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Civita Novina, quasi un rebus * Avevo pensato di intitolare questa conferenza "Etiam si dissimilis vocatur", col sottotitolo: "Caccia al tesoro nella toponomastica medioevale", ma ci ho ripensato. Il latino sono rimasti in pochi a capirlo, mentre il sottotitolo sarebbe stato un po' ridicolo. Ho dunque preferito "Civita Novina, quasi un rebus", che certamente rende meglio l'idea. Si tratta infatti di trovare un senso a parole che sono nomi di luogo, ricostruire luoghi e circostanze, ma senza poter poi leggere la soluzione a pag. 46 del numero in edicola la settimana seguente. Come se non bastasse, non è nemmeno spiegato bene come il rebus vada sciolto, mancando regole certe ed esempi chiari; un lavoro che richiede molto tempo. Non è da oggi comunque che mi occupo della storia di Lanuvio, e sono ormai passati almeno 40 anni da quando lessi per la prima volta gli scritti di Mons. Alberto Galieti. In questa sede, per ovvi motivi di brevità darò per scontate varie cose e circostanze, sulle quali potrà nascere anche un dibattito al termine della conferenza ed alla quale tutti i sopravvissuti sono sin da ora invitati. Al contrario di quasi tutte le altre cittadine dei Castelli Romani, quella che fu Lanuvium e poi Civita Lavinia, non ebbe uno storico che dedicasse le sue fatiche alla compilazione di una storia municipale. Fu in effetti Galieti, con i suoi numerosi articoli, il primo vero storico di Lanuvio. Lui stesso non arrivò alla stesura di un'opera organica, ma ha certamente posto delle ottime basi per rendere possibile a chi segue le sue orme di andare avanti nelle ricerche e negli studi. Per essere stato il primo ad affrontare i tanti temi storici che una città come Lanuvio offre, ha dovuto fare un vero e proprio lavoro di dissodamento, entrando su sentieri mai prima di lui percorsi. Grazie alla sua opera tanti documenti sono potuti arrivare sino a noi, tra gli altri diversi documenti del distrutto Archivio Storico Comunale e dell'Archivio Notarile, ma soprattutto ha avuto delle intuizioni, particolarmente in merito alle vicende medioevali, le quali ad una verifica attenta si sono rivelate corrette, e la genialità del nostro storico credo vada onorata con studi e ricerche serie, e devo dire che da qualche tempo a questa parte, salvo qualche eccezione, finalmente nuovi studi e ricerche serie hanno visto la luce. Pur avendo alle spalle studi di archeologia, negli anni la mia passione per il medioevo, il periodo storico meno noto rispetto a quello classico romano, è cresciuta sempre di più, proprio seguendo le direzioni di ricerca indicate da Alberto Galieti. Il primo problema in assoluto era quello di riuscire a capire se tra la Lanuvium antica e la nostra Lanuvio odierna vi fosse una continuità abitativa. Alla fine dell'ottocento si dava quasi per scontato che Lanuvio fosse stata distrutta e spopolata da barbari e saraceni e che solo nel decimo o undicesimo secolo fosse rinata per opera dei Benedettini. Lo stesso Galieti nel 1919 intitolò un suo contributo "La rinascita medievale di Lanuvio ed i monaci benedettini", dopo aver identificato per Lanuvio una "Civitas Novina" riportata in un elenco di proprietà del Monastero di San Lorenzo fuori le mura, il quale in effetti fu per lungo tempo proprietario del luogo. Questo documento, oggetto della mia presente conversazione, porta la data del 1244 e fu tanto importante, perché non solo si trattava della testimonianza scritta e documentale più antica sino a quel momento nota a Galieti, ma vi si trovano anche delineati approssimativamente i confini del territorio Lanuvino. * Sono stato sollecitato da più parti a pubblicare il testo della conferenza da me tenuta nell'aula consiliare del Comune di Lanuvio il 20 giugno 2015. Lo faccio volentieri, ma ci tengo a sottolineare che la mancanza delle note e soprattutto della bibliografia lo rendono incompleto. Mi riservo di tornare in futuro sull'argomento, aggiungendo anche molti più dati che sono stato costretto ad omettere per brevità. In calce aggiungo solamente le diverse letture del documento.
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Civita Novina, quasi un rebus.

Apr 28, 2023

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Page 1: Civita Novina, quasi un rebus.

Civita Novina, quasi un rebus*

Avevo pensato di intitolare questa conferenza "Etiam si dissimilis vocatur", col sottotitolo: "Caccia al tesoro nella toponomastica medioevale", ma ci ho ripensato. Il latino sono rimasti in pochi a capirlo, mentre il sottotitolo sarebbe stato un po' ridicolo. Ho dunque preferito "Civita Novina, quasi un rebus", che certamente rende meglio l'idea. Si tratta infatti di trovare un senso a parole che sono nomi di luogo, ricostruire luoghi e circostanze, ma senza poter poi leggere la soluzione a pag. 46 del numero in edicola la settimana seguente. Come se non bastasse, non è nemmeno spiegato bene come il rebus vada sciolto, mancando regole certe ed esempi chiari; un lavoro che richiede molto tempo.

