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1 Università degli studi di Pisa Facoltà di lettere e filosofia Corso di laurea specialistica in Archeologia Cerealia, oleum et vinum : i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero) Candidato Salvatore Andrea Incorvaia Relatore Maurizio Paoletti Correlatore Antonino Facella
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Cerealia, oleum et vinum: i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

Mar 27, 2023

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Fabio Fabiani
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Page 1: Cerealia, oleum et vinum: i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

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Università degli studi di Pisa

Facoltà di lettere e filosofia Corso di laurea specialistica in Archeologia

Cerealia, oleum et vinum :

i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e

la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

Candidato

Salvatore Andrea Incorvaia

Relatore

Maurizio Paoletti

Correlatore

Antonino Facella

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Indice

Premessa

I Cartagine: dinamiche storiche.

I.1 Dall’Africa punica all’ Africa proconsularis : la conquista romana e la romanizzazione.

I.2 La riforma dioclezianea e l’epoca di Costantino.

II Cartagine tra tarda repubblica e basso impero. Topografia, strutture portuali e sistema viario.

II.1 Topografia.

II.2 Le strutture portuali-commerciali di Cartagine.

II.3 Le romanae viae e le strutture produttivo-commerciali dell’Ager Carthaginiensis.

III La Sicilia romana: dinamiche storiche.

III.1 Dalla megale hellas alle guerre puniche.

III.2 Provincia Siciliae (241 a.C.-476 d.C.).

IV La Sicilia meridionale : approdi commerciali.

IV.1.1 Kamarina.

IV.1.2 Kaucana.

IV.2 Gela.

IV.2.1 Calvisiana.

IV.2.2 Chalis.

IV.3 Agrigento.

IV.3.1 Eraclea Minoa.

IV.4 Selinunte.

IV.4.1 Il litorale selinuntino: Il sito di Carabollace e i flussi commerciali col NordAfrica.

V Il caso di Finziade (Licata); da florido porto a città decaduta.

VI Rotte, merci, uomini : studio dei rapporti commerciali tra la Sicilia meridionale e Cartagine, tra

la tarda repubblica e impero.

VI.1 Appendice: il relitto di Ognina (Sr) e la centralità della Sicilia nei flussi commerciali romani.

VII Conclusioni.

Tavole

Bibliografia

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Premessa

Nella storia millenaria del Mediterraneo, piena di scambi di merci idee e popoli, sicuramente un

ruolo fondamentale è stato svolto dalla Sicilia, vera e propria “terra di mezzo”, ricettrice di culture e

idee svariate e molteplici. Parallelamente alla Trinacria, altro ruolo estremamente strategico è stato

quello recitato da Cartagine e dalla futura provincia romana d'Africa. Questi territori, letteralmente

fagocitati da Roma e dalla romanizzazione fin dalla media repubblica, svolsero il ruolo di

importante cerniera tra due continenti, apparentemente lontani ma in realtà vicinissimi: l'Africa e

l'Europa.

Il ruolo primario di Cartagine nella storia antica è riconosciuto anche nella mitologia ufficiale

romana. La vicenda di Enea infatti, perdutamente innamorato della regina punica Didone,

successivamente abbandonata per cause superiori, vuole essere una sorta di giustificazione del più

grande conflitto della classicità. Oggi purtroppo per altre cause questi luoghi sono teatro di un altro

scontro tra civiltà, ben diverso e forse ancora più drammatico.

Tra le due sponde del mare nostrum, infatti, non si fa più guerra, non si commerciano più cereali,

olio, vino, bestie per l'arena, ma soprattutto schiavi dell'età moderna costretti a scappare dalla loro

terra nella speranza di un futuro migliore. Auspicando che finalmente un giorno l'antica Africa

punica possa essere la terra promessa di questa povera gente e sperando che i venti della recente

primavera araba portino benefici reali a chi vive in condizioni precarie da diverso tempo, già fin da

adesso noi popolo del cosiddetto “primo mondo” dovremmo iniziare a vivere i 90 km che separano

le sponde siciliane da Capo Bon (Tunisia) con un occhio diverso, non come un confine serrato ma

come una porta d'accesso tra il sud ed il nord tra l' Africa e l'Europa: tra l'uomo e l'uomo.

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I Cartagine: dinamiche storiche.

I.1 Dall’Africa punica all’Africa proconsularis: la conquista romana e la

romanizzazione1.

«I tirii si affannano ardenti, parte ad erigere le mura e a costruire la rocca, a rotolare a braccia

macigni, parte a scegliere un luogo per la casa e a recingerlo d’un solco; scelgono leggi e magistrati

e il santo senato; qui alcuni scavano il porto, qui altri gettano le profonde fondamenta del teatro, e

tagliano dalle rupi enormi colonne, alto ornamento alle scene future2». Incerte le origini della città,

vaghe come il racconto fantastico ed esotico dipinto dal grande Virgilio, in uno scenario di

splendore e lucentezza nasce, secondo il mito, Cartagine la regina del mediterraneo. Fondata sul

finire del IX secolo a. C. dai padroni del mare, i poenikes originari per l’appunto di Tiro, Cartagine

dovette far preziosa esperienza dei problemi d’interazione etnica e territoriale che le più antiche

colonie fenice d’Africa, come Utica, avevano incontrato. Essa ebbe una grande considerazione delle

risorse territoriali come supporto e garanzia per gli scambi commerciali; vero e proprio fulcro della

cultura fenicia3.

Sintetizzando possiamo ben dire che Cartagine ed Annibale, il suo più illustre figlio, non sarebbero

mai entrati prepotentemente nella storia se l’elemento punico non fosse riuscito, dopo le prime

traumatiche esperienze, a far proprie le potenzialità delle risorse africane.4

L’indole marinara fenicia da sempre condizionò le scelte di questo popolo così intraprendente.

Le coste africane per diversi motivi: (approdi naturali facili, terre vergini e ricchezze varie)

costituirono da sempre una meta ambita.

La fondazione di Qart-ḥadašt e di altre colonie precedenti o successive, può essere vista in questo

contesto politico-economico.

1Opere di riferimento per la tematica di Cartagine e dell’Africa romana sono risultate essere: “Carthage” di Serge

Lancel, “Storia delle province romane dell'Africa” di Pietro Romanelli, i volumi riferiti a Cartagine nella “Storia di

Roma” a cura di Einaudi,” ed “Cartagine : un impero sul mediterraneo. Civiltà e conquiste della grande nemica di

Roma.” Di Enrico Acquaro. 2 Verg., Aen. 419 ss.

3 Sulla storia del sito risulta essenziale il volume di Serge Lancel “Carthage” edito da Fayard nel 1992. L’ opera da un

inquadramento storico ben preciso sullo sviluppo della comunità cartaginese 4Acquaro 1978, pp. 41-43

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Pochi secoli dopo la sua fondazione Cartagine poteva già vantare un impero commerciale notevole;

si andò infatti gradualmente a sostituire proprio ai mercanti fenici, monopolizzando le rotte del

mediterraneo.

I territori che più d’ogni altri interessarono ai navigatori cartaginesi furono le due grandi isole

mediterranee: la Sardegna e la Sicilia. Mentre in Sardegna ebbero per così dire vita facile, in Sicilia

l’elemento cartaginese fece più fatica ad emergere, poiché vi era la concorrenza politica-

commerciale della fortissima e radicatissima presenza greca.

Cartagine a differenza di altre città fenice mirò fin da subito a crearsi un solido impero, infatti

all’alba del conflitto più grande della storia antica, quello con l’Urbe, era la più grande e

riconosciuta potenza mediterranea.

La causa del grande conflitto fu la ormai forte presenza in Sicilia dei punici. L’elemento greco era

stato in parte soppiantato e l’unica roccaforte siceliota rimasta al III secolo a.C. era Siracusa.

La fatidica data del 264 a.C. corrisponde in pratica ad un vero e proprio spartiacque storico, poichè

muterà completamente la cartina geo-politica mondiale. I rapporti tra Roma e Cartagine, come le

fonti epigrafiche dettagliatamente ci tramandano, non erano mai stati pessimi, tutt’altro.

Prima della cosiddetta prima guerra punica, la storia ci parla di trattati commerciali a fini politici tra

la città di Didone e quella di Romolo. Polibio, dettagliatamente, nelle sue storie narra di questi tre

trattati: il primo trattato, datato secondo le fonti al V secolo prescriveva ai romani la navigazione al

limite di Capo Bello. Nella descrizione dettagliata che l’autore d’origine greca fa di questo trattato

si nota benissimo la posizione dominante dello stato cartaginese, come del resto sarà ancora di più

nel secondo trattato. Innanzitutto le navi “romane” a cui era proibito la navigazione oltre il Kalos

Akroterion, visto l’embrionale sviluppo della marineria romana dell’epoca, dovevano essere

imbarcazioni appartenute ai socii navales dello stato romano. Il divieto di navigazione in questo

caso più che a scopo militare era stato istituito per regolamentare le tratte commerciali. Il

commercio era consentito ai romani in un areale piuttosto ristretto: Cartagine stessa e l’ Eparchia

cartaginese in Sicilia offrivano spazio ai mercatores italici. Diatriba forte è nata negli anni

sull’identificazione geografica precisa di Caput Bellum “limite” fisico dell’accordo. Alcuni hanno

voluto identificare esso con l’odierno Capo Bon (Ras Addar), altri invece identificano esso con

l’attuale Capo Farina (Ras Ali-el-Mekki): questa disputa nasce dal fatto che le fonti polibiane non

sono del tutto chiare poiché indicano un promontorio immediatamente a Nord di Cartagine.

Entrambi geograficamente sono posti a nord della città punica anche se per la verità l’attuale Capo

Bon si pone in posizione leggermente più defilata (Nord-Est)5. Il secondo trattato ebbe condizioni

più dure poiché Roma aveva appena subito il sacco gallico ad opera di Brenno; addirittura fu

5Scardigli, 1991, p. 66 ssg.

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proibito ai mercatores italici il commercio in Africa. L’iniziativa di questa nuova stipulazione di

patti economico-politici partì nuovamente da Cartagine.

Le condizioni generalmente furono simili a quelle del primo trattato ma come già accennato in

precedenza nel complesso più dure, figlie di un momento storico ben determinato. Differenza

sostanziale dal primo trattato si ha nell’ inserimento nel documento di comunità alleate o vicine alla

stessa Roma e Cartagine: da parte cartaginese Tiro, Utica mentre da parte romana alcune comunità

latine. Nello specifico la Sicilia durante la stipulazione di questi accordi aveva visto il comparto

cartaginese piuttosto aumentato, di conseguenza l’interesse verso la Sicilia terra di “mezzo” costituì

uno dei punti focali.

Cartagine strategicamente non chiuse sull’isola gli empori romani, prima di tutto perché i

mercatores italici svolgevano un ruolo fondamentale nelle transazioni economiche all’interno dei

mercati greci inoltre miravano con questa mossa ad infastidire lo stesso elemento siceliota6.

Il terzo ed ultimo trattato è sicuramente il più significativo poiché viene stabilito tra le due super-

potenze in funzione della minaccia pirrica. Roma e Cartagine tramite quest'ultima alleanza

colmavano i loro gap militari: Cartagine dal punto di vista terreste mentre Roma dal punto di vista

navale.

Con la sconfitta di Pirro e il conseguente dominio incontrastato di Roma sulla penisola italiana, non

c'era apparentemente alcun motivo per creare astio all'alleato punico e viceversa, poiché i

cartaginesi mantenevano salde le loro posizioni in Sicilia.

Il contrasto nacque dalla reciproca paura di un'eccessiva vicinanza e dal timore che prima o poi

l'una potenza potesse prendere il sopravvento sull'altra7

. Il casus belli provenne da un

importantissima isola posta al centro del mediterraneo: la Sicilia.

Sotto la pressione delle mire espansionistiche del tiranno di Siracusa, Ierone, i mercenari di Mars

chiesero prima l'aiuto a Cartagine.

L'oligarchia punica non ascoltò le loro richieste e gli stessi si rivolsero al senato di Roma.

Il massimo organismo statale romano temporeggiò a lungo sul da farsi; la decisione sull'intervento

fu molto discussa perché avrebbe significato la guerra contro i cartaginesi e perché l'idea di aiutare

dei soldati che avevano ingiustamente strappato via una città ai legittimi possessori, divenendo poi

dei briganti, era mal vista (anche perché poco prima era stata invece soppressa una guarnigione che

aveva usurpato con la forza il comando di Reggio).

Tuttavia, in favore dei mamertini intervenne Appio Claudio Caudice e a Roma l'idea presa fu di

allearsi con loro per evitare che l'espansione cartaginese si avvicinasse troppo all'Italia e per

6Scardigli 1991, p. 105 ssg.

7Warmington 1954, p.15 ssg.

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estendere il domino dell'aquila delle legioni sulle ricchezze siciliane8.

Arrivati a Columna Regia i romani guidati in prima istanza da Valerio Messalla, da li sbarcarono

nella roccaforte dei mamertini, Messana. Il fretum aveva da sempre rappresentato una sorta di

“muro” tra civiltà e culture diverse, superandolo i romani dichiararono guerra non solo a Cartagine

ma al mondo intero allora conosciuto poiché da lì a pochi anni diventarono sostanzialmente i

padroni incontrastati dell'ecumene.

Le battaglie combattute per terra e per mare furono violente e cruenti, un' intera isola fu messa a

ferro e fuoco. La prima vera e propria svolta di questo primo “round” tra le due super- potenze si

ebbe, dopo alterne fortune (importantissima ad esempio per i romani era stata la battaglia di Mylae

del 256 a. C.), nel 241 a.C.

Le due flotte oppugnanti si scontrarono nelle acque prospicienti Lylibeum nella battaglia passata

alla storia come la battaglia delle Egadi. Fu una grande vittoria romana, ottenuta grazie all'abilità di

Lutazio Catulo. Alla vittoria navale seguì l'assedio e la presa di Lylibeum i quali sancirono la resa

incondizionata e l'estromissione dalla Sicilia dei punici. Nel 238 a.C. la Sicilia divenne la prima

provincia romana: tutto il territorio fu occupato ad eccezione dell' ager Syracusanus e di Siracusa

stessa che rimaneva formalmente città libera ma che praticamente era entrata fortemente nella sfera

d'influenza romana.

Questo grande scontro tra civiltà non era destinato tuttavia a concludersi con la vittoria del 241 a.C.;

da quella data infatti lo spirito di revanchismo punico si era acuito poiché la sconfitta era stata per

certi versi bruciante, inoltre veniva a tagliare un importante ponte di collegamento per i commerci

della polis africana.

La prima mossa Cartaginese fu quella di aprirsi un'altra via verso ponente, andando ad occupare

buona parte della fascia costiera dell' Hiberia al fine di sfruttare le importanti risorse minerarie

presenti soprattutto nella zona del Rio Tinto.

Roma dal canto suo, a protezione di Massalia in funzione anti-cartaginese, aveva stretto alleanza

con la città di Saguntum compresa però nel territorio cartaginese, attestando la linea di confine con i

possedimenti punici all' Ebro.

Il conflitto come da copione era inevitabile e sfociò allorquando Annibale, generale esponente della

più importante famiglia cartaginese del tempo i Barcidi, assalì Sagunto; celebre in merito a ciò è la

locuzione latina “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”9.

Da lì a poco Annibale alla testa di un grande esercito valicherà le Alpi e porterà la guerra sul suolo

italico.

8Canali De Rossi 2007, p.3 ssg.

9 Liv., XXI, 7, 1

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Fu una guerra ancora più atroce e cruenta rispetto a quella combattuta in Sicilia. Roma fu quasi

sull'orlo della sconfitta (la battaglia di Canne costituisce l’emblematico momento di difficoltà che

Roma stava vivendo), quando riuscì a ricompattarsi, grazie al suo efficiente esercito composto, a

differenza della macchina bellica di Annibale, da cittadini romani che in questo frangente erano

costretti a difendere la loro terra.

Una prima svolta si ebbe grazie alla riconquista di posizioni romane a Malta e in Sardegna,

seguirono anni di stasi fin quando Roma, rinvigorita sferrò l'attacco decisivo alla nemica storica sul

suolo africano.

Celeberrimo il vincitore di Cartagine, Scipione detto l' Africano sconfisse i Cartaginesi con una

grande strategia militare attestante sicuramente uno studio dettagliato di precedenti modus operandi

(il tentativo di Agatocle di invadere l'Africa nel IV sec. a.C.): egli sconfisse in maniera definitiva

Annibale a Zama nell'anno 202 a.C.

Per Roma si apriva decisamente una nuova fase politica, Cartagine invece dopo il conflitto, grazie

al suo potenziale economico si riprese presto pur rimanendo di fatto possedimento romano,

quest'evento sarà il futuro casus belli che porterà da li a circa cinquant'anni alla distruzione

completa della città punica10

.

Con la fine delle ostilità sul suolo italico e africano, la potenza di Cartagine e la sua relativa

eparchia erano state cancellate.

L'acerrima nemica tuttavia non era stata completamente eliminata poiché, la città stessa aveva

subito dure condizioni ma in sostanza la guerra si era fermata alla piana di Zama.

Nei circa cinquant'anni che intercorrono tra la seconda e la terza guerra punica Cartagine, pur sotto

il ferreo controllo politico romano, in virtù di una sorta di privilegi concessi dall'armistizio aveva

per così dire risollevato la sua l'economia11

.

Notissimo e pieno di significato fu l'arringa di Catone in senato, il famoso censore, si presentò con

un fico in mano proveniente dal mercato di Cartagine.

Egli fece prese sul partito “interventista” dichiarando che se il fico era giunto così fresco a Roma

indicava che Cartagine era vicina, con tutti i rischi e pericoli che ciò poteva determinare12

.

Quest’evento prettamente simbolico ci può dare sicuramente lo spunto per capire quale fossero

allora gli scambi commerciali attraverso il Mare Nostrum. I cartaginesi che ormai da secoli

monopolizzavano i commerci mediterranei riuscivano ancora dopo due cocenti sconfitte a svolgere

il loro antico mestiere.

10

Beschaouch, 1994, pp. 22-28 11

Romanelli 1959, pp. 12

Plin., XV, 74-76. "Verum est: – inquit Cato – nam haec ficus tertium abhinc diem, Carthagine decerpta est: tam

vicinum habemus hostem!"

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Sfruttando rotte di cabotaggio che toccavano le coste siciliane e di seguito quelle dell’Italia

peninsulare, ancora alla metà del II secolo a.C., essi raggiungevano facilmente i mercati di Roma.

Inoltre i mercanti fenici, grazie alla loro bravura e scaltrezza, erano dei competitors piuttosto

scomodi per la nascente classe dei mercatores italici.

Le terre africane erano note nel suddetto periodo per la produzione della porpora dal murex (murice)

e del garum, naturalmente in Africa non mancava, grazie ad un clima mediterraneo, la coltivazione

dell’olivo della vite e la cerealicoltura: la famosa triade mediterranea.

C’erano stati da sempre intensi scambi, anche a causa di possedimenti territoriali punici, con la

Sicilia. Prova ne sia che in diversi relitti ritrovati a poche miglia dalle coste siciliane : Nel relitto di

Secca di Capistello o nel più famoso relitto della nave punica dello Stagnone di Marsala, è possibile

vedere una fitta associazione di anfore da trasporto riconducibili a contesti nord-africani e sicelioti13

.

Questo dimostra ancora una volta che in un periodo leggermente antecedente alla conquista romana,

i cartaginesi avevano il completo dominio delle rotte e che questo dominio continuò anche dopo

fino alla distruzione del 146 a.C. Altro elemento scatenante il conflitto fu comunque la pressione

fatta dal regno di Numidia e dal suo re Massinissa, alleato dell'Urbe, su Cartagine stessa. Roma per

certi versi si vide “costretta” a dichiarare guerra alla città africana.

Roma decise di entrare in guerra, non tanto per paura che la potenza cartaginese potesse risorgere

ma più che altro per contrastare indirettamente l'alleato numida, poiché se come nei piani,

Massinissa si fosse impadronito di Carthago, Roma stessa avrebbe dovuto accettare l'idea del

formarsi di un nuovo, scomodo regno indipendente in Africa.

Le operazioni furono piuttosto brevi anche se l'orgoglio cartaginese vendette cara la pelle e l'assedio

della città dai due porti fu logorante e lungo. Le sorti della guerra furono decise da Scipione

Emiliano, nipote del console Lucio Emilio Paolo morto a Canne, adottato nella gens Cornelia dal

figlio di Scipione Africano.

Il comandante in capo dell'esercito romano ebbe la meglio sulla fiera resistenza punica solo tramite

un ardito escamotage che prevedette il taglio della fossa di collegamento del porto col mare aperto e

quindi l'interramento di esso.

Tramite ciò gli assediati non poterono più usufruire del vettovagliamento e furono costretti (i pochi

superstiti) a consegnarsi al nemico.

Era l'anno 146 a.C. La città venne cancellata dalla storia fu interamente distrutta e i suoi abitanti

arresisi furono venduti come schiavi.

Secondo alcune fonti il suolo di Cartagine fu consacrato agli dei infernali e niente più sorse ivi fino

alla seconda metà del I secolo a.C. Polibio in un celebre passo dei suoi scritti narra con forte pathos

13

Bisi 1986, pp.594-596

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le lacrime di Scipione Emiliano alla visione di Cartagine in fiamme prevedendo la stessa triste fine

futura per Roma14

.

Il famoso “Delenda Carthago” catoniano era stato applicato in piena regola, e della fiera nemica di

Roma non restavano che macerie.

L'Africa ad eccezione del regno numidico, era ora in possesso completo del senato romano. I

conquistatori nel solco della romanizzazione tipico dei territorio acquisiti, procedettero alla

risistemazione del nuovo ager publicus populi romani.

Interessante in questo senso la risistemazione e lo sfruttamento agricolo sistematico della valle del

Bagradas (l'odierno Medjerda). Innanzitutto successivamente alla sconfitta di Cartagine venne

istituita, secondo la legislazione romana, la provincia d'Africa, detta Africa Nova.

Essa comprendeva i territori che pressappoco costituivano il ricco ager Carthaginensis, il governo

di questa provincia fu affidato ad un pretore che in origine risiedette ad Utica e solo in un secondo

tempo, dopo la deduzione augustea, fu trasferito a Cartagine.

La nuova provincia comprendeva un territorio di circa 20-25 mila kmq ed in origine Roma stessa

non aveva pensato minimamente ad un suo ampliamento. Essa era delimitata a ovest e a sud dalla

monumentale Fossa Regia che la separava dal regno clientelare di Numidia. La capitale in un

primo momento fu posta ad Utica dove risiedettero pretore e questore. Al primo erano affidate

adempienze militari, amministrative e giudiziarie, il secondo aveva il compito di gestire le finanze,

le imposte e i tributi provinciali. Il governatore guidava poi anche una legione comandata da un

legato e truppe ausiliarie (auxilia) composte da socii, per un totale di circa 30 mila uomini

asserragliati presso Utica nei cosiddetti Castra Cornelia.

Tutto il suolo provinciale fu considerato agro pubblico con l’esclusione delle città che durante il

conflitto avevano sostenuto Roma.

Il territorio fu diviso in pagi e ai vecchi proprietari punici in gran parte fu lasciato il possedimento

di terreni già in loro possesso, sotto il pagamento però di un tributo, il vectigal.

Il ruolo marginale che all’inizio dovette svolgere questa provincia tuttavia andava a scontrarsi con

la sua posizione strategica e con le sue risorse economiche; in principio predominava un’intensa

monocoltura cerealicola seguita da un importante sfruttamento delle risorse minerarie, mentre

scadente risulta essere in questo orizzonte cronologico la produzione artigianale di ceramica che

segnerà le fortune Nordafricane nei secoli centrali dell’ Impero15

.

Restava come già precedentemente accennato, il regno numidico che formalmente rimaneva

indipendente. I primi sentori di un malessere numidico verso l’ingerenza romana sul proprio

14

Pol. XXXVIII, 22 15

Ibba 2012, pp. 20-23

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territorio si fecero sentire con l’ingresso sulla scena africana di Giugurta. Motivo scatenante per

quest’evento bellico fu determinato dall’azione politica di Roma stessa. L’ Urbe infatti per

ridimensionare il potere del regno numidico aveva deciso di smembrare il regno in tre porzioni.

Una porzione di esso era stata affidata a Giugurta il più scaltro dei figli di Micipsa (in realtà era

stato adottato da Mastanabal). Giugurta al quale fu assegnata la parte più orientale del regno scatenò

una guerra fratricida che presto andò a cozzare con gli interessi di Roma stessa, inseguito al famoso

eccidio perpetrato a danno degli italici consequenziale all’assedio posto a Cirta. Quest’ evento

scatenò la reazione romana che sotto la pressione del tribuno della plebe Gaio Memmio dichiarò

guerra a Giugurta. Le alterne vicende della guerra giugurtina furono segnate da Metello e Mario,

quest’ultimo sconfisse Giugurta ridisegnando la geopolitica Nordafricana16

.

L'occasione per Roma di unificare i possedimenti Nordafricani si presentò invece circa un

cinquantennio dopo, quando il re Giuba si schierò dalla parte di Pompeo contro Cesare. Il

condottiero romano decise egli steso di guidare il suo esercito alla volta dell’Africa. Il suo esercito

era composto da 7 legioni, 2880 cavalieri e alleati locali vari.

Essendo impossibilitato nel competere con l’agguerrita flotta pompeiana, il dictator sorprese tutti

partendo da Lilibeo nel dicembre del 47 a.C. Il suo piano strategico prevedette di iniziare la

spedizione a partire dalla regione libica per non scontrarsi immediatamente con le forze pompeiane

asserragliate per la maggior parte nell’ Africa cartaginese. Lo scontro finale si ebbe a Tapso nel 46

a.C. con una strage che coinvolse i pompeiani e parte dell’esercito di Giuba. Il nuovo territorio

prese il nome di Africa nova e la capitale fu posta a Sicca Veneria affidata ad un propretore che

guidava tre legioni.

Con la conquista cesariana della Numidia (46 a.C.), si procedette gradualmente al progetto poi

raggiunto dell’ unificazione politica delle due “afriche”17

.

Il “matrimonio” tra i due territori fu sancito giuridicamente da Augusto. L' Africa nova venne unita

all'Africa vetus a formare la provincia augustea chiamata Africa proconsularis, istituita dallo stesso

Augusto successivamente alla deduzione di Cartagine.

Il Pretor venne spostato nella nuova capitale sorta sulle macerie della gloriosa metropoli punica e la

centuriazione dell'intero territorio si fece sempre più articolata e completa. Lo sfruttamento della

valle del Bagradas fu totale poiché ormai l'intero territorio era sotto l’egida romana.

Bisogna però ben dire che già dal 146 a.C. ampie parti dell' ex territorio cartaginese erano state

soggetto di assegnazioni viritane; importante poi per questi territori fu la pseudo-deduzione

graccana che portò comunque all'impianto con relativa distribuzione fondiaria (123 a.C.), di diversi

16

Ibba 2012, pp. 29-31 17

Ibba 2012, pp. 32-34

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coloni provenienti dall’ Italia.

Gradualmente coloni romani, per lo più veterani, si insediarono nella valle del Bagradas.

In epoca mariana agli assegnatari furono concessi lotti da 25 ettari per terreno anche se buona parte

dei territori era ancora sotto la corona numida.

Il quadro africano cambiò radicalmente in seguito al già citato Bellum africanus e con l'istituzione

dell'impero augusteo: ci fu un ulteriore risistemazione agraria dei terreni con la naturale immissione

nel sistema centuriato di nuovi coloni.

L'Africa da lì a poco sarà una grande ed enorme riserva granaria per i sempre più affollati mercati di

Roma. Con la relativa deduzione augustea di Colonia Concordia Iulia Carthago, questi territori si

avvieranno verso uno sviluppo sempre più prospero e rappresenteranno strategicamente e

politicamente un punto focale per Roma e i suoi possedimenti occidentali18

.

18

Migliario 2004, pp. 161-163

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I.2 Dalla dinastia giulio-claudia all’epoca di Costantino.

Il periodo post augusteo fu per Cartagine e per la neo-costituita Africa proconsolare un periodo

sempre più ricco e florido. La città ed il suo hinterland rappresentavano ormai uno dei capisaldi

nell'economia romana.

L'unione della vecchia Africa nova agli ex possedimenti numidici, non aveva fatto altro che

incrementare l'arrivo di genti italiche in queste terre, che specie lungo il corso del Bagradas erano

piuttosto prospere.

La stessa Cartagine, col suo importantissimo porto, costituiva non più la minaccia costante ed

incombente descritta secoli prima da Catone: ormai era a pieno diritto una civitas romana anche se

conservava, e conservò per lungo tempo, tratti autoctoni piuttosto marcati19

.

Tiberio primo successore di Augusto, ebbe all'inizio alcune difficoltà nell'amministrare questa ricca

provincia.

Dovette infatti reprimere una rivolta di tribù locali guidate da un disertore della Legio IX Hispanica,

storicamente noto come Tacfarinas. Per la verità i primi dissapori con le tribù africane dell’interno

si erano avuti all’indomani della creazione della provincia augustea e dello smembramento del

regno di Numidia che aveva costituito un elemento mediatore con lo stato romano. Le operazioni

militari videro coinvolti, tra il 35 a.C. e 9 d.C., i reparti dell’esercito romano contro i vari

Garamantes, Phazanii, Gaetuli, Marmaridae, Nasamones e Musulamii. Nel 14 d.C. il fuoco della

rivolta ebbe il suo comandante in Tacfarinas, un comandante che in passato aveva imparato l’arte

della guerra militando fra gli ausiliari romani. L’elemento scatenante del conflitto fu la costruzione

di una strada militare fra Ammaedara e Tacape, provvedimento che puntava chiaramente a

controllare le tribù che popolavano la porzione meridionale della dorsale tunisina. Il conflitto

presto assunse contorni giganteschi e durò per 8 lunghi anni. Le fasi furono contraddistinte da una

parziale sconfitta di Tacfarinas il quale dopo essersi rifugiato presso i Garamanti riorganizzò il suo

esercito riprendendo il conflitto. Egli stesso raggiunto dall’incalzante azione di Publio Cornelio

Dolabella fu costretto alla resa presso Auzia preferendo il suicidio alla cattura.

Con la vittoria sui ribelli furono poste le basi per una pacifica convivenza con le popolazioni

berbere, tant’è vero che solo pochi anni dopo in Africa furono introdotti i praefecti gentis,

personalità addette alla mediazione tra governatore e tribù.20

Il dato più interessante di questo mutamento del quadro politico è testimoniato dall’ incremento in

quegli anni ancora della produzione agricola: le merci africane erano destinate a tutti i mercati

19

Beschaouch , 1994, pp. 33 ssg 20

Ibba 2012, pp. 45-47

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14

dell'impero; ruolo rilevante naturalmente aveva poi il commercio delle ferae per i ludi circenses.

Le epigrafi tacciono sull' influenza del successore di Tiberio, Caligola, sulle province africane.

Tutto ciò fu causato da una damnatio memoriae che colpì egli stesso postumo. Caligola fu

protagonista tuttavia di una serie di riforme che segnerà successivamente la vita dell’intera Africa

romana. Egli trasferì le competenze provinciali di ordine militare ad uno ei suoi legati cercando di

superare l’anomalia della Proconsolare, unica provincia con legioni a non esser gestita direttamente

dall’imperatore. Sempre con lo stesso fu soppresso il regno di Mauretania sottratto all’alleato

Tolomeo. Furono quindi create successivamente nel 43 d.C. due province marginali; la Mauretania

Tingitana e quella Caesariensis.21

Sotto il regno di Nerone in Africa furono confiscate diverse proprietà private ai danni di latifondisti

italici, queste terre divennero parte dell'immenso latifondo imperiale. Naturalmente queste scelte

politico-economiche non recarono a Nerone le simpatie dei suoi sudditi.

L'Africa in quegli anni fu governata da persone che ebbero un'importanza rilevante per la politica di

Roma.

Governatori d'Africa furono infatti Galba, Vitellio e lo stesso Vespasiano, questo ci dimostra che

per il cursus honorum romano era fondamentale e di passaggio l'amministrazione della ricca e

forida Proconsolare. In particolar modo il regno di Vespasiano si aprì per tutta l'Africa in

un'atmosfera per nulla serena.

Vitellio, che occupava il trono, aveva al fianco i veterani delle legioni della Gallia e della regione

del Reno, le migliori truppe di Roma.

Ma il favore verso Vespasiano prese rapidamente a crescere e gli eserciti di Tracia e Illirico presto

lo acclamarono, e di fatto lo fecero, padrone di metà del mondo romano.

Vespasiano avanzò verso Roma e successivamente all' uccisone di Vitellio fu proclamato imperatore.

La dinastia dei Flavi rilanciò in Africa la politica di promozione del modello urbano, già avviata da

Augusto, spostandola tuttavia per lo più in direzione della promozione delle città indigene. Il nuovo

ordine costituito risultò fondamentale poiché si superò la momentanea anarchia generata dalla fine

della dinastia Claudia.

All'epoca era venuto meno il vero e proprio movimento di colonizzazione, consistente nella

fondazione di città dipendenti direttamente da Roma ad opera di gruppi di cittadini romani, di solito

veterani che ricevevano lotti del territorio.

L'ultima vera colonia fondata, quella di Timgad, si ebbe nel 100 d.C. al momento in cui la pax

romana sembrava ormai estendersi all'intera provincia, con l'arresto delle scorrerie di tribù getule,

maure o sahariane.

21

Ibba 2012, pp. 49-52

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15

Lo statuto di colonia divenne quindi in Africa puramente onorifico, costituendo un riconoscimento

per le città che si fossero più completamente assimilate al modello romano. Per tutto l'alto impero le

città d'Africa beneficiarono di un contesto economico particolarmente florido.

La provincia continuò ad essere interessata dalle incursioni delle tribù dell'interno.

A causa di ciò fu sempre una concentrazione di popolazione estremamente mista essendo

composta da una serie di gruppi tribali rappresentati dai Berberi (Numidi, Getuli e Maurisiani),

Fenici, Romani che componevano le tre maggiori componenti etniche delle province africane di

Africa Proconsularis e Numidia.

Il progetto di Vespasiano tuttavia fu continuato dai figli Tito e Domiziano. I figli del dinasta flavio

puntarono più a consolidare il controllo delle terre ormai saldamente acquisite piuttosto che a

ampliare i possedimenti provinciali. Domiziano assegnò a schiavi o liberti imperiali l’ esazione

della Quattuor publica Africae distribuiti in 19 uffici (stationes) aiutati e controllati da

contrascriptores e militari prelevati dai vari reparti provinciali22

. Una piccola digressione può essere

fatta a proposito del tributo dovuto all’erario sopracitato, il Quattuor publica Africae. Questa

nomenclatura si ritrova in diverse iscrizione ma il suo utilizzo, il suo significato la sua stessa

riscossione risultano poco chiare. Alcuni storici dopo attenti studi hanno ipotizzato che questa serie

di parole riguarderebbe il portorium che le 4 divisioni territoriali africane versavano al fisco

romano, poiché gli interi possedimenti africani risultano divisi in 4 circoscrizioni doganali. Città

“capitali” di questi distretti fiscali risultano essere: Cartagine, Adrumento, Ippona e Leptis Magna.

La sigla Q.P.A è stata paragonata da molti ad altre tipologie d’imposta come la Sex Publicae

Siciliae, la realtà risulta ben diversa poiché la Sicilia non risulta essere divisa in 6 distretti fiscali.

Risulta ampiamente più probabile che questa sigla si riferisse a quattro differenti tipologie di

imposte pubbliche che i provinciali africani erano tenuti a versare.

Le tassazioni previste erano le seguenti:

1)Portorium

2)Vigesima Libertatis

3)Quinta et vicesima venalium mancipiorum

4) Vigesima hereditatium

Sotto Traiano è probabile che le tassazioni componenti la Q.P.A furono separate dai portoria,

tuttavia questa dislocazione dovette causare dei problemi poiché furono chiamati alla riscossione

altri funzionari e solo successivamente si decidette di tornare alle riscossioni operate da compagnie

di publicani.23

Gli uffici dei portoria risultano essere in 5 importanti porti africani: Leptis Magna,

22

Ibba 2012, pp. 58-60 23

De Laet 1949, pp. 247-254

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16

Cartagine, Utica, Rusicade e Chullu. Cartagine stessa doveva ospitare gli uffici più grandi per la

riscossione della Q.P.A., in oltre ognuno di questi centri portuali aveva pecurialità importanti per la

tipologia di commerci che esercitava (es. Rusicade centro attivissimo nel commercio di granaglie,

Chullu centro di riferimento per il commercio della porpora.). oltra ad uffici di riscossione siti in

zone costiere altri dovevano essere installati all’interno nel percorso del cursus publicus, esempi di

quanto detto ci giungono da Vaga, un sito all’interno, dove fu recuperata un’ iscrizione riferita

proprio a questa attività24

.

Questo continuo sviluppo economico-produttivo portava a continue invasioni da parte dei Berberi,

anche dopo le pacificazioni che c’erano stato verso la fine del I secolo a.C. Queste popolazioni

nomadi essendo state confinate ai margini della ricca Africa romana cercavano con insistenza di

accaparrarsi le ricchezze dei territori imperiali.

Con l’avvento dell’ ispanico Traiano, la frontiera fu spostata ancora di più a sud racchiudendo le

alture a nord delle province e i territori fertili, costruendo di fatto una linea di fortificazioni che

andava da Vescera (moderna Biskra) a Ad Majores (attuale Henchir Besseriani) nel profondo

deserto sud orientale, per meglio proteggere gli interessi dei possessores romani.

Probabilmente in seguito la linea difensiva si estendeva almeno fino a Castellum Dimmidi (moderna

Messaad), in un area che fu ampiamente sviluppata e colonizzata durante il II sec. d.C. intorno al

centro di Sitifis.

La presenza militare durante l’impero fu limitata in quest’area del nordafricana ad un totale

compreso tra le 25-30.000 truppe totali, di cui moltissimi ausiliari nelle province di Numidia e delle

due Mauretanie affiancate esclusivamente dalla Legio III Augusta che stazionò, difendendone i

confini, per più di quattro secoli e che proprio in questo arco cronologico fu spostata da Theveste a

Lambaesis. La conquista di nuove terre fertili interessò anche la Proconsolare non solo creando

nuovi fortilizi a ridosso degli chotts tripolitani ma anche e soprattutto inglobando all’interno della

provincia il massiccio dell’ Aurès. Traiano quindi funse in un certo senso da spartiacque fra due

concezioni di gestione territoriale: da un lato una concezione legata ancora al continuo afflusso di

immigrati italici e di cives romani, dall’altro le attente e doverose richieste dei cittadini africani

ormai pienamente integrati nel sistema imperiale. L’ opera traianea fu completata dal successore,

Adriano. Quest’ultimo visitò di persona ben due volte l’Africa cercando di favorire ancora di più

l’integrazione tra provinciali governo25

. Tra gli Antonini, per l’Africa, svolse un ruolo importante

colui che a Roma, come in precedenza Caligola, aveva subito la damnatio memoriae, Commodo.

Egli, tralasciando il quadro storico giunto fino a noi altamente denigratorio, elaborato dai suoi

24

De Laet, 1949 pp. 256-259 25

Ibba 2012, pp. 61-68

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17

biografi, dimostrò di essere piuttosto equilibrato e dinamico nel governo delle province soprattutto

per quel che concerne il contesto africano.

Un primo esempio di quanto precedentemente affermato ci viene direttamente dall’eccidio dei

martiri scillitani: il fatto delittuoso avvenne tra il 180-181 d.C. ma non fu l’imperatore ad emettere

la condanna bensì il governatore d’Africa P. Vigellio Saturnino, anzi Commodo stesso venuto a

sapere dell’ accaduto ebbe forti rimostranze.

Nell’ambito delle già citate lotte contro le popolazioni berbere del limes egli ebbe il gran merito

pacificare anche tramite la diplomazia, una terra flagellata da sempre da razzie barbariche, la

Mauretania.

Il consolidamento del limes ebbe due effetti principali: innanzitutto garantì la sicurezza provinciale

e in seconda battuta aprì la strada ad una graduale e pacifica avanzata verso sud, alla ricerca di

nuovi spazi agricoli.

Fece accordi diplomatici con comunità indigene, dando loro piccole concessioni e privilegi, inoltre

attuò una promozione giuridica di alcuni centri provinciali, ad esempio Thuburbo Maius fu elevata

al rango di colonia onoraria26

.

L’imperatore, in maniera lungimirante, aveva capito che per consolidare il confine bisognava

arrestare le mire espansionistiche

La Proconsolare, in particolar modo, durante il suo regno vide un grande aumento nelle produzioni.

Prova limpida ed indiscutibile di ciò viene da un passo della biografia commodiana, che riporta

l’istituzione da parte dello stesso della cosiddetta Classis Commodiana, creata per favorire il

trasporto e l’approvvigionamento granario.

Il passo risulta essere molto esplicito: “Classem africanam instituit quae subsidio esset si forte

Alexandrina frumenta cessarent”27

.

Da questa probabilissima e veritiera fonte storica si deduce che la Proconsolare, al volgere del II

secolo d.C., risulta avere un’importante propensione verso la produzione e l’esportazione

frumentaria.

Conseguenza di questa fitta rete commerciale fu la risistemazione delle vie di collegamento tra l’

Hinterland e le installazioni portuali costiere.

Il dato sulla risistemazione viaria ci viene direttamente da un miliario rinvenuto tra Cirta e il porto

di Rusicade, voluto da Commodo poiché egli era stato il restitutor viae.

Riassumendo, infine, il trattamento di riguardo da parte di Commodo verso l’Africa può essere

desunto sia dall’ istituzione della classis Africana sia dal fatto che l’Africa fu l’unica meta di

26

Gebbia 2004, pp. 1627-1635 27

HA, XVII, 7

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18

viaggio del breve regno dell’ultimo degli Antonini. Nei territori africani quindi non attecchì mai la

“damnatio memoriae” che “l’usurpatore” subì in generale nell’impero28

.

Le simpatie commodiane erano ben corrisposte dai provinciale, basta pensare che ancora nel v

secolo d.C. è ricordato in maniera piuttosto trionfalistica dal poeta cartaginese Draconzio.

Alter ait princeps modico sermone poeta

Commodus Augustus, vir pietate bonus:

“Nobile Praeceptum, rectore, discite post me:

Sit bonus in vita qui volet esse deus”29

Con l’avvento dei Severi, soprattutto con la salita al potere nel 193 d.C. di Settimio Severo, ci fu la

separazione giuridico-amministrativa della Numidia dall'Africa Proconsolare; con la decisione di

affidarla ad un procuratore imperiale, per l’ Africa si apre una nuova e ricca pagina storica.

Egli imperatore d’origine africana nato a Leptis Magna, restò sempre affezionato alla sua terra e alla

sua gente.

Durante il suo regno, innanzitutto si arrestò in un certo senso la crisi economica che attanagliava le

casse dello stato romano.

Egli “arruolò” tra i suoi più fidati collaboratori molti africani; inoltre la sua predisposizione verso

quella terra fu confermata dagli imponenti interventi edilizi che riguardarono soprattutto Leptis, la

quale divenne sotto il suo regno un grande porto sul Mar Libico.

Al suo avvento al potere Leptis stava languendo e il porto insabbiato non funzionava più.

