Ci sono esperienze di morte che avvengono prima di morire: gente piegata, umiliata, schiavizzata. Ci sono piccole risurrezioni che possono anticipare, quale caparra e primizia, la risurrezione finale. Ogni volta che l’evangelo è annunziato come esperienza che rimette in piedi, che solleva chi è abbattuto; ogni volta che un credente tende la sua mano per aiutare chi è più debole a risollevarsi: lì avviene una risurrezione, si spande un profumo soave più forte della morte. (Lidia Maggi, L’Evangelo delle Donne, Figure femminili nel Nuovo Testamento)
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Ci sono esperienze di morte che avvengono prima di morire ...
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Ci sono esperienze di morte che avvengono prima di morire: gente piegata, umiliata, schiavizzata. Ci sono piccole risurrezioni che possono anticipare, quale caparra e primizia, la risurrezione finale. Ogni volta che l’evangelo è annunziato come esperienza che rimette in piedi, che solleva chi è abbattuto; ogni volta che un credente tende la sua mano per aiutare chi è più debole a risollevarsi: lì avviene una risurrezione, si spande un profumo soave più forte della morte. (Lidia Maggi,
L’Evangelo delle Donne, Figure femminili nel Nuovo Testamento)
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Un’immagine… per dire un impegno:
sognare, progettare, costruire insieme…
mettersi in gioco…
incontrare se stessi, gli altri, l’Altro!
Ecco in sintesi il
Progetto Educativo per l’Anno Accademico 2011/12!
Le tappe già vissute:
- festa di inizio anno accademico (ottobre)
- …per imparare a pregare (da ottobre a dicembre)
- …in gita a… per riscoprire il gusto dell’amicizia!
- …“Un povero, mio Amico”: martedì in stazione con gli amici poveri!
- Natale in festa: Celebrazione, cenone, tombolata, mercatino solidale!
- Prossimamente “Dorotea, una donna per oggi” incontro e proposta missionaria.
Silvia, Francesca Balocco e Francesca D’Angelo ssd
Prof. Marcello Neri
Professore invitato e ricercatore del Dipartimento di Teologia Fondamentale
dell’Università di Graz (Austria) Prof. Klaus Müller Docente di questioni filosofiche nella Teologia e Preside della Facoltà Teologica Cattolica di Münster (Germania)
RIPORTIAMO L’INTRODUZIONE
DI SR. FRANCESCA BALOCCO
CHE HA DATO AVVIO ALLA SERATA
PRIMA DI LASCIARE SPAZIO AI RELATORI
“Scritto sul corpo c’è un codice segreto, visibile solo in certe condizioni di luce: quello che si è accumulato nel corso della vita si ritrova lì. In certe parti il palinsesto è
inciso con forza tale che le lettere si possono sentire al tatto…”
(Janette Winterson, Scritto sul corpo, Piccola Biblioteca Mondatori, 2010, 92).
Il corpo è evidente, l’esistenza stessa è esposizione del corpo: spazio occupato, posizione assun-
ta, luogo di inciampo e pietra angolare… curato e trascurato, accolto e dimenticato, unificato e
scisso… il nostro essere vivi è possibile solo a partire dalla corporeità.
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Ma il corpo non è un incidente di percorso, un’aggiunta alla vita, è la condizione stessa della
possibilità della vita, è ciò che consente ad ogni essere umano di esserci, di essere presente, di essere
nel presente, nell’attualità di ciò che accade.
Il corpo è quindi l’espressione delle potenzialità e delle risorse del vivere umano, è con-tatto; il
nostro corpo è toccato prima che pensato e le nostre esperienze sono costituite da un sentire che è
prima di un riflettere, il corpo è immediatezza dell’esperienza, è esposizione a me stesso e al mon-
do, è il gesto stesso del toccare.
