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AGRICOLTURA E SCAMBI NELLʼITALIA TARDO-REPUBBLICANA - © Edipuglia s.r.l. - www.edipuglia.it LUIGI CAPOGROSSI COLOGNESI UNA LUNGA STORIA 1. Quando, verso la metà degli anni 60 del secolo scorso – più o meno mezzo se- colo fa, appunto – iniziai a studiare la storia del regime giuridico della proprietà, in Roma antica, due aspetti si vennero progressivamente imponendo alla mia atten- zione, destinati a condizionare sempre più lo stesso oggetto del mio studio. Apparve chiaro anzitutto come la ricostruzione storica del processo di formazione della figura ‘classica’ del dominium ex iure Quiritium e del sistema dei diritti reali avesse dato luogo, sin dalla riscoperta medievale del diritto romano, ad un colossale e intermi- nabile dibattito che avrebbe attraversato tutta la storia della cultura europea, e non solo giuridica. Ma apparve anche assai chiaramente come su questa stessa proble- matica, variamente ma sempre profondamente condizionata da una precoce atten- zione per gli aspetti terminologici 1 , avesse pesato in modo crescente un insieme di rappresentazioni e preoccupazioni di carattere ideologico. Le origini della proprietà ed i suoi primi sviluppi si saldavano così ad una più generale teoria delle origini della società e dello stato. È questa una storia che ho a più riprese ripercorso, sino ad anni recenti, ma, in questa occasione, la lasceremo da parte. Più importante è l’altro aspetto che risultò evidente sin da allora: ed è che una storia del ‘diritto di proprietà’, a Roma, risultava impossibile senza fare i conti con la realtà materiale che esso aveva organizzato. Anzitutto con la sfera economica ed il significato sociale del suo impatto: dove, appunto, sin dai miti fondativi della città, essa appare associarsi alla terra ed alla sua storia. Di qui l’intima connes- sione tra i miei studi giuridici e la storia della terra e delle sue forme di sfrutta- mento: la storia agraria, appunto. Questo, del resto, era già il grande insegnamento dei maestri del passato: penso soprattutto a quella straordinaria generazione di giu- 1 Mi riferisco essenzialmente alla tarda apparizione della terminologia relativa alla nozione astratta di proprietà: dominium o proprietas, non anteriore all’ultimo secolo della repubblica. È questo uno dei motivi che, sin dal Rinascimento, ha suggerito l’idea del precedente impiego di mancipium, il che non è stato privo di effetti sulle teorie intorno alla natura stessa della proprietà arcaica romana. Su tutto rinvio al Cap. I di Capogrossi Colognesi 1969.
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cent anni di storiografia agraria romana

Apr 04, 2023

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LUIGI CAPOGROSSI COLOGNESI

UNA LUNGA STORIA

1. Quando, verso la metà degli anni 60 del secolo scorso – più o meno mezzo se-colo fa, appunto – iniziai a studiare la storia del regime giuridico della proprietà, inRoma antica, due aspetti si vennero progressivamente imponendo alla mia atten-zione, destinati a condizionare sempre più lo stesso oggetto del mio studio. Apparvechiaro anzitutto come la ricostruzione storica del processo di formazione della figura‘classica’ del dominium ex iure Quiritium e del sistema dei diritti reali avesse datoluogo, sin dalla riscoperta medievale del diritto romano, ad un colossale e intermi-nabile dibattito che avrebbe attraversato tutta la storia della cultura europea, e nonsolo giuridica. Ma apparve anche assai chiaramente come su questa stessa proble-matica, variamente ma sempre profondamente condizionata da una precoce atten-zione per gli aspetti terminologici 1, avesse pesato in modo crescente un insieme dirappresentazioni e preoccupazioni di carattere ideologico. Le origini della proprietàed i suoi primi sviluppi si saldavano così ad una più generale teoria delle originidella società e dello stato. È questa una storia che ho a più riprese ripercorso, sinoad anni recenti, ma, in questa occasione, la lasceremo da parte.

Più importante è l’altro aspetto che risultò evidente sin da allora: ed è che unastoria del ‘diritto di proprietà’, a Roma, risultava impossibile senza fare i conti conla realtà materiale che esso aveva organizzato. Anzitutto con la sfera economica edil significato sociale del suo impatto: dove, appunto, sin dai miti fondativi dellacittà, essa appare associarsi alla terra ed alla sua storia. Di qui l’intima connes-sione tra i miei studi giuridici e la storia della terra e delle sue forme di sfrutta-mento: la storia agraria, appunto. Questo, del resto, era già il grande insegnamentodei maestri del passato: penso soprattutto a quella straordinaria generazione di giu-

1 Mi riferisco essenzialmente alla tarda apparizione della terminologia relativa alla nozione astrattadi proprietà: dominium o proprietas, non anteriore all’ultimo secolo della repubblica. È questo unodei motivi che, sin dal Rinascimento, ha suggerito l’idea del precedente impiego di mancipium, il chenon è stato privo di effetti sulle teorie intorno alla natura stessa della proprietà arcaica romana. Sututto rinvio al Cap. I di Capogrossi Colognesi 1969.