Ora, a parte il naturale interesse che l’imperatore nutriva per la sua città natale, egli ben conosceva

l’importanza di Leptis per la navigazione nel Mediterraneo: quindi cercò di salvarla.

Fu a Settimio Severo che la città dovette il notevolissimo complesso monumentale tutto incentrato

sul progetto di un nuovo porto, importante soprattutto come primo luogo di partenza del

pregiatissimo avorio africano30

. La presenza al vertice imperiale di una famiglia africana del resto

si può considerare come il culmine dell’età dell’ oro per questa provincia. Con la fine della dinastia

Severa si iniziarono ad intravedere sintomi di un malessere socio-politico sinonimo della decadenza

tardo-imperale31

.

Tra gli altri episodi poi di rilievo nel Tardo Impero è giusto sottolineare l'ascesa al trono nel 238

d.C. del governatore d'Africa Gordiano, che sciolse temporaneamente la III Augusta.

Il vento riformista del regno di Diocleziano coinvolse pure l’ Africa romana.

28

Gebbia 2004, pp. 1636-1642 29

Drac., Satisf., 188 30

Aurigemma 1940, pp. 69 ssg. 31

Ibba 2012, pp. 75-85

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19

Fu in generale in periodo di svolta per l’impero che agonizzante ormai seppe riprendersi

decisamente grazie ad un’ oculata politica socio-economica.

La riorganizzazione statale riguardò sia il cuore pulsante dell’impero, l’Urbe, sia la cosiddetta

periferia” realizzando un nuovo regime fiscale che risollevò notevolmente le esigue casse statali32

.

Giunge ora a piena maturazione quell’opera di penetrazione e di assimilazione degli spiriti, che

Roma aveva compiuta nei secoli precedenti, poiché proprio ora, sul tramonto dell’età antica l’Africa

tutta si mostrò così pervasa di cultura e pensiero romano da dare un contributo molto efficace ad

una vera e propria romanizzazione.

Tuttavia questo forte momento di coesione per così dire “provinciale”, fu scombussolato in parte

dai movimenti dalle tribù maure che ripresero con varia intensità nei primi anni del regno

dioclezianeo.

L’ascesa al trono di quest’imperatore d’estrazione chiaramente militare, portò una consequenziale

gerarchizzazione del potere nel mondo romano.

A causa dell’ingestibilità dei domini imperiali per la continua pressione di barbari, alle frontiere i

territori sotto l’egida dell’aquila, furono divisi amministrativamente al fine di controllare meglio

risorse e uomini.

L’Africa Proconsolare fu quindi divisa in Proconsolare Zeugitana (Proconsularis Zeugitana) e

Valeria Bizacena (Valeria Byzacena), entrambe entrarono a far parte della diocesi d'Africa nella

Prefettura del pretorio d'Italia.

La suddetta diocesi africana fu affidata a Massimiano, il quale in precedenza, aveva assieme allo

stesso Diocleziano partecipato come Cesare alla diarchia instaurata nel 285 d.C. Massimiano

fronteggiò ripetute volte le incursioni oltre il limes di popolazioni berbere, arrivando solo nel 305

d.C. a sedare i tumulti che da anni ormai affligevano quelle terre.

Iniziò da quel momento in poi una nuova fase per le province d’Africa. Ci furono immissioni di

milizie barbare poichè ormai risultavano integrate alcune popolazioni da tempo insediatesi nei

confini imperiali33

. Il sogno dioclezianeo svanì presto, praticamente all’indomani del ritiro a vita

privata dell’imperatore illirico nella sua reggia di Spalato.

Nacquero, com’era facile pronosticare, forti contrasti tra le parti in campo: da un parte il

governatore della diocesi d’africa Massimiano correlato dal figlio Massenzio; dall’altra parte

Costanzo Cloro che aveva ereditato i possedimenti gallici e il figlio, Costantino.

Queste guerre di “successione” che coinvolsero naturalmente anche la ricca Africa, portarono

Costantino da li a pochi anni, ad essere l’unico e incontrastato dominatore dell’impero romano.

32

B. H. Warmington 1954, pp. 33 ssg. 33

A. Barbero 2004, pp. 169-176

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20

Costantino cercò un ulteriore rinnovamento, sulla scia dioclezianea per il vecchio apparato statale

romano.

Conseguenza di ciò fu lo spostamento della capitale, e del potere a Costantinopoli fondata sul sito

della colonia greca di Bisanzio nel 330 d.C.

Quest’evento ebbe una portata notevole all’interno degli equilibri politico-economici dell’impero.

Innanzitutto Roma non era più il vero centro egemone, di conseguenza anche i mercati romani ne

risentirono della situazione insieme ad alcune province che si appoggiavano ad essi.

La provincia d’Egitto, che dopo la battaglia di Azio del 31 a.C. era diventata esclusiva proprietà

imperiale, passò a rifornire di beni di prima necessità (soprattutto cerealia) i fora costantinopolitani.

L’Africa, che con la decentralizzazione dell’Urbe era stata a sua volta coinvolta in questo processo,

tornò a rifornire i mercati dell’antica capitale ma, a causa dello spostamento degli interessi

economici, i commerci tra Africa e Italia, seppur frequenti e floridissimi, subirono un inevitabile

declassamento.

Con il 330 si aprì un nuovo capitolo della storia africana: il volume degli scambi non diminuì ma si

assistette ad un fenomeno che, nel corso dei secoli seguenti, si configurerà come un ribaltamento

dei flussi mercantili preesistenti.

Il cambiamento consiste in pratica nella direzione delle esportazioni: ad un assetto impostato sul

diretto e centripeto rapporto tra Roma e le province si sostituisce un sistema economico-

commerciale più variegato, articolato su una multipolarità dei mercati in rapporto interdipendente

tra loro.

È il segno di una vitalità economica più volte discussa in sede storica ma confermata da un’ampia

documentazione archeologica.

Con la conquista vandala del 439 d.C. l’economia nord-africana si strutturò diversamente ma non

subì un indebolimento ampliando il raggio di esportazione delle sue produzioni.

Tuttavia è difficile rilevare un incremento o un decremento del volume commerciale basandosi

esclusivamente sulla documentazione ceramica; è invece ragionevole pensare che l’arrivo dei

Vandali non avesse provocato un totale collasso dei livelli produttivi dell’agricoltura africana la

quale, anche se innegabilmente al di sotto degli standard raggiunti nel secolo precedente, continuò

ad alimentare fino all’arrivo degli arabi i mercati maggiori e minori, del mediterraneo occidentale34

.

34

A. Carignani 1986, pp. 612-613

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II Cartagine tra tarda repubblica e basso impero: topografia, strutture portuali e

sistema viario.

II.1 Topografia.

Il territorio in cui è stata insediata Cartagine è caratterizzato da numerosi cambiamenti topografici,

avvenuti fino ad epoca storica a causa dei sedimenti apportati dal già menzionato Medjerda (antico

Bagradas).

Il fiume compreso fra il Jebel Nahil ed il Jebel Ahmar, dovette colmare con un cordone sabbioso un

grande golfo naturale probabilmente ad ovest della città antica chiuso dal Capo Gammart.

L’esistenza di questo tombolo sabbioso provocò la creazione di tre veri e propri laghi salati. Anche

l’oued Miliane a sud dell’antica città punica apportò sedimenti formando l’attuale lago litoraneo di

Tunisi.

La ricchezza che contraddistinse per secoli Cartagine e il suo retroterra consistette soprattutto, oltre

che per l’invidiabile posizione geografica, la natura del suolo nord-africano. Esso si presenta infatti

prevalentemente formato d’argilla ma a tessitura fine e sufficientemente porosa da trattenere acqua

durante la stagione secca. Il clima prettamente mediterraneo poi permetteva il perfetto

attecchimento di coltivazioni tipiche mediterranee: cereali (Flavio Giuseppe nel I sec. d.C. cita la

Proconsolare come provincia grande produttrice di granaglie), olio e vino35

.

Geograficamente la città antica doveva quindi apparirci come un complesso abitativo compreso tra

il golfo aperto sulla costa di Utica, a nord-ovest, il Capo Gammart, e un lago a sud-est.

La naturale posizione strategica di Cartagine era poi ulteriormente rafforzata da un’imponente

scogliera a nord-est.

Le fortificazioni puniche che cingevano la città dovevano essere piuttosto imponenti e si

sviluppavano per circa 2000 passi, come indicato dalle fonti.

La città ebbe un crescita demografica piuttosto notevole, tutto ciò determinò la nascita di nuove aree

suburbane.

35

M. De Vos 2004, pp. 12-13

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Esse necessitarono di essere inglobate in una seconda cerchia muraria, creando un ampio circuito

fortificato che doveva, secondo gli autori classici, seguire l’andamento della penisola quadrilatera

isolata dal mare e dallo stagnum (odierno Lac de Tunis)36

.

L’elemento cartaginese, inerente le fortificazioni, si può ben confrontare col sistema difensivo

siracusano, precisamente con le rovine delle mura del forte Eurialo databile al V sec. a.C., poiché

anche qui può essere individuato un sistema di moenia triplice. La missione tedesca guidata dal

professor Rakob nell’individuazione di una porzione di mura inerente alla città punica (VI-V secolo

a.C.) ha rilevato nella costruzione la tecnica importata dalla Grecia definita ad emplekton visibile

anche successivamente con la sovrapposizione di strutture abitative puniche più recenti37

.

In maniera più generale il dato Cartaginese nella sua interezza può essere paragonato all’intero

sistema fortificato voluto da Dionigi il vecchio per Siracusa e non solo alla porzione del castello di

Eurialo. D’altronde la somiglianza topografica tra la città della Sicilia orientale e Cartagine era data

dalla posizione geografica; in entrambi i casi infatti bisognava difendere e sbarrare il punto debole

d’accesso verso il cuore della città (per Cartagine l’istmo che collegava la penisola alla terra ferma,

mentre per Siracusa era la dorsale a schiena d’asino dell’Eurialo)38

. L’impianto topografico della

città punica, fino alla sua distruzione, prevedeva uno schema ortogonale di “insulae” contornate da

una serie di ville patrizie poste proprio in prossimità della spiaggia39

.

Il cuore della città fu posto all’interno del sistema di collinette che contraddistinguono la dorsale

immediatamente interna e parallela alla costa: la collina di Giunone, la collina dell’Odeon e la

celeberrima Byrsa, ai piedi di quest’ ultima si estende poi una breve pianura costiera40

.

È facile dedurre perché i primi tirii giunti in questa insenatura, scelsero questi suggestivi luoghi:

innanzitutto il sistema endo-lagunare garantiva sia una protezione ulteriore a livello strategico, sia

una via di comunicazione sicura e meno perigliosa sotto costa.

La posizione scelta per la fondazione della città fenicia permetteva facilmente il controllo delle rotte

mediterranee, poiché era un punto di facile approdo per merci e uomini.

Capo Bon forse identificato come l’antico Caput Bellum, dista poi circa 90 km dalla Sicilia, isola

con un’importanza storica rilevantissima abitata sia da popolazioni autoctone ma anche e

36

App., VIII, 8. L’autore latino descrive così le mura cartaginesi: “…Dalla parte del mare la cinge un muro solo, poiché

le sponde sono ripide; ma a mezzogiorno verso il continente il muro è triplice. Ognuno di questi (tre) muri larghi 30

piedi e alti 30 cubiti, oltre i merli e le torri, le quali cingono il muro, in distanza di due iugeri, l’uno dall’altra, ordinata.

ciascuno a 4 piani. Ogni muro seguendo l’altezza è distinto in due parti; ciascuna vuota all’interno si che la più bassa

tiene le stalle per 300 elefanti e le conserve dei loro viveri, mentre quella di sopra ha stalle per 4000 cavalli con

magazzini per l’orzo, per fieni e i quartieri per fanti.” 37

Rakob 1985, p. 7 ssg. 38

Pace 1931, pp. 1-4 39

Nyemer 1987, p. 8 40

G. Di Stefano 2009, p. 12

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soprattutto da genti venute dalla Grecia,; le quali con ingegno ed impegno avevano fondato nel

corso dei secoli, città floride e opulente. Il legame tra Cartagine e la Trinacria fu sempre molto

intrinseco, basti pensare all’importantissimo punto di passaggio marittimo che si viene a creare tra

Capo Bon e Capo Lilibeo.

Polieno(VI 16,2), a riprova di ciò, cita che tra le siculo-puniche ci fosse addirittura un sistema di

segnalazione ottica, cosa comunque alquanto improbabile visto le grandi distanze41

.

La prima fase dell’abitato è riscontrabile archeologicamente tra l’ VIII e il VI secolo a.C. ed è

documentata tramite evidenze del tofet grazie ad uno scavo condotto da un’ equipe americana, che

fissa la più antica frequentazione del sito sacrificale all’ultimo quarto dell’ VIII secolo a.C42

. La

missione tedesca guidata dal professor Rakob individua nei suoi scavi di fine anni ’80 uno dei primi

quartieri di abitazione ubicato direttamente sul litorale che avrà ampio sviluppo nei secoli successivi

collegato alle già citate mura ed ad una porta d’accesso43

. Progressivamente l’urbanizzazione vide

un determinato sviluppo ad est del colle di Byrsa fino al litorale, in contemporanea la scacchiera

urbana si sviluppa anche a nord delle necropoli creando un nuovo quartiere urbano la nèapolis. Tra

il III e il II sec. a.C., nel momento di maggiore sviluppo della città, si assiste ad un progressivo

avanzamento delle mura verso il mare con ulteriore ampliamento del quartiere connesso alla zona

litoranea ed a un generale ampliamento della pianta cittadina con la costruzione dei 4 isolati

rinvenuti a Byrsa, il cosiddetto quartiere Hannibal.

Cartagine quindi, da piccolo centro presto divenne egemone sia nel proprio sistema regionale sia e

soprattutto, tramite un potere incontrastato, sui mari.

La sconfitta subita consequenzialmente allo scontro con Roma portò la fiera nemica ad un

inevitabile quanto ovvio declino.

Il sito abbandonato fu consacrato agli dei infernali e per un periodo determinato fu lasciato alla

mercè degli agenti atmosferici.

Un primo tentativo di ricolonizzazione del sito fu fatto dal tribuno della plebe Gaio Gracco nel 122

a.C., egli alla testa di 6000 coloni tentò, a dire il vero senza fortuna, di rifondare la citta come era

stato previsto dalla lex Rubria.

Il promotore della legge fu Rubrio, un tribuno amico di Gaio, egli presentò una norma per la

colonizzazione di Cartagine, distrutta nel 146 a.C. Grandi lotti di 200 iugeri (50 ettari) potevano

soddisfare abbondantemente la richiesta di terra dei contadini, ma anche i mercanti potevano trovare

particolari facilitazioni commerciali.

41

Medas 2004, pp. 79-80 42

Acquaro 1994, p. 3 43

Rakob 1987, p. 8

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24

Secondo i progetti graccani la città doveva sorgere sulla Cartagine punica, luogo già maledetto

dopo la distruzione del 146 a.C. tutto ciò ebbe un peso notevole nell’insuccesso di Gaio Gracco.

Lo schema centuriale fu impostato a partire dalla sommità della Byrsa (151 m. sul livello del mare)

e la centuriazione della colonia graccana seguì l’andamento della conformazione del territorio su

cui si era impostata la metropoli punica.

Alcuni lotti di terreno furono assegnati, troviamo infatti numerose tracce di questa prima

parcellizzazione territoriale nel settore ovest della città. L’ordine di orientamento della colonia

graccana e della successiva colonia augustea è il medesimo, quello che cambia dal punto di vista

centuriale è l’orientamento dei cardini e dei decumani nelle due centuriazioni, in questo caso

divergente il progetto graccano tuttavia si arenò prima di cominciare.

L’ impresa fu fagocitata dal partito oligarchico senatoriale che ad arte riuscì a sfruttare motivi

religioso-politici.

L’insediamento di una vera e propria colonia, come già anticipato in precedenza avvenne solo

quando Cesare, secondo una leggenda e dopo un sogno, nel quale durante un estasi vide un esercito

in lacrime nei pressi delle rovine di Cartagine, decise di dedurre sul sito della più acerrima nemica

di Roma una nèapolis44

.

L’insediamento della colonia cesariana, documentata da diverse fonti, è controverso: secondo

Plinio il vecchio avvenne in sovrapposizione alle macerie della città punica (NH V, 24) mentre

secondo Appiano avvenne in un’area contigua in ossequio ai divieti imposti da Scipione Emiliano

(Lib., 135-136).

Probabilmente analizzando queste tesi contrapposte e grazie ad importanti dati provenienti dalla

ricerca archeologica, la deduzione cesariana e la successiva deduzione augustea, si impostarono in

parte sui quartieri della Cartagine punica e in parte su un nuovo areale non molto distante comunque

dal nucleo più antico.

La deduzione ufficiale, che veniva a coronare il sogno “mistico” di Cesare avvenne, con Ottaviano.

Debolissime infatti sono le tracce archeologiche di una occupazione pre-augustea, cioè relative al

periodo immediatamente precedente al 29 a.C. (anno di fondazione della nuova Colonia Iulia

Concordia Karthago).

Secondo le fonti la deduzione della colonia non fu immediata. Nel 29 a.C. fu inviato un primo

contingente di 3000 coloni e solo sedici anni dopo il proconsole Saturnino compirà i riti propiziatori

che consentiranno effettivamente di rioccupare il sito. Oggi grazie a diverse campagne di scavo, è

stato possibile individuare l’estensione complessiva della città.

Ad ovest, verso l’entroterra, il limite urbano in tutte le epoche era certamente coincidente con

44

App., VIII 136

Page 25: Cerealia, oleum et vinum: i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

25

l’inizio della centuriazione nord e con l’allineamento delle cisterne della Malga fino al Teuerf el

Sour, una scarpata naturale con il perimetro irregolare.

Questo limite urbano era anche segnato dalle necropoli : quella di Bir el Zeitoun (età repubblicana),

quella di Bir el Jebbana (età giulio -claudia), quella “des officinales” (II sec. d.C.) e infine quella di

Teuerf el Sour (metà I sec. d.C.)45

.

Un’altra necropoli marcava poi il limite meridionale di sud-est, la cosiddetta necropoli di Salambò

(fine I sec. d.C.-inizio II sec.d.C.)46

.

I porti e la linea di costa erano poi i limiti naturali della città fino alla collina di Santa Monica a

nord-est.

Il perimetro della prima colonia verso nord doveva essere più limitato, poiché a settentrione infatti

due necropoli dovevano imitare l’impianto più antico : a sud della collina di Borj Jedid a Douimés

(metà I sec. d.C.) e sulla collina dell’ Odeon.

Per quanto riguarda la nuova fondazione augustea, invece, fu l’archeologo Charles Saumagne che

nel 1924, ipotizzò, per la città africana un’urbanistica regolare. L’ urbanistica della nuova colonia

fu frutto di una scelta strategica al fine di utilizzare determinati luoghi per le loro caratteristiche

topografiche.

Questa scelta fu probabilmente anche determinata da un preciso volere politico, oltre che da

un’evidente concezione topografica.

Forse non si voleva cancellare completamente l’acerrima rivale, ma tenerla “viva” facendo in un

certo senso rivivere il suo antico cuore amministrativo e politico. A parte primi lavori riguardanti il

foro, che iniziarono nel 29 a.C., i primi isolati furono edificati attorno la fine del I sec. a.C.

Secondo lo studioso francese, l’impianto neocostituito si andava ad impiantare sovrapponendosi

direttamente alla città punica. Egli “creò” la pianta della città basandosi su un geometrico

empirismo teorico: uno spazio quadrangolare di 1776 metri per lato diviso in 4 centurie.

Le centurie erano poi separate da due strade assiali e ortogonali, come in ogni impianto urbanistico

romano : il decumanus maximus ed il cardo maximus.

Secondo questa ricostruzione la groma era posta, come d’altronde per la colonia graccana, sulla

Byrsa la collina che domina il sito e solo le due centurie prospicenti il mare non si sarebbero

completate sul margine orientale perché seguivano l’andamento irregolare della costa.

Questo eccessivo geometrismo dell’impianto urbano coloniale nella realtà è da sfumare poiché,

analizzando la presenza delle necropoli citate precedentemente, si può chiaramente intuire che il

loro andamento irregolare non può circoscrivere una pianta perfettamente regolare, come ipotizzato

45

Carandini et alii, 1983, pp. 9-16 46

Carton 1918, pp. 140-150

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26

dal Saumagne. Il processo di formazione della città romana non riempì da subito in modo

uniforme tutte le maglie della forma urbis ne si contenne entro i limiti prefissati dalla pianificazione

urbana, fu uno sviluppo lento e graduale.

Interessante risulta quindi seguire lo sviluppo delle diverse fasi urbanistiche della città. Gli scavi

archeologici realizzati da diverse equipe internazionali (francesi, tedeschi, canadesi, inglesi e

italiani) sono per le analisi topografiche, di fondamentale importanza. Innanzitutto sono

fondamentali le verifiche delle strade principali dell’abitato: cardines e decumani misurano 24

piedi il cardo maximus misura 24 piedi mentre il decumanus maximus 48 piedi.

Il decumano massimo, l’asse portante dell’impianto urbanistico, era in realtà una strada con una

relativa pendenza (dotata di un vero e proprio marciapiede) sia per chi la percorreva dalla costa, sia

per chi proveniva dall’entroterra.

Gli agrimensores avevano ovviato al problema dello scorrimento delle acque, realizzando ai lati di

questa strada principale, delle canalette.

I tecnici che lavorarono all’impianto urbanistico della nuova fondazione augustea, dovettero

logicamente affrontare il problema della natura del terreno sul quale dovevano impostare i nuovi

fabbricati. Cartagine infatti geologicamente è contornata e si sviluppa su una serie di basse colline.

L’esperienza degli agrimensores contribuì a risolvere il problema creando un efficace sistema di

terrazzamento, per facilitare la viabilità all’interno dell’abitato stesso.

Rakob durante le sue già citate indagini, individuando tracce di alcuni edifici tardo punici, i quali

si andavano allineandosi con il cardine XVIII est, dimostrò sostanzialmente che c’era stato in parte

una sorta di continuum abitativo tra la fase punica e quella augustea.

È probabile comunque che durante la pianificazione urbanistica si lavorò contemporaneamente sia

sulla linea costiera sia sulla Byrsa che sulla collina dell' Odèon.

Il primo problema che i tecnici romani dovettero affrontare fu sicuramente quello delle riserve

idriche. Il sito era posto in una zona che causa le aride condizioni climatiche, da sempre aveva

sofferto la mancanza di riserve efficienti e costanti.

Cartagine fu dotata, in epoca medio imperiale, di un grande acquedotto che riusciva a portare in

città ed a rifornire il suo ampio retroterra portando dalla fonte, un corrispettivo notevole d’acqua.

Zaghouan era, con suo ninfeo dedicato al culto delle acque, il caput acquae cioè il punto di partenza

di questo complesso idrico.

Il sistema si sviluppava per 132 km fino al castellum aquae sito nella nuova colonia di Cartagine47

.

47

Baiocchi 2009, pag. 88 ssg.

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27

La stessa città era salita al rango di “capitale” proprio grazie alle imponenti terme di Antonino

alimentate dall’acquedotto di Zaghouan48

.

L’acquedotto era costituito da due rami principali: quello di Zaghouan e quello di Djouggar i quali

si congiungevano all’altezza di Moghrane.

Solo una piccola parte del percorso era aereo, la restante costruita al livello del suolo e una parte

sotterranea.

Ad ogni modo la data di ultimazione dell’acquedotto coinciderebbe con la realizzazione del

complesso termale cartaginese, questo conferma la teoria che considera l’acquedotto un’opera

edilizia fondamentale per l’approvvigionamento idrico della città.

La base di quest’impianto termale aveva la dimensione di un intero isolato urbano. Era il più grande

ed imponente complesso termale del Nordafrica.

Esse rientrano nel grande programma urbanistico della metropoli punica. Occupano il volume di 6

isolati fino all’estremo limes maritimus. Costruite in circa vent’anni, tra il 144 e il 167,

costituiscono all’interno della romanitas d’occidente il più grande edificio dopo le costantiniane

terme di Augusta Trevirorum (Treviri). Per le realtà provinciali, assieme ad altri edifici come teatro

e anfiteatro, le terme costituivano una sorta di status-quo per l’effettiva elevazione a rango di città

romana. La particolarità di questa splendida e grandiosa costruzione sta nell’essersi adattata

perfettamente alla conformazione geomorfologica di Cartagine, usufruendo e ottimizzandone al

massimo dei suoi spazi. Le problematiche che gli architetti romani dovettero superare furono

soprattutto quelle legate al volume di quest’edificio, il quale si andava ad impiantare quasi al livello

del mare.

Di norma gli ambienti di servizi in edifici termali venivano costruiti nei sotterranei, il caso

cartaginese ci dimostra ancora una volta, l’alto grado d’ingegneria che i tecnici romani raggiunsero.

Data l’impossibilità di costruire sottoterra (a causa della presenza del mare), l’edificio fu compreso

attorno ad un grandissimo frigidarium creando una serie di ambienti semicircolari tutti distribuiti

attorno ad esso. Il frigidarium stesso poi era contornato da palestre di forma quadrata 49

.

Lo studio dei resti di quest’ambiente ha permesso di riscrivere la storia dell’intero edificio.

Precedentemente, infatti, si pensava che la sua distruzione fosse da imputare all’assedio vandalo

operato da Genserico.

Oggi, dopo attente ricerche, si è constatato che l’edificio in realtà cadde in rovina a causa

dell’incuria e del mancato restauro che esso necessitava quotidianamente. Tutto ciò generato dal

clima di forte declino sociale che aveva investito l’intera Proconsularis e l’impero in generale tra la

48

La costruzione delle terme di Antonino fu ultimata nel 165 d.C. 49

Torelli-P. Gros, 1994

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28

fine del IV e inizi del V secolo d.C50

. Importantissime riserve idriche, oltre all’acquedotto, erano

poi per l’antica città punica le cosiddette cisterne della Malga.

Queste costruzioni avevano costituito per secoli e prima della costruzione dell’acquedotto, l’unica

riserva idrica cittadina. La documentazione storica della loro esistenza è molto antica, tant’è vero

che l’arabo Idrissi nelle sue opere narra di questo grande edificio composto da 24 serbatoi

sormontati da cupole separati ad intervalli da una serie d’aperture per il transito dell’acqua. Tissot

nel 1884 contava solamente 14 serbatoi misuranti ognuno 320x25 piedi ma allo stesso tempo rileva

la presenza di una cisterna posta trasversalmente larga 17 piedi sita oltre le altre. Nel 1964 invece a

testimonianza della difficoltà nella lettura storico-archeologica al monumento, Haus-Miedan

descrive 24 cisterne di 814 m di lunghezza e 8 di larghezza. Il Falbe ipotizza che le cisterne siano

state alimentate dall’acquedotto, Vernaz dice invece che quest’ultimo vi passasse solo accanto

Magne addirittura che per la loro consistente portata d’acqua alimentassero le altre cisterne di Borji

Jedid51

. Oggi del monumentale complesso idraulico considerato la più grande riserva d’acqua

coperta del mondo antico, rimangono 16 vasti serbatoi di forma rettangolare, messi in opera con

malta cementizia, per una capienza complessiva di 51000 mc .

L’utilizzazione delle cisterne in contesti in cui l’acqua, a causa di una relativa aridità, costituiva una

risorsa preziosissima era caratteristico in queste zone.

Per l’approvvigionamento idrico ogni fattoria disponeva di cisterne e/o serbatoi privati, mentre la

fattorie più ricche erano servite da condotte che traevano l’acqua dalle sorgenti o da torrenti, altre

invece possedevano una sorta di impluvium direttamente ricavato nella roccia.

L’approvvigionamento idrico privato vide un grande sviluppo soprattutto dal 9 a.C., in seguito alla

lex Quinctia la quale vietava il danneggiamento e la captazione illecita di acqua per uso agricolo

senza l’autorizzazione dei curatores aquarum52

.

La situazione idrica cartaginese nello specifico, è contraddistinta da aree in cui erano inglobate

queste grandi massa d’acqua ricavate fra la collinetta di Tunisi e La Marsa.

Le camere che dovevano ospitare le acque presentavano delle volte a botte realizzate in opus

caementicium; di per sè questo dato non ci permette di collocarle cronologicamente in un arco

cronologico di un preciso periodo, poiché fu una tecnica edilizia usata, a lungo ed in maniera

costante, a Cartagine per tutta l’antichità53

.

50

Lezine, G. Picard, C. Picard 1956, pp. 426-428 51

Verite 1989, pp. 41-46 52

De Vos 2004, pp. 24-25. I curatores aquarum sovrintendevano all’approvvigionamento idrico della città e

all’amministrazione della rete idrica urbana, compresi i lavori di costruzione e manutenzione degli acquedotti.

Considerate le scarse conoscenze relative alla cura aquarum in età repubblicana, è con l’età imperiale che abbiamo un

netto quadro della situazione: esistevano tre curatores di rango senatorio di cui un consularis in qualità di presidente e

due adiutores (uno dei due era almeno un praetorius) come consulenti tecnici. 53

Hurst 1993, p. 333

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29

Per quanto riguarda il problema dell’alimentazione idrica di questo sistema, recenti studio hanno

confermato che il complesso sistema della Malga fosse alimentato sia dalle acque dell’acquedotto di

Zaghouan sia dalle acque piovane, le quali venivano incamerate dalle volte e probabilmente anche

da un altro acquedotto minore, forse un secondo ramo di quello di Zaghouan.

Recenti dati archeologici e topografici hanno stabilito che la riserva idrica, posta fra il limite della

centuriazione riferita dal Saumagne per la colonia Junonia e quella attribuita per la colonia Julia,

fosse già stata inserita nell’ impianto urbanistico della colonia, poiché una città cosi grande e dotata

di imponenti infrastrutture non poteva prescindere da prevedere una grande riserva idrica ai limiti

della città stessa.

In sostanza la zona della Malga fungeva da cerniera e zona di raccordo tra campagna e centro

abitato. Il sito oltre che importante dal punto di vista funzionale era piuttosto monumentalizzato, era

diviso in due settori: il settore della grandi cisterne e quello delle piccole cisterne.

Quest’ultimo presentava, poco oltre il punto dove terminava l’acquedotto di Zaghouan, una fontana

monumentale a cascata. La fontana era impreziosita da una decorazione a mosaico molto importante,

con una commistione di elementi che richiamavano l’importanza delle acque fluviali e marine.

La fontana della Malga può essere inquadrata nella tipologia a cascata, tipologia che seppur in

minoranza è riscontrata in Nord Africa ed in Egitto. Le fontane a cascata sono modelli per così dire

ibride, poiché possono essere categorizzate a metà tra le normali fontane con specus rettangolare e i

ninfei.

La realizzazione di quest’opera avrebbe quindi una forte valenza simbolica dato che

rappresenterebbe il fluire dinamico delle acque, ricollegando il monumento direttamente alla

sorgente di Zaghouan, il punto di partenza dell’acquedotto, che grazie all’intervento di Adriano era

stato realizzato “salvando” la città per sempre dalla siccità.

Altro fattore fortemente evocativo fu quello collegato al culto di Nettuno non come dio del mare,

ma in generale come dio delle acque54

.

Quest’evidenza archeologica così sontuosa e monumentale non doveva essere fine a se stessa e ci

suggerisce l’esistenza di uno spazio antistante a carattere pubblico.

L’area che ospitava questa ricca e decorata fontana doveva essere una sorta di piccolo foro con

valore civile, tanto da equiparare l’area al foro sulla Byrsa o alle strutture dell’agostiniana Platea

maritima. Si tratterebbe di un cosiddetto campus progettato da subito anch’esso, nell’impostazione

urbanistica della città ed in previsione di un suo sviluppo verso l’area nord.

Falbe durante i suoi lavori topografici, mette in pianta proprio in questo settore un edificio su podio

54

Mosca-Di Stefano 2006, pp. 869-877. Nel Nord Africa secondo una stima in percentuale la presenza di fontane a

cascata si staglia sul 3%, il dato più basso. Il dato più alto invece è rappresentato dai ninfei presenti, secondo i dati di

ricerca, al 40%.

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in opera cementizia con malta idraulica all’interno, dovrebbe essere l’altro limite di demarcazione

della piazza, infatti il Wilson definisce il complesso indicandolo come “bagno” .

Lo stato odierno della situazione tuttavia non permette di fare valutazioni certe sull’intero

complesso piazza-fontana.

Il complesso idraulico delle cisterne era comunque allineato secondo l’asse della centuriazione nord,

fra il decumano I nord ed il cardine XVI ovest e fungeva anche da porta d’ingresso alla città per chi

giungeva dalla campagna55

.

Fra il muro della camera longitudinale delle cisterne e l’acquedotto esiste uno spazio ristrettissimo:

è stato verificato che il paramento del muro esterno delle cisterne è intonacato e quindi è senza

dubbio precedente all’acquedotto.

Difficile invece risulta stabilire la cronologia assoluta dell’intero complesso. Una prima ipotesi fa

risalire il tutto tra il 29 a.C. e il secondo quarto del II sec. d.C. la probabile data, quest’ultima, della

costruzione del già citato acquedotto di Zaghouan.

La presenza di questa grande riserva idrica, correlata dalle grandi cisterne della Malga, e messa

fortemente in relazione con la città e col ricco territorio, permette un’analisi istantanea del sistema

economico cartaginese vigente fin dai tempi più remoti: campi frutteti e appezzamenti a produzione

diversificata, tutto ciò costituiva un reale pericolo per Roma e per i latifondisti italici.

Con la conquista romana il quadrò non mutò, i romani impostarono il loro sistema su radici ben

salde, non dovettero, come in altri territori, costruirlo ex novo.

La ricchezza monumentale della città “nacque” per cosi dire dalla sua ricchezza territoriale, con un

grande sviluppo economico della comunità cartaginese: i nuovi conquistatori romani non fecero

altro che ampliare e potenziare le strutture.

La costruzione della maglia urbana fu comunque per un certo periodo piuttosto discontinua.

Grazie ai dati pervenutici da diverse ricerche si può affermare che questo piano urbano, con

l’inclusione a progetto del porto, dell’ anfiteatro e del teatro, si conclude attorno alla fine del I sec.

d.C. Forse una nuova fase urbanistica è attestata a Cartagine in corrispondenza di un incendio che

nel 140 d.C. distrusse parte del centro cittadino56

.

È molto probabile comunque che con l’età degli Antonini e successivamente col regno dei Severi,

soprattutto per ovvie ragioni “territoriali” con Settimio Severo, si avviò un notevole processo di

crescita urbana.

Nella zona dei porti vengono sistemate le insule nord e viene trasformato il porto stesso, a nord-

ovest il limite urbano è invece attestato lungo il perimetro del già citato Teuerf el Sour, dove la

55

Rakob 1995, pp. 416-420. Fornisce una dettagliata suddivisone di Cartagine in cardini e decumani. 56

Ha., IX 4

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31

necropoli ormai svolge la funzione di perimetro in questa zona della colonia augustea.

Come ogni colonia romana che si rispetti la città, nel suo grande programma urbanistico, venne

dotata di edifici per spettacolo.

Questi edifici erano una sorta di status symbol per il raggiungimento di una romanizzazione

completa.

Programmati fin dalla nascita della deduzione coloniale, queste costruzioni furono poste secondo

uno schema ben preciso, seguendo dettagliatamente i canoni planimetrici romani: marginalmente al

centro abitato e con una relativa distanza l’uno dall’altro, inseriti nel tessuto organico come

“elementi modulari”57

.

Il teatro fu realizzato alle pendici meridionali della cosiddetta collina dell’Odèon, sull’asse

incrociante tra cardo V est e decumani IV e V nord, sfruttando la natura geomorfologica del terreno.

L’orientamento dell’opera era in direzione sud/est con diametro di cavea misurante 104 m. Si stima

che l’edificio potesse contenere e fosse stato progettato per circa 11.300 spettatori. La cavea

presentava 43 ordini di gradini ed era divisa in 6 cunei da 5 gradinate con 3 corridoi anulari.

Una porticus completava la summa cavea, non poggiante però direttamente sulla roccia, ma su

contrafforti artificiali. Questo espediente era stato realizzato poiché il fianco della collina era stato

“scavato” da secolari tombe ipogeiche. Il pulpitum aveva nicchie di forma semicircolare, una di

esse era rettangolare, con 2 scalette poste all’estremità.

La frons scenae era rientrante, con grandi nicchie, precedute da un basso podio su cui poggiava il

colonnato.

Esattamente in questo punto, durante delle operazioni di scavo, venne alla luce l’imponente statua

di Apollo citaredo, correlato da una serie di altre sculture minori.

Queste evidenze archeologiche portano a ipotizzare la presenza di un luogo riccamente decorato.

Verosimilmente si può datare la realizzazione dell’opera al 110-160 d.C. con modifiche e successive

monumentalizzazioni datate all’epoca severiana.

La “casa” dei munera et venationes era invece uno dei luoghi della romanità per eccellenza;

l’amphiteatrum. Esso giaceva tra il cardo XVIII e XX ovest immediatamente a sud del decumano

massimo. In questo caso verosimilmente, la datazione risale all’epoca augustea o al più alla dinastia

giulio-claudia.

Markers diagnostico in questo senso risulta essere la tecnica costruttiva, un opus reticulatum, chiaro

segno di cronologia non posteriore al I sec. d.C.

L’edificio aveva dimensioni allungate, con arena misurante tra i 64,66 x 36,70 m., con dimensioni

standard seguito dagli artifices romani, costituito dal riempimento artificiale con compartimento a

57

Torelli 1990, pp.53-55

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cassoni e andamento radiale. Presentava un unico ambulacro corrente alle spalle del podio,

quest’ultimo alto 2,5 m.

La facciata esterna, riccamente decorata, era ricoperta da marmi provenienti dal vicino Caput

Bellum (moderno Capo Bon)58

. Le uniche aperture erano costituite dai 4 ingressi che immettevano

direttamente sull’arena.

Consequenzialmente allo ius italicum, concesso da Settimio Severo durante il suo viaggio in Africa

(202-203 d.C.), Cartagine, in quella occasione diventata municipium, offrì alla gloria

dell’imperatore africano, come del resto altre città africane che avevano ricevuto lo stesso privilegio,

dei ludi.

A questo grande edificio, in conseguenza a ciò, sono legati questi ludi “severiani”, durante i quali

furono espletate le famose persecuzioni volute dall’imperatore africano ai danni di cristiani, che

non avevano voluto abiurare la loro fede.

L’ anfiteatro di Cartagine, risulta essere dopo l’anfiteatro Flavio e quello capuano il più grande del

mondo romano, tanto grande da occupare lo spazio di 4 insule.

Tornando ad analizzare la situazione topografica della colonia bisogna soffermarsi naturalmente su

gli interventi che riguardarono l’area più rappresentativa, il foro sulla sommità della Byrsa59

.

Proprio il foro merita un’attenzione particolare. Esso in quanto centro del potere doveva

rappresentare in tutto e per tutto l’anima viva di questa importante colonia affacciata sul canale di

Sicilia.

La Byrsa, collina di circa 56 metri, presenta già nella sua toponomastica indicazioni ben precise. Il

termine deriva dall’ibero-punico Byrsa cioè “pelle di bue”, guardando la conformazione di essa da

piante topografiche, possiamo ben vedere la conferma idiomatica di quanto detto.

Fu scelta perché il luogo, presentante una perfetta spianata, poteva essere adibita all’”uso” politico

ed amministrativo.

Il progetto augusteo prevedette di creare su quest’importante colle, una piattaforma artificiale creata

con lo spianamento della sommità e il riempimento delle pendici, secondo un preciso programma

urbanistico ben definito.

La colmata artificiale era trattenuta lungo le pendici sud-est da imponenti absidi in opus reticulatum.

Esse svolgevano l’importante ruolo di contrafforti a tutto il sistema edilizio. Per drenare

perfettamente il terreno, furono utilizzate delle anfore, circa seimila rinvenute durante lo scavo del

Delatre nel 1983.

La permanenza dei bolli su alcune di esse ci fa risalire con certezza alla data di compimento di

58

Mezzolani 2008, pp. 8-26 59

Gros 1990, pp.546-573

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questi lavori; l’opera si può datare bene al 15 a.C.. E’ da sottolineare il fatto che l’imponente

operazione andò ad “affondare” le proprie fondazioni sui resti degli antichi quartieri cartaginesi.

Probabilmente tra i fattori che influenzarono questa scelta, non è da trascurare un messaggio

propagandistico di Augusto, che con questa operazione volle ideologicamente collegarsi al passato

della città.

Quest’area urbanistica era, al di fuori dell’Urbe, la più vasta di tutto l’impero: alla terrazza

probabilmente si accedeva tramite il cardo massimo o tramite ipotetiche rampe laterali.

L’area fu soggetta tra il regno di Adriano e Antonino Pio a quei grandi spianamenti previsti dal

progetto augusteo. Fu costruita una gigantesca piattaforma adatta ad ospitare il foro e i grandi

edifici civili e religiosi, di questi monumenti oggi non restano solo in parte gli alzati di massicci

muri.

L’area fu divisa in tre settori: amministrativo, politico e religioso. Il settore più esteso doveva

essere propriamente quello del foro. L’identificazione esatta della più importante piazza cittadina si

deve all’ equipe francese guidata da Pierre Gròs coadiuvato da J. Deneuve; esso ospitava anche

un’imponente basilica giudiziaria sul margine orientale, costruita all’epoca degli Antonini. La

grande basilica civile lunga 83 metri e larga 43 era costituita da tre navate scandite da due file

parallele di 18 colonne. Tali dimensioni permettono di classificarla come una delle più imponenti e

grandi del mondo romano60

. All’estremità occidentale del foro invece in contrapposizione alla

basilica dovevano essere posti curia e capitolium. Quest’ultimo edificio, oggi giacente sotto la

cattedrale di San Luigi, era accessibile da occidente e dalla sua posizione, molto probabilmente, si

poteva arrivare con rampe laterali alla sommità della terrazza.

Accanto al capitolium in direzione sud, era posta la curia ed in posizione mediana rispetto queste

grandi strutture doveva trovar posto un grande fornice con funzione separatrice tra l’area sacra e

quella politico-amministrativa. Verso sud troviamo il secondo settore in cui era stata suddivisa per

così dire l’odierna collina di San Luigi.

Questo spazio di poco più piccolo rispetto al precedente, e anch’esso completato da portici a doppie

navate, doveva ospitare, probabilmente, o il Tabularium o una grande biblioteca. Anche questa

seconda area doveva avere un tempio dedicato forse al culto dinastico (Augusteum). La presenza

dell’augusteum è molto importante per Cartagine, poiché permette di capire il forte legame che

univa la nuova fondazione romana con la famiglia del princeps. La terza area infine fu realizzata

all’estremità meridionale della terrazza artificiale, qui proprio lungo il decumanus I sud fu

realizzato un grande tempio, con la facciata rivolta verso oriente.

La descrizione dettagliata del cuore della colonia romana di Cartagine certamente ci fa pensare ad

60

Ennabli 1994, pp. 4-5

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34

un insieme monumentale imponente, che, già all’inizio del II sec. d.C., fu un area politico-religiosa

degna di una grande capitale, in cui ritrovare tutti i simboli ideologici di Roma e del processo di

romanizzazione che andava sempre più ad investire i suoi territori.

