marcou, 2005), pur con il manifestarsi dei soliti
comportamenti opportunistici nelle modalità con cui le associazioni intercomunali si sono costituite.
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Nuove regole per il controllo della dispersione insediativa in Europa
Le riforme urbanistiche recenti approvate nei Paesi avanzati europei si connotano per un deciso
ritorno alle regole, dopo gli eccessivi entusiasmi deregolativi degli anni Ottanta e primi Novanta del
secolo passato: ovviamente regole riattualizzate che sono ancorate ad alcuni principi chiaramente
enunciati e che rinviano alle problematiche ed alle sfide emergenti, quali sostenibilità, solidarietà e
competitività.
Fin dallo Schema di sviluppo dello spazio europeo del 1999 viene promossa la città dei percorsi
brevi. È essenziale minimizzare l’ulteriore crescita degli spazi insediativi attraverso attente politiche
urbanistiche. Nel maggio 2007, con la carta di Lipsia sulle città europee sostenibili, lo stesso
concetto viene ancora rafforzato: “un prerequisito rilevante per un uso efficiente delle risorse è una
struttura insediativa compatta, che può essere realizzata attraverso una buona pianificazione
spaziale capace di prevenire lo sprawl. Tutto ciò implica una forte impegno per la individuazione di
spazi edificabili ed il controllo della speculazione”. Nel successivo follow-up di febbraio 2008 il
Parlamento europeo invita esplicitamente la Commissione e gli Stati Membri ad occuparsi dello
sprawl urbano.
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Gran Bretagna
La Gran Bretagna è in Europa uno tra i Paesi più densamente abitato ed è probabilmente qui che si
sono presentati i primi fenomeni di diffusione e dispersione dell'insediamento. Conseguentemente è
in Gran Bretagna che si sono sviluppate le prime serie procedure di pianificazione e controllo della
crescita urbana, con una impostazione che risale agli anni Quaranta del Novecento.
La diffusione urbana in Gran Bretagna ebbe origine da una parte per l'enorme pressione esercitata
sulle città dall'urbanizzazione di massa con una popolazione urbana superiore al 50% già nel 1851,
dall'altra a causa della scadente qualità della vita urbana e delle innovazioni nei trasporti che davano
la possibilità di risiedere in luoghi sempre più lontani dal posto di lavoro.
Negli anni Trenta del secolo scorso però il governo inglese cominciò ad allarmarsi per la continua
perdita di terreno agricolo prezioso, soprattutto nei dintorni di Londra, e nutriva preoccupazioni
riguardo alle spese da sostenere per fornire i servizi di base in uno schema di edificazione sempre
più frammentato. Poi lo scoppio del secondo conflitto mondiale interruppe tutti i lavori edilizi
avviati, tranne quelli strettamente necessari, e la campagna definita dig for victory (“zappare per la
vittoria”) metteva al centro dell'interesse nazionale la tutela e la preservazione del suolo agricolo
per garantire l'alimentazione della popolazione.
La particolare attenzione al tema della diffusione urbana in Gran Bretagna è documentata anche
dagli ottimi studi sugli usi del suolo che furono iniziati allora. Già nel 1930, il Land Utilisation
Survey aveva realizzato una cartografia (scala 1:10.000) che documentava gli usi del suolo in atto in
Inghilterra, Galles e Scozia (in Italia invece i primi studi sugli usi del suolo, peraltro a scala
inferiore e meno organici, risalgono agli anni Cinquanta).
Pertanto, fin dal secondo dopoguerra la Gran Bretagna aveva elaborato una chiara visione per lo
sviluppo urbano futuro. In rapida successione temporale emise alcuni provvedimenti legislativi (il
New Towns Act del 1946 e il Town and Country Planning Act del 1947), dando inizio ad una politica
che negli anni a seguire sarebbe stata chiamata “politica di contenimento della diffusione urbana”.
La politica di contenimento si basava, da un lato, sul sistema di pianificazione e su strumenti di
controllo che ne avrebbero assicurato il rispetto; il programma delle New Towns anticipava l'idea di
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sviluppo policentrico che successivamente sarebbe stata adottata da molti altri Paesi Europei.
Pensato per ridurre la pressione abitativa nelle grandi aree urbane, fu affiancato da linee-guida di
espansione anche delle realtà urbane minori. Ma sopratutto fu introdotto un meccanismo grazie al
quale era la comunità e non i singoli proprietari terrieri a trarre profitto dall'aumento di valore dei
terreni quando una volta diventati edificabili.
Dall'altro lato la restrizione della crescita fisica fu resa più efficace dall'individuazione delle green
belt (le cinture verdi), nelle quali il divieto di convertire terreno agricolo in terreno urbano fu
assoluto. Progettate dapprima a Londra e Glasgow, furono applicate successivamente a numerose
altre città o conurbazioni.
Lo scopo primario delle politiche di contenimento della diffusione urbana era quello di restringere
la crescita fisica degli insediamenti, assicurando che lo sviluppo urbano avesse luogo ad una
densità relativamente alta, in siti contigui al territorio urbano esistente, riducendo in questo modo
il costo dei servizi pubblici e minimizzando l'impatto sull'agricoltura (Hall, 1992; Cullingworth e
Nadin, 1997).
Fin dagli anni Quaranta dunque, le politiche di sviluppo urbano in Gran Bretagna sono guidate dal
duplice intento di assicurare schemi urbani ordinati ed economicamente efficienti e migliorare
contemporaneamente la qualità di vita nell'ambiente urbano. Anche se vi sono stati cambiamenti
nelle politiche adottate, l'impostazione di fondo è ancora oggi la stessa.
I dati testimoniano i buoni risultati ottenuti nel corso degli anni. La massima dinamica di espansione
delle aree urbane si è registrata in Inghilterra e nel Galles negli anni Trenta (circa 25.000 ettari
l'anno). Nel ventennio successivo al 1945 si era ridotta del 40% e continua a ridursi ulteriormente.
Negli anni più recenti, la progressiva urbanizzazione si è ridotta ad un terzo del valore di allora
(circa 8.000 ettari ogni anno).
Secondo l'associazione ambientalista Campaign to Protect Rural England (CPRE) oggi la
conversione annuale di territorio aperto in territorio urbano ammonterebbe nella sola Inghilterra a
circa 5.500 ettari l'anno (CPRE, 2006). Questo dato corrisponde ad un consumo di 15 ettari ogni
giorno, ovvero 1,1 mq l'anno per abitante.
La stessa politica di istituzione delle green belts dimostra un notevole successo, raggiungendo oggi
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una superficie di quasi 1,7 milioni di ettari. L'insieme del territorio variamente protetto secondo le
leggi vigenti (green belts, aree di particolare bellezza naturale, parchi nazionali) copre ormai oltre
un terzo del territorio nazionale complessivo. Le aree occupate a fini urbani raggiungono invece
appena il 9%.
Nel 1998 il governo inglese ha rivisto le proprie strategie in merito allo sviluppo urbano. Da un lato
si ha continuato a scommettere sulle green belts per limitare l'espansione e forgiare la qualità
urbana. Dall'altro lato sono state rafforzate notevolmente le strategie di riconversione urbana,
imponendo l'obbiettivo di reperire parte dello spazio necessario allo sviluppo all'interno di aree già
urbanizzate (brownfield sites).
I due documenti che definiscono la nuova strategia politica sono le Planning Policy Guidance
Notes n. 2 e n. 3 (PPG2 e PPG3) che riguardano rispettivamente le green belts e le politiche per la
casa.
La PPG-Green Belts conferma in tutto l'impostazione storica: obbiettivo principale della politica
delle green belts è prevenire lo sprawl urbano, e la caratteristica principale sta nell'essere territorio
aperto. Fra gli obbiettivi specifici si elenca il contenimento dell'espansione urbana attorno alle
grandi conurbazioni e l'impedimento della fusione di nuclei urbani diversi, la tutela del paesaggio
agrario e delle caratteristiche delle città storiche nonché l'incoraggiamento alla rigenerazione urbana
per l'indisponibilità delle greenfield s(terreni vergini).
Anche se continuano a non essere disponibili ad accogliere funzioni urbane, oggi nelle green belt si
incoraggiano anche usi diversi da quello agricolo legati alla ricreazione ed allo sport all'aria aperta,
nonché il recupero ambientale delle aree a stretto contatto con la città.
Le principali novità del corso politico inaugurato dal governo del New Labour sono, però, contenute
nella PPG3-Housing del 2000. Le più rilevanti:
• nuove modalità di determinazione del fabbisogno abitativo: oggi ogni regione deve fissare
un tetto massimo di nuovi alloggi, avvalendosi del principio di plan, monitor and manage,
diversamente dal passato, quando la determinazione del fabbisogno di spazio seguiva delle
semplici proiezioni statistiche (trend based projections). I criteri di determinazione del
fabbisogno sono calibrati sull'andamento del numero delle famiglie, sulle necessità
dell'economia regionale, sulla capacità residua delle aree urbane, sull'impatto ambientale e
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sulla capacità delle infrastrutture esistenti.
• Approccio sequenziale: ogni nuova occupazione di aree dev'essere necessariamente
giustificata, dando priorità di sviluppo alle aree già urbanizzate e considerando quelle
vergini come ultima risorsa a cui attingere. Con la Greenfield Direction, inoltre, sono stati
definiti ammissibili interventi di espansione soltanto su lotti di almeno 5 ettari o per progetti
di oltre 150 alloggi, tentando di prevenire il frazionamento delle aree aperte.
• Nuovi criteri insediativi: le scelte di trasformazione sono subordinate all'indagine della
disponibilità di aree sottoutilizzate o dismesse, alla raggiungibilità del posto di lavoro e dei
servizi a piedi o con mezzi pubblici, alla capacità di carico delle infrastrutture esistenti, alla
possibilità di formare comunità e alla verifica della sostenibilità ambientale.
L'eccezionale successo delle politiche di contenimento urbano che ha caratterizzato gli ultimi
sessant'anni di governo del territorio inglese ha dimostrato nei fatti che è possibile slegare le
dinamiche di occupazione di suolo dall'andamento economico, mantenendo un encomiabile
equilibrio fra città e campagna con una strategia basata su tutti i livelli della pianificazione.
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Germania
I tratti più rilevanti delle politiche di contenimento delle aree urbane in Germania sono invece il
loro forte orientamento quantitativo, basato su un'eccezionale statistica storica del fenomeno, la loro
sostanziale condivisione da parte di tutti gli schieramenti politici e l'approccio intersettoriale che
caratterizza le strategie adottate. La regolazione degli usi del suolo si configura come una politica
condivisa sostanzialmente da tutti gli schieramenti, del resto come per molte delle politiche legate
all'ambiente ed allo sviluppo urbano.
Essa affonda le radici in due tradizioni di pensiero e fa capo a due filoni legislativi diversi: il primo
è strettamente legato alla tutela dell'ambiente in quanto risorsa “a prescindere”, mentre il secondo si
basa sul principio di responsabilità intergenerazionale insito nella teoria dello sviluppo sostenibile.
Mentre l'approccio basato sulla tutela ambientale, rivisto e aggiornato dal principio di precauzione,
serve ad argomentare la riduzione dell'erosione di spazio rurale e naturale, l'ottica dello sviluppo
sostenibile aiuta ad inquadrare le ricadute di un uso oculato dei suoli all'interno del sistema
economico e sociale. Se da un lato si sottolineano i benefici per gli ecosistemi ed i paesaggi,
dall'altro si reclama la necessità di svincolare lo sviluppo economico da quello urbano che, in ultima
analisi, aumenterebbe anche la qualità di vita nelle aree urbane.
In Germania il tema del consumo di suolo è entrato nell'agenda politica sia del governo federale che
degli enti locali già nel secolo passato; nel 1985, nell'ambito della formulazione dei principi di
tutela del suolo, venne riconosciuta la necessità di invertire la tendenza di sottrazione di suolo al
territorio aperto e rurale. Il successivo programma di politica ambientale promosso nel 1998
dall'allora ministro per l'ambiente Angela Merkel si era posto l'obbiettivo di disgiungere in maniera
duratura lo sviluppo economico dall'occupazione di suolo e poneva per la prima volta un obbiettivo
quantitativo di riduzione dell'occupazione di suolo a fini urbani: fu fissata la soglia dei 30 ettari al
giorno, pari a circa un quarto della tendenza in atto in quel momento.
Tale obbiettivo è stato poi ripreso dal governo rosso-verde all'interno della propria strategia per uno
sviluppo sostenibile (Bundesregierung, 2002); nonostante si trattasse di un obbiettivo piuttosto
impegnativo, il Consiglio degli esperti per le problematiche ambientali lo considerava solamente
una meta intermedia e si era espresso a favore dell'annullamento della crescita quantitativa nel
lungo periodo: in uno slogan, crescita zero.
- 100 -
In un clima di sostanziale accordo sull'obiettivo da raggiungere, la riduzione del consumo di suolo
appunto, il dibattito verteva in primo luogo sull'opportunità o meno di stabilire un tetto quantitativo.
I contrari argomentavano con l'impossibilità di giustificare sia scientificamente che politicamente
un obiettivo quantitativo. Più importante sarebbe stata la messa a punto di idonei strumenti per
forgiare un'economia di rotazione delle aree (Frisch, 2006): ogni nuova occupazione di suolo
dovrebbe essere compensata dalla rinaturalizzazione di una superficie equivalente (in pratica,
l'equivalente della compensazione ecologica preventiva che sta muovendo oggi i primi passi nel
contesto nostrano).
Con l'obbiettivo dei 30 ettari al giorno concetti chiave come città compatta, accorpamento di
infrastrutture, aree di compensazione naturale e riconduzione alla naturalità fanno parte di questo
orientamento. Lo scopo dichiarato nella strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile è la
minimizzazione della diffusione urbana e della segmentazione dei paesaggi naturali, nonché
l'arresto della riduzione di spazi rurali e silvo-pastorali (Bundesregierung, 2004).