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risti olandesi della ‘Elegante Jurisprudenz’, tra XVII e XVIII secolo, che su taliquestioni realizzarono un grande progresso, anche rispetto alla pur ricca stagionedei Culti cinquecenteschi. Si trattava, in fondo, di riprendere e sviluppare un per-corso già iniziato ed ulteriormente, anche se un po’ confusamente, riaffermato nellaromanistica del tardo Ottocento.

Di qui l’inizio di un lavoro che, seppure con interruzioni e a diversi livelli d’ap-profondimento, non ho mai più abbandonato. Che in quei felici anni, dove tutti gliorizzonti s’aprivano e dove tutto sembrava possibile, trovava poi conferma ed unaguida affascinante nella mia frequentazione di Emilio Sereni, ma che ricevevaanche un singolare, seppure sotterraneo, incoraggiamento dall’orientamento difondo del mio maestro, Edoardo Volterra. Mi riferisco al suo accentuato anti-idea-lismo. Di qui l’idea che le costruzioni concettuali ed anche le categorie giuridicheavessero radici forti nelle cose e negli interessi materiali. Anche senza bisognod’esser marxisti, bastava rivalutare adeguatamente quanto di meglio era venuto fa-cendo il vecchio positivismo ottocentesco. E qui, infine, intervenne, prima, il con-fronto quasi d’obbligo per un giovane intellettuale italiano di quegli anni con Marx,e, successivamente l’incontro con Weber. Fu soprattutto questo che, da un lato,m’aiutò a ripensare alle categorie con cui avevo affrontato inizialmente lo studiodi questi aspetti di storia agraria romana, dall’altra mi condusse ad un più vasto ri-pensamento dello stessa utilizzazione dei nostri paradigmi nell’interpretazionedella storia antica, sotto il profilo della sue istituzioni giuridiche e dei suoi rap-porti economico-sociali. Un fortunato incontro di cui il regista fu Arnaldo Momi-gliano nei felici anni pisani, ma che poi si sviluppò nella stimolante quanto amabilefrequentazione di un altro grande sodale di Volterra: Moses Finley.

Al ricordo di questi maestri ed alla memoria della loro amicizia, consolidatanegli anni della tragedia europea, insieme al ricordo di un altro carissimo amico concui tante volte ci siamo incontrati su questi stessi temi, Ettore Lepore, vorrei dedi-care questo mio intervento. Su di esso, per forza di cose, nel ripercorrere anni ormailontani, rievocando opere che appaiono sfumarsi nella memoria storiografica, so-pravvissute talora solo in brevi note, peserà in modo notevole il gioco della me-moria soggettiva. E ciò contribuirà a deformare ancor più la prospettivastoriografica da me tentata: è il prezzo pagato per un tentativo del genere, non soneppure quanto legittimo. Certo volto, non a tracciare bilanci ed ancor meno a darevoti tardivi, ma a cercare, oggi, di comprendere meglio ciò che fu fatto ed a cui, inuna misura minima, io stesso ho partecipato.

2. Negli anni cui ora facevo riferimento, debbo dire, il panorama relativo aglistudi sulla storia della terra e dell’agricoltura, a Roma, era tutt’altro che ricco. Unadelle prime opere in cui m’imbattei allora, indagando sui vari aspetti del regimeproprietario romano, dove ovviamente la signorìa sulla terra era fortemente pre-