Analizzando in una breve appendice, il rapporto colonia-territorium è possibile comprendere

questo dato dalle referenze di scavo della centuria A posta a nord della Byrsa.

La missione che operò in questo settore della città africana fu svolta da archeologi italiani negli anni

compresi tra il 1973-1977. Mentre altre missioni si erano occupate di zone più centrali (es.

americana e inglese nella zona porto), gli archeologi italiani decisero di studiare i tempi e i modi

dell’urbanizzazione di Cartagine nella zona interna, seguendo il limes fortificato e studiando il

rapporto tra impianto urbano e contesto rurale. Furono effettuati due tagli, il taglio A e il taglio B

proprio nella zona in cui Saumagne aveva ubicato un settore privo di abitazioni.

Furono riconosciute le cisterne della Malga come limite urbano (come già evidenziato

precedentemente), si vide chiaramente che questa zona seguiva l’andamento della centuriazione

rurale piuttosto che il nuovo andamento della centuriazione augustea.

Tutto ciò fu confermato nel taglio B dalla presenza di un settore delle mura teodosiane (fine V sec.

d.C.) che verosimilmente ricalcano il limite urbano della colonia, nel periodo di massima

espansione61

. In conclusione, possiamo ben dire che la riconoscenza imperiale verso quella che un

tempo era stata una fiera nemica di Roma fu grande: Antonino Pio, oltre a costruire le sue famose

terme, operò in maniera sicuramente più vasta come testimoniato da evidenze epigrafiche; Marco

Aurelio la incluse tra le sue città “preferite” ed è molto probabile che i lavori edilizi continuarono

anche durante il suo regno.

Agli inizi del III secolo d.C. è attestata la crescita massima dell’abitato, fino all’estremità

settentrionale. Oltre ai lavori di monumentalizzazione delle terme, furono realizzati l’Odèon, un

tempio a Borj Jedid, una piazza nel quartiere di Magone, forse l’agostiniana platea maritima, e i già

citati nuovi edifici nei pressi del foro (basilica giudiziaria, tempio, arco ecc.).

La città, quindi, durante l’epoca medio e basso imperiale, visse un periodo florido anche dal punto

di vista edilizio, che sfociò nella tarda antichità col fasto testimoniato anche dagli scritti di

Sant’Agostino.

Cartagine, fino alla sua caduta sotto i colpi di Genserico, sarà una delle città più importanti

dell’impero e potrà essere considerata a buon diritto una delle capitali tardo-antiche.

61

Carandini 1983, pp. 50-58

Page 35: Cerealia, oleum et vinum: i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

35

II.1.1 Il sistema portuale-commerciale di Cartagine

I dati ricavati da indagini archeologiche, ormai realizzate da anni sul suolo cartaginese, hanno

permesso, dopo varie ricerche, di individuare con relativa certezze le aree del commercio e della

produzione.

Bisogna fare in origine però una breve introduzione sulla situazione presente oggi sul litorale che

bagna le rovine della città punica: la costa, infatti, presenta un profondo insabbiamento

nell’insenatura orientata secondo Est-Nord.

L’azione delle acque marine con relativa erosione si è fatta notevole nei settori paralleli alla costa,

infatti essa risulta arretrata di parecchio rispetto all’epoca romana. Le ricognizioni ripetute sul lido

cartaginese, hanno reso dati importantissimi, con la relativa conseguenza della ricostruzione della

costa in antico62

. Ricognendo le aree litoranee contornanti l’area dei porti punici e del cosiddetto

quadrilatero di Falbe, sono stati notati, durante le ricerche italo-tunisine avvenute tra il 2003-2005,

diverse tipologie di materiali da costruzione, ma il litotipo maggiormente presente è sicuramente il

grès di El Hanouria.

Questa tipologia litica era estratta a poca distanza da Cartagine, nelle vicinanze di Capo Bon e non è

altro che un’arenaria piuttosto tenera e sfaldabile, ampiamente utilizzata durante l’epoca punica,

resistente agli agenti atmosferici solo se rivestita da uno strato di stucco. Le tracce di stucco in

alcuni blocchi sono presenti e sicuramente ci rimandano all’immagine che il navigante aveva

avvistando Cartagine dal mare: un’immensa distesa bianca, effetto non dato dal marmo ma dallo

stucco sull’arenaria locale63

.

La posizione dei porti della città punica è stata sicuramente influenzata dalle dinamiche costiere e

da sempre ha costituito un elemento di forte diatriba tra gli archeologi che hanno lavorato a

Cartagine, fin dalle prime ispezioni ottocentesche.

La geomorfologia del sito cartaginese ci permette, già dopo una breve e attenta visione di insieme,

di capire certi aspetti che hanno caratterizzato la vita, lo sviluppo e il degrado dei porti della città di

Annibale. Lo spunto principale, che ha costituito un punto di inizio nella ricerca arriva dalle fonti

classiche. Polibio e Appiano infatti nei loro scritti trattano anche della situazione topografica della

città punica, evidenze che in parte possono essere rintracciate sul campo.

62

Panero, 2008 p. 69 63

Panero, 2008 pp. 83-86

Page 36: Cerealia, oleum et vinum: i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

36

Il primo studioso che tentò di dare una collocazione geografica e fisica al sistema portuale punico fu

lo Shaw.

Egli collocò la città a nord, con i porti sboccanti sulla secca di Er Riana, ancora mare aperto ai

tempi di Polibio. Questa prima tesi, seppur pionieristica, andò presto a cadere poiché si constatò fin

da subito che nel settore meridionale di questa zona i terreni sono bassissimi, quasi a livello del

mare, pertanto è impossibile che le ipotetiche strutture non abbiano lasciato traccia.

Le fonti scritte d’altronde confermano la non autenticità del dato, poiché parlando della presa di

Cartagine, sia Polibio che Appiano narrano che Scipione Emiliano prese d’assalto una porzione del

muro che sbarrava l’istmo, dietro questo muro però non stava la città, ma le ville suburbane del

quartiere di Magone poste proprio tra la Byrsa e i porti.

Analizzando poi attentamente le due lagune, una di forma pseudo-rettangolare e l’altra di forma

circolare, comparandole con le fonti e i dati di scavo si è riusciti a risalire all’effettiva collocazione

dei porti tardo-punici64

.

Proprio per la sua posizione naturale, la città poteva essere fornita da più attracchi, come ricorda

Cicerone, l’autore latino la definisce infatti succinta portibus65

.

L’odierno Lago di Tunisi in età imperiale doveva essere una zona paludosa, una sorta di grande

stagno, privo di attrezzature significative. La zona privilegiata alle attività commerciali e portuali

era, ereditata a suo tempo dall’insediamento punico, quella “dei due porti”. Le indagini effettuate in

questo settore da equipes anglo-americane hanno rivelato che Cartagine almeno per tutto il V

secolo e parte del IV sec. a.C. non avesse strutture portuali paragonabili alla Cartagine “classica.”

Già dalla metà del IV sec. a.C. però in questa zona era presente un canale naturale d’acqua salata

poco profondo.

La presenza fortuita di questo canale naturale, parallelo alla costa, fu certamente il primo e più

antico ancoraggio della città punica66

.

Questo “primitivo” porto-canale doveva avere sicuramente un collegamento intrinseco col mare.

Questo dato è confermato dalla presenza di evidenze faunistiche (molluschi) collegate

all’ecosistema marino.

Il canale scavato dalla prima missione dell’equipe britannica diretta da Henry Hurst nel 1978, ha

restituito diversi gruppi ceramici risalenti cronologicamente proprio alla seconda metà del IV secolo

a.C., confermando il dato storico del primo approdo della Cartagine punica67

. Nei pressi del

64

Pinza 1924, pp. 81-88 65

Cic., leg agr. 2,87 66

Lancel 1992, pp. 207-211 67

Hurst 1994, pp. 41-45

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37

“classico” porto rettangolare la missione americana dell’ University of Chicago ha scavato una

trincea a poca distanza dal mare sulla Rue des Suffettes.

Come i colleghi inglesi anche gli archeologi americani si imbatterono in resti punici, interessante

poi risulta la presenza sempre in questo comparto di un’ area destinata alla produzione della

ceramica (III secolo a.C.). Dietro questo settore risulta essere costruita una strada allineata proprio

ai livelli portuali dotata di cloache per lo scolo di acque reflue ed un canale che doveva portare

invece acqua pulita68

.

L’antico sistema portuale della megalopoli punica fu ripristinato in tutto e per tutto nel 15 d.C.,

esso continuò ad essere funzionale e acquistò sempre più importanza allorquando sotto il breve

regno di Commodo, attorno al 186 a.C., vi fu installata la cosiddetta Classis Commodiana69

.

La zona, o per meglio dire le zone portuali, oggi sono rintracciabili per l’esistenza ben visibile di

due lagune che occupano l’area degli antichi porti romani.

Le prime ricerche sistematiche su quest’area furono effettuate dal capitano Falbe. Egli rilevò

l’anomalia di queste due lagune, e grazie a studi d’erudizione riuscì a riconoscerle, seppur con limiti,

con l’antico bacino portuale punico e successivamente romano.

Analizzando una cartina apparsa nel 1830 relativa proprio agli studi del Falbe possiamo ben notare

che la linea di costa è molto vicina alle lagune sopracitate.

La situazione muta già abbastanza drasticamente a distanza di un trentennio. In una pianta del 1868,

realizzata dall’ingegnere Caillat si vede chiaramente che la linea di costa risulta piuttosto avanzata

rispetto al profilo di un trentennio precedente. Naturalmente, causa principale di ciò è anche

l’avanzata dei terreni coltivati e la bonifica di alcune parti del sito.

Per quanto riguarda la documentazione storica, importanti risultano sia gli scritti di Polibio, il quale

descrive come già anticipato, la presa di Cartagine e con essa del porto (in realtà fu proprio la presa

del porto che determinò la caduta della città nordafricana); altri spunti salienti ci giungono dalle

descrizioni di Appiano, che descrive due veri e propri bacini portuali con annesse strutture

commerciali.

La descrizione di Appiano e quella di Polibio trovano delle discordanze tecniche. Il primo infatti

parla di due porti comunicanti ma distinti e separati, l’autore greco invece parla di un insieme unico,

definendolo nella terminologia marinaresca latina, portus, da paragonare se vogliamo al sistema

portuale di Ostia70

. Precedentemente la conquista romana i bacini portuali avevano una superficie di

circa 7 ettari. Probabilmente verso la metà del IV secolo furono effettuati tagli e colmate.

68

Ellis 1987, pp. 11-12 69

De Salvo 1992, pp.14-15. Viene ipotizzata l’esistenza di una flotta che doveva essere composta in gran parte da

navicularii private, arruolati per far fronte ad un’emergenza. Contestualmente è anche congetturato un intervento di

Commodo in favore dell’agricoltura. 70

Cintas 1973, pp. 9 ssg.

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38

Durante la tarda epoca punica il Kothon, cosi è definito tecnicamente questa tipologia portuale

d’origine fenicia, era un bacino circolare con un’isola centrale71

.

Sia nell’isola che lungo la perimetrale terraferma erano presenti delle cale per il carenaggio delle

imbarcazioni: circa 30 hangar forse per 60 navi.

Il porto punico era preceduto, come del resto sarà poi nella conformazione romana, da un bacino di

forma rettangolare con funzione di avamporto.

Dopo la conquista viene mantenuta la forma rettangolare del primo bacino e forse solo in età

Antonina viene modificato il perimetro del primo bacino, che assume una forma esagonale72

.

Probabilmente la modifica avvenne tagliando i 4 angoli del bacino per motivi esclusivamente di

funzionalità. Attorno al porto in età romana furono costruiti vari edifici: magazzini, strutture

commerciali e luoghi di culto. Esisteva un tempio dedicato alla dea Caelestis, edificato all’epoca di

Marco Aurelio, e un complesso dedicato invece a Saturno, con relativa corte centrale ed un’area

riservata al culto con vere e proprie cellette.

Più a sud esisteva un altro complesso sacro, consacrato a Venere, dove forse si praticava la

prostituzione sacra. La “bocca” del porto non doveva essere molto larga, circa 20-25 metri, e

doveva essere chiusa da imponenti catene.

La celeberrima isoletta, sita all’interno del porto circolare, detta “dell’Ammiraglio”, dove in epoca

punica esistevano delle cale per il carenaggio delle imbarcazioni, fu completamente ristrutturata in

epoca romana in conseguenza anche degli ingenti danni che essa aveva subito durante l’assedio di

Cartagine della metà del II secolo a.C.

Fu ripensata la sua sistemazione e il suo ruolo topografico: fu rifatto il ponte di collegamento con la

terraferma; fu dragato il porto già durante l’età augustea, fu eretto un’arco nel punto di

collegamento tra il ponte e l’isola con un’iscrizione dedicata a Commodo; fu costruita poi

all’interno dell’isola una banchina con un colonnato ionico dotato di 50 colonne.

Inoltre in un secondo tempo fu aggiunta una seconda galleria colonnata nella parte più interna e fu

lastricato il piano di campagna originario dell’isola che si presentò da quel dato momento, come un

grande piazza.

Al centro dell’isola poi furono costruiti due grandi edifici: un tempio su alto podio di metri 7 x 14

con annesse gradinate centrali, realizzato in stile corinzio con pronao a 4 colonne ed infine una

tholos su podio a pianta ottagonale con un peristilio formato da 8 colonne corinzie.

71

Kothon è un termine fenicio per indicare un bacino idrico utilizzato all'interno dei porti fenici ( es. Kothon di Utica), si

crede sia stato un luogo di ricovero per le navi da riparare, oppure un bacino artificiale legato anche a culti locali. 72

Ben Abdallah-Ben Hassen 1991, pag. 6

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39

L’ isola divenne in pratica un vero e proprio foro commerciale. A tal proposito è necessario

menzionare un ritrovamento di un reperto effettuato durante la campagna di scavo 1909-1913.

Furono ritrovate, durante l’escavazione dell’isolotto, 24 ostraka iscritti e uno di essi riportava

un’iscrizione riferita ad un “Mensor olei in foro Karthag”, un tale Felix databile al 373 d.C. La

suddetta iscrizione ha dato ulteriori delucidazioni sull’uso che se ne faceva di questa costruzione.

Il complesso architettonico infatti con molta probabilità doveva svolgere il ruolo di foro “annonario”

per il controllo e lo smistamento delle derrate che arrivavano o partivano da Cartagine73

.

Le ricerche effettuate dalle varie missioni archeologiche che si sono succedute sul sito africano,

hanno dato importanti delucidazioni sulla sistemazione topografica del sistema portuale.

Lo scavo inglese, seppur inquadrato all’interno di una minuta porzione, ha permesso di chiarire il

quadro complessivo dello sviluppo edilizio portuale dall’epoca punica fino al tardo-antico inoltrato

(VI-VII secolo d.C.). I settori indagati dalla scavo della missione inglese sono quelli tra la Rue de

l’Amirautè e la Rue Taieb Mehiri, siti a nord del porto circolare.

In epoca romana la zona era segnata dal passaggio del cardo XIV e cardo XV est, un area già in

parte indagata dal Beulè (1861) e dal Saumagne (1931). Lo scavo sistematico dell’equipe inglese ha

permesso di ricostruire la storia di questo settore anche grazie alla grande quantità di elementi

ceramici presenti nei vari livelli stratigrafici. Lo scavo ha confermato, anche in questa porzione del

kothon, la presenza in epoca punica di shipsheds74

, ed il riutilizzo in epoca romana, dopo vari

interventi edilizi, come locali adibiti ad altri usi sempre ricollegati all’attività portuale.

Nei primi livelli stratigrafici d’epoca romana, si vedono chiaramente le spoliazioni che subì la zona

dalla caduta di Cartagine fino a quasi la fine del I sec. a.C. Durante la fase di dragaggio del porto

circolare furono rinvenuti tra i sedimenti argillosi diversi frammenti ceramici. L’interesse verso

questo recupero permette di capire, tramite un attento studio, che per la maggior parte i reperti

derivavano da contesti artigianali tunisini75

.

Databile alla prima fase romana, rinvenuto sempre dall’equipe inglese nel settore nord-est del

porto circolare, è un edificio realizzato tra l’ultima quarto del I sec. a.C.

Esso subì poi una ristrutturazione dopo il 15 a.C. Doveva essere la sede di un’associazione di

artigiani o in alternativa una stanza per operai dediti alla lavorazione di tessuti.

Dalla fondazione della colonia augustea fino a praticamente la presa vandala, il settore analizzato

dal Professor Hurst è occupato da singole stanze di maggiore o minore grandezza, prospicenti

direttamente il molo del porto circolare. Il momento di maggior splendore edilizio, per questa

porzione scavata, si ha tra il II-III sec. d.C., durante questo periodo infatti vengono documentate una

73

Hurst 1994, pp. 110-111 74

Con il termine shipsheds si indicano in anglosassone, i luoghi di rimessaggio delle imbarcazioni. 75

Hurst 1990, pp. 24-28

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40

miriade di strutture atte a molteplici usi. Molte attività artigianali quindi vennero a concentrarsi

nella zona immediatamente retrostante il porto circolare, soprattutto dal medio impero in avanti.

Tintorie, attività metallurgiche, salagione del pesce, attività legate alla produzione di ceramica,

officine per la lavorazione delle ossa e per il vetro con particolare attenzione in quest’ ultimo caso

per la produzione del cosiddetto blu egiziano.

Il porto rappresentava un gigantesco luogo di import-export per merci idee e uomini76

.

Ricapitolando, durante la campagna di scavo, lungo il perimetro della terraferma che chiude a nord

l’isola dell’Ammiraglio sono stati scoperti vari edifici che si sono succeduti continuamente dall’età

punica al II sec. d.C.: altre tracce di hangar, databili fra il 25 e il 200 d.C., una tintoria e forse un

gineceo. Nel 200 d.C. fu poi costruito un grande edificio con un colonnato rivolto verso il porto77

.

Le cale di carenaggio erano presenti lungo il perimetro dell’isola, ma anche sulla terraferma che

cingeva l’isolotto dell’Ammiragliato: la ricerca dell’Hurst ha permesso di individuare i veri e propri

ingressi agli hangar, essi si è appurato, erano delimitati da due colonne ioniche, tesi confermata dal

ritrovamento di una base ionica in grès ritrovata sul lato a mare del bacino circolare78

.

Il sistema portuale doppio cartaginese prevedeva ovviamente una serie di locali adibiti a magazzini

per l’approvvigionamento di beni di prima necessità, d’altra parte il retroterra cartaginese era

estremamente produttivo e il surplus agricolo prodotto, doveva avere una collocazione temporanea

in attesa di essere trasferito sui mercati dell’impero.

Tra il II e III secolo d.C., nell’area del porto commerciale sul lato a fronte porto, vennero realizzate

strutture con portici a due piani con alla base cisterne.

Queste strutture sono state interpretate come horrea79

. L’organizzazione degli horrea e la loro

disposizione sembra essere continuata almeno fino all’età vandalica; poiché Procopio stesso

descrive le rimostranze dei mercanti cartaginesi, i quali si erano visti saccheggiare letteralmente le

loro merci dai magazzini presso il porto dagli stessi soldati bizantini, dopo la conquista del generale

costantinopolitano.

Essi probabilmente si erano distaccati dall’esercito stanziato forse presso il Lago di Tunisi, e

nottetempo erano entrati nel mandracium, il bacino commerciale chiuso da catene80

.

Proprio il mandracium, il porto rettangolare, sviluppa in epoca imperiale una fortissima

connotazione commerciale.

76

Hurst 1994, pp. 92-108 77

Di Stefano 2004 pp. 31-34 78

Panero 2008, pp.74-77 79

Hurst 1994, pp.79-94, in part. p. 88 H. R. Hurst, Excavations at Carthage. The British Mission, II I, the Circular

Harbour, North Side. The Site and Finds Other than Pottery. Numerosi però rimangono i problemi interpretativi.

80

Proc., III, 20.

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41

Nel settore meridionale del tophet, la celebre necropoli infantile punica, poi doveva trovarsi un

officina di ceramisti poiché i mosaici rinvenuti durante gli scavi della “casa delle stagioni”

coprivano un deposito di lucerne prodotte probabilmente da un’officina individuata ad ovest nelle

vicinanze del complesso residenziale.

Le missioni tedesche prima, e successivamente la più recente missione italo-tunisina (2003-2005),

hanno individuato poi, nel tratto di costa compreso tra Bordj el Diedid e il cosiddetto Quadrilatero

di Falbe antistante al complesso di insule del quartiere di Magone, un articolato sistema di banchine,

cisterne e vasche adibite presumibilmente alla lavorazione del pescato.

Degne di nota, sono una serie di strutture murarie situate a sud-est del quartiere di Magone e

parzialmente sommerse dal mare. Esse definiscono piccoli ambienti di forma rettangolare simili e

comunicanti, probabilmente vasche per la lavorazione del pesce.

Spostandoci ad est tra i cardines XII e XIII si trovava un grande edificio probabilmente a

connotazione commerciale, avente lacerti di pavimentazione in cementizio e frammenti di pittura

parietale di III stile nel secondo piano, è stato interpretato come macellum. Ad est di questo edificio

lungo il cardo XIII, si aprivano una serie di tabernae seminterrate accessibili dalla strada81

.

Fra il sopracitato foro commerciale e la Byrsa doveva trovarsi il vicus argentariorum, quartiere

monumentale sorto in una zona centrale della colonia di Cartagine; era una sorta di via di

collegamento tra la città alta e quella bassa compreso il relativo porto. Quest’ultima si è concentrata

sulle strutture del porto circolare individuandone settori prima non conosciuti.

In generale è possibile affermare, dopo le varie missioni di scavo, che l’impianto del porto

risistemato e ristrutturato in epoca romana ebbe un impatto topografico molto importante per

l’urbanistica cartaginese, divenendo, senza alcuna ombra di dubbio, il motore principale dello

sviluppo economico della colonia africana.

Proprio infatti col potenziamento delle strutture portuali che Cartagine divenne una delle città più

importanti dell’impero, connessa totalmente col ramificato, ma ordinato, sistema socio-economico

romano.

81

Rakob 1989, pp. 155-194

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42

II.1.2 Le romanae viae e le strutture produttivo-commerciali dell’Ager

Carthaginiensis

La produzione di olio vino e cereali gioca, come ben sappiamo da dati storici ed archeologici un

ruolo fondamentale nell’economia dell’Africa proconsolare.

Limitandoci all’analisi di siti sulle coste dell’odierna Tunisia, osserviamo innanzitutto una serie di

problematiche di natura geomorfologica.

Questa regione infatti con i suoi 3000 km di coste presenta una serie di golfi, anfratti, insenature

con annesse penisole e lagune soggette ad una relativa subsidenza.

A tutto ciò va aggiunto anche il fenomeno dell’erosione marina e di contro avanzamento della

linea di costa causato da detriti trasportati da fiumi come l’antico Bagradas. Tutto ciò rende

l’identificazione con il relativo studio dei siti piuttosto difficoltosa.

Importante era, per la vitalità economica di questa terra, la produzione commerciale legata alla

lavorazione ittica: garum o liquamen e salsamenta vari erano prodotti che partivano giornalmente

dai porti della moderna Tunisia82

.

Trait d’union tra queste strutture costiere e l’interno produttivo, furono sicuramente le vie litoranee.

Esse giocarono un ruolo fondamentale per la commercializzazione dei prodotti alla costa

all’entroterra e viceversa.

Sicuramente i romani al loro arrivo ereditarono tratti viari dell’antica viabilità punica, ma la

trasformazione delle direttrici di traffico in vere e proprie romanae viae avvenne solamente a

partire dal regno di Augusto.

La prima fu forse la via costiera che congiungeva la neapòlis cartaginese ad Hadrumentum, il

principale porto punico della zona che in epoca dioclezianea sarà rinominata Byzacena. Il dato

archeologico da integrarsi con quello storico lo si ricava da un miliario ritrovato a Kroussia.

Il cippo miliario di forma ogivale non fu trovato in situ ma si tratta di un reperto lì trasportato.

Riporta il nome del proconsole Africano Fabio Massimo ed è databile al 5-6 sec. a.C. Intersecato

perfettamente nella trattazione economico produttiva collegata alla viabilità, è poi la più grande

infrastruttura mai realizzata nella Proconsolare, il viadotto delle Kerkenna83

.

Queste isole poste a poche miglia dalla costa meridionale della Tunisia, avevano un’ importanza

strategica notevole. Esse infatti, avevano un ruolo notevole come punto di raccolta e di imbarco del

grano.

82

Plin. XXXI , 93; Colum., XI 14, 3. Il garum o liquamen era una salsa ottenuta dalla lavorazione delle interiora del

pesce azzurro, del quale il Mediterraneo ne è stato sempre ricco. La produzione più apprezzata veniva dalla Betica e

dalla Lusitania. 83

Plin. V, 41: huic perparua Carthaginem versus Cercinitis ponte iungitur.

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43

Questo ruolo era stato messo in luce fin dalle guerre tra Cesare e Pompeo. La struttura citata

misurava circa 1 km e sembra sostituisse un’opera ancora precedente.

Le iniziative augustee portarono anche alla creazione di vie, attraverso le steppe interne, che

congiungevano la ricca e florida zona del golfo di Gàbes, ricca di centri di produzione agricola con

l’interno della provincia.

L’ascesa al trono imperiale di Tiberio diede un’ulteriore spinta all’edilizia di queste importanti vie

commerciali. Fu costruita l’importantissima via Lepicitana che metteva in comunicazione con

l’altopiano di Tarhuna. Questo processo, si accentuò dopo la pace ottenuta all’indomani della

repressa rivolta di Tacfarinas. Furono realizzate nuove opere sulla via che partendo da Cartagine

attraversava il Bagradas arrivando fino al porto di Ippona.

Da ultima poi bisogna considerare l’asse viario d’età neroniana, creato per congiungere Cirta a

Rusicade. Quest’arteria garantì il collegamento tra la capitale di questa estrema regione con un

porto di media grandezza, diminuendo notevolmente per i mercatores i costi di trasporto84

.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo dedurre che le romanae viae, essendo un veicolo di

romanizzazione impressionante, contribuirono non poco allo sviluppo economico, già per la verità

abbastanza florido di questa ricca provincia.

Le arterie sopracitate mettevano in stretta comunicazione i più importanti porti della costa e le

relative strutture produttive e di immagazzinamento delle merci. Diversi porti e diverse strutture si

svilupparono in corrispondenza del sistema viario: Horrea Caelia, il cui porto riforniva di grano

l’interno del Sahel, Hadrumentum stessa, Ruspina, Leptis Minus e così via.

Un’importante ricerca archeologica, avvenuta tra il 2003-2005 e condotta da un’equipe franco-

tunisina, ha portato all’individuazione di circa 200 siti costieri, con relative strutture produttivo-

commerciali e portuali.

La ricerca ha contribuito in maniera decisiva a creare un quadro ben determinato

dell’organizzazione della costa, con relativi piccoli o medi scali portuali, afferente alla Colonia Iulia

Carthago. Si può quindi facilmente definire Cartagine e la sua area costiera come una zona

fortemente antropizzata. E’ difficile però stabilirne l’entità dello sfruttamento, poiché a causa di una

regressione marina, per far fronte all’innalzamento delle acque durante la fine del IV e l’inizio del V

secolo d.C., vennero costruite banchine sopraelevate85

.

La ricchezza del territorio cartaginese, ed in maniera più ampia della regione Proconsularis, era

sicuramente la produttività agricola del territorio, certamente all’epoca meno arido che oggi.

La provincia africana produceva grandissime quantità di grano, basta pensare ai grandi horrea

84

Bullo 2002, pp. 47-57. 85

Hurst 1994, pp. 50-51

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44

presenti a Cartagine, fu per questo motivo uno dei granai dell’impero.

Notevole era anche la produzione di olio, caratteristica soprattutto però delle zone più interne nella

fertile valle del Medjerda. Plutarco ad esempio, lodò Cesare poiché con la relativa conquista

dell’Africa egli aveva donato Roma di un patrimonio di 3 milioni di litri di olio annuali.

Presente, anche se forse in tono minore rispetto alla produzione olearia-cerealicola, è la coltivazione

della vite a mosto.

Parlando delle aree produttive interne, è possibile affermare dopo ricerche territoriali attente, che

esse si trovavano su assi viari importanti al fine di favorire le comunicazioni tra i siti. I prodotti

venivano trasportati sui carri stipati in otri (sia l’olio che il vino) o in sacchi nel caso delle granaglie,

ed in seguito una volta raggiunta Cartagine, o altri porti minori, prendevano la via del mare. Esempi

di strutture produttive poste nel retroterra cartaginese, possono essere dati dagli innumerevoli

oleifici realizzati lungo la valle del Bagradas, tra l’oued Siliana e l’Oued Medjerda, nei pressi di

Dougga.

In alcuni casi la struttura produttiva occupava solo una parte della fattoria, come nel caso della

tenuta imperiale di Ain Wassel; in altri casi l’edificio era costituito interamente dall’intera struttura

produttiva86

. Nel caso degli oleifici vi erano diversi ambienti adibiti alla lavorazione delle olive. Le

operazioni di spremitura avvenivano tramite l’utilizzo della mola olearia e/o del trapetum.

La mola olearia è composta da una base rotonda e fissa , nel centro è incastrato il braccio di una

macina a ruota che gira intorno al suo asse. La macina è fissata all’asse in modo che la sommità sia

mobile; ciò era molto importante affinché i noccioli delle olive non venissero schiacciati e

danneggiassero l’olio. Il trapetum è composto da una grossa pila in pietra o mortaio in cui, intorno

ad un piccolo asse verticale, girano due macine semisferiche. Anche nel trapetum vi era un

dispositivo per evitare di schiacciare i noccioli delle olive, esso veniva azionato, come nel caso

della mola olearia dall’uomo.

I cereali venivano raccolti tramite l’utilizzo della falx o altri tipi di falcetto, successivamente

venivano separate le cariossidi dalle pula e in una fase successiva il cereale poteva essere

immagazzinato o prima passato dalla macina per ottenerne farina.

Per quanto riguarda il vino, le fase della spremitura degli acini avveniva in determinate vasche di

“pestaggio”, successivamente passava in vasche di fermentazione, li poi era lasciato riposare fino

a prodotto finito.

Le tipologie edilizie che fin dall’antichità furono adibite alla trasformazione dell’uva in vino sono

dette palmenti87

.

86

De Vos 2004, pp. 36-42 87

Amato 2012 pag. ssg.

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Anche nell’Africa romana vi sono attestazioni di vasche per il pestaggio e la fermentazione dell’uva,

ma in ogni caso l’importazione del vino era superiore alla produzione locale.

Notevole infatti è l’attestazione d’importazione di vino, soprattutto dall‘ager falernus e dalla vicina

Sicilia. Le ricchezze agricole africane erano state la fortuna di Cartagine e lo furono

successivamente per Roma, il perfetto sfruttamento del territorio, sia cartaginese che africano, è

rintracciabile nel già citato sistema centuriale con ampi latifondi e fattorie, il quale durò a lungo

fino a praticamente la conquista araba.

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46

III La Sicilia antica: dinamiche storiche

III.1 Dalla Megálè Hellàs alle guerre puniche.

“Sicilia, ab Italia exiguo fretu discreta, Africum marem prospectans, terris frugifera, auro

abundans, cavernis tamen penetrabilis, ventisque et sulphure piena est, unde Aetnae montis exstant

incendia”88

.

Cosi scriveva, alla fine del I secolo d.C., il grande autore latino Plinio il vecchio nella Naturalis

Historia. Egli, nel descrivere questi luoghi, sottintende ancora un velo di meraviglia e mitologia da

sempre legato a questa terra.

La Sicilia, per secoli ombelico del mediterraneo, è la più grande isola dell’ antico mare nostrum.

Vasta circa 25.000 km² e, oggi come in antico, densamente abitata, ha avuto da sempre una

importanza storica davvero rilevante. Poche terre infatti hanno avuto un ruolo storico e culturale

così importante, come quello recitato dalla Sicilia.

Questa ambita terra, posta al centro del mediterraneo, lungo direttrici viarie e commerciali

importantissime è stata da sempre un crocevia di popoli, merci ed idee. I greci e i cartaginesi per

secoli tentarono di accaparrarsi le sue ricchezze, per l’intera grecità siciliana lo scontro secolare col

nemico punico fu sempre visto in parallelo allo scontro con l’elemento barbaro per eccellenza che

minacciava l’Ellade: l’impero persiano.

Le vele delle triremi greche “avvistarono” le coste siciliane in un orizzonte cronologico piuttosto

lontano. Tracce di frequentazioni micenee dirette o indirette (materiale ceramico imitato, quindi

passaggio di idee) sono ben note agli studiosi dei contesti archeologici siciliani.

E’ errato pensare comunque ai contatti con il mondo egeo, in special modo miceneo, nei termini di

una colonizzazione di stanziamento. Non esistono sul territorio isolano testimonianze di

insediamenti stabili, di abitati o di necropoli di fondazione e di cultura esclusivamente micenea,

proprio perché l'interesse prevalente di queste genti era commerciale, le tracce si rifanno solo a

materiale fittile o in un certo senso “mobile”.

Recupero di reperti di questo genere sono stati effettuati talvolta nell’arcipelago eolico o

nell’agrigentino vicino la foce del Platani89

.

88

Plin., III .”La Sicilia è divisa dall’Italia da un piccolo stretto di mare, che si affaccia sul mare africano, è feconda di

terre, abbondante di oro, ma anche penetrabile tramite caverne, piena di venti e di zolfo, donde provengono gli incendi

dell’ Etna”. 89

Materiale ceramico “egeo” è stato rinvenuto ad esempio nell’ insediamento a Monte Grande di Palma di Montechiaro,

dove l'attrazione principale per la gente d'oltremare doveva essere costituita dall'antica lavorazione dello zolfo o sulle

coste delle eolie legate quest’ultime alla secolare tratta dell’ossidiana.

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Tuttavia, per identificare i primi veri e propri stanziamenti stabili, bisogna andare avanti di qualche

secolo: il primo grande flusso coloniale, infatti, inizia all’incirca verso l’VIII secolo a.C., nel

cosiddetto periodo arcaico della grecità.

I motivi che spinsero le genti dell’Ellade a cercare una nuova “casa” sono stati ampiamente

disquisiti: ricerca di nuove terre da coltivare, cause demografiche, riscatto sociale ecc. I primi

coloni che arrivarono dal Mar egeo provenivano dalla Calcide, per cui le prime colonie fondate sul

suolo siculo sono quelle dette Calcidesi.

La prima colonia calcidese fu Zancle, l’odierna Messina, fondata nel 756 a.C., seguirono negli anni

immediatamente successivi, Naxos (734 a.C.), Leontinoi (729 a.C.), Katane (729 a.C.). Nel 728 a.C.

giunsero sempre in questo settore orientale dell’isola (tutto ciò testimonia un primo interesse di

natura geografica-commerciale verso questi territori più “vicini” alla madrepatria) i megaresi di

Megara nicea, essi stabilitisi presso l’odierna Augusta fondarono, con rigido schema per scamna e

strigas, la colonia di Megara Hyblea.

A questi elementi greci non ionici seguirono, sempre nel serrato e conteso settore territoriale, genti

provenienti dalla ricca e florida Corinto. Guidati dall’ecista Archia i corintii, giunsero in questa

zona e seguendo il loro spirito fiero e bellicoso di chiara matrice dorica, combatterono aspramente

le popolazioni locali, i siculi.

La politica della polis siracusana fu di forte acquisizione territoriale, l’egemonia siracusana sul

territorio si fece da subito dominante, riuscendo a creare nel proprio territorio sub-colonie in grado

di difenderne i confini. I siculi stabilitisi in quei territori da circa 200 anni furono come detto

massacrati mentre quelli che rimasero vivi furono deportati e confinati in vere e proprie città-ghetto.

L’egemonia siracusana può essere ricollegata, per un certo senso, alla durezza e alla repressione

spartana sulle genti messeniche.

In questo caso il ruolo degli Iloti fu recitato dai siculi: essi presero il nome di Killyroi mentre i

nuovi coloni, il ceto dirigente, furono chiamati Gamòroi, una scelta politica tipica delle oligarchie

doriche90

.

Spostandoci verso sud-ovest, seguendo il litorale che dal siracusano giunge fino al Salso, ci

imbattiamo nella colonia greca che chiude il sipario sulla prima fase della colonizzazione greca in

Sicilia, Gela.

Questa polis fu fondata nel 688 a.C.. La peculiarità della fondazione di Gela sta nel fatto che essa

ebbe “doppie-radici”. Non fu infatti fondata dalla presenza di un’unica etnia, per questa fondazione

concorsero sia coloni rodiesi sia cretesi.

Questa tipologia insediativa fu alla base dello sviluppo storico della città di Gela. Poco più ad ovest

90

Musti, 2005 pp. 50-51

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a circa 70 km dal sito geloo fu fondata nel 580 a.C. la “figlia” di Gela, Akragas l’odierna Agrigento.

Questa città, archeologicamente notissima, fin da subito ebbe un’importanza fondamentale per

l’intero scacchiere politico siciliano, soprattutto durante il plurisecolare scontro tra la fazione

cartaginese e quella greca poiché Akragas era una sorta di città di confine tra le due zone di

influenza.

La veloce rassegna delle colonie greche di Sicilia non può terminare senza menzionare colonie

“minori”: da est ad ovest come già anticipato di notevole importanza sono gli avamposti siracusani

nel proprio ager, soprattutto Kamarina e Akrai costituiscono due città di confine che ben si

intersecano nel sistema difensivo siracusano.

Tra Akragas e Gela si insedia, ma solo nel 282 a.C. la colonia di Finziade, essa costituisce l’ultima

fondazione greca di Sicilia realizzata ad opera del tiranno akragantino Finzia dopo la distruzione di

Gela e la deportazione massiccia dei suoi abitanti91

.

Procedendo verso est, da citare sono le colonie di Eraclea Minoa, fondata da coloni selinuntini nel

VI secolo a.C., la stessa Selinunte della quale oggi ci rimangono imponenti tracce, fu una florida

subcolonia di Megara Hyblea fondata all’incirca alla metà del VII secolo a.C. in contrasto fin dalle

sue origini con la città per eccellenza degli elimi, Segesta.

All’interno della Sicilia arroccata sui colli nei pressi vale la pena d’esser nominata la polis di

Morgantina, sito già siculo colonizzato dai Calcidesi che percorsero la valle interna del Simeto

attorno alla metà del VI secolo a.C.

La posizione strategica di questa città fu rilevante durante la rivolta sicula di Ducezio, allorquando

il condottiero siculo nel 459 a.C. la prese e la distrusse. Il secolare scontro con i punici, insediatisi

ad occidente della Trinacria, fu all’origine sollecitato dalle mire espansionistiche della grecità,

poiché come la loro storia insegna, i punici erano da sempre ed in primis interessati al dominio sui

mari.

Come già anticipato precedentemente, si insediarono ad ovest dell’isola: il vero primo avamposto

extra-africano fu Mothya, sito sorto sulla più piccola delle Egadi, all’interno dello scenografico

Stagnone di Marsala. Qui essi crearono un importante porto, imitando in un certo senso il modello

del Kothon cartaginese.

Altri emporia punici furono Solus, Panormus (forse in lingua punica Ziz92

) e successivamente dopo

la distruzione di Mozia del 397 a.C., ad opera di Dionisio I, e la fondazione sulla terraferma di

Lilibeo (Marsala) quest’ultima acquisì maggiore importanza.

Questa divisione politico-geografica, tra i due diversi elementi culturali e politici, fu alla base di

91

Diod., XXII 49 92

Finley 1979, pp.24-25.

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secoli di guerra nell’isola. Da una parte la Sicilia dei tiranni, che soprattutto con Dionisio il vecchio

riuscì ad avere una grande egemonia non solo sul territorio siciliano ma anche nella penisola

italiana, creando un vero e proprio impero.

La fase tirannica nell’isola visse di momenti e situazioni diverse: all’inizio attorno al VI secolo

riuscì a creare una sorta di vera e propria egemonia greca (basti pensare ai casi di Akragas, Gela e

“all’impero” Siracusano), successivamente, soprattutto dopo la rivolta sicula di Ducezio93

, e ancor

di più dopo la morte del grande Dionisio I, il modello tirannico cominciò a perdere consensi,

portando negli ultimi secoli, antecedenti alla conquista romana, al sempre più fitto ed insistito

scontro con Cartagine. Timoleonte prima e Agatocle dopo, entrambi venuti da Corinto in soccorso

dei sicelioti e dei siracusani tra IV e III secolo a.C., riuscirono a combattere e contrastare, con

alterne fortune, l’elemento punico, che rimase comunque sempre ben asserragliato all’estremo

occidentale dell’isola.

Timoleonte riuscì a risollevare le sorti dell’isola dopo un periodo difficile per l’elemento greco:

promosse soprattutto grandi opere di riqualificazione urbana, si guardi ad esempio alle mura di Gela,

chiamate proprio mura timoleontee poiché erette proprio durante la restaurazione del condottiero

greco.

Egli rifiutò sempre il titolo di basileus di Sicilia, cosa che non fu assolutamente concepita dal suo

successore Agatocle. Quest’ultimo, anche egli d’origine corinzia, ebbe tutti i crismi del monarca

orientale, egli stesso si definiva monarca dell’isola, i suoi modelli erano i regni ellenistici post-

alessandrini. Tutto ciò può essere visto chiaramente anche solo dalla politica matrimoniale.

Agatocle, infatti, diede in sposa sua figlia al re dell’Epiro, Pirro. Proprio quest’ultimo fu l’ultimo

grande difensore della grecità di Sicilia e dell’Italia in generale. Con la sconfitta del molosso nel

280 a.C., anche l’elemento greco iniziò fortemente a vacillare, facilitando l’avanzata politico-

economica cartaginese, seguita subito dopo da quella romana.

Negli anni di governo agatocleo si erano stanziati a Messina dei mercenari d’origine italica,

consacrati al dio Marte erano detti Mamertini.

Essi avevano preso la città a tradimento, ma a causa della posizione estremamente strategica di

quest’ultima la loro situazione politica si faceva alquanto difficile.

Dopo essere stati sconfitti da Siracusa nel 270 a.C., i Mamertini chiesero l’aiuto a due potenze

“straniere”.

La richiesta iniziale fu fatta in origine pervenire al senato cartaginese che rispose in maniera

93

Ducezio fu il comandante della rivolta sicula alla metà del V secolo a.C. Nel 460 a.C. fu eletto re dei Siculi,

successivamente distrusse Morgantina dopo aver preso precedentemente Aitna, fondo Palikè, la sua rivolta fu presto

fermata con la sconfitta ad opera siracusano-akragantina, nella battaglia di Motyon. Esiliato in a Corinto, torno in Sicilia

nel 444 a.C. fondando Kale Akte sul Tirreno dove morì pochi anni dopo.

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negativa, successivamente e dopo una grande diatriba politica, la richiesta fu accolta da Roma, la

quale nel 264 a.C. per la prima volta si apprestò ad attraversare lo stretto per adempire al suo dovere.

Era l’inizio di tre guerre che cambiarono la faccia geopolitica del mondo conosciuto; le guerre

puniche.

La prima, interamente combattuta in Sicilia che si concluse con la battaglia delle Egadi del 241 a.C.

Essa vide vincitrice l’esercito romano comandato da Lutazio Catulo e supportato dall’alleata

Siracusa. Con la conquista dell’isola Roma portò in Sicilia la sua giurisdizione riducendola in

provincia, la prima provincia del futuro impero.