Nella strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile non è delineato un compiuto programma di
azioni. Vengono però descritti dettagliatamente i principi sui quali esso deve basarsi:
• le scelte di nuova urbanizzazione devono essere accompagnate e sostenute da un quadro
attendibile di costi socio-economici;
• gli strumenti economici e fiscali possono completare quelli della pianificazione urbanistica e
• è necessario rafforzare gli strumenti della pianificazione urbanistica e territoriale nonché
promuovere la cooperazione fra enti locali;
• il dialogo fra gli attori deve essere incentivato e sostenuto anche tramite la promozione di
progetti pilota.
A chi legifera è però chiaro l'intreccio complesso di esigenze ecologiche, economiche e sociali dal
quale è accompagnata ogni azione di riduzione di consumo di suolo. Oltre alla molteplicità di attori
responsabili della progressiva erosione di suoli agricoli e naturali, la principale difficoltà nel
raggiungere l'obbiettivo di 30 ettari al giorno sta proprio nella necessità di mediare fra gli obbiettivi
dell'ecologia, dello sviluppo economico e della predisposizione dello spazio abitativo necessario. Il
governo tedesco sostiene che è proprio per tale motivo che risulta necessario slegare il fenomeno
dell'urbanizzazione incontrollata da quello dello sviluppo economico (secondo il Rapporto sulla
tutela dei suoli (Bundeskabinett, 2002), la diminuzione del consumo di aree negli anni Settanta e
- 101 -
Ottanta, periodo tendenzialmente di crescita economica, testimonia che questo è possibile).
Le politiche contro il progressivo consumo di suolo fanno ricorso ad un'ampia gamma di strumenti:
con la clausola della tutela del suolo introdotta nel 2004 nel codice dell'edilizia e dell'urbanistica è
stato riportato all'interno della legislazione urbanistica l'indirizzo di uso parsimonioso di suolo,
favorendo in primo luogo lo sviluppo interno degli insediamenti. Per quanto riguarda il territorio
rurale ed aperto, invece, è stato introdotto su scala nazionale il principio della demolizione dei
manufatti non più utilizzati.
Oltre agli strumenti di esclusiva natura giuridica, vengono presi in considerazione strumenti di
carattere economico e fiscale per orientare gli usi del suolo. Ciò riguarda da un lato le politiche per
la casa, orientate con maggiore attenzione al patrimonio esistente ed al recupero delle aree
dismesse. Dall'altro lato, si tratta di riformare la fiscalità generale sostenendo con una diversa
tassazione la riduzione dell'occupazione di aree.
In ultima analisi, però, l'efficacia di tali politiche sta proprio nell'aver prefissato un obiettivo
quantitativo, che apre a forme di gestione comunale e di cooperazione intercomunale, con la
possibilità del monitoraggio degli effetti ottenuti. Obiettivo coraggioso, ma la strategia tedesca non
si ferma comunque qui: nel lungo periodo si auspica una economia di ricircolo delle aree già
urbanizzate, senza dover ricorrere ad ulteriori erosioni di spazi rurali e naturali. Sembrerebbe una
formulazione a carattere piuttosto utopico, ma comunque ben supportata da una coerente strategia
d'azione dal livello del Bund, ai Lander fino ai singoli comuni.
Ad oggi le dinamiche delle strutture insediative sembrano però non del tutto rispondenti agli sforzi
normativi e agli obiettivi di governance: il rallentamento della crescita urbana è sensibile, ma come
dimostrano i dati statistici non è ancora sufficiente per centrare l’obiettivo dei 30 ettari entro il
2020. In buona misura ciò è riconducibile ad un’insufficiente sensibilizzazione della classe
dirigente e dell’opinione pubblica.
- 102 -
PARTE TERZA
L'URBANIZZAZIONE DEL
TERRITORIO
- 103 -
L'urbanizzazione del territorio
In Italia, dunque, si parla molto di urbanizzazione del territorio, ma poco se ne sa. Da un punto di
vista scientifico infatti oggi nessuno può dire con certezza quale sia la percentuale di suolo
urbanizzato1, a differenza di altri Paesi maggiormente virtuosi (come Gran Bretagna, Germania ed
Olanda), dove vengono effettuate annualmente rilevazioni utilizzate poi come necessario supporto
per la pianificazione urbanistica e territoriale di area vasta e locale.
La situazione mondiale
A livello globale, la situazione che emerge dall'interpretazione dei dati, seppur parziali, messi a
disposizione dall'USGS2, è piuttosto critica. Essendo il cemento il materiale più utilizzato nella
costruzione di edifici ed infrastrutture, è “sufficiente” analizzare l'andamento dell'uso che se ne è
fatto nel corso degli anni. A partire dall'inizio del ventesimo secolo sono state utilizzate circa 55
miliardi di tonnellate di cemento.
Fonte: USGS. La produzione annua mondiale di cemento dal 1900 al 2009,
in giga-tonnellate (Gt), 2009.
1 In controtendenza con quanto sosteneva G. Astengo: “l'atto di definire l'uso del suolo è il nocciolo della pianificazione urbanistica”.
2 U.S. Geological Survey, organizzazione scientifica che fornisce imparziali informazioni circa la salute dei nostri ecosistemi e dell'ambiente, i pericoli naturali che ci minacciano, le risorse naturali su cui facciamo affidamento, gli impatti del cambiamento climatico e dell'uso del suolo e ci fornisce dei sistemi di scienza di base che ci aiutano mettendo a disposizione informazioni tempestive, pertinenti ed utili.
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Il grafico mostra la spaventosa impennata cementizia mondiale, esito in particolar modo delle crisi
economiche e geopolitiche che hanno colpito il Novecento. Da notare che nel 1990 si produceva il
doppio di cemento che nel 1970, e da allora questa quantità è cresciuta di oltre due volte e mezzo.
Fonte: USGS. La produzione annua mondiale pro-capite di cemento
dal 1950 al 2008 (in kg), 2008.
Fonte: U. S. Census Bureau, database internazionale,
versione dell'aprile 2005.
In linea con quanto espresso sinora, piuttosto assurdo e sconcertante il confronto tra il grafico della
produzione annua pro-capite di cemento e il tasso di crescita annuale della popolazione mondiale.
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Seppur le previsioni al 2050 rivelino che la crescita della popolazione sia in costante diminuzione,
essa comunque rimane nell'ordine di percentuali positive, il che significa che la presenza umana sul
territorio è in continuo, benchè decrescente, aumento. L'uso del cemento cresce però più in fretta
della popolazione mondiale, con andamento inversamente proporzionale, e non ha ancora raggiunto
una soglia di stabilità.
- 106 -
La situazione europea
L'importanza del fenomeno è sottolineata dall'interesse dell'EEA che diffonde ormai da anni dati sul
fenomeno. Gli ultimi tre rapporti dell'EEA, che riguardano il land cover change, lo sprawl e
l'evoluzione delle aree costiere, derivati anche dal progetto MOLAND (Monitoring Land Use/Cover
Dynamics), sottolineano come la crescita dei sistemi urbani in Europa stia avvenendo ad un tasso
non sostenibile, che comporterebbe il raddoppio delle città nell'arco di poco più di un secolo.
L'EEA pubblica cento indicatori (Core set of Indicators-CSI) tra i quali il CSI-014, dal titolo Land
take (consumo di suolo), che raccoglie le informazioni relative al consumo di suolo inteso come
l'incremento di superfici modellate artificialmente legato all'espansione urbana, delle infrastrutture
di trasporto e delle aree produttive commerciali e all'espansione di cave, miniere e discariche.
I dati dell'EEA esposti nell'indicatore sul consumo di suolo, derivano dal progetto Corine Land
Cover (CLC); nonostante l'inattendibilità dei dati Corine (non vengono apprezzate urbanizzazioni al
di sotto dei 25 ettari), essi forniscono comunque un interessante quadro del fenomeno.
Nel decennio 1990-2000 in Europa (su 23 paesi membri UE) si sono consumati più di 960.000 ettari
di cui 496.000 circa ad uso residenziale e servizi e 300.000 circa per impianti produttivi e
commerciali; in dieci anni è stata consumata una superficie complessiva pari a quasi quattro volte il
Lussemburgo, ossia settantacinque nuove città come Torino. Nel periodo di riferimento la superficie
artificializzata europea è cresciuta dello 0,3% rispetto agli altri usi del suolo (agricoltura, aree
naturali), con un incremento delle aree artificiali del 6,8% rispetto al valore nel 1990, a scapito di
suoli agricoli e pascoli per più dell'84%.
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1990-2000 – Contributo al consumo di suolo europeo (%)
Fonte: EEA
1990-2000 – Crescita del suolo consumato (%)
(superficie consumata rispetto alla superficie urbanizzata preesistente)
Fonte: EEA
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Per quanto riguarda il mercato del cemento si può ironicamente e tristemente affermare che in tal
senso la nostra nazione è all'avanguardia: 800 kg procapite ogni anno, esattamente il doppio della
media mondiale. A livello europeo siamo dunque al secondo posto, ben oltre anche la media
continentale; è comunque da precisare che fino al 2005 abbiamo guidato la classifica, superati poi
dalla Spagna nel suo pieno boom economico. Francia e Germania producono 400 kg a testa ogni
anno, il Regno Unito addirittura 200 kg. Essi sono tra i più importanti e sviluppati Paesi Europei;
eventuali interrogativi sul perchè tali Paesi abbiano una produzione minore della nostra potrebbero
essere facilmente svelati dal quadro legislativo e normativo di ogni Stato in materia (si veda il
capitolo precedente), derivante comunque da una consapevolezza, coscienza e mentalità che si
muovono su orizzonti diversi rispetto la situazione nostrana.
Elaborazione su dati AITEC (Associazione Italiana Tecnico Economica Cemento), 2009.
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La situazione italiana
Rispetto al contesto europeo l'Italia risulta piuttosto in linea: il consumo di suolo a livello nazionale
(a partire dai dati CLC) è stato dello 0,26%, con un incremento del 6,2%; complessivamente è stata
consumata una superficie di suolo pari a sei volte e mezza la città di Torino. Sulla base di questi dati
l'Italia è stato il quarto Paese in Europa come contributo alla artificializzazione del territorio dopo
Germania, Francia e Spagna; con un tasso di crescita medio annuo dell'urbano superiore alla
Francia e inferiore a Spagna, Portogallo e Irlanda.
La misura nel tempo di questo fenomeno complesso richiede però una particolare attenzione.
Spesso dati pubblicati da fonti differenti sembrano fornire indicazioni contrastanti sulla
quantificazione assoluta degli eventi. Risulta dunque di particolare importanza confrontare le
informazioni disponibili dalle diverse fonti comprendendone il significato e soprattutto i limiti.
Poche regioni italiane dispongono di dati piuttosto certi sull'entità del consumo di suolo, su tutte la
Lombardia, che ha confermato che il quadro fornito dai dati Corine è sottostimato.
1990-2000 - Crescita del suolo consumato (%)
(superficie consumata rispetto alla superficie urbanizzata preesistente)
Fonte: EEA
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Comunque nel Bel Paese negli ultimi 15 anni sono state realizzate circa 4 milioni di abitazioni
(legali, illegali, nuove ed ampliamenti dell'esistente). Se il 2005 è stato l'anno boom delle
costruzioni (e in tal senso è da ricordare che i dati Corine si fermano al 2000), da due anni a questa
parte il mercato immobiliare sta registrando una progressiva flessione che ha già lasciato (negli
ultimi due anni) senza lavoro almeno 200.000 persone e portato alla chiusura di 15.000 imprese
edili circa3.
Fonte: stat e Cresme, 2010.
Leggendo i dati regionali è possibile farsi un'idea della dimensione di quanto si sia costruito.
3 Fonte ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili).
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Fonte: Istat
Cifre spropositate, che confermano le valutazioni a scala europea, avvalorate dal confronto con gli
altri Paesi. Non inoltrandomi nelle dinamiche specifiche di ogni regione, mi limito ad affermare che
nel settore delle costruzioni continua comunque a permanere una situazione di forte crisi che,
secondo le valutazioni dell'Ance, proseguirà anche nel 2011.
In complessivo il settore dell'edilizia ha perso nel 2009 il 7,7% negli investimenti e nel 2010 la
flessione è stata del 7,1%, anche a causa della riduzione della spesa pubblica per investimenti; negli
ultimi mesi sono infatti crollate le compravendite, con quote di invenduto arrivate a circa 40.000
unità.
Sempre l'Ance prevede che in quattro anni, nell'arco temporale 2008/2011, il settore dell'edilizia
avrà perduto il 17,8% in termini di investimenti, cioè circa 29 miliardi di euro. Risultati molto
negativi segnano il comparto delle nuove abitazioni che nei quattro anni avrà perso il 34,2% del
volume di investimenti e l'edilizia non residenziale privata con una riduzione del 15,6%. Per i lavori
pubblici la flessione è in atto dal 2005 e nell'arco di sette anni (2004/2011) gli investimenti saranno
diminuiti del 31,8%.
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(*) Investimenti in costruzioni al netto dei costi per trasferimento di proprietà
(°) Previsioni Ance
Fonte: elaborazione Ance su dati Istat, 2010
Dai dati emersi ed indicatori di questo forte calo degli investimenti sulle costruzioni sembrerebbe
dunque che gli amministratori pubblici ed gli imprenditori privati si siano resi conto che il “mercato
del cemento” si trovi in una sorta di situazione di stallo, di profonda crisi; così non è.
Questa presa di coscienza non è figlia di politiche sostenibili, pensate per il benessere della
collettività e fondate sulla tutela del territorio, ma è solamente figlia delle regole imposte dal “dio
denaro”, tra le quali: se non vendo, non costruisco.