È il posizionamento della nostra vita nell’esistenza, attraverso i gesti e il movimento o l’immo-
bilità…
Perché il corpo, non è solo risorsa ma è anche limite, singolarità, finitudine, mortalità; il corpo,
presenza discreta e dimenticata nella sanità, che diventa dolorosa memoria nella malattia…
Il corpo è il nostro confine, ci costringe alla realtà, ad un qui e ora che non è un ovunque e per
sempre; il nostro corpo ci obbliga a decidere di essere qui e non altrove, ci costringe al rischio di
scegliere tra i molteplici possibili, ci costringe alla rinuncia del tutto desiderato da immaginare a fa-
vore della concretezza da vivere.
Dalla nascita, il nostro corpo, è anche un corpo ferito, che porta il segno del primo distacco,
una prima ferita alla quale se ne aggiungeranno altre che segnano il percorso di un corpo che assu-
me storia e carne, che abbandona l’immaginario e si posizione nella realtà.
Questo distaccamento, avvenuto certamente alla nascita, continua a proporsi di fronte ad ogni
dolorosa assunzione della realtà, di fronte ad ogni avvenimento che nella nostra vita non può essere
ignorato.
La storia di ogni uomo, di qualunque uomo, quella che resta, quella che si passa e che si tra-
smette, non è parallela, o invisibile rispetto alla vita vissuta, ma resta proprio ciò che porta il segno
degli eventi vissuti nella carne, ferite del distacco, della perdita e della mancanza.
L’assunzione della realtà è un impatto, che ferisce, ma è la condizione necessaria per dare con-
tinuamente avvio, ogni volta e ogni volta più profondamente, a quel processo, sigillato dalle cicatri-
ci, che chiamiamo incarnazione.
L’incarnazione della parola è un processo avviato alla nascita, ma non accaduto, finito e chiuso
in quel preciso momento, l’incarnazione acquista lo spessore della carne nella concretezza e nella
consapevolezza che si dischiude ad ogni impatto col reale.
Come ogni nascita, anche la nascita del Figlio di Dio è una passione, non solo perché è fisiolo-
gicamente un passaggio, ma anche perché nell’assumere carne e corpo, Dio da infinito si è fatto
finito, da eterno è entrato nel tempo, da immortale è diventato mortale, da inafferrabile si è fatto
afferrare e inchiodare, da ricco è diventato povero, da invisibile è diventato visibile.
All’inizio la Parola stava di fronte a Dio, poi la Parola è diventata carne (Gv 1, 1.14).
Per noi non è possibile pensare Dio senza entrare in con-tatto con la Sua carne, nel corpo di
Gesù di Nazareth Dio si è fatto disponibile a essere toccato, accarezzato, ferito; in Gesù, Dio si offre
come pro-vocazione alla ricerca e domanda di senso dell’essere umano, come riferimento e ricono-
scimento del senso teologale del corpo stesso, del nascere, del vivere e del morire.
È Dio stesso che riconosce il corpo degno di Lui ma soprattutto riconosce per sempre se stesso
come corpo, la sua scelta è lo spaesamento di essere corpo tra i corpi, presente lì dove vive l’uomo.
Troviamo Dio nel corpo perché è lì che desidera essere.
Il Dio cristiano può essere ferito, ma la ferita si trasforma in pertugio per l’ingresso anche in Dio
stesso della sensibilità e del godimento.
Per noi come per Dio non esiste la possibilità del piacere se non attraversando il rischio della fe-
rita, il Dio cristiano non è il Dio della sicurezza ma del desiderio infinito di sentire entrando in con-
tatto, desiderio infinito di restituire dignità alla carne ferita e mortale.
Il desiderio per questa serata non è di offrire risposte, ma al massimo di suscitare domande e di
aprire la possibilità, anche se percepita lontana e remota, di concederci la sensibile piacevolezza del
limite inscritto nel nostro corpo.
Un desiderio e un augurio: che al termine di questa serata ciascuno possa tornare a casa con la
consapevolezza di essere felicemente limitato.