Le altra due guerre puniche, combattute verso la fine del III secolo (218-202 a.C.) e la metà del

secondo (149-146 a.C.), servirono a cancellare Cartagine dalla storia e posero le basi per la

creazione del più grande apparato politico-amministrativo del mondo, l’impero romano.

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III.2 Provincia Siciliae (241 a.C.-476 d.C.)

Con la creazione della prima provincia (la “gemella” provincia di Sardegna fu creata nel 238 a.C.),

Roma trasportò in terra sicula gli elementi del suo potere. Già con la vittoria delle Egadi del 241 a.C.

la Sicilia era entrata di fatto nella sfera romana, resisteva tuttavia il regno cliente del filoromano

Ierone II, creato alla fine della I guerra punica grazie alla stipulazione di un trattato di alleanza

perpetua (philia kai symmachia). Dopo la scomparsa del dinasta filoromano, il partito filopunico

prese il sopravvento e Roma travolse il regno siracusano con le armate del console Marcello nel 211

a.C.

Con ciò, anche l’ultima grande metropoli greca perse l’indipendenza, integrata, come capitale nella

provincia Siciliae. La conquista di Siracusa rappresenta un importante viatico per la romanizzazione,

ancora al volgere del III secolo a.C. in stato piuttosto embrionale sull’isola. Dopo aver conquistato

Siracusa e avere in generale preso il possesso dell’isola, Marcello fu costretto, per così dire, a

cedere il potere a Levino poiché i suoi modi erano stati giudicati fin troppo bellicosi.

La creazione ufficiale della provincia quindi va datata al 210 a.C., quando Marco Valerio Levino

giunto in Sicilia poté affermare che: “sull’isola nemmeno un cartaginese era rimasto sull'isola, che i

profughi siciliani erano tornati alle loro case e che la produzione agricola era ripresa regolarmente”.

La “pacificazione” leviniana tuttavia non fu raggiunta senza versamento di sangue, poiché egli, per

eliminare completamente ogni elemento anti-romano, decise di marciare in forze su una delle ultime

roccaforti filopuniche, Agrigento.

I ribelli sicelioti e cartaginesi, che si erano rifugiati ad Agrigento, non ebbero scampo sotto i colpi

delle legioni; alcuni furono uccisi e molti vennero venduti come schiavi. Il console si preoccupò

quindi di ristabilire un determinato equilibrio socio-economico, venuto meno nei lunghi anni di

guerra. Roma stesso aveva un grande interesse a ristabilire un determinato ordine nel comparto

siciliano, poiché gli anni di guerra erano stati probanti e l’annona dell’Urbe, in grossa difficoltà, era

stata costretta a chiedere aiuto a Tolomeo IV d’ Egitto94

.

Tra il 208 e il 207 a.C., con la relativa rasserenazione del clima politico siciliano, Levino poté

procedere alla riorganizzazione dell’ordine provinciale.

Ormai da secoli l’Urbe aveva un dominio incontrastato sulla penisola italiana, anche grazie al suo

efficiente sistema amministrativo.

In Sicilia il potere fu delegato ad un funzionario del senato, era governata da un Propretore di rango

pretorio coadiuvato da due questori.

94

Pol., IX 11a

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Il primo questor risiedeva a Siracusa, il secondo fu lasciato a Lilibeo, la polis che per prima,

precedentemente all’annessione di Siracusa, era stata capitale dell’isola.

La protezione di Roma portò alla Sicilia ed ai suoi abitanti pace e prosperità. I romani rispettarono

la cultura greca, le leggi, gli usi e costumi dei greci, e concessero ai siciliani una totale autonomia

nella gestione degli affari locali. Il provvedimento più indicativo, che ci permette di capire il ruolo

assegnato alla prima provincia e l’atteggiamento dei romani verso l’elemento locale, è il

mantenimento e l’estensione anche alla parte occidentale, del sistema di tassazione diretta voluto

da Ierone II noto come lex Hieronica.

La tassa corrispondeva al 10% del prodotto agricolo del suolo provinciale, valutato in base alle

dichiarazioni dei proprietari terrieri e alla corrispondente stima dell’importo dovuto concordato

annualmente con gli esattori delle tasse95

.

Successivamente alla lex Hieronica, con la crescita sempre maggiore dell’Urbe furono aggiunte

altre imposte sulle quote di frumento a prezzo politico: frumentum emptum (frumento acquistato) e

frumentum imperatum (frumento ordinato). L’Urbe fu comunque attenta a mantenere un certo

equilibrio nei prezzi, poiché un’eventuale diminuzione del prezzo d’acquisto del frumento siculo

per i mercati romani, avrebbe potuto scatenare pericolose conseguenze.

L’Urbe, grazie allo sfruttamento di queste tassazioni, poté approfittare in maniera totale e comoda

delle immense potenzialità del “granaio” siciliano. Naturalmente l’economia isolane trasse

anch’essa giovamento da queste politiche economiche, tant’è che, soprattutto a partire dall’epoca

augustea, l’isola visse uno dei periodi di massima prosperità.

Da analizzare poi fu sicuramente il diverso trattamento riservato da Roma alle molteplici e

diversificate comunità dell’isola, in base al loro comportamento tenuto durante il conflitto

cartaginese. Prevalsero amministrativamente le civitas decumanae, soggette ad obblighi fiscali ma

in ogni caso piuttosto autonome. Esse erano obbligate a versare a Roma una quota decimale,

derivante dai prodotti del territorio, tra queste città sono probabilmente da comprendere le 40

comunità consegnatesi spontaneamente in fidem a Roma, e le 20 circa prese per tradimento. La

quota decimale o decuma non era versata soltanto sulle granaglie ma anche per tutti gli altri prodotti

della terra96

.

Circa 6 poi furono le civitas censorie, il cui ex territorio fu ridotto ad ager publicus sfruttato da

affittuari locali, i locatio censoria per l’appunto. I loro territori dichiarati ager publicus vennero

confiscati e dati in affitto sotto il pagamento di un tributo stabilito ogni 5 anni dal governo centrale.

95

Genovese 1999, pp. 20-29 96

Genovese 1999, pp.18-19

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Queste città erano state spazzate via dall’avanzata romana poiché si erano fino all’ultimo istante

fermamente imposte all’avanzata delle legioni.

I centri, che si erano opposti alla devastante avanzata romana, vennero drasticamente ridimensionati,

sia nel corpo civico (con immissione di élites filoromana) sia nell’apparato monumentale, poiché

subirono diverse distruzioni.

Morgantina, ad esempio, fu assegnata ad un contingente di militari ispanici, decisivi durante

l’assedio di Siracusa, e la sua popolazione fu deportata e ridotta in schiavitù; Agrigento subì lo

stesso trattamento con diverse distruzioni annesse. Dopo la loro distruzione già piccoli gruppi di

sopravvissuti erano tornati blandamente a popolare queste terre (come nel caso di Agrigento), ma

solo successivamente esse furono elevate al rango di civitas.

Roma non agì per benevolenza ma seguendo naturalmente i propri interessi, poiché restituendo

parte dell’ex ager publicus alle comunità in questione riportò i contadini locali a coltivare terreni

rimasti incolti o adibiti al pascolo, ne beneficiò naturalmente il grande pozzo senza fondo dell’

Annona Urbis. Beneficianti di questa situazione, furono anche le compagnie dei publicani

appaltatrici dei canoni affittuari dei terreni rimasti comunque sotto la giurisdizione romana.

I publicani locali ebbero il compito di riscuotere la tassazione regolare mentre i publicani romani

esigevano canone affittuario sui terreni pubblici, tassa sui pascoli (scriptura) più i vari dazi

determinati dai commerci portuali (portorium). Quest’ ultimo tributo risulta essere di fondamentale

importanza per il ruolo commerciale transmarino dell’ isola stessa. Già i cartaginesi durante la loro

eparchia avevano adottato sistemi di retribuzione di diritti doganali così come la parte greca ed in

seguito siracusana dell’ isola.

Con l’immissione in toto del sistema siciliano in quello romano fu introdotta questa tassa sulle

merci che arrivavano e partivano dai più importanti porti della Sicilia. I diritti doganali

ammontavano al 5% del valore della merce ed erano riscossi da uffici preposti siti all’ interno delle

strutture portuali adatte. Cicerone stesso, nella sua accusa contro Verre menziona portoria sia in

grandi comunità: Siracusa, Agrigento, Palermo; sia in piccole: Finziade, Alesa e Terme. Rostovtzeff

male interpretando il dato ciceroniano deduce che la denominazione “fiscale” per la Sicilia di Sex

publicae Siciliae voglia indicare le sei città in cui il portorium veniva riscosso. Quest’ ipotesi risulta

essere poco concreta e credibile perché nel testo ciceroniano il retore elenca si sei città, ma allo

stesso tempo riporta il nome di 8 porti; tutto questo lascia intendere che la riscossione di questo

tributo avveniva anche in altri siti portuali. L’ accusa a Verre è un opera che permette in modo

chiaro e concreto, di capire come funzionava la riscossione del portorio e la relativa società di

publicani a cui era affidata. L’importanza di questo tributo è testimoniata da un episodio di cronaca

storica: Verre durante il suo “malgoverno” s’appellò il diritto di esportare le merci liberamente

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senza la sottoposizione a dazi doganali97

.

Di contro vennero premiate, con statuti speciali o esenzioni tributarie, quelle comunità che durante

gli anni dei conflitto avevano aiutato e sostenuto Roma: Civatas foederate come Tauromenium o

Messina, civitas stipendiariae come Finziade differenti dalle civitas liberae ac immunes come

Halaesa, Centuripae, Palermo e Segesta poiché quest’ultime erano libere per motivi vari da alcuna

tassazione98

. Le civitas foederate erano quelle città legate a Roma da un trattato d’alleanza

bilaterale, un foedus.

Per quanto riguarda le comunità liberae ac immunes emblematici sono due casi: Segesta ad

esempio si fregiava di un’antica discendenza troiana in relazione al peregrinare di Enea per mare.

La consanguineità tra l’Urbe e Segesta è testimoniata dall’assunzione nel pantheon romano del

culto di Venere Ericina. Questo dato conferma che l’elemento romano s’inserisce nel contesto

isolano anche da un punto di vista strettamente religioso, forse è proprio quest’evento che gioca un

ruolo fondamentale nella romanizzazione dell’isola.

Kentoripa parallelamente a Segesta ricevette lo stesso trattamento speciale poiché questa città

siciliana vantava legami parenterali con Lanuvium.

L’origine della città latina infatti si faceva discendere da genti provenienti dall’ odierna Centuripe,

tutto ciò è correlato dall’importante dato epigrafico derivante da un’iscrizione in dorico narrante la

visita di ambasciatori giunti dalla Sicilia nel Lazio per rinnovare il legame di parentela.

La politica svolta in Sicilia da Levino può essere rintracciata epigraficamente in un’iscrizione di

Delfi incisa in 5 colonne di 647 linee su una grande stele.

In questa iscrizione, accanto ai molteplici nomi delle città del mondo greco ed ellenistico, appaiono

i nomi dei theorodokoi, in pratica cittadini i quali avevano avuto l’onere e l’onore di ospitare i

theoroi, cioè i sacri messi del santuario delfico venuti ad invitare le città menzionate per i giochi

pitici.

Nella IV colonna relativa alla Sicilia si ha un quadro più o meno completo delle principali città

dell’epoca, seguendo un’excusus ben dettagliato.

Compaiono numerosissime comunità siceliote anche città che erano state prese con una certa

resistenza e quindi dichiarate decumane99

. Alcune città risultano essere assenti da questo itinerario

delfico; tutto ciò non deve essere imputato all’ignoranza o alla fretta nella redazione del documento,

bensì all’effettiva scomparsa di alcune di esse o semplicemente al mancato passaggio dei theoroi in

alcune di esse. In ogni caso sotto Levino il numero delle città autonome, le quali dovevano un

97

De Laet 1949, pag. 55 ssg. 98

Wilson 1990, pag. 36 ssg. Il termine stipendiarii è riferibile a comunità senza privilegi distinte da quelle con diritti

latini. 99

Manganaro 1980, pp. 415-427

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tributo a Roma, dovette ridursi rispetto alla fase precedente poiché esse videro ampliato

notevolmente il loro territorio ai danni di comunità vicine, che avevano attuato sovente una politica

anti-romana. Lentamente nel sistema amministrativo-produttivo siciliano si iniziarono a stabilire

genti di stirpe italica, nacque quindi un grande sistema cooperativo tra locali e immigrati.

Alcuni studiosi pensano che, in questa precisa fase storica, Roma avesse il monopolio commerciale-

produttivo sul grano siciliano, poiché ad esempio, analizzando un passo polibiano riferito al 169

a.C., ambasciatori rodii avevano ottenuto il permesso di trasportare in patria ben 100 mila medimni

di grano siciliano100

.

In realtà il problema è ben più complesso poiché Roma non aveva alcun interesse nel surplus

produttivo, semmai controllava la gestione dei dazi doganali del 5% (portorium, appaltato da

questori e dato in gestione a publicani) ma i vettovagliamenti avanzati potevano essere liberamente

commerciati e Roma non poneva alcun veto su ciò.

Tant’è vero che i rapporti extra-romani continuarono per le genti di Sicilia: basti pensare al

massaliota Poseidermos ricordato in un epigramma di Lilibeo del II secolo a.C.

Si iniziò comunque a formare un sistema agrario ben definito e restò pressoché immutato fino

all’avvento del grande latifondo d’epoca imperiale, che contraddistinse le campagne sicule da quel

dato momento storico.

L’economia agraria siciliana era ancora basata sulla piccola proprietà terriere forse il modello da

seguire per questa strutturazione sono le eupaleis di Diodoro Siculo o forse semplicemente dei

piccoli fondi. Sicuramente ci sono diverse evidenze archeologiche di questo periodo che narrano del

predominio della piccola proprietà terriera.

Camarina, Alesa, Taormina sono tutte comunità che presentano un’estrema parcellizzazione dei

terreni, indice di un’agricoltura a conduzione familiare.

Esempio tangibile del momento storico-economico ci viene poi da un sito rurale, in contrada

Aguglia tra Noto e Palazzolo Acreide. L’areale è piuttosto ridotto, presenta 3 ambienti abitativi una

stalla e un grande cortile, tipico esempio di villa rustica siciliana del III-I secolo a.C., modello delle

campagne isolane spazzato via dalla furia delle guerre servili101

.

Il successo in questo periodo della piccola proprietà, nasce dal presupposto che la coltivazione ed il

relativo export del grano verso l’Urbe ed altri mercati garantiva un benessere generalizzato.

Il quadro tardo-repubblicano, da Levino alle guerre servili risulta essere ben delineato: certamente

esisteva il latifondo, ma in questa fase risulta essere nettamente in minoranza rispetto alla piccola

proprietà.

100

Pol., XXVIII 2,5 101

Manganaro 1980, pp. 428-435

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56

Le rivolte servili fanno pensare in automatico ad un grande sistema latifondistico stabilito in Sicilia

trasposto dal suolo italico al contesto siciliano.

In realtà la situazione risulta essere ben diversa rispetto a come la si poteva pensare fin a qualche

tempo fa. Analizzando il contesto socio-economico dal quale nacquero i focolai di rivolta,

innanzitutto, se ne desume che i nomi dei proprietari terrieri coinvolti nei tumulti per la maggiore

avevano origine greca, inoltre il modello latifondista italico non poteva in quel tempo attecchire

nell’isola a causa della sua più volte citata funzione di granaio di Roma, il che presupponeva un tipo

d’economia agricola basato sulla piccola proprietà. Nella penisola, con quadro socio-economico

estremamente diverso, il topòs della grande villa a produzione schiavile con latifundus esisteva già

dal II secolo a.C. (la villa di Settefinestre nell’ Etruria meridionale è un esempio lampante) e si era

lasciato ben presto alle spalle il modello catoniano per abbracciare un modello aziendalistico ben

affermato102

. Le rivolte servili siciliane furono si interessate dalla grande immissione di schiavi

scaturita dopo i successi di Roma, in Grecia prima e a Cartagine dopo, ma non erano state generate

dall’intensa oppressione latifondista presente già nella penisola italica.

La manodopera schiavile crebbe in maniera esponenziale poiché era acquistata a basso costo sui

mercati ellenistico-orientali e costituiva molto probabilmente una delle più ovvie contropartite per

il grano siciliano nei mercati.

I tumulti non furono, come potrebbe far pensare a primo impatto il nome, rivolte svolte solamente

dalla componente schiavile ad ingrossare le fila dei rivoltosi ci pensarono infatti lunghe schiere di

nullatenenti siciliani oppressi dal regime imposto da Roma.

Lampante risulta essere il dato dell’esercito dei rivoltosi durante la prima guerra: esso, capeggiato

da Euno e Cleone, arrivò, secondo alcune fonti, a toccare le 200 mila unità, un dato effettivamente

impressionante segno di un forte disagio socio-economico103

.

La rivolta servile, iniziata attorno al 135 a.C. e conclusasi all’incirca nel 132 a.C., fu repressa, non

senza difficoltà, dal console Publio Rupilio104

. Una svolta sicuramente importante nell’impostazione

amministrativo-economica dell’isola, si ebbe tuttavia realmente nel 131 a.C. con la lex Rupilia.

A seguito della sollevazione, il Senato romano era stato costretto a emettere un senatus consultum

con il quale si conferivano i pieni poteri al console, affinché fosse restaurato l'ordine pubblico nella

ricca provincia siciliana.

102

Celuzza 1984, pp. 163-165 103

Manganaro 1980, pp. 435-439 104

L’evento scatenante questa ribellione fu l’indigenza vissuta dagli schiavi sin dalla fine del dominio cartaginese. La

rivolta fu capeggiata da Euno schiavo di origine siriaca, e Cleone di Licia. I ribelli misero in difficoltà la guarnigione

romana conquistando diversi capisaldi (Catania, Taormina) e solo dopo una strenua resistenza furono sconfitti.

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57

La lex Rupilia non fu altro che un mezzo per disciplinare i rapporti socio-economici tra le varie e

diversificate comunità siciliane105

.

Questi provvedimenti evidentemente non bastarono per garantire la pax, poiché un trentennio dopo

scoppiò sull’isola la seconda rivolta servile, segno tangibile che comunque le riforme perpetrate

qualche anno prima non avevano modificato di molto la condizione schiavile. Iniziata nel 102 a.C. e

conclusasi al 98 a.C., fu sedata dall’intervento diretto di Mario106

. I tumulti nacquero anche in

questo caso da condizioni sociali e politiche particolari: erano stati liberati, su richiesta di Nicomede

III di Bitinia al fine di garantire il suo sostegno bellico a Roma contro i Cimbri, moltissimi schiavi

d’origine orientale.

Il propretore di Sicilia, Nerva, si vide costretto a sospendere il decreto poiché se ne erano presentati,

allettati dal profumo della libertà, tantissimi. La soppressione del provvedimento scatenò una

reazione durissima da chi si era visto negare quel privilegio, i rivoltosi guidati da Salvio e Atenione

successivamente si compattarono e misero nuovamente a ferro e fuoco la Sicilia.

Venne presa Eraclea Minoa, città fatta rinascere appena un trentennio prima dalla riforma rupiliana,

fu espugnata all’interno Morgantina e successivamente l’intrapendente Salvio prese il titolo di re

Triphon. Atenione, schiavo d’origine cilicia, invece mosse dall’agro lilibetano e abbracciò la rivolta

di Salvio, i due nonostante intenti formalmente comuni, ebbero dei forti dissidi che portarono

quest’ultimo a far imprigionare Atenione. Atenione poté prendere il pieno controllo dei rivoltosi

solo dopo la morte del Triphon e dovette da subito affrontare da par suo il console Aquillio giunto in

Sicilia alla fine del II a.C.

Gli scontri e le vicende varie di questo secondo tumulto furono asprissime e cruente, il tutto

testimoniato archeologicamente dall’ingente quantità di tesoretti e ripostigli trovati nelle campagne

siciliane, testimoni di una ricchezza economica perduta e di un’instabilità politica notevole107

.

Le fonti ci parlano poi di un altro evento che sconvolse la Sicilia dopo la vittoria romana di Aquillio:

una tremenda invasione di cavallette che distrusse per buonissima parte la produzione granaria

siceliota con ripercussioni economiche gravissime, tant’è che Aquillio, spenti gli ultimi focolai,

dovette provvedere a sfamare la popolazione con vettovagliamenti fatti arrivare appositamente108

.

Il quadro siciliano alla fine di questi delittuosi eventi si presenta piuttosto impoverito e funge in

pratica da apripista alla installazione latifondistica d’età imperiale.

105

Cic. II 13,15,16, 3. “Publiusque Rupilius postea leges ita Siculis ex senatus consulto de x legatorum sententia

dedisset ut ciues inter sese legibus suis agerent”. 106

Diod. XXXVI 2, 3-6. Diodoro Siculo narra che la II rivolta servile capeggiata da uno schiavo di nome Salvio, fu

scatenata dalla liberazione di alcuni schiavi che si erano dichiarati preda di razzie durante le guerre sostenute da Roma

in oriente. Gli schiavi non liberati scatenarono la sommossa che portò i ribelli a cingere d’assedio Morgantina. La

resistenza servile fu alla fine sconfitta con la presa di Eraclea ultimo baluardo e focolaio della rivolta, nel 98 a.C. 107

Manganaro 1980 pp. 440-441 108

Cic. De lege agr. 2,83

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Iniziarono a giungere nell’isola rappresentanti della classe dirigente romana, e una serie di questi

rappresentanti diretti di Roma riuscirono per certi versi a risollevare l’economia caduta in rovina di

questo vasto territorio. Uno di questi, Asyllios, da identificare col romano Sempronio Asellio,

succeduto a Domizio Enobarbo, attuò dei provvedimenti mirati alla risollevazione dell’intero

comparto territoriale. Egli, secondo il racconto che ne fa Diodoro, si sarebbe impegnato nella retta

gestione della giustizia, prestando protezione alle classi deboli e restituendo l’isola “all’antica felice

prosperità di un tempo”109

.

La Sicilia resto estranea ai successivi eventi bellici che coinvolsero Roma e i suoi socii anche se

quest’ultimi sperarono fino all’ultimo, dopo aver espugnato Reggio, di espandere nuovamente la

rivolta in Sicilia. L’isola, governata da Norbano, respinse il moto rivoluzionario, anzi Reggio stessa

fu liberata dalle truppe di quest’ultimo che in previsione di una strenua resistenza bellica aumentò

l’ammontare della decima dai campi Leontini.

In quegli anni dovettero esserci diversi eccidi sull’isola riguardanti sillani, altri eventi delittuosi

furono generati nell’ 82 a.C. dalle incursioni di un giovane Cneo Pompeo.

Pompeo riuscì ad infrangere le difese del mariano Perperna ma tuttavia usò una certa clemenza nei

riguardi dei vinti anche se delitti furono commessi contro i mariani rimasti che non avevano voluto

abiurare al loro credo politico. Nell 81 a.C. l’isola fu saccheggiata da M. Emilio Lepido, forse col

pretesto di eliminare gli ultimi mariani, dopo il provvedimento sillano che voleva che i tribunali

delle cause di concussione fossero restituiti ai senatori.

Dopo alterne vicissitudini fu propretore di Sicilia negli anni 73-71 a.C., il famigerato e celebre

Verre.

La storia passata sotto la rigida “censura” ciceroniana ci ha lasciato un’immagine di Verre

particolarmente negativa: uomo senza scrupoli, avido di ricchezze e di potere.

Celebri sono ai nostri occhi le immani razzie di preziose opere d’arte che il propretore trafugò dalla

Trinacria. Nessuno può negare il fatto che Verre sia stato un ladro senza scrupoli vari, ma detto ciò è

innegabile che quest’ultimo avesse svolto il lavoro con alcuni risvolti positivi.

Particolarmente ammirabile, fu la scaltrezza con cui egli riuscì a sedare il propagarsi della rivolta

schiavile sotto l’eco delle azioni del gladiatore campano Spartaco, inoltre fornì sempre alla plebe il

grano necessario per sfamarsi. In corrispondenza alla Lex Terentia Cassia emessa nel 73 a.C., essa

prevedeva maggiori acquisti di frumento in Sicilia sicché vennero assicurate distribuzioni gratuite a

molte famiglie indigenti. Lo scontro lo ebbe però in questo caso con i proprietari dei fondi che

producevano granaglie: procedendo ad acquisti forzosi correlati da grandi profitti per i publicani,

pretendendo una seconda decima.

109

Diod. Sic., XXXVII 8

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59

Verre pretese dagli agricoltori, che non offrivano frumento buono, la differenza di prezzo rispetto a

quello politico per poter acquistare il frumento buono richiesto con insistenza dalla plebe.

Lo scontro con gli aratores fu la naturale conseguenza, ma a parziale discolpa del propretore va la

considerazione che egli fu il primo governatore di Sicilia che dovette affrontare la legge Terenzia

Cassia. Sarebbe corretto anche dire che Verre non fu il solo governatore corrotto anche altre

amministrazioni provinciali apparentemente normotipo infatti, pare avessero ostacolato la piccola

proprietà, avvantaggiando un’economia di stampo capitalistico-schiavile110

. Le Verrine di

ciceroniana memoria anche se estremamente influenzate dal pensiero politico dell’autore restano il

più limpido e vivo quadro del contesto siciliano tardo-repubblicano.

Il trentennio che da Verre giunge a Cesare rappresentò per l’isola un momento di ulteriore

aggregazione col mondo romano, anche se il substrato sociale rimaneva e rimase, almeno fino al

basso impero nelle campagne, greco.

Nel 49 a.C. la Sicilia fu invasa dal cesariano Scribonio Curione, davanti a questa azione bellica il

propretore del tempo, Catone l’Uticense, fuggì verso l’Africa. Nel 47 a.C. salpò da Lilibeo Giulio

Cesare per andare a combattere le ultime sacche di resistenza pompeiane rifugiatesi in Africa Nova.

Proprio allo scopo di “clientelizzarsi” la Sicilia e i suoi abitanti, a causa della relativa vicinanza a

Roma e alla sua importanza economica, Cesare l’anno dopo promulgò la cittadinanza romana ai

magistrati dei municipi latini, lo ius Latii lasciando alle città istituzioni e lingua proprie111

.

I provvedimenti cesariani coinvolsero anche il sistema tributario poiché fu abolita la decima per le

città in ius latii le quali furono soggette al pagamento di uno stipendium112

.

Col provvedimento cesariano, portato da Antonio nel 44 a.C. al livello superiore del diritto romano,

fu insignita di fatto del riconoscimento di una “quasi” totale integrazione nel sistema repubblicano.

L’isola non godrà mai però, almeno fino alle riforme dioclezianee, di una totale integrazione

“italica”. Negli otto anni successivi (44-36 a.C.) l’isola fu governata da Sesto Pompeo che mirava a

costituire una grande contrafforte economico-politica al centro del mediterraneo. In questo lasso di

tempo cronologico l’isola e le sue maggiori città ebbero un controllo della tipologia che

contraddistingueva i municipia latini. Alcune città iniziarono a battere moneta e lo stesso Sesto

Pompeo in qualità di praefectus classis et ora maritimae installò una zecca a Messana dopo aver

disposto la coniazione dell’asse celebrativo in onore del padre.

Questo contesto generò un risveglio economico della Sicilia vessata da anni di guerre e malgoverni,

che tuttavia non portò ad un consenso totale per il figlio di Pompeo Magno. La situazione politica

creatasi in Sicilia generò e creò i presupposti per un intervento diretto di Ottaviano, ormai stufo

110

Weber, 1981 pag. 320 111

Manganaro 1980, pp.443-447 112

Manganaro 1988, pp. 11-12

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dell’azione incessante della pirateria pompeiana per il mediterraneo.

Nel 36 a.C. decise con convinzione di attaccare la Sicilia città capisaldi della resistenza pompeiana

caddero con estrema facilità, Lilibeo fu assediata da Lepido, Tindari e Milazzo furono espugnate

dalla sagacia di Agrippa. Tuttavia le devastazioni nell’isola non furono causate solamente dalla

resistenza pompeiana ma anche e soprattutto dall’azione delle legioni triumvirali che si

abbandonarono a razzie di ogni tipo. Lo scontro finale avvenne a Nauloco il 3 Settembre del 36 a.C.,

la battaglia si concluse con la vittoria di Agrippa comandante della flotta augustea ed in seguito alla

resa di Taormina le operazioni risultarono concluse.

Pompeo vedendo la situazione decisamente precaria, si imbarcò con i tesori accumulati e la figlia,

verso la Grecia auto-esiliandosi di fatto. Lasciò in Sicilia le sue legioni agli ordini di Tisieno Gallo e

Plinio Rufo, le quali ben presto si arresero, le prime ad Ottaviano mentre le seconde ad Emilio

Lepido113

.

Il prezzo da pagare per l’isola fu effettivamente altissimo, oltre ad un’ingente tributo in denaro,

molti sostenitori di Pompeo furono schiavizzati o brutalmente assassinati. In seguito al sostegno

dato a Sesto Pompeo, alcune città, che in precedenza erano state privilegiate come Taormina, ora

vengono pesantemente punite.

Quest’ultima subisce la deportazione dei suoi abitanti e la deduzione coloniale con immissione di

veterani augustei 114

. Testimonianza del clima instabile che visse l’isola in questo periodo, risiede

nel ritrovamento di 6 ripostigli monetali databili tra il 41 ed il 36 a.C. due dei quali in monete

bronzee, provenienti da varie località: Licata, Megara, Lilibeo, Messana e San Domenica Vittoria.

I motivi scatenanti le diverse deduzioni augustee furono molteplici: sicuramente maggior controllo

del territorio, inoltre l’installazione di veri e propri contingenti romani sulle coste, portò

innanzitutto ad un pieno controllo del trasporto marittimo che tanti danni aveva causato durante la

guerra a Sesto Pompeo, inoltre grazie alla felice posizione delle colonie dedotte Roma si garantiva

lo sfruttamento diretto di un ricco e fertile entroterra.

La testimonianza vivida della riconquista siciliana si ha da un iscrizione epigrafata a d opera dei

due fratelli C. Papius Celsius e M. Papius Kanus, i due in onore del nipote di Cesare fecero porre a

Narona in Dalmazia, una stele incisa col titolo Sicilia recepta115

.

Augusto nella compilazione delle Res Gestae declassò la guerra contro Pompeo da guerra civile a

Bellum servile poiché tale era la considerazione dei ribelli116

.

L’isola comunque fu esclusa nel 27 a.C., dalla riforma delle regiones perpetrata da Ottaviano,

113

Manganaro 1980, pp. 448-451 114

Portale 2004, pp. 6-7 115

Manganaro, 1988, pp. 13-15 116

Aug, I 27,3

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espediente motivato dall’appoggio offerto da alcune comunità isolane a Sesto Pompeo e alla sua

pirateria, durante la guerra civile (42-36 a.C.).

L’isola rimase per lungo tempo una sorta di ibrido tra una vera e propria provincia e una regio

italica.

Punto di svolta per la politica socio-economica in Sicilia, fu la battaglia di Azio. Essa rappresenta

un punto focale nelle transazioni di beni di prima necessità nel mediterraneo romano, poiché da

questo momento in poi, a causa della grande disponibilità di granaglie provenienti dall’Egitto,

trasportate a Roma direttamente dalla flotta di stato la cosiddetta Classis Alexandrina, la Sicilia

perse la sua centralità.

L’esistenza o meno della flotta alessandrina resta, comunque, una supposizione poiché,

verosimilmente, essa era costituita semplicemente da una serie di imbarcazioni private, requisite

dallo stato romano per il trasporto annonario, viaggianti in convogli sulla rotta Alessandria-Roma. Il

post-Azio fu abbastanza duro per l’isola poiché il comparto territoriale si presentava piuttosto

degradato e Strabone stesso narra di condizioni disastrose soprattutto per la fascia meridionale

dell’isola.

Per le campagne isolane ed i suoi aratores, quindi, con lo spostamento degli interessi cerealicoli,

iniziò il processo di svincolamento dell’isola dall’annona Urbis117

. Innanzitutto le condizioni

dell’isola aprirono la strada agli allevatori dell’interno per la produzione di lana e cuoio, solo pian

piano l’equilibrio agricolo dell’isola si ristabilì.

Il Princeps , assunto il ruolo di curatore dell’annona, riesaminò infatti la situazione isolana,

ispezionando personalmente le località principali tra il 22 e il 21 a.C. Oltre la già citata deduzione di

Tauromenio, Augusto si adoperò per installare altri suoi veterani, o comunque gente di stirpe latina,

in città strategicamente importantissime. Una dei provvedimenti principali fu la collocazioni di

procuratori imperiali per gestire il latifondo e tutto quello che esisteva attorno ad esso118

.

Nell’elenco delle colonie romane citate da Plinio il Vecchio figurano oltre a Tauromenium, Catina,

Syracusae, Thermae, Tyndaris e Panhormum anche se Plinio definisce quest’ultimo centro come

oppidum. Molte città soprattutto all’interno, finirono per scomparire con il loro agro accorpato

giurisdizionalmente a quello di città vicine. Ogni anno arrivava da Roma ad amministrare la

provincia un magistrato detto Proconsul, grazie ad emissioni monetali dei centri più eminenti si

conoscono cinque nomi di governatori di Sicilia119

. Dall’età augustea, Roma vene a costituire

quindi il centro catalizzatore economico-commerciale di tutto l’impero, rappresentando in

contemporanea il più grande centro di consumo, a causa del suo elevatissimo aumento demografico.

117

Panella 1985, pag. 182 118

Manganaro 1988, pp. 22-23 119

Manganaro 1980, pp. 451-453

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Testi letterari ed evidenze di scavo ci narrano che nell’ Urbs giungevano moltissimi prodotti dalla

ricche provincie120

. La Sicilia inviava a Roma, soprattutto dopo la già menzionata perdita del

monopolio sulla produzione cerealicola, vino, frutta e in minor parte salsa di pesce ed olio.

Questa tendenza economico-produttiva si ha quindi in seguito alla perdita dei fondi isolani della

leadership sulla monocoltura cerealicola, in favore di produzioni differenziate.

La risistemazione augustea, da qualsiasi punto la si guardi, segnerà gli sviluppi futuri della Sicilia:

aprirà innanzitutto la strada al secolare latifondismo siculo ed inoltre, l’installazione di uno zoccolo

duro romano nelle città strategicamente più importanti creerà, una sempre e totale fedeltà di tutte le

comunità verso l’Urbe, anche se è bene ricordare che l’elemento greco non perirà praticamente mai

ma si andrà “mescolando” con la romanitas. Ancora tuttavia non è chiara la matrice

dell’imposizione fiscale assegnata all’isola.

Il tributo principale era lo stipendium, esso aveva un ammontare fisso, bisogna stabilire se esso sia

rimasto essenzialmente una tassa in natura come in altre province annonarie. In ogni caso restava in

vigore come vicesima (5%), l’imposta doganale (Portorium), da aggiungere alla tassazione

provinciale ordinaria e dal 6 a.C., come da altre parti, l’imposta di successione (Vicesima

hereditarium). Lo stipendium provinciale era raccolto principalmente dalle comunità a condizione

stipendiaria in proporzione all’ agro demaniale e privato, in seguito esso era consegnato sottoforma

di pactiones ai rappresentanti delle società dei publicani121

. Il periodo di relativa tranquillità politica dell’isola, dopo gli ultimi focolai bellici generati dai socio-

economico e storico romano. Pochi furono gli episodi degni di nota che interessarono l’isola

durante i primi secoli dell’impero: Sotto Tiberio furono emesse monete in onore del divo Augusto e

lo stesso culto imperiale augusteo fu messo in primo piano. Fu recuperato il vecchio aes per le

nuove coniazioni e questo recupero di materiale bronzeo può sicuramente essere collegato alla

contromarcature di bronzo africano col timbro APRON riferito al proconsole d’Africa del periodo,

Apronio. In quegli anni la Sicilia costituiva la retrovia del fronte militare contra berberos guidati

da Tacfarinas (Vedi Cap. I). La rivolta barbara portò al sicuro un’ infinità di bronzo africano

contromarcato dal Proconsole sopracitato, come testimoniano le evidenze archeologiche.

Tralasciando il delicato momento bellico durante gli anni tiberini in Sicilia si assistente ad una

rinascita graduale dei culti locali, tendenza che continuò anche sotto Claudio tant’è vero che ci

furono interventi in soccorso del sacro tempio di Venere Ericina. Caligola succeduto a Claudio,

visitò l’isola ma ai primi tremori generati dall’ Etna preferì fuggire. Sotto la sua amministrazione si

registarono diversi interventi edilizi. Egli avrebbe concepito in quegli anni il grandioso progetto

120

Panella 1985, pp. 180-181 121

Manganaro 1988, pp. 37-38

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edilizio di grandi moli a Messana e Region per permettere alla flotta frumentaria proveniente dall’

Egitto di aver condizioni ottimali di attracco. Con la fine dei tumulti dovuti alla vacanza del trono

imperiale, la situazione per l’isola divenne sicuramente migliore. Vespasiano ristabilita la pace

procedette alla deduzione di propri veterani, tramite assegnazione di lotti centuriali nell’agro

palermitano e selinuntino. Questa nuova suddivisione territoriale portò alla formazione di nuovi

piccoli proprietari terrieri e di grandi proprietari di latifundia a regime pascolare. Tendenza

testimoniata dalla proprietà, nel territorio catanese di Domitia, moglie di Domitianus. Proprio sotto

i Flavi apparve sulla scena politica il primo senatore siciliano, L. Acilius Rufus.

Segno tangibile dell’ importanza della Sicilia in epoca Flavia è rivelato da un evento ludico di

grande importanza: durante l’inaugurazione del Colosseo nell’ 80 d.C. fu inscenata una naumachia

riproducente e rievocante lo scontro tra siracusani e ateniesi del 413 a.C.

Con l’avvento di Traiano si ebbe un decremento della produzione agricola isolana, viceversa si

ebbe un’ intensa attività edilizia (nel 108 d.C. il teatro di Taormina subì dei restauri e rifacimenti

che lo adattarono ad ospitare ludi gladiatori122

.).

Adriano viene ricordato dalle fonti come Restitutor Siciliae poiché probabilmente restaurò ed eresse

nuove opere pubbliche123

. Egli al rientro dalla Grecia nell’ estate del 126 d.C. volle fermarsi

sull’isola. Fu proprio in quell’occasione e successivamente ad una ascensione dell’ Etna che

procedette alla disposizione di opere edilizie e restauri sopracitati. All’ imperatore Antonino Pio si

riferiscono soltanto saltuari ritrtti o dediche.

Sicuramente più ricca risulta essere la documentazione riferita a Marco Aurelio. Innumerevoli

infatti risultano essere le dediche o i ritratti dedicati o all’imperatore o ai membri della famiglia

imperiale (es. dediche al gemello di Commodo, T. Fulvus Aurelius Antoninus a Lilibeo), non è da

escludere inoltre che l’assegnazione ad alcuni equites di posti fissi presso alcuni anfiteatri non fosse

riconducibile a restauri messi in atto dall’ imperatore. Con la presa al potere di Commodo si

riscontra l’immissione nel senato di Roma di un’ altro senatore siciliano, tale M. Marcius Bietis

Glaucus.

L’ ingresso sulla scena imperiale dei severi ebbe ovviamente le sue conseguenze anche nell’ambito

provinciale siculo124

. Settimio Severo fu l’imperatore tardo che lasciò maggiori tracce sul suolo

siciliano, d’altronde l’isola aveva avuto in un due orizzonte cronologici ravvicinati come

governatori sia quest’ultimo che il fratello Settimio Geta, del quale resta ricordo in un busto trovato

in un contesto rurale di Sabucina bassa (Cl)125

.

122

Santangelo 1966, pag. 48 ssg. 123

Clemente 1980, pp. 468-469 124

Manganaro 1988, pp. 65-76 125

Bejor 1986, pag. 472

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Furono compiute risistemazioni portuali a Caucana ad opera di Geta stesso, dato che permette forse

di riportare la cronologia del sito indietro, al II secolo d.C126

.

Ad ogni modo i contatti dell’isola con la corte imperiale risultano essere piuttosto scarsi, dato reso

veritiero dalla scarsissima connessione tra i cittadini sicelioti e l’amministrazione centrale.

Conosciamo circa 31 governatori siciliani, un numero piuttosto basso se il numero viene comparato

ai numeri di altre realtà provinciali. Pochissime poi sono le carriere note e nell’insieme si tratta di

carriere con un legame piuttosto scollegato con il contesto isolano.

Si deduce facilmente quindi che l’interesse verso la provincia e la sua amministrazione, nei primi

secoli dell’impero, risulta essere piuttosto scarso.

Al contrario dell’importanza che assumerà dal punto di vista politico amministrativo da Diocleziano

in poi. Essa era vista sempre come uno dei luoghi di rifornimento per l’insaziabile ventre dell’Urbe,

rimanendo in stretta connessione con l’Italia, ma il suo ruolo commerciale si faceva piuttosto

marginale relegato in secondo piano dalle tratte di import-export tra Roma, le Gallie, la penisola

iberica e L’Africa con partnership commerciali impostate perlopiù su scambi a scala minore e

privata. L’ isola visse un lungo periodo di pace ma di relativa stagnazione politico-economica e

commerciale.

Alcune attività non furono mai abbandonate: attività portuali, a causa della posizione geografica

favorevolissima, servizi amministrativi provinciali ed altre attività riuscirono a vivacizzare la vita

dei grossi centri ma la stagnazione commerciale fu determinata dalla mole modesta dei trend di

import-export rispetto ai secoli pre-imperiali. L’assenza stessa di un esercito stanziale, alla lunga,

ebbe il suo peso sul fattore economico poiché senza la presenza dei ricchi stipendia militari anche

l’economia di riflesso ne risultava impoverita.

Si riconosce, in questa brevissima rassegna di concause, un accentuato isolamento politico,

generato con molta probabilità dalla diversa impostazione fondiaria post-augustea sopracitata.

Nessun legionario infatti appare nei lacunosi elenchi noti e pochissimi entrarono a far parte

dell’apparato militare romano.

La debolezza militare della provincia è deducibile da un episodio sotto il regno di Gallieno nel 261

d.C., narrante di una probabile rivolta “servile” poiché nell’isola si era creata una situazione di

grande instabilità, a causa dell’estendersi del fenomeno del brigantaggio127

.

126

L’ iscrizione frammentaria ritrovata a Caucana commemora una presunta risistemazione portuale, il prefetto

dell’annona deve aver trovato nella produzione annonaria sicula un importante ausilio alle esigenze della capitale:

“ [Provid]entia / [-- v(iri) p(erfectissimi) pr]aef(ecti) ann(one) / [idemq(ue) a(gentis) v(ices) pr]aef(ectorum)

praetorio (duorum) e(minentissimorum) v(irorum)” 127

HA, V. Gall, 4,9

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65

Quest’ultimo fenomeno non deve assolutamente stupirci, poiché già Strabone parla in un periodo

ben antecedente delle razzie nei territori etnei di un tale Seluro128

. Il fenomeno generale dello

spopolamento coinvolse nelle fasi medio imperiali il territorio siciliano, la popolazione andò per

concentrarsi in grossi centri costieri o in grandi complessi rurali interni.