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(*) Investimenti in costruzioni al netto dei costi per trasferimento di proprietà
(°) Stime Ance
(°°) Previsioni Ance
Fonte: elaborazione Ance su dati Istat, 2010
A conferma del tutto la negatività del giudizio sullo stato di salute del settore delle costruzioni:
secondo il 55,6% delle imprese associate i comparti di attività in cui operano attraversano una fase
di stagnazione, mentre per il 41% i connotati congiunturali sono quelli tipici di una forte recessione.
Per contro, solamente il 3,4% delle imprese ritiene che la situazione degli ambiti settoriali di
interesse sia caratterizzata da una fase di espansione4.
L'attuale crisi finanziaria, che permane ormai da diversi mesi, mettendo in ginocchio il mercato
dell'edilizia, ha aiutato in buona misura a rallentare il processo di antropizzazione del territorio;
molti danni sono già stati fatti, ma non è troppo tardi, possiamo, ed è nostro dovere, regolare il
consumo di suolo e riorganizzare il territorio5; un consumo di suolo che si verifichi solo in casi
veramente necessari (opere pubbliche di vero interesse per la collettività e quant'altro), un mercato
edilizio che, anziché del verbo costruire, tenga conto dei verbi “recuperare” e “riqualificare”, con
riferimento al patrimonio edilizio esistente (perlomeno in Italia di grande entità). In un certo qual
modo è dunque lecito sfruttare questa fase di crisi dell'economia, parallelamente rendendo
consapevoli i cittadini dell'importanza del tema e, ancor di più, “illuminando” e rendendo
consapevoli i politici e gli imprenditori privati.
4 Fonte Ance.5 Il consumo di suolo è stato patologico nell'accompagnare la nuova organizzazione territoriale.
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Uno dei problemi principali in Italia è costituito dal fatto che, perlomeno per quanto riguarda il
mercato dell'edilizia residenziale, non è la domanda delle famiglie a muovere i processi che lo
regolano, ma una speculazione edilizia che nel boom di questi anni ha guadagnato in maniera
spropositata. A dar man forte a tali processi (in cui sono stati investiti larga parte dei capitali
rientrati dall'estero) è la certezza del guadagno, perchè, come confermato da molti studi che
mettono a confronto il periodo compreso tra il 1999 ed il 2009, investire sul mattone è risultato
molto più vantaggioso che farlo in borsa. Di fatto, grazie al continuo aumento del valore degli
immobili, c'è chi ha guadagnato moltissimo, ma al contempo le nuove abitazioni costruite sono
continuate a rimanere pressochè irraggiungibili economicamente proprio da quella fascia di
popolazione che ne avrebbe avuto bisogno.
Il fatto che esiste una domanda di abitazioni nel nostro Paese è innegabile, come è innegabile il fatto
che essa si spiega con il cambiamento avvenuto nella composizione dei nuclei familiari
(riducendosi il numero dei componenti, essi sono diventati più numerosi) e con il contributo
dell'immigrazione: dinamiche sociali comuni a tutti i Paesi europei, ma che da noi lasciano giovani
coppie e studenti, anziani ed immigrati, in balia della speculazione.
Per cui nelle aree urbane e nei comuni limitrofi si è continuato a costruire senza soluzione di
continuità migliaia di abitazioni, che con una dinamica dei prezzi che prescinde totalmente dai costi
di costruzione (nell'ordine di 4 a 1) hanno permesso di far guadagnare moltissimo proprio da una
fame di case che non trova risposte.
Ma la questione del disagio non riguarda solamente l'accesso alla prima abitazione, ma più in
generale la qualità della vita in queste nuove periferie dove chi ci vive è condannato a spostarsi in
automobile, a passare ore nel traffico vista l'assenza di efficienti collegamenti ferroviari e
metropolitani, e, di questo passo, senza nemmeno alcuna speranza che la situazione vada
migliorando negli anni a venire.
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Emblematico il confronto tra i dati sul numero di sfratti e sulle case vuote, indice di parte del
disagio abitativo nelle città italiane.
Elaborazione Legambiente su dati Istat e Ministero dell'Interno (2009)
Nei precedenti capitoli si è approfondito circa gli “errori” che sono alla base della situazione che
stiamo vivendo; è opportuno ribadire i più importanti, perlomeno nei loro aspetti sommari.
Il primo errore sta nell'insistere in un'idea sbagliata, ossia che sia principalmente una questione di
procedure e che una semplificazione sempre più spinta possa essere la risposta; eppure i frutti di
questa deregulation sono sotto gli occhi di tutti: un'edilizia di pessima qualità realizzata da
speculazioni legali ed illegali che hanno reso le nostre tanto più brutte quanto meno vivibili,
indicatore dell'erroneità del modello di sviluppo.
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In questi anni sono già stati messi in campo significativi interventi di deregulation in campo
urbanistico ed edilizio: abolendo programmi, commissioni, controlli6.
Negli altri Paesi Europei, come visto sommariamente nel precedente capitolo, li si affronta dentro
processi che tengono insieme la necessità di un quadro di decisioni strategiche in capo al pubblico,
che deve fissare gli obbiettivi e gli indirizzi di piano, e poi in un principio di responsabilità
dell'imprenditore e del progettista, ma anche procedure trasparenti, gare e controlli, sanzioni. Non è
un percorso semplice, ma guardare all'Europa è quanto mai urgente ed indispensabile.
La seconda idea sbagliata è quella per cui il tema casa, ma in generale le questioni edilizie ed
urbanistiche, siano da risolvere a livello locale, con strumenti e contrattazione nei comuni.
L'abbandono degli Enti Locali a loro stessi nell'affrontare problemi di degrado edilizio e sociale
spesso assai rilevanti, avergli tolto in questi anni rilevanti risorse e ridotto al lumicino gli interventi
di edilizia sovvenzionata, e in parallelo aver ridotto i controlli, ha portato i comuni a trovarsi alla
situazione attuale in cui vengono ripianati i bilanci con gli oneri di urbanizzazione e con le
speculazioni edilizie, continuando a non disporre di risorse sia economiche che fisiche (intese in
termini di aree libere) per realizzare proprio gli interventi di cui ci sarebbe bisogno, a meno che non
vogliano regalare altri metri cubi alla speculazione.
In una situazione del genere è evidente che i comuni sono un anello eccessivamente debole per
reprimere le lobby del cemento, spesso non essendo neanche organizzati per la gestione delle
autorizzazioni stesse, ad esempio con commissioni di valutazioni paesaggistiche il più delle volte
improvvisate.
Un'elaborazione Legambiente frutto dell'incrocio di dati Corine ed Istat7 stima circa 21.500 kmq
trasformati complessivamente dall'urbanizzazione in artificiali e 500 kmq mediamente “cancellati”
6 Basta ricordare l'abolizione del programma pluriennale di attuazione che aveva il compito di stabilire periodicamente le aree di intervento tra quelle individuate dal piano regolatore. La conseguenza è stata il via libera alla costruzione in tutte le aree previste dai piani enormemente sovraordinati. O l'abolizione per i comuni di vincolare le entrate derivanti dagli interventi edilizi (gli oneri concessori) ad opere di urbanizzazione nelle periferie, aprendo così al mercanteggiamento da parte dei comuni con gli operatori privati per ottenere soldi in cambio di cemento, e permettere di pagare le spese ordinarie. Senza dimenticare l'abolizione della Commissione Edilizia che, secondo tanti imprenditori ed architetti, limitava le possibilità artistiche e ritardava i cantieri. O la progressiva abolizione degli organi di controllo sulla legittimità e rispondenza alle leggi dei PRG.
7 I dati hanno il limite di essere sicuramente sottostimati, causa l'eccessiva dimensione delle celle unitarie di misura del CLC, come mostrato dal confronto con i dati raccolti in maniera più capillare ed aggiornata da alcune regioni, Lombardia in primis.
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ogni anno (circa tre volte l'area del comune di Milano).
Più che i numeri assoluti, perchè in parallelo le aree con presenza di boschi sono cresciute tra il
1990 ed il 2010 di circa il 20% superando i 106.000 kmq, sono i processi prodotti nei vari territori a
dover far riflettere. Come una fotografia aerea mostra meglio di qualsiasi ricerca, è soprattutto un
problema di qualità delle scelte insediative, e a destare preoccupazione alcuni territori di pianura (da
quella padana a quella campana, dalla costa adriatica del centro-nord a quella tirrenica del centro-
sud), completamente stravolti dagli ultimi vent'anni di urbanizzazione.
E' a questo punto appurata l'importanza delle ragioni per cui è necessario uno sguardo più attento
alle dinamiche di trasformazione del suolo in Italia, come è appurata la mancanza di fonti ufficiali
sufficientemente accurate che informino circa il dato, attuale e retrospettivo, di consumo di suolo.
Tra le fonti utilizzabili per lo studio delle forme dell’insediamento e delle loro interazioni con le
economie locali, le basi territoriali dell’Istat, aggiornate a intervalli decennali per lo svolgimento dei
Censimenti generali, rappresentano un patrimonio informativo accettabile per l’esaustività della
copertura territoriale a un livello di dettaglio che consente la partizione dei territori comunali in aree
omogenee per caratteristiche dell’insediamento8. Le località sono ulteriormente ripartite in sezioni
di censimento (circa 380.000 nel 2001), unità territoriali minime utilizzate per la raccolta e la
diffusione dei dati censuari.
La geografia delle località abitate del Censimento 2001 consente pertanto di conoscere la
distribuzione territoriale delle aree urbanizzate. I maggiori addensamenti si trovano in
corrispondenza delle principali aree metropolitane; è facile riconoscere sulla mappa i diradamenti
condizionati dalla conformazione orografica del territorio e gli addensamenti nelle fasce
pedemontane, nelle pianure e lungo i litorali.
8 In conformità alle disposizioni del Regolamento anagrafico e in funzione della presenza più o meno consistente e concentrata di edifici, il territorio di ciascun comune viene suddiviso in diversi tipi di località: centri, nuclei e case sparse, cui si sono aggiunte, a partire dal Censimento del 2001, anche le località produttive.
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Distribuzione geografica delle località di centro abitato e nucleo abitato (2001)
Elaborazioni su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni (2001)
Ma soprattutto è impressionante la copertura, quasi senza soluzione di continuità, dell’area
pedemontana lombardo-veneta, che costituisce una delle più vaste conurbazioni europee. Sono
chiaramente riconoscibili anche gli addensamenti che si sviluppano lungo le principali vie di
comunicazione.
Nel Mezzogiorno si distingue con chiarezza il peculiare modello insediativo storicamente associato
all’economia del latifondo, basato sulla contrapposizione fra centri densamente abitati e campagne
deserte, e l’intensa urbanizzazione delle aree costiere.
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Nel 2001 ricade all’interno dei perimetri delle località edificate il 6,4% del territorio nazionale
(circa 19.400 kmq), con un incremento del 15% rispetto al 1991, contro un incremento di
popolazione nello stesso periodo pari allo 0,4%.
Nel 2001 i residenti nelle cosiddette “case sparse” erano poco meno di 3,4 milioni (circa il 6% della
popolazione, il 9% in meno rispetto al 1991). La popolazione di centri e nuclei, invece, è cresciuta
dell'1%. La combinazione di questi due dati ci porterebbe a concludere che il grado di dispersione
della popolazione italiana sul territorio sia diminuito in questi dieci anni, ma la realtà è più
complessa.
La densità di popolazione delle aree urbanizzate è diminuita dai 3.154 ab/kmq del 1991 ai 2.769 del
2001. Nel 1991, inoltre, erano state identificate 59.726 località abitate, con una dimensione media
di 28,2 ettari. Nel 2001 il numero delle località è salito a 60.482 (+1,3%), con una superficie media
di 32 ettari. Il che significa che sono cresciute soprattutto le aree urbanizzate a bassa densità. La
tendenza nazionale, inoltre, sintetizza comportamenti locali molto differenziati, che segnalano
andamenti discordanti tra la variazione delle superfici edificate e quella della popolazione residente.
In tutte le regioni le superfici edificate dei centri e nuclei abitati sono cresciute nell’intervallo
intercensuario 1991-2001 più che proporzionalmente rispetto alla popolazione residente, con punte
di oltre il 30% in Calabria, Basilicata e Liguria (variazioni più che doppie rispetto alla media
nazionale).
È possibile analizzare le dinamiche combinate di popolazione e superfici urbanizzate nel periodo
intercensuario rappresentando, a livello di sistema locale del lavoro, le quote di popolazione
extraurbana (cioè residente in “case sparse”) e di superficie urbanizzata (compresa in “centri e
nuclei”).
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Caratterizzazione dei sistemi locali del lavoro per quote di popolazione non urbanizzata e quote di superfici
urbanizzate (2001)
Elaborazioni su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni (2001)
I gruppi ad alto tasso di urbanizzazione (in giallo e in rosso nell'elaborazione) descrivono entrambi
situazioni di consumo elevato di suolo per l’edificazione. Nell’insieme dei sistemi locali dei due
gruppi risiede il 73% della popolazione urbana nazionale, su una superficie complessiva di circa
14.000 kmq (meno del 5% del territorio italiano). I due gruppi si differenziano in funzione della
quota di popolazione che vive nelle aree extraurbane. Nel primo (in giallo) la quota di popolazione
residente nelle “case sparse” è trascurabile (inferiore ai 14 ab/kmq) e in media il 15% del territorio è
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occupato da aree urbane relativamente dense (oltre 3.400 ab/kmq). Il massimo impatto delle attività
antropiche sul territorio si concentra in questi sistemi locali (coincidenti in prevalenza con i
maggiori sistemi metropolitani e con quelli di hinterland), dove, su meno di un sesto della
superficie territoriale nazionale, insiste oltre la metà della popolazione residente e degli
insediamenti produttivi (circa la metà delle unità locali e degli addetti delle imprese). Oltre alle
grandi città, ricadono in questo gruppo molti sistemi litoranei.
La seconda tipologia ad alto tasso di urbanizzazione (in rosso nell'elaborazione) descrive invece
contesti territoriali dove a estese superfici occupate da aree urbane (le città vere e proprie) si
affianca un territorio periurbano caratterizzato da forme diffuse di insediamento della popolazione.