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Storie di donne e Storia della salvezza.
La storia di una donna e la storia della salvezza
offerta ad un intero popolo e alle generazioni future.
Da sempre si racconta la capacità delle donne di
far perdere la testa agli uomini ma Giuditta mette in
pratica alla lettera questa saggezza popolare: fa perde-
re la testa ad Oloferne, con due colpi di scimitarra.
Oloferne, capo delle fila nemiche, che ha avuto la
malaugurata idea di mettersi contro Israele, il popolo
di Giuditta, contro i suoi deboli, contro i suoi poveri
(16, 11).
Di fronte all’incapacità di reazione degli Israeliti,
paralizzati dalla paura, dall’oppressione e dal dominio
del nemico, Giuditta si mostra capace, non solo di
restare in piedi, ma anche di esporsi in tutta la sua
bellezza e di agire con tutta la forza di cui è capace
(13, 8).
Un unico obiettivo, scritto da sempre nel corpo di
ogni donna: generare, custodire e far crescere la vita
fino a difenderla, anche con la forza, quando in gioco
ci sono la sopravvivenza e la salvezza di ciò che è ge-
nerato.
Giuditta, nome che significa giudea, ci mostra che la storia non è solo opera dei grandi.
Questa donna, nella quale ogni donna può e deve avere il coraggio di riconoscersi, nasce e vive
dentro un popolo, freme e agisce a suo favore, lo libera dal suo nemico e ci aiuta a credere che la
storia, pur registrando le imprese dei grandi, si snoda in un quotidiano, in una anonima ferialità.
Le gesta eroiche sono precedute e seguite dalla quotidianità offrendo il doppio volto della sto-
ria: tempi straordinari, segnati dalle azioni eroiche e giorni ordinari che scorrono nelle anonime
vicende dei piccoli del popolo. La straordinaria salvezza di Dio si serve delle azioni degli uomini
feriali e anonimi, anzi, si mescola con esse, senza scandalizzarsi e senza confondersi.
In questa umanità fiera e brutalmente violenta la vittoria del popolo è posta nelle mani e
nell’azione di una donna, ma la vittoria è solo del Signore, nella sua azione vivificante e liberatrice.
Una donna porta a compimento il desiderio di vita e di salvezza di Dio; la forza di Dio ha bi-
sogno del sostegno della debolezza di una donna. L’arma e la risorsa di Giuditta è la sua bellezza, il
suo corpo; un corpo che, dopo aver sconfitto il nemico, danza e canta, mettendosi a capo di un
popolo fatto non solo di uomini, ma anche di donne, e con il suo canto aiuta a cantare i deboli, chi
direttamente non era sceso in guerra ma ugualmente aveva conosciuto l’oppressione.
Ora, il popolo, che può cantare la sua liberazione, ritrova l’agilità, la forza e la gioia della dan-
za, che esige il coraggio dello sbilanciamento, la perdita dell’immobilità, di un equilibrio paralizzan-
te e rassicurante, per affidarsi al rischio di un passo che non trascina in una caduta ma spinge verso la
risalita, un passo che è una corsa carica di un annuncio di salvezza e di gratitudine.
Il compito di Giuditta, e con lei di ogni donna che vive in mezzo al popolo e dentro la storia, è
di aiutare il popolo ad avere il coraggio e la forza di rivolgere la parola e di sciogliere i propri sen-
timenti davanti al Dio che libera, al Dio che dà Vita, al Dio che dà vittoria.
Spesso le donne appaiono come la riserva privilegiata del Signore per rivelare la sua salvezza, la
loro debolezza è il luogo in cui la sapienza di Dio trova il modo di far trionfare la Sua potenza.
