"Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove" (II Corinzi 5,17) don Mario Neva Che cosa dobbiamo fare? La vita nuova in Cristo - Bozza al 31.12.2006 - Corso di Teologia III Anno Accademico 2006-2007
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Che cosa dobbiamo fare? La vita nuova in Cristo · come si preferisce dire oggi, ... ma anche all'opera di filosofi inglesi quali ... fare?, che cosa fanno tutti? che cosa non fanno
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"Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura;
le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove"
(II Corinzi 5,17)
don Mario Neva
Che cosa dobbiamo fare?
La vita nuova in Cristo
- Bozza al 31.12.2006 -
Corso di Teologia III Anno Accademico 2006-2007
3
Introduzione
Appare in queste pagine la prima parte del Corso di
Teologia III dell’Anno Accademico 2006/2007.
La finalità tematica è quella di mostrare la morale
cristiana nel suo momento fondativo e originario.
Nelle Appendici si possono trovare approfondimenti e
sviluppi, con alcuni testi da me pubblicati in questi anni.
Il mondo senza cristianesimo e senza etica è destinato
all’estrema indigenza, all’ingiustizia palese, non
riconosciuta come tale.
don Mario Neva
5
PRIMA PARTE
Che cosa dobbiamo fare?1
1 La domanda è formulata più volte e in diversi modi nella Scrittura. Cfr Ger 42,3; Gio 1,11; Lc 3,10; Lc 18,18 - Mc
10,17 - Mt 19,16; Gv 6,28; Lc 3,10; Atti 2, 37.
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1 Che cosa dobbiamo fare?
A) La domanda etica
1 Morale-etica
L’interrogativo che cosa dobbiamo fare? esprime in modo pieno la natura della morale o
come si preferisce dire oggi, dell’etica. I due termini, morale è di origine latina ed etica di origine
greca, in verità vogliono indicare la stessa ‘cosa’; essi infatti indicano il comportamento umano
quale dovrebbe essere, il comportamento caratteristico dell’essere umano in quanto umano.2
Per un contorcimento linguistico di cui sarebbe importante dare una spiegazione plausibile,
morale ha acquisito un significato tendenzialmente esteriore, negativo, proibitivo, ‘cattolico’,
mentre etica ha acquisito negli ultimi tempi una risonanza positiva, interiore, ed è termine preferito
da coloro che invocano il principio della responsabilità personale e si dicono laici.
2 Linguaggio effettivo - linguaggio affettivo
In un discorso come quello morale=etico non è certamente l’unico caso questo in cui noi
siamo quasi costretti a distinguere tra significato effettivo delle parole e loro significato affettivo.
Morale ed etica richiamano infatti un fitto campo semantico con innumerevoli variazioni sul tema e
di declinazioni storiche. Parole come libertà, amore, coscienza, legge, dovere, peccato,
educazione, ecc, possono essere usate con significati complessi o addirittura contrastanti. Non
meraviglia dunque che le proposizioni etiche, i precetti, le norme, le dottrine, i kantiani principi
della ragion pratica, siano stati sottoposti ad una critica fondamentale che ne ha proclamato talvolta
il sostanziale non senso3.
2 Uomo e donna naturalmente.
3 In particolare cfr la FILOSOFIA ANALITICA secondo cui è possibile affrontare i problemi filosofici solamente
analizzando il linguaggio utilizzato per formularli. La filosofia analitica si diffonde in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma
si ispira originariamente al Circolo di Vienna ed all'opera di Gottlob Frege, ma anche all'opera di filosofi inglesi quali
Bertrand Russell e George Moore. L’indirizzo mette in luce la stretta connessione fra linguaggio e pensiero in quanto
solo il linguaggio può chiarificare il pensiero. Si cerca con la chiarezza ed il rigore di eliminare falsi problemi e
confusioni fra regole linguistiche di contesti o livelli diversi. Questo orientamento filosofico caratteristico degli anni ’20
si basa sulla tradizione dell’empirismo inglese avvicinandosi al procedimento scientifico, anche nell’essere un lavoro
collettivo. Dagli anni ‘70, da analisi prettamente linguistiche si è passati anche a problemi di contenuto, con grande
attenzione alla dimensione pragmatica dell’agire razionale. Nell’etica si è riscoperto il tema delle virtù in chiave
verità, è chiamata virtù; vizio è il suo contrario, cioè l’abitudine acquisita con l’esercizio a fare il
male. L’abitudine o habitus indica qui una facilità e quasi spontaneità tale da diventare un fatto
naturale. Un pianista che da anni suona il pianoforte almeno cinque ore al giorno, suona con
estrema facilità, dando a tutti l’impressione di una assoluta naturalezza e spontaneità di esecuzione,
in realtà è un suonatore virtuoso, l’esercizio e la genialità l’hanno condotto a questa apparente
prodigiosa bravura; allo stesso modo il bestemmiatore incallito si esprime con naturalezza e
convinzione, ha acquisito progressivamente l’habitus di scagliarsi verbalmente contro la divinità
(incompresa) ed è spontaneamente dominato dall’abitudine. Come la virtù indica una sorta di
facilità a fare il bene che tende verso l’amore e verso la libertà così il vizio indica una sorte di
facilità e insensibilità di fronte al male e rende schiavi delle abitudini e del peccato.17
Fin dall’antichità sorsero innumerevoli gli elenchi dei vizi e delle virtù, derivanti a un tempo
dall’osservazione della realtà e dal confronto con i principi. Di sentenze morali sui vizi e le virtù
sono piene le favole, i racconti, le massime come anche le mitologie. Sovente gli uomini hanno
trasferito le loro virtù e i loro vizi alle divinità.
Se per un greco platonico-aristotelico virtù vuol dire vivere secondo ragione, per un
cristiano vuol dire vivere di fede, secondo l’esempio di Cristo. La fede vissuta nella capacità di
superare le prove, con la certezza di essere salvati, è la speranza; la speranza poi , dice l’Apostolo,
non delude, perché l`amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato. 18
E ancora… queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la
carità; ma di tutte più grande è la carità! 19
In questo senso la tradizione ha codificato la formula
secondo cui la carità è la forma di tutte le virtù.20
Questo schema imponente e dominante per secoli è oggi messo radicalmente in discussione
alla luce di una idea della libertà individuale priva di norme e di riferimenti oggettivi. Inoltre la
psicologia, con tutte le sue convergenti differenziazioni, agisce sovente come potente surrogato
17
Gv 8,31Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete
davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenza di
Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». 34Gesù rispose: «In verità,
in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora lo schiavo non resta per sempre nella
casa, ma il figlio vi resta sempre; 36se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 18
Rm 5,5. 19
Il testo completo afferma che la carità non finirà mai.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra
conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10
Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto
scomparirà. 11
Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto
uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora
vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono
conosciuto. 13
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la
carità! 20 Catechismo della Chiesa Cattolica. 1827: L'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla carità. Questa è il « vincolo di
perfezione » (Col 3,14); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro pratica cristiana. La
carità garantisce e purifica la nostra capacità umana di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino.
32
etico e solo in apparenza sostituisce la comprensione dei comportamenti al giudizio etico
tradizionale. Di fatto, mancando un criterio di giudizio oggettivo, è facile che si sviluppi un modo di
giudicare in modo indiscriminato e senza regole.21
In ambito occidentale la commistione tra visione
filosofica e visione cristiana ha sortito l’esito della formulazione del classico elenco delle sette virtù
e dei sette vizi. Schema significativo, di matrice aristotelico-scritturistica22
, sancito nelle Summe
medioevali.
C) Una riflessione teologica
1 La Teologia del XX secolo
Il XX secolo è stato senza dubbio uno dei periodi storici più fecondi per la teologia. A
questa indubbia fioritura di scuole, di pensatori teologi, di pubblicazioni, di indirizzi di pensiero, fa
riscontro un significativo mancato riconoscimento da parte della cultura laica. Questa dicotomia
solo in parte deriva dalla tendenza dei teologi a non prendere troppo sul serio il pensiero laico o il
pensiero in sé; si ha piuttosto l’idea che sia dominante ancora oggi il pregiudizio illuministico che
esalta l’uso della ragione in un modo riduttivo: infatti tutta la sfera del metafisico, del religioso, del
sacro, del miracoloso e del soprannaturale è stata relegata nel mondo del mito, della fantasia, della
superstizione, se non nel regno della mistificazione e della falsità. Questa accusa così radicale
rivolta innanzitutto al cristianesimo, e caratteristica della modernità, ha avuto paradossalmente un
effetto salutare sulla teologia e in genere sulla cultura cristiana nella misura in cui non hanno
prevalso in essa forme di assuefazione, di compromesso o di radicale opposizione. La teologia del
XX secolo, non solo quella Cattolica ma anche quella Protestante e Ortodossa, è infatti una teologia
di forte andatura critica e argomentativa. Per ritrovare in teologia un periodo simile dobbiamo
tornare al tempo della Riforma-Controriforma o addirittura al periodo della Scolastica medioevale.
Oggi è indubbio che la teologia si è assunta il compito di attingere criticamente la sua ispirazione
dalla Scrittura e a rispettare il dato primo di ogni conoscenza, l’esperienza della vita: la vita e il
mondo sono le uniche cose che esistono. A chi, avvinto dal pregiudizio, contesta il fatto stesso che
21
Stiamo assistendo forse ad una sorte di contrappasso: una umanità dove vigono regole certe e criteri di verità etica
cammina verso la tolleranza e il rispetto degli altri. Una società totalmente o tendenzialmente liberalizzata, giudica
sempre e ovunque in modo assillante. Vale il principio secondo cui il sonno della ragione genera mostri 22 Le quattro classiche virtù “cardinali” dell'Occidente sono: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza a cui si
aggiungono le tre virtù “teologali”: Fede, Speranza e Carità. I sette vizi capitali nella tradizione sono: Ira, Accidia,
Si riorganizza un’etica fondamentale che pone al centro la fede, spazzando via
potenzialmente ogni forma di discriminazione, in netto contrasto con la tradizione; come Paolo
afferma
14Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del
Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato
crocifisso, come io per il mondo. 15Non è infatti la circoncisione che conta, né
la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura.63
Al lato pratico l’impatto con la realtà di ogni giorno e la cultura dominante, ebrea o pagana,
generano quel fitto travaglio etico che attraversa la Chiesa delle origini e che trova un’eco intensa
nel Nuovo Testamento.64
Nei capitoli 10 e 11 della Lettera ai Romani con stile certamente non facile, Paolo traccia
una serie di argomentazioni sul rapporto con i fratelli Ebrei, con la loro realtà alla luce dell’evento
Cristo e sul loro futuro come popolo dell’Alleanza. Il pensiero di Paolo, come in altri casi, ci giunge
un po’ contorto e non sempre immediatamente accessibile, ma alla lettura delle sue parole si
riescono ugualmente a ricavare gli elementi che permettono di affermare che dopo di lui altri sono
stati meno capaci di contenere la questione del rapporto con l’ebraismo in una sintesi tanto
efficace.65
62
Gal 3: 26 Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, 27
poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi
siete rivestiti di Cristo. 28
Non c`è più Giudeo né Greco; non c`è più schiavo né libero; non c`è più uomo né donna,
poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. 29
E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi
secondo la promessa. 63
Gal 6,14.
Si legge nel sito Internet della sinagoga di Milano Nascita di un bambino Quando nasce un bambino, è bene
darne l'annuncio all'ufficio rabbinico. E' antica usanza che la nascita di un maschio venga annunciata in sinagoga durante la tefillà (preghiera) del venerdì sera. L'ufficio rabbinico potrà fornire aiuti e suggerimenti per la milà (circoncisione) e presenziarvi. In tale maniera, il neonato potrà essere iscritto alla Comunità fin dalla
nascita e avere in futuro l'attestato di appartenenza all'ebraismo. Nascita di una bambina Anche la nascita
delle bambine dovrà essere notificata all'ufficio rabbinico, in modo che la neonata possa essere subito iscritta
alla Comunità. E' usanza diffusa dare rilievo alla nascita di una bambina con la cerimonia di imposizione del nome al compimento del primo mese. Per questa cerimonia contattare il rabbino. 64
Fatica lo stesso Paolo così deciso dinanzi alle titubanze di Pietro, almeno dal punto di vista dottrinale, a liberarsi dalla
concezione secondo cui la donna appare sostanzialmente sottomessa all’uomo a motivo della Genesi. E’ dominante
inoltre la paura che la predicazione degli altri, la predicazione dei giudei, la corruzione del mondo, i disordini sessuali,
la fine imminente del mondo, possano trovare i credenti impreparati all’incontro con Cristo. L’idea che in Cristo e nella
sua croce Dio ha mostrato misericordia e amore per tutti, fatica ad essere declinata nel tempo storico, ma come è facile
avvertire si tratta di un problema anche nostro e di ogni generazione cristiana. 65
Significativo a questo riguardo il percorso di Lutero che parte con Paolo da ottime premesse e scivola in una brutale
negazione della presenza degli Ebrei.
68
C) Excursus biblico
Il nostro commento-riflessione sul secondo capitolo degli Atti degli Apostoli ci ha condotti
molto lontano. Ci ha messo in mano alcune chiavi di interpretazione che ci permettono ora un
cammino più libero e creativo.
Alla luce della Pentecoste, camminando a ritroso, mettendo tra parentesi l’epoca di redazione dei
testi, è possibile cogliere in momenti e ambiti diversi, situazioni etiche decisive. Parafrasando una
situazione platonica, alla luce della Pentecoste possiamo affermare che la vita nuova in Cristo è
stata trasmessa progressivamente e che prima di passare al momento essoterico, il momento
pubblico della Pentecoste, è stato molto consistente il momento esoterico, quello privato, quello
dell’addestramento, della formazione interiore, della trasmissione di un modello di vita e di
pensiero. Di questa fase sono testimoni i Vangeli; per quanto scritti alla luce del compimento, essi
testimoniano intensamente la coscienza di aver condiviso con il Maestro una stagione intensa e
decisiva dell’esistenza. Ma già la vita dei trenta anni nascosti di Gesù ha dal punto di vista etico un
valore fondante ed emblematico.66
Romani 10, 6-18 La consapevolezza dell’importanza decisiva della predicazione perché ci sia la salvezza è espressa
in un importante testo di Paolo che assume letteralmente alcune frasi del Deuteronomio alla luce
della nuova predicazione e della effusione dello Spirito Santo. E’ degna di nota la trasformazione di
elementi veterotestamentari in una nuova ottica compositiva. Paolo ribadisce quanto da noi
affermato nel commento di Atti 2 e cioè che l’etica cristiana deriva dalla predicazione e la
predicazione deve essere assunta nel disegno della grazia di Dio. Troviamo il testo in Romani
10, 6-18
1Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio
per la loro salvezza. 2Rendo infatti loro testimonianza che hanno zelo per
Dio, ma non secondo una retta conoscenza; 3poiché, ignorando la giustizia
di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla
giustizia di Dio. 4Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la
giustizia a chiunque crede.
66
Di questo si avvidero tutti coloro che coltivarono la piccola via dell’umiltà nella sequela del maestro: il pensiero va a
Francesco, Chiara, Teresa di Gesù bambino, Charles de Foucauld, madre Teresa di Calcutta, Paolo VI, con la sua
splendida meditazione sulla Famiglia di Nazareth.
69
5Mosè infatti descrive la giustizia che viene dalla legge così:
L'uomo che la pratica vivrà per essa. 6Invece la giustizia che viene dalla
fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? Questo
significa farne discendere Cristo; 7oppure: Chi discenderà nell'abisso?
Questo significa far risalire Cristo dai morti. 8Che dice dunque?
Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della
fede che noi predichiamo.
9Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai
con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
10Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa
la professione di fede per avere la salvezza.
11Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso.
12Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il
Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l'invocano.
13Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.
14Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come
potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne
parlare senza uno che lo annunzi?
15E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto:
Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!
16Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha
creduto alla nostra predicazione?
17La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta
si attua per la parola di Cristo.
18Ora io dico: Non hanno forse udito? Tutt'altro:
per tutta la terra è corsa la loro voce,
e fino ai confini del mondo le loro parole.
Giovanni 20, 19
Giovanni nel suo Vangelo, analogamente a quanto accade per l’Istituzione dell’Eucaristia, non parla
della Pentecoste pur alludendovi più volte. Egli colloca l’effusione dello Spirito da parte di Gesù
nella sera di Pasqua. Bisogna ripetere che queste discrepanze sembrano scritte ad arte per
confondere i confusi e i non convincibili, mentre denotano una sintonia di fondo straordinaria,
naturalmente per chi crede.
[19]La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo
dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse:
«Pace a voi!». [20]Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il
Signore. [21]Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando
70
voi». [22]Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; [23]a chi
rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Matteo 28
Il Vangelo di Matteo sembra ignorare la Pentecoste, colloca l’Ascensione sul lago di Galilea, in
sintonia con Giovanni; appare comunque una estrema identità con il comando di ammaestrare,
battezzare, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Appare inoltre la formula
trinitaria, Padre e Figlio e Spirito Santo, che in diversi modi pervade il compimento della Salvezza.
Il Vangelo di Matteo è scritto caratteristico di un ebreo-cristiano inviato ad ebrei-cristiani e contiene
nel saluto finale di Cristo la menzione dell’osservanza dei suoi comandamenti.
16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro
fissato. 17Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. 18E
Gesù, avvicinatosi, disse loro: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
19Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre
e del Figlio e dello Spirito santo, 20insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo".
Marco 16
Occorre osservare la sintonia e allo stesso tempo la differenza nella finale del Vangelo di Marco e
quello di Matteo. Chi non crederà e non sarà battezzato sarà dannato…si parla di segni e prodigi
che alludono alla necessità di affrontare forti persecuzioni. Si pensa che questo Vangelo sia stato
scritto da Giovanni Marco, segretario di Pietro e inquieto collaboratore di Paolo, tra il 67 e il 73 per
i cristiani di Roma superstiti, da poco emersi dalla persecuzione di Nerone. La tensione del testo di
Marco è marcatamente escatologica.
15Gesù disse loro: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni
creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà
condannato. 17E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono:
nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in
mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno
le mani ai malati e questi guariranno".
19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla
destra di Dio.
20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava
insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano.
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Le Beatitudini
Il messaggio delle Beatitudini è definito con giustificata iperbole la Magna Carta del cristianesimo.
Esso contiene in sintesi poetico-evocativa tutta la sostanza del Vangelo. E’ però molto importante
non dimenticare da quale bocca escono le parole. Gesù è la prima manifestazione vivente, umano-
divina, del valore definitivo delle Beatitudini dinanzi alla bellezza e al male che c’è nel mondo.
Molti esegeti mettono in risalto il fatto che l’Evangelista rappresenta Gesù come il nuovo Mosè
salito sul monte per emanare la Nuova Legge dell’Amore. In questo senso la sintonia con la
situazione della Pentecoste potrebbe essere addirittura assoluta. Troverebbe anche spiegazione
intima il tono di intransigenza della prima predica di Pentecoste: le Beatitudini esprimono il segreto
cuore di Dio e l’ideale di una umanità salvata. Diversamente da Matteo Luca pone la proclamazione
delle Beatitudini in un luogo pianeggiante. Ma c’è di più, Luca sviluppa in modo radicale le
beatitudini per antitesi e assume sulla povertà una posizione altrettanto radicale… beati i poveri,…
guai a voi o ricchi.
Occorre far notare che le Beatitudini se da un lato proclamano l’importanza dell’accettazione delle
situazioni di sofferenza dall’altro implicano una ribellione radicale, assolutamente non-violenta, ad
ogni forma di ingiustizia.
Matteo 5
•1Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2Prendendo
allora la parola, li ammaestrava dicendo:
•3"Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
5Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
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•11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per
causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i
profeti prima di voi.
•13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro
serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
•14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, 15né si accende una
lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che
è nei cieli.
Luca 6 [17]Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente
da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, [18]che erano venuti per ascoltarlo ed esser
guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. [19]Tutta la folla
cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.
•[20]Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva:
«Beati voi poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
[21]Beati voi che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi che ora piangete,
perché riderete. [22]Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e
respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. [23]Rallegratevi in quel giorno ed esultate,
perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti.
• [24]Ma guai a voi, ricchi,
perché avete gia la vostra consolazione.
[25]Guai a voi che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete.
[26]Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti. [27]Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri
nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, [28]benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi
maltrattano. [29]A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica.
[30]Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. [31]Ciò che volete gli uomini facciano a voi,
anche voi fatelo a loro. [32]Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso.
[33]E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. [34]E se
prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per
riceverne altrettanto. [35]Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio
sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gl'ingrati e i malvagi. [36]Siate misericordiosi,
come è misericordioso il Padre vostro. [37]Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete
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condannati; perdonate e vi sarà perdonato; [38]date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi
sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».
Luca 4
Tutta la narrazione attribuita a Luca, nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli, esalta la funzione dello
Spirito Santo che, come sappiamo, dona una prova tangibile della sua presenza nel giorno di
Pentecoste. Luca non ha dubbi che si tratti dello Spirito di Cristo. Con una ardita riflessione molto
praticata dai teologi si può pensare che si tratti dello Spirito dei profeti e ultimamente dello Spirito
di Dio che aleggiava sulle acque nel racconto originario della Genesi.67
Gesù legge la profezia di Isaia nella Sinagoga di Nazareth e ne proclama il pieno
compimento nella sua persona. Occorre far notare che la venuta del Messia coincide, in sintonia con
le Beatitudini, con l’annuncio del Vangelo ai poveri…come a dire che tra Gesù e la giustizia
sociale non ci sono mediazioni di sorta, ma una presa efficace e diretta.