Sono queste le aree dove si manifesta con più evidenza lo sprawl. Perdurando l’assenza di forme
efficaci di governo del territorio, l’edificato diffuso tende, in questi sistemi, a saturare ogni spazio
disponibile per superfici molto estese.
Già nel 2001 la quota di popolazione extraurbana di questo gruppo era cinque volte superiore a
quella dei sistemi del gruppo precedente (a forte tasso di urbanizzazione). Nel complesso di questi
territori sono insediati circa un quarto della popolazione e delle attività produttive. Le densità
urbane sono meno accentuate (in media 2.000 ab/kmq) mentre quelle delle aree extraurbane sono
più che doppie (circa 30 ab/kmq) I confini tra le località abitate e il territorio circostante tendono a
essere poco definiti: gli agglomerati urbani si ramificano nel territorio, includendo parchi, aree
agricole, zone di insediamento a bassa densità, sino a saldarsi con le propaggini di altri agglomerati.
Si concentrano in questo gruppo i sistemi del triangolo veneto-lombardo-romagnolo. Dai vertici di
questa figura ideale, simili configurazioni territoriali si rinvengono a est verso il Friuli, a ovest
verso il bresciano e a sud, lungo la costa adriatica, fino ai sistemi abruzzesi di Pescara e Ortona,
passando per le Marche. Ricade in questo gruppo, un consistente aggregato territoriale tra Roma e
Napoli, lungo una direttrice che sembra prossima a completare la saldatura tra due aree a forte
consumo di suolo. Nel Mezzogiorno il gruppo è scarsamente rappresentato.
I rimanenti due gruppi includono sistemi locali caratterizzati da un basso tasso di urbanizzazione; vi
risiede rispettivamente il 10% e 15% della popolazione. Anche questi si differenziano in funzione
della quota di popolazione extraurbana. Il primo gruppo (in azzurro nell'elaborazione), più
numeroso e più diffuso sul territorio (263 sistemi locali, che accorpano poco meno del 40% della
superficie nazionale), è fortemente caratterizzato da quote elevate di popolazione extraurbana
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(14%). Le aree urbanizzate, che coprono appena il 3% della superficie, hanno un impatto contenuto
sul territorio. La distribuzione territoriale dei sistemi locali indica tuttavia una tendenza alla
concentrazione in alcune regioni di quelli caratterizzati dalle più elevate densità abitative
extraurbane (celeste più scuro nell'elaborazione): in Emilia-Romagna lungo la dorsale appenninica,
nella fascia del primo entroterra delle Marche, in Umbria e nell’entroterra campano. In molti dei
sistemi appartenenti al gruppo si registrano densità superiori ai 25 ab/kmq nel territorio esterno ai
centri abitati.
Una notazione specifica può essere fatta per la provincia di Bolzano, l’unica realtà, nel contesto
nazionale, di territorio prevalentemente montano interamente caratterizzato da valori elevati di
dispersione territoriale e densità abitativa della popolazione residente extraurbana, segnali dalla
pressione che lo sfruttamento turistico esercita sul territorio.
Infine l’ultimo gruppo (in verde nell'elaborazione) accorpa sistemi locali dove lo sfruttamento del
territorio in termini di superfici edificate è molto contenuto. La popolazione che vive in queste aree
(circa 6 milioni di persone) ha una netta propensione alla residenza in centri e nuclei abitati, dove le
densità abitative raggiungono valori considerevoli (in media 3.000 ab/kmq); di contro i territori
rurali sono quasi totalmente spopolati. L’estensione territoriale complessiva di tali aree non è
trascurabile (oltre un quarto del territorio nazionale); vi ricadono sistemi locali montani, e molte
aree del Mezzogiorno, soprattutto interno.
Le informazioni deducibili dall’aggiornamento delle basi territoriali per i prossimi censimenti
indicano univocamente una continuità con i processi intervenuti tra il 1991 e il 2001. Tra il 2001 e il
2008, l’incremento delle superfici edificate è stato del 7,8%, in cui si sommano le aree edificate
individuate ex novo e gli ampliamenti di quelle già individuate nel 2001.
Gli incrementi più consistenti (tra il 12% e il 15%) si registrano in Basilicata, Puglia e Marche, con
una punta del 17,8% in Molise. Il Veneto, che nel 2001 condivideva con la Lombardia il primato di
regione più cementificata d’Italia, con una quota di superficie edificata pari a circa l’11% del
territorio, vede ancora crescere le aree urbanizzate, anche se con variazioni meno accentuate
(+5,4%); considerando i valori assoluti, insieme a Lazio e Puglia, il Veneto è anche la regione dove
si è costruito di più (oltre 100 kmq di nuove superfici edificate).
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Località abitate, sezioni di censimento e superficie edificata delle basi territoriali di Census2010 - Anni 2001-2008
(valori assoluti, variazioni e composizioni percentuali)
Elaborazioni su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni;Basi territoriali progetto Census2010; Rilevazione annuale del movimento e calcolo della
popolazione residente.
L’aumento dei residenti nello stesso intervallo temporale, una delle componenti della domanda di
nuova edificazione9, mette in luce come l’incremento delle aree edificate in molte regioni sia più
che proporzionale rispetto alla variazione della popolazione. La forbice tra i due andamenti appare
particolarmente ampia in Molise, Puglia, Sardegna e Basilicata, dove la popolazione è in calo. Le
sole regioni dove la crescita della popolazione appare significativamente superiore alla variazione
delle superfici costruite sono il Veneto, che come visto approssima condizioni di saturazione del
territorio edificabile, e il Lazio, dove è ragionevole attendersi una ulteriore fase espansiva delle aree
urbane.
9 In letteratura, la domanda di nuovi volumi edificati è generalmente associata alla crescita della popolazione, mentre quella delle abitazioni è posta in relazione con l’incremento del numero di famiglie.
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Popolazione residente e superfici edificate per alcune regioni - Anni 2001-2008 (variazioni percentuali)
Elaborazioni su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni; Basi territoriali
progetto Census2010; Rilevazione annuale del movimento e calcolo della popolazione residente.
In Veneto, il peso della componente di nuovo edificato limitrofo o contiguo a vecchi insediamenti è
elevatissimo (pari o superiore all’85% del totale). I limiti all’occupazione di nuove aree sono
determinati dallo sfruttamento estensivo del territorio, che ha prodotto ormai da tempo una
saturazione degli spazi disponibili (è qui che si manifesta più evidente l’urban sprawl). La
distribuzione delle località è frammentaria, con una tendenza alla discontinuità che consente la
coesistenza di enclavi agricole intercluse tra le aree edificate.
È di immediata lettura la caratterizzazione spaziale dell’edificato in tali aree: lo sviluppo, non
governato da strumenti urbanistici, si diffonde in forma lineare dai centri principali lungo gli assi di
collegamento viario con i centri limitrofi e pervade le aree ex-rurali, seguendo forme caotiche o
spontaneamente strutturandosi lungo gli antichi tracciati della centuriazione romana, mantenuti nei
secoli come reticolato di confini interpoderali e più recentemente evoluti in “solchi” di
insediamento del nuovo edificato.
Le località abitate sono particolarmente diffuse, sebbene non siano eccessivamente grandi: infatti vi
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risiede in media una popolazione di circa 500 abitanti per località, valore molto più basso di quello
medio nazionale (circa 800), mentre la densità delle località stesse è la più elevata tra tutte le regioni
(42,5%). Ciò che caratterizza ulteriormente l’evoluzione urbana del contesto territoriale veneto
nell’intervallo 2001- 2008 è il proliferare di fusioni tra centri e nuclei preesistenti (oltre 170 casi su
circa 660 a livello nazionale).
Veneto, dettaglio delle località abitate - Anni 2001 e 2008
Elaborazioni su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni;
Basi territoriali progetto Census2010.
All’opposto, in Puglia, l’insediamento della popolazione è storicamente concentrato nei principali
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centri abitati comunali, con una bassa dispersione della popolazione nelle aree rurali. Nel 2001 la
Puglia era la regione con il più elevato numero medio di abitanti per località (circa 4.450) e la più
bassa densità extraurbana (4,5 ab/kmq). Nel 2008 si delinea un cambiamento del modello
insediativo storico, particolarmente nell’area della neo-provincia di Barletta-Andria-Trani, con
forme di prolungamento dell’edificato lungo gli assi di connessione viaria tra i centri principali.
Puglia, dettaglio delle località abitate - Anni 2001 e 2008
Elaborazioni su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni;
Basi territoriali progetto Census2010.
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L'impatto dell'urbanizzazione sul territorio
I dati sui volumi di edificazione sono stati utilizzati, in combinazione con le basi territoriali, per una
valutazione indiretta della situazione dei consumi di suolo per edificazione, portando l’analisi al
livello dei 686 sistemi locali del lavoro per il periodo 2001-2006.
Si può considerare, innanzitutto, un indicatore di stato, che sintetizzi la situazione all’inizio del
periodo nelle aree oggetto di consumo e cioè nel territorio periurbano ed extraurbano. Si calcola, a
questo scopo, un indice di densità territoriale della popolazione che risiede nelle sezioni di “case
sparse”, cioè fuori dalle aree urbanizzate (centri, nuclei e località produttive). Valori più elevati di
questo indice (che per l’intero territorio nazionale è pari a 11,9 ab/kmq) denotano i territori
caratterizzati da forme estensive di urbanizzazione, spesso realizzatesi (specie nelle aree più
dinamiche dal punto di vista economico) attraverso la dispersione e la commistione
dell’insediamento residenziale e produttivo, in zone periurbane sempre più ampie e quasi diluite
nello spazio rurale. Valori più bassi, al contrario, contraddistinguono le aree dove l’insediamento
della popolazione e delle attività produttive tende a mantenersi più concentrato e ad espandersi per
agglomerazione, con limiti più definiti e un più basso livello di interferenza nei confronti dello
spazio rurale.
La spinta al consumo di suolo generata dalla domanda di nuova edificazione può essere stimata,
invece, calcolando il rapporto fra i volumi autorizzati per la costruzione di nuovi fabbricati10 e
l’estensione delle aree “di riserva” non urbanizzate. Con riferimento al periodo 2001-2006,
possiamo assumere come proxy di questa superficie di riserva quella non compresa nelle località
abitate e produttive definite dal Censimento del 2001 (pari al 6,4% del territorio nazionale), né nella
superficie agricola utilizzata (pari a un altro 43,7%).
Il rapporto fra volumi autorizzati e “aree di riserva” può essere considerato una misura, certamente
imprecisa e probabilmente approssimata per difetto, della pressione esercitata sul territorio
dall’espansione delle aree urbanizzate. Nell’arco dei sei anni si ottiene, per l’intero territorio
nazionale, un valore medio di 15,9 metri cubi l’anno di nuovi volumi edificati per ogni ettaro di
10 Si suppone, in sostanza, che soltanto i nuovi fabbricati contribuiscano all’espansione delle aree urbanizzate, e che gli ampliamenti di fabbricati esistenti insistano su aree già occupate da insediamenti residenziali o produttivi, nell’ipotesi che i due errori di segno opposto (quello dovuto ai nuovi fabbricati realizzati entro il perimetro di aree già urbanizzate e quello dovuto agli ampliamenti su aree esterne a tale perimetro) tendano a compensarsi.
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suolo (teoricamente) urbanizzabile, di cui 7,0 per fabbricati residenziali.
In sintesi, mentre il primo indicatore misura la pressione della crescita urbana (o economica, il che è
sostanzialmente lo stesso) sul territorio, il secondo ne rappresenta la residua “capacità di carico”.
Mettere in relazione questi due aspetti consente dunque di tentare una valutazione della sostenibilità
del consumo di suolo per urbanizzazione a livello locale. Nell’ipotesi che, nel breve-medio periodo,
i modelli locali di sviluppo tendano a riprodursi con le stesse modalità del passato recente, si
possono definire critiche o poco sostenibili le situazioni in cui una forte domanda di edificazione
insiste su un territorio già sovraccarico, spingendo all’occupazione di aree sempre più marginali e
all’ulteriore frammentazione dello spazio rurale, con conseguenze negative per l’ambiente (ad
esempio, per l’incremento dei volumi di traffico o per il degrado delle aree verdi o agricole
residuali, intercluse nelle zone urbanizzate).
Com’è logico attendersi, la distribuzione territoriale dei due indicatori è, in generale, piuttosto
simile, ma presenta significativi scostamenti in alcune regioni. Se la spinta all’urbanizzazione è
forte in aree già densamente popolate, ciò significa che in queste aree un modello insediativo ad alto
consumo di suolo tende a riprodursi saturando progressivamente i residui spazi disponibili. È il caso
di gran parte della pianura padano-veneta, della fascia litoranea marchigiano-abruzzese e delle vaste
aree d’influenza di Roma e Napoli.
Nelle regioni a bassa o media densità di popolazione extraurbana, invece, la presenza diffusa di alti
valori dell’indicatore di pressione segnala un cambiamento di paradigma, che rischia di mettere in
crisi la stessa immagine storica di questi territori. Il caso più eclatante è quello della Puglia, dove in
quasi tutta la regione le aree extraurbane, storicamente poco popolate, sono investite da una forte
spinta all’urbanizzazione, ma situazioni analoghe si rilevano anche nella pianura friulana, nella
bassa lombarda e nel Campidano, fra Oristano e Cagliari.
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Caratterizzazione dei sistemi locali del lavoro per combinazione della densità di popolazione delle aree
extraurbane e pressione della domanda di nuova edificazione - Anno 2006
Elaborazione su dati Istat, 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni; 5° Censimento
generale dell’agricoltura; Statistiche sui permessi di costruire.
La carta sopra rappresenta una sovrapposizione dei due indicatori, individuando cinque classi che
corrispondono a diversi livelli di intensità della crescita del consumo di suolo.