Non è da oggi comunque che mi occupo della storia di Lanuvio, e sono ormai passati almeno 40 anni da quando lessi per la prima volta gli scritti di Mons. Alberto Galieti. In questa sede, per ovvi motivi di brevità darò per scontate varie cose e circostanze, sulle quali potrà nascere anche un dibattito al termine della conferenza ed alla quale tutti i sopravvissuti sono sin da ora invitati.

Al contrario di quasi tutte le altre cittadine dei Castelli Romani, quella che fu Lanuvium e poi Civita Lavinia, non ebbe uno storico che dedicasse le sue fatiche alla compilazione di una storia municipale. Fu in effetti Galieti, con i suoi numerosi articoli, il primo vero storico di Lanuvio. Lui stesso non arrivò alla stesura di un'opera organica, ma ha certamente posto delle ottime basi per rendere possibile a chi segue le sue orme di andare avanti nelle ricerche e negli studi. Per essere stato il primo ad affrontare i tanti temi storici che una città come Lanuvio offre, ha dovuto fare un vero e proprio lavoro di dissodamento, entrando su sentieri mai prima di lui percorsi. Grazie alla sua opera tanti documenti sono potuti arrivare sino a noi, tra gli altri diversi documenti del distrutto Archivio Storico Comunale e dell'Archivio Notarile, ma soprattutto ha avuto delle intuizioni, particolarmente in merito alle vicende medioevali, le quali ad una verifica attenta si sono rivelate corrette, e la genialità del nostro storico credo vada onorata con studi e ricerche serie, e devo dire che da qualche tempo a questa parte, salvo qualche eccezione, finalmente nuovi studi e ricerche serie hanno visto la luce.

Pur avendo alle spalle studi di archeologia, negli anni la mia passione per il medioevo, il periodo storico meno noto rispetto a quello classico romano, è cresciuta sempre di più, proprio seguendo le direzioni di ricerca indicate da Alberto Galieti.

Il primo problema in assoluto era quello di riuscire a capire se tra la Lanuvium antica e la nostra Lanuvio odierna vi fosse una continuità abitativa. Alla fine dell'ottocento si dava quasi per scontato che Lanuvio fosse stata distrutta e spopolata da barbari e saraceni e che solo nel decimo o undicesimo secolo fosse rinata per opera dei Benedettini. Lo stesso Galieti nel 1919 intitolò un suo contributo "La rinascita medievale di Lanuvio ed i monaci benedettini", dopo aver identificato per Lanuvio una "Civitas Novina" riportata in un elenco di proprietà del Monastero di San Lorenzo fuori le mura, il quale in effetti fu per lungo tempo proprietario del luogo. Questo documento, oggetto della mia presente conversazione, porta la data del 1244 e fu tanto importante, perché non solo si trattava della testimonianza scritta e documentale più antica sino a quel momento nota a Galieti, ma vi si trovano anche delineati approssimativamente i confini del territorio Lanuvino.

* Sono stato sollecitato da più parti a pubblicare il testo della conferenza da me tenuta nell'aula consiliare del Comune di Lanuvio il 20 giugno 2015. Lo faccio volentieri, ma ci tengo a sottolineare che la mancanza delle note e soprattutto della bibliografia lo rendono incompleto. Mi riservo di tornare in futuro sull'argomento, aggiungendo anche molti più dati che sono stato costretto ad omettere per brevità. In calce aggiungo solamente le diverse letture del documento.

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Galieti era convinto che Lanuvio non fosse mai stata abbandonata del tutto, ma era solo contro autorevoli scrittori che sostenevano con veemenza il contrario. Posizioni erronee del genere sono state affermate anche in tempi recenti, e vorrei accennarvi brevemente.

In un articolo del compianto Professor Jean Coste, che fu pubblicato ben tre volte tra il 1990 ed il 1999, dopo aver tirato fuori dal cilindro il termine di "incastellamento duecentesco", afferma che Lanuvio sarebbe stata fondata nel duecento, sottintendendo che restò abbandonata e totalmente deserta sin dalla fine del mondo antico. Si appoggia proprio alla carta del 1244 per affermare la fondazione duecentesca di Lanuvio e come se non bastasse, fà dell'ironia, accennando a persone che si potrebbero offendere se non si fa risalire la nascita di un luogo a tempi abbastanza remoti. Le mie radici culturali giudaico-cristiane di stampo latino mi impongono di fermarmi qui: de mortuis nihil nisi bene.

La data del 1244 di sicuro non rappresenta un "terminus post quem", dato che per la sua stessa natura e per il suo contenuto ci dimostra che il castello di "Civita Novina" non era un novellino tra le rocche ed i castelli che affollavano il vulcano laziale.

Galieti immaginava che esistessero per certo documenti capaci di illuminare le fasi storiche più oscure —troppi indizi lo dimostravano— ma non ebbe forse il tempo e la tranquillità necessarie per andarli a trovare. Mi sono dunque messo alla ricerca e con un poco di fortuna ne ho trovati più di uno. Nulla di inedito, va detto, ma comunque documenti che per vari motivi ancora non erano stati messi in relazione con la storia della nostra cittadina. Prima di farne l'elenco a ritroso nel tempo, giusto un accenno ad un documento precedente al 1244 già noto a Galieti, e cioè l'iscrizione del 1240 sullo scomparso ciborio della Collegiata.