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sente, fu la Storia agraria di Max Weber. Un libro, soprattutto nella parte relati-vamente ampia in cui si faceva riferimento agli aspetti giuridici, per me abbastanzaincomprensibile, tanto da suscitare, nel lettore un po’ sprovveduto qual ero, unsenso di estraneità. Lunga sarebbe stata la strada che mi attendeva per incontraredi nuovo quest’opera, e in profondità. Essa, tuttavia, sin da allora mi colpì per dueaspetti. Il primo concerneva l’incisiva e articolata trattazione dell’ager publicusromano, che tanto più s’imponeva per la povertà del successivo lavorìo dei roma-nisti su tale tema, pur così rilevante. Né, debbo dire, ancor oggi, siamo poi giuntia livelli molto migliori, salvo alcuni sprazzi. Il secondo aspetto era poi particolar-mente intrigante, giacché riguardava il rapporto tra forme giuridiche e organizza-zione gromatica del territorio: un tema svolto ampiamente da Weber, in tutta laprima e più ampia parte dell’opera. Qui egli si riallacciava ad un momento altodella scienza ottocentesca, se pensiamo alla grande opera di commento dei Gro-matici veteres nel secondo volume dell’edizione di Blume e Lachmann, in parti-colare ai due saggi di Rudorff e di Mommsen, ma anche a quella splendidatestimonianza della cultura positivista nell’Italia di fine secolo costituita dalle Dot-trine giuridiche degli agrimensori romani di Biagio Brugi. Un legato che appa-riva, allora, tanto più importante giacché ad esso aveva fatto seguitol’impressionante silenzio del secolo successivo, superato solo tardivamente conCastagnoli, Schmidt e Chevallier, seguiti poi da una nuova e più giovane genera-zione di studiosi. Di ciò vediamo oggi molteplici frutti, arricchiti straordinaria-mente dell’utilizzazione delle nuove tecniche di ricerca: prima la fotografia aereaed ora gli strumenti informatici.

Ma le pagine che mi apparvero sin da allora più importanti, del libro di Weber, fu-rono senz’altro quelle dedicate al funzionamento della villa tardo-repubblicana, conuna chiarezza di linguaggio stranamente diversa dal tipo di analisi svolto nella primaparte della sua opera. A cui corrispondeva una convincente e suggestiva lettura diquelle fonti antiche, in primis Catone, su cui già venivo lavorando. Sì, c’era qualcosadi precedente, ed anche pubblicato dalle nostre parti, ma con una prospettiva cosìestranea ad un vero interesse storico-economico da lasciare sostanzialmente indiffe-renti. Esse quindi giustificavano la ben nota affermazione di Mommsen sul loro si-gnificato come inizio di una moderna stagione di studi di storia economica di Roma2.

2 Restano fuori dalla mia visuale sia i primi inizi della storiografia economica ed agraria di Roma,con i saggi di Rodbertus (per non parlare delle vecchie opere di Dickson, peraltro tradotta, ancora gliinizi del ‘900 nella ‘Biblioteca di Storia economica di Pareto e Ciccotti, e di Daubigney). Per quantoconcerne invece la letteratura della prima metà del novecento, sino a tutto gli anni ’60 resta ancor oggidi notevole utilità l’accurata ed argomentata bibliografia, pubblicata nel 1970 da White, purtroppo nonsempre di facile reperimento. Di seguito rinvierò per alcuni autori alla loro citazione ivi effettuata.Con un angolo visuale prevalentemente riferito alla letteratura storico giuridica va anche menzio-nata, la prima bibliografia di un certo rilievo apparsa in Italia ad opera di Volterra 1951. Oggi apparecomunque imprescindibile l’esaustivo panorama bibliografico tracciato da Scheidel 1994, ed ora daLo Cascio 2009.

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Che tuttavia sembrava poi non essere gran che maturata nel secolo succes-sivo 3.

Almeno sino al secondo dopoguerra, infatti, sembrava che poco fosse successo.Si stagliava pressoché solitario un lavoro di Gummerus, un allievo di EduardMeyer, ma attento a Weber, dedicato allo studio dell’azienda agraria romana, fon-dato soprattutto sull’analisi dei testi di Catone e Varrone. Ricordo bene, tuttavia,come pesasse sul mio rapporto con questo libro il fatto che fosse essenzialmenteorientato ad analizzare il funzionamento della singola struttura agraria. I risultatiinteressanti così conseguiti erano bilanciati dal mancato ampliamento del tema: ilsistema socio-economico in cui la singola azienda veniva ad inserirsi restava sullosfondo, permettendo solo d’intuirne la complessità e la molteplicità dei rapporti inesso operanti. Era un limite che s’ avvertiva anche in un’altra opera che, comun-que, s’imponeva in questo panorama. Mi riferisco ad Agricola, di Heitland, un so-lido e documentato lavoro, essenzialmente concentrato sulle fonti letterarie, con unangolo visuale amplissimo e insieme sistematico. I limiti erano quelli inerenti adun percorso tutto stratigrafico, secondo una logica meramente cronologica: chenulla toglievano comunque alla quantità d’indicazioni in esso contenute, tuttorapreziose. Un libro, aggiungo, che non esito a saccheggiare nella sua persistentericchezza derivante dalla minuziosa, estesa e sempre intelligente conoscenza e in-terpretazione dei testi antichi.