Le situazioni più stabili (combinazione di bassa densità extraurbana e bassa pressione della
domanda di nuova edificazione rappresentate in verde scuro) si restringono, in pratica, alle sole aree
dell’arco alpino (con la significativa eccezione di quasi tutto l’Alto Adige e di buona parte del
Trentino), alle aree montane dell’Abruzzo (in gran parte protette) e al quadrante sud-orientale della
Sardegna.
Una situazione altrettanto stabile o sostenibile può essere considerata quella dei sistemi che
- 130 -
combinano media/alta densità di popolazione extraurbana e bassa pressione dell’urbanizzazione
(verde chiaro): in queste aree, in sostanza, l’agricoltura conserva un ruolo non del tutto marginale.
Le campagne, dunque, sono abitate ma non coinvolte in dinamiche di sub-urbanizzazione e la
domanda di nuova edificazione si mantiene entro livelli complessivamente modesti: è il caso di
diversi sistemi allineati lungo il crinale dell’Appennino tosco-emiliano e umbro-marchigiano e
raggruppati fra Tuscia e Maremma e nell’area del Pollino, fra Basilicata e Calabria.
Una situazione instabile è, invece, quella dei sistemi che associano bassa densità extraurbana e
media/alta pressione della domanda di nuova edificazione (giallo). In queste zone, la pressione
dell’urbanizzazione rischia di alterare un equilibrio storico fra paesaggio e insediamento: fra esse
troviamo buona parte della zona prealpina fra Lombardia, Trentino e Friuli, diverse aree (perlopiù
interne) di Sicilia e Sardegna, la Capitanata e l’area delle Murge in Puglia, e alcune aree del litorale
ionico calabrese.
L’associazione di media/alta densità e media/alta pressione (arancio) è quella che si riscontra più
frequentemente sul territorio nazionale, dove abbondano le aree extraurbane già parzialmente
colonizzate dalle avanguardie dello sprawl e in rapida evoluzione verso modelli, più o meno
spontanei, di urbanizzazione estensiva. Se nei sistemi del gruppo precedente l’equilibrio storico fra
popolazione e territorio è sul punto di collassare, in questi si può considerare già compromesso.
La situazione è comune in ogni parte d’Italia, tanto che è difficile associarla a specifiche
caratteristiche geografiche o economiche, se non per quanto riguarda monetizzazione del territorio,
speculazione edilizia e rendita fondiaria: è frequente nella pianura lombardo-piemontese come
nell’Appennino meridionale, nelle aree centrali di Umbria e Toscana come nella Sicilia interna.
Infine, le situazioni più critiche (rosso), dove coesistono alte densità extraurbane e forte pressione
della domanda di nuova edificazione: naturalmente le aree metropolitane, che sono per definizione i
luoghi in cui è massimo l’impatto esercitato dalle attività umane sul territorio, ma anche in gran
parte delle aree d’insediamento del modello di sviluppo economico della cosiddetta “Terza Italia”
(pianura emiliano-veneta e litorale adriatico).
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La situazione regionale
Sempre a partire dai dati elaborati da APAT (poi ISPRA) sulle coperture del suolo nell'ambito del
progetto europeo CLC, con tutti i limiti ad esso connessi, è possibile elaborare un confronto
sull'evoluzione del consumo di suolo nelle regioni degli ultimi venti anni, utile per valutare le
tendenze ma, per quanto detto, non affidabile in termini assoluti.
Fonte: Ispra 2006.
Emerge immediatamente la rilevanza già assunta dal fenomeno consumo di suolo nelle regioni del
nord-est (Lombardia, Veneto e Friuli Venezia-Giulia), oltre che nelle due maggiori concentrazioni
urbane del centro e sud Italia (Lazio e Campania).
Il confronto fra regioni, impostato sul dato pro-capite, fornisce ulteriori informazioni, tra l'altro
coerenti con quelle delle banche dati europee che individuano una correlazione intuitiva tra
consumo di suolo ed indicatori di benessere economico, e che infatti vedono nelle regioni del nord-
est italiano i dati più elevati. L'andamento non è però lineare, ed infatti emergono dati importanti in
regioni contraddistinte da una forte penetrazione di edilizia turistica, come Valle d'Aosta e
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Sardegna, dato che non si osserva in un'altra regione a forte vocazione turistica come il Trentino
Alto Adige, che ha tradizionalmente impostato la propria accoglienza sulla ricettività di tipo
alberghiero anziché sulla seconda residenza. In generale il consumo di suolo pro-capite a parità di
altre condizioni è più elevato in aree a forte caratterizzazione rurale, per ridursi significativamente
nei territori che ospitano concentrazioni metropolitane particolarmente dense (Torino, Milano,
Roma, Genova, Napoli).
Fonte: dati Ispra 2006.
La mancanza di dati aggiornati e sufficientemente precisi ha fatto sì che Legambiente ed INU -
Istituto Nazionale di Urbanistica promuovessero un Centro per le Ricerche sul Consumo di Suolo
(CRCS). Il primo rapporto, realizzato in collaborazione con il DiAP del Politecnico di Milano ha
fornito dati elaborati a partire dagli archivi di regioni che negli ultimi anni hanno affrontato con
approcci verificabili la valutazione degli usi del suolo. Purtroppo i dati raccolti soffrono ancora di
una grave insufficienza di copertura territoriale, infatti solo la Lombardia, il Friuli Venezia-Giulia,
l'Emilia Romagna ed il Piemonte dispongono di serie storiche di dati affidabili, ma comunque
confermano e precisano, correggendolo e spostandolo significativamente verso l'alto, il dato di
urbanizzazione. Si osserva come i dati individuati dalle quattro regioni dal CRCS siano in media più
elevati del 2-3% rispetto ai dati CLC.
Ad esempio in Friuli Venezia-Giulia i dati relativi all'anno 2000 mostrano un consumo di suolo
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secondo CRCS di 8,9% rispetto al 6,7% (+ 2,2%) individuato dal CLC nello stesso anno, in
Lombardia nel 2006 il CRCS dava il 13,6% mentre CLC 10,7% (+ 2,9%), in Piemonte nel 2001 il
CRCS diceva 5,2% mentre CLC 4,3% al 2000 (+ 0,9%) e addirittura in Emilia Romagna 8,5%
secondo CRCS al 2003 mentre CLC 4,9% al 2006 (+ 3,6%).
Elaborazione Legambiente su dati APAT (poi ISPRA) nell'ambito del progetto europeo CLC.
Per quanto riguarda la regione Marche, dai dati ISPRA del 2006 emerge che la percentuale di
superficie artificiale rispetto la superficie territoriale si attesta intorno al 4%, ovviamente con
aumenti quasi costanti negli ultimi venti anni, risultando la dodicesima regione più urbanizzata
d'Italia.
Dalle elaborazioni Istat circa la “caratterizzazione dei sistemi locali del lavoro per quote di
popolazione non urbanizzata e quote di superfici urbanizzate, 2011” (si veda il capitolo “La
situazione italiana”) si evince che tutta la parte costiera regionale e la prima fascia collinare sono
“ad alto tasso di urbanizzazione”, descrivendo situazioni in cui ad estese superfici occupate da aree
urbane si affianca un territorio periurbano caratterizzato da forme diffuse di insediamento della
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popolazione (perdurando l'assenza di forme efficaci di governo del territorio, l'edificato diffuso
tende, in questi sistemi, a saturare ogni spazio disponibile per superfici molto estese).
La fascia più interna, che va dal primo entroterra alle prime zone pedemontane, è invece
caratterizzata da un “basso tasso di urbanizzazione” e da densità di popolazione contenute.
Sempre dai dati Istat (si veda il capitolo precedente) risulta che nell'intervallo temporale che va dal
2001 al 2008 la popolazione residente nella regione è aumentata di quasi il 6%, a fronte di un
incremento della superficie edificata di quasi il 13%, più del doppio.
Dall'altra elaborazione Istat invece, “caratterizzazione dei sistemi locali del lavoro per
combinazione della densità di popolazione delle aree extraurbane e pressione della domanda di
nuova edificazione, 2006” emerge che l'unica zona a “bassa densità e bassa pressione” regionale è
quella corrispondente all'area protetta del Parco dei Sibillini, in territorio appenninico.
Per il resto, tranne che per una esigua porzione in Provincia di Pesaro-Urbino a “media/alta densità
e bassa pressione”, si è dinnanzi a sistemi ad “alta densità e alta pressione” lungo tutta la costa e la
prima fascia collinare, che sono dunque le situazioni più critiche, dove coesistono alte densità
extraurbane e forte pressione della domanda di nuova edificazione, e a sistemi a “media-alta densità
e media-alta pressione” per la restante porzione di territorio regionale, la più estesa, dove
abbondano le aree extraurbane già parzialmente colonizzate dalle avanguardie della dispersione
urbana e in rapida evoluzione verso modelli, più o meno spontanei, di urbanizzazione estensiva, che
comunque stanno ad indicare una compromissione dell'equilibrio storico tra popolazione e
territorio.
Complessivamente, dai dati del Corine Land Cover emerge che la percentuale di superficie
artificiale regionale è pari a circa il 5,5% (540 kmq), a fronte di una media italiana del 7,1%.
Vediamo ora nel dettaglio la situazione della Provincia di Fermo.
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PARTE QUARTA
IL CONSUMO DI SUOLO
DELLA PROVINCIA DI
FERMO
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La Regione Marche
La Provincia di Fermo è una nuova provincia di 177.706 abitanti1 della Regione Marche, istituita
con Legge 11 giugno 2004 n. 147, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 138 del 15 giugno 2004 e
divenuta operativa a tutti gli effetti con le prime elezioni provinciali del 6 e 7 giugno 2009. Si
estende su una superficie di 859,51 kmq2 e comprende 40 comuni, di cui, ovviamente, Fermo è il
capoluogo.
Affacciata ad est sul mare Adriatico, confina a nord-ovest con la Provincia di Macerata e a sud con
la Provincia di Ascoli Piceno, dal cui territorio originario è stata scorporata.
La provincia è stata istituita dalla Legge 11 giugno 2004 n. 147, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 138 del 15 giugno 2004 ed è divenuta operativa a tutti gli effetti con le prime elezioni provinciali
del 6 e 7 giugno 2009.
1 Dato Istat al 31agosto 2010.2 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni.
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Caratterizzata da un territorio prevalentemente collinare, regge la propria economia con il settore
manifatturiero ed il piccolo artigianato; siamo infatti dinnanzi al distretto calzaturiero più grande
d'Europa (per estensione territoriale e per occupati), localizzato nella parte costiera e primo-
collinare a nord, e dinnanzi al distretto vivaistico, anch'esso il più grande del continente (sempre per
estensione territoriale e per occupati), posto a ridosso degli ultimi chilometri della vallata del fiume
Aso, a sud, lungo il confine con la Provincia di Ascoli Piceno.
Zone ambientali di rilevante interesse sono date quasi esclusivamente dalla porzione “fermana” del
Parco dei Sibillini, in “comproprietà” con le Provincie di Macerata, Ascoli Piceno e Perugia.
La classica struttura geomorfologica a pettine che caratterizza tutte le Marche è data dai bacini dei
fiumi Ete Morto e Chienti a nord, dal Tenna e dall'Ete Vivo nella porzione centrale e dal fiume Aso
nella fascia più meridionale, dettando anche il sistema viario, che si alterna tra strade di fondovalle
e strade di crinale principali, lungo le quali si è sviluppato l'insediamento, connotato dal classico
sistema policentrico dato da un armonioso alternarsi di nuclei urbani e borghi storici, che, come si
vedrà in seguito, è stato completamente snaturato, perlomeno nella parte centro-nord,
dall'urbanizzazione prima diffusa e poi dispersa (vd. mappa “Sistema territoriale”).
Il sistema viario provinciale è poi completato dalle infrastrutture trasversali di collegamento delle
vallate e dei crinali, in maniera piuttosto omogenea e funzionale.
Le reti di trasporto nazionale sono invece costituite esclusivamente dall'autostrada litoranea A14 e
dalla strada nazionale SS14 Adriatica, che le corre quasi parallela, così come il tracciato della
ferrovia, creando una netta spaccatura nella fascia costiera. A ciò si aggiunge la vecchia ferrovia
Porto San Giorgio – Amandola, costruita nel 1908 e dismessa nel 1956, della quale si leggono
ancora i segni sul territorio (vd. mappa “Sistema infrastrutturale”).
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Il lavoro svolto: perchè
Si è detto che la quantificazione dell'effettivo e reale consumo di suolo è il punto di partenza per
poter comporre una base conoscitiva adeguata che sia di supporto a politiche urbane e territoriali
volte al contenimento dell'urbanizzazione ed alla riorganizzazione territoriale (visto e considerato
che il consumo di suolo è stato patologico nell'accompagnare i processi di evoluzione territoriale).
Ad oggi gli unici dati disponibili sono quelli di rilevazione su base Corine Land Cover (1996) (vd.
mappa “Corine Land Cover (CLC) – Uso del suolo”).
Non stando a ripetere i motivi per cui tali dati sono estremamente sottostimati e dunque non
attendibili, si è proceduto ad una quantificazione molto più precisa e dettagliata del sistema
dell'urbanizzato.
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Delineando l'evoluzione storica del sistema insediativo si è delineato un quadro piuttosto chiaro
circa le direttrici di sviluppo dell'insediamento, quantificando poi in maniera piuttosto esatta l'indice
di consumo di suolo provinciale (distinto per ogni comune e per ogni epoca di riferimento).
L'intero territorio è stato poi suddiviso in ambiti omogenei, principalmente secondo criteri
territoriali e socio-economici, sulla base delle riflessioni circa i processi di coalescenza territoriale
formulate da Calafati, proponendo quella cooperazione e gestione intercomunale tanto necessaria
per un corretto “buon governo” della città dispersa (vd. mappa “Ambiti territoriali”).