ANNO . DOMINI . MCCXL . EGO . ARCHIPRESBITER . IOHANNES SARACENUS . FECI . FIERI . HOC . OPUS . A . MAGISTRO DRUDO ROMANO . CUM . ANGELO . FILIO . SUO

A parte il fatto che l'iscrizione ci riporta al 1240, la constatazione che il committente, Giovanni Saraceno, sia l'arciprete, ci fa capire che già allora la chiesa di Santa Maria Maggiore fosse una collegiata, una constatazione non secondaria. Anticamente una collegiata era di poco al disotto della cattedrale diocesana, e nel caso di Lanuvio, che sin dagli inizi fu parte integrante della Diocesi suburbicaria di Albano, il fatto ci indica che questa nostra chiesa dovesse risalire a tempi assai remoti. In un castello appena fondato l'immancabile chiesa sarebbe stata al massimo una parrocchia. Come Galieti fa notare, la chiesa duecentesca poggia direttamente su di una abitazione privata dell'antica Lanuvium, chiaro segno di continuità nel tempo.

Vorrei ancora accennare al fatto che per Lanuvio sono note storicamente almeno nove chiese; un po' troppe per un castello fondato solo nel XIII. secolo e per giunta, per alcune di loro, documentate almeno per un periodo che va dal VII al IX secolo.

Per non perderci nel ricco filone delle chiese lanuvine, restiamo fermi ai documenti.Di ben 30 anni prima dell'iscrizione della collegiata, cioè del 14 ottobre 1210, è un

documento riportato nel Regestum Senese, nel quale troviamo: "… Petrus Yconomus s. Laurentii foris muros, quicquid monasterium s. Laurentii et homines Civitatis Novine tenuerunt de tenimento s. Silvestri [renuntiaverunt] …" In soldoni il monastero di San Lorenzo aveva occupato in accordo e collaborazione con gli "homines" di Civita Novina, una tenuta della Campagna Romana, che in seguito ad un "preceptum" emanato dal Senatore di Roma Bobone, si impegnavano a restituire. Dove si trovasse questo

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"tenimentum sancti Silvestri" non è ancora chiaro, comunque dovrebbe essere ai margini del territorio lanuvino appartenente al Monastero, forse dalle parti della Pescarella o Tor di Bruno.

Per il 1210 abbiamo un'altra menzione ancora, esattamente in una lettera dell'agosto di quell'anno, tratta dall'epistolario di Innocenzo III, nella quale il pontefice conferma al proprio cappellano, il suddiacono Guido, la concessione da parte del vescovo di Albano della chiesa di San Lorenzo "posita in territorio Civitatis Novinae".

Ma andiamo avanti, o meglio, indietro nel tempo. La traccia da seguire è quella del nome "Novina". Così nel 1103 in un atto del Codex Diplomaticus Cajetanus troviamo questa sottoscrizione: "Petrus scrinarius novina civis", un notaio che si dichiara cittadino di Novina. Che sia la nostra Novina e non una qualsiasi altra viene suggerito anche dal fatto che gli attori del documento sono Tolomeo I del Tuscolo e gli abitanti di Gaeta; questa Novina la dobbiamo dunque cercare tra i due estremi geografici citati.

Siamo arrivati così al XII. secolo, che è un bel traguardo, ma con un piccolo sforzo possiamo fare anche meglio.

È del 15 aprile 1059 un atto veliterno nel quale uno dei testimoni si firma "Bernardo de Novina cives", più che ovvio che siamo ancora a Civita, dato che nell'atto si tratta di una donazione fondiaria relativa ad un terreno ai margini del territorio veliterno verso Lanuvio.

Nei due documenti appena citati ricorre la parola "cives", cittadino, che ci fa supporre che Civita Novina doveva avere una qualche forma di amministrazione autonoma, come lo stesso Galieti ha fatto notare in più di un articolo, sostenendo che Lanuvio avesse delle "origini democratiche", prima ancora che i monaci di San Lorenzo ne divenissero signori. Il periodo esatto in cui questo avvenne è ancora da indagare con attenzione, anche se sin da ora si può dire che i monaci si insediarono tra il X. e XI. secolo.

Prima di passare finalmente all'analisi del nostro documento, è il caso di spendere un paio di parole in merito al nome stesso: Civita Novina.

Come già ho avuto occasione di scrivere su "Castelli Romani", non sono affatto convinto che "Civita Novina" sia semplicemente una contrazione di Civita Lanovina e che addirittura discenda dalla "massa neviana" oggetto di un interessante articolo di Galieti; su questo punto sono in disaccordo con il Nostro. La provenienza è a mio avviso completamente diversa, ed ha implicazioni assai interessanti.

Il grande linguista Giacomo Devoto porta in una sua opera proprio "Civita Lavinia" come esempio di una cosiddetta "resistenza toponomastica", la quale rimanda a tempi assai remoti essendosi conservata una forma latina. Questo già ci indica chiaramente che per Lanuvio non può esserci alcun "incastellamento duecentesco", perché nel duecento avrebbe di certo ricevuto un nome più moderno e più che "civitas" sarebbe stato definito forse "Burgo" o magari semplicemente "Castrum".