Altri filoni erano restati poi vivi ed importanti – penso anzitutto all’enormequantità di studi sul colonato – ma isolati anche per il carattere della problematicain fondo più interessata da sempre a saldare questi rapporti con l’embrione dellasocietà feudale. Da ultimo era apparso un ottimo lavoro, ma ripiegato addiritturasulla storia della storiografia: mi riferisco al libro di Clausing, del 1925. Esso po-teva aiutarci a fare il punto rispetto ad una problematica che aveva dominato l’arcodell’Ottocento, meno utile invece appariva nel chiarire nuove prospettive di la-voro. Il colonato restava così un tema chiuso in se stesso, scandito dalla tradizio-nale separatezza che il tardo antico conosceva ancora nei nostri studi rispetto all’etàd’oro della tarda repubblica e del principato 4.

Certo, già si disponeva di una serie di opere importanti sulla storia economica

3 Di ottima qualità – ma molto specifica per argomento – la dissertazione di dottorato di Geiss1910, ma v. anche il rapido contributo di Caspari 1913. Ricorderò tra le precoci evidenze in tal senso,i vari saggi sempre molto vivaci e ricchi d’indicazioni di Scalais, apparsi tra il ’23 ed il ’30, nonchéle pagine apparse nel 1921 di Carcopino dedicate alle trasformazioni fondiarie attestate dalla tavoladi Veleia.

4 È addirittura emblematico, in tal senso, il Cap. VIII del suo libro, dedicato ad un argomento de-stinato a divenire d’attualità alla fine del secolo: ‘il colonato in età repubblicana’. Ebbene chi loscorra si renderà conto che esso di tutto s’occupa fuori del nodo costituito appunto dalla massicciapresenza in tale età di un sistema di affitti agrari: cfr. Clausing 1926, 236 ss.

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di Roma. Non penso tanto ad alcune pagine del Tramonto della schiavitu di Cic-cotti, od alla rapida prospettiva di Kromayer, sulla Wirtschaftliche EntwicklungItaliens in II und I Jahrhundert vor Chr., quanto al singolare e sfortunato lavoro diSalvioli sul Capitalismo, oltre che ad alcuni lavori d’insieme sulla storia economicaromana, tra cui spiccava, per spessore e precoce ricchezza di riferimenti, la Eco-nomic Survey di Tenney Frank 5. Ma dove soprattutto s’imponevano le fondamen-tali ricerche di Rostovzev, in particolare la sua Storia economica e socialedell’Impero romano. In essi s’incontravano molteplici riferimenti alla realtà agra-ria delle province ed al tipo di organizzazione produttiva ad essa relativa, ma in-seriti all’interno di un sistema di analisi che privilegiava un quadro generale deirapporti sociali. Importante, ma orientata soprattutto alla storia greca era poi l’operadi Heichelheim. E infine si passava a saggi, anche interessanti ed utili, di tipo assaipiù settoriale 6, a ad alcune pagine interessanti nell’opera pionieristica, anche semolto generale, di Charles Parain sul Mediterraneo, ma poco più 7.

3. Per l’Italia, un posto quasi ‘di nicchia’ era occupato dai rapsodici contributiapparsi, nella prima parte del secolo, nell’ambito del culto fascista della romanità,volto ad esaltare le radici rurali e imperiali della moderna Italia. Dove però eradato talora d’imbattersi in contributi settoriali, ma importanti sotto il profilo tec-nico: i cereali, le tecniche dell’agricoltura, il modo di coltivazione della vite, l’edi-lizia agraria 8. Ancora l’enfasi littoria e l’impostazione storiografica idealistica nonavevano fatto perdere le buone e solidi radici positivistiche della nostra tradizione:del resto erano gli anni di Serpieri e della scuola di Portici. Più importante, ancheper il carattere organico della trattazione, ma non troppo innovativo era poi il vo-lume di Clerici, sull’Economia e finanza dei Romani, abbastanza noto, malgradol’anno infelice di pubblicazione: il 1943. Rilevanti erano soprattutto le sue paginededicate all’analisi della forza-lavoro e della distribuzione fondiaria, nonché allaspecifica questione dell’ager publicus.

5 Che s’impegnò anche su specifici temi di storia agraria con piccoli, ma succosi interventi: v.Frank 1932 e 1933.

6 Come l’onesto libro di Hörle sull’opera di Catone, del 1929, o le ricerche sulla viticoltura romanadi Billiard, oltre ai vivaci ma forse troppo arditi saggi di Yeo, che ebbero una straordinaria diffusioneancora negli anni ’60 e ’70.

7 Lo sconvolgimento della seconda guerra mondiale, d’altra parte, aveva reso impossibile che unasingolare opera apparsa in Germania nel 1942 assumesse quel risalto che avrebbe meritato. Funduscum instrumento di August Steinwenter è in effetti un lavoro esemplare e insieme affatto peculiare.La sua importanza è però anche la sua debolezza: a metà strada tra il diritto e la storia economica,esso è stato trascurato dai romanisti senza essere adeguatamente valorizzato dagli storici.