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Si è proceduto quindi alla “normalizzazione” dei PRG dei 40 comuni (in base a quanto previsto dal
D.M. 02/04/1968), ottenendo un quadro piuttosto fedele ed esaustivo del mix funzionale
dell'urbanizzato della Provincia (principalmente: centri storici, tessuto a prevalenza residenziale,
tessuto residenziale, zone industriali, produttivo-artigianali, commerciali, tessuto turistico-ricettivo,
servizi e attrezzature pubbliche, verde pubblico e verde attrezzato).
Il passo successivo è stato la definizione delle varie tipologie di tessuti urbani del sistema
insediativo, derivanti principalmente dall'incrocio dei dati dell'incremento storico e dellzoning
funzionale con il sistema territoriale ed infrastrutturale, arrivando a delineare sette distinte tipologie,
• urbanizzazioni lineari di fondovalle con forti presenze produttive;
• urbanizzazioni lineari di crinale prevalentemente residenziali;
• urban sprawl;
• urbanizzato diffuso.
In tal modo si è ottenuto un quadro piuttosto esauriente per poter definire le aree urbane e
periurbane maggiormente interessate dal fenomeno della dispersione urbana, per poter poi dettare
linee-guida coerenti con i principi fin qui espressi.
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Evoluzione storica dell'urbanizzato
Ancora oggi sono evidenti su quasi tutto il territorio provinciale (ma anche regionale) le tracce di
una sorta di palinsesto insediativo storico, in cui il sistema dell'edificato si manifestava
principalmente sui crinali delle basse e delle alte colline (vd. mappa “Sistema policentrico”).
A partire dal XIV secolo il sistema insediativo si è progressivamente diffuso in maniera capillare
articolandosi secondo precise gerarchie ed arrivando alla fine del XIX secolo, epoca di massima
espansione della mezzadria, ad avvolgere l'intero territorio collinare con una trama urbana fitta: dai
nuclei urbani maggiori e dai castelli (ovviamente tutti sui crinali principali) fino ad arrivare al
sistema delle case sparse.
In tal modo prende forma il sistema della “città diffusa” collinare, i cui vuoti erano principalmente
dati dalle pianure dei fiumi maggiori e dalle fasce litoranee, rimaste pressochè deserte fino alla
seconda metà del XVIII secolo, occupate prevalentemente da boschi e paludi.
I mutamenti nell'organizzazione territoriale avvenuti negli ultimi decenni3 fanno sì che la
dimensione urbana provinciale si dovrebbe esprimere in termini di due distinte tipologie di sistemi
locali, profondamente differenti morfologicamente e funzionalmente: i sistemi urbani
intercomunali4 e gli agglomerati urbani di minori dimensioni che non fanno parte di questi ultimi.
Negli ultimi sessant'anni ha avuto infatti luogo in Italia una forte trasformazione nella distribuzione
territoriale della popolazione e delle attività economiche. In particolare nei decenni 1950-1980
alcune aree del territorio italiano hanno visto ridurre drasticamente la popolazione e gli addetti, a
fronte di altre che viceversa hanno avuto incrementi consistenti; queste dinamiche contrapposte di
declino e sviluppo sono state “polarizzate”, nel senso che hanno riguardato cluster di comuni
contigui5.
Prendendo in considerazione l'intero territorio regionale, nell'arco temporale 1951-1981 gli addetti
del settore manifatturiero sono aumentati del 212%, passando da 62.645 nel 1951 a 195.338 nel
3 Per mutamenti nell'organizzazione territoriale si intende il processo di industrializzazione ed espansione avviatosi negli anni Cinquanta e protrattosi con simile intensità sino agli anni Ottanta.
4 Nel caso provinciale il sistema urbano intercomunale coincide con l'ambito del capoluogo e del distretto calzaturiero.
5 Inoltre, praticamente tutte le città di una certa scala sono cresciute insieme ai loro territori contigui.
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19816; è chiaro che tale processo ha generato una profonda trasformazione dell'organizzazione
spaziale del processo socio-economico regionale (e dunque provinciale), trasformazione che ha
condotto alla formazione di quelle che vengono definite le “nuove città”, ovvero i sistemi urbani
intercomunali, sotto la spinta dei processi di coalescenza territoriale.
Chiaramente tali processi dettano anche i nuovi assetti evolutivi dell'insediamento sul territorio,
sconvolgendo totalmente l'armonioso ed equilibrato rapporto secolare tra città e campagna.
L'analisi è consistita nella mappatura dell'edificato con sistema informativo territoriale GIS, distinto
in quattro differenti epoche storiche7. C'è da precisare che le basi cartografiche utilizzate, viste le
diverse tecniche di rilevazione e di precisione geodetica nel corso degli anni, non sono tutte
perfettamente sovrapponibili. Dunque la mappatura nelle varie epoche è avvenuta
contemporaneamente alla sovrapposizione con l'ortofotocarta risalente ad un volo
aerofotogrammetrico del 2007 (coincidente anche con l'ultima data di rilevazione), in modo da
poter effettuare le giuste sovrapposizioni, ottenendo così un quadro generale omogeneo e coerente.
La base scelta per rappresentare l'intera evoluzione storica del sistema insediativo è stato un DEM
(digital elevation model) elaborato con passo 1,5 metri (curve di livello), considerata la sua
immediatezza nell'integrare tridimensionalità (morfologia dei luoghi) e “segni sulla carta” (direttrici
di espansione del sistema dell'urbanizzato).
6 Fonte: dati Istat.7 Edificato costituito da: residenziale, produttivo-artigianale, industriale, commerciale, turistico-ricettico, servizi e
attrezzature pubbliche.
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Le epoche storiche
• 1954 (su base cartografica IGM): gli assi principali del sistema infrastrutturale sono
costituiti principalmente da quelle che oggi vengono definite “strade provinciali di secondo
ordine”, ai quali si aggiunge il complesso reticolo stradale minore, la ferrovia adriatica e la
ferrovia Porto San Giorgio – Amandola, dismessa due anni dopo. L'autostrada A14 invece
non era neanche allo stato “embrionale” di progetto.
I nuclei urbani di maggiore e minore dimensione sono tutti ben definiti e compatti, e le
frange di espansione si sviluppano principalmente a ridosso dei centri lungo le direttrici
viarie di crinale, mantenendo il sistema del policentrismo urbano.
Le quattro vallate di maggior rilievo presentano già forme di edificato sparso, comunque a
carattere prevalentemente rurale, secondo i dettami del sistema mezzadrile, non facendo
riscontrare particolari fenomeni di dispersione urbana.
La fascia costiera risulta edificata a ridosso dei principali nuclei urbani di Porto
Sant'Elpidio, Porto San Giorgio e, in misura minore, Pedaso.
L'area alto-collinare e montana non merita particolari discorsi, ovviamente considerando le
scarse affinità tra espansione urbana e morfologia dei luoghi.
Mappatura su base IGM.
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• 1954 - 1984 (su base cartografica IGM aggiornata): epoca in cui si registra la più grande
espansione urbana e periurbana (anche perchè l'arco temporale considerato è pari a 30 anni,
il più esteso tra tutti), epoca della ricostruzione post-bellica e dell'industrializzazione diffusa.
Al sistema infrastrutturale preesistente si aggiungono sia le strade provinciali principali di
fondovalle, sia quelle ad esse trasversali, oltre all'autostrada A14 e a qualche comunale.
“L'onda d'urto” della cementificazione dissennata si mostra in tutta la sua sregolatezza quasi
saturando completamente la fascia litoranea settentrionale, creando una sorta di “cittadella
lineare” a bassa densità che corre dalla foce del fiume Tenna verso l'entroterra per circa 30
km (fino ai comuni di Servigliano e Falerone): ci si trova dinnanzi al classico fenomeno
dello “scivolamento” a valle delle zone produttive-industriali di ogni rispettivo comune che
insiste sulla medesima asta fluviale.
Anche nella vallata del fiume Aso si registra un'edificazione piuttosto rilevante, seppur con
indici molto più bassi rispetto quella del Tenna, data la diversità della specializzazione delle
attività economiche e produttive prevalentemente agricole e a conduzione familiare.
L'asimmetria provinciale, con asse mediano costituito dal fiume Tenna, è ora evidentissima,
potendo dunque riconoscere tendenzialmente due opposti sistemi urbani: quello a nord, già
disperso, quello a sud, ancora contenuto e policentrico.
L'area alto-collinare e montana risulta pressochè costante (addirittura in alcuni casi si assiste
a dinamiche di spopolamento).
Mappatura su base IGM aggiornata.
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• 1984 - 1997 (su base cartografica AGEA): in valori relativi è l'arco temporale di maggiore
urbanizzazione, visto e considerato che, a differenza della precedente elaborazione, è
dell'ordine di 13 anni.
La rete infrastrutturale delineata è sostanzialmente quella attuale, ad eccezione di svincoli e
rotonde, e di una strada provinciale di collegamento ad alta percorrenza nella parte
settentrionale della provincia (la SP219 Ete Morto), e la saturazione della costa è ormai
tremendamente quasi completa per tutto il tratto che va dalla foce dell'Ete Vivo a quella del
Chienti, proseguendo oltre provincia (Civitanova Marche).
Una sorta di “cintura urbana continua” è data dall'estesa conurbazione formatasi tra i comuni
di Porto Sant'Elpidio, Sant'Elpidio a Mare, Monte Urano, Fermo e Porto San Giorgio,
creando un sistema a sé stante che fa da riferimento a tutte le altre realtà comunali del
“circondario” (a scala provinciale).
La valle del fiume Tenna subisce ancora dinamiche “cementizie” spropositate, aggiungendo
al sistema produttivo-industriale di recente impianto aree a bassa densità a destinazione
prevalentemente residenziale (il vero e proprio sprawl).
A sud del fiume Ete Vivo il sistema policentrico urbano mantiene i suoi caratteri, seppur la
vallata del fiume Aso sembra connotata dalle stesse dinamiche di urbanizzazione subite dalla
valle del Tenna 20/30 anni prima.
L'area alto-collinare e montana continua a non presentare problemi di eccessiva
cementificazione, mantenendo il suo rapporto tra urbano e non urbano.
Mappatura su base cartografica AGEA.
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• 1997 - 2007 (su base ortofotocarta): arco temporale in cui non si registrano consistenti
quote di nuova edificazione, principalmente “grazie” alla crisi dell'industria del mattone.
La mappatura è stata comunque effettuata per poter arrivare ad avere un dato il più
aggiornato possibile, in attesa di un'ancora più recente ortofotocarta.
Mappatura su base ortofotocarta.
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• Espansioni previste dai PRG (sovrapposizione dei PRG su base ortofotocarta): ovviamente
sono state identificate le aree con piani attuativi approvati ma non ancora realizzati o in
corso di realizzazione, computando l'intera superficie territoriale (che comprende dunque
anche le quote di superficie destinate a standard di urbanizzazione primaria e secondaria).
Quanto detto sinora circa il consumo di suolo e la dispersione urbana trova qui conferma: le
espansioni sono infatti previste lungo tutto il tratto provinciale della vallata del fiume Tenna
che, a piani attuati, potrebbe assumere la connotazione di “città lineare continua del Tenna”,
definendo in maniera ancor più marcata la totale asimmetria tra nord e sud della Provincia.
Per il resto si sottolineano consistenti aggiunte ed ampliamenti al tessuto urbano disperso
nelle aree dei distretti del calzaturiero e del cappello, nell'area commerciale costiera di Porto
Sant'Elpidio (al confine con Civitanova Marche) e lungo la vallata del fiume Aso.
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Le “dinamiche” insediative
Per quanto riguarda il rapporto tra urbanizzato e territorio, è possibile distinguere quattro principali
“dinamiche”.
• Urbanizzazione della costa, diversificando quella a nord del fiume Ete Vivo da quella a sud.
La costa nord risulta praticamente satura di edifici nell'intera fascia compresa tra il mare
Adriatico e l'autostrada A14 (in media, circa 800 metri di larghezza), con i centri urbani
storici (borghi marinari) di Porto Sant'Elpidio e Porto San Giorgio conurbati in maniera
piuttosto uniforme, con alternanza di tessuto prevalentemente residenziale, commerciale e
turistico-ricettivo, sorto dal 1954 al 1984. Si è dinnanzi ad una delle aree della penisola
considerate a più alta densità di urbanizzazione (indici di consumo di suolo di Porto
Sant'Elpidio e Porto San Giorgio rispettivamente del 30,34% e del 58,91%) e il rapporto
città-territorio è venuto totalmente a mancare.
La costa a sud dell'Ete Vivo, completamente in antitesi con la precedente, non ha subito
dinamiche di urbanizzazione dissennate, probabilmente grazie alla morfologia dei luoghi e
alla diversa specializzazione turistico-ricettiva del litorale (se non per quanto riguarda il
comune di Pedaso, il terzo per indice di densità edilizia), connotato da un lembo di spiaggia
che in alcuni punti non raggiunge neanche i 15 metri di larghezza: qui l'economia del
turismo si basa infatti sulle attività dei campeggi e dei villaggi turistici, e non da chalet3
disseminati su tutto il litorale come nella porzione a nord.
3 Strutture commerciali costituite da chioschi, bar e ristoranti.
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• Espansione lungo crinale e aggressione alla vallata: si connota come il “naturale” sviluppo
dell'insediamento collinare che “scivola” a valle.
Ad un primo nucleo storico di impianto collinare, seguono le successive espansioni lungo i
principali crinali (e quindi lungo i principali assi viari), per poi assistere al fenomeno
dell'urbanizzazione indiscriminata data dalla proiezione a valle del nucleo compatto negli
ultimi 50/60 anni. Caso emblematico di “città diffusa” che si disperde sul territorio.
Il rapporto città-territorio si mantiene solo in parte.
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• Urbanizzazione della vallata. In questo caso si potrebbe tranquillamente affermare che ci si
trova dinnanzi alle “principali direttrici di espansione della dispersione urbana”: un
amalgama di edifici a carattere produttivo-artigianale, industriale, residenziale e anche
commerciale che “si stendono sguaiatamente sul territorio”, sollevando problematiche sia da
un punto di vista ambientale che da un punto di vista dell'organizzazione e gestione urbana.