[14]Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in
tutta la regione. [15]Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
Gesù a Nazaret[16]Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito,
di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. [17]Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia;
apertolo trovò il passo dove era scritto:
[18]Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto
messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
[19]e predicare un anno di grazia del Signore.
[20]Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella
sinagoga stavano fissi sopra di lui. [21]Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa
Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». [22]Tutti gli rendevano testimonianza ed
erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il
figlio di Giuseppe?». [23]Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico,
cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua
patria!». [24]Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. [25]Vi dico anche:
c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei
mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; [26]ma a nessuna di esse fu mandato Elia,
se non a una vedova in Sarepta di Sidone.
67
Genesi 1.
74
[27]C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu
risanato se non Naaman, il Siro».
[28]All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; [29]si levarono, lo
cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era
situata, per gettarlo giù dal precipizio. [30]Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.
La sintonia con il testo della Genesi, secondo cui lo Spirito è sovrastante il grande caos del mondo è
sufficientemente leggibile considerando che Gesù è Dio.
Genesi 1
1 In principio Dio creò il cielo e la terra. 2 La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano
l`abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
D) Cristianesimo e mondo pagano
Il Nuovo Testamento dimostra una attenzione del tutto particolare verso il mondo romano.
E’ una attenzione legata alle contingenze, ma sostanzialmente positiva. E’ sufficiente allo scopo
richiamare la quantità di soldati romani di centurioni e di funzionari che entrano in gioco, oltre al
più famoso Pilato, nella narrazione evangelica e negli Atti degli Apostoli. Mediamente i romani, con
le debite eccezioni, intervengono nella narrazione neotestamentaria con la loro fede e la loro
generosità. Il loro atteggiamento devoto e razionale si mostra superiore al fanatismo violento di
molti fratelli ebrei, sempre nella narrazione degli Atti degli Apostoli. Un peso decisivo ebbero in
seguito le violente persecuzioni; dall’affermazione secondo cui il potere deriva direttamente da
Dio68
si passò ad identificare il potere di Roma con Babilonia e con lo stesso potere del demonio.69
Bisogna anche affermare che se decisivo politicamente è il potere romano, dal punto di vista
culturale siamo ancora nel pieno dominio della cultura ellenistica. Le scuole letterarie e filosofiche
sono diffuse e attive in tutta l’area dell’Impero; dobbiamo elencare il platonismo, l’aristotelismo,
l’epicureismo, lo stoicismo, l’accademia scettica… La grande cultura latina, da Cicerone a Cesare,
Ovidio, Orazio, Catullo, Livio e Virgilio, come è risaputo, attinge consapevolmente alla cultura
greca.
68
Rm 12. 69
Ap 13.
75
Dal punto di vista religioso lo stereotipo70
ci porta a distinguere la religione ufficiale
dell’Impero romano, dalla lussureggiante diffusione dei culti locali e dei culti misterici. La religione
romana politeista si erge sul principio che la religione deve servire all’ordine sociale e il disordine
causato dai diversi culti può essere il criterio per la loro drastica soppressione. Questo spiega perché
i romani ebbero sempre problemi con gli Ebrei fino alla definitiva deportazione problemi che si
acuirono con l’avvento del cristianesimo71
. Gli Ebrei presenti in Roma in numero di circa
quarantamila vennero espulsi circa nel 54 dall’imperatore Claudio, così ci informa Svetonio, a
causa di disordini dovuti ad un certo Cresto che può essere certamente Gesù Cristo. (tra gli espulsi
gli Atti ricordano Aquila e Priscilla che Paolo incontra a Corinto)72
.
La religione romana è basata sul principio del do ut des, una religione cioè di tipo giuridico
che privilegia il culto degli antenati, l’osservanza scrupolosa del rito, la superstizione e il ricorso
alla magia. Lo sfondo su cui si staglia la religiosità romana è quello di una caratteristica e diffusa
corruzione morale, che raggiunge la sua diabolica espressione nelle stanze del palazzo.73
Accanto ai culti locali con i loro templi e i loro sacrifici, sono fortemente diffusi i culti
misterici e iniziatici, alcuni di origine orientale, dualista, egizia, con alcune manifestazioni che
sconfinano nell’orgiastico e nel diabolico. Molto diffusa appare la prostituzione sacra. Tracce di
70
La religione romana, ovvero l'insieme delle credenze e degli usi e costumi religiosi della Roma antica, è un
fenomeno complesso, di non facile lettura e per le variazioni che contraddistinsero la sua evoluzione nell'arco di dodici
secoli e per il suo carattere composito, dovuto alla confluenza di diversi sistemi religiosi ed alla varietà delle pratiche
cultuali. 71
Nel 66 d.C. dopo alcuni anni di malgoverno romano sotto i procuratori Albino e Gessio Florio scoppiò la rivolta
ebraica, una delle più gravi fra quelle che sconvolsero il mondo romano. La rivolta - alla quale non presero parte i
cristiani - ebbe come promotori non solo gli Zeloti ma anche i più moderati Sadducei, e ad essa prese parte anche lo
stesso Giuseppe Flavio, che non era certamente un estremista, e che più tardi si allontanò probabilmente vedendo i moti
degenerare. La rivolta provocò uno scontro sanguinosissimo fra le varie fazioni ebraiche, e fu la causa di una grave
carestia con molte migliaia di morti. L'ultima a cadere in mano romana fu la fortezza di Masada tenuta dagli Zeloti, i
quali per non arrendersi ai Romani si suicidarono in massa.
Quando i Romani ripresero Gerusalemme il Tempio, simbolo dell'unità del popolo ebraico, venne distrutto, ma negli
anni successivi l'amministrazione ritornò alla normale tolleranza. Nel periodo successivo si ebbero invece sollevazioni
fra diverse comunità ebraiche nel Mediterraneo in Egitto, Cirene, Cipro, Mesopotamia, ma si può ritenere che il motivo
di tale tensione fossero contrasti locali fra le popolazioni di origine greca e quella ebraica.
Nel 132 quando l'imperatore Adriano decise di costruire una città dedicata a Giove Capitolino sulle rovine di
Gerusalemme, che non era stata più ricostruita, si ebbe una nuova sollevazione, guidata da Bar Cocheba, un
personaggio messianico, non molto stimato dagli stessi Ebrei, che nel Talmud venne considerato un menzognero. Il
fallimento della nuova sanguinosa rivolta portò ad un ulteriore incremento della diaspora, già iniziata nei decenni
precedenti, ma anche ad una profonda revisione all’interno dell’ebraismo: vennero abbandonati i sogni di riscatto
politico-religioso a favore di una visione più interiore della religione. 72
Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa) Nella sua opera Vita dei dodici Cesari, una raccolta di dodici biografie
degli imperatori da Cesare a Domiziano scritta intorno al 120, ci lascia due accenni ai cristiani. Egli ebbe accesso a tutti
gli archivi e utilizzò le informazioni così trovate per scrivere le sue biografie degli imperatori (De vita Caesarum).
L’occasione per parlare di Cristo è la cacciata dei Giudei da Roma sotto Claudio che anche in Atti 18,2 è menzionata:
“Claudio infatti aveva ordinato che tutti i Giudei abbandonassero Roma”. Ecco il testo: “Cacciò da Roma quei Giudei
che, istigati da Cresto, provocavano disordini continui.” L’errore di Svetonio sta nel ritenere che a quel tempo Gesù
fosse presente a Roma. Un altro accenno ai Cristiani, Svetonio lo colloca nella vita di Nerone: “Sottopose a supplizi i
Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica” (Vita Neronis XVI, 2) Alcuni ebrei di Roma sono
presenti a Gerusalemme il giorno di Pentecoste. 73
e il Verbo era Dio. 2Egli era in principio presso Dio: 3tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste. 4In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta. 6Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo. 10Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe. 11Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l'hanno accolto. 12A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome, 13i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità. 15Giovanni gli rende testimonianza
e grida: "Ecco l'uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
58
perché era prima di me". 16Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia. 17Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18Dio nessuno l'ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.
Dall’opuscolo Alla mensa del Logos (2003)
1 IL LOGOS
La rivelazione giovannea
Ma chi è veramente Colui che siede a mensa con i pubblicani e i peccatori? Chi è Colui che
alle nozze di Cana compie il miracolo grazie al quale l’acqua diventa vino in modo tale che i suoi
'discepoli videro e credettero’, al punto da darne testimonianza? Infine, chi è colui che nella notte in
cui fu tradito prese il pane, rese grazie, lo spezzò…e comandò ai discepoli…fate questo in memoria
di me?
Giovanni ci prende per mano e non teme di alzare il tiro quando si appresta a narrare la vita di
Gesù; egli non teme di misurarsi con la preistoria e la preesistenza di Gesù, ricorrendo alla laconica
e solenne sentenza con cui si apre il Prologo (Gv 1,1):
In principio era il Logos,
e il Logos era presso Dio
e il Logos era Dio.
Aggiunge poi nel verso 14:
e il Logos si è fatto carne…
Non si poteva dire meglio che il Logos, Intelligenza, Parola, Sapienza, è Dio, sebbene distinto
all’interno della divinità, e dunque Logos da sempre.
Non si poteva dire meglio che tutto viene attraverso il Logos, infatti:
tutto è stato fatto per mezzo di Lui
e senza di Lui niente è stato fatto
di tutto ciò che esiste…
in lui era la vita…
59
la luce vera quella
che illumina ogni uomo…
Infine non si poteva dire meglio che facendosi vero uomo, il testo dice sarx-carne, da cui deriva il
venerabile concetto di Incarnazione, il Logos è la piena e sovrabbondante rivelazione della
divinità:
Dio nessuno l’ha mai visto,
proprio il Figlio unigenito
che è nel Padre ce l’ha rivelato.
L’uso del termine Logos per indicare la preesistenza divina del Figlio di Dio è esclusivo di
Giovanni. Oltre al quadruplice uso evangelico, ritorna nella Prima lettera, attribuita dunque al
medesimo autore, dove il messaggio e la testimonianza di colui che ha udito, visto, toccato e
contemplato, riguarda il Logos della vita.
Non si poteva dire meglio che nel Logos non esiste la mediocre o semplicemente umana distinzione
tra teoria e prassi, tra ragione e vita, che domina la cultura europea da alcuni secoli.
Per concludere nella visione di Apocalisse 19,13 si dice:
E' avvolto in un mantello
intriso di sangue
e il suo nome è
Logos di Dio
dove il Logos appare come Colui che viene a giudicare il mondo.
Dunque solo Giovanni, se lo accettiamo come unico autore del Vangelo, delle Lettere e
dell'Apocalisse, ricorre al termine Logos per indicare la persona di Gesù, e ciò si ripete
precisamente sei volte.
In latino il termine Logos è tradotto con Verbum, da cui deriva l’italiano Verbo, come si
sente annunciare nelle Liturgie del giorno di Natale; il termine Verbo, mentre si rifà a Parola,
mantiene la distinzione propria ad un termine non usato nel linguaggio corrente. Le altre lingue
europee traducono ufficialmente con Word, Wort, Palabra, Parole e dunque con Parola. Un
chiarimento a questo punto è necessario.
Variazioni sul tema del Logos
La categoria del Logos appare insieme ad Arké (principio) tra le più rappresentative della cultura
greca. Cercare il principio, cioè la causa e la ragione profonda, tanto dei fenomeni minimi, quanto
di tutto ciò che accade, oppure il senso della stessa vita umana e cosmica, costituisce l’anima
segreta della mentalità greca e perciò stesso occidentale. Qualcuno vede in tale ricerca il
presupposto all’orientamento dominatore caratteristico della società tecnologica (tèkne). Proprio in
Grecia, dapprima nelle sue colonie, successivamente ad Atene e per derivazione in tutto
60
l’Occidente, fiorisce quell’esperienza caratteristica, anche se non esclusiva della grecità, che è la
filosofia. Semplificando si può dire che la filosofia greca vive della corrispondenza tra il logos,
l’intelligenza del pensatore e degli uomini pensanti, che appare in fatti letterari e nella
comunicazione della scuola, con il Logos. Il Logos è designato come la causa e il principio ultimo
e primo che spiega perché il mondo, un mondo fatto di una quantità indefinibile di elementi, sia un
Cosmo ordinato e non un Caos distruttivo. Per dire questo attraverso il linguaggio comune, si
instaurò attorno al VI-V secolo a.C. l’uso del termine Logos, inteso in senso oltre-umano, oltre cioè
la misura del limite dell'uomo o dell'apparenza fisica; sebbene appaia in queste note come un
elemento della convenzionalità del linguaggio, il concetto di Logos, chiarificatore ed ineffabile allo
stesso tempo, è volto ad indicare il livello superiore e metafisico della realtà, atto a designare il
fondamento capace di giustificarne il senso, e dunque, oggettivamente e opportunamente pensabile.
Il termine è presente nei frammenti dell’oscuro Eraclito e affiora con radicali conseguenze in
Parmenide, raggiungendo la sua solare espressione nelle argomentazioni dialettiche di Platone e
nell'architettura sistematica di Aristotele, nonché nel fervore di ricerca e di misticismo espresso dal
primo stoicismo.
A tutto questo si deve aggiungere che gli ebrei colti della diaspora, conoscitori allo stesso tempo sia
dell’ebraico che del greco, lettori della Torah e dunque della Genesi (basti pensare ai traduttori della
Bibbia dei Settanta e a Filone Alessandrino) trovarono abbastanza agevole far coincidere il Logos
eracliteo con la filosofia di Platone, in specie di far coincidere il Logos greco con la parola con cui
Dio nella Genesi, in principio, crea il mondo. La coniugazione tra Logos, Torah, Genesi e Sapienza,
è praticata con una abbondanza palese. Questo legame linguistico e contenutistico, è considerato
dagli ebrei ortodossi una specie di contaminazione.
L’autore del Prologo mentre si mostra a nostro avviso consapevole di tutto ciò, propone una
trasfigurazione dell’idea del Logos. Solo in un certo senso tale trasfigurazione porta
all’imprevedibile compimento dell’idea filosofica maturata nel cuore stesso della filosofia greca; in
questo senso il Prologo porta a compimento l'idea che considera il Logos come l'intelligenza
creatrice, non più solamente demiurgica, che regge il mondo e lo organizza; ma il compimento
praticato dal Prologo appare ancora più palese nell’interpretazione ebraica di un termine greco, che
mette maggiormente in risalto l’elemento di rivelazione e di creazione attraverso la parola…
secondo la venerabile formula della Genesi, e Dio disse… Si potrebbe concludere questo momento
della riflessione, affermando che tutto ciò che i pensatori hanno ricercato, qui finalmente è stato
trovato, e ciò che la Rivelazione ha espresso raggiunge il suo pieno e imprevedibile compimento.
La piena Rivelazione e i facili fraintendimenti
L’originalità del Vangelo di Giovanni non sta, innanzitutto, nella capacità di conciliare due
diverse prospettive culturali, che campeggiano e forse anche implicitamente dominano da secoli il
pensiero occidentale; anche se questo è pur indirettamente vero, l’originalità sta soprattutto
nell’attribuire il termine Logos a Gesù di Nazareth. Nel Vangelo il Prologo è posto come premessa per capire ciò che Gesù compie, quello che
dice, come lo fa e come lo dice. In questo senso, tutta la narrazione della vita di Gesù, secondo
l’intenzione giovannea, è segno di qualcosa di misterioso e di definitivo che accade realmente nella
storia e che trova il suo culmine espressivo nella morte e nella resurrezione del Signore.
Il Logos, di cui parla Giovanni, è alla ricerca dell’uomo. Si capovolge in tal modo la
prospettiva religiosa di cui parla strategicamente Paolo all'Areopago di Atene, che mette
abitualmente al primo posto l’uomo come ricercatore di Dio. E' condotta inoltre all'estremo
compimento la rivelazione di Dio attraverso i profeti, come dice con solennità pari al prologo
giovanneo, l'autore della Lettera agli Ebrei:
61
Dio che aveva già parlato nei tempi antichi
molte volte e in diversi modi
ai padri per mezzo dei profeti,
ultimamente, in questi giorni,
ha parlato a noi per mezzo del Figlio…
Tornando a Giovanni, il Logos è la parola incarnata e manifesta da cui procede una nuova
creazione del mondo; e non è un caso che l’acqua della Genesi diventi il vino delle nozze di Cana.
Avvertiamo che interpretare Giovanni solo in chiave di segno, è certamente riduttivo. Lo
stesso evangelista appare preoccupato del fatto che si perda il senso realistico e simbolico allo
stesso tempo dei fatti da lui narrati. L'autore infatti (come del resto l’autore della Prima lettera),
vuole essere scrittore di un Vangelo che, mentre spinge l’intelligenza verso l'interpretazione del
'segno', si concede il gusto del più radicale realismo narrativo. Dinanzi alla tendenza dei primi
gnostico-cristiani di relativizzare la corporeità e l'autentica umanità di Gesù, l'autore della Prima
lettera afferma che l'Anticristo è colui che nega il Cristo venuto nella carne. Come abbiamo visto, lo
stesso autore insiste volutamente sul fatto che ha dinanzi una persona reale quando menziona il
Logos della vita.
La conclusione è che la menzione del Logos in Giovanni, pur necessitando di un riferimento
storico, culturale e filologico, pur portando a compimento espressioni caratteristiche della cultura
greca ed ebraica, che è utile conoscere e riconoscere, acquista una valenza del tutto nuova alla
luce del fatto che è riferito in modo specifico a Gesù Cristo.
Su questo aspetto cruciale insistettero e si soffermarono i primi Concili della cristianità,
durante i quali furono proclamate la Divinità del Logos, l’Unità e la Trinità di Dio, la Divina
maternità di Maria, la vera umanità e la vera Divinità di Cristo nell’unica Persona (secondo la felice
espressione di Leone Magno papa nel Tomus ad Flavianum: ‘Totus in suis et totus in nostris’) e
infine la Divinità dello Spirito Santo.
Giovanni dunque adotta il termine Logos per parlare di Gesù, tutto in lui è mosso dalla
volontà di mettere in risalto il fatto che Gesù e solo Gesù, come si legge nell'Apocalisse, è il Primo
e l’Ultimo, l’Alfa e l’Omega, Colui che era che è e che viene, l'Onnipotente. A tanta verità e novità di dottrina, offerta alla considerazione del limite umano, non è
mancato l’approccio limitato ed interessato, nell’ottica di una conservazione del limite, piuttosto
che in quella dell’acquisizione di una nuova e definitiva rivelazione di Dio. E’ il caso emblematico
di Ario e dell’arianesimo, che attraversa con effimero successo i primi secoli della vita della Chiesa,
e di ogni tipo di neoarianesimo. La posizione ariana è semplice: considera incongruente parlare di
unicità di Dio e allo stesso tempo di divinità del Logos; la tipica espressione dell’arianesimo ci fu
un tempo in cui il logos non c’era indica che il Logos sarebbe creato e non generato contrariamente
a quanto recita il Credo di Nicea e Costantinopoli, in perfetta sintonia con il Prologo di Giovanni.
Il fatto che questa tesi ritorni e sia ampiamente e sostanzialmente condivisa da fautori
dell’ebraismo e dell’islamismo, è un segno dell’originalità del cristianesimo e dell’affermazione che
il Logos è divino. In questa linea si pone anche la traduzione del prologo attualmente proposta dai
Testimoni di Geova, che si concede un curioso In principio era un logos.
Affermare con Giovanni che In principio era il Logos, implica che si prenda posizione netta
nei confronti di ogni tipo di arianesimo o neoarianesimo. Il cristiano cerca la verità e non l'effimero
riconoscimento storico.
La tendenza a ripristinare la concezione eraclitea di un Logos impersonale, immanente al
mondo o a considerare il mondo come divino in quanto espressione di una realtà che si identifica
con il Logos, e quindi la negazione della trascendenza, della perfezione e della divinità del Logos,
ritorna nelle speculazioni stoiche e neoplatoniche, ma anche nella filosofia idealista tedesca, in
particolare nei modi complessi e non banalizzabili della filosofia di Hegel. La più radicale
immanentizzazione del Logos, inteso nel modo eracliteo, è posta da Nietzsche. Non è un caso che
l’orientamento più significativo della teologia, che sorge all’interno del pensiero liberale tedesco,
62
tra fine Settecento e inizio Ottocento, cerca di disgiungere la persona storica di Gesù di Nazareth
dal Cristo della Fede creduto dai primi discepoli. Questa dicotomia tra Gesù Signore, Logos
incarnato, morto e risorto, e Gesù di Nazareth, personaggio umano storicamente esistito, è
inaccettabile nel Vangelo di Giovanni e alla luce della corretta fede. La dimensione del Gesù
divino, incarnato e risorto, il Gesù dei miracoli, in questa prospettiva tende ad essere considerata un
mito costruito dai discepoli e dalla prima comunità cristiana. Ritorna costantemente il desiderio di
demitizzare, di deellenizzare la Rivelazione e il pensiero d’Occidente, riducendo la rivelazione
ebraico-cristiana ad un mero fatto di cultura. Emblematica è la demitizzazione rappresentata in
veste contemporanea da R.Bultmann, cui si ispira M Heidegger.
Non mancano approcci moderni alla dottrina del Logos caratterizzati da una limitata
comprensione o da una fatale incomprensione. E' il caso del riferimento al Prologo di Giovanni che
apre Il nome della rosa di Umberto Eco. Il fervore verso il Logos, che caratterizza la vita del
monaco, è declinato tra l'errore e la caducità della vita umana; una sorta di dogmatismo opprimente
spinge verso l’inquisizione, negatrice della sessualità e del libero pensiero.