L’evasione dalla vita urbana dal medio impero in poi era stata correlata dal trasferirsi del fulcro

economico isolano verso i grandi possedimenti terrieri. I proprietari di questi grandi latifondi per il

più delle volte non risiedettero direttamente nelle loro tenute, bensì i loro affari erano gestiti

direttamente ai cosiddetti actores, degli amministratori privati. Le piccole proprietà in sostanza

erano la linfa vitale del motore economico siciliano, “morte” quest’ultime il perfetto meccanismo

che aveva portato l’isola ad avere una fiorentissima economia si inceppò inesorabilmente.

L’unico interesse dei grandi proprietari infatti era determinato dalla voglia di disporre sempre e

comunque di introiti regolari e fissi. I ricchi latifondisti romani, in questo frangente ebbero un

grande interesse a spendere la loro ricchezza accumulata non ad incrementarla, l’obiettivo

principale infatti è rientrare nei costi delle spese, il cosiddetto pareggio di bilancio129

. L’isola anche

a causa di questa perdita d’importanza strategica, restò pressoché immune dalle scorrerie barbare,

solo un piccolo contingente franco proveniente dal Ponto nel 278 d.C. toccò Siracusa130

.

In questo clima di stasis predominante non mancarono comunque sprazzi di vitalità: fulgidi esempi

sono a ciò Catania città portuale importantissima dove fu fortemente sviluppata l’attività

corporativa, esisteva infatti il collegio dei faber navales, indicante un’intensa attività cantieristica

della comunità catanese che porto l’insediamento etneo a stringere rapporti con il ricco ambiente

ostiense. Naturalmente la città affrontò anche difficoltà economiche, esse si riscontrano in un lettera

del Procurator Giulio Paterno, il quale pone all’attenzione di Lucio Vero e Marco Aurelio il cattivo

stato delle finanze cittadine. Altri contesti cittadini che vissero un periodo d’isolata floridezza

furono Lilibeo sede storica del secondo questore, Palermo col suo importante porto, Termini

importante approdo tirrenico e naturalmente la capitale amministrativa, Siracusa131

.

L’epoca dioclezianea rappresentò per l’isola un importante momento politico: durante il regno

dell’imperatore dalmata, la Sicilia venne inserita all’interno della diocesi italica aggregata al

vicariato suburbicario e affidata ad un corrector.

La provincia viene investita da un nuovo interesse politico che porta essa stessa ad essere uno dei

territori più ambiti del celebre cursus honorum.

Testimonianza di quanto sopra riferito, si ha nella elezione di membri di due importanti famiglie

128

Strab. VI 2,2 129

L. Cracco Ruggini 1980, pp. 483-487 130

Zosim., I 71,2 131

Clemente 1980, pag. 471

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66

senatoriali, i Simmachi e i Nicomachi nel governo siciliano. Durante il regno del riformatore

Diocleziano, si inasprì ulteriormente la lotta delle istituzioni romane contro l’incalzante avanzata

nelle coscienze della morale cristiana e dei suoi precetti.

Per la verità già i predecessori di Diocleziano avevano provveduto a contrastare gli adepti della

nuova religione, incessanti furono le persecuzioni di Decio e Valeriano (esempio di ciò è costituito

negli anni di Valeriano da una grande persecuzione che coinvolse Santa Lucia a Siracusa ). Sotto

Diocletianus la situazione precipitò e solo in seguito con le riforme di Costantino la sempre più

importante presenza cristiana sull’ isola potette vivere con maggiori garanzie.

Data fondamentale per le sorti politico-economiche dell’isola è il 330 d.C. : quella data infatti segna

la fondazione di Costantinopoli e il conseguente spostamento degli interessi economici verso la

nuova capitale.

L’isola riacquista, insieme all’ Africa, il suo ruolo predominante nell’approvvigionamento

cerealicolo della vecchia capitale, Roma132

. L’isola venne a colmare formalmente il ruolo annonario

ricoperto dall’Egitto ora rivolto ai fabbisogni della nuova capitale, Costantinopoli. Mentre buona

parte dell’impero durante la sua fase tarda visse un momento di crisi con relativo blocco di

particolari produzioni, la Sicilia in questa fase registrò un notevole aumento della produzione

economica. Lo sviluppo dell’economia isolana fu determinato poi da un’accresciuta domanda dei

mercati romani e di altri eminenti centri italici

La differenza sostanziale, che rappresentò inoltre il motivo di una grande crescita economica, fu

determinata, a differenza del periodo tardo repubblicano e primo imperiale, dell’esclusione

dell’isola dagli obblighi annonari con relativa liberalizzazione commerciale, una sorta di manna per

i grandi latifondisti imperiali. È questo, di fatto, il periodo storico delle grandi tenute tardoantiche

delle campagne sicule, delle quali la villa del Casale sita in Piazza Armerina rappresenta la

sublimazione.

A partire dal IV secolo, la Sicilia entrò decisamente e attivamente nell’orbita degli interessi

dell’ormai fragile sistema imperiale, poiché divenne innanzitutto un’importantissima base strategica

verso l’Africa. L’isola divenne poi un serio appoggio nei periodo di stabilità politica, per i traffici ed

i transiti delle merci nel Mediterraneo centrale da e verso Roma, ed infine mantenne la sua

importanza come fonte alternativa in sostituzione della mancanza straordinaria di vettovagliamenti

che dovevano giungere dall’Africa verso l’ annona allorquando carestie, difficili condizioni

metereologiche o scorrerie barbariche bloccavano le esportazioni dall’Africa133

.

Nell’ultimo secolo dell’impero ci fu quindi una vera e propria metamorfosi della vitalità economica

132

Il primato delle esportazioni cerealicole verso la nuova capitale va, come lo era stata precedentemente per Roma,

all’Egitto provincia proprietà diretta degli imperatori fin dalla battaglia di Azio del 31 a.C. 133

Cracco Ruggini 1980, pp. 487-489

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isolana: in parte dovuta sicuramente al ruolo assegnatogli da Diocleziano in seguito alla riforma

amministrativa, in parte allo spostamento degli interessi centrali verso Costantinopoli, che

determinarono un isolamento dell’antica capitale colmato con l’apporto socio-economico

dell’Africa e della Sicilia. Specchio sociale di questo rinnovato fervore economico ci giunge ad

esempio dal sopra menzionato e sfarzoso complesso di Piazza Armerina (En) conosciuto oggi come

Villa del Casale. In questo sito sono rintracciabili tutti i prodromi della situazione storica dell’isola,

in quel dato orizzonte cronologico. Questa grande domus svolgeva appieno il ruolo territoriale di

“piccola città”, la funzione pubblica svolta dalla villa stessa con i suoi svariati ambienti di

rappresentanza avvicinano la costruzione più ad un palazzo reale che ad una residenza privata134

. A

livello produttivo, in questo dato periodo sembra subire una sorta di sollevamento la produzione

vinicola siciliana, fonte da sempre di importanti rendite, poiché vi era stata una crisi nelle

produzioni sul suolo italico135

.

Nel 411 d.C. la Sicilia viveva un periodo di relativa tranquillità mentre buona parte della pars

occidentalis era flagellata dalle invasioni barbariche. L’isola in quel determinato periodo storico

veniva definita “getarum genetrix” poiché, insieme alla Sardegna, rappresentava una delle arterie

dalle quali affluivano i necessari beni di prima necessità per Roma e l’ Italia, i vandali cercarono

sempre, con alterne fortune, di tagliare queste vie commerciali di vitale importanza. In quell’anno

fu promulgata un provvedimento ad opera di Valentiniano III, che confermava per i suoi abitanti,

l’esenzione dal’ aurum tirocinium, provvedimento sospeso nelle altre provincie per le devastazioni

barbariche. Molte famiglie proprietarie terriere in Italia intanto, a causa dell’aggravarsi della

situazione socio-politica, decisero di abbandonare la penisola, devastata dai barbari, per rifugiarsi in

Sicilia. Notizia di questa trasmigrazione ci giunge direttamente dalla “Vita di Santa Melania”, la

famiglia della futura Santa trovò infatti rifugio dalle orde vandaliche in una villa sulla costa

tirrenica sul messinese. La posizione panoramica della villa prossima alla spiaggia, secondo il tipico

schema della villa marittima connessa ad una grande tenuta, era amplificata dalle decorazioni

marmoree e musive ricche in ogni loro forma136

. La pax fu bruscamente interrotta dalle razzie,

giunte fin nell’isola, operate dal Vandalo Genserico nel 440, egli assediò Palermo dopo aver preso

Lilibeo. I vandali, probabilmente, furono attratti sull’isola dalle grandi ricchezze di città come

Catania, Siracusa, Lilibeo, Palermo ecc. L’obiettivo ultimo dell’orda vandalica fu la razzia, tant’è

vero che consegnarono l’isola, iure tributatio, nelle mani di Odoacre quando quest’ultimo, con la

consegna delle insegne imperiali a Costantinopoli, pose fine convenzionalmente nel 476 d.C.

134

Pensabene 2010, pp. 7-12 135

Cracco Ruggini 1980, pp. 490-491 136

Manganaro 1959-60, p. 21 ssg.

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68

all’esistenza dell’impero romano d’occidente137

.

L’isola, estremamente provata e ferita, fu esentata dal pagamento tributario successivo d’epoca

teodoriciana138

. In conclusione, è possibile affermare che durante l’intero arco del dominio romano,

la Trinacria visse un periodo di sviluppo economico notevole soprattutto allorquando il sistema

romano iniziò a vacillare dal medio impero in poi. La posizione geografica, invidiabile, rese lontana

in parte la Sicilia dalle vicende del limes, questo non poté che giovare al grande latifondo siculo,

così bene impiantato da essere “estirpato” da questa terra solo con la fine del regno borbonico nella

metà del XIX secolo.

137

Clemente 1980, pp. 475-478 138

Portale 2004, pp. 8-11

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IV La Sicilia meridionale: approdi commerciali

Centro economico mondiale dell’antichità, la Sicilia ha costituito sempre un punto focale negli

interessi socio-economici europei. Le rotte commerciali, che nei secoli anno visto l’isola come

primo punto focale dell’economia mediterranea, hanno riguardato i più svariati prodotti: dalla

ricercatissima ossidiana di Lipari, fino alle granaglie che alimentavano l’Urbe. Il ruolo commerciale

dell’isola non si perse con la fine del mondo antico, anzi si ebbe un periodo di floridezza

sconosciuto per altre province dell’ormai ex-impero romano.

L’isola è costellata da una serie di approdi naturali, gli stessi che attirarono l’attenzione di

navigatori greci e fenici durante l’epoca antica.

La navigazione antica si avvaleva di situazioni portuali estremamente diverse dalle nostre, tant’ è

vero che erano sfruttatissime baie e estuari fluviali poiché riuscivano a contenere le ridotte

dimensioni delle imbarcazioni da trasporto. Innanzitutto dobbiamo distinguere due tipi di portuosità:

il limen rappresentante il bacino vero e proprio e l’ormòs costituente solo un luogo di rifugio. I porti

potevano quindi essere interni, cioè ricavati da attività escavative sotto costa, e esterni ottenuti da

costruzioni artificiali che servivano a delimitare altre strutture.

I porti punici e sicelioti avevano sempre queste peculiarità e ogni grande città portuale era

contornata da un sistema di approdi secondari piuttosto notevole139

. La varietà tipologica delle coste

siciliane è notevole: si passa da litorali bassi e sabbiosi ottimi per la tipologia della plagia, fino a

coste alte e rocciose le quali offrivano un ottimo riparo naturale per le navi140

. Il sistema portuale

isolano rappresentò da sempre il primo motore dello sviluppo dell’isola, tramite la sua efficienza

infatti la Sicilia si aprì al mondo antico ed entrò pienamente, con successo nella storia. Nella

trattazione fatta nei seguenti paragrafi è stato scelto un criterio geografico, con una relativa analisi

dei contesti da Est verso Ovest, contemporaneamente si è scelto di inserire siti maggiori ed

“inglobare” nella geografia di quest’ ultimi siti secondari o per così dire minori, legati in qualche

modo con determinati comparti territoriali.

139

Bonora Mazzoli 2002, pp. 1040-1049 140

Uggeri 1968, p. 236 ssg.

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IV.1 Kamarina

Classificazione portuale: Il sito portuale dell’antica città di Kamarina è considerato secondo la

terminologia latina un ostium, nient’altro che un porto sito nei pressi o sulla foce di un fiume, le

foci dei fiumi erano frequentate sia per la loro funzione di sicuro approdo quando risultavano

accessibili, sia per la facilità presente nel fare l’acquata in questa tipologia portuale.

L’esempio più lampante di ostium è recato da un sito che porta un nome pressoché identico; Ostia il

celeberrimo porto dell’Urbe sorto proprio alla foce del Tiber141

.

L’antica città di Camarina si inquadra topograficamente sull’agro immediatamente posto tra il

torrente Ippari e l’Oanis. L'Ippari scorre per 20 km in una splendida e fertile valle e, all’epoca

dell’insediamento della colonia siracusana, era ampiamente navigabile. Questi brevi corsi d’acqua

rappresenteranno sempre una risorsa importantissima ai fini dello sviluppo della città. Il nome della

città può riconoscersi in quello del porto arabo di K.r.ni ricordato da El Edrisi che ne indica la

distanza da Malta. Il sito viene descritto per la prima volta dal Fazello intorno al 1558, egli ancora

riconosce le strutture portuali riguardanti un antemurale142

. Secondo Strabone il toponimo

(Καμαρίνα) indica un sito "Abitato dopo molta fatica" ed in effetti, secondo le fonti, i siracusani

dovettero vincere la strenua resistenza sicula nel 598 a.C. per fondare il loro avamposto in questa

porzione territoriale. La colonia greca, insediatasi su una collina perpendicolare alla costa,

organizzata fin dalla fondazione secondo uno schema di isolati regolari (per scamna et strigas)

mantiene un ritmo e un orientamento in stretto rapporto con la topografia territoriale, conservata

anche poi durante la ricostruzione timoleontea del 340 a.C.143

Gli scavi effettuati sul sito

camarinese hanno messo in evidenza lo sviluppo della polis e le sue diverse fasi. La città, dopo la

fondazione, conobbe due estensioni una nel corso del V secolo a.C. l’altra nel 340 a.C. Una grande

strada mediana, sviluppata sulla cresta dorsale, realizzava l’asse della zona urbana la quale si

estendeva fino alle rive dell’Ippari, in comunicazione diretta con il porto-canale.

Il tracciato urbanistico era completato da tre assi paralleli, queste grandi plateiai misuravano in

larghezza circa 10,70 m. La trama urbanistica era definita da vie longitudinali che delimitavano gli

isolati tramite un ambitus. La lottizzazione degli isolati a Camarina si adatta perfettamente alle

funzioni agricole proprie di questa zona144

.

141

Uggeri, 1968 pag. 236 142

Pelagatti, 1985 pp. 291-292 143

Martin-P. Pelagatti-G. Vallet-G. Voza, 1980 pag. 245-246 144

Martin-G. Vallet 1980, pp. 262-264

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Una sistemazione urbanistica tipicamente ippodamea, questa disposizione degli isolati con vani

aventi un’ apertura su un appezzamento di terra coltivabile, ricorda molto infatti, l’impianto arcaico

di Megara Iblea. Questo dato archeologico, unito ad altre evidenze materiali, ci rimanda in maniera

sicura ad una esclusiva vocazione camarinese per l’agricoltura. Essa può benissimo essere messa in

rapporto con l’importanza della produzione vinicola nella zona145

. L’areale risulta essere piuttosto

popolato a causa della natura geomorfologica del luogo.

Gli scogli di Punta secca infatti preservarono, a mò di frangiflutti, la plaga camarinese dal vento

impetuoso di levante, condizione ideale per lo sviluppo in questo tratto di mare di un’intensa

navigazione di cabotaggio. Il sito portuale, riferibile al contesto cittadino, doveva trovarsi sulle

sponde immediatamente prospicenti la foce dell’Ippari, formando così un sistema porto-canale

molto efficiente. Geomorfologicamente costituì da sempre un facile approdo tanto da sopravvivere

alla distruzione di Camarina ad opera dell’esercito romano nel 258 a.C. Tuttavia dopo la

distruzione dell’abitato perpetrato dai romani in parte fu ricostruito. Il nuovo assetto delle unità

abitative è visibile negli isolati C7 e C8. Il sistema abitativo presenta differenze sostanziali con

quello immediatamente precedente: in particolare il C8 dove è presente anche la “casa dell’altare”.

Essa si sviluppa su un peristilio con stanze che si aprono attorno ad esso. Pregevole e tipicamente

repubblicana risulta essere la decorazione parietale e pavimentale (opus sectile)146

.

La prima memoria storico-topografica della città si ebbe con lo Schubring (1873), egli indicò

ipoteticamente un primo tracciato murario. Le prime ricerche sistematiche sul sito camarinese

ebbero inizio col 1896, fu Paolo Orsi che diresse le prime ricerche sistematiche sul campo. Egli

stesso tracciò un perimetro murario diverso rispetto quello ipotizzato vent’anni prima dallo

Schubring, idealizzò un percorso più ridotto indicando la presenza di un muro trasversale con

andamento N-S, il quale chiude l’acropoli in direzione ovest.

In antico, il fiume Ippari era alimentato da molte fonti, generate anche dalla differente copertura

boschiva che ricopriva l’isola prima dell’epoca moderna147

. Il fiume straripava nel periodo

invernale creando nei pressi della foce una vera e propria area palustre, l’antico lacus camarinensis.

Lo stesso lacus camarinensis era collegato con un bacino interno al porto-canale.

Camillo Camilliani ingegnere portuale del vicerè, nel 1584 segnalò alla foce del fiume, un canale

scavato in maniera totalmente artificiale, adatto per il rifornimento idrico di grosse imbarcazioni.

Con i lavori di bonifica eseguiti alla foce dell’Ippari nel biennio 1905-1907 furono intercettate e alla

fine emersero per buona parte, proprio queste strutture riferibili al porto-canale: furono ritrovati

145

Gabba 1980, pp. 336-337 146

Di Stefano 1996, pp. 34-35 147

Tommaso Fazello nel De Rebus Siculis Decades Duae edito nel 1558, descrivendo la regione interna dell’ager

camarinensis fa riferimento a circa 20 fonti che alimentavano l’ Ippari.

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muri disposti a pettine sulla riva riferibili a banchine, presso la cava di gesso la fondazione a pianta

quadripartita di un edificio circolare (forse una torre di avvistamento) in conci squadrati di pietra

giuggiolena148

e rocchi di colonne149

.

Il Fazello, nel suo studio, individua delle strutture direttamente in mare, probabilmente qui siamo di

fronte a dello opere di contenimento dell’azione d’insabbiamento del mare150

. Durante gli stessi

lavori furono messi in luce due sbocchi di cloache e delle discariche di pezzi architettonici e

fittili151

. Il porto canale di Kamarina fu realizzato assieme alla città già in età greca con importanti

interventi di adattamento della foce del fiume Ippari e dell'utilizzo del lago palude alimentato dallo

stesso fiume in prossimità dello sbocco.

All'imbocco del porto era stato costruito un robusto antemurale al fine di: facilitare l'ingresso delle

navi, evitarne l'insabbiamento che proteggeva il bacino portuale, rompere le correnti che creavano

difficoltà per l'approdo e difendere l’ingresso del porto-canale dal Grecale. Nello studio topografico

del sito camarinese merita citazione il tracciato murario: un cospicuo frammento di muro esiste

lungo il fiume a 200 passi a valle dalla cava di gesso, messo in luce anch’esso dopo le bonifiche di

inizio XX secolo, coincide con il cammino di ronda della banchina sinistra del fiume152

.

Si tratta di una poderosa muraglia sommersa, con un orientamento est-ovest perpendicolare alla

costa, non perfettamente rettilinea, lunga 300 m circa, inizialmente divisa in due braccia che si

attaccano direttamente alla riva e alla costa rocciosa dell'acropoli153

.

Fu costruita con blocchi di parallelepipedi semilavorati d’arenaria locale, con il bordo ben rifinito e

per riempimento fu usato materiale lapideo vario. All’interno della foce del fiume, il porto-canale

era dotato di banchinamenti e varie strutture portuali individuate da paolo Orsi durante le ispezioni

compiute tra il 1904 ed il 1907154

. In questo porto dalle contrade dell'entroterra, fin verso l'odierna

Comiso, giungevano all'ancoraggio della città vino, frumento, olio, che alimentavano un attivo

commercio via mare, i cui riferimenti erano l'arcipelago maltese e i porti del Medio Oriente e della

Grecia. Questo porto fu fulcro di importanti traffici commerciali fino all'età romana, alimentati

anche dalla produzione locale di un vino, il Mesopotamium, particolarmente apprezzato

148

Arenaria tipica della Sicilia sud-orientale. 149

Uggeri 1974, pag. 21 sgg. 150

Pace 1927, pp. 96-97 151

Di Vita 1959, pag. 347. Tra le terrecotte rinvenute durante gli scavi diretti dal Di Vita si annovera il kalypter hegemon

della prima metà del IV sec. a.C. a figura di cavaliere. 151

Portale 2004, pag. 28. Anfore vinarie recanti bolli indicanti la sigla MES e quindi risalenti all’areale di

produzione di questo vino, il Mesopotamium, sono stati trovati sia in ceramica rinvenuta a Pompei che in altro materiale

da Vindonissa e Cartagine 152

Pace 1927, pp. 69-71 153

Di Stefano 1990, pp. 175-177 154

Basile-G. Di Stefano-G. Lena 1988, pp. 69-70

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nell'antichità155

. Alla foce del Dirillo, lungo tutto l’arco costiero sono segnalati una serie di piccoli

abitati rupestri. Il probabile sbocco della plaga Mesopotamio doveva essere l’agglomerato del

Cozzo Ciccirello. I resti di quest’opera sono abbastanza presenti: oggetti fittili, monete varie che

attestano la vita del complesso dal II secolo d.C. fino all’ età bizantina. Furono ritrovati anche resti

di 4/5 ambienti in alzato con pavimenti decorati in opus sectile e pareti dipinte con vivaci

colorazioni156

. La produzione vinicola di questa zona è accentuata dagli innumerevoli ritrovamenti

su materiale anforaceo.

Oltre a indicazioni epigrafiche che attestano l’importanza commerciale di questo vino, risultano

essere decisive le evidenze numismatiche.

Nei primi anni del XX secolo furono infatti ritrovate monete coniate a Camarina recanti, nell’esergo

delle anfore vinarie, testimonianza ulteriore dell’importanza che aveva la coltivazione della vite in

questo settore dell’isola157

.

Quest’importante approdo accolse le navi da guerra di Publio Cornelio Scipione, Emilio Paolo,

Pompeo Magno, Cesare e Ottaviano e soprattutto una vasta rete di commerci con l'Africa e l'Egitto.

Il porto a partire dal 300 d.C. fu usato come caricatore di grano e munito di una torre di

avvistamento a protezione delle frequenti incursioni piratesche. L’ importanza di Camarina è

soprattutto data dalla sua posizione geografica e dalla sua conformazione litoranea. Connessa al

porto stava una baia a sud-est dell’ acropoli perfettamente integrata col sistema porto-fiume della

città. Probabilmente questa baia ospitò lo sbarco degli ateniesi nel 415 a.C. La sua portuosità

permetteva alle navi un costante avvicinamento che a volte, a causa delle cattive condizioni

climatiche, si trasformava in affondamento delle stesse. Prova di quanto detto viene direttamente

dall’innumerevole numero di relitti trovati al suo interno: relitto delle colonne, relitto di Femina

morta, relitto dell’elmo attico, relitto delle lucerne ecc158

. Il relitto delle lucerne ad esempio, fu

trovato proprio al centro della baia nel 1989. Esso recava con se un carico commerciale con circa

sessanta lucerne. Oltre a questo eccezionale carico di lucerne dopo altre perlustrazioni sono venute

alla luce altre evidenze: ex-voto bronzei, un piatto in marmo, la base in bronzo di un candelabro

ecc. Alcune monete poi hanno confermato l’epoca di affondamento dell’imbarcazione (metà del II

secolo d.C. a causa di monete con effige di Settimio Severo, Balbino e Filippo I). Anche il

cronologicamente relitto “mamertino” risulta essere importante per conoscere la storia della città. Il

suo affondamento è datato al 277-278 a.C. durante l’incursione dei mercenari mamertini su

155

Portale 2004, pag. 28. Anfore vinarie recanti bolli indicanti la sigla MES e quindi risalenti all’areale di

produzione di questo vino, il Mesopotamium, sono stati trovati sia in ceramica rinvenuta a Pompei che in altro materiale

da Vindonissa e Cartagine. 156

Di Stefano 1985, pp. 13-14 157

Pace 1927, pp.402-403 158

Di Stefano 1990, pp. 180-182

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Camarina. Il relitto sembra essere carico di evidenze di un certo pregio forse in riferimento del

sacco del tempio del dio Oanis perpetrato dagli stessi mercenari159

. Le fonti storiche poi riescono

come al solito a dare un quadro chiaro della situazione permettendo di capire perché quest’alta

concentrazione di relitti.

Polibio ad esempio narra che nell’estate del 255 a.C. 640 navi romane di ritorno dall’ Africa

trovarono naufragio sulla costa camarinese160

. Litus protagonista nuovamente nel 249 a.C. quando

una tempesta di libeccio investì 920 navi guidate da Giunio Pullo161

. Queste testimonianze

rappresentano due dei più grandi naufragi della storia, consumatesi proprio lungo queste perigliose

coste162

.

159

Di Stefano 1990, pp. 185-196 160

Pol., I, 37. “Colti da una tempesta di eccezionale violenza i romani incorsero in tale disastro…(le navi)… si

sfasciarono si che le spiagge si riempirono di cadaveri e rottami…Non esiste esempio nella storia di un disastro

marittimo singolo più grave di questo” 161

Pol., I, 54 “Le due flotte dei romani, sorprese dalla tempesta, poiché la costa non offriva nessun riparo, furono tanto

gravemente danneggiate…i romani ebbero annientate tutte le loro navi ” 162

Di Stefano 1989, pp. 127-128.

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75

IV.1.1 Kaucana

Classificazione portuale: Il sito di Kaucana è classificabile come plaga o plagia l’equivalente

del nostro spiaggia.

Topograficamente la situazione che si presenta è quella di un vasto arenile dove le barche potevano

essere tirate a secco. È la tipologia portuale più antica, del resto tutt’oggi la marineria minore

preferisce tirare le imbarcazioni a secco.

Una breve appendice sul sito costiero di Kaucana può risultare interessante poiché esso rappresentò

un fermo punto di riferimento per la navigazione romana e soprattutto tardo-antica dell’area iblea.

Fa parte di una serie di insediamenti dell’arco costiero ragusano, legati all’intenso traffico

commerciale col Nord Africa e con l’arcipelago maltese. I resti dell’ancoraggio tardo-antico sono

distribuiti lungo tutta la costa meridionale della Sicilia ad est di Capo Scalambri163

.

Kaucana è un chorion164

fiorito tra il IV secolo e il VI secolo d.C., sostituì storicamente il decaduto

porto di Kamarina.

Questo sito per l’appunto fu uno dei pochi abitati dell’isola sopravvissuti ininterrottamente da IV al

VII secolo d.C.

Dopo la distruzione di Camarina del 258 a.C., alcuni abitanti dell’antica colonia siracusana decisero

di trasferirsi in questo sito.

Il geografo di età imperiale Tolomeo parla di un sito con questo nome, mentre la testimonianza più

viva ci arriva direttamente da Procopio il quale nel narrare le operazioni della guerra gotica parla

dell’importanza strategica del sito ibleo.

L’area di scavo risulta essere piuttosto vasta, con una dislocazione degli edifici scaglionata lungo

l’intero settore costiero. Il sito, scavato dal Pelegatti alla metà del XX secolo, risulta svilupparsi indi

tutt’attorno al porto. Diverse abitazioni con cortile centrale presentano una sorta di aspetto

“fortificato”. L’ispettrice dell’allora soprintendenza di Siracusa identificò una serie di 25 edifici

disposti sula linea di costa165

.

Il legame stretto con l’Africa in epoca tardo-romana è poi testimoniato della recente scoperta

nell’entroterra del sito di un’iscrizione, in cui è documentata la costruzione di una chiesa voluta da

un certo Cresconius, il nome, di chiara origine africana, testimonierebbe

163

Di Stefano 2004, pag. 173-174 164

Si definisce Chorion non una semplice unità territoriale ma una vera e propria società organizzata, d’epoca tardo-

antica preferibilmente ascrivibile al periodo bizantino. 165

Wilson 2011, pp. 263-264

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76

una massiccia immigrazione verso il sito costiero siciliano di profughi africani, in seguito alla presa

vandala di Cartagine166

.

Il porto dell’insediamento era adattato forse con la costruzione di un bacino artificiale,

nell’insenatura di Capo Scaramia nei pressi del quale sui fondali è attestata la presenza di relitti

bizantini167

. In maniera più generale possiamo comunque affermare che Kaucana col suo facile

approdo costituì, durante la fase di decadenza dell’impero romano, un caposaldo fondamentale della

rotta Sicilia-Cartagine, passante anche per Malta. Il ricordo storico di Kaucana è legato

principalmente alla sua fervente attività portuale tardo-romana.

I quartieri componenti il chorion di Kaucana, sorsero su un’area mai abitata in precedenza. Le

evidenze del sito ci sono giunte pressoché intatte poiché i ruderi furono, col tempo, ricoperti da una

spessa coltre di sabbia che ne ha consentito una conservazione eccezionale168

.

Tre sono i gruppi dei quartieri sorti lungo la plaga: due di essi sono molto vicini e sono ubicati ad

Est di Punta Secca, il terzo gruppo è sito ad ovest di quest’ultima località in un contesto definito

come San Nicola a torre di Pietro. Il contesto abitativo orientale, nei pressi della contrada di

Anticaglia, presenta ben 25 edifici, nell’insieme raggruppati attorno ad un piccolo complesso

ecclesiastico, la sopracitata chiesa voluta da Cresconio.

A parte quest’ultimo edificio (N. 18), tutte le altre costruzioni hanno una determinazione d’ uso

abbastanza ipotetica. Occorre quindi, al fine di capire come si svolgevano le attività all’interno di

questo sito costiero, fare dei necessari confronti con situazioni apparentemente speculari ritrovate in

planimetrie di abitati Nord-africani. Esempio di quanto affermato, viene direttamente dall’edificio

N. 22; esso non può essere classificato come un’unità abitativa, può invece essere paragonato ad un

complesso africano sito a Tamet el Argub, dove è stata riconosciuta una residenza rurale o un

convento.169

Anche l’edificio N. 19, per le sue caratteristiche, non può essere identificato come una

semplice abitazione, lo si tende a paragonare infatti a edifici specializzati di villaggi siriani coevi,

probabilmente costruzioni pubbliche. Tutti gli altri edifici di questo settore del sito siciliano,

possono invece essere classificati come abitazioni, anche se ognuno di essi presenta peculiarità

differenti. Allo stesso modo degli edifici sopra menzionati, anche le unità abitative possono essere

paragonate alle tipologie presenti in Nord-Africa. Il miglior confronto col contesto Nord-africano

può essere realizzato con il Villaggio di Ghirza in Cirenaica. Il modello interpretativo in questo

166

C. A. Di Stefano 2004, pp. 1214-1215 167

Basile, G. Di Stefano, G. Lena 1988, pp 71-72 168

Di Stefano 1991, pp. 11-12 169

Stucchi 1975, pp. 504-505

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77

caso sono i gsur170

, modelli edilizi tipici soprattutto della tripolitania consistenti in una sorta di

fattorie fortificate, sviluppatesi tra la tarda-antichità ed il medioevo171

. Le case A e B del villaggio

cirenaico, infatti, sono perfettamente confrontabili con gli ambienti sopra descritti riferiti a

Kaucana, seguenti una disposizione a schiera con ambiente absidato. Il confronto morfologico tra

questi due siti siculo-africani, fornisce un ‘ottima testimonianza dei collegamenti, anche nell’ambito

dello scambio di concetti ideologici, tra Africa e Sicilia.172

170

Cirelli 2004, pp. 377-393 171

Wilson 2011, pag. 264 ssg. 172

Di Stefano 1997-98, pp. 463 ssg.

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IV.2 Gela

Classificazione portuale: Il sito portuale dell’antica Gela posto alla foce del Ghelas può essere

catalogato come porto-canale, una sorta di ostium, anche la città siceliota come Kamarina sfruttava

quest’importante percorso idrografico appoggiandosi ad esso come sicuro rifugio per le

imbarcazioni.

L’epoca timoleontea prevedette lo spostamento del porto dall’odierno fiume Dessueri alle pendici

di Capo Soprano, costituendo quello che nel gergo marinaresco romano viene detto Refugium, un

sito protetto da un promontorio che ostacola l’impeto dei vita almeno da una direzione173

.

Quando i coloni rodio-cretesi, guidati dagli ecisti Antifemo ed Entimo nel 689 a.C. arrivarono, in

questo settore costiero meridionale della Sicilia, furono sicuramente attratti per primi dalla natura

geomorfologica del sito174

. Gela è sita all’interno di un ampio golfo compreso tra Capo Scaramia ad

est e Licata ad ovest

La città antica di Gela, infatti, si sviluppò su un sistema a plateau dominante la restante pianura

presente alle spalle di questo sistema di colline. L’area urbana dell’antica Gela, interessa, infatti la

piattaforma sommitale della collina anonima, parallela alla costa per circa 4 km.

Delimitata d est dal corso del Gelàs e ad ovest dalla zona detta Macchitella, a nord il pendio scende

in maniera piuttosto dolce, mentre a sud in direzione del mare, è notevolmente ripido. Lungo il

litorale si alzano caratteristiche dune dette “”macconi” esse formatesi con l’azione di venti sahariani,

hanno un’importante funzione: proteggere le colture agricole della piana175

. L’estremità ad est del

plateau corrisponde al luogo scelto in epoca arcaica per l’insediamento dell’acropoli cittadina, il

sito di Molino a Vento ospita infatti le strutture sacre della polis geloa.

L’abitato, fino all’epoca classica, si sviluppò sulla dorsale mediana di questo sistema di colline, le

necropoli sulle spianate ovest del quartiere di Borgo fino a Capo Soprano. In epoca timolontea, con

la ricostruzione della città voluta dal “Restitutor Siciliae”, in seguito alla distruzione cartaginese del

405 a.C., il quadro urbanistico e topografico della città mutò notevolmente. L’area delle necropoli e

dell’acropoli furono destinate a quartieri abitativi e il circuito murario fu ampliato notevolmente,

173

Uggeri 1968, pp. 249-250 174

Tucid., VI, 4, 3 175

Panvini 1996, pp. 6-7

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79

risalgono a questo periodo le imponenti mura timoleontee perfettamente conservate nel tratto di

Capo Soprano grazie all’azione preservatrice della sabbia, che per secoli le ha coperte e protette

dagli agenti atmosferici176

. Gli scavi condotti nel settore occidentale di Capo Soprano diretti da

Paolo Orsi e dopo da altri archeologi, hanno restituito importanti risultati.

Quasi tutti i vani riscoperti durante queste indagini archeologiche erano sigillati da uno strato di

bruciato riferibile alla distruzione di Phintia. I nuovi quartieri avevano un orientamento N-NE e S-

SO sembrerebbero ricalcare l’impianto della città moderna.

Nel settore occidentale della suddetta collina poi sono state ritrovate diverse cisterne scavate in

roccia tufacea a forma di campana molto profonde. Usate come riserva d’acqua per la quale Gela

dovette sempre soffrire la mancanza, il dato interessante in questo caso è la presenza di importanti

decorazioni nella parte sommitale. Altri complessi che meritano un cenno, ritrovati sempre in

questo settore scavato (nei pressi dell’Ospizio di mendicità), sono le “strutture termali” studiate

all’inizio degli anni ’60. Il complesso presentava due distinti ambienti coperti da un tetto a tegole

piane e separati in origine da un muro in mattone crudo intonacato in superfice del quale restano in

tracce le fondazioni. Sono state ritrovate diverse vasche nei singoli ambienti, che a causa di alcune

peculiarità (di nessuna di esse risulta conservata la parte superiore) hanno indotto gli studiosi a

pensare che l’edificio non fu mai veramente completata causa la distruzione del 282 a.C.

La floridezza economica di Gela poco prima della sua distruzione, oltre che da queste tipologie

edilizie si può ben vedere dalla presenza datata al IV/III sec. a.C. di un’importante villa suburbana

scoperta sempre a Capo Soprano in prossimità del mare.

Proprio la vicinanza al mare è indice dell’intenso traffico marino che interessava la polis anche in

una fase discendente. La villa doveva appartenere a ricchi proprietari poiché era caratterizzata da

un notevole sfarzo sia decorativo che architettonico-strutturale.

Gli ambienti erano delimitati da muri di blocchi regolari rivestiti da intonaco colorato in

connessione a pavimenti in cocciopesto.

Quest’ultimo, poi, era interrotto all’ingresso da un mosaico decorato da motivi meandriformi, infine

un vano della villa aveva al centro un impluvium decorato internamente da un ricco mosaico di

tessere bianche. La connessione di questa ricca villa con commerci transmarini e con produzione

agricola avanzata può essere confermata dalla presenza in zona (nell’area dell’attuale Ospedale) di

un complesso edilizio con pianta rettangolare, identificato come una bottega.

Presentava due vani orientati E-O, uno di essi aveva la funzione di cella vinaria poiché furono

trovate diverse anfore vinarie schiacciate. L’edificio e la sua tipologia architettonica ricordano

molto da vicino altri ambienti rurali scavati dall’ Orsi in altri punti della collina; tutto ciò a

176

Canzanella 1990, p. 15

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80

conferma ulteriore dell’importante ruolo agricolo e artigianale svolto da Gela nella fase pre-

romana177

. Le merci, i prodotti del ricco entroterra gelese dovevano passare naturalmente da un

approdo costiero. Il porto, che faceva capo alla polis greca, doveva essere sito alla foce del fiume

Gela poiché il litorale geloo si presenta piuttosto basso e sabbioso, senza una reale possibilità di

attracco e l’emporio gelese completava l’organizzazione urbana della città antica. Dopo diverse

ricerche è stata chiarita l’antica idrografia del fiume Gela: si credeva precedentemente che il fiume

omonimo della città si diramasse e avesse una “seconda” foce (ipotesi dello Schubring) in seguito

invece è stato chiarito che il fiume avesse un’unica foce corrispondente alla moderna nel settore est

del terrazzo sul quale si sviluppava la citta178

. Lo studio del corso antico del fiume è fondamentale

per capire anche l’ideale sviluppo del porto gelese e il suo legame con la chora della città. Un vasto

settore della zona portuale è stato riportato alla luce in località Bosco Littorio, a sud del piano

dell’acropoli sito sulla bassa collina di Molino a Vento. Per questa fase sono stati rinvenuti alcuni

vani di forma rettangolare orientati E-O, in mattone crudo con intonacatura conservata fin quasi

sempre al piano d’impostazione della travatura. La peculiarità di questi vani è costituita

dall’estrema somiglianza tipologica con alcuni isolati dell’acropoli. La datazione del complesso, a

seguito dello scavo effettuato, ha posto cronologicamente i vani tra il VII ed il V secolo a.C., in

sostanza dalla fondazione della polis fino al periodo classico.

L’insediamento portuale può essere classificato come emporion, poiché data la sua estrema

vicinanza alla foce del fiume si trova vicinissimo alla linea di costa che doveva per forza ospitare lo

scalo della colonia. Prova ne sia che nel mare antistante quella fascia costiera fu ritrovata, durante

un’ispezione subacquea, una nave greca affondata poco prima di giungere nel porto antico di Gela.

Le fonti antiche tuttavia in questo caso non ci vengono in aiuto poiché esse non fanno alcun cenno

sull’esistenza di un porto a Γέλας, solo Tucidide accenna ad una flotta di cinque triremi posseduta

dalla città e mandata in aiuto dei siracusani nel bel mezzo del conflitto con Atene. Questo dato

risulta piuttosto discordante poiché la città doveva avere un ruolo commerciale piuttosto importante

soprattutto per quel ne concerne la produzione agricola della fertile piana alle sue spalle. La

scoperta della nave nei pressi di Bosco Littorio e di altre navi affondate nei pressi di foci dei torrenti

che contornano i campi geloi, rende pressoché necessaria la localizzazione di un porto cittadino

centro di primo smistamento dei prodotti del territorio verso il Mediterraneo179

.

177

Panvini 1996, pp. 106-114 178

Pareti 1910, pp.1-26 179

Le navi greche di Gela sono testimonianze viventi dell’importante ruolo commerciale svolto dalla città siceliota.

I relitti individuati fin ad ora sono 3: il primo, l’unico recuperato fu riportato alla luce durante lavori svoltisi dal 2004 al

2008 a seguito della sua individuazione avvenuta nel 1988. Il secondo relitto, di portata sicuramente inferiore giace sul

fondale a poca distanza dal primo, infine il terzo fu rintracciato nei pressi della foce del Dirillo. Le triremi

appartengono ad un orizzonte cronologico omogeneo, si collocano infatti tra il VI ed il V secolo a.C.

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81

La nave greca, recuperata completamente nel 2008, ha confermato il dato essendo stata ritrovata

corredata da un carico di materiale di beni di prima necessità: del carico, in parte recuperato anche

nella zona di prua e superficialmente anche a poppa, facevano parte numerose anfore chiote, attiche,

puniche, lesbie, corinzie di tipo A, massaliote e samie: non tutte erano ricoperte di pece all'interno e

ciò fa supporre che sulla nave fossero trasportati oltre al vino, anche prodotti alimentari, come ad

esempio, l'olio. Per il trasporto di prodotti alimentari erano stati utilizzati anche canestri in fibre

vegetali, in parte intessuti con fibre graminacee (come dimostrano le analisi effettuate sui campioni

prelevati) chiusi con bordo di legno cucito a sacco, per il quale era stata utilizzata l'essenza l'essenza

di fico, e ricoperti di pece all'interno180

.

Altro elemento da non trascurare è la presenza attorno a Gela di una rete idrografica importante.

Buona parte dei fiumi e torrenti che contornavano la città erano naturalmente usati come vie di

comunicazione verso l’interno, soprattutto i due corsi principali della zona il Gela stesso ed il Salso

o Imera Meridionale ad ovest, un tempo navigabili, i quali tramite chiatte potevano essere risaliti

portando con se’ tratti di culture transmarine181

. Con la riforma urbanistica timoleontea, e il

consequenziale spostamento del centro cittadino alla zona di capo Soprano, mutò anche il sistema

portuale di Gela nella sua ultima fase. Probabilmente lo spostamento dell’asse della vita

commerciale comportò un riposizionamento portuale, tutto ciò potrebbe essere confermato dal

ritrovamento nei pressi dell’attuale porto rifugio nella zona di Capo soprano, di una struttura

muraria portuale. Essa fu individuata sul fondale immediatamente vicino a quella determinata fascia

costiera; è costituita da blocchi squadrati e si prolunga in mare per circa 100 metri in direzione NE-

SO, probabilmente un antemurale. Lo spostamento della zona di pertinenza delle attività

commerciali comportò anche uno spostamento del sito d’approdo. Altro dato da non trascurare poi è

la continuità storica del sito: esso infatti divenne durante il medioevo sede del caricatore di grano

della federiciana Terranova182

. Il declino della città di Gela coincise praticamente con l’arrivo dei

romani in Sicilia. Le note vicende storiche, riferite alla distruzione di Gela ad opera di Finzia

tiranno di Agrigento nel 282 a.C., rappresentarono la fine dell’importante città siceliota e con essa

del suo sistema portuale. Le prerogative portuali, da quel momento e soprattutto per l’epoca romana

tardo repubblicana, verranno adempite da Finziade, fondata proprio nel 282 a.C. e popolata dai

deportati geloi.