Appare molto più probabile una derivazione da Civitas Nova, un toponimo che ci rimanderebbe direttamente al periodo bizantino del Ducato romano. Sono infatti numerose le città fondate ex novo o "rifondate" nei territori italiani di riconquista bizantina. Quelle che in area ellenofona si chiamavano "Neokastron", in area latina si appellavano appunto "Civitas Nova". Se in effetti Lanuvio fosse stata "rifondata" in ambito bizantino —tra il 540 ed il 740— allora i casi potrebbero essere diversi: anche se la chiusura del tempio di Giunone Sospita fa decadere rapidamente la città, non si svuota del tutto sino al momento in cui nel quadro delle opere a difesa del Ducato Romano viene ridotta a fortificazione, ottenendo nome nuovo e nuovo slancio, in funzione anti-longobarda. In tale caso oltre ad una autorità delegata localmente dall'esarca di Ravenna, probabilmente si rianimarono forme di autogoverno locale discendenti direttamente dalle antiche magistrature romane

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delle quali rimaneva in loco qualche vaga memoria.Ora potrebbe anche essere plausibile che il nome derivasse dalla "Massa Neviana", ma

questo appezzamento di terreno si trovava più o meno al XX. miglio dell'Appia, cioè a circa tre chilometri più a sud del centro abitato lungo il percorso della consolare e "Civitas nova" appare comunque più papabile.

Il diminutivo "Novina" poteva servire magari a distinguerla da qualche altra Civitas Nova più grande ed importante, come potrebbe essere la "Civitas Nova" registrata nella cosmografia del Ravennate, un autore di VII secolo, posta a nord di Roma, o più semplicemente si voleva alludere alle dimensioni ridotte rispetto all'estensione maggiore della Lanuvium romana.

C'è poi da considerare il fatto che se Lanuvio fosse stata "ribattezzata" Civitas Nevina (o Novina) nel VI secolo, e nel caso in cui di li a poco si fosse spopolata del tutto, tre o quattro secoli dopo, nel caso di un ipotetico ripopolamento da zero, considerati tutti i cambiamenti etnici, politici, economici, culturali ed istituzionali avutisi nella regione circostante, avrebbe ricevuto un bel nome nuovo di zecca. Per finire su questo punto: Lanuvio non è mai stata abbandonata e non può essere una fondazione tardo-medievale. I monaci ne diventano proprietari, ma piuttosto che ripopolare l'abitato si mettono d'accordo con gli homines che da sempre ci vivono.

Eccoci finalmente giunti al nostro rebus. Il pontefice Innocenzo IV con apposita bolla pone sotto la protezione pontificia il monastero di San Lorenzo fuori le mura, confermando i diritti sulla proprietà di tutti gli immobili ad esso spettanti. Rispetto all'intero documento, il brano che riguarda Lanuvio si esaurisce in un paio di righe. Per nostra grande fortuna la pergamena cui fa riferimento Galieti esiste tutt'ora e si conserva presso l'archivio storico comunale di Soriano nel Cimino; colgo qui l'occasione per ringraziare la dottoressa Gabriella Evangelistella, direttrice della Biblioteca, la quale mi ha inviato una immagine del documento, sulla quale ho potuto sperimentare una nuova lettura del testo.

Esistono infatti di questo documento due letture, con grosse differenze di interpretazione, una del 1895 pubblicata sul Bollettino di Storia Patria per l'Umbria, da Umberto Savio ed una del 1905 apparsa nell'Archivio della Società Romana di Storia Patria per cura di Pietro Egidi. Galieti, nel ripubblicare il brano interessante Lanuvio, utilizzò la seconda. Da parte mia mi sono permesso di confrontare entrambe le letture direttamente sulla pergamena e ne ho fatto una nuova che ora analizzeremo passo passo.

1) "Castrum Civitatis Novine cum duabus ecclesiisvidelicet sancte Mariae et sancti Andree et earum pertinentiis,"

I monaci dunque vengono confermati nel possesso del castello di Civita Novina assieme a due chiese, per l'esattezza Santa Maria e Sant'Andrea comprese le loro pertinenze. Galieti dice subito, ed ormai qui non posso che concordare, che si tratta di due chiese esterne al castello. Sappiamo che a Lanuvio vi erano due chiese dedicate alla Madre di Dio, una la nostra collegiata, nota come Santa Maria Maggiore, ed una esterna alle mura, Santa Maria della Selva.

La chiesa di Sant'Andrea invece, della cui esistenza questa è l'unica attestazione, non può che essere la scomparsa chiesa di San Lorenzo, che sorgeva in cima all'omonima Collina sovrastante il castello, all'interno delle rovine del santuario di Giunone Sospita. Il cambiamento di nome si spiega facilmente: quando venivano redatti i documenti di conferma di beni spettanti a singoli, comunità, chiese o monasteri, i titolari dovevano presentare i documenti originali o comunque autentici che confermassero tali diritti di

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proprietà. Non era affatto raro a quei tempi che dei nomi di chiese, strade, fiumi, tenute, castelli cambiassero, ma il notaio doveva lo stesso riportare il nome usato nel titolo di proprietà originario. Si spiegano anche così le formule cautelative in cui si incorre spesso, ad esempio "siue quo alio nomine nuncupatur". Santa Maria della Selva e San Lorenzo sono entrambe dotate di beni, i quali però, come abbiamo visto nella lettera di Innocenzo Terzo, erano di diretto dominio del Vescovo di Albano.