E' degno di nota il tentativo di traduzione del testo giovanneo da parte del Faust di Goethe;
questi riconosce la supremazia del Nuovo Testamento su ogni altra scrittura. Egli preferisce tradurre
Logos, dopo aver rifiutato i termini Parola (Wort), Senso-Ragione (Sinn), Forza-Energia (Kraft)
con il termine Azione (Tat). In questo caso si palesa l’esigenza tutta occidentale, e particolarmente
tedesca, di sanare la dicotomia tra ragione e vita, tipica del dotto filisteo. La traduzione appare
funzionale alla trama stessa del Faust che proprio in ragione del suo continuo tendere (streben), e
quindi agire, ottiene la salvezza; l’incomprensione dello strettissimo rapporto tra Logos e vita, come
abbiamo veduto nel sobrio commento al prologo stesso, è oscurata da una lettura riduttiva,
sostanzialmente illuministica.
Del resto in Giacomo Leopardi il Vangelo di Giovanni nel suo significato teologico
profondo è addirittura capovolto quando il poeta di Recanati premette all'ultimo grande Canto, La
ginestra, il verso di Giovanni: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce. Nel Vangelo la frase
vuole dire: gli uomini non hanno accettato la rivelazione e la salvezza del Figlio di Dio, il Logos
che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. In Leopardi, volutamente e sarcasticamente, la
luce diventa l'illuminismo e la tenebra coincide con la fede cristiana. Nel suo componimento
Giovanni I,14 J.L.Borges rivive l'arcano del divino che guarda il mondo con occhio umano,
assimilando il mistero del Verbo incarnato alle altre tradizioni religiose; tale tendenza è diffusa oggi
in teologia: non si destituisce di valore la realtà di Cristo uomo-Dio ma si relativizza
contraddittoriamente la sua unicità.
Infine occorre sottolineare che il permanere del pensiero debole, del pensiero aperto,
caratteristico del post-moderno, richiede come conditio sine qua non che il testo di Giovanni sia
semplicemente ignorato e con lui Paolo e tutta quanta la Divina Rivelazione. Diciamo questo con la
caratteristica ironia giovannea che sovrasta in modo forte i deboli interpreti, da Ario fino ai nostri
giorni.
C’è ancora qualcosa da imparare sul Logos?
In verità sì: Bonaventura, Tommaso, Giovanni della Croce, affermano, tra gli altri, che c'è
sempre qualcosa da imparare sul Logos e parlano espressamente della necessità di sondare
continuamente la ricchezza del mistero.
Un orizzonte di esplorazione possibile è quello di prendere coscienza dell'azione universale del
Logos creatore, presente in tutte le cose, verità già esplicitata dai Padri nel tema del Logos che
sparge ovunque semi di verità (Logos spermatikòs).
E' importante soprattutto capire qual è il motivo della Rivelazione del Logos; tale motivo è solidale
con lo stile della stessa Rivelazione: inoltre si tratta di capire quale atteggiamento è richiesto perché
la Rivelazione del Logos manifesti la sua piena efficacia nella nostra vita, nella Chiesa e
63
nell'umanità.
E’ sempre Giovanni a guidarci con l’affermazione lapidaria…Dio ha tanto amato il mondo da dare
il suo Figlio unigenito. La Rivelazione, l’Incarnazione, la Morte e Resurrezione, hanno come punto
di partenza l’Amore. C’è di più. Dire che Dio ama il mondo fino a dare il suo Figlio contiene
implicitamente un fatto ancora più radicale che costituisce il vertice di ogni rivelazione del vero
volto della Divinità: nella Prima lettera, nella quale come già sappiamo si parla del Logos della
vita, della importanza di amarsi secondo il comandamento nuovo, appare per due volte la
definizione della Divinità: Dio è amore. In tal modo è ripristinata nella sua motivazione più radicale
e inarrestabile tutta l'economia della Redenzione, prende luce e significato tutta l’opera di Gesù; a
questo punto è importante cogliere il modo in cui avviene la Redenzione, o ancora più
profondamente si tratta di interpretare gli intendimenti di Gesù, oggetto, autore e perfezionatore
della nostra fede.
Quali furono dunque i suoi sentimenti?
Per un attimo ci distacchiamo dal dettato giovanneo e leggiamo l’Inno ai Filippesi di Paolo.
In questo testo, ugualmente elevato come il Prologo, i discepoli sono invitati ad aver in sé ciò che è
in Cristo Gesù, il quale
pur essendo di natura divina non considerò
un tesoro geloso l’essere uguale a Dio.
Lo stile di Gesù è quello dell’abbassamento, dello svuotamento (Kènosis). Gesù ci rivela che
l’amore quando è vero, quando è divino, dà tutto. Ci invita a pensare che questo svuotarsi per amore
è lo stile eterno nella relazione tra le divine persone nell’intimità dell’amore trinitario.
Paolo descrive con intensità i termini che entrano in gioco in una discesa che passa
attraverso la forma umana, la dimensione del servo, l’obbedienza, la morte…la condanna della
croce. Gli stessi evangelisti ci ricordano che Gesù non solo è morto, ma è stato morto e il suo
cadavere martoriato ed unto in anticipo, è stato sigillato nel sepolcro. E' corretto pensare, con la
prima tradizione della Chiesa, che il Logos divino, incarnato, tradito, umiliato, crocifisso e morto,
sia disceso fino agli abissi delle abiezioni e dell'impossibile nulla, per rivelare a tutte le creature in
cielo, sulla terra e sottoterra l’Amore infinito del Padre. Più è radicale e misteriosa questa Kènosis
del Figlio di Dio, più acquista senso la risalita attraverso ogni situazione cosmica e particolarmente
umana, una risalita che imprime ad ogni vivente l’impronta della resurrezione e della vita eterna.
L'apostolo infatti proclama:
per questo Dio l'ha esaltato e gli ha
dato il nome che è sopra ogni altro nome.
Non ci resterebbe a questo punto che considerare la vicenda evangelica come un processo di
amore talmente pieno da svuotarsi completamente per portare ovunque l’amore del Padre o,
secondo la felice formula paolina
…Egli si fece povero
affinché per mezzo della sua povertà
noi tutti fossimo arricchiti.
Anche qui gli approfondimenti sono innumerevoli.
Se è vero che il problema del male con la sua prosaica durezza e misteriosità sembra
inchioda ogni ricerca di verità ad un limite invalicabile, il credente sa che il Crocifisso inchiodato
sulla croce ha il potere di vincere il male, sebbene l'attuale stato della Rivelazione non ci fornisca
una spiegazione logica della realtà e dell'origine del male stesso.
64
Di questi possibili approfondimenti sul motivo essenziale dell'abbassamento e del
conseguente innalzamento, abbiamo scelto quello della mensa, il mangiare e il darsi da mangiare
del Logos incarnato, umiliato, obbediente, crocifisso, esaltato, risorto, e, per sempre, Signore.
Invitati alla mensa del Logos, scopriamo che la Cena è il momento che introduce nel mistero
dell’abbassamento abissale del Cristo in direzione di ogni esperienza e dolore pienamente umano.
Invitati alla mensa del Logos scopriamo che l'Eucaristia, Rendimento di grazie, conduce la
comunità dei credenti e l'umanità all'innalzamento della comunione con Dio e con i fratelli, verso la
pienezza della gioia.
65
AAppppeennddiiccee 33
Vizi e virtù nell’epistolario paolino
1 Corinti
5,9 Vi ho scritto nella lettera di non immischiarvi con gli impudichi.
5,10 Non mi riferivo agli impudichi di questo mondo o ai cupidi, ai rapaci o agli idolatri; altrimenti
dovreste uscire dal mondo.
6,9 O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né gli impuri, né
gli idolatri, né gli adulteri,
2 Corinti
12,20 Temo infatti che, venendo, non vi trovi come desidero, e che a mia volta venga trovato da voi
come non mi desiderate; temo che vi siano contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze,
insinuazioni, superbie, insubordinazioni;
Galati
5,19 Ora le opere proprie della carne sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza,
5,22 Invece il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia,
5,23 mitezza, padronanza di sé;
Filippesi
2,1 Se dunque c'è un appello pressante in Cristo, un incoraggiamento ispirato dall'amore, una
comunione di spirito, un cuore compassionevole,
4,8 Per il resto, fratelli, quanto c'è di vero, nobile, giusto, puro, amabile, lodevole; quanto c'è di
virtuoso e merita plauso, questo attiri la vostra attenzione.
Romani
1,28 E siccome non stimarono saggio possedere la vera conoscenza di Dio, Dio li abbandonò in
balìa di una mente insipiente, in modo da compiere ciò che non conviene,
1,29 ripieni di ogni genere di malvagità, cattiveria, cupidigia, malizia, invidia, omicidio, lite, frode,
malignità, maldicenti in segreto,
66
13,1 Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non
proviene da Dio; ora le autorità attuali sono state stabilite e ordinate da Dio.
13,2 Di modo che, chi si ribella all'autorità, si contrappone a un ordine stabilito da Dio. Coloro poi
che si contrappongono, si attireranno da se stessi la condanna che avranno.
13,3 I magistrati, infatti, non fanno paura a chi opera il bene, ma a chi opera il male. Vuoi allora
non avere timore dell'autorità? Fa' il bene e riceverai lode da essa.
13,4 E' infatti a servizio di Dio in tuo favore, perché tu compia il bene. Ma se fai il male, temi,
poiché essa non porta invano la spada: infatti è a servizio di Dio, vindice dell'ira divina verso colui
che compie il male.
13,5 Per tutto questo è necessario sottomettersi, non solo a motivo dell'ira, ma anche a motivo della
coscienza.
13,6 Per questo dovete anche pagare i contributi: sono infatti servitori pubblici di Dio e si applicano
costantemente a questo compito.
13,7 Date a tutti ciò che è loro dovuto: il contributo a chi è dovuto il contributo, l'imposta a chi è
dovuta l'imposta, il rispetto a chi è dovuto il rispetto, l'onore a chi è dovuto l'onore.
13,8 Non abbiate debiti con nessuno, se non quello di amarvi gli uni gli altri. Chi infatti ama l'altro,
compie la legge.
13,9 Infatti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualunque altro
comandamento trova il suo culmine in questa espressione: Amerai il tuo prossimo come te stesso.
13,10 L'amore, infatti, non procura del male al prossimo: quindi la pienezza della legge è l'amore.
13,11 E fate questo, rendendovi conto del tempo nel quale viviamo: è tempo ormai per voi di
svegliarvi dal sonno; adesso infatti la nostra salvezza è più vicina che non quando demmo l'assenso
della fede.
13,12 La notte è avanzata nel suo corso, il giorno è imminente. Perciò mettiamo da parte le opere
proprie delle tenebre e rivestiamoci delle armi della luce.
Colossesi
3,5 Fate dunque morire le membra terrene: fornicazione, impurità, libidine, desideri sfrenati e
l'avidità di guadagno, che è poi idolatria;
3,12 Voi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, vestitevi di tenera compassione, di bontà, di
umiltà, di mitezza, di longanimità,
3,14 sopra tutto ciò, rivestitevi di carità, che è il vincolo della perfezione.
Efesini
4,31 Estirpate di mezzo a voi ogni asprezza, animosità, collera, clamore, maldicenza, ogni
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cattiveria.
5,1 Imitate Dio, come figli diletti,
5,2 e camminate nell'amore sull'esempio del Cristo che vi ha amato e ha offerto se stesso per noi,
oblazione e sacrificio di soave odore a Dio.
5,3 Come si conviene tra santi, non si sentano nominare tra voi fornicazione e qualsiasi impurità o
cupidigia,
4,1 Perciò io, il prigioniero per il Signore, vi invito a condurre una vita degna della vocazione alla
quale siete stati chiamati,
4,2 con tutta umiltà, dolcezza e longanimità, sopportandovi a vicenda con amore,
4,3 preoccupati di conservare l'unità dello spirito col vincolo della pace:
4,32 Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi reciprocamente,
come anche Dio vi ha perdonato in Cristo.
5,10 scegliendo ciò che Dio gradisce.
5,11 Non prendete parte alle attività infruttuose delle tenebre, ma piuttosto riprovatele,
5,7 Quindi non associatevi a loro.
5,8 Eravate infatti tenebre, ma ora siete luce nel Signore: comportatevi da figli della luce –
5,9 il frutto della luce è ogni sorta di bontà, di giustizia e di sincerità –
1Timoteo
1,8 Certo, noi sappiamo che la legge è buona; a condizione però che se ne faccia un uso legittimo,
1,9 ben sapendo che la legge non è istituita per chi è giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi
e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli omicidi,
6,3 Se poi qualcuno insegna cose diverse e non aderisce alle sane parole, che sono quelle del
Signore nostro Gesù Cristo, e alla dottrina secondo pietà,
6,4 è accecato dall'orgoglio e non sa nulla, pur essendo preso dalla febbre dei cavilli e dei litigi di
parole: da tali cose hanno origine le invidie, le contese, le maldicenze, i sospetti maligni,
3,2 Bisogna infatti che l'episcopo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, prudente,
dignitoso, ospitale, adatto all'insegnamento,
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3,8 I diaconi ugualmente siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino, né avidi di
turpe guadagno;
4,12 Nessuno disprezzi la tua giovinezza! Al contrario, mostrati modello ai fedeli nella parola, nella
condotta, nella carità, nella fede, nella castità.
Tito
1,9 attaccato alla parola sicura secondo la dottrina trasmessa, per essere capace sia di esortare nella
sana dottrina, sia di confutare quelli che vi si oppongono.
1,10 Vi sono infatti molti insubordinati, parolai ed ingannatori, soprattutto quelli che provengono
dalla circoncisione:
3,3 Anche noi, infatti, siamo stati un tempo insensati, ribelli, fuorviati, asserviti a concupiscenze e
voluttà d'ogni genere, vivendo immersi nella malizia e nell'invidia, abominevoli, odiandoci a
vicenda.
1,7 Bisogna infatti che l'episcopo, in quanto amministratore di Dio, sia irreprensibile, non arrogante,
non collerico, non dedito al vino, non violento, non avido di vile guadagno;
2,1 Tu, però, insegna ciò che è conforme alla sana dottrina.
2,2 Che i vecchi siano sobri, dignitosi, prudenti, sani nella fede, nella carità e nella pazienza.
2,5 ad essere prudenti, caste, attaccate ai loro doveri domestici, buone, sottomesse ai loro mariti,
perché non sia vituperata la parola del Signore.
2,11 E' apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini,
2,12 insegnandoci a vivere nel secolo presente con saggezza, con giustizia e pietà, rinunciando
all'empietà e ai desideri mondani,
2,13 in attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del grande Dio e Salvatore
nostro Gesù Cristo,
2,14 il quale ha dato se stesso per noi allo scopo di riscattarci da ogni iniquità e purificare per sé un
popolo che gli appartenga, zelante nel compiere opere buone.
2 Timoteo
3,1 Sappi poi che negli ultimi giorni sopravverranno tempi difficili.
3,2 Gli uomini, infatti, saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, arroganti, bestemmiatori,
disobbedienti ai genitori, ingrati, empi,
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2,22 Cerca di fuggire le voglie giovanili; persegui la giustizia, la fede, l'amore, la pace con quelli
che invocano il Signore di cuore puro.
3,10 Tu però hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei disegni, la mia fede,
la longanimità, la carità, la pazienza,
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AAppppeennddiiccee 44
Da: “GRANDI LIBRI D’EUROPA” (2004)
Esplorazioni filosofico-letterarie
FAUST, IL TRADUTTORE
L’episodio è poeticamente introdotto da Goethe nella parte Prima alla scena Studio (Studiezimmer).
Il dottor Faust, accompagnato da un misterioso cane barbone, che poi si rivelerà essere lo stesso
Mefistofele, si ritira nel suo studio dopo il tramonto, la sera stessa del giorno di Pasqua. La notte
precedente si era avvicinato al suicidio portando la fiala del veleno alla bocca, mentre sul fare del
giorno un coro pasquale di bambini annuncianti Cristo risorto, lo aveva distolto dall’insano gesto
riportandolo al pensiero della originaria giovinezza; rinfrancato, era poi uscito con il fedele Wagner
per le strade della cittadina ad incontrare il popolo in festa, fatto oggetto di pubblica riconoscenza,
nel ricordo benefico del padre taumaturgo. Tramontato il sole Faust rientra, lo stato d’animo è
poeticamente espresso con note struggenti
Prati e campi li ho lasciati,
li copre una notte profonda
che con l’ansia di un sacro spavento
ridesta l’anima nostra migliore.
Dormono gli impeti veementi
ora e le azioni scatenate.
L’amore per gli uomini ora si leva,
si leva l’amore di Dio.
Una lettura cattolica e bonaria del testo, pregevole per equilibrio ed intensità, vorrebbe condurci
manzonianamente, memori della conversione dell’Innominato, a pensare ad un momento di
profonda conversione, di adesione alla grazia divina, di intervento risolutorio del Dio che atterra e
suscita, che affanna e che consola e che si traduce nella gratitudine e nella pienezza dell’amore
ritrovato, verso Dio e verso gli uomini, che dal cuore si leva armonioso e spontaneo. L’ora del resto,
nella tradizione evangelica, è la più propizia: è l’ora nella quale il Cristo risorto si fa presente con il
suo saluto di pace mostrando le piaghe della passione sul suo vero corpo trasfigurato, è l’ora in cui
si spezza il pane.
Al contrario la vicenda prepara imprevedibili sviluppi, la presenza di Mefistofele in veste di cane
barbone preannuncia la tempesta e il perpetuarsi della tragedia illimitata di Faust. Tutto ha già avuto
una risonanza e una sanzione nel cielo, quando Mefistofele ha tenuto il suo colloquio privato con il
Padre celeste. Il lettore biblico attento si avvede immediatamente che Goethe attinge a piene mani al
prologo del libro di Giobbe introducendo libere variabili per nulla preoccupato dell’esatta
canonicità. Patetico, Mefistofele, scommette con il Padreterno di riuscire a inclinare la folle
inquietudine caratteristica di Faust, dalla sua parte, portandolo a dannazione.
Ma torniamo nello Studio del dottor Faust; nello sviluppo della scena ciò che interessa è un
particolare narrativo molto intenso che rischia di sfuggire. Pur infastidito dal ringhiare del cane in
un angolo dello studio, Faust pensa intensamente e sperimenta dapprima l’armonia ascendente di
un’anima che cerca la verità ma, immediatamente, questo rinnovato entusiasmo si cambia di nuovo
in dolorosa inquietudine, il travaglio è destinato a continuare
Ah, però già sento, con tutto il buon volere,
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che nell’anima torna la scontentezza a gemere.
Perché deve inaridirsi così presto la corrente
e noi rimanere assetati?
Ci limitiamo ad osservare che un canone espressivo caratteristico di Goethe è quello secondo cui
possiamo parlare con certezza solo di ciò che in modo profondo abbiamo esperimentato in noi e
negli altri. Con questo non ci autorizziamo a concludere nel fatto che ogni cosa che Goethe mette in
bocca a Faust si riferisce a se stesso, certamente sorprende la profondità…
Tanto spesso ne ho fatto esperienza.
Eppure a questo vuoto si può dare compenso:
si impara quanto valgono le cose ultraterrene,
si cerca la Rivelazione
che mai più degna splende e più bella
come nel Nuovo Testamento.
Dobbiamo sottolineare il rigore del processo interiore qui descritto oscillante tra disperazione e
speranza, tra tranquillità armoniosa e inquietudine del vuoto. Tra queste due dimensioni antitetiche
prevale infine un vuoto doloroso, una sorta di coscienza infelice, ma non privo di speranza, esso
infatti spinge a cercare le cose ultraterrene e ad attingere alla Divina Rivelazione, infine ad aprire il
Nuovo Testamento. Anzi riguardo a quest’ultimo Faust non si sente solo
Qualcosa mi spinge ad aprire quel testo
a provarmi, con cuore devoto, a tradurre
il sacro originale
nella cara mia lingua tedesca.
Potremmo indugiare sul verso che richiama al lettore sano e ingenuo, l’attività del grande traduttore
per eccellenza, Martin Lutero, coadiuvato dal dotto Melantone e molestato dal diavolo nella
fortezza della Wartburg. La cara lingua tedesca è quella che il Riformatore è andato a raccogliere
nella sua forza originaria sulla bocca di coloro che vivono nella piazza del mercato. Il cuore devoto
infine richiama intensamente la situazione interiore che il pietismo oppone alla possibilità che si
faccia strada la durezza del cuore e che ci si limiti alle nozioni astratte nel rapporto con il Sacro
Libro.
Il testo poetico mostra la coscienza che una giusta traduzione infine avviene perché
…mi dà aiuto lo Spirito!
L’apparente spontaneità del verso goethiano, e la causalità dell’apertura del grosso volume, una
specie di tolle, lege di agostiniana memoria, non può mascherare il fatto che il testo in cui si imbatte
Faust è in realtà stra-scelto: si tratta infatti del venerabile Prologo al Vangelo Secondo Giovanni.
Non è un testo qualsiasi, ma piuttosto quello più elevato e riassuntivo di tutto il messaggio
evangelico. Qui si rende necessaria, per l’intelligenza di quanto segue, una sobria annotazione
teologica.