Quando la storia del popolo sembra costretta a fermarsi, quando il male sembra essere più for-
te della fiducia in Dio, ecco che una donna si alza, con coraggio e intraprendenza per ricordare, a
tutti e a ciascuno, la potenza di Dio e in nome di questa potenza ritrovare, insieme a loro, la forza
di rimettersi in cammino (14, 1s), disposta ad esporsi nel proprio corpo e a consegnarsi in tutta quan-
ta la sua vita.
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Giuditta ha mostrato che Dio si prende cura del suo popolo e lo ha fatto attraverso la natura-
lezza di ciò che le appartiene: la bellezza del corpo. Una donna che in nome di Dio e del suo popo-
lo trova la forza e l’audacia di restituire bellezza a quel corpo che porta i segni delle ferite della vita,
esaltando la bellezza presente ma rimasta nascosta per anni sotto il peso del dolore e della sofferen-
za; nel caso di Giuditta del lutto e della vedovanza (16, 7-9).
Giuditta è la prima ad essere salvata in questa storia, salvata dalla sua stessa bellezza, salvata at-
traverso il coraggio di mostrarsi nello splendore del volto e del corpo. Primogenita di schiere di
donne portatrici inconsapevoli di una bellezza a lungo nascosta e talvolta sfigurata, che grazie a lei
possono trovare la capacità di restituire dignità alla propria vita e al proprio corpo e di mostrarsi
nella fierezza del loro splendore.
Non è sufficiente una liberazione per mano di donna, è necessaria la liberazione per mano di
una bella donna, perché la speranza di percorrere la via della Vita chiede di fondare la sua forza
nella certezza che Dio ridonerà dignità alla bellezza umana ferita. E la bellezza di Giuditta continue-
rà anche dopo la sua morte a liberare il popolo dalla paura della debolezza (16, 25).
Sarebbe fin troppo facile, per quella parte benpensante di noi giudicare inaccettabile il compor-
tamento di una donna che seduce, che inganna, che usa il suo corpo come strumento di conquista e
che infine uccide; troppo facile se in noi non si levasse anche il grido dei deboli, dei poveri, di chi
vede violati i suoi diritti, di chi è ridotto alla fame e alla sete dall’ossessione di dominio del potente
di turno.
Troppo facile giudicare, per chi pensa che l’umanità si possa dividere in buoni e cattivi, nell’illu-
sione di trovarsi dalla parte giusta; troppo facile se non fosse per Giuditta che ci riporta al realismo
della vita, che ci mostra come in ognuno ci sia la complessa ambiguità di forza e debolezza, bellezza
e violenza.
La trama della vita non si risolve, fortunatamente, in modo così semplicistico separando i buoni
dai cattivi ma è necessario lo Spirito di Dio per discernere che il Dio della Vita è il vero liberatore,
che sconvolge le vie umane di pensare e di agire e che non è insensibile al grido del Suo popolo, e
allo stesso tempo scoprire che il Suo modo di agire è all’insegna della sorpresa e dello stupore, fino
ad essere scandalo, inciampo, per chi vorrebbe un Dio che agisce, libera e salva al di fuori della sto-
ria, della vita, della debolezza e della bellezza delle donne e degli uomini che con i loro corpi la
scrivono.
Francesca Balocco ssd
Pubblicato in: “Messaggero Cappuccino", n° 06 giugno-luglio 2011
In portineria si possono fare molte cose: aprire e chiudere la porta, rispondere più o meno garbatamente al telefono, accogliere col sorriso o distrattamente le persone, tentare di studiare o lavorare, pregare a in-termittenza, leggere per passare il tempo o per aprire una finestra e far entrare il mondo…
Tempo fa scorrendo il blog [il termine blog è la con-trazione di web-log, ovvero "diario in rete"] di VITA, un quotidiano online, mi sono imbattuta in un articolo di
HADJADJ, L’IMMIGRAZIONE, LA DOPPIA ASSENZA DELL’EUROPA
Un dramma, non un problema.