8 Curcio 1929; Oliva 1930; Dalmasso 1940. Ma di quest’ultimo autore il contributo più interes-sante appare piuttosto Marescalchi-Dalmasso (a c. di) 1931. Cfr. anche Marescalchi 1940. Con inte-ressanti approfondimenti tecnici v. anche il contributo meno noto, anche per la data di pubblicazione,di Papasogli 1942.

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Sin dalla fine dell’Ottocento, poi, era apparsa una letteratura importante su unaspetto non direttamente attinente alla storia romana, ma di una certa rilevanza.Mi riferisco agli studi di carattere storico-giuridico sulle forme mezzadrili in Ita-lia tardo-medievale e moderna. È chiaro che queste non potessero essere sempli-cemente riferite all’indietro, a illustrare l’Italia romana: ma negli stessi autori nonmancava il richiamo ai particolari sviluppi dell’antica locatio o di quella coloniapartiaria già nota agli antichi e ripresa dai medievali. In quel contesto appare par-ticolarmente importante – anche se poi destinato ad un’efficacia molto ridotta –un filone di studi che nasceva nell’ambito della storiografia giuridica e che sal-dava insieme la storia dell’organizzazione territoriale e fondiaria tardo-antica alleforme medievali. Era anch’esso il frutto di molteplici influenze: dal filogermane-simo di Schupfer alla miscela di positivismo e socialismo di Salvioli. Un filoneche trovò poi, seppure in piena autonomia, un momento particolarmente alto nelleindagini di Bognetti sul comune agrario medievale e sulle sue radici storiche:un’opera a sua volta destinata a influenzare profondamente Sereni. Siffatta pro-blematica si collegava, da un lato, alla tradizione storiografica francese, soprat-tutto attenta ai problemi di continuità tra forme insediative ed organizzativetardo-antiche ed alto-medievali, dall’altro e soprattutto ad un filone proprio dellastoriografia tedesca. Mi riferisco alla grande attenzione da essa dedicata – basti ci-tare in proposito, con la scuola di Mommsen, il nome di Schulten e poi di Korne-mann – allo studio delle strutture territoriali dell’Italia romana, oltre che allaformazione delle signorìe fondiarie tardo-antiche.

Erano questi temi che furono poi ripresi in Italia, nel corso del Novecento, adopera di Fraccaro e della sua scuola. È in quest’ambito che vanno soprattutto ri-cordati gli studi di Gianfranco Tibiletti, dedicati ai conflitti d’età graccana intornoall’ager publicus: un tema che già era stato affrontato da Fraccaro. In questi suoisaggi, apparsi tra la fine degli anni ’40 e la prima metà del decennio successivo, ve-nivano ad essere fortemente illuminate le condizioni dell’agricoltura italica medio-e tardo-repubblicana, proponendone un’interpretazione destinata a fare stato perlungo tempo, vitale ancora sino agli ultimi anni del secolo alle nostre spalle. Essain effetti tendeva ad accentuare la drammaticità delle svolte intervenute nella Pe-nisola italica e negli assetti sociali romani a seguito della guerra annibalica e dellasuccessiva espansione in Oriente. In tal modo, si confermava la prospettiva affer-mata da Rostovzev nella sua ricostruzione della storia sociale dell’Impero romanoche, a sua volta, coincideva sostanzialmente con l’originario schema weberiano,dove la villa catoniana era stata individuata come l’inizio di una nuova storia 9.

9 Non va neppure trascurata la più generale Storia di Roma di Pareti, del 1952, giacché in essa nonpoche pagine sono dedicate ai problemi di storia del territorio e dell’agricoltura romana, con note-vole puntualità. Con lui cito anche il saggio del suo allievo Lepore 1952, dove si evidenzia la pro-duzione specializzata delle ville suburbane di Napoli.

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In effetti questo, seppure variamente formulato ed articolato, era restato il leitmotiv della storiografia novecentesca. Quanto più generale era stato in essa l’ap-proccio agli aspetti di storia agraria – un semplice accenno, in una visuale ed in pro-blematiche più ampie, un semplice paragrafo – tanto più la prospettiva apparedominata dall’idea del salto radicale intervenuto nell’Italia postannibalica e carat-terizzata dall’apparizione di una nuova forma organizzativa e di un nuovo sistemaproprietario. Si trattava appunto di quella villa messa così vividamente a fuoco neitrattati degli agronomi latini, da Catone a Columella, associata a sua volta a due vo-caboli ricorrenti, a partire dagli inizi del Novecento: latifondo e piantagione.