L’evangelista Giovanni, o chi per lui, scrive in lingua greca. Egli premette alla narrazione
evangelica, caratteristica per la sua andatura mistico-simbolica resa singolarmente viva dal realismo
che tradisce la testimonianza, un Inno sintetico e riassuntivo comunemente chiamato Prologo. Nel
Prologo Giovanni intende parlare di Gesù, offrire una testimonianza efficace della sua realtà umana
e divina, della sua unicità e della definitiva efficacia della sua Rivelazione e Redenzione. Gesù per
Giovanni è la persona storica di Gesù di Nazareth, morto e risorto, presente e vivo nell’umanità e
nella Chiesa. Gesù in quanto Dio è quella Parola, quella Intelligenza e quella Sapienza che presiede
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la stessa creazione e conservazione del mondo. Da qui la scelta del termine LOGOS con la famosa
reiterata espressione
In principio era il Logos
e il Logos era presso Dio
e il Logos era Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui niente è stato fatto
di tutto ciò che esiste. In lui era la vita..
e il Logos si è fatto carne…
nessuno ha mai visto Dio,
il Figlio unigenito
che è nel Padre ce l’ha rivelato.
Il termine Logos ritorna quattro volte nel Prologo del Vangelo, una volta all’inizio della Prima
lettera di Giovanni e infine un’ultima volta nell’Apocalisse.
L’autore del Prologo allude alla realtà storica, umano-divina di Gesù, ma si pone anche in una linea
di continuità con il testo della creazione narrata dal libro della Genesi. Ma c’è di più: la scelta di
termini come Logos-Parola e Archè-Principio indica l’intenzione di collegare la vicenda di Gesù
alla grande ricerca filosofica dei greci. Il Logos divino, pienamente rivelato in Cristo, è quel
principio supremo che preside la scala dei principi ascendenti e discendenti che i filosofi avevano
intravisto e designato. Proprio il Prologo al Vangelo di Giovanni permette ad Agostino la grande
affermazione teologico-filosofica, secondo cui nella filosofia pagana si trova scritto che in Principio
era il Logos, la parola che crea il mondo, ma non c’è scritto che questa Parola si è fatta carne. In
sintesi il termine Logos, che nell’accezione linguistica comune greca indica parola, intelligenza,
legge, principio, misura, acquista nel Prologo una ricchezza di significati che vanno collocati per
analogia nella sfera del divino e non si esauriscono in una facile scelta preferenziale. Di fatto si può
per analogia intendere il Logos quale perfetta intelligenza divina, talmente perfetta da essere
Persona, con il Padre e con il Figlio, ma anche intendere il Logos come il grande Architetto della
continua creazione di realtà aventi significato; è ancora l’Intelligenza che rivela il Mistero Divino.
L’evento dell’Incarnazione sta alla base di tutta la Rivelazione e Redenzione ed è atto estremo e
definitivo, in una parola Cristo è lo stesso, ieri, oggi e per sempre. Il definitivo dunque ha dato
segno di sé nella storia. Le conseguenze sono pensabili, e il pensarle vuol dire fare la teologia. La
prima e più evidente è che attraverso l’umana parola di Gesù di esprime la Parola divina. Diciamo
noi che un grandissimo poeta come Goethe si trova in una invidiabile situazione di sintonia con
questa valenza divina e pienamente umana della Parola.
Torniamo al Faust. Ci conviene citare direttamente il testo e vedere come, nel ritmo fascinoso della
poesia, procede il nostro traduttore.
Sta scritto: ‘In Principio era la Parola’
Ed eccomi già fermo.
Chi m’aiuta a procedere?
M’è impossibile dare a ‘Parola’(Wort) tanto valore.
Devo tradurre altrimenti,
se mi darà giusto lume lo Spirito.
Sta scritto ‘In Principio era il Pensiero’(Sinn).
Medita bene il primo rigo
ché non ti corra troppo la penna.
Quel che tutto crea e opera , è il Pensiero?
Dovrebb’essere: ‘In Principio era l’Energia’(Kraft).
Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa
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già mi dice che non qui potrò fermarmi.
Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro
E, ormai sicuro, scrivo: ‘In Principio era l’Azione’(Tat)
Alcune note si impongo immediatamente. La traduzione più logica e letterale, quella già adottata
dallo stesso Lutero (peraltro contemporaneo all’ipotetico personaggio storico del Faust) viene
immediatamente scartata dal dottor Faust, gli sembra troppo povero il fatto che la Parola (Wort) che
sta in Principio, contenga tutta la potenza che le si attribuisce in seguito nel testo giovanneo cioè, il
fatto di presiedere alla creazione del mondo. Lo stesso vale per il termine successivo Pensiero. Ci si
avvicina alla meta con l’impersonale Energia per approdare alla soluzione dettata dallo Spirito e
cioè Azione: In Principio era l’Azione.
E’ evidente che il dottor Faust non ha sviluppato la nostra riflessione precedente; ciò appare
decisamente funzionale dal punto di vista della trama della tragedia: in forza del continuo incessante
tendere (Streben) Faust diviene emblema dell’umanità, il cui continuo e incessante tendere è il
motivo ultimo della salvezza. L’immagine e somiglianza di Dio si esplica in una sorta di sintonia tra
il tendere incessante del divino, onnipotente e perfetto, e la tensione più propriamente umana,
giocata tra finito e infinito.
Di fatto però, rispetto alla posizione giovannea sopra sobriamente illustrata, il nostro inquieto
traduttore adotta una visione della parola meramente intellettualistica, cattedratica e statica,
diremmo noi formalista, che sembra fatta apposta per essere superata. E’ il caso in cui una
problematica culturale, psicologica e antropologica assume una risonanza teologica. Il dottor Faust
ci appare come un uomo geniale, ma anche, occorre dirlo, un cattivo teologo, decisamente legato ad
una concezione del linguaggio appunto formalista. Ci limitiamo ad osservare solo allusivamente che
la strenua battaglia di Nietzsche contro il filisteo, dotto e teorico, incapace di azione, abita molto
vicino al testo del Faust. Siamo nei pressi di un fraintendimento del pensiero teologico e metafisico
dell’Occidente. Il Prologo di Giovanni facendo del Logos il Principio, ha già sancito l’equilibrio tra
la compiutezza statica della contemplazione e la perfetta affermazione di un dinamismo
assolutamente logico decifrabile negli eventi della storia della salvezza; nello stesso Vangelo
appare, dalle stesse parole di Gesù, che l’Incarnazione del Logos è l’opera compiuta dal divino e
l’opera umana più adeguata che vi corrisponde è la Fede.
E’ affiorato qui uno dei leit motiv ricorrenti nella cultura europea e tedesca in specie: la lotta contro
il razionalismo statico e normativo e l’evocazione ed esaltazione della prassi, della libertà e della
volontà. Se univoca è l’istanza espressa dal solitario personaggio dell’opera goethiana, sono
innumerevoli e anche contraddittorie le declinazioni del tema nel momento storico in cui visse
Goethe. Accusare il grande scrittore di essere un antesignano dell’irrazionalismo niciano vorrebbe
dire assecondare la folta schiera di coloro che affermano la presenza in ogni dove dei presupposti di
quella cieca forza storica distruttrice che fu il nazismo. Lo stesso Oswald Sprengler ne Il tramonto
dell'Occidente dedica una riflessione approssimativa alla cosiddetta anima faustiana
congiungendola alla volontà di potenza di Nietzsche, mentre nelle birrerie di Monaco si prepara
l'avvento del nazismo. Noi scoraggiamo decisamente la pratica di questa facile ermeneutica.
Nondimeno la cultura tedesca appare fortemente teologizzata e parimenti squilibrata, la sola
Scrittura e il Libero Esame hanno prodotto sì un grande e invidiabile commercio di idee e di
pensieri ma all’insegna di clamorose oscillazioni, contraddizioni, riduzioni e assolutizzazioni, di cui
l’esile e significativo testo di Goethe non è che un esempio.
Non siamo noi in questo momento alla ricerca di facili concordanze. Alcuni rilievi storiografici
decisamente si impongono. L’anno precedente alla pubblicazione della prima parte del Faust,
avvenuta nel 1908, esce la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Il commento sui generis al
Prologo di Giovanni, come già per Clemente, Origene, Agostino, costituisce la struttura portante di
tutta la speculazione hegeliana e dell’idealismo in genere che si conclude nella celebre petizione di
principio: tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale. Sono gli anni in cui
Schleiermacher traduce l’opera completa di Platone. La filosofia di Kant, adorata, contestata,
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utilizzata e financo saccheggiata, introduce una accelerazione incredibile al pensiero teoretico in
sintonia con le diatribe letterarie pro e contro illuminismo, romanticismo e classicismo. Sullo
sfondo campeggia la decisiva posizione panteistica e omnicomprensiva di Spinoza, l’ottimismo
illuminato di Leibniz. Contemporaneo e amico di Goethe, Schelling vive, ultimo tra i padri
dell’idealismo, l’inquietudine di una filosofia che gioca in disarmonia feconda con la conoscenza
teologica e l’esperienza della fede. Il Soggettivismo e la negazione della Trascendenza sono
comunemente indicati dai manuali quale esito della grande avventura del pensiero ottocentesco.
Goethe, che del logos tedesco detiene l’indiscutibile scettro, è parimenti spettatore e regista di
questa incredibile fioritura culturale. Ma c’è un altro fatto rilevante destinato ad acuire la
problematica del rapporto tra pensiero e prassi, un fatto che si aggiunge agli inesorabili processi di
trasformazione tecnologica e scientifica comuni al nord Europa, portandoli ad una accelerazione
unica e forse irripetibile: appare in Germania l’astro napoleonico, divoratore, distruttore e
affascinante proprio in ragione di quella singolare capacità di agire e di decidere, ampiamente
teorizzata e così poco vissuta dai tedeschi.
Fino a che punto il personaggio della tragedia corrisponde all’animo e all’esperienza dell’autore?
Su questo terreno bisogna sempre muoversi con circospezione: troppo consapevole e geniale
Goethe per non avvertire il rischio della coincidenza e non sperimentare ironicamente la gioia
dell’invenzione e del gioco.
I biografi ci suggeriscono un Goethe religiosamente intenso in modo naturale panteistico,
allontanatosi ancora giovanissimo dalle spire del pietismo e dalla sterile ribellione sturmeriana che
trova eco nel giovanile Prometeo; un uomo tentato perennemente di viva sensualità e dunque
inevitabilmente portato a sondare la relazione tra l’archè divino e quello femminile. Gli ultimi anni
della sua vita sono segnati dal rifiuto di entrare in questioni minuziose di coscienza dinanzi al tema
della Rivelazione e della Redenzione: Goethe non amava parlare della Croce e non amava discutere
sul tema della Grazia e della Redenzione. Goethe infine non parla di Gesù Cristo. Il suo approccio
alla religiosità è facilmente leggibile in un’ottica illuminista; la Religione nei limiti della sola
ragione di Kant indica una strada di comprensione, e un clima culturale. Il Goethe anziano si mostra
deferente nei confronti di Hegel, ma non in sintonia, preferendogli Kant. Al criticismo kantiano egli
riconosce le caratteristiche del rigore razionale e la sintonia lata con la teoria dei colori che egli
sosterrà strenuamente essere il contributo della su ricerca culturale che più di ogni altro gli avrebbe
garantito la notorietà e l'immortalità.
I commentatori infine notano che la finale del Faust riecheggia, come una specie di cupola
di san Pietro nel deserto, il finale della Divina Commedia dantesca. Goethe ha esplicitamente detto
di avere adottato una comoda soluzione cattolica. Lungi da noi parlare di un Goethe che si deve
convertire a tutti i costi; certamente nel paragone con Dante la conclusione dell’opera, pur così
avvincente e geniale, cede decisamente il passo.
Una sorta di indeterminismo teologico-filosofico grava sui maestri dell’espressione in epoca
moderna, tra essi il grande Goethe: quando ci si dedica profondamente ad una esperienza in qualche
modo se ne svaluta o se ne perde un’altra. Questo vale allo stesso modo per chi si esprime con la
sicurezza della verità, vuoto di pensiero e di passione per l’uomo e per la sua vita, incapace di
pensare, di leggere e di scrivere.
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AAppppeennddiiccee 55
Da: “LA RICERCA DEL ‘SENSO’ TRA L’ESSERE E IL NULLA” (2003)
LEOPARDI
“Il fiore del deserto”
A) Riflessione sul perché Giacomo Leopardi antepone alla Ginestra un testo del Vangelo di Giovanni con significato radicalmente capovolto
L’onestà ermeneutica mi porterà a scontentare due categorie di persone tra quelle, naturalmente, che
si interessano di letteratura e soprattutto di Giacomo Leopardi.
Alla prima categoria appartengono quanti ritengono che il poeta di Recanati, nonostante la palese
professione di sensismo e di ateismo, sia da annoverare tra i grandi spiriti religiosi di ogni epoca. In
questo caso egli sarebbe inconsapevolmente l’assertore di una tesi contraria ad una sua tesi
consapevole e a tutti nota.
Non si può certo negare una motivazione intrinseca a questa diffusa posizione interpretativa,
praticata soprattutto da letterati credenti, i quali amano ricollegarsi al tortuoso e doloroso itinerario
spirituale del Leopardi, ma anche alla sublime poesia leopardiana, che canta la vita frammezzo ad
una meditazione sulla vita che appare senza speranza; a questa forzatura del dettato leopardiano si
presta inoltre lo stesso discorso religioso, la teologia infatti possiede la forza di includere significati
avversi e percorsi ambivalenti, in una logica composita ma lineare. Se solo a Dio compete la
capacità di scrivere diritto su righe storte, la teologia è in grado di leggerne il testo. Il sottoscritto
intende parlare di Leopardi con il piglio del Teologo ma non si avvarrà di questa possibilità per fare
cantare un canzone diversa e capovolgere così la grammatica dei segni leopardiani.
Quanto alla seconda categoria, ad essa appartengono quanti ritengono che il discorso religioso
non faccia parte della riflessione di Leopardi, non rientri cioè nelle regioni della sua piena
consapevolezza. Ora nessuno vieta ad alcuno la possibilità di assumere per la propria vita la
decisione laica, laicista, atea o agnostica, avulsa dal suo percorso storico. Sta il fatto, come ci
impegneremo a dimostrare, che Giacomo Leopardi addiviene pensosamente e dolorosamente,
benché giovane, ad una risoluzione radicalmente atea, attraverso un processo che, pur essendo
suffragato da una miriade di condizioni sfavorevoli alla vita e favorevoli all’ateismo, si riduce
secondo noi ad un arbitrio, ad una decisone capitale, avvertita dallo stesso in tutta la sua portata.
Anche in questo secondo caso non mancano ragioni; una meditazione distesa e
omnicomprensiva dell'esistenza configura l'ateismo inizialmente come possibile, mentre sul piano
ermeneutico, quando cioè si instaura una volontà radicale di ritrovare il senso delle cose, l'ateismo
diventa insostenibile, ameno che non si decida che comunque la vita c'è e la si vive, anche se non ha
senso.
In sintesi, lo scrivente scontenterà i credenti interpreti, i quali non si rassegnano a lasciare
sfuggire uno scrittore dell’altezza del Leopardi dalla sfera della religiosità anche solamente
implicita e inconsapevole; ma scontenterà soprattutto i laicisti, privi di una rigorosa formazione
teologica e religiosa, e che amano perciò stesso fare terra bruciata attorno al discorso religioso (mi
pare che sia uscita anche ultimamente la proposta di tagliare gli alberi per non avere più il problema
degli incendi).
Entriamo dunque nel vivo della questione: uno degli ultimi Canti del Leopardi, La ginestra
o il fiore del deserto, è introdotto da un verso del Vangelo di Giovanni, scritto nel testo greco
originale che tradotto suona precisamente così
76
Gli uomini hanno preferito
le tenebre alla luce Gv 1,19
Nel Vangelo di Giovanni il verso in questione ha un significato non aleatorio. Gesù è la luce del
mondo, gli uomini hanno preferito la tenebra del peccato e lo hanno rifiutato. Tutto il Vangelo, ma
anche la Prima lettera di Giovanni, sviluppa questo tema. Già nel famoso Prologo si legge
Egli era la luce e la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta…
Il verso greco si traduce attualmente con non l’hanno accolta e si tradurrebbe più precisamente con
non l’hanno sopraffatta. Questa seconda traduzione, accreditata quanto la prima, indicherebbe
qualcosa di più che un sonno passivo rispetto alla luce che viene, qualcosa di più grave che una
distrazione, una non volontà o una forma di pigrizia; in questo secondo caso il testo indicherebbe un
tentativo di aggressione, ultimamente non riuscito, di annullare la luce, un male dunque non passivo
ma attivo. Una traccia di questa interpretazione si ritrova ancora nel Vangelo e precisamente
nell'episodio del cieco nato guarito da Gesù. E' risaputo che per Giovanni i miracoli sono concepiti
come segni, luoghi di rivelazione divina attraverso le parole e i gesti di Gesù; in questo caso Gesù è
la luce del mondo. I commentatori prendono atto che il gioco tra tenebre e luce narrato nei Vangeli,
ma anche negli Atti degli Apostoli, è pervaso da una caratteristica ironia. I tentativi di nascondere la
luce divina falliscono continuamente il loro scopo. Ci domanderemo come e fino a che punto lo
stesso Leopardi, non solo negatore ma altresì capovolgitore del messaggio, sia sottoponibile
all'ironia giovannea. Sarebbe un discorso antipatico e da non farsi se lo stesso Leopardi non avesse
posto in gioco con sarcasmo voluto il versetto del Vangelo.
Tornando a Giovanni l’esito di questa contrapposizione dialettica storica e metafisica mette
maggiormente in risalto il valore della luce rispetto alle tenebre. E’ importante notare che Gesù nel
Vangelo è narrato nella sua divina ed ineffabile preistoria: Gesù è il Logos, l’Intelligenza e la Parola
divina che si fa carne, cioè Dio e uomo, come dice la teologia classica, nella stessa Persona. Si
condivida o meno, questa affermazione, insieme a quella della morte e resurrezione di Cristo,
costituisce l’essenza del cristianesimo. La possibilità diversa è quella di negare l’esistenza storica di
Cristo, o di negare il valore di verità dei testi. In questo secondo caso occorre giustificare il perché
di questa falsificazione della realtà attraverso i testi. Per fare almeno un esempio questo sforzo fu
condotto da Feuerbach; egli affermò che dietro il linguaggio che si presenta come teologico, ovvero
come discorso su un Dio che si manifesta, si nasconde in realtà un insegnamento umano,
antropologico. E’ l’uomo, secondo Feuerbach, che proietta e divinizza in Cristo la propria umanità.
E perché l’uomo farebbe questo? Perché è alla ricerca di se stesso fuori di sé, in una parola è
alienato. Il tema dell'alienazione verrà poi approfondito e radicalizzato in modi diversi e complessi
da Marx, Nietzsche e Freud, per citare i più conosciuti tra i profeti del sospetto.
Il nostro Leopardi scrive qualche anno prima di Feuerbach, e Giovanni, o chi per lui, molti
secoli prima di entrambi. Questi testi giovannei come si vede sono impegnativi, gravidi, sono
talmente pesanti che i più hanno deciso di ignorarli o come nel caso dei Testimoni di Geova di
indebolirne e svilirne il suono: è sufficiente tradurre In Principio era il Verbo con in Principio era
un Verbo per aprire due porte totalmente diverse e solo apparentemente simili. Nell’economia del
nostro discorso occorre precisare che nel Vangelo la luce, cioè la divinità stessa, l’Intelligenza
stessa divina, è apparse in forma umana nell’uomo Gesù, in un modo irripetibile e unico… recita
ancora il Vangelo …E il Logos (Verbo-Parola) si è fatto carne. Da questo carne del verso 14
deriva il grande concetto di Incarnazione. Come spiega la Dei Verbum del Concilio Vaticano
Secondo, riprendendo in sintesi tutto il messaggio Neotestamentario, la Rivelazione avviene con
fatti e parole strettamente fra loro congiunti, fatti e parole che raggiungono il loro culmine con la
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venuta del Figlio di Dio, apparso in carne umana. La consapevolezza che qualcosa di simile è
presente in tutte le religioni mette ancora maggiormente in risalto l'unicità dell'Incarnazione. Dio
stesso tratta con gli uomini in modo amichevole.
La lunga chiarificazione era necessaria per comprendere meglio le riflessioni che seguono.
Un fatto non può essere ignorato. Leopardi adopera il verso di Giovanni con significato
radicalmente capovolto… infatti la frase gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce così come si
desume da tutto il componimento significa: gli uomini avevano finalmente intrapreso la via faticosa
ma severa della ragione, dell'illuminismo, quindi della luce, ma sono tornati alle tenebre delle
fantasie religiose e agli spiritualismi cattolici, cosa che vedremo più da vicino. Gli uomini hanno
girato le spalle all’illuminismo perché il lume autentico della ragione li mette dinanzi alla realtà
miserabile della vita umana e alla crudeltà e indifferenza della natura. Hanno preferito, rinunciando
alla ragione, parlare di immortalità, di centralità dell’uomo nel cosmo, di discesa degli dei sulla
terra.
Come è ormai facile vedere siamo dinanzi ad un totale capovolgimento, ad una volontà di
Leopardi di scalzare dal didentro l’assetto della verità cristiana. Avverto che stiamo parlando di
Leopardi, di un genio erudito, di colui che lo stesso Nietzsche definì il moderno filologo, di un
uomo che ama tra tutte le attività soprattutto compulsare i testi e concentrarsi sullo studio delle fonti
con acribia scientifica, parola per parola e frase per frase. La lettura delle volute filologiche e
filosofiche dello Zibaldone c’impedisce di considerare il Leopardi alla stregua di coloro che citano i
pensatori e i poeti usando come criterio filologico la spanna. Leopardi infine conosce troppo bene il
greco e troppo bene il Nuovo Testamento per commettere questo svarione.