180

Panvini 1993, in “Archeologia viva” (Aprile 1993) 181

Panvini 1996, pp. 54-57 182

Panvini 1996, pp.116-117

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82

IV.2.1 Calvisiana

Classificazione portuale: La statio Calvisiana era dotata di un approdo, importantissimo perché

in forte connessione con i praedia Calvisiana, queste grandi proprietà latifondistiche che dalla

costa si inoltravano fin quasi sotto l’odierna città di Niscemi. Nell’itinerarium Antoninii, il sito è

classificato come plaga, essa in senso tecnico può essere intesa come lido o spiaggia buona per

l’approdo. Qui le imbarcazioni venivano tirate a secco con appositi verricelli detti pulvini183

.

L’acqua poco profonda ne è la caratteristica principale e ci spiega le espressioni di contrasto ad

portus et plagias.

La via litoranea che da Siracusa giunge a Lilibeo è costellata, soprattutto durante l’epoca medio

imperiale e tardo antica, da un grande numero di stationes o mansiones.

Questo sistema insediativo annovera circa 100 siti censiti che non sempre si accordano come

localizzazione esatta con le varie fonti itinerarie in nostro possesso: itinerarium antonini , tabula

peutingeriana, la Comosmografia dell’anonimo geografo Ravennate ecc.

L’area compresa tra gli odierni territori di Gela e Butera merita di essere indagata specificatamente

poiché rappresenta un punto di passaggio fondamentale nel percorso dell’antica via selinuntina.

Seguendo la direttrice viaria costeggiante il mare, che da est diparte verso ovest, ci si imbatte per

primi nel sito medio e tardo romano di Calvisiana.

Il sito sorge praticamente in una posizione dominante il basso corso del fiume Gela su un ampio

areale comprendente in epoca arcaica il grande santuario ctonio, o Tesmophorion, di Bitalemi

consacrato al culto di Demetra Tesmophora184

.

Il toponimo Bitalemi è una corruzione locale dell’originale Betlemme (riferibile al culto cristiano

ivi insediatosi e tuttora esistente della Madonna di Betlemme), la località in questione si trova su

una bassa collina sabbiosa.

183

Isid., XIX 2, 16. “Pulvini sunt machinae, quibus naves deducuntur et subducuntur in portum”. In Sicilia il pulvino

nel gergo dialettale-marinaresco è detto Argano, esso era frequentemente usato fino ad almeno gli anni ‘60 del XX

secolo.

184

Canzanella 1990, pag. 25: Del santuario sono ben note tre fasi di vita: Il culto è celebrato fin dal VII secolo a.C. fino

alla metà del VI secolo a.C. Furono ritrovate durante le campagne di scavo offerte votive depositate nel terreno. Nella

prima fase il santuario consta di un piccolo edificio rettangolare con orientamento N-S probabilmente usato per

accogliere le donne durante le tesmophorie . Il complesso viene ampliato alla metà del VI secolo a.C. ed infine viene

distrutto da un incendio nella prima metà del V secolo.

Ricostruito vengono creati nuovi sacelli, ma con la distruzione cartaginese del 405 a.C. non verrà più reso funzionale

neanche durante l’imponente opera di Timoleonte.

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83

Il santuario greco arcaico e la successiva fattoria romana, furono riconosciute dall’Orlandini

durante lo scavo iniziato negli anni ’60 del novecento185

.

Durante le attività di ricerca furono riportate alla luce solo poche strutture riferibili all’età

imperiali, non mancano tuttavia tracce d’occupazione d’epoca Augustea (nello strato augusteo fu

ritrovato un bronzo riferibile ad Agrippa) con alcune monete inerenti a quell’ orizzonte cronologico

e d’età Flavia alla quale sono ascrivibili reperti fittili in sigillata italica tra i quali spicca una coppa

con la firma del ceramista d’età tiberiana N. Naevius Hilarius186

. Dagli ambienti del complesso

provengono anche macine per il grano in arenaria che testimoniano ancora ulteriormente

l’importanza che aveva questo sito per il retroterra agricolo. L’edificio che l’ Orlandini indagò è

attribuibile al III secolo d.C. ed è caratterizzato da muri grezzi, rozzamente squadrati con blocchi

riutilizzati, fondato direttamente sul terreno ed in alcuni punti su strutture preesistenti del periodo

arcaico, probabilmente i corpi di fabbrica si raggrupparono attorno ad un'unica corte centrale.

La fattoria è stata identificata con la statio Calvisiana, citata nell’itinerarium antoninii, a causa del

ritrovamento, estremamente diagnostico, di diverse tegole bollate con dicitura CAL, CALVI(oltre ad

altri bolli con dicitura SAB,PAE e SIRE). La presenza all’interno dell’ipotetico latifondo di bolli con

diversa dicitura potrebbe essere sinonimo di cambiamento nella amministrazione delle figline, le

officine per la produzione d’argilla, le quali erano gestite da privati che gestivano lo stesso fondo.

Il toponimo comunque deriverebbe da un tale Calvisianus corrector Siciliae nel 304 d.C.,

probabilmente un importante esponente senatoriale, forse discendente di quel Calvisius Tullus Ruso

comandante della Classis tirrenica di Augusto e avo di Marco Aurelio.

Il toponimo del praedium deriverebbe direttamente dal nome del suo proprietario, i cui

possedimenti ricadevano in una zona intensamente coltivata a grano che aveva inoltra il grande

vantaggio di avere un importante sbocco sul mare. La statio Calvisiana è citata in questo itinerario

due volte: una come tappa tra Hybla e Agrigento, la seconda volta invece è citata lungo il percorso

per maritima loca sulla via litoranea che da Agrigento arriva a Siracusa. In questa seconda citazione

è indicata come plaga, insieme ad altri piccoli agglomerati siti nei pressi di insenature. La doppia

dicitura non è frutto di un errore, indicherebbe invece l’insieme di due mansiones del cursus

publicus giacenti nei confini di un uguale fundus, esteso fino al mare il cui limite dovrebbe trovarsi

in Contrada Casa Mastro, luogo che ha restituito anch’esso ceramica bollata. La plaga costituiva

nient’altro che l’attracco per le imbarcazioni che potevano così rifornirsi e a loro scelta sostare nel

sito più interno nei pressi della fattoria. Il caso di Bitalemi/Calvisiana è emblematico; ci troviamo di

185

Orlandini Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi e il culto delle divinità ctonie a Gela, in Kokalos XXI, 1966,

pp. 12-16. 186

Panvini 1997, pag. 62

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fronte ad un efficiente emporio piccolo centro di smistamento dei prodotti che dall’interno della

piana partivano verso Lilibeo. Alle spalle del sito infatti si apre una fertilissima pianura, destinata

alla coltivazione del grano e della vite, i commerci da e verso l’africa riguardarono soprattutto

questi beni di consumo.

Del resto, il ritrovamento di una grande serie di ceramica sigillata africana, costituisce un’ ulteriore

conferma del grande flusso commerciale sull’asse Cartagine-Roma che interessava anche questo

piccolo insediamento. Tra i ritrovamenti ceramici da segnalare la presenza di sigillata A in

sottoclassi A1/2, coppe tipo Lamboglia sempre in sigillata A insieme a piatti della stessa tipologia

ceramica, la totalità di questi materiali sono collegabili ai secoli II/III d.C. Per il periodo

immediatamente successivo da segnalare il ritrovamento durante le ricerche di terra sigillata D

(coppe Hayes 81 e piatti Hayes 60). Per il dato puramente commerciale prevalgono le anfore di

produzione africana, iberica e gallica (II/III d.C.) ulteriore conferma del grande traffico

commerciale che interessava questo sito187

. Il praedium di Bitalemi dovette avere un’importanza

notevole nel contesto viario della Sicilia sud-occidentale, anche se i grandi centri per lo

smistamento dei vettovagliamenti rimanevano Agrigento e Lilibeo in forte connessione col vicino

litorale africano.

Probabilmente la funzione portuale della statio Calvisiana poteva essere quella di punto di raccolta

e smistamento dei prodotti agricoli verso i centri portuali dell’isola, in cambio dei prodotti

provenienti dall’Africa, risalendo in parte il corso del Ghelas essi poi potevano essere commerciati

anche nelle zone più interne.

La presenza di questo sito, anche se di modeste dimensioni rispetto la colonia rodio-cretese,

dimostrerebbe che il territorio gelese, anche se privo di un grosso centro come lo era stato per tutta

l’epoca classica, continuò ad essere uno snodo commerciale notevole nella Sicilia sud-occidentale

durante la dominazione romana188

.

187

Panvini 1997, pp.63 ssg. 188

Panvini 1996, pp. 123-129

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IV.2.2 Chalis

Classificazione portuale: la zona archeologica sita a pochi km ad ovest di Gela, presenta

caratteristiche peculiari, diverse rispetto alla morfologia costiera di questo settore territoriale. Il

nome del sito è esplicativo; Chalis ed il termine Cala ricorre nell’ itinerario Antonino solo come

toponimo proprio come in questo caso. Il linguaggio marinaresco latino d’altronde conosce la voce

verbale calare (chalare) che indicherebbe per cala il senso di scalo o approdo189

.

Nel caso specifico del sito nei pressi della torre di Manfria, il toponimo può essere derivato anche

dalla geomorfologia del luogo: il sito che doveva ospitare l’approdo ha una caratteristica forma a

chela di granchio da qui il termine chela potrebbe essere mutuato da chalae, l’approdo dalla forma

a chela di granchio.

Tra le colline di Manfria ed il torrente Comunelli è rintracciabile, sulla via antica che guarda verso

Agrigentum il sito di Chalis. L’identificazione del sito è aiutato dalla topomomastica: in questa

estremità occidentale della piana infatti si trova la Contrada Monumenti, così chiamata perché fin

dal medioevo emergevano dal terreno strutture probabilmente da riferirsi ad un impianto termale.

L’insediamento, oltre a contenere questi resti, presenta un vasto settore di necropoli ipogeiche sulle

balze rocciose. I corredi ceramici qui individuati ed una lucerna africana con rosone sul disco e

ramo di palma inciso sotto il fondo (tipo VIII a I c) hanno permesso di assegnare la datazione delle

tombe al IV-V secolo d.C., periodo abbastanza florido per il refugium Chalis190

. In particolare la

lucerna in sigillata africana nella forma X presenta sul dorso un’iscrizione dedicatoria ai dii Mannis,

cronologicamente assegnabile al IV-V sec. d.C.

In epoca tardo-antica le balze rocciose prospicienti i due torrenti, lo Scozzarella (quello minore) e il

più grande Torrente Comunelli furono occupate per l’appunto da necropoli sub divo e gli ipogeii

usati fin dall’età del del bronzo ebbero un notevole riutilizzo.

Lo schema planimetrico di queste tombe ipogeiche riutilizzate era molto semplice: presentavano

una piccola camera quadrangolare con unico accesso preceduto da un breve corridoi sulla fronte.

La suddivisione interna poi presentava solitamente 3/4 tombe a cassa scavate nella roccia, disposte

longitudinalmente con 1 o 2 tombe occupanti la nicchia, tipologia tipica per le sepolture infantili.

Le necropoli sub divo presenti nel sito di Contrada Monumenti sono costituite da 62 tombe a fossa,

189

Uggeri 1968, pp. 227-228 190

Panvini 1996, pp. 122-123

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86

scavate interamente nella calcarenite di forma rettangolare o trapezoidale.

L’estensione di questa tipologia funeraria occupa due dossi collinari uno più a est ed uno più ad

ovest distanti 30 metri l’uno dall’altro191

.

La maggior parte delle tombe presenta una spoliazione già avvenuta in antico, inoltre perlopiù

presentano raramente le loro coperture e naturalmente il loro corredo.

Per alcune di esse è segnalata la presenza di copertura in pietra locale, posta proprio ai piedi della

fossa, in altri casi la pietra presente è d’importazione.

Le scoperte, fatte nell’area della necropoli paleocristiana in contrada Monumenti e databili sulla

base delle ceramiche raccolte, confermano la presenza probabilissima, di un grande insediamento,

in parte coincidente con il refugium delle fonti itinerarie e dove le fonti più tarde pongono la Marsa

Al butiri.

Una breve analisi del contesto funerario della zona è necessaria poiché la necropoli era strettamente

legata al sito abitato.

Le strutture della statio infatti erano con molta probabilità contornate dalle necropoli site sulle balze

rocciose. Come è stato possibile intravedere, tramite una serie di ricognizioni superficiali, l’abitato

poteva svilupparsi su un leggerissimo pendio digradante verso la piana, questo dato, seppur

ipotetico, può essere intravisto grazie alla ricca presenza, in questo settore, del sito tra i campi

coltivati a frumento di un innumerevole quantità di materiale ceramico, cronologicamente databile

tra il III-IV secolo d.C. insieme ad elementi architettonici quali tegole coppi e laterizi vari, indice

sicuramente di un’importante presenza antropica.

Il fundus, facente capo alla statio, è da localizzarsi inoltre in un settore costeggiante la S.S. 115

sud-occidentale sicula la quale ricalca in maniera pressoché perfetta il tracciato dell’antica via

selinuntina. Il litorale costiero si presenta poi geomorfologicamente omogeneo, la costa è bassa e

sabbiosa salvo una piccola baia che si apre tra la collina della torre del Camilliani e la località detta

Costa del Sole.

E’ probabilmente all’interno di questa baia che va ad installarsi questo Refugium imperiale. Il

toponimo in questo caso risulta essere alquanto esplicativo.

Con molta probabilità questo sito costiero svolgeva, dopo il decadimento dell’antica Gela e assieme

ad altre località quali Calvisiana, un luogo importantissimo sia per la navigazione sia per lo

smistamento dei prodotti da e verso l’entroterra.

191

Panvini 1996, pp. 97-101

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87

IV.2.2.1 Appendice: Chalis, i risultati da ricognizioni superficiali.

Il sito in questione è stato indagato con tre campagne di ricognizione superficiale, effettuate durante

il periodo Marzo-Maggio 2012. L’analisi è partita da una prima visione geomorfologica dell’

insenatura che doveva (?) ospitare l’approdo portuale riferibile all’ insediamento interno.

La ceramica individuata nell’arco di queste tre campagne ricognitive, ha permesso di confermare il

dato storico-cronologico sull’insediamento di Manfria: dalla fase castellucciana, a quella greco-

ellenistica fino all’ ultima fase tardo-romana o tardo-antica.

I risultati della ricognizione nei pressi dell’insenatura costiera sono stati piuttosto scarni perché,

hanno sì restituito una grande serie di materiale ceramico, ma assolutamente poco datante in quanto

poco significativo: frammenti vari di ceramica a vernice nera assolutamente poco datante e riferibile

ad epoca ellenistica.

Riferibile forse ad un epoca più tarda rispetto all’orizzonte cronologico precedente sono alcuni

frammenti in sigillata e un fondo probabilmente di una forma piatta con decorazione poco leggibile

ma a fasce (epoca romana).

Ben più interessante dal punto di vista dei reperti, è stata la seconda ricognizione effettuata, in una

zona più interna tra le balze rocciose ospitanti le necropoli ipogeiche e sub divo e la pianura che

guarda i due torrenti Scozzarella e Comunelli.

Questa ricerca sul campo si è distinta in più fasi: la Prima fase della ricognizione ha interessato, il

settore Sud-Est della necropoli, qui tra gli infiniti frammenti ceramici, d’orizzonte cronologico

misto è stato recuperato un puntale di grossa anfora africana.

La rottura del taglio in due lati su tre sembra essere piuttosto recente, mentre la tipologia anforacea

era usata a fini oleari (?) o per fini rituali (ipotesi sostenuta dal fatto che esistono sepolture tarde

all’interno di anfore, tipologia detta ad enchytrismos), la capacità del contenitore ceramico è stimata

attorno ai 67 litri. L’esatta classificazione dell’anfora, tramite confronti, si può avere con le Keay 56

anfore di produzione africana, sui mercati antichi in corrsipondenza di un’ orizzonte cronologico

che abbraccia fine V inizio VI secolo d.C. in stretta connessione con l’abitato tardo-romano.

Questa tipologia anforacea è strettamente collegata alla forma Keay 55.Esistono 3 varianti di essa:

la variante A, la B e la C. La variante A è quella che più si avvicina alla Keay 55,essa infatti

presenta l’orlo molto simile al tipo A di quest’ultima.

La variante B ha un corpo alto e d’aspetto cilindrico anch’esso simile alla Keay 55, si presenta però

con un orlo leggermente convesso, l’ansa appare con un piccolo profilo circolare con sezione

ellittica.

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Infine la variante C si mette in evidenza rispetto alle altre due tipologie poiché è dotata di un orlo

molto pronunciato con una faccia ampiamente convessa, l’ansa è simile alla variante A mentre la

banda decorativa incisa e disposta in una posizione inferiore sotto il collo dell’anfora rispetto alla

prima variante192

. L’orizzonte cronologico di questo reperto può essere trovato a cavallo del V e VI

secolo d.C. prodotto di officine Nordafricane precisamente dall’odierna Tunisia.

La seconda fase di questa ricognizione ha interessato invece il settore Nord-occidentale della

necropoli, anche qui tra gli innumerevoli ma frammentari reperti ceramici è apparsa inserita in una

piccola sezione stratigrafica un grosso coppo con margine non ingrossato di tonalità tendente al

beige di probabile classificazione cronologica ricollegabile ad una fase ellenistica.

Essa vide una fase insediativa che interessò questa porzione orientale della costa gelese a cui tra

l’altro possono essere ricollegati i frammenti di ceramica a vernice nera riscontrati durante la prima

ricognizione e individuati in maniera minore anche in questa zona.

La fase ellenistica infatti ospitò un piccolo insediamento, una sorta di fattoria a produzione locale,

punto di riferimento per la piana circostante.

La terza fase riguardo l’ area che, secondo ipotesi topografiche e geomorfologiche, avrebbe potuto

ospitare il fundus dominato dalla statio facente riferimento all’ormai famoso refugium Chalis.

È stato indagato per prima un settore più a valle coltivato a frumento, esso ha restituito una

notevolissima quantità di reperti ceramici e cosa ancora più importante di materiale da costruzione

(laterizi e coppi soprattutto), tutto ciò tale da far ipotizzare una localizzazione della statio tardo-

romana. Il campo seminato a grano ha restituito coppi romani con bordo ingrossato, un puntale di

spatheion, tre frammenti di TSAD (terra sigillata africana D), dei quali uno di essi sicuramente

rapportabili al V secolo a.C., ed infine un orlo in ceramica di fuoco.

Le attestazioni cronologiche sicure rientrano nel quadro del V secolo d.C., eccezion fatta però per

un ¾ di orlo di anfora greco italica classificabile all’ interno della fine del IV inizi del III secolo

a.C,. ulteriore conferma della fattoria ellenistica citata dalle fonti.

Particolarmente significativo il ritrovamento della base di spatheion, classificabile tipologicamente

come spatheion 1. Questa forma ceramica fa parte dell’industria africana, sono anfore

contraddistinte da un corpo lungo e stretto aveva una capacità sicuramente minore rispetto a forme

come le Keay 55 o 56 stimata all’incirca sui 3,5 litri.

Questo tipo ceramico è contraddistinto da un collo abbastanza lungo ed con orlo estroflesso e due

anse corte applicate su di esso.Keay nella sua classificazione paragona questo tipo ceramico all’

anfora Keay 25,2 a causa delle caratteristiche estremamente simili, anche se quest’ultimo è

192

Keay 1984, pp. 293-300

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89

leggermente più piccolo193

.

L’ orizzonte cronologico varia tra il IV e l’inizio del V secolo d.C., in linea perfettamente con lo

sviluppo dell’insediamento tardo- antico. La produzione ceramica di spatheia è attestata a Cartagine,

famose sono le officine di Ariana, e nella regione di Nabeul a Sidi Zahruni.

L’ultima fase della ricognizione ha interessato sempre la zona a valle prospicente i due fiumi, in un

settore interessato non da coltivazione intensiva ma dalla presenza di specie arbustive.

Questa piccola porzione analizzata ha restituito anch’essa un quantitativo notevole di materiali:

presenza di coppi romani con bordo ingrossato, anfore africane cronologicamente qualificabile ad

un orizzonte tardo-romano, un frammento interessante di un vaso a listello (tardo-romano anch’esso,

due frammenti di TSAD di cui un databile frammento di orlo riconducibile al IV secolo d.C. di

forma Hayes 59 ed infine un frammento di ben più tarda Late-Roman amphora 2.

L’orizzonte cronologico che qui va delineandosi sembra essere piuttosto omogeneo e si staglia tra il

IV-V/VI secolo d.C. forse addirittura oltre a causa del frammento di L-R 2. Un’ ultima ricognizione

effettuata sul sito, che avrebbe dovuto ospitare le diverse stratificazioni cronologiche precedenti alla

mansio tardo-romana e la mansio stessa, è stata mirata verso la ricerca di veri e proprie evidenze

architettoniche tangibili. Escludendo le strutture già indagate durante i saggi degli anni ’60 e

riferibili ad un impianto termale, sono state identificate ai piedi del settore sud-ovest delle necropoli

dei grossi blocchi estremamente squadrati, appartenuti, per la mole e per la disposizione ipotetica

leggermente leggibile, a probabili strutture murarie smantellate in seguito all’intervento invasivo

antropico avvenuto negli ultimi venti o trent’anni.

Quest’intervento distruttivo è leggibilissimo poiché oltre a questi blocchi squadrati sono visibili sul

terreno grossi blocchi completamente smantellati, riferibili alla necropoli subdivo posta nei livelli

superiori. In connessione con l’individuazione di veri e propri blocchi riferibili a mura e/o edifici,

sono state ritrovate, nell’area ricognita per ultima, una grande serie di materiale ceramico piuttosto

frammentario e poco diagnostico.

Si segnala un frammentino di sigillata italica proveniente dall’areale delle necropoli subdivo a nord-

ovest in un’ area piuttosto pianeggiante, segno evidente di frequentazioni primo imperiali.

Riferibile invece alla Chalis tardo-romana è sicuramente un’ ansetta di piccola brocca sempre sita

nella stessa zona.

Quest’evidenza risulta avere una non certa, ma ipotizzabile particolarità: sul dorso dell’ansa infatti

sembra essere inciso un chrismon, il monogramma di Cristo. L’incisione risulta essere piuttosto

profonda e ben delineata ma la certezza assoluta non è constatabile a causa delle precarie condizioni

in cui versa il reperto.

193

Keay 1984, pag. 212

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90

Alla fine di queste tre brevi ricognizioni territoriali può essere ricostruito, in maniera piuttosto

ipotetica, in base alla ceramica ritrovata nelle varie porzioni del sito una sorta di disposizione

topografica dell’ abitato. La parte abitata doveva risiedere nella porzione più a levante coperta alle

spalle dalla necropoli sita sulle balze superiori settentrionali, il dato ceramico infatti ci indica una

fitta presenza di ceramica da mensa e da trasporto. La porzione delle necropoli più a valle doveva

ospitare (escludendo naturalmente le necropoli che si trovavano sempre al di fuori di contesti

abitativi) la parte finale del sito con mura poste seguendo l’andamento del terrazzo naturale.

La componente ceramica venuta fuori da questa ricerca in questo settore è risultata essere piuttosto

scarna: sono stati trovati moltissimi frammenti di laterizi coppi e tegole a bordo rialzato, gli unici

frammenti ceramici ritrovati superficialmente sono rappresentati da orli, un’ansa (bollata con una

C?) e alcuni fondi, sono reperti di difficile lettura ma per la fattura della ceramica, l’impasto e

l’ingobbio possono essere classificati tra reperti inerenti alla fase tardo-antica quindi riferibili alla

statio-mansio.

Sola una ricerca futura e più dettagliata del sito in questione e delle sue varie fasi potrà chiarire in

maniera definitiva e alquanto esaustiva lo sviluppo storico-cronologico dell’ insediamento del

litorale gelese. L’unica certezza che emerge da questi pochi dati desunti è l’importanza economico-

commerciale avuta da questo sito durante la tarda-romanità, consequenzialmente alla decadenza,

anzi per meglio dire, alla scomparsa di Gela, soppiantata ad Est dal sito gemello di Chalis,

Calvisiana.

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91

IV.3 Agrigento

Classificazione portuale: Il porto del quale era dotata l’antica città di Akragas può anch’esso

considerarsi per certi versi un ostium poiché nasce e si sviluppa come porto fluviale sulla foce

dell’odierno fiume San Biagio (Akragas), per una classificazione più precisa e dettagliata però il

sito può essere definito come vero e proprio emporion, termine usato dai greci per identificare uno

scalo portuale interessato da intensissimi traffici, una sorta di mercato marinaresco194

.

La storia della ricerca archeologica ad Agrigento nasce molto precocemente sulla spinta delle

evidenti presenza archeologiche, residuo vivente dello splendore dell’antica Akragas.

Oltre al già ampiamente citato storico saccense Fazello, un’importante lavoro fu svolto dal frate

teatino Giuseppe Maria Pancrazi (1751).

La ricerca metodologica tuttavia va fatta risalire agli ultimi decenni del XVIII secolo, allorquando il

regno borbonico istituì dei distretti archeologici.

L’area urbana della città antica sorse su un pianoro costituito da una banchina di calcarenite, cinto

da ampi declivi da N a S.

A nord il limite è costituito dalla cosiddetta “collina di Girgenti”, sulla quale si instaurerà la città

medioevale, e dalla Rupe Atenea l’acropoli del periodo classico.

Ad est vi è una scarpata rocciosa che domina il corso dell’antico Akragas (odierno San Biagio),

mentre ad ovest il limite è formato dal ciglio roccioso dominante il corso dell’ Hypsas (odierno

Drago).

Limite meridionale invece è composto da una paleo riva sulla quale sorsero i templi e a

mezzogiorno della quale si estende una pianura alluvionale sino alla foce dell’ Akragas dove poi

sorgeva il porto della polis195

.

Il sistema stradale in cui è organizzata la zona è di tipo ippodameo: si distendono 4 lunghi cardines

che si andavano a ricollegare ad un grande decumanus forse quello massimo.

Sicuramente la via diretta di comunicazione tra la città alta e la zona sacra dei templi. In questo

sistema di incroci stradali si inserivano i contesti abitativi distinte gli uni dagli altri da strettissime

intercapedini e distribuite variamente negli spazi esistenti tra i cardini. Si notano chiaramente case

di tipo ellenistico, altre hanno atrio di tipo italico circondato da portici e da vani. Sono abitazioni

che ricalcano la tipologia locale: l’uso dei laterizi e del conglomerato tipicamente romani viene

ignorato, il materiale da costruzione presente è costituito invece da blocchi di arenaria locale.

194

Uggeri 1968, pp. 228-229 195

De Miro 1984, pp. 75-81

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92

Molte unità abitative di questo quartiere dovevano avere una ricca ornamentazione interna,

testimoniata da tracce di intonaco dipinto a livelle delle pareti e resti notevoli di pavimenti musivi

realizzati con svariate tecniche; dall’ opus signinum dell’ultimo periodo ellenistico fino ai complessi

floro-faunistici databili a primi tre secoli dell’impero. Molte case poi presentano resti di scale,

segni evidenti dell’esistenza di piani superiori. Sui cardines si affacciavano botteghe e tabernae,

una di esse, riscoperta, esibisce il banco di vendita della caupona.

Il complesso idrico che regolamenta la regimazione delle acque è piuttosto avanzato. Sono infatti

presenti pozzi, cisterne, canaletti di scolo e cloache. Lo scavo di questi isolati d’epoca ellenistico-

romana contribuì a colmare una importante lacuna storica creatasi dopo la distruzione della città

nel 262 a.C. Questi abitati, tramite l’ azione di saggi mirati, sono impostati su strutture arcaiche,

questo dato ci permette di capire l’impostazione edilizia della città greca ed il suo consequenziale

sviluppo nella fase romana.

La presenza di queste fabbriche, cronologicamente anteriori, fa pensare che il modello insediativo

agrigentino non mutò più di tanto nel passaggio dalla fase classica a quella ellenistico-romana del

III secolo a.C. Fu nel II secolo a.C. che l’impianto urbano subì un notevole cambiamento: le aree

intermedie fra Rupe Atenea e collina dei templi vennero occupate da un’intensa attività edilizia, le

aree con forti differenze di quota furono livellate con materiale di riporto, il tutto all’interno di un

regolare reticolato di matrice romana. L’interesse civico viene spostato all’ agorà in media urbis

sull’altura di San Nicola, mentre l’agorà inferiore riferita alla fase arcaica e classica del sito perde

progressivamente importanza. Essa continuò a recitare un ruolo di aggregazione inerente però forse

solo alle attività commerciali riferibili al vicino scalo portuale, collegata ad essa tramite la già

menzionata porta IV. Proprio questa porta che conduce a mare, secondo affermazione liviana,

immette all’interno della città romana vera e propria196

. Livio nella sua opera ricorda infatti che i

romani, quando nel 210 entrarono ad Akragas, lo fecero dalla porta dell’emporion giungendo presto

nel foro, ulteriore testimonianza dell’importanza che aveva questo scalo commerciale e la sua facile

collocazione topografica in relazione col cuore della città197

. Il porto era un importante approdo

marittimo in un’area sita, probabilmente, tra la contrada Maddalusa e San Leone, più arretrata

rispetto all’attuale linea di costa. Nel XVI secolo Fazello notò nell'area della foce dei saxa

quadrata, individuati ancora nel 1922 dal Caruso-Lanza a sud della chiesa di San Leone. Si tratta

certamente dei resti delle banchine del porto classico che si estendeva lungo le sponde del fiume,

furono poi trovate strutture portuali riferite ad horrea. Il suo porto continuò a funzionare come

196

Fiorentini 2010, pp. 97-101 197

Liv., 26,40

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93

sbocco di un vasto distretto granario e minerario fino al VI secolo d.C. almeno198

. In epoca romana

lo scavo veniva segnalato dalla toponomastica come Emporium Agrigenti, in un determinato

momento storico lo scavo cominciò a decadere e venne utilizzata come scalo la rada posta poco più

ad occidente, nei pressi dell’ odierna Porto Empledoche. Qui l’insenatura risultava essere molto più

profonda perfettamente idonea agli intensi traffici che coinvolgevano Agrigento. Altre cause

decisive per l’abbandono dello scavo fluviale furono sicuramente una modifica geomorfologica

dell’imboccatura dell’estuario che andò insabbiandosi rendendo difficilissimo l’approdo, inoltre si

registrò un aumento delle dimensioni delle imbarcazioni commerciali. Decisiva fu infine la

possibilità di utilizzare come depositi per granaglie le fosse marnose formatesi sull’altopiano

sovrastante lo scalo. Probabilmente per un determinato periodo di tempo i due scali portuali

convissero autonomamente, e il successivo abbandono dello scalo san leonino sia stato lento e

graduale. L’ultimo termine cronologico in cui viene menzionato l’ Emporium si ha nel VI secolo

d.C199

.

Tornando al sito romano esso presenta strutture da mettere in connessione con la necropoli

romano-cristiana, scavata proprio nei pressi dell’emporio agrigentino.

La necropoli infatti si andò ad insediare in parte su strutture precedenti riferibili ad ambienti

funzionali, facenti capo al sito portuale. In questo misto orizzonte stratigrafico si deduce che

l’abitato costiero è vitale tra il I-IV sec. d.C. successivamente da li in poi la necropoli inizierà a

stringerlo da vicino occupando man mano le altre zone in corrispondenza dell’avanzamento del

mare200

.Con la decadenza dell’Emporium di epoca romana, venne invece utilizzata una spiaggia

qualche chilometro a ponente, dove sarebbe poi sorto il porto dell’attuale Porto Empedocle. La città

fondazione geloa del 580 a.C., ben presto diventò uno de centri più importanti di questo settore

della Sicilia, a causa soprattutto della vicinanza con la fertile Africa cartaginese. La grande

prosperità della comunità akragantina fu determinata soprattutto dalla produzione ed esportazione

di olio ma soprattutto di cereali e vino, nel periodo romano fu poi fiorente l’industria dello zolfo,

basti pensare alle tabulae sulfuris del Museo di Agrigento.

Agrigentum fu l’unica città della costa meridionale a mantenere una certa vitalità economica in

epoca romana201

.

198

Uggeri 2004, pp. 173-174 199

Gibilaro 1988, pp. 25-29 200

Griffo-E. De Miro 1955, pp. 335-338 201

Bonacasa Carra 1987, pag. 34

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IV.4.1 Eraclea Minoa

Classificazione portuale: Il sito portuale di Eraclea Minoa fu posto con molta probabilità, a causa

della geomorfologia del territorio, sul litorale basso e sabbioso sottostante le alte pareti marnose nei

pressi del fiume, l’ Halykos (l’odierno Platani).

Può essere classificato come ostium , cioè come porto sito posto alla foce fluviale, fiume

quest’ultimo sicuramente navigabile per un tratto ab antiquo.

Importante stazione marittima per le rotte commerciali da e verso l’Africa, fattore quest’ultimo

determinato dalla situazione politica di questo settore della Sicilia.

L’antica città di Heraclea Minoa si estende topograficamente su un bianco e marnoso promontorio,

detto Capo Bianco per l’appunto, proteso in maniera pressoché uniforme verso il Mare Lybicum,

con alte e scoscese pareti verticali, in sinistra del Fiume Platani.

Il doppio nome che caratterizza questa fondazione selinuntina per certi versi reca in seno la storia

stessa del sito: Heraclea, come chiaramente ne deduciamo dalla parola stessa, si rifà al culto di

Ercole, molto caro alle popolazioni di stirpe dorico-peloponnesiaca, mentre Minoa si riferisce

chiaramente ad un “passato” cretese.

Dei due nomi il più antico è sicuramente Minoa, esso ci rimanda alla leggendaria venuta di Minosse,

re di Creta in Sicilia alla ricerca di Dedalo.

Il mito contestualizza la morte del re cretese proprio in questo settore della Sicilia, ad opera del re

siculo Cocalo e delle sue figlie202

.

In realtà il substrato storico è ben più profondo, anche se il mito, come sempre, rimane molto

esplicativo.

Esso infatti non fa altro che confermare storicamente intense frequentazioni minoico-micenee nella

zona, contestualizzando tutto nella fase di pre-colonizzazione.

Importante base navale punica durante le prime due guerre puniche, dopo la completa conquista

della Sicila ad opera delle legioni fu insignita del titolo di civitas decumana con i relativi privilegi

sulla tassazione che ne conseguirono203

.

I primi resti della città furono identificati dal celebre storico saccense Tommaso Fazello, quest’

ultimo riconobbe per primo alla destra dell’antico Alico strutture antiche.

202

Diod., IV, 79, 1, 5 203

Diod., XXIII 8; Liv. XXI 35, 3 e XXV 40,11

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Erodoto cita Eraclea Minoa a proposito della spedizione spartana di Dorideo, essa per tutto il V

secolo rimase sottoposta ad Akragas. Alterne vicende storiche la videro sia in mano greca che in

mano cartaginese poiché strategicamente posta sul limes greco-punico.

L’importanza della città era determinata principalmente da una struttura edilizia, purtroppo oggi

poco identificabile, il porto-canale, soprattutto dopo che in seguito alla I guerra punica diventò una

base sistematica cartaginese. Le strutture portuali ad oggi risultano piuttosto mancanti, solo uno

storico cattolicese, Cariselli, segnalò alla fine dell’ ‘800 dopo una grande alluvione, l’emersione di

strutture architettoniche romane sull’argine sinistro. Il tratto di mare antistante la colonia selinuntina

di contro, non ha mai restituito dati significativi. Se si escludono alcuni elmi bronzei.

Nel corso di ricerche archeologiche nel 1995 e tramite l’utilizzo dell’aerofotogrammetria, furono

notate in mare delle ben evidenti anomalie, strutture regolari scavate nella marna ed oggi sommerse.

Esse si spingevano dalla riva verso il largo per circa 200 metri, accanto ad esse furono rinvenute

altre strutture propaganti a destra e a sinistra dal corpo centrale. Spicca poi un elemento

quadrangolare a circa 300 metri dalla riva. Dopo un’ analisi dettagliata viene da escludere la teoria

che vede questo elemento come una sorta di barriera frangiflutti, piuttosto sembra un elemento di

banchina atto allo scalo ad alaggio, certamente strutture annesse all’antico e florido porto-canale di

Eraclea. Interessante poi da notare sono due gallerie di servizio scavate sulla dorsale del

promontorio e comunicanti tra loro; esse servivano presumibilmente , tramite l’uso di argani, a

portare sull’acropoli cittadina i vettovagliamenti che giungevano nel porto senza dover ricorrere ad

un faticoso ed impervio trasporto204

.

La ricerca sistematica sull’ insediamento invece subì un’accelerata ben precedente; alla metà del

XX secolo, quando l’archeologo Ernesto De Miro scoprì il teatro scavato continuamente fino al

1964.

Quest’importante opera era perfettamente inserita nel reticolo urbanistico della città “appoggiato”

su un pendio in direzione S-O. Oggi, come importanti evidenze, oltre al già citato teatro, rimangono

una cinta muraria di circa 6 km, e un settore del quartiere ellenistico-romano a meridione del teatro,

grazie alle campagne di scavo riferite agli anni 1963 e 1964 sono state messe in luce importanti

evidenze. La costruzione muraria risulta essere costruito da un basamento di piccoli blocchi di

gesso e da una sovrastruttura di mattoni crudi conservato solo nel tratto del baluardo alla estremità

NE. La cinta poi è rafforzata da torri quadrangolari e da una circolare, si riconoscono infine poi le

tre porte che davano accesso alla città205

. Alla fase ellenistica del sito è riferibile cronologicamente

uno strato del IV-III secolo a.C., si sovrappone ad esso il cosiddetto strato 1, identificabile con la

204

Macaluso 2009, pp. 196-203 205

De Miro 1989, pp. 240-243

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colonia di ripopolamento voluta da Rupilio al termine della prima guerra servile. Il territorio nei

pressi di Eraclea, poco prima della ricolonizzazione rupiliana era contornato da un grande sistema

di fattorie di medio-grande porzione. Le fattorie rintracciate sembrano essere omogeneamente tutte

della stessa grandezza ed a una distanza di circa 1 km le une dalle altre.

Caratteristica eminente era la loro vicinanza ad una sorgente, la quale permette un

approvvigionamento idrico costante e sicuro. Per certi versi l’opera voluta da Publio Rupilio

comunque, fu una ricostruzione in toto dell’abitato sia in maniera integrale, come nel caso delle

abitazioni site sul fianco della collinetta e realizzate su un grande riempimento, sia impostando le

strutture su più antiche fondazioni (abitazioni della fase cronologica precedente)206

.

Altro dato estremamente importante per capire lo sviluppo storico della suddetta comunità, viene

da alcuni edifici riferibili all’epoca romana quindi contigui al periodo analizzato, addossanti all’

analemmata del teatro, questo dato conferma l’abbandono di questo edificio per spettacoli in

questa fase tarda, e di riflesso attesta la graduale ma inarrestabile decadenza del sito dalla tarda

repubblica in poi207

. Cicerone nel 70 a.C. visitò la città per raccogliere prove sufficienti contro

Verre e quest’episodio risulta importante poiché costituisce un terminus ante quem per definire

l’abbandono della città al volgere del I secolo a.C. suggerito tra l’altro, dall’assenza sullo scavo di

ceramica in sigillata aretina, decisamente un marker stratigrafico per il suddetto orizzonte

cronologico. Altro fattore storico sicuramente da non tralasciare fu il ruolo svolto da Eraclea M.

durante la II guerra servile: essa infatti rappresentò un’importante roccaforte per i ribelli, e

probabilmente con la sua presa e la sua distruzione iniziò la sua fase di decadimento. Nei secoli

successivi un insediamento cristiano viene costruito alcuni km più a nord rispetto

l’insediamento greco-romano. L’ analisi dei contesti insediativi di dimensioni maggiori; poleis,

empori, strutture portuali non esclude di certo nello studio delle dinamiche economico-sociali

l’importanza delle cosiddette ville marittime. L’importanza di eraclea infatti era determinata dal

fatto di rappresentare un importante terminal commerciale per tutto l’entroterra e le zone limitrofe.

La tipologia insediativa della villa marittima prende piede nel contesto isolano a partire dal I secolo

d.C., essa riscuote un grande successo tant’è che il modello è riproposto anche in contesti minori

quali le isole Lipari, Favignana o Ustica208

.

Queste piccole realtà insediative create attorno ad un sistema ben più grande e complesso

costituiscono il simbolo di una ramificazione economica piuttosto avanzata che vedeva nel porto

solamente l’unico step di una grande processo che iniziava nelle campagne.

Oltre alle più volte menzionate ville o fattorie dell’interno esistevano infatti vere e proprie piccole

206

Wilson 1980-81, pag. ssg 207

De Miro 1966, 221-233 208

Bejor 1986, pag. 477

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97

unità insediative che facevano poi riferimento ad unità superiori e ben più attrezzate.

È il caso della villa scoperta in una zona prospicente il mare nei pressi dell’odierna Realmonte (AG)

in località Durrelli. Rappresenta il più chiaro esempio tipologico di villa marittima in Sicilia, essa

venne alla luce da scavi eseguiti nel 1908 subito ad ovest di Agrigento. In epoca più recente (circa

70 anni dopo lo scavo d’inizio ‘900) il sito è stato ristudiato, ne è scaturita quindi la sua cronologia

stabilita dopo campagne di scavo tra la seconda metà del I sec. a.C. e la prima metà del i secolo d.C.

L’area dello scavo copre una superficie di 50x50 m., durante e operazioni di ricerca vennero alla

luce un gruppo di stanze quadrate o rettangolari con le ultime tre addossate ad un peristilio.

Le stanze a nord del peristilio sono ornate da pavimenti musivi con tessere bianche e nere cosi

come le stanze site ad occidente. La più grande stanza dell’ala nord del complesso presenta una

notevole eleganza: infatti qui è posto di fronte ad essa una fontana semi-circolare di pregevole

fattura sicuramente realizzata in un periodo secondario rispetto alla costruzione della villa stessa.

La disposizione degli ambienti termali dopo gli ultimi interventi di scavo è piuttosto chiara;

innanzitutto bisogna certamente mettere in risalto la decorazione dell’ anticamera d’accesso agli

ambienti funzionali, poiché essa col chiaro rimando alla mitologia marina (opera musiva

rappresentante Scilla e altre mostri ricollegabili alla mitologia marina) non fa altro che accrescere il

legame della villa di Durrelli col mare stesso. Risulta essere molto usato il marmo di Carrara che

arricchisce la costruzione, esso è presente infatti nel pavimento del frigidarium.

L’area dell’ipotetico tepidarium risulta essere ancora sotto studio, all’interno della quale è stata

identificata nella parte nord una piccola fornace. Infine una piccola necropoli completava il

complesso, sita alla sinistra dell’ argine del torrente che lambisce la costruzione ad est del sito

stesso. L’ ottimale posizione del sito, dominante una splendida insenatura, costruita proprio al

limite della spiaggia, l’assenza di una grande serie di frammenti dispersi sul sito, le alte scogliere

che la contornano a nord suggeriscono che più plausibilmente l’abitato fosse più un rifugio di

villeggiatura per i ricchi agrigentini del periodo piuttosto che un’ azienda agricola attiva ed in

collegamento con i porti della zona209

.