2) Passiamo ora ai confini del territorio di Civita Novina in possesso dei Monaci, i "Casalia et alia que habetis". Chi conosce già questo testo si sarà accorto subito che la terminazione non appare completa. È come se mancasse un lato dei confini. La cosa si spiegherebbe col fatto che una volta affermata la proprietà sul patrimonio appartenente alle due chiese extramuranee, questo versante si dava per scontato e dunque si descrivono solamente i lati mancanti. Il primo tratto descitto va:

"a prato [P]istellerii, usque ad formellum pucçum, et fossatum de mola rupta". Veramente sino ad oggi si era sempre letto "P[rato] [c]astellerii" (Savio) oppure prati[s] ..]sistellerii (Egidi) e Galieti semplifica in "pratis …sistellerii". Evidente che queste letture non danno senso e mi sono dovuto cecare per trovare finalmente una soluzione più soddisfacente. Che la prima delle due parole sia "prata" quasi non vi è dubbio, ma è stato ben più complesso arrivare a capire che l'unica lettura possibile del nome del proprietario di questi prati fosse un tal Pistellerio, pur non sapendo assolutamente chi potesse essere. Della "P" iniziale si vede solamente la parte inferiore, la quale è identica a quella di una "S", come ognuno può verificare direttamente sulla pergamena.

Dunque abbiamo dei prati, visto che il plurale in "a" è il plurale neutro, un relitto linguistico latino rimasto nel dialetto romanesco. Per prati non si intende un bel manto verde sul quale giocare a pallone, ma una zona adibita ad orti, cioè produttiva, e questo Pistellerio è un nome strano quanto praticamente sconosciuto.

Sorprendentemente a conferma dell'esistenza di questo nome ci viene in aiuto un documento del 1217, una bolla di Onorio III per la conferma di tutti i beni appartenenti al monastero di Sant'Alessio e Bonifacio all'Aventino, tra i quali troviamo:"Totum tenimentum quod dicitur Prata de Pistilierio, iuxta rivum Pretasium". Prima di cercare di capire dove fosse questa tenuta, è il caso di scoprire chi sia Pistilierio. L'unico per ora rintracciato è Ansaldo Pistellerio, —la variante del nome qui è insignificante— un commerciante o uomo d'affari genovese che nel 1160 fonda una società con Bono Giovanni Malfigliastro, un banchiere suo conterraneo che finanziò la conquista della Sicilia da parte dei Normanni, oltre ad una crociata. La probabilità è altissima che si tratti proprio del Pistellerio che stiamo cercando, vista la rarità del cognome, lo spazio temporale ed anche, paradossalmente, la sua nazionalità. Tra XII e XIII secolo la Repubblica di Genova si trovava in grande ascesa ed emissari e soprattutto banchieri e commercianti genovesi si trovano un po' dappertutto, anche nello Stato Pontificio. Vorrei qui solamente accennare alla famiglia dei Gandolfi, il cui nome ci resta testimoniato da Castelgandolfo, la quale vantava ascendenti liguri. Del resto risale al 1166 il trattato di pace ed alleanza tra il Comune di Roma e Genova col quale si aprirono i porti ai commercianti liguri.

Manca ora la localizzazione esatta di questa tenuta. Ma prima di poterlo fare, è necessario confutare quanto ebbe a scriverne Giuseppe Tomassetti, un'autorità assoluta in fatto di topografia della Campagna Romana. Non è certo mia intenzione dichiarare per poco

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attendibile l'intera opera tomassettiana, ma con l'enorme mole di documenti che passò in rassegna per scrivere la sua "Campagna Romana antica, medioevale e moderna" qualche errore o confusione era inevitabile e nel nostro caso dei Prata de Pistilierio evidente.

Essendo questa tenuta posta a confine con il territorio di Lanuvio non può ovviamente trovarsi dalle parti della tenuta della Falcognana, ad un paio di miglia di distanza da Castel di Leva, noto a tutti come il Divino Amore. Tomassetti fonda la propria asserzione sull'interpretazione un po' forzata che ci offre dell'indicazione "iuxta rivum pretasium", come afferma testualmente: "Ora, non sarà più giusto il tenere che dal nome antico pretasium venga la denominazione dei preti, ed anzi riconoscere il rivo suddetto nel moderno torrente detto precisamente fosso dei preti, che scorre appunto entro la Falcognana?". A parte il fatto che tra un rivo ed un fosso c'è una differenza non secondaria, candidamente sostiene che "rivo pretasio" col passare dei secoli si sarebbe trasformato in "fosso dei preti", una forzatura un tantino fuori le righe. Sarebbe stato certo più probabile che un "rivo presbiterum" si fosse trasformato nel fosso dei preti. Questo pretasio, tutto sommato abbastanza strano, trova una spiegazione più plausibile in un errore di lettura o interpretazione in seguito ad una remota trascrizione del documento stesso.