Un’ultima possibilità potrebbe essere quella che attribuisce la citazione al Ranieri o da chi
per esso, non originaria quindi. Di fatto abbiamo tre manoscritti della Ginestra, non esiste un testo
originale, con la possibilità, accreditata presso gli studiosi, che il testo sia stato dettato e non scritto
dal poeta direttamente. E’ possibile dunque che il Ranieri abbia anteposto alla lirica il verso,
capovolto nel suo significato, al componimento? La tesi è plausibile ma improbabile, la diamo uno
su dieci…; risulta infine dalle rivelazioni del Ranieri stesso che il Leopardi diede severe
disposizioni sulla sorte dei suoi testi, fino alla fine.
Occorre caricare intensamente su questa riflessione. La tesi di un Leopardi consapevole
dell’operazione compiuta, che cioè consiste nel capovolgimento del significato del Vangelo e della
parola di Cristo, è perfettamente coerente con la sua visione del mondo, i tedeschi, suoi
contemporanei, avrebbero detto Weltanschauung, visione che appare nella Ginestra. Se accettiamo
questo dobbiamo accettarne anche le conseguenze, e non sono di poco conto. Come più
palesemente e violentemente avverrà con Nietzsche e il suo Anticristo, ma con toni più pacati e
meno passionali, Leopardi intende destituire il cristianesimo del valore che gli è attribuito; il suo è
un tentativo di capovolgimento voluto e programmatico, non privo di un certo sarcasmo; egli infatti
si rivolge ad alcuni lettori non difficilmente identificabili; Leopardi proprio in quell'anno è oggetto
dell'intervento della censura borbonica che ritira dalla piazza l'edizione delle Operette Morali e dei
Canti; i circoli liberali e cattolici, i nuovi credenti ai quali egli dedicherà negli ultimi mesi di vita
una satira mordace, vero atto finale e non esaltante della sua produzione letteraria, stigmatizzano il
pensiero distruttivo e nihilista del Leopardi. Nella sua contro reazione c'è qualcosa di più che una
semplice reazione emotiva, c'è anche lo snobismo espresso dal testo greco, non da tutti leggibile,
tratto dal Vangelo di Giovanni. Ben oltre le polemiche il discorso è sdegnosamente rivolto al cuore
stesso della fede cristiana e cioè al messaggio del Nuovo Testamento.
A questo punto occorre ricordare che Leopardi, con i suoi fratelli, fu educato all’osservanza
dei precetti cristiani, la madre era dedita ad una preghiera costante condotta in solitudine e interrotta
solo dai calcoli finanziari; i suoi primi precettori furono sacerdoti, parenti e vicini alla famiglia; il
padre stesso stimolò ripetutamente il figlio a scrivere saggi catechistici e teologici di cui il piccolo
Giacomo dava resoconto dinanzi a vescovi e cardinali. L’aspetto più soffocante dell’educazione
religiosa del Leopardi è legato alla figura della madre che molto probabilmente e tristemente
corrisponde alla madre cristiana, nemica della vita, descritta nelle pagine dello Zibaldone
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(Zibaldone 353,6 25 novembre 1820). Una recente biografia, vero colpo di grazia finale, afferma
che la madre ritenne suo dovere essere presente alla confessione sacramentale del figlio.
Leopardi conosce dunque teologicamente il cristianesimo, alle fonti quando è ancora
giovanissimo, desideroso, come ricordava il padre al Ranieri con uno stonato compiacimento, di
assistere più volte alla Santa Messa in uno stesso giorno; ma la sua è una esperienza spirituale di
conflitto, tragica, soffocante, negatrice della vita, priva di amore e di serenità, dettata anche dalle
disastrose condizioni fisiche e dall’incapacità di scoprire in modo autentico la relazione con una
donna.
Tutte queste ragioni possono essere pensate come una concausa, l’elemento determinante
della posizione leopardiana è un atteggiamento universale, una posizione dinanzi all’universo colto
nella sua infinitezza e bellezza, concepito sostanzialmente come vuoto. Ciò che rimane dinanzi a
questo sguardo indisponibile alla fede è una natura madre di parto e di voler matrigna, rimane
l’infinita vanità del tutto. Nella sua sarcastica difesa Leopardi ricorda ai nuovi credenti che lui non
fa che rivivere il sentimento presente nel libro di Giobbe e nel Qoèlet.
Nella primissima giovinezza e con grave preoccupazione dapprima tacita ed in seguito
espressa dei genitori, Leopardi rigetta in toto la fede cristiana affidandosi allo scientismo illuminista
e al sensismo d’Holbachiano (Zibaldone 4175-7, 22 aprile 1826); contemporaneamente, dopo una
militanza conservatrice, il giovane Leopardi abbraccia le cause progressiste e patriottiche espresse
nelle prime canzoni che lo resero noto sulla scena letteraria e politica italiana. La conoscenza della
filosofia moderna in Leopardi meriterebbe analisi più puntuali, sta di fatto che la visione atea del
mondo, la proclamazione della sufficienza della natura e dell’intelligenza per spiegare la vita e il
mondo, si palesa in modo inequivocabile; la sua adesione all'illuminismo, che egli vede come una
continuazione del Rinascimento, si è già precocemente insediata nel suo animo nella primissima
giovinezza, prima ancora che appaia il canto che fra tutti abita vicino alla religione, l’Infinito, che,
forse, ne è paradossalmente il più lontano.
Propongo ora una sintesi esplicativa della Ginestra. L'approfondimento di alcune tematiche,
ormai per noi consuete, e infine la lettura del testo leopardiano e di altri testi.
In punta di piedi entriamo in poesia.
B) La Ginestra, il fiore del deserto, immagine della poesia e del poeta nel mondo.
Suggestioni
E' molto importante collocare il componimento dal punto di vista storico biografico. Nel 1833
Leopardi si trasferisce con il Ranieri a Napoli. Si lascia alle spalle lo sfortunato amore con Fanny
Targioni, le condizioni economiche sono precarie. Vive a Torre del Greco, ospite del Ranieri nella
villa Ferrigni alle falde del Vesuvio.
Il componimento è del 1836, anno in cui ha termine la produzione leopardiana. Con la Ginestra
compone infatti il Canto Il tramonto della luna e la satira mordace I nuovi credenti.
L'anno precedente con l'editore Starita di Napoli aveva concordato l'edizione in sei volumi
dei suoi scritti. Lo Starita stampa la terza edizione delle Operette morali; la censura borbonica
ordina il sequestro sia di queste che dei Canti. Il 14 giugno 1837, l'anno successivo, Leopardi muore
mentre a Napoli scoppia una epidemia di colera assistito dalla sorella Paolina. Il Ranieri a stento
sottrae il cadavere alla fossa comune. Leopardi è sepolto a Fuorigrotta nella Chiesa di san Vitale. La
salma fu traslata a Margellina nel 1938, ma in seguito non fu ritrovata.
La Ginestra Non si conoscono autografi di Leopardi, abbiamo tre copie di mano del Ranieri... Ci sono incertezze
testuali, correzioni e cancellature che fanno pensare a dettatura o ripensamenti dell'autore. Abbiamo
infine la versione dei Canti stampata a Firenze nel 1845 dove non figura "I nuovi credenti"
composizione che spiega il tono polemico della Ginestra, che il Ranieri ritenne opportuno di non
pubblicare, forse contravvenendo alla volontà espressa dal Leopardi stesso.
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Dal punto di vista estetico la composizione rivela l'arte raffinata del Leopardi che riesce a
tenere il verso senza cadute di tono, chiudendo con il verbo in modo ellittico lunghissimi periodi, in
perfetta sintonia con l'argomento e il paesaggio, aspro e grandioso. Il verso è sciolto, con alcune
rime che addolciscono il ritmo liberamente, i versi sono endecasillabi e settenari. I critici discutono
sull'ispirazione; molti mettono in risalto che la poesia è sopraffatta dall'argomentazione tematica e
dalla polemica contro i nuovi cattolici. Ammettono la presenza di squarci poetici, quando si fa
menzione della ginestra in rapporto al vulcano e alla catastrofe dell'eruzione. A noi non resta che
ascoltare il componimento e di sentirlo risuonare nell'orecchio anche se, data la complessità è
opportuno conoscerne dapprima il contenuto, per meglio gustarne tutto l'arco espressivo. Per quello
che ci riguarda il componimento non è di immediata e facile comprensione. Si ha l'impressione di
ritrovare come riassunti nella Ginestra tutti i contenuti della poetica leopardiana, si tratta di un testo
che si presta dunque ad una fitta concordanza; questi elementi sparsi nelle diverse composizioni
poetiche sono qui assunti e quasi trasfigurati in una architettura tesa e complessa, che richiama le
grandi opere lasciate in eredità dai geni: il pensiero va a Dante, Shakespeare, Pascal, Beethoven, per
citarne solo alcuni. Il contenuto, inaccettabile alla luce di una fede autentica, è salutare nei confronti
della fede inautentica e del pensiero compensatorio e illusorio. Seguiamo la numerazione più
accreditata e la suddivisione proposta nell'edizione della BUR (a cura di Franco Brioschi, MI, 7a
edizione, 1998).
Qui su l'arida schiena…(1-50)
Si apre uno scenario maestoso sulle falde del Vesuvio, il poeta si rivolge alla ginestra sparsa intorno
e profumata. Si rammenta d'averla vista tra le rovine di Roma, e di averla trovata compagna di
luoghi tristi, distrutti e deserti. Sotto la lava è sepolta una civiltà annientata dal vulcano; nuovo
accostamento poetico tra la ginestra profumata e le rovine. La scena diventa immagine del mondo,
dell'umanità e della sua storia.
Il poeta invita quanti hanno l'abitudine di esaltare il genere umano a considerare qual è il
trattamento che all’umanità riserva la natura. Basta un sommovimento leggero o poco più intenso
per annullare e addirittura annihilire totalmente gli esseri umani. Cita sarcastico il verso di Terenzio
Mamiani che negli Inni Sacri del 1832 esprime il punto di vista spiritualista ed evangelico
sull’umanità… le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia…(51-86)
Si accentua l'invettiva contro il tempo presente e la sua mentalità, perché ha abbandonato la via
tracciata a fatica dal risorto pensiero del Rinascimento e dell’Illuminismo. Leopardi manifesta il suo
sdegno e la sua avversione per il tempo presente pur sapendo che ciò comporterà l'oblio di sé e della
sua opera. Gli è toccato in sorte di vivere in un tempo che rifiuta la verità smascherante del nuovo
lume con cui veramente si progredisce e chiama fuggitivo chi non illude gli uomini con il discorso
della dignità umana e della salvezza.
Uomo di povero stato…(87-157)
Ritornano i concetti precedenti, sono ragionamenti in forma poetica. La vera grandezza e nobiltà
d’animo non è quella di fingere ma quella di dire la verità: è bensì quella di accettare le sofferenze
della vita e di non aggiungere a quelle che sono inevitabili gli odi e le inimicizie fraterne che sono
invece evitabili; è quella che non incolpa gli altri uomini dei mali di cui vera responsabile è solo la
natura; piuttosto occorre stringersi insieme con compassione per vincer il più possibile i mali che ci
minacciano. Altrimenti si agisce come coloro che, cinti di assedio, litigano tra di loro e cadono in
balia del nemico. Leopardi, fedele al pensiero illuminista, ritiene che i patti sociali siano nati per
contrastare insieme la comune nemica, la natura, e che la convivenza comune debba essere fondata
su civiche virtù e non su favole religiose. Propone in tal modo un'etica centrata sull’uomo.
Sovente in queste rive…(157-201)
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Potente evocazione poetica notturna: il poeta rivela la consuetudine (sempre caro mi fu… sedendo e
mirando) di contemplare lo spettacolo del vulcano, del golfo di Napoli e delle stelle. Le stelle lo
portano a pensieri di infinito, poesia e conoscenza scientifica si mescolano spontaneamente.
Emerge potente la domanda, in questo scenario grandioso e ostile, cos’è l’uomo? Denuncia
l’errore di considerare l'essere umano centro dell’universo e impugna come fosse una favola, il
racconto della discesa sulla terra dei suoi autori; in termini poetici e velati il Leopardi nega
radicalmente la venuta di Cristo, in perfetta corrispondenza con l’uso del versetto di Giovanni da
noi ampiamente considerato. Pone infine in rilievo la contraddizione della sua età storica fatta di
progresso e di regresso insieme, che genera nel suo animo riso e compassione ad un tempo.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo…(202-236)
Un pomo maturo cade dall’albero e schiaccia inesorabilmente il formicaio, in un attimo. Paragone
con l’umanità, posta nella medesima condizione. Travolgente scena dell’eruzione del vulcano e
suggello del paragone tra l’umanità e il formicaio.
Ben mille e ottocento…(237-296)
Ricordo storico dell’eruzione che sommerse Ercolano e Pompei e di cui rimangono tragiche
testimonianze. Il timore degli abitanti del posto è ancora vivo. Leopardi rivela la conoscenza
scientifica dei segni premonitori dell’eruzione e degli effetti della discesa della lava. Il terrore che
suscita il Vulcano si accresce quando l’eruzione è osservata attraverso le precedenti rovine. La
natura sta indifferente e ognor verde (ricordo personalmente l’impressione che mi fecero i prati
verdissimi tra le baracche distrutte di Auschwitz), passano le generazioni e i linguaggi, e l’uomo si
arroga il vanto dell’eternità.
E tu, lenta ginestra,…(297-317)…
Ritorna l’idillio poetico…la ginestra, fiore del deserto, è assimilata all’autentica poesia e
all’autentico pensare, incarna l’animo dello stesso poeta e il suo umanesimo pessimista ed eroico
insieme, distruttivo delle illusioni e costruttivo di un atteggiamento eroico e non rinunciatario.
Anche la ginestra soccomberà al fuoco che avanza, si piegherà innocente ma non renitente, senza
aver codardamente e vigliaccamente piegato il capo dinanzi all’oppressore e nemmeno dopo essersi
fatta da sé orgogliosamente immortale come illusoriamente fanno gli uomini.
C) Leopardi filosofo?
All'esagerata e ormai diffusa espressione che considera il Leopardi come il maggior filosofo italiano
ed europeo dell'Ottocento, può solo contrapporsi l'idea secondo cui il Leopardi è in verità da
considerarsi uno dei grandi pensatori dell'umanità, una incarnazione particolarmente potente
dell'immagine pascaliana della canna pensante.
In un certo senso il nostro poeta preannuncia con intensità unica e con una altezza poetica da tutti
riconosciuta la vicenda drammatica del nihilismo contemporaneo.
Già nell'Infinito, scritto dal poeta poco più che ventenne, appare l'afflato metafisico;
attraverso il superamento del limite visivo, il rumore del vento che agita le foglie, il Leopardi
accede, nell'attimo lirico, all'infinito spazio temporale che con la natura avvolge la storia degli
uomini e accoglie il naufragare dolce dell'io empirico. Infinito, natura, e io si intrecciano
delicatamente nel verso asciutto e musicale, determinando con chiarezza espressiva la trama
idilliaca di ogni autentica dedizione metafisica. Il soggettivismo leopardiano si spalanca
81
consapevole sull'orizzonte dell'universo, la cui percezione è accresciuta da una adesione scientifica
alla struttura del mondo spogliata dai miti e dai misticismi. La nudità leopardiana è accompagnata e
pervasa da un rifiuto dell'esperienza religiosa e dalla adesione al meccanicismo e al materialismo
illuminista. In una parola Leopardi accede ad una trascendenza laica, per via di una intelligenza
primordiale del mondo che lo avvicina ai presocratici (cfr. Il frammento di Anassimandro); allo
stesso tempo Leopardi si decide per la negazione della trascendenza inferita attraverso il finalismo
del mondo o lo spessore ulteriore del proprio io. Analoghi pensieri, con struttura linguistica e
mentalità differente, si agitano nel mondo tedesco a lui contemporaneo, che vede l'affermazione
dell'idealismo e soprattutto di Hegel. In una parola Leopardi non indaga se stesso come luogo di
inferenza e di travalicamento dal visibile all’invisibile, ma solo come punto di partenza del viaggio:
l'autoconsapevolezza gli permette la continua escavazione del mondo metafisicamente inteso come
un tutto reale che basta a se stesso. Il mondo viene ultimamente ridotto a natura che genera e poi
distrugge. Avvertiamo noi che essendo stata praticata la decisione della non esistenza di Dio, questo
è l'unico pensiero veramente possibile. Al laico è possibile vivere ma non è possibile essere
ottimista.
Lo Zibaldone e le Operette morali si collocano nel filone tipicamente italiano ed europeo del
pensiero laico mentre contemporaneamente il Manzoni, con pari consapevolezza concettuale, si
colloca nella tradizione dei credenti. Le due opere leopardiane testimoniano la dedizione di
Leopardi alla filosofia di cui egli poteva agevolmente conoscere le fonti direttamente sui testi
originali. Riceverà addirittura la proposta di tradurre Platone dal greco, declinando l’offerta per
quella che egli considerava una insostenibile fatica; questa operazione realizzata in Germania da
Schleiermacher all'inizio dell'Ottocento e nel primo Rinascimento, in Italia da Marsilio Ficino, ha
creato sempre delle svolte nei percorsi culturali europei, ed è sempre stata vissuta in parallelo con la
traduzione dal greco del Nuovo Testamento. L'atteggiamento di Leopardi nei confronti di Platone
sarà alfine sostanzialmente negativo, in perfetta sintonia con il filone del pensiero europeo iniziatosi
con Bacone e Cartesio.
La lettura dello Zibaldone e delle Operette è sufficiente ad indicare il grande lavoro,
erudito, del Leopardi, in campo filosofico, a partire dalle letture disordinate che segnano il suo
distacco dalla fede religiosa per approdare alle riflessioni più penetranti e meditate della maturità; in
ogni caso egli addiviene alla caratteristica posizione, come dicevamo precedentemente,
meccanicistica e materialistica della vita. Ma nella ricerca leopardiana è dato di osservare qualcosa
di più profondo ed abissale, come il tentativo di mettere in discussione il principio di identità e il
tentativo di sostenere la derivazione del mondo dal nulla se non l’affermazione del solido nulla che
caratterizza le cose, la loro radicale insignificanza. Affermazioni oggi abbondantemente riprese e
quasi di moda nella filosofia dotta che transita da Leopardi e da Nietzsche. Affermazioni che
valgono per descrivere cosa accade nella mente, libera comunque, dell’uomo e
contemporaneamente prigioniera di una volontà di non affermare il divino. La decisione per il nulla
che richiama positivamente Heidegger, non ha alcun valore per i pensatori autentici per i quali
esistono solo realtà esistenti o possibili.
Si può notare che in Leopardi prevale il peso della cultura illuminista accompagnato da un
disincantato atteggiamento nei confronti della storia e della natura; ma comunque traspare l'assillo
metafisico della situazione assurda dell'uomo che cerca un senso alle cose e non lo trova. La cifra
dominante è quella della disillusione e dell'angoscia (Canto notturno…). Il permanere nell’uomo
dell’immaginazione, del cuore, della poesia contemplativa ed idilliaca, indica con sufficienza che
l’abisso nichilista è evocato ma non percorribile radicalmente. Se un senso religioso può essere
attribuito alla vicenda leopardiana qui è il suo luogo applicativo. Questo forse spiega perché il
Leopardi acceda alla sfera suicidaria e poi la neghi.
Leopardi: un occhio metafisico insufficiente per penetrare nella dimensione che diventa
pregiudiziale, quella che potremmo definire la via dell'interiorità? Che cosa impedisce al Leopardi
di rintracciare in ogni suo pensiero la solidità indiscutibile dell'interiorità e della spiritualità? La sua
situazione di salute? La disastrosa esperienza affettiva, emotiva e sessuale? L'acerba e triste
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relazione con la madre e con il padre? Il senso di continua frustrazione dinanzi all'indifferenza nei
confronti del suo genio? Una forma di radicale risentimento? L’amore non corrisposto? Una
decisione? Come può decidere un genio che Dio non esiste? I commentatori rintracciano una
traiettoria evolutiva nel pensiero leopardiano in particolare nel suo modo di analizzare la ragione
umana considerata nella sua evoluzione storica. Egli sviluppa l'equazione tra illusione giovanile, è
l'illusione della felicità, e l'ingenuità mitica degli antichi. Egli è consapevole che la ragione
disincantata non produce un miglioramento del modo di vivere, perché pone l'uomo di fronte alla
crudeltà dell'esistenza. E’ ragionevole affermare che l’uomo è radicalmente infelice e non in
ragione della sua situazione di salute o di vita ma in quanto semplicemente esistente. Diviene logico
pensare alla morte come al vero rimedio del male di vivere, mentre il pensiero dell’immortalità e
del giudizio accrescono maggiormente la sofferenza della vita. E' il momento del pensiero
leopardiano che accede all'essere e non essere del suicidio (Dialogo tra Porfirio e Plotino) negato
non in ragione di una proibizione divina o dell'inganno platonico dietro il quale Leopardi maschera
il cristianesimo per evitare la censura, ma per il prevalere della compassione umana e dell'eroica
decisione di vivere ugualmente, accomunati dalla medesima sorte. In questo senso la Ginestra
costituisce una vera sintesi del travaglio leopardiano nonostante sia disturbata dalla polemica con i
nuovi credenti già abbondantemente da noi considerata.