Anche in questo caso l'urbanizzazione è avvenuta principalmente negli ultimi 50/60 anni,
ma ciò che preoccupa maggiormente sono le previsioni di espansione dettate dai PRG
comunali, che vanno in tal modo a completare quel limite invalicabile tra campagna ed aste
fluviali, in qualche caso distruggendo del tutto i residui di corridoi ecologici rimasti.
Il rapporto città-territorio è andato completamente perduto.
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• Sistema urbano-territoriale policentrico: laddove le morfologie dei luoghi non hanno
consentito l'edificazione diffusa e dispersa si sono mantenute le strutture urbane originarie,
caratterizzate dal sistema policentrico (che tra l'altro è quello che meglio si offre come
modello alternativo alla città dispersa).
In pratica, da questo punto di vista, quasi tutta la porzione di territorio a sud del fiume Ete
Vivo è rimasta inalterata.
Anche le previsioni di espansione dei PRG non preoccupano particolarmente, visto che
sembrano piuttosto in armonia con la conformazione urbano-territoriale.
Il rapporto città-territorio è ancora mantenuto sostanzialmente intatto.
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Suddivisione del territorio in ambiti omogenei
Gli ambiti territoriali omogenei, costituiti dall'aggregazione di più comuni4, sono stati individuati in
funzione delle caratteristiche socio-economiche, territoriali e morfotipologiche insediative.
In un territorio tanto piccolo quanto eterogeneo quale è la Provincia di Fermo, necessariamente
bisogna identificare aree aventi proprie dinamiche, assetti e caratteristiche specifiche.
Gli ambiti omogenei costituiscono pertanto un livello intermedio tra provincia e comuni, di
semplificazione e maggiore efficacia nell'affrontare lo studio e l'analisi dei singoli (ma comunque
plurimi) territori spazialmente aggregati.
Essi sono:
• ambito del capoluogo e del distretto calzaturiero;
• ambito dell'alto Ete Morto;
• ambito dell'alto Ete Vivo;
• ambito della valle dell'Aso;
• ambito dell'area alto-collinare e montana.
4 La suddivisione tiene conto dei confini amministrativi comunali.
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• Ambito del capoluogo e del distretto calzaturiero
Con il 37,5% della superficie provinciale e il 74,7% del totale della popolazione, rappresenta
l'ambito più esteso e a maggior concentrazione abitativa (densità di popolazione pari a 4,1 ab/ha).
Le dinamiche demografiche sono in costante aumento e si registra un'elevata specializzazione del
sistema produttivo e dei servizi (turistico e di servizi alla persona, industriale-produttivo-terziario,
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terziario-commerciale e di servizio alle imprese).
E' in questo ambito infatti che si svolgono e si localizzano le principali attività produttive ed
industriali della Provincia, le quali definiscono il distretto calzaturiero (comuni di Porto
Sant'Elpidio, Sant'Elpidio a Mare, Monte Urano e Montegranaro).
I comuni di Fermo (capoluogo) e Porto San Giorgio (inscritto nei confini di Fermo) rappresentano il
“cuore provinciale”, polo di attrazione per quanto riguarda servizi organizzativi e strutture
amministrative: sotto questo punto di vista il comune di Fermo si presenta come “comune
centroide” (per dirla alla Calafati) della più estesa area urbana funzionale costituita dall'insieme
delle realtà locali dell'intero ambito.
Si registra qui la maggiore concentrazione di superfici urbanizzate (il 65,8% del territorio
provinciale) e di previsioni di nuova espansione (58,6%).
Un discorso a parte va fatto per l'area costiera, che per un lungo tratto è quasi esclusivamente satura
di urbanizzazioni, definendo un sistema ad alta densità e ad alta pressione insediativa (per tutto il
tratto che va dal litorale all'autostrada A14).
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• Ambito dell'alto Ete Morto
Con il 10,8% della superficie provinciale e il 7,1% del totale della popolazione, rappresenta il
secondo ambito più piccolo della provincia, ma anche il secondo più densamente popolato (densità
di popolazione pari a 1,4 ab/ha).
E' suddivisibile a sua volta in due micro-ambiti omogenei, quasi simmetrici: il primo, anord,
comprendente i comuni di Torre San Patrizio, Monte San Pietrangeli e Francavilla d'Ete, è
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connotato da un'elevata specializzazione dal punto di vista produttivo-artigianale e dei servizi,
perlopiù a conduzione familiare, a servizio del distretto calzaturiero limitrofo; l'altro, comprendente
i comuni di Massa Fermana, Montappone e Monte Vidon Corrado, costituisce il cosiddetto
“distretto del cappello”, economicamente molto vivace.
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• Ambito dell'alto Ete Vivo
Con il 10,5% della superficie provinciale è l'ambito territoriale meno esteso e, fatta eccezione per
l'area alto-collinare e montana, anche il meno densamente popolato (densità di popolazione pari a
0,9 ab/ha) e con dinamiche demografiche in regressione.
Il territorio è interamente collinare (ovviamente con esclusione della vallata del fiume Ete Vivo, il
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quale in questo tratto assume più le caratteristiche di un torrente) e agricolo, con un sistema
economico connotato da una produzione agricola volta quasi esclusivamente al soddisfacimento dei
fabbisogni familiari.
Vista la morfologia dei luoghi, la vocazione economica e la relativa distanza centro provinciale, non
si registrano particolari problemi di eccessiva urbanizzazione e di perdita del rapporto città-
campagna.
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• Ambito della valle dell'Aso
Con l'8,9% della popolazione provinciale, è il secondo ambito più popolato della provincia, ma il
terzo per densità (densità di popolazione pari a 1,3 ab/ha).
L'aspetto forse più rilevante sta nella totale asimmetria tra il sistema insediativo che caratterizza tale
vallata da quello che caratterizza le altri valli dei fiumi più a nord; le ragioni, oltre che per quanto
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riguarda la geomorfologia dei luoghi, sono quasi esclusivamente di vocazione produttiva: è qui che
si trova infatti, a detta dei più, il distretto vivaistico più grande d'Europa (se non altro per
concentrazione), che si snoda proprio lungo la vallata dell'Aso (fatta eccezione per i comuni di
Monte Vidon Combatte ed Ortezzano), non presentando dunque il fenomeno tanto diffuso nelle
altre vallate della cosiddetta “capannizzazione del territorio”.
La quantità di superficie urbanizzata (pari al 12,6% del territorio provinciale) non deve essere presa
come un valido indicatore, poiché essa si concentra principalmente nei tre comuni costieri di
Altidona, Campofilone e Pedaso (quest'ultimo con un indice di consumo di suolo pari al 33,32%).
Ad eccezione di tali entità comunali il rapporto città-campagna non è comunque particolarmente
danneggiato.
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• Ambito dell'area alto-collinare e montana
Con il 26,8% della superficie provinciale è il secondo ambito più esteso della provincia e,
chiaramente, il meno densamente popolato (densità di popolazione pari a 0,4 ab/ha).
I comuni di Monte Rinaldo, Montelparo e Santa Vittoria in Matenano costituiscono l'area alto-
collinare a vocazione economica esclusivamente agricola, volta quasi esclusivamente al
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soddisfacimento dei bisogni familiari, mentre i comuni di Montefalcone Appennino, Smerillo,
Amandola e Montefortino sono in territorio appenninico. E' qui che ci sono le uniche aree SIC e
ZPS provinciali e la porzione fermana del Parco Nazionale dei Sibillini.
La quasi totale assenza di vivacità del settore economico-produttivo, gli scarsi collegamenti
infrastrutturali ad alta percorribilità con la costa e la difficoltà a garantire i servizi di base alle
persone, fanno comunque di quest'ambito il più problematico della Provincia per quanto riguarda
l'aspetto socio-economico, pur restando il “polmone verde” provinciale.
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Quantificazione del consumo di suolo provinciale
Per quanto riguarda la pressione insediativa del sistema dell'urbanizzato sul territorio risulta un
quadro estremamente variegato, che segue dinamiche distinte riconducibili a tre tipologie principali:
• urbanizzazione a ritmi elevatissimi (ambito del capoluogo e del distretto calzaturiero);
• urbanizzazione controllata (ambiti dell'alto Ete Morto e della valle dell'Aso );
• urbanizzazione a ritmi contenuti (ambiti dell'alto Ete Vivo e dell'area alto-collinare e
montana).
Va da sé che le politiche provinciali di riorganizzazione dell'assetto del territorio e gestione del
sistema insediativo dovranno essere diversificate per ogni tipologia e per ogni ambito, con la
certezza dell'imprescindibilità dalla cooperazione intercomunale, necessaria a garantire
quell'omogeneità e quella coerenza fondamentali nel definire linee-guida di così estrema delicatezza
Fortemente urbanizzata, con una rete insediativa ricca di centri minori, relativamente omogenea e
distribuita in modo equilibrato sull'intero territorio, la Provincia di Fermo può dirsi connotata da
forme insediative che hanno già cominciato il processo di diversificazione anche per effetto delle
dinamiche di redistribuzione della popolazione e per i processi di decentramento produttivo (che
hanno comunque interessato gran parte della penisola).
Così, accanto ai nodi di concentrazione costituiti dagli insediamenti di antico impianto (centri
urbani e suburbani compatti), sorgono nuove forme di urbanizzazione di tipo lineare e filamentoso,
con caratteri differenti nei contesti locali
Definito il quadro complessivo del sistema dell'urbanizzato si è proceduto alla sua classificazione
per morfo-tipologie urbane, o tessuti urbani, distinti in sette categorie, sulla base di una
rielaborazione dei dati ricavati dallo studio circa l'evoluzione storica dell'urbanizzato.
Essi sono:
• nuclei urbani compatti: costituiti dai centri storici e dalle espansioni compatte subito al di
fuori dalle cinte murarie. Nell'insieme formano il classico sistema urbano-territoriale
policentrico che caratterizza tutta la regione.
Politiche necessarie: recupero e riqualificazione dell'esistente.
• Nuclei suburbani compatti: gli equivalenti dei nuclei urbani compatti ma con un
dimensionamento minore (perlopiù costituiti dai borghi medievali sorti lungo le direttrici
viarie principali in territorio agricolo e periurbano).
Politiche necessarie: recupero e riqualificazione dell'esistente e connessione con i rispettivi
centri urbani di riferimento per mezzo di una buona rete di trasporto pubblico.
• Urbanizzazioni lineari di crinale prevalentemente residenziali: equivalenti alle precedenti
ma, come indicato dalla nomenclatura, sviluppatesi lungo i tracciati viari di crinale.
Politiche necessarie: contenimento dell'urbanizzazione, connessione con i rispettivi centri
urbani di riferimento per mezzo di una buona rete di trasporto pubblico e verifica della
presenza di un'adeguata rete di servizi alle persone e attrezzature pubbliche.
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• Urbanizzazioni lineari prevalentemente residenziali: frange lineari di espansione che si
diffondono lungo i tracciati viari, anche minori, ereditati dal passato, in territorio
pianeggiante. La diffusione dell'urbanizzato trova in queste forme una ben definita struttura,
a sua volta distinguibile in urbanizzazioni lineari di crinale e urbanizzazioni lineari di
fondovalle con forti presenze produttive.
Politiche necessarie: contenimento dell'urbanizzazione, connessione con i rispettivi centri
urbani di riferimento per mezzo di una buona rete di trasporto pubblico e verifica della
presenza di un'adeguata rete di servizi alle persone e attrezzature pubbliche.
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• Urbanizzazioni lineari di fondovalle con forti presenze produttive: a differenza delle altre,
l'urbanizzato si diffonde (e poi si disperde) lungo le principali vallate fluviali. Un
urbanizzato connotato appunto da forti presenze produttive originate in gran parte dal
recente sviluppo infrastrutturale e produttivo-industriale, e riconoscibili anche dall'insieme
delle aree attrezzate per la produzione. In questi casi si registrano i maggiori squilibri
ambientali (es. interruzione dei corridoi ecologici).
Politiche necessarie: contenimento dell'urbanizzazione, verifica della compatibilità
ambientale, connessione con i rispettivi centri urbani di riferimento per mezzo di una buona
rete di trasporto pubblico, verifica della presenza di un'adeguata rete di servizi alle persone e
attrezzature pubbliche e riequilibrio del rapporto città/campagna.
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• Urban sprawl: zone di espansione a bassa densità abitativa, tendenzialmente a carattere
residenziale e con la presenza di grandi strutture commerciali (es. shopping mall, outlet
factory, multisale, ecc.). La riduzione degli spazi verdi, il maggiore utilizzo delle autovetture
a causa della maggiore distanza dai mezzi di trasporto pubblico locale e lo scoraggiamento
del traffico non motorizzato o pedonale nel tragitto casa-lavoro (a causa della maggiore
distanza dal posto di lavoro e per la mancanza di infrastrutture come piste ciclabili,
marciapiedi o attraversamenti pedonali adeguatamente connessi) e la mancanza di spazio
pubblico ne costituiscono i “tratti somatici”.
Politiche necessarie: contenimento dell'urbanizzazione, connessione con i rispettivi centri
urbani di riferimento per mezzo di una buona rete di trasporto pubblico locale (che a sua
volta deve essere fortemente incentivata), verifica della presenza di un'adeguata rete di
servizi alle persone e attrezzature pubbliche e disincentivi all'uso dei mezzi privati
(autovetture).
• Urbanizzato diffuso: l'insieme delle case ed edifici sparsi che vanno a completare il quadro
di dispersione urbana.
Politiche necessarie: contenimento dell'urbanizzazione, recupero e riqualificazione
dell'esistente.