Le abbreviazioni in uso da parte dei notai dell'epoca possono a volte, specialmente quando si tratta di nomi propri, ingenerare confusioni ed incertezze di lettura. Per sillabe a tre lettere inizianti con la 'p' e contenenti una 'r' più singole vocali in posizioni diverse, (per… pre… par… por… e così via) ci si può facilmente confondere sia in fase di scrittura, sia in fase di lettura e copiatura. Ci ritroviamo infatti sulla carta una 'p' corredata da una lineetta o barretta orizzontale posta sotto o sopra la lettera stessa, tra l'altro non sempre allo stesso modo, potendo variare, senza regole fisse o uniformi, i modi di connettere o non connettere la barretta alla lettera. L'occhio coglie la parola intera e scioglie, riconoscendola automaticamente in modo corretto, anche nel caso in cui l'abbreviatura non fosse graficamente precisa. Così è nel caso in cui si tratti di parole, direi ovvie, come 'presens', 'primus', 'super', ma nel nostro caso del nome di un rivo le cose cambiano. L'occhio anche qui tende automaticamente a "riconoscere" la parola per esteso, ma sciogliendo non sempre in modo corretto l'abbreviazione. Questo, per tornare al nostro problema, potrebbe avere ingenerato uno scambio tra 'pro' e 'pre', dunque non abbiamo qui 'pretasio', ma semplicemente 'protasio', e protasio ha decisamente senso.

Si tratta infatti di San Protasio, fratello gemello dell'altro martire Gervasio, entrambi figli di San Vitale, il santo cui era dedicato un antico titolo cardinalizio, quello di Vestina, a metà dell'odierna Via Nazionale. Ora, per quanto ne sappiamo, questa Vestina fu parente del Pontefice Innocenzo I, il Papa nativo di Albano Laziale, il quale fu un devoto dei due santi e ne promosse il culto; dunque niente di più probabile del nome di Protasio dato ad un rivo che poteva attraversare o partire da qualche edificio o luogo di culto di questo santo, se non una tenuta ad esso intitolata; i nomi di santi nella campagna romana si sprecano!

Il guaio è che non si trova il rivo Protasio in alcun altro documento (almeno per adesso) e non sembra nemmeno restarne memoria nella toponomastica. Dobbiamo dunque andare avanti un poco a tastoni, sapendo comunque che ci troviamo sul lato occidentale del territorio lanuvino, ripartendo dai prata. Qui forse una traccia la troviamo nella toponomastica moderna, esattamente a Genzano, dove esiste una "Via le Prata" che un tempo, come risulta da vecchia cartografia, partiva dall'Appia e scendeva seguendo il bordo orientale di Vallericcia verso Tor Paluzzi. Di questa strada restano oggi un paio di tronconi ed il tracciato originario si confonde e scompare assorbito dalla caotica espansione di Genzano e la rete stradale moderna. Comunque sia siamo in una zona nella quale si incontrano i confini di Lanuvio, Genzano, Ariccia ed un tempo anche Albano. Proprio da

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queste parti si trovava la Mandra o Turris Candulforum, segnato come limite del territorio di Lanuvio in un documento del 1350 e questa torre, oggi un ristorante chiamato Vecchio Montano, si trova esattamente sopra lo sbocco del cunicolo che convoglia le acque di Vallericcia ed alimenta il fosso di Montagnano. Riassumendo: Dai prati di Pistiliero (più o meno la zona tra la torretta e ginestreto) fino all'antico mulino allo sbocco del cunicolo, ossia formello, che ancora oggi sfocia in un pozzo e può essere visto da chiunque. Qui si deve cercare anche il fossato della mola rotta, che nel frattempo deve essere stata aggiustata, avendo chiaramente di nuovo cambiato nome. Potrebbe essere il già citato fosso di Montagnano, che per ipotesi, neanche tanto peregrina, potrebbe coincidere con il rivo Pretasio di cui sopra. Da notare che "formellum pucçum, et fossatum de mola rupta" sembrano formare un'unità, sono cioè contestuali e formano il punto da cui ripartire.

3) "ab ipso fossato usque in spinaçetum de Johanne Niro, et per fluvium ipsius spinaçeti usque in piscinam presbiteri Bonifatii"Dal fossato della mola dobbiamo raggiungere lo spinaceto di Giovanni Nero, un posto che

non potremo identificare mai, dato che questo è uno di quei toponimi volatili, nel senso che durano solo per il periodo in cui chi gli da il nome ne è proprietario e per giunta vivo e vegeto, ragionanamento che vale anche per il già visto Pistiliero. Giusto una nota: qui non si tratta della coltivazione preferita da Popeye, cioè gli spinaci, ma di un terreno invaso da piante spinose, che possono essere more, cardi, rose canine ed altro ancora. Ben diversa la storia per il prossimo termine che raggiungiamo seguendo un fiume che attraversava o fiancheggiava lo spinaceto. Alla prima lettura che ne feci, mi immaginai un prete di nome Bonifacio seduto ai bordi di una piscina, magari con una bevanda rinfrescante in mano. Ovviamente non può essere così e qui non si tratta di un solo prete di nome Bonifacio, ma dei "preti di San Bonifacio ed Alessio" sull'Aventino proprietari di estese tenute a sud di Roma, sparse tra il vulcano laziale e la costa tirrenica; sono gli stessi del "fosso dei preti" cui accennava Tomassetti. Loro era la tenuta di Verposa, detta anche Bonriposo, oggi parte del territorio comunale di Aprilia. Anche di questa Tenuta abbiamo una bellissima pianta acquarellata e figurata del Catasto alessandrino, sulla quale si vedono diverse "piscine". Per piscina, qui va detto, si intende un pantano, un luogo nel quale naturalmente o per mano umana si raccoglie dell'acqua.