Resta comunque il fatto incredibile per il lettore, e cioè la tessitura sublime del verso
leopardiano, la grandezza poetica, l'onestà intellettuale, il ruolo decisivo nella storia della nostra
cultura, ma anche la sua dovuta superabilità; a condizione di farci partecipi della sua vicenda
umana e poetica, uscendo dalle facili assimilazioni e dai falsi irenismi, a condizione infine di
praticare una dedizione alla verità pari alla grandezza del suo genio.
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AAppppeennddiiccee 66
5 dicembre 2006
A) Un secolo senza padre? Filosofia e teologia del XX secolo
meraviglia e gioia: "Dio è morto e il nostro mare è di nuovo aperto, forse non ci fu mai un mare così aperto" angoscia e sconcerto:
"Ma come abbiamo potuto fare ciò? Come potemmo bere tutto il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando staccammo la terra dalla catena del suo Sole? In quale direzione ora ci muoviamo? Non precipitiamo noi continuamente? Indietro, da un lato, davanti, da tutte le parti? C’è ancora un altro e un basso? Non voliamo come attraverso un nulla senza fine? Non soffia su di noi lo spazio vuoto?… Dio è morto, Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!"
(Nietzsche, La gaia scienza, p.129, Adelphi)85
Il compito che mi assumo è quello di rispondere sinteticamente a tre domande. La prima è
già indicata con il punto di domanda: il XX secolo è davvero il secolo della morte di Dio,
dell’annullamento definitivo del valore dell’autorità, dei principi, dei valori della tradizione, è
davvero il tempo storico del nichilismo, dell’assenza di riferimenti o di criteri per vivere che non
siano la nuda affermazione dell’arbitrio umano di fronte all’indeterminazione della nuda possibilità
al suo limite e alle sue limitate capacità? La domanda come potete immaginare pervade soprattutto
il grande fenomeno culturale che ha ricevuto il suo avvio storico nelle teorie psicanalitiche di Freud
ma caratterizza altresì il pensiero dei grandi epigoni della modernità; oltre a Freud, Nietzsche, come
ha acutamente osservato un contemporaneo come Thomas Mann, e inoltre Feuerbach, Marx, tutto il
filone di maestri e profeti del sospetto il cui pensiero e le cui idee sembrano davvero dominanti nel
XX secolo. Maestri e profeti del sospetto hanno prospettato una radicale alternativa, almeno in
85 La morte di Dio è un concetto filosofico formulato da Nietzsche. Si configura, per Nietzsche, come una realtà teorica e storica al
tempo stesso, che non fonda cioè le sue radici solamente su un convincimento ideale e personale del filosofo, bensì su una vera e
propria realtà di fatto, ovvero sulla fine di tutte le illusioni dell’essere umano, alla quale gli uomini cercano di far fronte creandosi dei
sostituti, quali idoli e miti di varia natura e di varia specie, che diano un senso alla vita ma anche alla morte, in modo che ognuno si
veda e si senta realmente ricompensato delle proprie fatiche, delle rinunce e degli affanni, immaginandosi di venire un giorno
ripagato e premiato nell'oltre-vita e nell'oltre-mondo, ovvero nell’aldilà. Essa assume inoltre la portata di un evento epocale e
caratterizzante che, oltre ad aver influito su buona parte del pensiero del filosofo, coincide anche con la perdita di tutte quelle
certezze, che, con la loro crisi, hanno fatto cadere l’umanità stessa nel dubbio e nell’incertezza. Infatti è il mondo stesso – col suo
caos, il suo disordine e la progressiva mancanza di punti fissi che gettano su tutto l’ombra del relativismo – a giustificare il fatto che
Dio non esiste più e che oggettivamente non può più esistere, in un ambiente così corrotto e degenerato. Di qui la presa di coscienza
di Nietzsche, che fa del suo indubitabile ateismo quasi una parola d’ordine, il quale si configura al tempo stesso anche come denuncia
del carattere "alienante" di ogni professione religiosa, questione a suo tempo già formulata e dibattuta da Feuerbach. Ne La gaia
scienza, la morte di Dio viene annunciata da un uomo folle, che giunge tra gli uomini ad avvisarli di questo avvenimento così
importante, e spingendoli a creare il Superuomo per riempire il vuoto lasciato da questo avvenimento, causato da tutti gli uomini. Gli
uomini, infatti, hanno ucciso Dio, che rappresenta le certezze assolute che finora avevano mantenuto gli uomini lontano
dall'incertezza propria dell'età moderna. Ma il folle si accorge di essere giunto in anticipo: questa notizia non era ancora arrivata in
quei luoghi. Naturalmente questa metafora nasconde molti significati nascosti, molti concetti molto profondi. Il tema della morte di
Dio intesa come eliminazione di una legge sovraumana sarà trattato anche in Così parlò Zarathustra, rappresentato questa volta dal
drago chiamato "tu devi". Nell'annuncio della morte di Dio, poi, viene esposto già il concetto di superuomo, che deve creare delle leggi proprie per sostituire quelle del Dio oramai morto
creature della Genesi per passare poi attraverso la metafisica degli enti in rapporto di analogia con
l’essere, ciò che costituisce l’impianto della filosofia tradizionale, il presupposto del dominio sugli
enti e l’affermazione distruttiva della tecnica o teknè di cui le guerre, la bomba atomica, la
manipolazione genetica diventano espressioni problematiche oltre che assillanti. Salvo poi che gli
stessi condannano la posizione della Chiesa nel campo delle tecniche sessuali e la manipolazione
genetica, introducendo qui il principio della libertà.
Come è facile avvertire accediamo ad una specie di complessità tematica ancora in grande
turbolenza all’inizio del XXI secolo.
A questa serie di pensieri si oppone, solo apparentemente, E. Severino ormai quiescente,
dell’Università di Venezia, bresciano, ex cattolico sedicente cattolico. Egli infatti accetta la critica
Nietzschiana e Heidegegriana che comporta la critica alla tradizione filosofica d’Occidente con
l’eccezione assoluta e rigorosa di Parmenide. Il ritorno a Parmenide, al principio dei principi che è
l’Essere, lo iscrive, apparentemente a mio avviso, nella schiera dei pensatori forti che affermano
cioè l’esistenza di una verità definitiva e di un orizzonte di costante definitività di ciò che noi
consideriamo come limitato, mutevole e relativo. Di fatto appare come un radicale relativizzatore,
della metafisica tradizionale e soprattutto del cristianesimo.
Come è facile avvertire, rispondendo alla prima domanda che con artificio ci siamo posti un
secolo senza padre? Abbiamo già apparecchiato alla luce di una conclusione la risposta alle altre
due: quali sono le principali correnti filosofiche e teologiche del XX secolo? Si può davvero ridurre
l’esito di un pensiero ad una contrapposizione così netta o ci sono altre ragioni da esplorare.
Crrcherò di rispondere in sintesi.
B) Filosofia del XX secolo
Indirizzi filosofici
Sulla scorta di quanto già affermato possiamo dire che la filosofia non è mai stata studiata,
scritta, proclamata, come nel XX secolo e mai come nel XX secolo è stata in diversi modi
l’espressione di una crisi epocale nella quale pessimismo e ottimismo si combattono ancora oggi
strenuamente. Se da una parte sulla spinta del pensiero illuministico, (ma diciamo noi sulla spinta
del pensiero antico e cristiano) è fuori discussione la rivendicazione dell’autonomia, e dunque della
dignità, del pensiero, bisogna anche dire che è diffusa a diverso livello una sorte di
autodelimitazione del sapere entro un ambito mondano e critico, se non addirittura una presa di
coscienza della precarietà della ragione. La cosa si chiarisce ricostruendo a questo punto una specie
di sviluppo cronologico delle dottrine filosofiche nel XX secolo.
La filosofia della scienza, fare filosofia con metodo scientifico…
L’enorme sviluppo del sapere scientifico e della teologia ha generato (fin da Cartesio e
soprattutto con Kant) una complessa filosofia della scienza volta a fondare il rigore logico della
ricerca; tale ricerca ha cercato di estendere le proprie considerazioni ha tutta la realtà mondana,
umana e morale.
Bisogna anche affermare che lo sviluppo delle scienze umane (psicologia, sociologia,
antropologia, etnologia ecc) ha ridotto sempre più le pretese specifiche della filosofia sottraendole
forse definitivamente spazi tradizionali. Da una lato prolificano all’inverosimile le scienze
particolari e la frammentazione del sapere ha messo definitivamente in crisi la concezione
aristotelica di una sapienza organizzatrice, crisi che caratterizza inevitabilmente i nostri mondi
universitari
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Filosofia nella scienza - Neopositivismo
Dobbiamo citare, oltre al già richiamato Popper, i neopositivisti logici e analisti del Circolo
di Vienna. In rapporto con Oxford, con innumerevoli centri di studi Europei e Americani.
Neokantismo Il recupero della filosofia di Kant nel circolo di Marburg e nelle università tedesche.
Fenomenologia
Uno spazio particolare occupa la Fenomenologia di Husserl, filosofo rigoroso proveniente
dalla matematica e dallo studio del numero, per accedere con metodo rigoroso alla determinazione
dell’essenza di ciò che accade e di ciò che esiste. Dalla Fenomenologia derivano per sviluppo
autonomo M. Heidegger, già citato che riapre il senso dell’esistenza alla luce della ricerca
dell’Essere, Max Scheler ed E Stein che si fanno espressione della insopprimibilità della ricerca del
divino a partire dalla ricerca di un rigore filosofico. Quest’ultima oltre ad operare una riscoperta di
san Tomma so da’Aquino approda alla tragedia di Auschwitz. Appartengono al filone
fenomenologico, che ebbe grande influsso in Germania e in tutta l’Europa, i pensatori francesi
Merlau Ponty, Deridda, Deleuze.
Filosofia ebraica
Un filone di interessante vitalità è quello del pensiero ebraico che ad un certo punto della
storia appare dominato alla Shoa e dalla visione di una crudeltà senza riparo. La filosofia ebraica
attinge fortemente alla tradizione biblica e rabbinica e ha codificato profonde riflessioni circa il
valore della persona umana, del dialogo, alle esigenze di trascendenza e di universalità. Dobbiamo
citrare M. Buber, Levinas, Jonas, Rosenzweig, Abraham Heschel.
La metapsicologia di Freud
Tra i pensatori Ebrei che hanno esercitato un influsso straordinario sulla nostra epoca non
possiamo certamente dimenticare S. Freud il quale intese penetrare con metodo positivista la psiche
degli esseri umani con il preciso desiderio di costruire una interpretazione universale della società
in chiave psicanalitica. Freud parte dalla constatazione universale del conflitto in cui versa ogni
uomo per addivenire ad una soluzione in chiave mondana, terapeutica. L’influsso della psicanalisi
su tutta la cultura del tempo è davvero decisivo e gli effetti sono certamente perduranti.
Esistenzialismo
L’urgenza di temi storici sovrastanti come le due guerre mondiali genera due guerre la
complessa corrente dell’esistenzialismo che si lascia ispirare da Pascal e Kirkegaard, e che
rivendica l’assoluta preminenza dell’individuo e del suo dramma di vivere dinanzi alla complessità
del mondo. L’elemento religioso affermato come esigenza e nostalgia, e più spesso negato, è nota
caratteristica. Citiamo A. Camus e JP Sartre il cui influsso nella cultura, nell’arte e nel costume del
dopoguerra fu molto forte. In Italia partecipano del filone esistenzialista l’influsso del pensiero di
Abbagnano, Paci, Chiodi, Sini, che manifestano nella tradizione italiana del pensiero gentiliano e
Crociano l’istanza metafisica.
Il marxismo
Un discorso a parte merita il marxismo che può considerarsi con la psicoanalisi freudiana
il fattore ideologico dominante fino agli anni ottanta, anni che hanno segnato la definitiva, sebbene
piena di contraddizioni, vittoria dell’economia del libero mercato e delle democrazie nelle
prospettive politiche e sociali dell’umanità. Il marxismo è un fenomeno complesso poiché
strettamente collegato alla realtà storica della rivoluzione industriale e alle diverse accentuazioni
che ha ricevuto in Russia, in Cina, nei paesi del blocco sovietico, in Europa, in America latina,
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dell’America del Nord. L’oscillazione è tra formule ortodosse legate all’esperienza trainante della
Russia bolscevica e in seguito nella Cina di Mao Tse tung, alle forme più elaborate e critiche
dell’Occidente, in Italia, Spagna, Francia e Germania. Di fatto il marxismo procede da una critica
radicale della tradizione sancita dalla religione e propone l’evento del proletariato e la relativa
uguaglianza come processo storico necessario ed inevitabile, addirittura scientifico. Il modo di
raggiungere questo scopo tende a dividere gli appartenenti al movimento marxista tra riformatori e
rivoluzionari. Fu questo il problema del fondatore del partito comunista italiano Antonio Gramsci
che considerò necessaria e fondamentale l’attività culturale di formazione del nuovo assetto
politico. Il marxismo infatti attribuisce per tradizione una grande rilevanza alla cultura, intesa come
paideia, e visse la sua stagione aurea nella sua lotta contro il nazismo e la resistenza, sebbene
mancò in tempo reale di una puntuale critica al comunismo storico.
La scuola di Francoforte
Nell’area del cosiddetto pensiero di sinistra si iscrive la scuola di Francoforte con la sua teoria
critica che intende costruire un metodo dell’intelligenza, ispirato da marxismo e psicanalisi,
nell’analizzare i grandi fatti storici e politici. I pensatori di Francoforte, Adorno, Marcuse
Horkheimer furono eletti da milioni di giovani nell’epoca della rivoluzione breve del sessantotto,
prima che il marxismo con la caduta del muro di Berlino piombasse nella sua crisi irreparabile.
C) Teologia del XX secolo
Contrariamente a quanto si è detto per la filosofia, che sembra consegnare alla storia un
faticoso zero, è necessario affermare che la teologia del XX secolo intesa come riflessione e
pensiero all’interno della fede cristiana ha conosciuto uno straordinario sviluppo con esiti costruttivi
molto elevati e ancora in corso di affermazione. Il vero problema della teologia è che la fede non è
una esperienza programmabile, prevedibile, facilmente organizzabile. Nel presupposto della fede
consiste tutta la straordinaria ricchezza e il grande limite della teologica. Per questo il nostro
discorso richiederebbe di essere introdotto da una riflessione rigorosa su cosa significhi davvero
credere e come attraverso la conversione personale, dono della grazia, la fede diventi una esperienza
significativa.
Questo detto dobbiamo affermare che i convertiti del XX secolo hanno creato una
controtendenza davvero straordinaria al secolo senza padre, affermando con estrema convinzione di
aver incontrato il Padre, Dio. Richiamo per questo alcuni nomi significativi tra gli altri: Charles de
Foucauld, Thonas Merton, Jacques e e Raissa Maritain, Paul Claudel, Henry Bergson, Edith Stein,
don Milani, S.Bulghakov Allo stesso tempo dobbiamo anche riflettere sulla presenza di eminenti
personalità religiose nel XX secolo che hanno saputo valutare e orientare il secolo nel quale hanno
vissuto alla luce della fede. Qui è d’obbligo citare Madre Teresa, Gandhi, A.Schweitzer, Luter
King, De Gasperi ecc. Tra queste figure è davvero emergente per consistenza teologica, culturale e
morale la figura dei romani pontefici. Da leone XIII fino ai nostri giorni.
Infine dobbiamo dire che la teologia con i suoi maggiori esponenti, le sue scuole, le sue
produzioni avverte chiaramente, ancora oggi, la debolezza dell’apporto filosofico, dopo le stagioni
della concordanza con la struttura del pensiero antico e che il rapporto con la cultura moderna la
segna decisamente nella sua profondità ma anche nelle sue oscillazioni, retaggio del pensiero
dell’ottocento e dell’illuminismo.
Per poter considerare più da vicino il fenomeno della teologia del XX secolo in particolare il
suo rapporto con la modernità occorre distinguere tre grandi aree di esercizio della scienza teologica
che pur entrando in denso contatto tra di loro nondimeno si distinguono per le loro peculiarità. Mi
riferisco alla teologia di fratelli, Protestanti, Ortodossi e infine alla Teologia cattolica.
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Teologia Protestante
La teologia protestante mantiene anche nel XX secolo la sua forte ispirazione biblica
secondo l’adagio luterano della sola scriptura. Dopo la stagione della critica liberale del XVIII
secolo che applica ai testi biblici i metodi della esegesi scientifica con effetti talvolta riduttivi, la
teologia protestante è ancora oggi determinata nel bene e nel male dal peso di una cultura che ha
segnato decisamente, oltre alla Germania tutto l’Occidente, almeno fino alla seconda guerra
mondiale. La Germania di Goethe, Kant, Hegel, Dilthey, Nietzsche, Mann, mantiene una presa
micidiale sul pensiero filosofico e teologico.. Il filosofo emergente K.Barth ha proposto una
teologia dialettica che si lascia interpellare direttamente dalla Parola senza sovrastrutture filosofiche
e ripristina la concezione biblica dell’uomo ascoltatore, dell’uditore della parola. La polemica
contro la filosofia immanentista della tradizione tedesca e contro la tradizione sistematica dei
cattolici, è sancita in K.Barth dall’idea che bisogna distinguere tra fede e religione, tra analogia
entis e analogia fidei. E’ nell’ambito di questo indirizzo fortemente implicante e libertario che si
situano le grandi esperienze di Bonhoeffer e dei resistenti tedeschi al nazismo. I contributi
protestanti alla teologia sono anche fortemente orientati a dimostrare la valenza storica del
cristianesimo in ordine anche ai problemi politici e sociali rivalutandone la matrice cristologia. Tra i
teologi di questo indirizzo dobbiamo ricordare particolarmente Pannenberg, Tillich, Moltmann,
O.Culmann, ecc. Il particolare assetto delle Università tedesche, nelle quali sono presenti due
facoltà teologiche, una Cattolica e una Protestante, ha permesso una fitta simbiosi tra le due
posizioni di pensiero a volte contraddittoria e talvolta fruttuosa.
Teologia Ortodossa
La teologia ortodossa del XX secolo è fortemente vincolata e anche paradossalmente
stimolata dagli eventi della Rivoluzione d’Ottobre e dalla stato di persecuzione o di sottomissione
con il potere politico. Gli esuli ortodossi ebbero un ruolo decisivo sia in Francia che in America e
seppero diffondere con originalità di sviluppi alcune prospettive teologiche dell’ortodossia.
Davvero originali e struggenti le testimonianze di Pavel.Florenskji vittima del lager sovietico e
Sergej Bulgakhov ispiratore della scuola di san Sergio di Parigi, convertito nei primi anni del
novecento dopo avere aderito al marxismo russo della prima ora. Una vena di nazionalismo pervade
la speculazione russa che afferma di essere portata a sanare le contraddizioni atee materialistiche
dell’occidente nichilista valorizzando l’animo russo naturaliter cristiano; è tipico dei pensatori russi
rifiutare la distinzione tra filosofia e teologia e l’affermazione del significato kenotico del divino
nella storia. Occorre sottolineare anche una venatura escatologico-apocalittica prefigurata da
Solovev o da Dostoevskji, L’importanza attribuita alla Divina Liturgia alla bellezza iconografia
attirano fortemente acnhe oggi le altre confessioni cristiane.. L’Ortodossia vive comunque una
drammatica situazione nel post comunismo forse smarrita dinanzi alle prospettive future
dell’umanità.
Teologia Cattolica
La teologia Cattolica merita davvero un discorso del tutto particolare; essa ha conosciuto, non senza
fitte comunicazioni con i fratelli separati, una intensa fioritura, degna delle epoche storiche auree
del pensiero cristiano. E’ utile sottolineare in sintesi alcuni aspetti peculiari.
1. La prima grande peculiarità è la presenza di un magistero di alto livello espresso
soprattutto dai romani Pontefici. Determinante è stato l’impulso di Leone XIII con
l’Enciclia Aeterni Patris del 1879, documento chiave della vita culturale dei cattolici,
nel quale il pontefice promuove un intenso e per certi aspetti imprevedibile percorso
che conduce fino ai nostri giorni. L’idea portante dal punto di vista della Tradizione
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è il recupero della tradizione storica del pensiero cristiano dei Padri e soprattutto del
pensiero di san Tommaso d’Aquino. Dal punto di vista speculativo l’idea portante,
sempre ispirata a san Tommaso, è l’armonia e la solidarietà tra ragione e fede.
Nell’intenzione del Papa tale distinzione convergente genera una vera e propria
filosofia cristiana. Ma ciò che fu davvero decisivo è la politica ecclesiale ispirata
all’Enciclica: ovunque sorgono accademie, centri di studi, facoltà.
2. La prima parte del XX secolo è dominata dalla questione del modernismo; la Chiesa
Cattolica pur tra mille fraintendimenti ed eccessi, intese far fronte all’immanentismo
del pensiero moderno e al suo influsso sulla stessa teologia. Progressivamente e non
senza fatica il rapporto con il pensiero tedesco, riedito in Italia da pensatori come
Croce e Gentile, diventò un aspetto dominante della ricerca cattolica sia in campo
teologico che filosofico. Da questo punto di vista gli anni trenta segnano uno
sviluppo davvero decisivo. Il movimento tomista affermatosi con l’Enciclica
Aetrerni Patris diventa progressivamente il presupposto di un’apertura e di un
progresso di ampio respiro, di cui oggi la teologia vive.
3. I primi segni di aggiornamento del pensiero cristiano si manifestano nell’ambito
specifico della Liturgia, nel modo di affrontare la lettura dei testi Sacri, ma appaiono
anche formidabili le istanze sociali e politiche spesso sollecitate dagli eventi del
momento. Tematiche quali la guerra la pace, il sottosviluppo, il rapporto con il
marxismo, con la sessualità, la corporeità ecc divengono sempre più argomento
teologico. Si può dire che la teologia cattolica passa da posizioni teoretiche rigorose
a visioni dove entra la storia con la sua vivacità.