Termini pericolosi, anche se il primo ha fondamento nell’uso degli antichi, inparticolare nella ben nota, troppo nota, lamentazione pliniana sui latifundia cheperdidere Italiam. Non sto certo qui a discutere il fatto che lo storico usi il lin-guaggio e le categorie dei suoi tempi e della sua cultura per interpretare il passato.Non solo è cosa ovvia, ma è impossibile l’opposto: il che non toglie che quando sivanno a pescare vocaboli e categorie cariche di un loro fortissimo valore seman-tico agganciato ad altre storie, il loro uso diventa difficile e andrebbe fatto sempre‘tra virgolette’, ricordandosi il gran salto che si fa. E di quanta storia, soprattuttoda noi in Italia, fosse carico un riferimento come ‘latifondo’ ce lo ha ricordato al-cuni anni or sono in modo egregio, come sempre, Andrea Giardina 10. Né meno ca-rico degli echi di altre e totalmente diverse realtà appariva il termine ‘piantagione’:che incontriamo già nel tedesco di Weber e poi soprattutto nella letteratura in lin-gua inglese. Dove, appunto, paesaggi estranei si sovrappongono alle strutture fisi-che ed alle dimensioni stesse di quella parte della Penisola in cui si è svolta la storiadi cui stiamo trattando. Ma su tutto ciò avremo modo di tornare.

Rispetto alla immediata rilevanza dei saggi di Tibiletti, diverso fu il destinodelle opere di un altro autore che occupa una posizione abbastanza particolare neinostri studi. Mi riferisco ad Emilio Sereni, le cui Comunità agrarie erano apparsegià nel 1955: Sereni, ponendo in primo piano i problemi di continuità e di rotturadell’organizzazione fondiaria romana con le strutture autoctone, riprendeva l’im-postazione di Bognetti nel tracciare una diretta derivazione delle forme comunita-rie medievali da quelle dell’Italia antica. Il punto che veramente rilevava inquest’opera, ai fini di questa nostra storia, era la stretta connessione in essa affer-mata delle strutture territoriali e delle forme d’insediamento con i tipi di sfrutta-mento economico, in una prospettiva destinata peraltro a maturare solo lentamentenella nostra storiografia. D’altra parte a favorire il destino di relativa marginalitàdi questo libro, dovette giocare il pesante apparato marxista che lo caratterizzava.In esso la fisionomia e la periodizzazione delle formazioni economico-sociali ap-pare così pervasiva da suscitare l’impressione di una qualche meccanicità: tanto da

10 Giardina 1984.

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oscurare la pur altrettanto reale precisione analitica e la freschezza dei risultati chene arricchivano le pagine. Tutto sommato, meno giustificato è che anche il suc-cessivo lavoro di Sereni sulla Storia del paesaggio agrario abbia poco inciso suglistorici dell’antichità. Sebbene all’interno di un ben più vasto orizzonte, vi erano in-dicazioni importanti relative all’Italia antica. Soprattutto la rilevanza autonoma as-sunta in quel libro dal ‘paesaggio’ avrebbe potuto contribuire ad evitare quelledistorsioni cui facevo cenno più sopra derivanti da troppo corrive analogie con re-altà molto diverse.

Negli anni ’50 seguiranno anche altre opere di un certo rilievo: anzitutto le nu-merose e feconde ricerche di F.M. De Robertis sulla composizione ed organizza-zione della forza-lavoro nell’Italia romana, sia sotto il profilo giuridico cheeconomico-sociale. Nel ’58 apparve poi l’Italia agraria sotto Traiano di V.A. Si-rago: un autore ancor oggi attivo, che tuttavia rientrava in gran parte nell’alveodelle interpretazioni allora correnti. Va infine segnalato il fatto che la stessa scuoladi Fraccaro sembrasse aprirsi a prospettive in parte diverse da quelle battute da Ti-biletti, con l’apparizione, nel 1961, di un’opera di grande spessore e profonda-mente innovativa, dove l’Italia agli inizi della tarda antichità cessava, per meritodi L. Ruggini Cracco, d’essere solo l’immagine frantumata di una vicenda nella suaparabola discendente, per assumere una fisionomia più complessa, anticipandocosì, insieme al fondamentale volume di Santo Mazzarino, un nuovo orientamentodegli studi sulla tarda antichità.

4. In questo modo ci troviamo già negli anni ’60, quando questa mia storia per-sonale ha inizio. Anni che, a differenza del periodo precedente, già annuncianouna nuova ricchezza di studi ed il fermento di una molteplicità di prospettive e diproblematiche. A più di mezzo secolo di distanza il paesaggio d’allora si presentain forma molto più unitaria e coerente di quanto in quegli anni fosse possibile co-gliere. Caratterizzato anzitutto da una crescente ricchezza d’indagini e dall’artico-larsi di molteplici prospettive aperte da una nuova generazione di studiosi, insintonia con le clamorose trasformazioni in corso in tutte le società europee. Lo sicoglie immediatamente dal relativo ampliamento della bibliografia cui poteva ri-ferirsi il ricercatore per addentrarsi nella storia agraria romana.