Fabrice Hadjadj sintetizza così, senza ba-
nalizzarla, la “ferita aperta” di una questione
che l’Europa non sembra più in grado di co-
gliere. Nemmeno con la forza – che, a parole,
sarebbe a “sua” forza – dei numeri.
Di altre “forze” (Tripoli insegna), meglio
non parlare. Questione comunque aperta,
doppia, ambivalente, quella dell’immigrazio-
ne. Da intendere come fatto sociale totale.
Perché parlare dell’immigrazione è parlare
della società nel suo insieme, delle sue struttu-
re, della sua storia, del suo “funzionamento”. Parlare, certo, ma al tempo stesso porsi domande sul
soggetto che quelle istituzioni le abita e, fino a prova contraria, le fonda. Significa interrogarsi sul
loro, con parola oramai fuori moda, destino. E del destino di migliaia di uomini e donne che giorno
dopo giorno patiscono e incarnano un “dramma” – ha ragione Hadjadj – non un “problema”.
I “problemi” chiamano soluzioni. I “drammi”: attenzione, dialogo. Rispetto.
In una bella intervista con Alessandra Stoppa, Hadjadj pone alcune contro-domande proprio su
questa storia, su queste strutture, sulle meccaniche di assimilazione o rimozione di questo “dramma”
ridotto a “problema” igienico, merceologico, persino ambientale. E sul destino dei “soggetti”, persino
sulle loro storie, nell’epoca che doveva essere della fine del Soggetto e della Storia.
Limitiamoci a quella che lo stesso Hadjadj definisce la questione fondamentale.
Cerchiamo quindi di farne “luogo comune” , tralasciando per ora gli appunti critici ad altre parti
del discorso del filosofo e teologo francese. Osserva dunque Hadjadj:
«Pensare unicamente all’immigrazione senza riflettere sull’emigrazione è come pretendere di ar-
restare un’emorragia con dei pannicelli, quando occorrerebbe suturare la ferita. Ancor più, significa
non considerare l’immigrato nel contesto della sua storia particolare. E ridurlo, di conseguenza, a
un’entità astratta, sulla quale può convergere qualunque compassione come qualunque odio. Sia egli
oggetto di compassione o di odio, resta sempre un oggetto, qualcosa su cui proiettiamo i nostri desi-
deri o le nostre paure, e non un soggetto, una persona responsabile con la quale entrare in dialogo».
[da Tracce, n. 5, 2011]
Fabrice Hadjadj tocca qui dei nodi irrisolti, irrisolti proprio perché “drammatici”, non “proble-
matici”, della questione.
Sintetizzando:
Punto 1).
Non si può pensare all’immigrazione, senza pensare all’emigrazione. Ciò che in un luogo o in
una società si definisce – fosse anche come “problema” – immigrazione, altrove è chiamato emigra-
zione. Sono due lati di una stessa medaglia. Sembra banale, ma è purtroppo sulla considerazione
asimmetrica dell’uno o dell’altro lato che derivano gli altri punti.
Punto 2).
L’immigrato, proprio perché non è visto “anche” come emigrato, è un uomo senza storia e senza
un vissuto di radicamento-sradicamento personale, famigliare, sociale, storico, culturale.
Punto 3).
L’immigrato è dunque un’entità astratta, sulla quale far scivolare una compassione liquida o un
odio altrettanto indifferenziato. Qualsiasi compassione e qualsiasi odio.
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Punto 4).