4. L’evento davvero decisivo dal punto di vista ecclesiale, soprattutto teologico, si deve
considerare il Concilio vaticano II, vero punto di riferimento per il pensiero e
l’attività della Chiesa nella seconda metà del novecento. Le critiche rivolte al
Concilio, sempre più diffuse per le sue pretese aperture al mondo moderno sono
segno di riflusso e di incapacità di compimento, atteggiamenti oggi variamente
diffusi nella Chiesa.
5. Infine è necessario avvertire che nel mondo cattolico accanto a posizioni
teologicamente rinchiuse e antagoniste rispetto alla modernità, si è mantenuta viva e
vivace l’attività filosofica, una vera e propria filosofia cristiana, sebbene il mondo
laico non la consideri filosofia, considerandola una propaggine della fede.
Il pensiero cattolico nomina alla fine del XX secolo soprattutto pensatori come Rahner, Balthasar,
Paolo VI, J. Maritain, E. Gilson, i viventi J. Ratzinger, C. M. Martini per tralasciare in questo modo
una schiera di pensatori e teologi, innumerevoli di grande valore, con le loro scuole e le loro
ricchissime pubblicazioni.
Conclusione
Un secolo di grande fervore filosofico e teologico che si misura con una realtà in grande
trasformazione che tende ad eclissare i valori e le conoscenze profonde. Una lotta il cui esito è
ancora da leggere e da decifrare. Chi ha parlato è un ottimista, tragico: niente è senza lotta.
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AAppppeennddiiccee 77 www.filosofico.net/nie28.htm - 15k F.W. Nietzsche,“GENEALOGIA DELLA MORALE”
Composta da Nietzsche nell'estate del 1887 e pubblicata agli inizi dell'inverno di quello stesso anno,
la "Genealogia della morale" nacque come scritto polemico, presentandosi all'insegna di una
consapevole provocazione. Alcune delle più controverse teorie sociali di Nietzsche, come per
esempio la contrapposizione fra morale dei signori e morale del gregge, vengono ampiamente
esposte e argomentate in questo libro. Ma ogni riferimento sociale rimarrebbe opaco se non lo si
connettesse al suo presupposto "metafisico": l'indagine sull' "origine dei nostri pregiudizi morali"
presuppone l'interrogativo sull' "origine del male", a cui Nietzsche dichiara di essersi dedicato sin
dal suo "primo gioco d'infanzia letterario": "a quel tempo, ebbene, com'é logico, resi l'onore a Dio e
feci di lui il padre del male". Nietzsche sapeva benissimo che questo suo scritto sarebbe suonato
"urtante all'orecchio". Ma sapeva anche che, nella sua epoca come nella nostra, questo é inevitabile
per ogni ricerca che metta radicalmente in questione la bontà dei buoni sentimenti e si offra quale
amaro antidoto alle perorazioni di coloro che "a quel che pretendono non danno il nome di rivalsa,
bensì di 'trionfo della giustizia'". In quanto tale, con tutte le sue contraddizioni e dolorose tensioni,
la "Genealogia della morale" rimane un saggio prezioso. La "Genealogia della morale", come
accennato, fu concepita e presentata da Nietzsche come un'integrazione e un chiarimento rispetto
alle tesi enunciate in "Al di là del bene e del male", pubblicato l'anno precedente. E' lo scritto con il
quale Nietzsche conclude il periodo della sua battaglia contro la morale occidentale e cristiana,
iniziata con "Umano, troppo umano". Rispetto ai primi scritti di questo periodo, costruiti come
raccolte di aforismi, la Genealogia della morale presenta una maggiore sistematicità e un andamento
più argomentativo. Essa risulta infatti articolata in tre dissertazioni, ciascuna con un proprio titolo,
e, precisamente: 1 ) buono e malvagio, buono e cattivo; 2 ) colpa, cattiva coscienza e simili; 3 ) che
significano gli ideali ascetici? Il primo effetto prodotto dalla cattiva coscienza consiste
nell'interpretare in chiave morale i propri istinti animali e, quindi, come cattivi, ossia costituenti di
per sè una colpa, in quanto sarebbero contrastanti con la volontà di Dio. Il positivo viene così
interamente spostato fuori di sè e della propria natura e riconosciuto solo i Dio, mentre tutto ciò che
é umano, compresi se stessi e la propria natura, diventa il negativo. Tra questi due poli si instaura
una distanza incolmabile, sulla quale si fondano le nozioni di inferno e di pena eterna. Alla radice di
queste operazioni Nietzsche vede una volontà inconsapevole di crudeltà, che raggiunge il suo apice
proprio quando é rivolta contro se stessi: qui si radica la "volontà di pensarsi castigato"
eternamente, senza mai poter scontare interamente e definitivamente da sè la colpa, con la
conseguenza che l'esistenza e l'uomo stesso vengono spogliati di ogni valore, per identificare il
valore stesso con Dio. E strettamente connesso a queste argomentazioni é l'ascetismo, che si basa
sul presupposto di concepire l'uomo come un essere imperfetto e incompleto, mancante di qualcosa.
Ciò significa che l'uomo non ha in se stesso la giustificazione della propria esistenza, ma deve
cercarla altrove, fuori di sè e soltanto fuori di sè: nella negazione di se stesso può trovare un
significato per la propria vita. L'ascetismo agli occhi di Nietzsche presenta solo un aspetto positivo:
l'aver dato un senso alla sofferenza, che é un dato ineliminabile, ma che appare assurdo e privo di
senso a colui che soffre. Come intuibile, con la "Genealogia della morale" Nietzsche si impegna con
una nuova profondità a rovesciare tutti gli apprezzamenti di valore già dati nella tradizione europea.
In particolare, la morale platonico-cristiana, con i suoi valori di compassione, umiltà, rassegnazione
e uguaglianza appiattita sul livello dei più deboli e rinunciatari, viene stigmatizzata come "morale
degli schiavi" , che dicono un "no" secco alla vita, e del risentimento contro le virtù praticate
positivamente dagli aristocratici (magnanimità, coraggio, capacità di eccedere e di donare). In quest'
opera c'è poi un riavvicinamento a Schopenauer. Infatti nella prefazione egli dice: "...il mio grande
91
maestro Schopenhauer". La parentela del nuovo principio filosofico della "volontà di potenza" con
il principio schopenhaueriano della "volontà di vivere" è evidente e indiscutibile (e lo dice
Nietzsche stesso). La prima si presenta anzi come una variante della seconda. In entrambi i casi si
tratta di una sostanza irrazionale, che è in noi. La differenza rispetto a questa sostanza si riduce al
fatto che Schopenhauer la rifiuta e vuole negarla, Nietzsche invece l'accetta e vuole affermarla. In
quest'opera cominciano a delinearsi gli argomenti e le tesi contro la scienza. [...] Mentre ogni
morale aristocratica nasce da una trionfale affermazione di sé, la morale degli schiavi oppone sin
dal principio un no a ciò che non fa parte di essa, a ciò che è differente da sé ed è il suo non-io; e
tale è il suo atto creatore. Questo capovolgimento del colpo d'occhio valutativo, questo punto di
vista che si ispira necessariamente all'esterno invece di fondarsi su se stesso, appartiene in proprio
al risentimento. Della "Genealogia della morale" ce ne parla Nietzsche stesso in "Ecce homo", la
sua autobiografia: "Le tre dissertazioni di cui é composta questa genealogia sono forse, per quel
che riguarda l'espressione, le intenzioni e l'arte della sorpresa, ciò che di più inquietante é stato
scritto finora. Dioniso é, si sa, anche il dio dell'oscurità. Tutte le volte, un principio che si deve
indurre in errore, freddo, scientifico, perfino ironico, messo in rilievo con intenzione, tirato in
lungo con intenzione. A poco a poco l'agitazione cresce: guizzano singoli lampi; da lontano, delle
verità molto spiacevoli si fanno sentire con un cupo brontolìo; finchè da ultimo si arriva ad un
tempo feroce in cui ogni cosa incalza con una formidabile tensione. In chiusura, tutte le volte, fra
denotazioni spaventose appare tra dense nubi una nuova verità. La verità della prima dissertazione
é la psicologia del cristianesimo: l'origine del cristianesimo dallo spirito del risentimento e non,
come si crede generalmente, dallo spirito; per sua natura, un movimento di reazione, la grande
sollevazione contro il dominio di valori nobili. La seconda dissertazione dà la psicologia della
coscienza: la quale non é, come generalmente si crede, la voce di dio nell'uomo, ma é l'istinto della
crudeltà che, poichè non gli é più possibile di sfogarsi all'esterno, si rivolta indentro. La crudeltà é
mostrata qui per la prima volta come uno dei più antichi e più necessari fondamenti della civiltà.
La terza dissertazione risolve il problema donde venga l'immensa potenza dell'ideale ascetico,
dell'ideale del prete, sebbene esso sia l'ideale dannoso per eccellenza, un'aspirazione alla fine, un
ideale di decadenza. Risposta: non perchè, come generalmente si crede, dio agisca dietro il
sacerdote, ma 'faute e mieux', perchè finora fu l'unico ideale, perchè non ha avuto concorrenti.
Poichè l'uomo preferisce di volere il Nulla piuttosto che non volere nulla... Soprattutto, mancava un
controideale, fino a Zarathustra. Sono stato compreso? Tre importanti studi preparatori d'uno
psicologo, per un'inversione di tutti i valori. Questo libro contiene la prima psicologia del prete".
Nella "Genealogia della morale" Nietzsche ne approfitta per trattare un tema che riprenderà poi
nell'Anticristo: il tema, come accennavamo, del senso di colpa, del doversi ad ogni costo sentire
colpevoli di fronte ad un Dio creatore della morale: "Si sarà già intuito che i criteri di valutazione
dei sacerdoti possono facilmente separarsi da quelli cavalleresco - aristocratici, fino a diventare il
loro opposto. I giudizi di valore cavalleresco - aristocratici presuppongono una prestanza fisica,
una salute florida, ricca, debordante e insieme tutto ciò che ne condiziona il mantenimento, guerra,
avventura, caccia, danza, tornei, insomma tutto quello che comporta una vita attiva, forte, libera,
serena. I criteri di valutazione sacerdotali hanno altri presupposti. ..C'è qualcosa di malsano in
queste aristocrazie sacerdotali e nelle abitudini che le dominano, aliene all'azione, parte
sentimentalmente esplosive e parte malinconicamente assopite, qualcosa la cui conseguenza pare
essere quella nevrastenia e quella cagionevolezza intestinale che sembra inevitabilmente endemica
tra i sacerdoti di ogni tempo... I sacerdoti sono, come è noto, i nemici più crudeli. E per quale
ragione poi? Perché sono i più impotenti. L'impotenza genera in loro un odio che arriva a
diventare mostruoso e sinistro, spiritualissimo e tossico al massimo grado. Nella storia universale
coloro che più degli altri sono stati capaci di odio, e di genialità nell'odio, sono sempre stati i preti
- a paragone della genialità della vendetta sacerdotale, ogni altra dote intellettuale può appena
essere presa in considerazione. ..gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che non ritenne di aver ricevuto
la dovuta soddisfazione dai propri nemici e sopraffattori, se non dopo averne radicalmente
ribaltato i valori, cioè solo grazie ad un atto della più spirituale vendetta. Sono stati gli Ebrei che
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hanno osato ribaltare e mantenere, stringendo i denti dell'odio più abissale (l'odio dell'impotenza),
l'equazione aristocratica di valore buono = aristocratico in "i miserabili solo sono i buoni, i poveri,
gli impotenti, i sofferenti, gli indigenti, i malati, i brutti sono gli unici ad essere pii, beati in Dio,
solo a loro è concessa la beatitudine - là dove voi, al contrario - voi, nobili e potenti, voi sarete per
l'eternità i malvagi, i crudeli, i corrotti, gli insaziabili, gli empi, e sarete anche per l'eternità
infelici, dannati e maledetti" (Genealogia della morale, 8). Il Dio originario degli Ebrei è la naturale
espressione della potenza del popolo ebraico ed è pertanto concepito antropomorficamente come
padre e come re, potente e vendicativo. Ma nel tempo questa potenza viene meno e a man mano che
Dio appare sempre meno reale, anche il concetto di Dio subisce un processo di moralizzazione e di
purificazione: viene introdotta l'idea di peccato, colpa, aldilà che trasforma la sua decadenza, la sua
morte sulla croce, in un nuovo dio, il Dio dei cristiani. In questo modo la sconfitta storica di Gesù,
la sua morte sulla croce, è spacciata per una vittoria e il progetto storico del cristianesimo è una
gigantesca mistificazione per cui i più nichilisti, i più impotenti diventano i padroni del mondo in
nome di una entità inesistente che loro stessi gestiscono e amministrano. Ciò avviene inculcando
agli uomini un perverso sistema di divieti, di giudizi e di scale di valori assolutamente arbitrari con
lo scopo di spegnere in essi tutte le reattività, indebolirlo, renderlo simile a loro reprimendo le
pulsioni naturali. L'uomo, spinto a soffocare i propri impulsi e a vergognarsene, trova il suo sfogo
nel mondo interiore dove trovano spazio angoscia e inquietudine. L'uomo, che crede di essere
arrivato sul gradino più alto dell'evoluzione, è destinato a diventare sempre più malato, come
sempre più malata è la sua produzione artistica e letteraria, piena com'è di lacrimevoli retoriche su
pentimenti, rimorsi, problemi di coscienza e problemi esistenziali. La morale ha riempito l'uomo di
mostri interiori e lo ha trasformato in una povera bestia acculturata. Chiunque pensi che il disprezzo
di Nietzsche per la morale, per il cristianesimo, per la cultura, sia un elogio alla violenza, dimostra
di non avere capito nulla. Nietzsche non è il filosofo del potere, ma il filosofo del divenire, ed è per
questo che accanto al cristianesimo combatte il socialismo, l'anarchismo, il femminismo e il
concetto stesso di ideologia. Ogni ideologia nasce da uno stato di malessere e di "risentimento", al
pari del cristianesimo. L'idea ebraica e cristiana del libro che cambia la vita è ereditata dal
socialismo in cui gli intellettuali prendono il posto dei preti ed è ereditata dal femminismo in cui le
donne prendono il posto dei preti e degli intellettuali e così via. Le ideologie sono teorie sempre
confutabili che hanno in comune il fatto di proporre libri programmatici, precetti, ideali nella cui
genericità e universalità nessuno si riconosce. Queste considerazioni permettono a Nietzsche di
interpretare il processo storico e filosofico dell'età moderna in modo profondamente originale. Il
movimento che da Lutero e dalla Riforma protestante porta a Leibniz, a Kant, alla filosofia tedesca,
assume qui un significato regressivo: la rivolta del mondo tedesco contro Roma è la rivincita della
teologia e della morale nei confronti di quel sano scetticismo veramente progressivo e creativo del
Rinascimenti italiano. L'importanza fondamentale dell' Italia e della sua cultura consiste nel fatto
che in questo paese si è tentato di uccidere Dio prima che in qualsiasi altro luogo, proprio nel
Rinascimento, quando si è riconosciuto il carattere temporale e politico dei condizionamenti
metafisici.
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AAppppeennddiiccee 88
Da: “LA RICERCA DEL ‘SENSO’ TRA L’ESSERE E IL NULLA” (2003)
NIETZSCHE
“Al di là del bene e del male”
L’uomo tragico
Friedrich Wilhelm Nietzsche muore a Weimar il 25 agosto dell’anno 1900 dopo quasi undici
anni vissuti in un oscuro stato di alienazione mentale e precisamente a partire dai primi giorni del
gennaio del 1889; in una via di Torino aveva abbracciato, dando in escandescenze, un cavallo
frustato da un vetturino. Sempre ai primi di gennaio aveva spedito agli amici i biglietti della follia
firmandosi Dioniso crocifisso.
Dioniso è il nome greco del Bacco latino, è il dio dell’ebbrezza e della gioia di vivere, la divinità
della terra, delle passioni e dell’amore sfrenato che genera e annienta.
Dioniso è in compendio la filosofia di Nietzsche; egli con il crocifisso indica non solo la sua
tragedia personale in cui consapevolmente forse precipita, ma anche una voluta sostituzione, una
missione storica di cui si sente investito e che in ultima analisi si riduce alla radicale opposizione al
Cristianesimo e a quelli che considera i suoi presupposti, in particolare la cultura greca, da Socrate
in poi, in particolare l’Ebraismo, la cultura tedesca moderna, che egli valuta in modo negativo,
considerandola in sostanza antirinascimentale: chi osserva attentamente scopre che l’opposizione di
Nietzsche riguarda quelle che abitualmente vengono considerate le componenti fondamentali della
cultura occidentale. Nietzsche si propone dunque sulla scena culturale come una radicale negazione
di tutto ciò che comunemente si pensa, di tutto quello che abitualmente viene considerato degno di
venerazione e fondamento delle azioni morali. E’ una posizione precisa, coerentemente e
progressivamente espressa dal nostro autore, rintracciabile ovunque sotto le onde dell’impeto
argomentativo caratteristico dei suoi scritti.
La follia segna il discrimine negli innumerevoli modi di interpretare l’opera di colui che si può
definire forse come il più inquieto e certamente come il più inquietante dei pensatori moderni o, con
una autodefinizione narcisistica a lui cara, l’unico pensatore tragico.
‘La nascita della tragedia’
Allo scritto La nascita della tragedia dallo spirito della musica, opera pubblicata nel 1872 a
Basilea, Nietzsche deve la sua prima discussa affermazione sul terreno della cultura.
Nato il 15 ottobre 1844 a Röcken in Sassonia era stato chiamato a Basilea nel 1869, non ancora
laureato, ad insegnare alla Cattedra di Filologia Classica.
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Se si guarda alla sua vicenda biografica, senza leggere gli scritti, redatti nell’arco di sedici anni, la
sua vita appare singolarmente dimessa e degna di scarsa attenzione.
Figlio di un pastore protestante (la madre era a sua volta figlia di un pastore protestante), cresce in
canonica fino ai quattro anni, cioè fino alla morte del padre avvenuta per collasso cerebrale.
Trasferito in seguito con la famiglia nella casa della nonna e delle zie a Naumburg, assocerà la
figura delle donne di casa, compresa la sorella Elisabeth, al rigorismo religioso, alla proibizione e
alla negazione della vita, manifestando più volte una forma di palese risentimento nei confronti del
mondo femminile; l’epistolario rivela nei confronti della madre e della sorella un atteggiamento
egoistico ed interessato, legato a questioni meramente logistiche ed economiche.
La rottura con la madre per motivi religiosi (Nietzsche rifiuta la comunione luterana), avviene
durante la Pasqua del 1865, periodo in cui legge La vita di Gesù (1835) di D.F. Strauss, manifesto
della demitizzazione e dell’ateismo tedesco. Prende tra le mani Il mondo come volontà e
rappresentazione (1818-44) di Schopenhauer e ne esaurisce la lettura in pochissimi giorni di veglia
euforica e continuata, individuando nel tema del pessimismo e del suo superamento l’essenza reale
del pensiero filosofico. Ciò che attira Nietzsche leggendo Schopenahuer è l’affermazione filosofica
dell’energia vitale primordiale; Nietzsche è attirato dalla critica e dal superamento dell’idealismo,
del razionalismo, delle pretese avanzate dalla scienza, del kantismo, ma anche e soprattutto del
Cristianesimo, e del Platonismo. In seguito Nietzsche rimprovererà a Schopenhauer un aspetto
comune a Platone e cioè lo sdoppiamento del mondo e la presenza di una prospettiva metafisica che
si pone al di là del reale. Ne La nascita della tragedia, sotto la pressione di Schopenhauer, appare
come la critica all’uso della ragione occidentale, personificata dalla figura e dal pensiero di
Socrate, che Nietzsche interpreta come nemica dell’istinto e del dionisiaco, mentre la tragedia greca
nel suo apogeo si era espressa dandosi le forme apollinee dell’arte; l’apollineo secondo la
concezione di Nietzsche non deve essere inteso come una opposizione al caos ma come il modo
bello con cui il caos, l’elemento vitale magmatico e misterioso, il dionisiaco, trovo l’equilibrio della
espressione artistica. Corollario primo di queste considerazioni è l’affermazione secondo cui le
forme classiche greche secondo Nietzsche non esprimono affatto l’ottimismo greco, la cosiddetta
serenità dei greci, ma piuttosto la vittoria tragica contro il pessimismo, o meglio una affermazione
di totale pessimismo che si traduce in una forma di vita, comunque. Una vittoria che comporta
l’accettazione di tutta la realtà, così com’è. In questa concezione che diverrà sempre più chiara non
c’è posto per Dio, e dunque per la creazione e la provvidenza, di cui l’opera di Nietzsche vuole
essere un commiato radicale e definitivo, che trova espressione nella famosa sentenza Gott ist tod,
Dio è morto. Una sintonia metafisica Nietzsche suppone di trovarla in Eraclito debitamente
interpretato e a nostro avviso manipolato. In parte la conferma la ritrova nel pensiero degli stoici.
Ci troviamo dinanzi ad un giovane intellettuale, avviato alla filologia classica, che ha trascorso una
infanzia infelice e che rivela particolari segni di inquietudine spirituale e psicologica. Nietzsche
conosce bene la Sacra Scrittura, ha abbandonato un sentimento religioso già vissuto intensamente e
si esprime con evidenti manifestazioni di insofferenza, accompagnati da uno stato di salute e di
tensione sfavorevoli all’attività accademica alla quale si dedica con intenso fervore. Singolarmente
portato allo studio, alla ricostruzione filologica, alla scrittura e alla musica del pianoforte, dove
rivela doti creative.