Apparve allora il libro di Dohr: si trattava ancora di un tentativo la cui fisiono-mia restava abbastanza sperimentale e, soprattutto, circoscritta, come del resto evi-denziava il titolo del libro. Meritorio era senz’altro l’approfondimento sistematicodella lettura del testo di Catone: forse più di quello di Columella. Ma questo, iocredo, resterà sempre un orientamento di fondo della nostra letteratura speciali-stica: sia per il profondo fascino di questo testo appartenente al più antico patri-monio letterario in latino a noi pervenuto nella sua organicità, sia per l’obiettivaricchezza delle informazioni da esso fornite. Era tuttavia una lettura che entrava in

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profondità e in più direzioni volta a ricomporre la grande quantità di materialeframmentario presente nell’opera degli agronomi latini in un quadro relativamentecoerente. Anche troppo coerente: giacché qualche perplessità suscitava in me, ades., il diligente sforzo dell’autore di definire in termini quantitativi la tipologia fon-diaria romana: la piccola proprietà, la media, la grande. A chi proveniva dal mondocontadino ed aveva ben presente la morfologia delle campagne di cui si tentava laloro più antica storia, la parametrazione ivi effettuata essenzialmente in terminiquantitativi e con poca attenzione per gli aspetti geografici e morfologici, apparivaistintivamente troppo astratta e, conseguentemente, abbastanza pericolosa. E nonmeno ostica, oltre che esagerata, mi appariva allora l’attenzione dedicata al pro-blema della decrescente produttività delle terre italiche. Un tema, peraltro, ampia-mente trattato dalla letteratura di quegli anni 11, dove tuttavia mi è sempre apparsaincerta la visuale dei moderni: tra l’analisi di problemi reali ed una storia delle ideedegli scrittori antichi. Ma erano riserve affatto marginali, queste mie su un libro benaltrimenti utile, proprio come punto di partenza per una conoscenza adeguata di unmateriale documentario di primaria importanza per questa nostra storia. Puntioscuri o controversi – dal modello della vigna e dell’oliveto in Catone, alle tecni-che agrarie, alle forme di utilizzazione ed organizzazione del lavoro dipendente,alla tipologia degli assetti produttivi della villa – venivano messi adeguatamentein luce e discussi con serietà e rigore. Per me poi era di particolare interesse comedalla ben nota graduatoria delle colture delineata nel trattato di Catone, Dohr rica-vasse l’idea di una molteplicità di orientamenti produttivi della villa catoniana su-perando l’antica visuale di Frank, che, all’opposto, aveva seguito l’idea di unsistema uniforme di colture 12.

D’altra parte questo libro non pretenzioso, che sollevava alcuni dubbi sulla crisidell’agricoltura italica nel II sec. a.C., non poteva sperare di scalfire una vulgatacosì forte, incardinata in quell’interpretazione pessimistica della storia sociale epolitica dell’ultima età repubblicana, cui ora facevo cenno. Tanto più che, nellostesso anno, appariva una grande opera capace di ben altro impatto, che tale pes-simismo veniva a consacrare definitivamente. Nell’Hannibal’s Legacy di Arnold W.Toynbee, la ricchezza delle fonti utilizzate, la compiutezza dell’analisi, l’ampiezzadei riferimenti e la vastità e complessità dei percorsi effettuati in molteplici dire-zioni davano alla visione ‘catastrofistica’ delle condizioni agrarie e sociali dellaPenisola, soprattutto della parte meridionale, non solo autorità scientifica, ma anchegrande forza di suggestione.

11 Cfr. White 1970a, 37.12 Dov’è senz’altro molto pregevole il tentativo di Dohr 1965, 45 ss., 50 ss., di calcolare concre-

tamente le varie estensioni dei famosi modelli di vigneto e di oliveto, oltre che le unità fondiarie de-dicate alla cerealicoltura ed a altre attività, nonché le molteplici indicazioni sulla possibile produttivitàdi un iugero di vigna.

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Con quest’opera sembrava ormai consacrato lo schema interpretativo che sin daWeber aveva collegato lo sviluppo della grande proprietà fondiaria romano-italicae delle forme più accentuate di produzione schiavistica all’espansionismo politico-militare romano del II sec. a.C. ed al conseguente valore di cesura della guerra an-nibalica che era stato poi così autorevolmente ribadito da Rostovzev. Il valorecanonico di questa lettura e della connessa periodizzazione pesò notevolmente nelcorso di tutto il decennio successivo.