Se gli immigrati sono oggetto, è quasi logico che vengano trattati secondo principi e tecniche
della logistica: spostati da un campo all’altro, stoccati come merci parzialmente deperibili, stipati in
convogli che di umanitario hanno solo il nome e, nel caso siano eccessivamente “avariati”, rispediti al
mittente. Solo che non c’è un mittente. Ma attenzione: non c’è nemmeno più un porto di partenza,
mentre quello d’arrivo sta diventando incerto. Tunisia? Egitto? Algeria? Libia? Che ne è o ne sarà di
quella che negli scenari Usa viene definita con spregio improntato a nostrane abitudini culinarie ”cin-
tura dell’aglio” (“garlic Belt”) dell’Eurafrica mediterranea? E qui noi, per abitudine e cultura portati a
credere che una Itaca sia sempre non solo dietro, ma anche davanti ai nostri remi, in attesa del nostro
ritorno, dobbiamo fare i conti con una costante finora sottovalutata della globalizzazione: l’erosione
degli spazi, anche quelli simbolici e di dialogo.
I movimenti cinetici degli ultimi mesi ci hanno svelato l’esistenza, consegnandocene l’immagine,
di moltitudini senza approdo. Uomini e donne si muovono da un paese all’altro cercando un futuro
(emigrazione-immigrazione) o da una piazza all’altra piangendo per la mancanza di futuro (gli indi-
gnados di Madrid o Atene), dentro e fuori l’Europa. Eppure quelle piazze non sono più piazze. E forse
l’Europa non è più l’Europa. O, più banalmente, questa Europa ora nemmeno simbolicamente c’è
più. Doppiamente assente, come struttura e come soggetto. Come “cultura”.
Ma cosa chiedono, immigrati e giovani, sui barconi o nell’Atene di piazza Syntagma se non di es-
sere qualcosa di più, che semplici oggetti senza storia, vissuto, culture che “questa Europa vorrebbe
semplicemente stoccare qui o altrove, accorgendosi però di avere i depositi pieni?
Saprà mentirci, l’Europa delle merci e dei mercanti, parlando loro coinvolgendoli, e non trattan-
doli semplicemente come indifferenziate categorie buone per il lamento, l’indignazione, la retorica o
il rimpianto? Chissà.
Per ora, la questione è posta.
La questione, non il problema.
La lettura di questo articolo ha messo in moto alcune riflessioni e mi è venuto spontaneo acco-
stare il testo con le Costituzioni in cui è descritta la nostra vocazione di educatrici.
Prendiamo parte alla missione di Gesù Cristo… il nostro servizio alla crescita inte-grale dell’uomo… in un mondo diviso dal peccato e agitato da molteplici aspirazio-ni… manteniamo vivo lo spirito per discernere l’azione di Dio nella Storia e collabo-rare con essa in ogni situazione concreta. (Cost. 5)
Discernere e collaborare “con l’azione di Dio nella storia in ogni situazione concreta”.
Certamente l’azione di Dio va nella linea dell’accoglienza. E l’accoglienza è una cosa concreta,
molto concreta. Fatta di cose quotidiane
come ci racconta Gen 18, 1-15: acqua e
catino per lavare i piedi dell’ospite; fior di
farina, acqua e mani che impastano; panna,
latte fresco e carne di vitello sacrificato per
l’ospite, forestiero, sconosciuto, inatteso,
venuto in un’ora inopportuna.
Lo straniero, anzi ben tre stranieri,
troppi per una famiglia di nomadi del de-
serto. Troppi, come gli stranieri del Mare
Nostrum, troppi per un’isola come Lampe-
dusa, troppi per una comunità, troppi per
una nazione come l’Italia?
Troppi anche per noi?
Forse vale la pena ricordare che pro-
prio accogliendo i tre viandanti Abramo ha
incontrato il Dio vivente e insieme a Sara ha vissuto l’esperienza di una relazione ritrovata e… fe-
conda!
Non sarà che la nostra fecondità passa per l’accoglienza?
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… inviate a evangelizzare attraverso l’Educazione, preferendo i giovani e i più poveri. (Cost. 26)
Quando si parla di giovani la fascia etaria di riferimento è molto variabile secondo il contesto
di riferimento.
Se si tratta di convenzioni economiche si arriva massimo ai 26 anni.
Se si parla di concorsi per giovani laureati non si va oltre i 28.