L’esperienza di Basilea, dove Nietzsche giunge venticinquenne, è l’occasione per incontrare R.
Wagner e la compagna Cosima già sposata Von Bülow e figlia di Listz.
Nietzsche, infatuato di Wagner e innamorato di Cosima, pensò di riconoscere in Wagner il ritorno,
attraverso la musica, della tragedia classica nella sua forma tedesca e moderna. In seguito
sconfesserà questa attribuzione; il rapporto con Wagner serberà un peso decisivo nella sua vita con
una sorta di amore-odio che lo porterà al rifiuto radicale dell’animo tedesco, della Deutschtum o
tedeschità radunata al festival di Bayreuth attorno a Wagner, e a deprecare il ritorno dell’antico
maestro alla pietas cristiana con la composizione del Parsifal.
La frequentazione di Nietzsche con la vita militare è infelice come la sua vita e non corrisponde
certamente alla concezione aristocratica della virtù e del valore che appare nei suoi scritti; nel 1868
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durante l’anno di volontariato, cade da cavallo e viene congedato; partecipa alla guerra del ‘70
come barelliere ma è assalito da dissenteria e difterite, ed ha così quasi subito fine la sua
partecipazione attiva al conflitto bellico, che comunque gli offre uno spunto decisivo per la visione
tragica dell’umanità distruttiva.
Ritornato all’insegnamento accosta intensamente gli autori greci antichi e soprattutto i presocratici e
Platone; l’intensa lettura, accompagnata da una incessante ricerca interiore sul tema della Verità, lo
inclina a chiedere la cattedra e l’insegnamento della filosofia, allora vacante, che però non gli viene
concesso.
Lo stato di salute sempre più precario lo distacca dall’Università; inizia così l’affannosa ricerca del
rifugio ideale, della relazione affettiva appagante, del denaro necessario; la categoria capace di
riassumere il risvolto intimo e tragico del suo continuo e inesausto peregrinare per l’Europa e in
particolare modo in Italia, è la solitudine. La malattia e il suo superamento costituiscono temi
ricorrenti nelle riflessioni di Nietzsche al punto di assumere nel suo pensiero una valenza metafisica
e universale.
Null’altro di notevole da registrare se non infelici esperienze sentimentali tra le quali la dolorosa
relazione con la giovane intellettuale russa Lou Salomé che gli preferì il giovane amico Paul Ree e
che sarà poi la compagna di Rilke. In Lou, Nietzsche si illuse di aver trovato la vera discepola,
suscitando l’avversione della sorella e della madre, preoccupate per i risvolti cinici, etici e
prammatici della sua filosofia.
Per il resto tutto avviene all’insegna di una vertiginosa lotta interiore, condotta tra momenti di
lucidità estrema, alternati a stati di salute psichica che lo portano all’astenia, alla quasi cecità e
all’alterazione del sistema neurovegetativo.
I biografi più impietosi parlano di malattia venerea contratta per contatto in una casa chiusa quando
Nietzsche è ancora studente universitario. L’immancabile e inevitabile interpretazione freudiana
insiste sulla situazione di squilibrio sessuale.
Influsso di Nietzsche
Nietzsche esercita ancora oggi un influsso decisivo sulla cultura occidentale e comunque si
voglia interpretare il suo pensiero egli non è un pensatore che si possa evitare o facilmente superare.
Per certi aspetti segna una specie di spartiacque. Anche dove viene totalmente rifiutato la sua critica
all’Occidente della verità e dei valori ha lasciato il segno.
Le ragioni del suo fascino risiedono innanzitutto nella limpidezza dello stile letterario; ma lo stile
avvincente non è sufficiente a spiegare questo influsso che è penetrato nelle pieghe più nascoste
della nostra mentalità; sono soprattutto i contenuti ad imporsi, e sono contenuti che appaiono
volutamente e decisamente paradossali.
La complessità del suo pensiero, il suo andare contro le opinioni comunemente accettate, spiega
anche l’utilizzo ideologico, tanto a destra, per l'esaltazione di un uomo che si libera dalla mediocrità
e dalla massa comune, almeno fino alla seconda guerra mondiale, quanto a sinistra assunto come
espressione del rifiuto del mondo borghese e nel tentativo di assimilare il pensiero di tutti coloro
che in qualche modo contrastano i poteri costituiti. Notevole è stato l'influsso di Nietzsche sulle
avanguardie artistiche dell'inizio Novecento.
L'utilizzo parziale di Nietzsche per alcune sue tesi particolarmente forti e antitetiche, appare
comunque ingiustificato quando si affronta direttamente il suo pensiero con una attenta lettura
globale.
Nietzsche si presenta consapevolmente come un evento inattuale e incompreso, come la causa
efficiente di una trasformazione radicale del sapere; un pensatore futuro, artefice di una premeditata
trasmutazione di tutti i valori considerati tali, dopo più di duemila anni di dominio della visione che
considera la realtà del mondo fondata sull’aldilà, sull’invisibile e sul divino.
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Egli pone, come già sappiamo, sotto accusa il genio ironico di Socrate che si esprime nel motto
conosci te stesso; Nietzsche considera l'apparizione di Socrate come il momento di nascita della
falsa conoscenza, quella basata sul rapporto tra ragione, verità e morale. Sul banco d’accusa con
Socrate siede Platone con il suo mondo ideale; si instaura così progressivamente un processo di
inesorabile Destruktion che raggiunge con toni radicali il Cristianesimo e il concetto stesso di
modernità e di progresso, considerato da Nietzsche sostanzialmente decadente e nihilista.
L’accezione del termine nichilismo in Nietzsche assume una valenza opposta a quella tradizionale,
poiché indica i falsi valori che occultano la realtà. In questo senso nichilismo è parlare di ideali, di
fede, di anima, di salvezza e di Dio.
Ci pare dunque di individuare nell’opera di Nietzsche una specie di movimento intellettuale sempre
più teso e determinato, quella che lui chiama una linea retta, un punto di partenza e un punto di
arrivo: la partenza è la filologia intesa da Nietzsche come comprensione profonda e smascherante
dei libri e delle cose, come ermeneutica che va alla radice dell’intenzione e attraverso la lettura del
testo ricostruisce la biografia dell'autore. Questo criterio filologico viene esteso a tutta la realtà e in
questo senso Nietzsche si definisce psicologo per antonomasia cioè autentico interprete
dell’universo umano, preannunciando in modo intenso, come ha fatto notare T. Mann, la visione
freudiana; egli pretende in questo modo di acquisire le chiavi di lettura dell’Occidente, di cui cerca
di ricostruire la trama fondamentale (legge tra l’altro trattati di scienza, ma anche la letteratura
moderna e contemporanea tra cui Shakespeare, Pascal, Goethe, cita Leopardi, Stendhal,
Dostoevskij).
In secondo luogo Nietzsche propone il suo pensiero, così apparentemente fondato, distendendolo
sulla linea retta tracciata, attraverso la composizione di un sì e di un no, strettamente collegati e
correlati tra loro.
La sentenza è globale: l’Occidente vive di una deviazione fondamentale da più di duemila anni, a
tale deviazione bisogna opporre un coraggioso e radicale no, sopportando coraggiosamente la
terribile notizia, l'atterramento dei valori ancorati all'esistenza di Dio. Il sì di Nietzsche è il sì alla
vita, all’istinto, alla realtà, alla terra, al Dionisiaco; il no è il no a Platone, alla morale, alla verità, al
Cristianesimo, a tutto ciò che allontana o disprezza e avvelena la realtà. Nietzsche nell'Anticristo,
per fare almeno un esempio notevole, vitupera la predica che incoraggia la castità, considerandola
contro natura.
Nietzsche in questo modo si assume l’onere e l’assillo di spiegare come il pensiero e la morale in
Occidente, attraverso quali complessi percorsi e quali cause genetiche, si siano strutturati all’interno
di una radicale opposizione alla realtà. E’ il punto veramente debole del suo pensiero, quello che fa
nascere giustamente il dubbio che egli sviluppi una lunga serie di pensieri partendo da un
fraintendimento. E’ decisamente improbabile che le cose si possano spiegare secondo le sue faticose
ricostruzioni, è veramente improbabile, anche qui per fare un esempio, che il settimo giorno Dio
riposò diventando il serpente sotto l’albero.
Al di là delle infelici e fragili ricostruzioni esegetiche e storiografiche proposte da Nietzsche, balza
immediatamente all’occhio attento una differenza fondamentale rispetto allo storicismo hegeliano e
idealista; mentre Hegel intende riprodurre un processo nell’ottica del superamento che annulla il
passato assimilandolo, Nietzsche intende portare ad una distruzione. Non è il superamento dialettico
che conduce all’affermazione della piena verità ma la rivelazione di Zarathustra, del super-uomo,
dell’uomo che va al di là del bene e del male, per affermare nel suo massimo grado il valore
autentico della vita stessa. Il no è un drastico no, una maledizione, un filosofare nelle altitudini
vertiginose, un filosofare con il martello.
Le opere
Nello sviluppo del pensiero di Nietzsche è possibile individuare una scansione che ci
potrebbe a questo punto apparire logica, dettati i principi o meglio gli antiprincipi essenziali.
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Nelle quattro Considerazioni inattuali (1873-76), frutto di giovanili conferenze tenute da Nietzsche
in Università subito dopo La nascita della tragedia, egli si oppone radicalmente allo spirito e allo
storicismo tedesco; Strauss diventa oggetto del suo attacco frontale, come del resto lo storicismo e
in modo particolare Wagner. In umano troppo umano (1878) l’attacco a Wagner e al successo di
Bayreuth è dispiegato con la massima intensità. La penna di Nietzsche conia il termine filisteo per
indicare l’intellettuale incapace di vivere.
In Aurora (1881) e La Gaia scienza (1882), libri della salute ritrovata, Nietzsche comincia a
ricostruire filologicamente i modi in cui la nostra cultura ha costruito i suoi pregiudizi morali,
affacciando la soluzione del problema del pessimismo attraverso la decisione di vivere. Viene
considerata dagli studiosi la fase illuministica.
Così parlò Zarathustra (1881-1885) costituisce il libro fondamentale di Nietzsche nel quale egli
palesa la coscienza di aver donato all’umanità un’opera sacra di segno radicalmente opposto alla
Scrittura. Lo stile aforistico e oracolare si impone all’attenzione del lettore. Nietzsche considerava
l’opera, scritta in quattro diversi periodi, frutto di una ispirazione nata dal profondo della sua
esperienza di vita, senza per questo scomodare quella che lui considerava l’illusoria ispirazione
divina.
In Al di là del bene e del male (1886) viene specificato l’ideale del super uomo in polemica radicale
con la modernità, mentre ne La genealogia della morale (1887) si approfondisce il tema filologico
delle origine dei pregiudizi e della necessità di ripristinare la concezione del bene come virtus e
valore. Questi scritti appaiono come variazioni sempre più intense sul tema della trasmutazione dei
valori.
L’anno 1888 è momento di grave tensione psichica e conclusivo della produzione di Nietzsche.
Appaiono a ritmo frenetico il Caso Wagner, Il crepuscolo degli idoli, l’autobiografia Ecce Homo
come si diventa ciò che si è dove egli traccia il disegno retrospettivo e la direzione della sua
frenetica vita intellettuale. A novembre compone l’atto finale, quella che egli considera la
trasvalutazione per antonomasia, con L’Anticristo, sintesi finale del suo pensiero, che egli scaglia
con virulenza contro il Cristianesimo.
Il progetto di Nietzsche era quello di pubblicare La Volontà di potenza di cui ci rimangono
significativi frammenti e che subì una manipolazione consistente da parte della sorella Elisabeth
negli anni successivi. Il testo criticamente ripristinato per opera di Colli e Montanari non
rappresenta a nostro avviso una vera evoluzione nel pensiero di Nietzsche. Venne comunque
utilizzato nei decenni successivi come fonte di ispirazione dell’insorgente movimento nazista.
Di grande rilievo viene inoltre considerata l’opera poetica di Nietzsche; la stessa prosa serrata e
logica apre numerosi varchi all’aforisma e alla poesia. Per questo motivo è comune considerare
Nietzsche più poeta che filosofo, fraintendendo a nostro avviso la sua intenzione. Nietzsche a più
riprese denuncia l’apparente profondità della logica tradizionale e dello stile letterario, tentando uno
stile di immediatezza e pienezza nella fugace espressione estetica. Le composizioni pianistiche di
Nietzsche rispondono alla sua idea di una rapporto stretto della musica con il dionisiaco, ma non
sono state valutate degne di nota dalla critica musicale.
Valutazioni
Nietzsche non è un autore che si può leggere o studiare tranquillamente; egli a più di cento
anni dalla sua scomparsa ha il potere di irrompere, di disturbare, la sua è una energia espressa,
sebbene le note biografiche ci pongano dinanzi ad una vita sostanzialmente depressa.
La volontà di smascheramento e il rifiuto della mediocre normalità assimilano Nietzsche a tutti i
pensatori spregiudicati, e la spregiudicatezza è una caratteristica fondamentale del pensiero
filosofico. Questo spiega almeno un motivo del suo grande fascino che comunque egli esercita,
annoverato con Marx e Freud tra i profeti del sospetto.
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Nietzsche in ultima analisi chiama in causa il Cristianesimo: a questo riguardo potrebbe bastare
l’affermazione secondo cui egli ha conosciuto un Cristianesimo senza la gioia e la forza della
grazia, come osserva p. Welt, senza rapporto con Cristo e con anime illuminate, come lo starets
Zosìma ne I fratelli Karamàzov. Gli anni in cui Nietzsche transita per l’Italia pervaso da una
profonda inquietudine sono gli anni di don Bosco, di Teresa di Lisieux, del Comboni, di Mercier, di
Newman. Il percorso dello spirito europeo tra Ottocento e Novecento, non è univoco, ma
sostanzialmente agonistico e antitetico.
Il tentativo di spiegare il fenomeno storico del Cristianesimo con gli strumenti ermeneutici adottati
da Nietzsche appare macchinoso, pregiudiziale, sostanzialmente banale. Pur con tutta la sua acribia
esegetica le conclusioni di Nietzsche si assimilano, soprattutto ai nostri giorni a quelle di chi è
mosso da pregiudizi volgari e insensibilità di fondo. Addirittura la tesi di Nietzsche appare così
decisamente contraria alla verità da suscitare nel lettore intelligente la curiosità per ciò che egli
combatte. In particolare la maledizione finale del Cristianesimo, annovera Nietzsche tra coloro che
rigettano la pietra angolare e vi inciampano, lo annovera tra le tenebre che non vogliono accogliere
la luce. Grazie a Nietzsche si ripropone come antitesi dell’antitesi la consapevolezza che l’evento
Cristo si pone come l’evento fondamentale della storia dell’umanità, il suo problema fondamentale.
Chi legge Nietzsche, senza esserne narcotizzato, sente risuonare la grande domanda che appare nei
Vangeli… voi chi dite che io sia? Il decisionismo di Nietzsche sulla questione della fede si
smaschera agilmente pensando che è il risultato di una infelice esperienza personale ed anche il
tipico atteggiamento dell’ex credente che sbatte la porta di casa pensando di avere capito.
Del resto anche l’accusa secondo cui il Cristianesimo è la religione dei deboli, degli
invidiosi, che Dio appare storicamente come il bastone della vecchiaia, indica almeno due cose: la
prima è quella di aver trasformato la mediocrità di molti che si dicono credenti in un luogo di
affermazione di una verità assoluta che al limite potrebbe essere sovvertita anche solo da un
credente autentico e coraggioso. E al tempo di Nietzsche come abbiamo visto non mancano
esperienze di grande valore e autenticità. La seconda è che con una tale affermazione non si può
eludere il tema della fragilità umana, di quale sia il senso della vita davanti al problema del limite,
del male e della morte. Il super uomo, pur compreso nella reale affermazione di Nietzsche, in ultima
analisi risulta un essere irreale e grottesco. E’ piuttosto evidente in Nietzsche come in gran parte
della modernità l’affermarsi di una miscela di presunzione e non accettazione di sé e della realtà. La
non accettazione di sé come chiave di spiegazione dell’ateismo: si badi bene che è la stessa
spiegazione della religiosità non autentica, di cui vive la critica alla religione dei pensatori atei.
L’istanza di produrre il tipo migliore di uomo possibile, istanza che domina velleitariamente il
pensiero di Nietzsche è pienamente soddisfatta dall’insegnamento evangelico che ci invita a
moltiplicare i talenti che Dio ci ha dato per presentarli a lui nel giudizio finale. L’affermazione di Nietzsche secondo cui Dio è morto e dell’avvenuta celebrazione dei suoi funerali, pur in tutto il suo sarcasmo appare come una
scelta rabbiosa e ingiustificata, piena di risentimento. Dall’opera di Nietzsche non si evince che egli sia in grado di parlare di Dio, ma piuttosto che egli parli di Dio dopo aver preso una decisione radicale sulla sua non esistenza. Si può anche interpretare questo atteggiamento così radicale come una
forma di ricerca ugualmente radicale di Dio stesso. Che cosa poi pensi davvero un essere umano, quali siano stati i pensieri di Nietzsche avvolto dalla
follia, sedicente Dio, imperatore, Dioniso crocifisso, è segreto troppo grande per poterlo banalmente esplicare.
Ma è un’altra pretesa del filosofo tedesco a interessare in particolar modo l’esercizio dell’autentico
filosofare. E’ evidente che Nietzsche intuisce il valore del pensiero logico e della tradizione
filosofica, ma è anche abbastanza evidente che il suo taglio di interpretazione non va oltre la sfera
dell’analisi filologica ermeneutica e storiografica. Per intenderci una questione come il conosci te
stesso non può legittimamente essere oscurata, relativizzata e analizzata mettendola in contrasto con
la volontà di esaltare ed affermare la dimensione dionisiaca di se stessi. In fondo è ancora la ragione
che mi aiuta a discernere i pensieri consapevoli nati dall’osservazione del reale e quelli che
emergono dalle pulsioni interiori incontrollate, è il pensiero che mi spinge ad accogliere o rifiutare
il flusso delle passioni, della sessualità. In una parola Nietzsche in modo intelligente sanziona un
uso dell’intelligenza che non accede alle profondità dell’autocoscienza, della coscienza riflessa,
della sorpresa di trovarsi pensanti in un modo che sembra negare in apparenza la realtà del pensiero.
L’esigenza di spregiudicatezza espressa da Nietzsche, assomiglia più ai moti dell’adolescenza che si
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sente prigioniera di qualcosa che ad una serena spregiudicatezza propria dell’età adulta capace di
assumere la realtà totalmente senza pregiudizi di sorta.
Proprio in ragione di quel lasciare che la realtà accada per quello che è senza imbrigliarla nei
pregiudizi, si afferma nella coscienza pensosa la differenza tra il bene e il male, la possibilità che il
pensiero attinga la radice intima della realtà. Si può dunque obbiettare che la tesi di Nietzsche
secondo cui Cristianesimo e Platonismo sviliscono la realtà, nasce da una incomprensione. Infatti il
pensatore, proprio accettando la realtà analizzata con un alto grado di autocoscienza del proprio io,
percepisce che la realtà è così densa, è così se stessa, al punto da esigere la sua fondazione
metafisica, la sua giustificazione ulteriore.
Ma a questo punto nasce la filosofia, anche senza Nietzsche e senza libri.
Approfondimenti
Questa valutazione finale del pensiero di Nietzsche realizza una scala di possibili approfondimenti
nei quali è soggetta ad indagine tutta quanta la cultura contemporanea nei suoi nodi rimasti a nostro
avviso dolorosamente irrisolti:
- il piano della interpretazione biografica, psicologica ed esistenziale dell’autore, autore
lucido, precipitato comunque nella pazzia. Il discorso del rapporto tra patologia e cultura
richiede di essere approfondito, ma anche il suo opposto e cioè il rapporto tra salute e
pensiero, cercando di uscire dal morboso compiacimento del male.
- Il piano della discussione teologica, il modo in cui egli aggredisce una esperienza nel quale
è cresciuto e che ripropone non solo il tema della verità della fede cristiana ma anche la
questione del metodo della sua trasmissione; l’ateismo storico è nato sostanzialmente in
ambienti protestanti ed ebraici, è nato nelle canoniche, nei seminari, prima ancora di
diventare fenomeno rivoluzionario e fenomeno di massa.
- Infine il piano meramente filosofico, quello che interessa l’uso spregiudicato
dell’intelligenza, la sua genialità espositiva, maturata all’ombra di una incapacità iniziale di
guardarsi dentro, di guardare in modo spregiudicato all’interno di quella ragione che
ragionando in modo improprio arriva in definitiva e in modo contraddittorio a negare lo
spessore dell’io e la possibilità di riconoscere la presenza del Logos ordinatore e creatore del
mondo.
Né è prova il fatto che Nietzsche accede al pensiero secondo cui la realtà è sostanzialmente caos,
composizione eraclitea fluttuante di opposti e di contrasti… proprio ciò che l’occhio attento e
pacato non vede. L’occhio del pensatore autentico vede le vestigia di un ordine cosmico e umano
sottoposto alla caducità, un ordine ferito ma non annientato.
Nietzsche passeggiava sovente all’aperto nella natura di cui coglieva il fascino violento e
misterioso, troppo ferito e troppo malamente ripiegato su se stesso, con un lucido pensiero, senza