Da più documenti sappiamo che un tempo Lanuvio confinava con questa tenuta di Verposa, alias Bonriposo, ma dai catasti seicenteschi vediamo che le tenute di Vallelata e Tufelli vi si frappongono. Questo significa o che nel tempo la tenuta di Verposa è stata frazionata, o che queste due tenute sono state perse da Lanuvio. Anche qui lunghe e faticose ricerche potranno dare una risposta. Unico dato certo nella nostra passeggiata lungo gli antichi confini dell'agro lanuvino è che siamo arrivati più o meno ad ovest dell'odierna Aprilia.

4) "… et usque in siceliceam, et duas starças manuales iuxta ipsam siceliceam, et a siceliceam usque ad piscinam Bifurci,… "

Veramente nel documento originale troviamo ripetuta ben quattro volte la misteriosa parola "sicclicca". Mentre Savio la riporta pedissequamente, Egidi disinvoltamente fa cadere una c e scrive "sicclica". Galieti, che non penso abbia fatto una verifica sull'originale, prende per buona la seconda. Istintivamente uno è portato a pensare che qui si tratti di una strada, l'assonanza con "silice", parola ben frequente in documenti coevi, è evidente. Ma esaminando la scrittura, ci si rende conto che la "c" e la "e" possono essere facilmente confuse, anzi, sono praticamente identiche. Per questo motivo ho creduto di poter leggere la

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seconda "c" come una "e" ed il risultato è sicelicea.Ecco che abbiamo una strada selciata, verosimilmente antica, nei pressi della Piscina dei

preti bonifaciani che passa accanto a due starze manuali fino ad un'altra piscina che si trova presso una biforcazione. Molto difficile trovare l'esatta ubicazione delle due starze, ma non meno quella dello stagno nei pressi di una biforcazione della strada, che è come cercare Maria per Roma con tutte le biforcazioni e gli stagni che c'erano nella campagna romana. Non tutti sanno cosa sia una starza, per giunta manuale, e Savio, forse per non doverlo spiegare, semplicemente la salta, mentre Egidi stende un pietoso velo e non entra in particolari.

Il termine Starza, un tempo assai diffuso nell'intera longobardia italiana indica un appezzamento di terreno sempre recintato o addirittura ben difeso. La parola è di origine appunto longobarda ed ha delle implicazioni giuridiche particolari, dato che in origine indicava l'occupazione di un terreno senza il totale consenso del proprietario diretto e che comunque non teneva conto di eventuali diritti di terzi. Nel nostro caso poi si aggiunge l'aggettivo "manuale", che indica il fatto che non era arativo, ma per via delle ridotte dimensioni, impiegato ad uso di orto. Si doveva mettere alla mano la zappa.

Per quanto riguarda la "piscina bifurci" invece è stato possibile, con mia grande sorpresa, trovare una traccia in una delle tavole del catasto alessandrino. Certo, dal 1244 al 1660 sono passati più di 400 anni, ma quelli erano anni, anzi secoli, nei quali i cambiamenti andavano abbastanza a rilento. Come si vede nell'immagine abbiamo un "padulo" accanto ad una biforcazione della strada che porta a Nettuno ed il bello è che si trova esattamente lungo il tragitto che stiamo seguendo.

5) "et ab ipsa piscina usque in pedem Insule Lommardorum, et ab ipsa Insula usque in colupnellam affissam non longe a sicelicea."Finalmente sappiamo con certezza dove ci troviamo. Lasciando la piscina, dalle parti

dell'odierna Bellavista all'ingresso di Aprilia, arriviamo alla pedica dell'isola dei longobardi. Per capire meglio siamo nei pressi delle Farnete, una tenuta di proprietà comunale, in una zona chiamata "Malcavallo". Posso immaginare che agli animalisti un nome del genere non piaccia affatto e lo vorrebbero cambiare in qualcosa tipo Bellostallone o Giumenta giuliva, ma sarebbe una fatica sprecata, perché basterebbe ridare al luogo il proprio nome originario, modificato a suo tempo da puristi ai quali "Marcavallo" suonava volgare, troppo romanesco. Marcavallo è la contrazione di "marca a valle" che non significa altro che confine nella parte bassa del territorio.

Per non andare fuori strada, torniamo ai nostri longobardi.Con la fine delle guerre gotiche, raccontateci da Procopio di Cesarea, nasce, con

capoluogo Ravenna, l'Esarcato, il quale si deve confrontare, tra un complotto e l'altro, con la crescente minaccia longobarda. Il Papa Gregorio Magno, lasciato solo dall'esarca, sul finire del VI secolo, viene costretto dalla situazione italiana a scendere a patti con i longobardi, che volevano farsi padroni della penisola. Sappiamo che in base agli accordi di pace, o meglio, di tregua in tregua, ai Longobardi vennero assegnati e concessi vari territori, che

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potevano comprendere intere regioni o limitarsi a singole aree, anche in territorio che rimaneva sotto alla sovranità del Ducato Romano. Alcune fondazioni, ancora oggi riconoscibili dai tipici nomi di "Fara" o "Sala", formavano piccole isole etniche. Rientravano in questi accordi anche dei ridotti territori, che venivano definiti "Isole", perché appartenenti ai Longobardi all'interno di un tessuto territoriale rimasto romano. Va detto che a volte il toponimo "isola" poteva anche originare diversamente, ma che la nostra località denominata ancora oggi "le Isole", ricadente nel comune di Aprilia ed a confine con "Le Farnete", fosse un indipendente possesso longobardo, ci viene confermato da alcuni documenti dell'archivio di Santa Maria in Via Lata di Roma. Da essi veniamo a sapere che su tale "pedica", tra l'altro un termine che deriva da una misura di terreno longobarda, esisteva una Chiesa dedicata a San Bartolomeo, il Santo "nazionale" dei Longobardi di Benevento.