Se ci si riferisce a proposte di attività socio-culturali anche i 30enni ci rientrano.
Se ci troviamo in parrocchia o nelle associazioni le proposte coinvolgono anche chi raggiunge i
35. Se poi parliamo di religiosi/e anche dopo i 40 si è tranquillamente giovani… per la vita eterna!
Insomma viviamo in una società che vuole a tutti i costi essere, sentirsi e soprattutto sembrare
giovane…
Gli unici che non riusciamo a chiamare giovani sono proprio le centinaia di ragazzi dai 15 ai 25
anni che approdano alle coste della nostra solidarietà, sognando di incontrare uno sguardo amico e
mani che stringano relazioni di fraternità.
Come Dorotea, chiamata per natura e per grazia a preferire “i giovani e più poveri” mi sento
provocata a passare dalle parole ai fatti di fronte a questi giovani, a questi nuovi poveri.
Un abbraccio a tutte le Dorotee, donne che amano e si prendono cura della vita…
Silvia ssd
La festa di S. Dorotea in collegio a Bologna è ormai una con-
suetudine. Ma quest’anno abbiamo avuto una guest star d’eccezio-
ne: direttamente dall’Albania Sr. Tina ha dato la sua testimonianza
di vita missionaria. La serata in onore della patrona dell’ordine
fondato da S. Paola Frassinetti ha avuto inizio in cappella con il
racconto della vita di questa giovane martire Dorotea (Dono di
Dio) che preferisce morire ed incontrare il suo Sposo Divino piutto-
sto che rinnegare la fede in Cristo.
È patrona dei fiorai e dei fruttivendoli ma soprattutto è un
esempio di Amicizia. Un modello di relazioni vere. La conversione
Lo slogan: “CON LA GIOIA NEL CUORE” …per conto di Dio…
ci accompagni lungo questo anno di rendimento di grazie e nella nostra missione educativa.
Alcuni momenti della Celebrazione Eucaristica del 6 febbraio e della serata del 2 marzo.
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CECILIA EUSEPI PRESTO BEATA A NEPI - IL 17 GIUGNO 2012
Nacque a Monte Romano (VT) il 17 febbraio 1910 e si spense a Nepi il 1° ottobre 1928. I 18 anni della sua esistenza furono colmi di favori divini a cominciare da quando aveva solo cinque anni. Fino al 1915 vis-se con la mamma nel paese natio. Rimasta orfana di padre dopo circa un mese e mezzo dalla nascita, la figura paterna fu sostituita da quella dello zio, fratello della mamma, Filippo Mannucci. In seguito alla partenza del figlio Vincenzo, chiamato sotto le armi a causa dello scatenarsi della Prima Guerra Mon-diale (1914), la mamma di Cecilia, Paolina Mannucci, il 6 gen-naio 1915 si trasferì a Nepi presso la fattoria La Massa, dove il fratello Filippo gestiva fin dal 1911 le proprietà dei duchi Lante della Rovere. Il 5 settembre 1915 entrò come convittrice nel mo-nastero delle Monache Cistercensi di Nepi, poco distante dal convento dei Frati Servi di Maria. La sua fanciullezza trascorse entro le mura claustrali. Ammalatasi, ne uscì per la prima vol-ta, per pochi mesi, a 12 anni nel febbraio 1922. Rimase presso la mamma e lo zio a La Massa fino al 1° novembre di quell’an-no. In questo periodo divenne Terziaria dei Servi di Maria. Rientrata nel monastero e con-cluso il corso delle Scuole elementari, volle entrare nell’Istituto delle Suore Mantellate Serve di Maria di Pistoia nel novembre 1923. Nel triennio 1923-1926 riprese gli studi frequentan-do il corso delle Magistrali. Finito il secondo anno, nell’agosto 1926 si ammalò di tubercolo-si. In ottobre dovette ritornare a La Massa, dove trascorse gli ultimi due anni di vita. In questo periodo scrisse la sua autobiografia intitolata Storia di un Pagliaccio e il Diario. Le fu guida spirituale il P. Gabriele M. Roschini, insegnante nel convento di Nepi.