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Ambito del capoluogo e del distretto calzaturiero
Gli estremi nord e sud del tratto costiero ad altissima densità edilizia possono essere considerati i
vertici di un arco (che coincidono oltretutto con due dei quattro shopping malls della provincia) che
costituisce una “cintura” quasi ininterrottamente edificata, la quale può esser letta come una
conurbazione che, appunto, “conurba” i centri urbani compatti di Fermo, Monte Urano e
Sant'Elpidio a Mare, con alternanza di urbanizzazioni lineari e lineari di crinale prevalentemente
residenziali, lineari di fondovalle con forti presenze produttive ed aree a bassa densità abitativa
prevalentemente residenziali (urban sprawl). Quasi nel punto mediano dell'”arco”, nella
conurbazione Fermo-Monte Urano, si localizza poi un terzo shopping mall, secondo un disegno che
sembrerebbe pianificato in maniera più che razionale (ovviamente all'ombra della più spietata
insostenibilità).
Emblematico il caso di Fermo e Monte Urano: la simmetria tra le aree connotate da urbanizzazione
lineare di fondovalle con forti presenze produttive ed urban sprawl sono indice, oltre che delle
cattive scelte di governo del territorio, dell'assoluta controproducente competitività comunale,
dando vita ad un “terzo polo” urbano situato proprio lungo la parte valliva che divide le due
municipalità.
E' in questo ambito territoriale che si registrano i maggiori disequilibri tra urbano e non urbano, la
struttura insediativa è andata completamente perduta, snaturata, si è dispersa nella maniera più
totale; dispersione completata sia dalla consistente quota di case sparse (urbanizzato diffuso), sia
dall'aggressione edilizia alla vallata del fiume Tenna (che non si interrompe per tutto il tratto
provinciale).
Anche la realtà municipale di Montegranaro si disperde nel territorio, seppur con direttrici che
comunque seguono il classico schema di urbanizzazioni lineari di crinale lungo le direttrici viarie
principali, scivolando con la sua parte produttiva lungo la vallata del fiume Ete Morto (a nord del
comune). Montegranaro, se visto nel territorio provinciale, non sembra presentare dinamiche di
conurbazione, semplicemente per il fatto che esso è conurbato con il comune di Monte San Giusto,
in territorio maceratese.
I comuni di Montegiorgio, Rapagnano e Grottazzolina non presentano rilevanti problemi di
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dispersione urbana a ridosso dei centri compatti (se non per quanto riguarda le case sparse,
comunque di una certa entità numerica), ma il rispettivo scivolamento a valle va ad integrare e in
parte completare l'urbanizzazione della vallata del fiume Tenna, con alternanza di urbanizzazioni
lineari di fondovalle con forti presenze produttive, urbanizzazioni lineari prevalentemente
residenziali ed aree di urban sprawl, completando il quadro ad altissima pressione insediativa che
caratterizza tale ambito territoriale che, da ricordare, costituendo il 37,5% dell'intero territorio
provinciale, ospita il 65,8% dell'urbanizzato e il 74,7% della popolazione dell'intera Provincia.
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Ambito dell'alto Ete Morto
Suddivisibile a sua volta in due “micro-abiti”, è connotato dal mantenimento del sistema urbano
policentrico nella parte a nord (comuni di Torre San Patrizio, Monte San Pietrangeli e Francavilla
d'Ete) e dalla conurbazione tra i comuni di Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado e
Falerone, terminando a sud con un'area di urban sprawl e un'altra a vocazione produttiva (le quali
vanno ad inserirsi nell'urbanizzazione diffusa della vallata del Tenna).
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Ambito dell'alto Ete Vivo
Il sistema urbano policentrico è ancora perfettamente mantenuto, con un'armoniosa alternanza tra
centri urbani e suburbani compatti. Si registra tuttavia una consistente quota di case sparse.
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Ambito della valle dell'Aso
Il sistema urbano policentrico dei nuclei collinari compatti e suburbani è ancora riconoscibile, ma lo
scivolamento a valle delle zone produttivo-artigianali dei rispettivi comuni ha generato la situazione
di urbanizzazione diffusa che caratterizza la vallata del fiume Aso (seppur a densità molto più basse
rispetto la vallata del fiume Tenna), connotata da zone a bassa densità prevalentemente residenziali
(una sorta di “sprawl lineare”).
Il comune di Pedaso ha invece subito le stesse dinamiche degli altri comuni costieri quali Porto
Sant'Elpidio e Porto San Giorgio, ad alta densità edilizia ed abitativa.
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Ambito dell'area alto-collinare e montana
Tale ambito non suscita particolari riflessioni per quanto riguarda i tessuti urbani, considerando sia
la vocazione del territorio (alto-collinare e montano, appunto), sfavorevole all'insediamento ed allo
sviluppo di attività economico-produttive (se non per quanto riguarda il turismo invernale,
l'enogastronomia e le bellezze paesaggistiche).
Il sistema urbano policentrico è dunque inalterato, seppur si registra una consistente quota di
urbanizzato diffuso (case sparse) su tutto il territorio.
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(di seguito, tavola “Tessuti urbani” e tavole di analisi degli ambiti territoriali)
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Riflessioni
Vista l'estrema attualità della disciplina e del tema trattato, visto il carattere sperimentale di tale
elaborato, la cui parte di analisi si andrà ad inserire come studio preliminare nel primo PTCP della
Provincia di Fermo (per quanto riguarda il sistema dell'urbanizzato ed il rapporto città-campagna),
non mi piace parlare di “conclusioni”, ma piuttosto di riflessioni.
Se il territorio è l'uso che se ne fa (Crosta, 2010) e le routine sono pezzi fondamentali del mosaico
di cui è composta la vita quotidiana, allora i processi di trasformazione dei territori antropizzati
possono essere descritti come meccanismi complessi all'interno dei quali ciascuna azione, ogni
scelta, qualsiasi presa di posizione sono ingranaggi che partecipano alla generazione, al
mantenimento e all'evoluzione dei contesti socio-territoriali (PCB1, 2009).
Ad oggi, è chiaro come tali meccanismi siano regolati dalla contrattazione pubblico-privato e dai
meccanismi perversi innescati da essa, quali rendita fondiaria urbana, monetizzazione del territorio
e speculazione edilizia, alimentando la più mera insostenibilità (intesa nell'accezione anglosassone,
dunque in maniera onnicomprensiva) a discapito della collettività; in tal senso, gli interessi
immobiliari vanno a costituire il formidabile propellente per la crescita edilizia.
Al contempo, l'era in cui viviamo è caratterizzata anche da una spaventosa convivenza (per
qualcuno accondiscendenza) con l'errore, con il disastro: errori e disastri di svariate entità e riferiti a
svariate discipline: dalla sociologia, all'antropologia, dall'economia alle scienze naturali,
dall'urbanistica all'ingegneria, e così via.
Già negli anni '60 Giovanni Astengo, uno dei padri fondatori dell'urbanistica, aveva ben presente il
modo patologico di crescita della città, se a guidare lo “sviluppo” sono esclusivamente gli interessi
immobiliari: molto spesso, di fronte agli aggravi di costo per le opere di urbanizzazione e per i
servizi dei trasporti, la risposta data dagli imprenditori privati, costruttori della città, è quella di
fornire unicamente abitazioni, costruite in modo più o meno confortevole, disinteressandosi delle
opere di urbanizzazione, dei servizi e dei trasporti, lasciandoli a carico degli enti locali, cui
vengono completamente accollati come pesanti eredità; i risultati urbanistici, inevitabilmente, si
concludono in un abbassamento di efficienza, per carenza di servizi, ed in un aggravio passivo
1 PCB è un gruppo di lavoro di studenti, composto da me stesso, Marco Maria Sancricca e Daniele Lamanna, costituitosi a fine 2008 durante un laboratorio di progettazione con il professor Pierluigi Crosta.
- 211 -
trasferito a lunga scadenza sui bilanci delle collettività locali (Astengo, 1966).
Oggi la città, nelle sue componenti originarie, sta venendo meno; componenti originarie che la
vedono nascere con gli spazi pubblici e con l'aggregazione sociale. L’uomo, nel suo sforzo di
costruire il proprio luogo nell’ambiente, ha generato quella sua meravigliosa invenzione che è la
città a un certo momento della sua vicenda (Salzano, 2010): precisamente quando, dal modificarsi
del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e
come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi, di servizio alll’intera\e comunità.
Per contro, siamo arrivati ad una situazione in cui “l'errore urbanistico”, lo “scempio edilizio
diffuso” e l'attuale modello di sviluppo totalmente insostenibile fanno parte del nostro paesaggio
contemporaneo e della nostra vita, trovando propria linfa vitale, ribadisco, nella contrattazione
pubblico-privato.
Errori e scempi oggi passivamente subiti, incomprensibili, e nello stesso tempo accettati nelle loro
ingombranti presenze, celati, spesso anche a causa della gretta ignoranza, della disinformazione e
del disinteresse dei cittadini, facendoci assistere ad un fenomeno fortemente contraddittorio: da un
lato è aumentata la consapevolezza del rischio e del pericolo, per cui ogni errore deve essere
minimizzato; dall'altro esso è accettato nella sua ottusa pienezza, appunto.
Il presente elaborato prende le mosse proprio dall'idea di ripensare l'attuale modello di sviluppo (tra
l'altro misurato in base ad un indice, quale è il PIL, che tra gli indicatori tiene conto esclusivamente
dei flussi di denaro), riscoprendo il valore insito in quella risorsa non rinnovabile e fondamentale
per l'esistenza di qualsiasi forma di vita quale è il suolo, drasticamente minacciato e per certi versi
già distrutto.
La città dispersa è solamente uno degli effetti di questo modello di sviluppo che si manifestano sul
territorio e, di conseguenza, sulla collettività.
Ovviamente l'economia non può arrestarsi, ma può essere ripensata nei suoi attuali principi
ispiratori; per quanto riguarda l'economia delle costruzioni, il verbo “costruire” dovrebbe (e deve)
essere sostituito dai verbi “recuperare” e “riqualificare”.
Sempre più numerosi sono i cittadini e i politici che si stanno sensibilizzando alle tematiche in
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questione; i numeri (quantitativi) per poter avviare una “rivoluzione politico-territoriale” sono
pochi, ma comunque ci sono.
La presente analisi circa la quantificazione dell'urbanizzato della Provincia di Fermo ne è un
esempio; ora i politici non possono (e non debbono) tirarsi indietro. L'uguaglianza costruire =
sviluppo è venuta meno.
E' fondamentale ripensare alle leggi ed agli strumenti di governo del territorio, in stretta
integrazione con i principi di cooperazione ed intercomunalità, assumendo prorpio i territori dello
sprawl come sfida per la pianificazione: come è ormai noto da anni, l'esasperata dilatazione e
dispersione degli insediamenti connotano negativamente gran parte del territorio italiano,
attribuendogli costi collettivi spropositati. Per contrastare e regolare il fenomeno è necessario
rafforzare le forme di cooperazione e di coordinamento delle iniziative, rimettendo in gioco i livelli
istituzionali di governo, i cui strumenti urbanistici (PPAR, PTCP e PRG) che legiferano,
indirizzano, coordinano e regolano il territorio si trovano in una situazione di quasi totale assenza di
dialogo e, appunto, coordinamento.
In tal senso l'ente Provincia, di cui si vocifera e si auspica una soppressione, dovrebbe essere quello
che meglio si occupi della questione, vista la sua vocazione “coordinatrice”; ma forse anche tale
ambito istituzionale è veramente non più adeguato o obsoleto.
Cosa fare?
Sempre sull'esempio del presente elaborato, promuovere un nuovo livello intermedio che sia
inserito tra quello comunale e quello provinciale (ovviamente senza abolire le province)
sembrerebbe una giusta “soluzione” per tentare di governare la “tarmatura” del territorio
(Camagni, 2002) di oggi.
In ogni PTCP si legge una parte dedicata alla suddivisione in ambiti territoriali omogenei (o unità
territoriali organiche elementari, UTOE), sulla base di proprie dinamiche e somiglianze socio-
economiche-territoriali. Promuovere un coordinamento tra le realtà comunali che vanno proprio a
costituire tali ambiti significherà sempre di più riuscire a coniugare a livello del sistema territoriale
locale il principio di coesione territoriale, contrastando la competizione tra i comuni che tanto ha
contribuito a devastare i nostri territori (su tutte le zone produttive-industriali erette da quegli
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amministratori figli della “mentalità post-bellica” la quale misurava il livello di sviluppo comunale
sulla base della presenza o meno di grandi stabilimenti produttivi, con i risultati ad oggi
chiaramente e tremendamente visibili).
Se la ricerca di efficienza sospinta dai costi crescenti nell'erogazione dei servizi si sposasse con
l'innovazione dal basso, per il recupero dell'urbanità si aprirebbero opportunità insperate. Si è detto
che le Province con i loro PTCP ed i comuni, sviluppando forme di associazione volontaria
intercomunale, possono spingersi in questa direzione (ancora in larga misura da esplorare)
confidando che, sulla base dei loro tentativi, i legislatori statali e regionali definiscano gli strumenti
appropriati per affrontare questo tema in maniera adeguata.
Resta tuttavia il fatto che, e qui sta forse la maggiore potenzialità latente a riguardo, un radicale
cambiamento degli stili di vita, dei modi di consumo, del modello di sviluppo societario che sta
rapidamente distruggendo tutto quanto creatosi e costruito in millenni, è possibile realizzarlo
solamente partendo da una attenta sensibilizzazione comunitaria, a partire dai concetti di beni
comuni e non rinnovabili. Penso che in tal senso sia necessaria una “innovativa regressione”,
riscoprendo valori sintetizzati mirabilmente in una famosissima frase (tuttavia attentamente
ascoltata da pochissimi) da un saggio capo di una tribù dei Nativi Indiani d'America:
Solo quando l'ultimo fiume sarà prosciugato,
quando l'ultimo albero sarà abbattuto,
quando l'ultimo animale sarà ucciso,
solo allora capirete che il denaro non si mangia.
Profezia Creek
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