Il fatto che la presenza longobarda fosse relegata a poco più di un appezzamento di terreno incastrato tra i territori di Velletri, Cisterna, Campomorto e Lanuvio, ci suggerisce che attorno ad esso vi fosse una zona abitata da romani e che a nessun costo ai Longobardi furono ceduti centri abitati decaduti o semiabbandonati, come altrove accadde. Una presenza longobarda nella zona ad ogni modo è fuori discussione, essendoci testimoniata dagli stessi nomi che ricorrono negli atti cui si accennava e dal fatto che essi indicassero, per motivi giuridici, la propria nazionalità, fatto che incontriamo anche in altri documenti, come in un atto veliterno del 1108.

Ci rimangono così da fare gli ultimi passi che ci portano ad un'altra antica strada selciata accanto alla quale sta ben infissa una colonna, che segna anche la fine della demarcazione lanuvina del 1244.

Questa colonna doveva essere di una certa importanza. Non solo ha dato il nome ad un quarto della tenuta di Campomorto, ma la troviamo citata in diversi documenti. Per il 1059 abbiamo, nella donazione già citata, firmata anche da Bernardo di Civita Novina: "...plagaro de pede de insula et a quarto latere colle de toco sicuti vadit per paro et pergit in columna…", mentre in un atto del 1102 di Pasquale II a favore del Comune di Velletri leggiamo "columnella marmorea quae inter vos et habitatores Sancti Petri in Forma olim fuit et nunc est communi consilio constituta...".

Questi appena raccontati sono solamente alcuni elementi scaturiti da una analisi approfondita del documento, strettamente legati alla topografia. Volendo fare delle considerazioni storiche, relative al contesto, le ragioni e gli effetti di questo prezioso testo non basterebbe una settimana intera di chiacchiere, anche perché, come già accennato, il medioevo lanuvino è ancora quasi tutto da scoprire.

Ho voluto anche onorare con questo mio contributo, la memoria di Mons. Alberto Galieti e colgo l'occasione per un appello. Nella cappella del Cimitero sono stati interrati i resti mortali di Mons. Alberto Galieti. Se ne prevedeva la traslazione nella Collegiata, tanto che è anche già da molto tempo stata approntata una lapide. All'inizio di questa conferenza ho sottoposto la questione al Sindaco, il quale si è detto d'accordo. Ora dobbiamo solamente che alle parole seguano i fatti.

Concludendo, per coloro i quali pensano che in questo mio contributo ci siano troppe novità rispetto a quanto pubblicato sino ad oggi, ripeto una famosa frase:

Chi non si aspetta l'inaspettato, non scoprirà la verità.(Eraclito)

Corrado Lampe

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Deputazione di storia patria per l'Umbria, 1895 - trascrizione

Savio

Archivio della Società Romana di Storia Patria, 1905 -

trascrizione Egidi

Archivio della Società Romana di Storia Patria, 1919 - versione

Galieti

castrum Civitatis Novine cum duabus Ecclesiis, videlicet S. Marie et S. Andree et earum pertinentiis et casalia et alia que habetis a P[rato] [c]astellerii usque ad Formellum puczum et fossatum de Mola rupta et ab ipso fossato usque in spinaretum de Iohanne Niro et per fluvium ipsius spinareti usque in piscinam presbiteri Bonifatii et usque in Siccliccam et a Sicclicca usque ad piscinam Bifuria et ab ipsa piscina usque ad pedem Insule Lombardorum (?) et ab ipsa Insula usque in colipnellam affissam non longe a Sicclicca.

castrum Civitatis Novine cum ecclesiis S. Marie et S. Andree et casalia et alia que habetis a prati[s] ..]sistellerii usque ad Formellum, pucçum et fossatum de Mola rupta usque in Spinaçetum de Iohanne Niro, et per fluvium Spinaçeti usque in piscinam presbiteri Bonifatii et usque in Sicclicam et duas starças manuales iuxta Sicclicam, et a Sicclica usque ad piscinam Bifurci et usque ad pedem Insule Lommardorum et ab insula usque in columpnellam affissam non longe a Sicclica.

castrum Civitatis Novine cum ecclesiis S. Marie et S. Andree et casalia et alia que habetis a pratis …sistellerii usque ad Formellum, pucçum et fossatum de Mola rupta usque in Spinaçetum de Iohanne Niro, et per fluvium Spinaçeti usque in piscinam presbiteri Bonifatii et usque in sicclicam et duas starças manuales iuxta Sicclicam, et a Sicclica usque ad Piscinam Bifurci et usque ad pedem Insule Lommardorum et ab insula usque in columpnellam affissam non longe a Sicclica.