Con le famiglie e i nostri bambini siamo impegnate nella Missione diocesana per la Beatifica-
zione di Cecilia Eusepi. Tante le iniziative anche
da parte delle Congregazioni dei Servi e delle
Serve di Maria per conoscere la vita della giovane
Cecilia, la sua anima profonda tutta di Dio.
I nostri bambini hanno visitato la Mostra su
Cecilia Eusepi. Sr. Giovanna delle Serve di Maria,
che risiede a Firenze, ha presentato la figura di
Cecilia quando era bambina e gli oggetti usati.
I nostri piccoli hanno seguito con interesse e
attenzione e sono stati colpiti dai gesti affettuosi
di Cecilia quando giocava con Gesù Bambino.
Il 17 febbraio 2012, alle ore 17:00, nella
Chiesa della Sacra Famiglia, gli studenti dei Licei
linguistico e scientifico di Nepi, hanno rappresen-
tato il laboratorio musicale “Canto l’Amore” in
preparazione alla Beatificazione di Cecilia Eusepi.
Erano presenti: il Vescovo Diocesano Mons.
Romano Rossi, il Sindaco, Autorità civili e religio-
se, professori, genitori e tante persone. Il recital, attraverso canti, balli e scritti di Cecilia, ha
comunicato un messaggio forte sull’amore. I giovani, sempre assetati di felicità, alla ricerca affannosa
del vero amore, con la speranza che mai delude di dare un senso alla propria vita, se conoscono un
testimone come la giovane Cecilia Eusepi, trovano un aiuto per camminare verso Gesù e una guida
sicura. È quanto ci auguriamo!
Cecilia Eusepi è ormai considerata una sorella spirituale di Teresa di Lisieux.
Dice di sé di essere “...come un pagliaccio mezzo grullo, buono a nulla”.
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Dio – Padre misericordioso e Madre tenera – opera e segna il ritmo del nostro cammino di
“Formazione Permanente”. Ringraziando la Congregazione che ci aiuta a percorrerlo, sgorga dal
mio cuore un “Magnificat” per…
LE STAGIONI DELLA MIA VITA
Sr. Giovanna Patrì
Ti ho vista fiorire.
sorridente Primavera,
sugli erbosi spazi
del mio tenero cuore
come fragranza di Sogno
primizia di Chiarità.
Ti ho sentita aleggiare,
sfolgorante Estate
sui saporosi frutti
del mio fragile amore
come carezza di Cielo
riflesso dell’Infinito.
Silente, mistico artista,
iridato Autunno,
oggi alle tremule foglie
con ogni tuo colore
doni un tocco di Vita
abbraccio dell’Invisibile.
Icona gravida di luce
trasfigurato Inverno
sulle vette innevate,
tra silenzio e stupore
apri le danze nel Sole
preludio di eternità.
GLI AUGURI DELLA REDAZIONE…
Facciamo nostre le parole di Don Tonino Bello,
con un augurio-preghiera, per una Pasqua
che sia veramente alba di vita nuova, in Gesù Risorto:
“…Non permettere che sulle nostre labbra il lamento prevalga mai sullo stupore, che lo sconforto sovrasti l’operosità, che lo scetticismo schiacci l’entusiasmo e che la pesantezza del passato ci impedisca di far credito al futuro. Dai alle nostre voci la cadenza degli alleluia pasquali. Intridi di sogni le sabbie del nostro realismo. Rendici cultori delle calde utopie dalle cui feritoie sanguina la speranza sul mondo. Aiutaci a comprendere che additare le gemme che spuntano sui rami vale più che piangere sulle foglie che cadono. (don Tonino Bello)