209

Wilson 1990, pp. 192-193

Page 98: Cerealia, oleum et vinum: i rifornimenti alimentari sulla via tra Cartagine e la Sicilia meridionale (Tarda Repubblica e Impero)

98

IV.4 Selinunte

Classificazione portuale: Il sito di Selinunte presenta una portuosità del tutto particolare.

Esso sorge, come del resto molti altri insediamenti di questo settore costiero meridionale della

Sicilia, su un sistema fluviale piuttosto articolato.

Come per altri siti anche Selinunte è contornata da due fiumi, oggi piuttosto asciutti ma un tempo

sicuramente recanti una portata maggiore.

I torrenti in questione sono il Gorgo Cottone posizionato ad est, ed il più celebre Modione (antico

Selinus) che scorre invece più ad ovest.

La città fu quindi dotata di due importanti approdi fluviali , proprio essi costituirono la ricchezza nei

secoli della comunità selinuntina, poiché permettevano un ampio flusso commerciale testimoniato

dall’ampio numero di relitti che si trovano adagiati sui fondali nei pressi del litorale selinuntino e

dall’alto numero di ceramica da trasporto presente tra le praterie di posidonia

.

Selinunte, il suo territorio la sua storia e la sua cultura danno, e hanno dato da sempre, l’idea di una

sorta di finis terrae del mondo greco, ed occidentale in genere, di Sicilia.

Colonia megarese del VII secolo a.C., dovette sempre confrontarsi col vicino e bellicoso elemento

punico risiedente a Mothya prima e Lilibeo poi e con l’ancora più vicina comunità elima di Segesta,

continuamente in lotta con Selinus per il controllo territoriale di questa porzione sud occidentale

dell’isola210

.

L’importanza commerciale di Selinunte è testimoniata indirettamente dallo sfarzo sfoggiato dalla

sua acropoli: i templi, le costruzione sacre in generale presentano una fattura notevolmente elevata,

retaggio di una polis ricca e opulenta.

Il ricco entroterra selinuntino permise alla città uno sviluppo economico notevole e la posizione

topografica relativamente vicina alle coste tunisine rese agevoli i contatti col continente africano,

distante solo un centinaio di chilometri. Selinunte si inserisce indipendentemente dalla sua data di

fondazione (650 a.C. secondo Diodoro Siculo e 628 a.C. secondo Tucidide) in una rete di contatti

con una dimensione ampiamente mediterranea, nella quale da tempo risiedevano l’elemento elimo e

quello punico. La fase greca e classica in generale della città sulle rive del Modione è notissima: dai

Grandtour settecenteschi fino agli inizi della ricerca archeologica, coloro che si apprestavano alla

210

Cusumano 2010, pp. 11-15

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99

visione delle rovine di questa nobilissima città ne rimanevano estremamente affascinati.

Gli innumerevoli complessi templari (tempio A, tempio B tempio C, tempo G ecc.), le molteplici

aree sacre che adornano il pianoro sul quale si erge l’acropoli, tutto il materiale che è stato riportato

alla luce in seguito alle moltissime campagne di scavo sistematico, iniziate soprattutto nel XX,

secolo contraddistinguono in maniera decisiva questo sito.

Settore meno celebre ma allo stesso modo importantissimo della città in questione, poiché vero

motore economico della comunità, è costituito dal complesso sistema portuale.

Bisogna innanzitutto dire che in antico fino a praticamente la fine della classicità, le foci dei due

fiumi che “isolano” il pianoro di Selinunte erano molto più scavate quasi a formare dei rias

lasciando quindi isolato lo sperone roccioso. Oltre ad offrire un eccellente punto di attracco, le baie

offrivano una sorta di imponente difesa naturale, facilitando anche la naturale collocazione delle

mura urbiche211

. I porti furono posti l’uno alla foce del Selinus/Modione, l’altro alla foce del Gorgo

Cottone, luoghi favorevoli ad un attracco sicuro e funzionale. Il tema della portualità per Selinunte è

di vitale importanza: La città greca infatti avrà una competizione agguerritissima con Segesta e

Siracusa, le due rivali per il predominio sui mari, oltre che con la sempre viva ed efficiente

marineria punica. Lo studio attento del sistema portuale selinuntino è ancora poco chiaro ed in fase

di elaborazione, tuttavia hanno aiutato molto in tutto ciò gli eventi naturali; poiché ad esempio solo

grazie alle cicliche onde di piena del Gorgo Cottone, che è stato possibile individuare un consistente

numero di banchine e moli in relazione allo scalo orientale della città. Fin dai primi dell’800 due

ricercatori inglesi, Harris e Angell, poterono notare la presenza di strutture riconducibili ad

un’intensa attività portuale poste alle foci di questi due fiumi. Si trattava in particolare di una

banchina sita sul fianco destro del Gorgo Cottone, descritta e analizzata da altri studiosi di epoche

più recenti a causa delle continue “apparizioni” in seguito a mareggiate o piene. Essa stessa fu

scavata parzialmente alla fine dell’800 dal Cavallari prima e dal Salinas in seguito.

Quest’ultimo, soprattutto in seguito ad un notevole mareggiata, ebbe modo di notare la presenza

oltre che delle grappe plumbee che rinsaldavano i blocchi, anche la presenza di due grossi muri che

tagliavano in due parti la spiaggia, probabilmente opere di contenimento per le esondazioni fluviali.

Gli scavi d’epoca moderna per così dire iniziarono alla metà del ‘900 con la Bovio Marconi212

.

Quest’ultima infatti grazie a ridotti saggi ne approfondirà le conoscenze, identificando ad esempio

un angolo di banchina posto nei pressi del porto-canale213

. Da allora, e del resto da sempre, il mare

ha sepolto e dissepolto i resti di queste strutture portuali sia quelle ad ovest, che quelle ad est, oltre

211

Mertens 2010, pp. 97-99 212

Bovio Marconi 1961, pag. 12 213

Tusa 2010, pp. 219-220

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100

ad altri ambienti siti vicino le banchine interpretati come magazzini per le attività marinaresche214

.

Il rinvenimento di queste strutture sovrapposte, praticamente in parte a strutture più antiche,

dimostra più fasi di costruzione quindi un’evoluzione stessa del sistema portuale selinuntino.

Per quanto riguarda la situazione archeologicamente documentata del porto occidentale, in realtà

poco sappiamo. Per la fase classico-ellenistica la ricerca si è basata soprattutto sui rinvenimenti

anforacei fatti sul fondale, il complesso può essere configurato come un tipico fondale di porto ma

non si è andati oltre ipotesi congetturali poiché non ci sono dati edilizi diagnostici.

Si conosce invece decisamente meglio la fase romana e soprattutto tardo-romana del porto sul

Modione. Scavi effettuati tra il 2004 ed il 2006 misero infatti in luce un vero e proprio quartiere

marinaro vissuto tra IV e V secolo d.C. Furono identificati un’area sacra con piccola basilica e

battistero annesso, ma soprattutto strutture inerenti a banchine costituite da grossi blocchi con

orientamento Est-Ovest, alle quali si appoggiavano altri muri con posizione Nord-Sud, chiusi a loro

volta all’estremità sud da altri muri con orientamento Est-Ovest.

Un sistema abbastanza complesso con i blocchi del lato sud posti su uno spesso strato di sabbia

protendente verso il mare, ricoperto da uno strato di terra più scuro, interpretabile come il limo

fluviale215

. La messa in luce, grazie a questo recentissimo scavo, di queste strutture dimostra quindi

la presenza di un vero e proprio porto attivo tra IV e V secolo, la cui principale attività commerciale

coincideva (grazie a rinvenimenti ceramici di specifici areali) con l’area Nordafricana e con

Pantelleria. In sintesi si può ben dire che Selinunte dotata di due ricchi porti, basò la sua floridezza

sia per le epoche più antiche che per quelle più “tarde” sulla sua dicotomia portuale.

Il porto sul Modione doveva essere, a causa della maggiore portata di questo fiume stesso, più

importante e funzionale, rispetto al porto orientale anche se le grandi strutture rinvenute nei pressi

del Gorgo Cottone non mettono assolutamente in secondo piano il porto orientale.

La situazione portuale di Selinunte è comunque tipica di altre settori portuali di poleis della costa

meridionale della Sicilia: Camarina, Licata, Agrigento ecc. tutte comunità aventi porti o approdi

costituiti su estuari fluviali. Confronto valido è rappresentato in questo caso da Camarina, li infatti

alla foce dell’ Ippari, si conosce un molo protettivo che doveva proteggere l’ingresso all’estuario,

molto simile per tipologia alla banchina tardo-antica sul Modione216

.

Una breve appendice poi può essere fatta sul tema degli innumerevoli relitti rinvenuti in prossimità

delle coste del litorale selinuntino.

La natura dei fondali sabbiosi con una grande presenza di detriti provenienti dagli estuari dei corsi

214

Purpura 1975, pp. 58-60. Il mare durante la sua azione ha rilevate strutture costituite da ambienti con blocchi

squadrati, sistemati irregolarmente di testa e di taglio privi di legante, probabili magazzini. 215

La suddetta tipologia è definita a “cassoni” cioè con strutture colmate da terra mista frammista a frammenti ceramici

(con datazione al IV/V sec. d.C.), situazione tipica di una banchina portuale. 216

Tusa 2010, pp. 221-224

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101

d’acqua ha permesso, qui come a Gela, la conservazione di imbarcazioni affondate nel Mare

Africanum, testimoni dirette di un flusso commerciale notevolissimo in questa porzione di Sicilia

traccia indelebile di un’ intensa frequentazione portuale.

Quasi ovunque ci si immerga nel tratto di costa antistante la colonia megarese, ci si imbatte in

evidenze archeologiche importanti. Le acque marine restituiscono continuamente frammenti di

anfore Spatheion, greco-italiche, puniche, dressel 9 frammenti di pithoi e altro ancora.

Siti recanti veri e propri relitti se ne conoscono due: uno nei fondali di Capo Granitola, l’altro nei

pressi di Porto Palo. Il relitto di Capo Granitola è estremamente interessante poiché non è altro che

una tipica nave lapidaria cronologicamente da porre al III secolo d.C. grazie a reperti anforacei del

tipo Kapitan 2, quasi in linea cronologica con le strutture portuali del Modione.

L’imbarcazione trasportava un ingente carico (circa 50 blocchi di marmo); essa naufragò a causa

probabilmente di un grande fortunale che la scaraventò sulla spiaggia, facendo rovesciare il suo

ricco e pesante carico sul basso fondale limoso.

Il secondo relitto perfettamente identificato, presenta un orizzonte cronologico ed una tipologia

strutturale del tutto diversi. Siamo in presenza di un’ imbarcazione datata, grazie alla presenza di

anfore puniche del tipo Manà e di greco-italiche tarde, al II-I secolo a.C.

Ricerche sistematiche sul relitto di Porto Palo hanno permesso di identificare la dilocazione del

carico e tal volta di documentare il contenuto delle anfore. Alcune di esse contenevano tritumi di

conchiglie, utilizzabili come leganti nell’industria edile, altre invece contenevano resti ossei di pesci,

i quali per la loro grandezza non sono riferibili al garum ma probabilmente a prodotti ittici

sottoposti a trattamenti di salatura. I dati pervenuti dallo studio di questo relitto ci permettono di

classificare quest’ultimo come nave da piccole rotte, forse utilizzabile al massimo sulla rotta

Cartagine-Sicilia, a differenza del relitto più tardo di Capo Granitola, il quale si presenta come una

tipica imbarcazione per commerci transmarini su grandi rotte.

In ogni caso, anche se di orizzonti cronologici abbastanza differenti, queste due evidenze

sottomarine ci descrivono in maniera dettagliata il flusso commerciale che interessò questo settore

di Sicilia217

.

217

Tusa 2010, pp. 226-229

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102

IV4.1 Il litorale selinuntino: Il sito di Carabollace e i flussi commerciali col

NordAfrica

L’ importanza giocata nelle dinamiche dei flussi commerciali da questo settore dell’estremo ponente

siculo è ben rappresentata dai vari siti minori costieri che contornano l’area di Selinunte e più a

nord di Lilibeo.

Una delle ultime ricerche sul campo (campagna di scavo 2006-2007), ha interessato il sito costiero

di Contrada Carabollace a Sciacca, nelle vicinanze dell’omonimo torrente.

Il sito è collocabile in un orizzonte cronologico piuttosto tardo ma il suo studio è risultato piuttosto

esplicativo per capire ulteriormente le dinamiche commerciali di questo settore di Sicilia.

L’area scavata ha riguardato all’incirca una porzione di 1400 m² , sono state distinte all’interno di

essa due fasi ben precise: una classificabile, dopo l’acquisizione del dato ceramico tra la fine del IV

e l’inizio del V secolo d.C., l’altra più tarda identificabile col periodo che va dal V al VI secolo d.C.

Gli edifici della prima fase sono venuti alla luce in maniera piuttosto chiara nel settore nord, su di

essi nella seconda fase s’impostano l’edificio A e quello B separati da un corridoi ciottolato.

Lo schema insediativo del complesso di Carabollace ripete topoi ampiamente presenti sulle coste

siciliane (es. assimilabile col complesso di Kaucana), e allo stesso tempo riflette situazioni

riscontrabili nelle aree siriache già indicate, dove la ripartizione degli edifici risulta funzionale con

finalità di tipo produttivo.

L’ esame condotto sulle varie tipologie ceramiche rinvenute, ha diretto gli archeologi verso i vicini

contesti africani; in particolare sono state rinvenuti manufatti provenienti dall’ atelier di Sidi zahruni,

di Odhuna, di Sidi Khalifa e di Nabeul collocati nella zona del golfo di Hammamet e di

conseguenza testimoni di una fitta rete commerciale soprattutto con questa determinata porzione

della Tunisia settentrionale.

La rotta battuta con maggiore frequenza era quindi quella che andava da Nabeul/Neapolis e

giungeva alla Sicilia nord-occidentale, per fare scalo e rifornirsi ed infine attraversare il Tirreno per

giungere ai mercati di Roma o della ricca Gallia Narbonese. Quest’ultima è un’evidenza

testimoniata dalla perfetta comparazione di reperti ritrovati in relitti del basso Tirreno (Cefalù,

Alicudi ecc.) e ceramica venuta alla luce in seguito alle attività di ricerca. Concludendo possiamo

dire che siamo di fronte a strutture di un piccolo villaggio tardo-romano con estrema vocazione

commerciale sito nei pressi della straboniana Thermae Selinuntinae ed in forte connessione con essa,

poiché il fiume che alimentava le terme doveva essere per forza di cose il Carabollace, data la forte

presenza sulfurea nelle sue acque.

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Questo villaggio, come per altri casi conclamati (Calvisiana, Chalis ecc.), svolgeva il ruolo

d’importante collante tra il ricco entroterra e i commerci transmarini e, a differenza di altri siti, esso

non svolgeva attività produttiva legata alla terra (nel villaggio di Campanaio fu trovato un frantoio)

ma molto probabilmente, oltre al commercio, si praticava un’intensa attività peschereccia

testimoniata dalla presenza di pesi da rete anch’essi di fattura africana218

.

218

Caminneci 2010, pp. 1-14

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V Il caso di Finziade (Licata); da florido porto a città decaduta

In questo grande excursus, che ha interessato la costa della Sicilia meridionale, merita menzione

sicuramente un sito, il quale per diverse vicende, fu protagonista o per meglio dire apripista per la

dominazione romana dell’ isola.

Fondata nel 282 a.C., e per questo motivo classificabile come ultima fondazione greca (più

esattamente ellenistica) di Sicilia, Finziade visse una parabola storica contraddistinta da sviluppo

veloce ed altrettanto repentina decadenza.

Il nome è tratto dal tiranno di Agrigento, Finzia, il quale poco prima della conquista romana

dell’isola, distrusse definitivamente Gela deportandone gli abitanti in riva all’ Imera meridionale

(odierno fiume Salso).

L’origine geloa della comunità, installatasi sul Monte S. Angelo è, comprovata da rinvenimenti

ceramici riferibili a tipologie geloe del periodo, e dal dato storico che vedeva gli abitanti di questa

nuova fondazione come geloi.

Un riferimento postumo alla distruzione mamertina di Gela ci viene direttamente da Cicerone, il

quale nell’ orazione contro Verre, le Verrine219

, parlando delle civitates decumanae egli non nomina

mai la città al contrario dei suoi abitanti i Gelenses, gli abitanti che egli presumibilmente intendeva

residenti a Finziade220

. Plinio il vecchio nella sezione della sua opera comprendente la Sicilia

nomina tra stipendiarii Gelani e allo stesso modo Phintienses creando una grande ambiguità.

Ad ogni modo il ruolo della nuova città, sorta alla maniera ellenistica, cioè su una serie di

terrazzamenti su un colle a 131 metri s.l.m. fu decisivo durante le guerre puniche; essa infatti

costituì un importantissimo caposaldo romano in contrapposizione al caposaldo punico prossimo

rappresentato dalla vicina Agrigento. La storia di Finziade, come d’altronde per tutte le città

litoranee, ruotò attorno al suo florido porto. I romani infatti al tramonto del primo conflitto

vittorioso contro i punici, vollero ringraziare la comunità greca del posto “regalando” ad essa la

costruzione di un grande sistema portuale ottimo punto di riferimento per i commerci

transmediterranei. In questo preciso momento storico, contrassegnato dalla scomparsa di Gela e

dalle difficoltà che stava attraversando la quasi del tutto sterminata popolazione akragantina,

Finziade ed il suo porto la facevano da padrone. Topograficamente poi la città godeva di un sistema

difensivo naturale: oltre ad essere sorta su un ripido colle essa era contornata da un sistema fluviale

doppio, tipico di altre poleis della zona (basti pensare a Camarina o a Selinunte).

219

Cic., Verr. 103; 192 220

Ghizolfi 1991, p. 24

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Vi erano infatti due rami fluviali: il ramo principale del Salso sfociante poco più ad ovest rispetto il

delta odierno, e il cosiddetto Fiumicello ramo secondario sfociante nella baia di Serra Mollarella.

Questi due alvei fluviali costituivano due vie commerciali interne oltre che a veri e propri siti per

approdi e scali. In particolare il ramo principale del Salso ospitava con molta probabilità, seguendo

un modello tipico di altre comunità siceliote, un ostium cioè alla latina un porto fluviale attivissimo

e ricollegato alla navigabilità del Salso, per alcuni tratti, in epoca storica. Il Flumen con molta

probabilità era percorribile fin sotto le alture collinari della Muculufa, in una zona fertilissima e

allo stesso tempo ricca di zolfo, materiale apprezzatissimo all’epoca. Poiché la città si costituì sulla

direttrice viaria che congiungeva Siracusa a Marsala (la via selinuntina) importante punto di

passaggio era costituito dall’ Imera meridionale/Salso: l’assenza di un ponte portava il viaggiatore

a scegliere tra il facile guado alla foce o in alternativa ci si poteva imbarcare su piccole barche dette

giarrette, le quali velocemente attraversavano il corso d’acqua221

. Il porto costruito dai romani in

seguito alla vittoria dell’ Urbe della prima guerra punica, doveva essere sito invece ad ovest del

fiume immediatamente sottostante l’Eknomos/Monte S. Angelo. Quest’ipotesi può essere deducibile

dalla conformazione geomorfologica del luogo e inoltre dalle fonti epigrafiche (una su tutti ci viene

riferita da Diodoro Siculo), le quali ci accennano seppur in maniera minoritaria l’importanza e la

funzionalità del porto. Localmente inoltre la zona che doveva ospitare questo scalo è detta fin

“l’ortu du za saru”, indice toponomastico di un luogo fertile e rigoglioso con sicura presenza

d’acqua. Geomorfologicamente il sito ipotetico di questo porto romano è collocato in una conca

sovrastata da rupi scoscese verso nord e verso ovest, chiusa poi a levante e a meridione da degli

edifici disposti a falce.

Secondo l’ Uggeri quest’insenatura si sarebbe insabbiata a causa del violento moto ondoso

connesso alle forti correnti generate da un molo sottomarino notato anche dal principe di Biscari

alla fine del ‘700 come riporta il Paternò222

. Il sito doveva ospitare un caricatore di grano

estremamente importante per il retroterra. Le notizie più recenti del caricatore tuttavia ci giungono

da fonti medioevali: nel 1154 il geografo arabo Idrisi scrive che la città “havvi un porto al quale

traggono le navi che vengono a far lor carichi”223

.

Nel tratto di mare antistante questo settore sono state rinvenute sette ancore di piombo d’età greca,

un’altra ancora proverrebbe dall’area dell’ ex cine giardino Verbena, zona fortemente interrata nei

pressi della foce del Salso ed infine due silos sezionati durante i lavori per la costruzione della

moderna via Marconi. La vitalità commerciale della civitas continuò anche durante la dominazione

romana; Finziade infatti costituiva un’ ottima testa di ponte per commerciare i prodotti

221

Uggeri 2004, pp. 178-180 222

Uggeri 1968, pp. 54-63 223

Gibilaro 1988, pp.13-20

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dell’entroterra (olio, vino, grano, zolfo, prodotti ittici) da e verso l’Africa soprattutto dopo la

scomparsa del prezioso approdo di Gela.

La presenza di ceramica da esportazione/importazione, soprattutto di tipologia anforacea è un

ulteriore indice di importanza commerciale per il sito sorto solo pochi anni prima.

Naturalmente i rinvenimenti effettuati sul territorio licatese non hanno messo in evidenza solamente

reperti inerenti a quel dato e limitato periodo cronologico, al contrario soprattutto da ricerche

effettuate sull’area collinare di Licata, esse hanno restituito evidenze ben anteriori alla fondazione

di Finziade, testimoni di un passato classico piuttosto ricco come indicato da Diodoro Siculo, il

quale parla dell’installazione, prima della creazione di Finziade, di fattorie appartenute a cavalieri

akragantini. Il vino, da loro prodotto, era di qualità superiore esso lo cita come uno dei migliori e

più pregiati del mondo antico. Questo dato ci permette di ricostruire ampiamente la storia di Licata

ante deductio, poiché ci mostra uno spaccato netto e sicuro della situazione del territorio.

Testimonianze fisse di questi agglomerati agricoli della fase precedente alla fondazione di Finzia,

sono gli innumerevoli palmenti atti alla produzione vinaria che si trovano lungo tutta la montagna di

Licata224

. La decadenza di Finziade fu graduale e molto probabilmente fu dovuta all’ interramento

già menzionato del suo porto e allo spostamento degli interessi economici verso l’oriente, in seguito

alla conquista dell’ Egitto tolemaico del 31 a.C.

.

224

Amato 2012, pag. 25 ssg.

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VI Rotte, merci, uomini : studio dei rapporti commerciali tra la Sicilia

meridionale e Cartagine, tra la tarda repubblica e impero.

I rapporti commerciali tra la Sicilia e l’Africa cartaginese, come già ampiamente trattato in

precedenza, sono attestati fin da epoche antichissime.

Le rotte che collegano le due sponde mediterranee sono svariate e molteplici e toccano praticamente

l’intero settore africano tra capo Bon e il settore meridionale della Tunisia, assieme all’intero

settore meridionale della Sicilia. I capisaldi di queste tratte erano i porti di Siracusa e Lilibeo per la

Trinakria e porto di Cartagine, assieme ad una serie di strutture portuali minori sorti lungo la costa

africana. Tra l’ isola ed il continente africano, oltre ad un braccio di mare largo nel suo punto più

stretto 90 km, ci sono una serie di isole e arcipelaghi che svolgono oggi come allora tappe

all’interno di rotte già delineate. Tra i prodotti esportati dalla Sicilia verso l’Africa oltre allo zolfo e

all’apprezzatissimo vino siculo, vi era un altro materiale molto importante per la marineria, del

quale la Sicilia era un vero e proprio magazzino all’epoca, il legname225

.

Importante ruolo commerciale sulla tratta Sicilia-Nord-Africa aveva poi il sale, l’allume delle Eolie,

forse lo zafferano, il miele e il cuoio, anche se di queste esportazioni non rimangono tracce fisiche

poiché erano contenute in materiale deperibile226

. Punti focali di passaggio per merci e uomini sono

l’arcipelago maltese e Kossyra l’odierna Pantelleria. Già il primo portulano, il periplo dello Pseudo

Scilace riferibile al IV secolo a.C., menziona l’isola quale tappa intermedia tra Capo Bon e Lilibeo.

L’importanza dell’isola, quale scalo marittimo, può essere desunta anche dal riferimento che ne fa

Stabone nella sua opera227

. Pantelleria viene attraversata per secoli da un traffico fitto di navi e

merci, favorito dalla sua posizione geografica favorevolissima. Le anfore ritrovate soprattutto

durante ricerche subacquee, sono la testimonianza più diretta della vitalità economica dell’isola,

dallo studio di esse è desumibile da un lato l’importanza commerciale di Pantelleria, dall’altro la

testimonianza di effettivi consumi in ambito puramente locale, lo studio dell’economia isolana con

quella più in generale mediterranea si intrecciano228

.

225

Vino: Romanelli 1959, pp.217-218; zolfo: De Miro 1982-1983 pp. 319-320 226

De Salvo 2008, pp. 1517-1519 227

Strab., XVII, 3, 6 228

Baldassari-Fontana 2000, pp. 953-989

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108

Lo studio della sigillata africana nel micro-contesto dell’ isola è risultato decisivo per capire

l’andamento dei commerci e quindi delle importazioni commerciali dall’Africa: sommando i dati

del centro urbano e delle campagne si nota che vi è una presenza massima nel II secolo d.C.,

con un decremento tra III e IV secolo d.C., poi uno stabilizzarsi dei valori tra V e VI secolo, infine

un calo, più o meno sensibile, nel VII secolo d.C.229

Pantelleria non rappresentava l’unico approdo mediano della traversata siculo-africana, la rotta

poteva venire a coincidere infatti con l’arcipelago delle Pelagie e precisamente con la sua isola

maggiore, Lampedusa. La sua posizione geografica, favorevolissima come punto d’approdo per le

navi da trasporto, rappresentava un punto di sosta fondamentale per rifornimenti e vettovagliamenti.

Le prime campagne sistematiche di scavo vennero realizzate dalla sovrintendenza di Agrigento nel

triennio 1985-1988. Nei diversi saggi aperti in svariati punti dell’isola furono ritrovati una grande

serie di frammenti di TSAD, cronologicamente databili tra il III e IV secolo d.C., indice chiaro di un

commercio, anche solo di passaggio, con l’ Africa notevole. Precisamente nella zona dell’odierno

porto poi furono ritrovate grandi vasche, correlate da evidenze ceramiche, ipotizzabilmente

utilizzate come costruzioni per la salagione del pescato. La presenza di ceramica tardo-antica è

indice di una frequentazione ricca e dettagliata almeno a partire dal tardo-romano230

. Malta e

l’economia maltese a sua volta, furono favorite dalla felice posizione strategica tra Sicilia ed Africa,

a differenza di Pantelleria e Lampedusa, l’ altra isola di “passaggio” fondava la sua ricchezza sia

sulle rotte commerciali e sui traffici che quotidianamente la investivano, ma fungeva anche quale

luogo di frequentazione o forse di residenza per illustri personaggi del mondo romano. La sosta a

Malta risultava essere vantaggiosa per i mercatores e gli imprenditori che dal I secolo a.C.

gravitavano in Sicilia ed in Nord-Africa, proprio da ciò nasce il potenziamento dell’arcipelago delle

sue strutture portuali, conferma storica ci giunge direttamente da Diodoro Siculo231

.

L’autore d’origine, siceliota nella sua opera dichiara che i maltesi si erano arricchiti col tempo

grazie alla presenza di emporoi, situazione riferibile sicuramente all’epoca punica ma che può

essere benissimo trasposta alle epoche successive232

. Gli stretti rapporti commerciali tra la Sicilia e

l’Africa ad ogni modo, furono incentivati innanzitutto dalla relativa vicinanza tra queste due terre,

elemento che le marinerie greche e cartaginesi non trascurarono. L’economia siciliana e quella

cartaginese hanno, come facilmente intuibile, delle forti analogie in comune: innanzitutto il clima,

le due rispettive macro-regioni godono infatti di un benessere climatico che ha permesso fin dalle

229

Massa 2000, pp. 948-951. 230

De Miro, 1988-89 pp 231

Diod. Sic., V, 12,1-4 232

Bruno 2000, pp. 1067-1071

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epoche più antiche uno sviluppo socio-economico notevolissimo.

Su entrambe le sponde del Mare Africanum si coltivavano, e relazionando il tutto col presente si

coltivano, le stesse colture anche se vanno fatti dei distinguo su produzioni maggiori e minori cosi

come sull’ import-export all’interno del mondo romano.

Dal punto di vista meramente geo-pedologico la natura del terreno, africano-costiero e siciliano è

pressoché simile. Sia nell’ Africa mediterranea sia in Sicilia sono presenti terreni ricchi di sostanze

minerali e di humus elementi che naturalmente non possono che conferire una certa floridezza al

terreno. Per quanto riguarda la fascia l’Africa cartaginese, oltre alla fertile fascia costiera, risulta

altrettanto, se non più florido, il settore interno vallivo dell’ unico vero fiume di questo settore, il

Medjerda/Bagradas. Quest’area geografica è contornata da una fascia collinare ricca e soprattutto in

antico ben coltivata. Un’analisi dei diversi contesti archeologici della zona attorno al fiume ha

restituito dati piuttosto interessanti: la coltivazione principe, anche osservando la situazione odierna,

risulta essere quella dell’ olivo(v. sopra, cap. I). Proprio la produzione di olio ed il commercio di

esso stesso rappresenteranno il continuum storico-economico tra l’epoca romana e la fase tardo-

antica, prova ne sia il fatto che dal IV secolo d.C. i contenitori oleari per l’Africa settentrionale

diventano “fossili guida”233

. Il grano e i cereali in genere rappresentarono anch’ essi una grande

fonte di ricchezza, visto che dati archeologicamente provati ci dicono chiaramente che l’ Africa

proconsolare soprattutto durante l’alba dell’ impero, quando il collegamento con l’Egitto non era

ancora così diretto come lo sarà successivamente, inviava a Roma i 2/3 del fabbisogno granario

della capitale234

. La Sicilia, con la genesi dell’impero, vide notevolmente ridotte le sue esportazioni

cerealicole verso Roma, tant’ è che nel I sec d.C. essa si limitava a contribuire con solamente l’

1/1,5% alla domanda frumentaria di Roma e più in generale dell’intera penisola.

Cartagine stessa era la più grande installazione portuale della provincia, non deve stupire quindi il

dato storico-archeologico che vuole il convogliamento di tutte le merci o quasi verso lo scalo

cartaginese.

Anche la ricca provincia di Tripolitania e soprattutto l’entroterra lepicitano, per lo stoccaggio e la

partenza delle merci aveva in Carthago un rilevante punto di riferimento, almeno fino

all’imponente porto fattovi costruire proprio a Leptis Magna da uno dei suoi illustrissimi figli,

Settimio Severo.

Durante le innumerevoli campagne di scavo a Cartagine, tra i molteplici isolati scavati, soprattutto

in zone dove sorgevano agglomerati residenziali sono state messe in luce evidenze particolari come

i mulini, elemento che conferma ancora una volta la connotazione produttivo –commerciale delle

233

Palmieri 2008, pp. 1081-1087 234

Gius. Flav., II, 383-386

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110

comunità nordafricane, anche in contesti cittadini ricchi235

.

Le missioni cartaginesi hanno poi messo in luce una grandissima quantità di materiale ceramico dai

vari saggi effettuati nell’areale della colonia augustea.

Il dato ricavato, ci mostra una dettagliata panoramica delle transazioni ed dei movimenti

commerciali di una delle città più importanti dell’impero, la seconda dopo l’ Urbe nell’ occidente

romanizzato. Fortissima risulta essere la presenza di ceramica africana locale, apprezzata soprattutto

come contenitore oleario e come contenitore di conserve ittiche. Comparando il dato della

stratigrafia cartaginese con quello desunto da contesti ostiensi e principalmente dalle terme del

nuotatore, se ne desume che le importazioni verso la capitale di olio e garum fino alla fine de IV

secolo risultano fitte. Il quadro cambia invece dal V secolo in poi, quando le tipologie sopracitate

scompaiono per dare spazio a contenitori cilindrici con dimensione e volume superiori. Alle

produzioni locali si affiancano ceramiche di tipo orientale, segno d’intensi scambi commerciali con

l’oriente (Grecia, area Siro-palestinese.).

Riassumendo è possibile affermare che dal I secolo d.C., Cartagine risulta inserita benissimo nei

contesti commerciali mediterranei, nel II secolo invece è riscontrabile una fortissima presenza di

ceramica locale, questo fenomeno è spiegabile con la grande crescita economica che investì la

provincia in questo dato momento storico.

La forte economia cartaginese non aveva quindi bisogno in maniera vitale dei prodotti derivati dalle

importazioni, ne deriva un’autosufficienza economica determinata non dalla crisi ma da un’

altissima prosperità che svincolò l’ex capitale punica dalle dipendenze commerciali.

Si assiste quindi, a causa del predominio dell’elemento africano sui mercati, ad una

provincializzazione degli scambi correlata da una meridionalizzazione delle produzioni236

.

La tendenza cambia decisamente nel V secolo d.C.: si riscontra infatti una tendenza al rialzo delle

importazioni, dato indice di un periodo di difficoltà per la comunità africana la quale non era più in

grado di rendersi autosufficiente237

. Risulta opportuno comunque svincolare le esportazioni di

derrate alimentari, liquide e non, dalle esportazioni di ceramica d’artigianato.

Quest’ultima infatti è da considerarsi un altro grande cavallo di battaglia della florida economia

africana, basti pensare che ad un certo punto risultò più economico comprare ceramiche fini da

235

Di Stefano 2010, pp. 557-573. Per Cartagine a seguito di un recente censimento dell’edilizia residenziale, sono stati

censiti ben 28 edifici, di questi solo uno scarso 9% presenta connotazioni tipiche di tabernae, un dato numerico in

ribasso rispetto ad altri contesti cittadini. 236

Panella 1986, pp. 435-436 237

Panella 1983, pag. 53 ssg. Da un quadro sinottico degli indici di presenza dei contenitori da trasporto attestati nelle

stratigrafie della missione italiana a Cartagine risulta impressionante il dato tra la presenza di ceramica africana nel II

secolo (53%) e quella della stessa tipologia nel V secolo (31,4%). Di contro è evidente l’aumento in percentuale della

ceramica orientale nei due dati periodi, si passa infatti da un’assenza di importazioni fino alla prima metà del IV secolo

ad una percentuale totale di Late Roman quasi vicina al 20%

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mensa africane rispetto a ceramiche fini locali238

. Un posto di rilievo è assunto dalle lucerne di

provenienza africana, reperti presenti in maniera considerevole in diversi contesti a partire dal II

secolo d.C. Le lucerne africane si fecero via via strada imitando inizialmente le produzioni italiche,

successivamente si specializzarono creando modelli propri.

Nel grande mercato di Ostia ad esempio, già succitato per il materiale anforico, in età antonina le

lucerne di fattura africana risultano assenti mentre dall’età severiana il dato inizia a crescere

gradualmente.

Le lucerne in TSA furono esportate in tutta la pars occidentalis ed in Egitto, più sporadiche

risultano ad Oriente. Solo in un’epoca successiva, che va oltre l’orizzonte romano, l’età bizantina

esse risultano presenti in contesti orientali a causa della loro simbologia correlabile al

cristianesimo239

.

Venendo allo specifico caso delle esportazioni di questo materiale di pregio in Italia, sono due le

forme maggiormente attestate: la forma X e la forma VIII. Analizzando il contesto siciliano

lampante risulta ad esempio, il menzionato ritrovamento in Contrada Monumenti (Gela) di una

lucerna africana di forma X, evidenza estremamente diagnostica per il commercio di questa

tipologia ceramica. Altro esempio di recentissima scoperta ci giunge dal sito di Monte San Angelo

in Licata, qui le ultime ricerche hanno riportato alla luce una lucerna di chiara fattura africana

all’interno di contesti ipogeici. Si tratta di un grande complesso catacombale, collocabile tra la fase

tardo-antica e quella bizantina.

La lucerna ha la particolarità di avere impressa sulla parte superiore il Menorah, il candelabro a

sette braccia, chiaro rimando alla tradizione giudaica240

. Questi topòs in ogni caso risultano

estremamente presenti nei contesti siciliani sia per la vicinanza geografica tra Sicilia e Africa sia per

i legami storico-economici che da sempre anno contraddistinto le due sponde del mediterraneo

centro-meridionale241

. Oltre alle ceramiche, apprezzatissimi erano i marmi africani nei mercati

imperiali: ancora una volta il rinvenimento di relitti con carichi pesanti fornisce una giusta ed esatta

osservazione degli export africani.

Per la precisione, bisogna analizzare il contesto subacqueo del relitto delle colonne nelle acque

della Sicilia sud-orientale. Il carico dell’imbarcazione era costituito per lo più da materiale

“pesante”, anche se non bisogna escludere oggetti di vero e proprio artigianato artistico come il

vaso metallico intarsiato con pasta vitrea azzurra. La parte più importante del carico risulta però

238

Panella 1986, pp. 445-446 239

Anselmino 1986, pag. 228 ssg 240

I dati di scavo, ancora in fase di studio, sono stati resi noti in via eccezionale all’interno di un convegno svolto

nell’aprile del 2012 a Sciacca e presieduto dal Professor Gioacchino La Torre. Seguirà in futuro a scavo completato, la

pubblicazione dei lavori.

241

Pavolini 1984, pag. 241 ssg.

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essere formata da due grosse colonne, apparentemente ben conservate, provenienti dalle cave di

Chemtou242

.

Si tratta del pregiato e richiestissimo marmor Numidicum, detto anche giallo antico, usato per

diversi fini edilizi a Cartagine243

.

Il carattere economico-commerciale siciliano invece risulta estremamente diverso: nell’isola, dopo

la fase delle eupaleis, si stabilirono col tempo landowners di stirpe nobiliare, con relativi

importanti incarichi a Roma. Essi infatti, stabilirono molte delle loro tenute sull’ isola perché

geograficamente vicini a Roma e all’Italia stessa quindi al centro del potere.

La produzione siciliana si basava su cereali in primis, l’isola era stata per secoli la celeberrima

fornitrice dell’ annona romana, solo con la conquista dell’Egitto tolemaico il suo ruolo fu

ridimensionato, anche se le produzioni continuavano in maniera notevole verso mercati tanto ricchi

quanto meno prestigiosi. Il commercio dei prodotti cerealicoli rimase in mano ai proprietari terrieri

per buona parte dell’ impero, questo fattore fu determinante per la presenza costante dei ricchi

proprietari in Sicilia poiché godettero di una sorta di monopolio commerciale e produttivo.

Il vecchio sistema della decima come indennizzo per le produzioni, che prevalse durante la fase

repubblicana, poi fu abolito e fu sostituito da un sistema fisso di stipendia.

Sull’ organizzazione dell’approvvigionamento granario e sulla relativa esportazione, siamo però

poco informati. La risorsa frumentaria costituiva il sangue che circolava senza interruzione nelle

arterie dell’impero, il suo controllo era fondamentale, poiché la mancanza di essa poteva portare a

delle vere e proprie turbe244

. Il mercato annonario della capitale, e dell’Italia in genere, era schiavo

dei commerci oltremarini, poiché il trasporto dei vettovagliamenti via mare aveva un costo

sorprendentemente minore rispetto al trasporto via terra. Il sistema dei trasporti su scala

mediterranea comportava una grandissima mobilitazione: la stazza media di una nave oneraria

romana adibita al trasporto della res frumentaria, si aggirava teoricamente tra i 50.000 modii

(340/400 tonnellate), in pratica come dire una serie di almeno 800 trasporti dalle province

oltremarine all’ Italia, durante la stagione nella quale il mare era navigabile(fine maggio-fine

settembre).

In sostanza i trasporti erano effettuati anche con imbarcazioni ben più piccole (10.000 modii), con

una mole di trasporti di conseguenza più grande.

Nei porti marittimi il grano veniva poi trasferito su imbarcazioni più piccole dette naves

caudicariae, a Roma ad esempio esse risalivano il Tevere tramite la tecnica dell’alaggio, una volta

242

Parker 1975, pp.25-29 243

Di Stefano 2002, pp. 627-635 244

Basti pensare a tal proposito che Clodio nel 58 a.C. fece passare una legge frumentaria che prevedeva la consegna

gratuita a Roma di una parte del bene, ma le frumentazioni, cioè le elargizioni gratutite di frumento, esistevano da ben

prima ed erano un forte strumento di potere.

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arrivate nei pressi degli horrea le merci poi venivano immagazzinate da personale addetto a ciò e

immesse successivamente sul mercato245

. Sono giunte fino a noi alcune testimonianze epigrafiche,

riguardanti personaggi influenti, sui vettovagliamenti dei beni cerealicoli; un’ iscrizione di Efeso

cita infatti un efesino che aveva fatto un certo tipo di carriera tanto da conseguire il titolo di

Protomagister frumenti municipalis provinciae Siciliae, durante il regno di Domiziano, il

personaggio in questione è un tale C. Vibius Saltuarius.

Alcuni studiosi hanno interpretato il testo collegando il nome di quest’ ultimo come amministratore

del grano prodotto sull’ ager publicus, altri invece lo vedono come responsabile del prefetto

annonario sull’ isola, incaricato di gestire il rifornimento e le spedizioni di cereali verso l’Urbe.

Lo stesso individuo poi è incluso come Protomagister portuum provinciae Siciliae, un ruolo

piuttosto importante e di responsabilità, poiché comprendeva la gestione riguardante le rotte e

l’amministrazione nei porti provinciali.

Durante la repubblica, di contro, non si aveva un unico magistrato incaricato di visionare le varie

situazioni portuali, ma ogni città portuale aveva i propri magistrati per la supervisione dell’ import-

export dei prodotti.

Le tipologie cerealicole maggiormente coltivate in Sicilia e commerciate in tutto l’impero erano

molteplici. L’ importanza dei cerealia la si nota facilmente analizzando la situazione della piana di

Catania in antico: oggi ci appare come un’ immensa distesa di agrumi, all’epoca invece era una

grandissima monocoltura cerealicola. Tutto l’anno l’isola godeva di una produzione cerealicola

costante, tant’è che Plinio nella sua Naturalis Historia menziona diverse specie di frumento: il

triticum ad esempio, seminato in autunno e giunto a maturazione nella tarda primavera (oggi questo

prodotto agricolo copre solo il 2% della superficie agraria della Sicilia). Evidenze nella coltivazione

di questo cereale nelle sue due accezioni, monococcum e durum ci giungono da un deposito del V

secolo d.C. nei pressi della località di Montallegro (AG). Altre due varietà, dicoccum e triticum

comportum sono invece state identificate nella Sicilia orientale assieme ad attestazioni di orzo e

miglio. Altra fonte di ricchezza era sicuramente costituita dalla coltivazione della vite e dalla

produzione relativa del vino. Le fonti cosi come per i cereali, parlano di una innumerevole quantità

di vitigni dalle quali si ricavano tipologie vinarie differenti.

Nel nord-est dell’ isola veniva prodotto il Mamertinum, classificato da Strabone come il più grande

rivale dei vini italici, era ricercatissimo non solo a Roma ma anche sui ricchi mercati africani.

Il vino dell’ agro di Taormina era secondo Plinio spacciato per Mamertinum ma non aveva le stesse

qualità enologiche del primo. Nelle zone più interne era prodotto poi il Murgentinum, proprio nei

245

Per Alaggio s’intende una tecnica di traino su terraferma di una suddetta imbarcazione, poteva avvenire manualmente

o tramite l’utilizzo di forza animale, celebre è la rappresentazione che fa di questa tecnica Orazio nel libro V delle Satire

(V, I, 5, 3-26 ) durante il traino in notturna della piccola chiatta sul decennovio.

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pressi della città di Morgantina. Un vitigno famoso per gli esperimenti agrari subiti in epoca

repubblicana al fine di farlo impiantare in Campania, altro elemento che testimonia la ricercatezza

del vino siciliano nel mondo romano. Il Mesopotamium era un vino conosciuto ampiamente e per

questo citato spesso dalle fonti.

Era prodotto nella zona compresa tra Gela e Camarina, detta per l’appunto Mesopotamio in un

ricco e fertile areale compreso tra il fiume Dirillo e l’ Ippari246

.

Attestazioni del commercio di questo vino ci arrivano perfino d’ oltralpe e precisamente dal sito di

Vindonissa in Svizzera. Interessante infine, per il dato economico-commerciale, è un Titulus pictus

scoperto durante lo scavo di un settore abitativo proprio a Cartagine che ci permette di capire

ulteriormente le importanti relazioni tra Sicilia e Africa Proconsolare. L’ opera reca la data

consolare del 21 a.C. ed il probabile latifondo di produzione AV[…] ed infine il nome di tale

Afranius Silvius.

Questo personaggio citato era sicuramente il navicularis dell’ imbarcazione che trasportava il

carico ma potrebbe essere anche il nome del proprietari del latifondo, anche perché un altro Afranio

è ricordato su un bollo anforaceo proveniente dal territorio di Mineo (CT), dove probabilmente è da

collocarsi il fundus. Tutto ciò non può apparirci strano poiché molto spesso il navicularis e il

mercatores erano figure coincidenti, a seconda dei contesti l’individuo poteva presentarsi come

meglio gli conveniva. Questione annosa da sempre battuta risulta essere quella della partecipazione

diretta di senatori ai traffici marittimi anche dopo l’interdizione di Claudio del 218/219 a.C.

(plebiscitum claudium). Esiste infatti una forte confusione tra i vari membri che componevano l’

“organigramma” marittimo. Per individuare gli uomini attivi in questo settore di grande aiuto sono

stati i vari ritrovamenti subacquei: ceppi d’ancora, tituli picti ecc. i quali se bollati, hanno permesso

di identificare i protagonisti delle rotte mediterranee. Tra i numerosi operatori dei commerci

transmarini moltissimi erano liberti ed in qualche caso anche gli schiavi. Forse i più virtuosi tra essi,

i quali agivano anche con una discreta autonomia. Esempio lampante di quanto affermato in

precedenza viene direttamente da due ceppi d’ancora recuperati nel mare antistante Palermo e

Cagliari: i reperti riportano incisi il nominativo Nicia Villii L(uci) s(ervus), vivida testimonianza

della parziale autonomia della quale godevano queste figure grazie all’actio institoria247

. Molte

volte essi erano legati a gruppi familiari abbastanza noti come gli Utii o gli Iunii narbonesi, per non

parlare dei Calpurnii puteolani248

.

Le rotte maggiormente battute dalla marineria romana erano molteplici, il mare era il luogo principe

per eccellenza su trasporti a vasta scala, era una sorta di grande autostrada dove merci e uomini

246

Wilson 1990, pp. 190-191 247

Hesnard-Gianfrotta 1989, pag. 437 248

Gianfrotta 2007, pp. 65-66

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comprese le idee viaggiavano a passo più spedito. Sicuramente però la navigazione, soprattutto

quella ad ampio raggio presentava delle grosse difficoltà; i rischi incombenti erano il naufragio con

la perdita di uomini e del prezioso carico, era consuetudine infatti affidarsi a numi tutelari per le

navi che solcavano i mari, a tal proposito proprio il satiro di Mazara, splendida evidenza

archeologica dei mari siciliani, potrebbe rappresentare un vivo esempio di nume che “vegliava” sull’

imbarcazione secondo la tesi del Di Vita249

. Ad ogni modo gli armatori erano consapevoli della

perigliosità della navigazione, ecco perché Claudio nel 51 a.C., dopo un feroce malcontento

popolare per la mancanza di frumentò, cercò di stimolare i viaggi transmarini anche durante periodi

dell’anno piuttosto proibitivi (il cosiddetto mare clausum, da ottobre ad aprile.), tramite contratti

ricchi e vantaggiosi per gli armatori.

Fece infatti da assicuratore alle perdite subite dai navicularii in seguito ad un ipotetico naufragio,

assicurando agli stessi armatori che trasportavano carichi superiori ai 10.000 modii dei privilegi

dopo 6 anni di servizio (ius Quiritium).

Una delle rotte maggiormente battute e trafficate era quella che collegava l’Africa, e soprattutto

Cartagine, con l’ Italia e nello specifico la Sicilia, la prima vera testa di ponte verso la penisola.

Selinunte, a causa della sua posizione geografica, protesa cosi come Lilibeo verso il continente

africano era una delle poleis siceliote, ed in seguito in epoca romana il sito costiero di Thermae

selinuntinae, più legata ai contesti africani. Anche Akragas non era sicuramente da meno essa infatti,

secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, vendeva con profitto fin dal V secolo a.C. ai mercati

africani olio ma soprattutto vino250

. Con l’arrivo dei romani comunque i rapporti diretti tra le

popolazioni africane e siceliote diminuirono, data la prepotente intromissione dei mercatores italici,

di contro però nel periodo repubblicano le relazioni economiche subirono un forte stimolo e nuova

linfa dalla situazione venutasi a creare in seguito alla distruzione di Cartagine del 146 a.C.

La conquista totale e diretta dell’Africa unita alla creazione della provincia dell’ Africa Nova, attirò

nella prima capitale provinciale, Utica, e ne suoi porti principali, gruppi di equites romani. Costoro,

dovendo spesso toccare i porti di Sicilia per raggiungere l’Africa, inserirono ben presto l’isola

all’interno di importanti e vitali rotte mediterranee. Giunsero quindi anche in Sicilia gruppi di

latifondisti italici e romani, si venne a creare quindi uno sviluppo socio-economico tra le due

sponde del canale di Sicilia, legate ora come non mai da un unico filo conduttore, Roma.

Dopo le guerre puniche furono quindi speculatori privati a mantenere in vita contatti tra le due

249

C. A. Di Stefano 2004, pp. 84-85. Secondo la tesi del Di Vita (A. Di Vita, A. Di Vita, Il Satiro di Mazara era una

“tutela”?, in Archeologia del Mediterraneo. Studi in onore di Ernesto De Miro, Roma 2003 ) il ritrovamento effettuato

nelle acque sicule dovrebbe riferirsi ad un nume tutelare poiché esso presentava all’interno del calcagno sinistro un

incasso quadrangolare per l’alloggiamento della testa di un tenone di sostegno che doveva assicurare la gamba sollevata

ad un supporto. 250

Diod. Sic. XIII, 81, 4-5

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realtà continentali. Il governo romano incentivò la produzione granaria in Sicilia, il proconsole

Levino contribuì a far diventare la Sicilia la cella penaria dell’ Urbe, la monocoltura cerealicola

influì notevolmente sulle tipologie agricole della penisola italica poiché le coltivazioni della

penisola da questo momento si indirizzarono verso la vite e l’olivo.

L’isola perse il suo ruolo di principale esportatrice frumentaria verso Roma, sostanzialmente per

due motivi vicini cronologicamente: innanzitutto in seguito alla guerra scatenata dal ribelle figlio di

Pompeo, Sesto Pompeo che sospendendo gli invii verso la capitale ne fece vacillare il ruolo di cella

penaria, e successivamente altro fattore determinante per la perdita della leadership commerciale

nel settore frumentario fu la battaglia di Azio e la relativa conquista dell’ Egitto nel 31 a.C.

Essa si liberò da quella forte condizione di dipendenza economica che l’aveva contraddistinta per

due secoli, la nuova situazione permise infatti all’ isola di riallacciare o rinsaldare gli storici legami

economici che da sempre l’ avevano contraddistinta con i territori oltremarini africani.

Le rotte e le direttrici commerciali preferenziali tra i due territori vanno ben analizzate, poiché le

differenti posizioni geografiche nell’ isola e nel settore africano favorirono rotte più o meno

vantaggiose, a seconda della collocazione di ciascun sito.

La tendenza preferenziale della Sicilia orientale fu naturalmente verso la Tripolitania e verso la

Cirenaica.

La porzione occidentale dell’ isola invece si rivolse verso i più vicini mercati dell’ odierna Tunisia

concentrati attorno a Cartagine e alla sua area limitrofa. Si vennero quindi a creare due direttrici all’

interno di un’unica grande via di comunicazione, all’ interno della quale, i rapporti tra Sicilia e

Africa in generale, appaiono come il frutto di un’ integrazione dovuta a secoli di contatti piuttosto

che come la conseguenza di un semplice ponte commerciale, relazionabile anche ai bisogni dell’

Urbe. Prova di ciò può essere costituita dal fatto che il collegamento-ponte tra i due territori, entrati

nell’orbita dei più facoltosi cavalieri romani, era una conseguenza ovvia della loro vicinanza

geografica, ma di contro, la funzione di ponte commerciale non è assolutamente avvalorata dal

fatto che l’isola e l’ Africa del nord ebbero contatti fitti anche quando quest’ ultima fu avulsa a

Roma.

La fase post-Azio vide il sempre più decisivo e convinto inserimento della Sicilia e del contesto

siciliano in genere, pienamente con l’orizzonte africano più che con quello italico.

Alcuni provvedimenti imperiali del resto ci permettono di capire in maniera chiara e precisa queste

dinamiche socio-economiche.

All’ interno di questo processo storico va innanzitutto inclusa la scelta di elevare al rango di colonie

da parte di Augusto, tra il 21 e il 22 d.C., stanziandovi gruppi di suoi veterani, le città di Siracusa,

Tindari, Taormina. Catania e Termini.

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117

Questa mossa politica non era destinata a rimanere fine a se stessa, Augusto infatti dopo

l’esperienza avuta pochi anni prima in seguito alla guerra contro Sesto Pompeo, aveva capito che il

possesso ed il controllo stesso dell’ isola passava dal pieno potere dei suoi principali porti, chiavi di

volta di un unico sistema. Potenziando le città portuali principali e le loro strutture, egli si volle

garantire la massima sicurezza possibile sull’isola. Lo stesso piano politico fu sviluppato per il

settore costiero nord africano: la volontà di assicurare protezione alla provincia da parte di attacchi

esterni, fece aumentare il numero di colonie sulla penisola di Caput Bellum, da due a quattro.

La presenza delle quattro colonie era importante, anche perché con questa disposizione Capo Bon

così proteso verso l’ isola non poteva essere usato da eventuali nemici dell’ impero come base di

partenza verso la Sicilia o peggio verso l’Italia. È facilmente deducibile quindi il legame militare-

strategico, oltre a quello puramente commerciale, che giocavano questi due territori, il loro

rafforzamento ed il potenziamento di strutture militari garantiva la sicurezza nell’ intero

Mediterraneo centrale.

Cesare stesso ricorda d’altronde che senza il possesso della Sicilia e dell’ Africa, considerate come

un unicum, era pressoché impossibile difendere Roma e l’Italia.

Altro episodio che ci permette ancora una volta di più di capire il forte legame, generato non solo

dalla vicinanza geografica, è fornito da un episodio avvenuto nel 68 d.C. nell’ambito del cosiddetto

bellum Neronis251

.

Si tratta di un’ emissione monetale, avvenuta sotto l’egida dell’ auto-proclamato propretore d’Africa

Clodio Macro. La moneta emessa presentava al dritto il busto di Cartagine e l’iscrizione

CARTHAGO mentre al rovescio l triquetra con testa di medusa al centro e tre spighe di grano con

l’iscrizione SICILIA. Molti studiosi hanno formulato la loro ipotesi per spiegare questo doppio e

accomunante riferimento, l’ipotesi più verosimile sembra quella che vede in quest’oggetto

numismatico concentrate tutte le mire espansionistiche macroniane.

Un’aspirazione, forse nata dalla voglia di tenere, con la conquista della Sicilia, sotto scacco Roma e

l’Italia nell’ambito appunto dei disordini neroniani252

. L’Africa e la Sicilia rappresentarono pur

sempre dei mercati importanti per l’Urbe, non ricevere più vettovagliamenti da questi territori

oltremarini, come suggeritogli da Calvia Crispillina, significava ridurre alla fame Roma e buona

parte dell’impero253

. Il progetto macroniano infine fu bloccato dall’intervento tempestivo di Galba

che uccise il funzionario ribelle. Con l’avvento della dinastia Flavia, all’ Africa fu riservato un ruolo

principe, poiché lo stesso Vespasiano ad esempio, era stato per lungo tempo governatore in terra

africana. Parallelamente in Sicilia si ebbe una buona ripresa della produzione agricola soprattutto

251

Salmieri 1984, pp. 404-407 252

Bessone 1979, pp. 188-197 253

Tac., I, 73

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nella zona occidentale, nella quale il nuovo princeps assegnò alcuni agri centuriati a suoi veterani

nei territori tra Palermo e Segesta, andando quindi a completare un quadro insediativo già iniziato

un secolo prima con Augusto. Questi presupposti, naturalmente, portarono ad una forte

accelerazione del processo di romanizzazione dell’isola, con una popolazione che ancora, e per

buona parte dell’impero si sentì più greca che romana.

Da Traiano agli Antoninii, i rapporti tra Africa e Sicilia non sono narrati ampiamente dalle fonti

epigrafiche, i dati più interessanti in quest’ orizzonte cronologico ci giungono sia dalle evidenze

archeologiche sia da alcune carriere di proconsoli o procuratori imperiali.

Spesso infatti alcuni personaggi eminenti furono proconsoli d’ Africa e di Sicilia, esempio lampante

ci viene direttamente dal cursus honorum di Pompeio Macrino. Questo personaggio fu prima

Proconsul Siciliae tra il 113-114 d.C. e successivamente tra il 130-131 d.C. fu Proconsul Africae.

Il futuro imperatore Settimio Severo, nativo tra l’altro di Leptis Magna, fu assieme al fratello,

Settimio Geta, Proconsole di Sicilia sotto Commodo.

I proconsoli africani mantennero comunque sempre una chiara specializzazione annonaria, in

relazione alla già citata importanza delle province africane nella cura annonis. Tra il 115 e il 117

d.C. un’ improvvisa rivolta giudaica causò distruzioni varie nelle campagne africane, rendendo

problematico quindi l’invio verso i mercati imperiali di derrate. Questo scenario portò sicuramente

ad una missione dei due procuratori africani verso la Sicilia, per incentivare la produzione

cerealicola e venire incontro alle pressanti esigenze e richieste della capitale.

La presenza di questi due procuratori africani in questo biennio mise in risalto, per l’unica volta nei

primi due secoli d.C., il ruolo dell’isola come produttrice di grano dopo la perdita di questa

leadership economica, in seguito agli eventi del 31 a.C. A parte questo preciso episodio, non si può

escludere il fatto che ogni volta che Roma avesse incontrato difficoltà nell’ approvvigionamento

cerealicolo dall’ Africa e dall’Egitto, si fosse rivolta ai possedimenti siciliani. Col trasferimento

degli interessi governativi da Roma a Costantinopoli nel 332 d.C., l’isola dopo 4 secoli riassunse,

come già menzionato, una posizione di rilievo nel rifornimento granario verso Roma254

. La nuova

condizione di dipendenza da Roma dell’economia isolana, unita poi alla riforma giuridica

dell’apparato statale romano, che contribuì ad inserire l’isola nel contesto dell’Italia suburbicaria

rinsaldò i legami socio-economici tra essa stessa e la penisola.

Questo sviluppo storico-economico non portò comunque alla fine dei contatti col Nord-Africa, anzi

i rapporti transmarini continuarono, prova di ciò fu il grandissimo flusso commerciale che

contraddistinse Africa e Sicilia qualche secolo dopo, con l’arrivo dei vandali, segno tangibile di un

canale preferenziale sempre attivo e mai morto. Il legame che unisce questi due territori può essere

254

Gabba 1982-83, pp. 525-526

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visto anche tramite lo studio delle varie gens omonime sicule e africane, insediatesi tra queste due

terre separate da un solo braccio di mare. Storicamente noti sono difatti i membri della gens Cestia

e Grania attestati a Thermae ed in molti siti della costa africana arricchitesi col commercio granario

e vinicolo. La gens Maesia attestata in Sicilia e ampiamente in Africa, la gens Cassia che sebbene

poco attestata nella Trinacria, resta presente tramite menzione certa nelle tabule sulfuris di

Agrigento, con un chiaro riferimento all’ officina Cassiana collegabile con la suddetta gens.

Questa famiglia con molta probabilità si era trasferita dalla Proconsolare nell’isola e aveva

realizzato le sue fortune col commercio dello zolfo, una delle materie prime esportate sul suolo

africano255

. L’attività estrattiva dello zolfo era realizzata tramite conductiones, cioè affitti delle

cave a conductores. Queste miniere delle quali la Sicilia ne era ricchissima fino al II secolo d.C.

erano gestite da privati. Successivamente, forse dopo la presa di coscienza da parte dell’imperatore

che esse potessero essere un ‘ottima fonte di rendita, passarono al controllo imperiale che le

subaffittava sotto il pagamento di un’ imposta, il pretium sulla base di una professio. Il mercato

sulfureo conobbe una crisi nei secoli centrali dell’ impero per poi avere una forte ripresa da

Costantino in poi256

. Al contrario delle miniere di zolfo le cave d’argilla o figline furono gestite

dagli stessi privati che gestivano i vari latifondi, poiché considerate esse stesse piena parte dei

possedimenti privati. Questa situazione perdurò ampiamente anche in età imperiale anche se la

pressione fiscale ed il controllo doganale man mano si fecero sempre più forti257

.

Il trend d’import-export, riguardante Africa e Sicilia che risulta dall’analisi delle varie situazioni

storico-commerciali, riepilogando i dati raccolti, appare così delineato:

Dalla Sicilia verso l’ Africa;

- Il vino risulta essere la merce maggiormente commerciata ed esportata verso i territori

africani

- Altri prodotti (zolfo, sale ecc.) seguono negli andamenti le richieste di vino siculo ma

nessuno ne batte la ricerca sui mercati d’Africa

Cartagine presenta diverse attestazioni anforacee di vini siciliani piuttosto apprezzati. Questo

mercato vinicolo risulta avere le sue origini in epoca tardo-repubblicana resta però ampaimente

attestato durante la tarda-antichità.

Le anfore Keay LII, sono anfore diagnostiche in tal senso, poiché una volta si credeva provenissero

da un areale orientale, oggi invece si è certi che essa abbiano avuto una provenienza calabro-sicula,

la loro presenza a Cartagine è la più importante testimonianza d’esportazione di vino siceliota nel

continente africano. Naturalmente le Keay LII sono anfore piuttosto tarde , ciò non implica il fatto

255

De Salvo 2008, pp. 1518-1519 256

Manganaro 1988, pp. 27-28 257

Manganaro 1988, pp. 30-35

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che i commerci e le transazioni avvennero solo in epoca tarda, le esportazioni infatti dovettero

essere abituali per la Sicilia, testimonianza di ciò è rappresentata dalla presenza stabile sul suolo

africano di ceramiche “antenate” della Keay LII, la Dressel 1, 2-4 e 6 di chiara origine siciliana

testimoni di un flusso commerciale ben più antico.

Dall’ Africa verso la Sicilia;

- L’olio, nell’indice degli export verso la Sicilia, la fa da padrone, prova di ciò sono le

immense tenute a produzione olearia site nelle varie zone fertili tra Tripolitania, Cirenaica e

Proconsolare.

- Si può benissimo affiancare al ricco export dell’olio, il commercio di ceramica fine

d’artigianato, richiestissima in Italia e soprattutto in terra sicula.

- Il marmo africano, circolante per tutto l’impero, doveva avere un ruolo edilizio anche in

Sicilia.

- Da non sottovalutare il mercato che ebbero le ferae africane per le venationes.

Questo fitto export s’intensificò soprattutto nei secoli II e III d.C., l’olio divenne man mano il

prodotto di punta esportato verso la Sicilia e verso l’Italia, soppiantando gradualmente il

monopolio economico in questo campo avuto dalla penisola iberica.

Interessante è osservare che i principali centri di produzione ceramica coincidano con gli

altrettanto principali distretti olivicoli, impianti oleari e fornaci ceramiche vivono di paripasso,

ulteriore conferma della commistione profonda del commercio congiunto di olio e ceramica.

Esempio lampante di questa commistione commerciale ci viene direttamente dall’ entroterra

lepicitano, qui negli stessi contesti si trovano attestazioni di oleifici e fornaci per produzioni

industriali di ceramica258

.

Gli ateliers africani quindi, in special modo quelli produttori delle celeberrime lucerne, riscossero

grande successo in Sicilia tant’è vero che la percentuale maggiore di lucerne attestate nell’ isola

(27%) riguarda forme prodotte esclusivamente nelle officine africane.

Oltre alle rinomate lucerne un posto importante aveva la produzione di ceramiche fini da mensa.

Le officine di terra sigillata A e D erano ubicate spesso nella Tunisia meridionale e centrale (la

sigillata D era prodotta anche nella parte settentrionale), la Tunisia centrale aveva inoltre l’esclusiva

sulla sigillata C. All’interno dei rapporti siculo africano vanno inserite poi le maestranza nell’

ambito dell’ arte musiva. Gli artisti africani infatti erano maestri nell’arte del mosaico ed erano

ricercatissimi nell’isola, testimonianza diretta di ciò è rappresentata dall’ infinita serie di cicli

mosaici presente nelle ville tardo-romane siciliane. Ad ogni modo uno dei dati più importanti per lo

studio ed il pieno apprendimento dei flussi commerciali tra Africa e Sicilia, ci giunge direttamente

258

Felici-Pentiricci 2002, pp.1875-1900

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dai fondali marini. Molte sono le attestazioni di relitti adagiatisi sui fondali siciliani, molti di essi

recano il loro carico da trasporto estremamente diagnostico per la ricerca.

Sicuramente non tutte le imbarcazioni avevano come destinazione ultima la Sicilia ma una presenza

così massiccia di reperti può essere giustificata solo dalla posizione centrale dell’ isola nelle rotte

mediterranee e dal suo ruolo d’importante passaggio. Uno dei principali relitti che attesta la

presenza di merci africane è da localizzarsi nelle acque antistanti Siracusa, denominato Plemmirio B

databile al 200 d.C259

. Esso contiene materiale anforico proveniente dalla Tunisia e da altre zone

dell’ Africa settentrionale (ceramica Africana I e Africana IIa)260

.

Importanti evidenze ci giungono dal relitto denominato Camarina A databile al 175-200 d.C.

recante un carico di anfore del tipo africana I, contenenti vino e garum dalla proconsolare insieme a

due colonne, spostandoci verso il canale di Sicilia troviamo il cosiddetto relitto di Lampedusa che

presenta, in questo caso, una datazione più tarda (300-350 d.C.) esso presentava un grande carico

anforico, costituito per la maggior parte da anfore di tipo africana II.

Relativamente più vicino alla costa sicula è poi il famoso relitto di Seccagrande, nei pressi di

Heraclea Minoa, il quale recava una discreta presenza di ceramica africana di fine fattura.

Altri relitti, rinvenuti in contesti diversi come quelli gallici, nei pressi di Marsiglia, attestano a

causa del materiale ritrovato a bordo, che il commercio di materiale africano dovesse per forza

passare o transitare per le coste sicule. Emerge quindi un dato importante: la Sicilia ed il Nord-

Africa oltre a commerciare intensamente fra loro erano coinvolte in flussi commerciali notevoli che

dalle stesse provincie portavano a Roma.

I ritrovamenti fatti nei mari siciliani, mostrano l’esistenza di un notevole commercio di transito che

dovette interessare l’isola, prodotti vari di indubbia importanza, sia per l’import-export Africa-

Sicilia sia per gli approvvigionamenti dell’ Urbe.

259

Gibbins-Parker 1986, pp. 267-304 260

Clementina Flesca 2002, p. 1037

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VI.1 Appendice: il relitto di Ognina (Sr) e la centralità della Sicilia nei flussi

commerciali romani.

Geograficamente situato nel tratto di costa posto tra Capo Eloro ed il menzionato promontorio

Plemmyrion, il relitto cosiddetto di Capo d’ Ognina ha restituito agli archeologi che l’hanno

ispezionato delle importanti evidenze archeologiche261

.

Il luogo di ritrovamento risulta topograficamente essere fuori dal contesto studiato in questo lavoro

di tesi, ma una veloce digressione sul ritrovamento subacqueo può essere fatta poiché fornisce

importanti indicazioni al fine di comprendere l’ampio raggio che coinvolgeva la Sicilia tutta nelle

dinamiche e nei flussi commerciali del mondo romano.

Innanzitutto, partendo dall’orizzonte cronologico indagato, consequenzialmente al ritrovamento di

reperti estremamente diagnostici il relitto è classificabile nei primi secoli del III secolo a.C. a

cavallo tra il medio impero e la tarda romanità, un periodo storico estremamente complesso anche

per l’economia e le sue dinamiche. L’isola non è più da tempo la cella penaria dell’Urbe ma

continua attivamente la sua attività produttiva svolgendo, a causa della sua posizione centrale “in

Mediterraneum”, un ruolo estremamente focale per il commercio imperiale. Il carico piuttosto

abbondante della nave presenta diverse tipologie ceramiche: perlopiù sono venute alla luce diverse

quantità di Africana I, Dressel 20 di provenienza Betica usata quasi esclusivamente per lo

stivamento ed il trasporto oleario, massiccia inoltre risulta la presenza di anfore vinarie del tipo

Kapitan I e II. Nei pressi dei resti dello scafo adagiati sul fondale, sono state ritrovate poi tessere di

mosaico, resti di colonnine marmoree con capitelli corinzi, statuette di bronzo e frammenti di vetro

blu. Alcuni pezzi facevano parte della collezione di suppellettili usati dai passeggeri, indice quindi

del ceto medio-alto che si trovava a bordo dell’imbarcazione nel momento dell’affondamento.

Il relitto è stato esattamente datato grazie a ritrovamenti monetali riferibili ad emissioni da Perinto,

Smirne e Bisanzio tra gli anni 215 e 230 d.C262

.

Dopo aver analizzato il contesto dei materiali si è cercato di ricostruire la rotta che la nave stava

seguendo e le sue varie tappe nel Mare Nostrum.

Il luogo di partenza dell’imbarcazione va ricercato con tutta probabilità nell’area betica. Subito

dopo la partenza dalle coste della Spagna meridionale, della quale testimonianza può essere

riscontrata nel frammento di Dressel 20 per il trasporto del rinomato olio betico , il natante si

261

Clementina Flesca 2002, pag. 1038 262

Price 1974, pp. 151-153

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diresse verso l’Africa imbarcando in Byzacena un grosso carico di altro olio e salsa di pesce e

garum. Un’ ulteriore tappa si ebbe, con molta probabilità, nell’ Egeo al fine di caricare del pregiato

vino greco ed infine il viaggio si sarebbe dovuto concludere a Roma.

La nave ebbe molta difficoltà a risalire la costa sud-orientale della Sicilia per raggiungere lo stretto,

e proprio le difficoltà di manovra, forse inasprite da un fortunale, portarono l’imbacazione al

naufragio. La direzione ultima verso Roma è stata desunta poiché al momento del ritrovamento il

relitto si presentava con la prua rivolta verso nord, in chiara risalita verso lo stretto.

Tuttavia non vi è la certezza assoluta, infatti la posizione di ritrovamento potrebbe essere solo

casuale, determinata dalla situazione relativa al naufragio, in ogni caso le probabilità che il viaggio

del relitto di Capo d’ Ognina si dovesse concludere a Roma sono molto alte anche perché non si

capirebbe altrimenti perché la nave avesse un carico così abbondante, se non per soddisfare i ricchi

ed esigenti mercati romani.

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VII Conclusioni.

L’attenta analisi dei vari contesti cha ha contraddistinto questo lavoro di tesi ha portato ad uno

studio sistematico dei flussi commerciali nel Mediterraneo centro-meridionale. Indagando i vari

contesti portuali, sia africani che siciliani, si sono potuti desumere diversi elementi comuni e di

disaccordo fra i siti studiati.

In Africa, Cartagine soprattutto, dopo la sua elevazione a rango di città capitale, la fa da padrone

poiché innanzitutto rimane una delle grandi megalopoli durante tutto l’arco di vita dell’ impero,

inoltre essa funge da gigantesco interporto per tutte le località prossime.

Esistono naturalmente altri contesti portuali analizzati, piuttosto importanti, ma nella fattispecie il

sito cartaginese spadroneggia, andando un po’ in difficoltà allorquando Settimio Severo potenzia le

strutture portuali della sua favorita, Leptis Magna la sua città natale. La presenza in continuum

storico di Cartagine dall’ epoca classica sino ad arrivare alla conquista saracena degli Omayadi con

la sua successiva distruzione, testimonia il peso geo-politico esercitato da questa civitas nel

percorso storico indagato. La ricerca è partita, nel suo sviluppo, dalla riflessione attenta sui contesti

portuali e sulla portuosità sia di Cartagine stessa che della Sicilia meridionale.

Per Cartagine, come già ampiamente trattato, la conformazione geomorfologica della sua costa ha

consentito un impianto portuale di quella rilevanza, sede sia di commerci ma anche di grandi

immagazzinamenti. Al successo del commercio cartaginese hanno contribuito innanzitutto l’esperta

marineria africana, in seconda battuta un fitto sistema di porti minori che contornava il suddetto sito,

e in linea generale l’intera zona di Capo Bon.

La città era vicina a territori fertili e ricchi dal punto di vista agricolo, e disponeva di risorse, come

le ferae, ricercatissime sui mercati d’ogni città romana propriamente detta263

.

Questi fattori garantirono la sopravvivenza e la vitalità socio-economica del sito stesso.

Con l’ingresso in scena degli arabi nel VII secolo d.C., il quadro storico-economico mutò poiché gli

interessi principali si spostarono verso oriente e l’areale in questione perse l’importanza acquisita

nei secoli precedenti. Elemento fondamentale per capire a pieno gli andamenti economici è

naturalmente la ceramica.

Solo tramite un’analisi dei contesti ceramici è possibile ricostruire in maniera piuttosto uniforme i

263

Kuhoff 2002, pp. 2015- 2022. Nell’ editto sui massimi prezzi di Diocleziano una delle merci africane più ricercate

risultano essere proprio le bestie per spettacoli vari.

Basti pensare al ciclo musivo di Piazza Armerina sito all’ interno della tardo-romana villa del Casale.

La rappresentazione della caccia alle belve feroci infatti era un modello per gli artisti africani ma allo stesso tempo

rappresentava un’importante forma di sostentamento per l’economia della provincia.

In questo caso il mosaico e la caccia alle fere costituiscono le due facce di un’ unica moneta che lascia immaginare il

grande rilievo economico dato a quest’ attività esclusivamente africana.

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flussi da e verso l’Africa. Durante la suddetta ricerca è stato notato che nel contesto Cartaginese ed

in altri contesti africani in generale vi è una forte presenza di ceramica d’ origine sicula.

Le esportazioni, in base al dato ceramico giuntoci, erano notevoli ed erano indipendenti dal mercato

dell’ Urbe. La ceramica maggiormente presente nelle varie località africane riguarda materiale da

trasporto o da 1’ immagazzinamento: anfore, spatheia, pithoi ecc. riferibilia produzioni siculo-

italiche.

Per quanto riguarda il versante siciliano, trattando nella ricerca di un areale ben più grande che

dall’estremità orientali ospitanti il sito di Camarina, giunge fino ad occidente e precisamente all’

ager selinuntinus, è stato innanzitutto di primario interesse fare attente valutazioni geomorfologiche

sulla natura degli insediamenti studiati. I contesti portuali studiati sono una decina tutti con

particolari peculiarità di diverso genere, uno di essi, il sito di Manfria, è stato studiato tramite

ricognizioni sul campo con relativa presa visione del materiale.

È facile notare, a prima vista, la portuosità piuttosto omogenea di questi siti della Sicilia

meridionale; essi infatti sorgono nella quasi totalità dei casi lungo o accanto vie d’acqua più o meno

importanti, svolgendo il ruolo fondamentale di trait d’ union tra il territorio e il mare stesso.

La tipologia portuale instauratasi è agevolata dalla conformazione geologica della costa

meridionale dell’isola, per lunghi tratti bassa e sabbiosa, con poche cale e scogliere offrenti rifugio.

Le imbarcazioni venivano quindi, nella maggior parte dei casi, tirate a secco sulla riva in attesa che

il rifornimento fosse finito o che le condizioni climatiche fossero ritornate consone alla navigazione.

Le diverse situazioni archeologiche indagate mostrano un quadro abbastanza completo: è presente

infatti moltissima ceramica da trasporto naturalmente di fattura africana, ma accanto ad essa

altrettanto ingente risulta essere la presenza di ceramica fine come le celeberrime lucerne d’ Africa.

Le attestazioni di rinvenimenti subacquei nel settore centro-meridionale del mediterraneo,

presentano indici piuttosto elevati fino all’ arco di tempo tra il IV/V secolo d.C.

Fino a quest’epoca, e nonostante i problemi socio-politici che l’impero dovette affrontare, i flussi

commerciali risultano abbastanza prosperi e fitti. Un’inversione di tendenza nelle evidenze

archeologiche subacquee si ha dal V secolo in poi; l’indice cambia, non perché erano migliorate le

condizioni di sicurezza sui mari, ma a causa del mutato contesto politico generato dalle invasioni

barbariche il quale aveva causato il taglio di alcune arterie commerciali vitali.

Piuttosto chiaro quindi risulta essere il decadimento economico-commerciale che investì il

mediterraneo durante la fine dell’età romana. Il dato è amplificato da un fattore cardine; poiché da

VI secolo in poi vi sono attestazioni molto più frequenti di relitti nelle acque della pars orientalis,

chiaro elemento diagnostico quest’ultimo, dimostrante lo spostamento degli interessi monetari verso

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Costantinopoli e l’ordinato e pressoché immune impero romano d’oriente264

. L’ intensità degli

scambi commerciali, che comunque per secoli hanno interessato questo tratto di mare, sono la

risultante di sviluppi socio-economici notevoli che portarono, secondo alcuni dati emersi da questa

breve ricerca, questo ristretto settore del Mare Nostrum ad avere una leadership commerciale,

notevole in determinate epoche storiche, indipendentemente dalle relazioni più o meno presenti con

Roma.

Il complesso di queste relationships economiche infatti non può essere ristretto solo alla koinè

culturale dell’impero ma deve guardare piuttosto a connessioni nate da affinità sociali e culturali,

che da secoli hanno contraddistinto le genti di queste terre di confine e continente.

264

Volpe 2002, pp. 239-241

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Ringraziamenti

In queste poche righe finali, e a conclusione di un percorso formativo che ha arricchito il mio

bagaglio di conoscenze tecnico-scientifiche, volevo ringraziare le tante persone che mi sono state

vicine in questi anni di studio e apprendimento.

Il primo saluto va al Professor Maurizio Paoletti e al Dottor Antonino Facella sempre disponibili al

dialogo e al confronto, ottimi punti di riferimento per la mia carriera futura.

Il ringraziamento più grande va ovviamente alla mia famiglia; in primis i miei genitori, vera fonte

d’ispirazione quotidiana grazie ai quali sto avendo la possibilità di crearmi un futuro sereno e

stabile. Non meno importanti sono i ringraziamenti che vanno ai mie fratelli, Luca e Davide, sempre

pronti a sostenermi, ai nonni fonte eterna di saggezza e dulcis in fundo ringrazio sentitamente tutti i

miei zii con cugini e cuginetti. Quest’ ultimi con la loro spensieratezza da bambini hanno

contribuito a rasserenarmi ogni qual volta ne ho avuto bisogno. Infine un grandissimo

ringraziamento va a tutti gli amici sia storici: Angelo B. Angelo Z., Claudio, Fabio , Tommaso,

Marco, Luca e Nino, che “nuovi”: Peppe, Leo, Vincenzo, Umberto, Liliana, Cristina, Claudia, Vale,

Giulia, Alessandro, Raffaele e tutti gli altri. Non posso dimenticare poi i miei coinquilini vecchi e

nuovi sempre presenti nella mia carriera universitaria. Infine un grande plauso va a tutto il Gruppo

Archeologico Finziade dal presidente Fabio Amato, grande amico e collega, passando a Maurizio

Angelo e tutti gli altri, essi col loro prezioso aiuti nelle attività ricognitive hanno contribuito alla

riuscita di questo lavoro. Ringraziando tutte le altre persone non citate ma pur sempre importanti

per il mio lavoro di formazione e crescita, mi auguro che quanto finora svolto sia solamente il

punto di partenza per future soddisfazioni e personali realizzazioni.

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Tavole

Tav. I- L’ eparchia cartaginese nel III secolo a.C.

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Tav. II- L’Africa Proconsolare istituita da Augusto.

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Tav. III- Leptis Magna: il teatro

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Tav. IV- Cartagine: Pianta della città augustea. Si noti la collina della Byrsa come centro di

posizionamento della groma.

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Tav. V- Cartagine: Tratto extraurbano dell’ acquedotto di Zaghouan.

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Tav. VI- Cartagine: le cisterne della Malga e l’orientamento centuriale. 1) grandi cisterne; 2)

acquedotto; 3) Piccole cisterne; 4-9 e 14) strutture legate funzionalmente all’acquedotto; 10,12,13)

resti isolati di cisterne; 11) strutture idrauliche moderne su fondazioni antiche; 15-16) frammenti

isolati di muri e colonne (da Vanderleest 1989)

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Tav. VII- Cartagine: le cisterne della Malga

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Tav. VIII- Cartagine: ricche evidenze archeologiche sul colle di Byrsa, acropoli cartaginese.

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Tav. IX- Cartagine: pianta illustrante la conformazione del porto circolare con relativi hangar.

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Tav. X- Cartagine: i due porti allo stato attuale.

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Tav. XI- Cartagine: Ricostruzione grafica del Kothon.

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Tav. XII- Cartagine: ricostruzione grafica del kothon; particolare dell’ isolotto dell’ ammiraglio.

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Tav. XIII- Cartagine: missione di scavo inglese; shipsheds del porto circolare.

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Tav. XIV- Cartagine: strutture portuali semi-sommerse riferibili ad installazioni del litorale

cartaginese.

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Tav. XV- Pantalica: La necropoli ipogeica, splendido esempio protostorico della Sicilia sud-

orientale

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Tav. XVI- La colonizzazione greca in Italia meridionale.

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Tav XVII- Tabula Peutingeriana : particolare della Sicilia.

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Tav. XVIII- Piazza Armerina: Visione d’insieme del complesso rurale della Villa del Casale.

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Tav. XIX- Cartina della Sicilia con i siti portuali analizzati (Barrington).

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Tav. XX- Camarina: Quartiere abitativo.

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Tav. XXI- Camarina: l’ area archeologica vista dal satellite.

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Tav. XXII- Camarina: ricostruzione grafica della polis di Camarina.

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Tav XXIII- Kaucana: settore abitativo.

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Tav. XXIV- Gela: visione satellitare. (foto tratta da Google maps)

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Tav. XXV- Capo Soprano(Gela) : tratto delle mura timoleontee.

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Tav. XXVI- Gela: l’acropoli di Molino a vento (VI-V sec. a.C.)

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Tav. XXVII- Gela: La collina ospitante il sito di Bitalemi (VI secolo a.C.- V secolo d.C.)

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Tav. XVIII- Gela: Il fiume Desueri, l’antico Ghelas passante per il territorio della statio Calvisiana.

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Tav. XXIX- Manfria: La probabile insenatura che doveva ospitare il refugium Chalis (Foto autore).

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Tav. XXX- Manfria: visione della piana tra i torrenti Scozzarello e Comunelli (Foto autore).

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Tav. XXXI- Manfria: Riutilizzo d’epoca tardo- antica di una tomba a grotticella(Foto autore) .

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Tav. XXXII- Manfria: settore sud- occidentale della necropoli subdivo del sito di Chalis (Foto

autore).

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Tav. XXXIII- Manfria: l’insenatura e l’ipotetica plaga del sito tardo romano di Chalis(Foto autore).

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Tav. XXXIV- Manfria: frammento di ceramica a vernice nera d’epoca ellenistica proveniente dal

settore prossimo al mare (Foto autore).

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Tav. XXXV- Manfria: puntale d’anfora africana (Keay 56 ?) proveniente dal settore delle necropoli

subdivo(Foto autore) .

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Tav. XXXVI- Manfria: puntale di anfora Keay 56 (?) visione della frattura (Foto autore).

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Tav. XXXVII- Manfria: coppo ellenistico (Foto autore).

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Tav. XXXVIII– Manfria: puntale di Spatheion proveniente dal settore coltivato a grano (Foto

autore).

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Tav. XXXIX- Manfria: spatheion, visione in alzato (Foto autore).

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Tav. XL- Manfria: frammento di probabile ceramica LR2 (Foto autore) .

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Tav. XLI- Manfria: orlo di ceramica TSAD (Foto autore).

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Tav. XLII- Manfria: evidenza di probabile ansetta in sigillata africana recante incisione di

Chrismon (Foto autore).

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Tav. XLIII- Manfria: particolari dell’incisione(?) del monogramma di Cristo (Foto autore).

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Tav. XLIV- Manfria: ipotetici resti di blocchi murari dislocati a valle della necropoli subdivo

(Foto autore) .

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Tav. XLV- Manfria: grafico a torta delle evidenze ceramiche.

tipologie ceramiche

TSAD

TSI

LRA2

Greco-italica

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Tav. XLVI- Agrigento: tempio di Eracle, resti dismessi della costruzione templare.

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Tav. XLVII- Agrigento: il quartiere ellenistico-romano.

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Tav. XLVIII- Agrigento: Opera musiva dal contesto archeologico di San Nicola.

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Tav. XLIX- Eraclea Minoa: Il teatro ellenistico.

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Tav. L- Durrelli, Realmonte (Ag) la villa maritimae.

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Tav. LI- Durrelli, Realmonte (Ag) particolare di settori abitativi con pavimentazione in opera

musiva.

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Tav. LII- Selinunte: visione dall’alto del sito abbracciato dai due torrenti, Il Cuttone ed il Modione.

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Tav. LIII- Selinunte: il tempio E identificato come l’edificio templare adibito al culto di Hera.

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Tav. LIV- Selinunte: La foce del Modione nei pressi del sito portuale di Selinunte.

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Tav. LV- Capo Granitola : ritrovamento subacqueo di blocchi marmorei naufragati col relitto che li

trasportava.

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Tav. LVI- Licata: Case ellenistico-romane sull’acropoli di Finziade.

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