Tuttavia la distanza, non solo temporale, da cui scrivo questi appunti mi per-mette (come avverrà anche su altri aspetti) di comprendere oggi quanto questa sen-sazione fosse provvisoria. Giacché l’indagine storiografica che prendeva alloraconsistenza era in procinto di far maturare un modificato paesaggio. E questo nonsolo – ma certo anche – per la presenza di nuove prospettive metodologiche e dinuove concezioni storiografiche. Sotto questo profilo giocava anche la grande di-visione del mondo allora dominante e che tanti riflessi aveva anche sulla vita in-tellettuale e sulle prospettive di ognuno di noi. Proprio sulla storia degli assettiproduttivi dell’agricoltura romana, si era infatti concentrato l’impegno di moltistorici appartenenti ai paesi ‘oltrecortina’, come allora si chiamavano quelli ap-partenenti al blocco sovietico. Una tendenza che non mancò di essere rilevata daglistudiosi occidentali 13.

Problemi sino ad allora restati relativamente al margine degli orizzonti storio-grafici novecenteschi s’imponevano così in primo piano, con uno spostamento nonsolo tematico, ma anche secondo nuove griglie interpretative. Tutto ciò apparivaimmediatamente evidente nella produzione per noi più accessibile, anzitutto permotivi linguistici, già allora maturata nei paesi ‘satelliti’. Mi riferisco anzitutto allaRepubblica Democratica Tedesca, dove l’antica tradizione filolologica storico-giu-ridica tedesca era stata parzialmente conservata, anche ad opera dell’‘Accademiadelle scienze di Berlino’. In questo contesto il tema al centro del dibattito venivaad essere quello della composizione della forza-lavoro impiegata nella produzioneagraria e le modalità del suo sfruttamento.

Sebbene la parte più significativa della letteratura scientifica relativa ai nostriproblemi fosse destinata ad apparire negli anni successivi, già allora l’intera ri-cerca dei paesi d’oltre cortina era concentrata sui rapporti di lavoro dipendente:dalla schiavitù al colonato tardo-antico. Il nodo teorico al centro della storiografiatedesco-orientale concerneva soprattutto la ‘crisi’ del modo di produzione schia-vistico e quindi la ‘protostoria’ del colonato. Era certo un tema suggestivo: masembrava che i giovani studiosi, da Johne a Köhn, emersi dopo la prima genera-zione di autori dominata dall’autorevole ma pesante produzione di E. Welskopf e

13 Martin 1971, 4 s., richiama in proposito la recensione di R. Bloch al libro di Panciera sulla vitaeconomica di Aquileia, apparsa nella REL del 1957.

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del ben più interessante H. Kreissig, scomparso tuttavia molto presto, non osasseroavventurarsi in nessun altro campo d’indagini. Forse in ciò pesava anche la perso-nalità del diligente e laborioso R. Günther, non so.

Tale indirizzo, insieme alla stessa situazione geopolitica della DDR, contribuìad isolare questo gruppo di storici. Del resto, su questi aspetti, verrebbe fatto di direche le due Germanie quasi s’elidessero reciprocamente. Giacché, allora, a diffe-renza che in molti altri campi della storia antica e di quanto avveniva per il dirittoromano, il mondo tedesco-occidentale di quegli anni era anch’esso abbastanzapoco interessante. Forse il riferimento centrale era ancora costituito dall’opera diVogt. Dove tuttavia la Humanität del rapporto tra padroni e schiavi in essa inseguitaappariva già allora, più che sfocata, operazione carica di segno ideologico. Sottoquesto profilo resta assai più interessante un insieme di saggi isolati, dal vasto com-mento di von Lübtow al trattato catoniano (oltre ad un altro saggio di Thielscher)al rapido ma puntuale contributo, apparso nel 1971, da parte di Norbert Brockme-yer, dedicato alle locazioni agrarie romane 14.

Anche per questo il nostro interesse finiva così col concentrarsi in altre dire-zioni: anzitutto verso un altro paese allora lontano e isolato dalla Cortina di ferro,la Polonia di Gomulka. Dove erano apparsi, nel corso degli anni ’60, una serie disaggi molto accurati dedicati ad un tema centrale per la storia agraria, quale il rap-porto tra progresso tecnico e forme produttive, ad opera dell’allievo di un’altrabrava studiosa, le cui competenze nella storia dell’Egitto greco-romano, Iza Bie-zunska Malowist, la lasciano al margine di questa storia, ma ad essa non estranea.Da allora Kolendo diverrà un protagonista dei nostri studi, dalla valutazione dellemodalità e dei tempi di lavoro in Roma, allo studio del trattato di agronomia deiSaserna, sino alla storia del colonato 15. Ma, in tal modo, siamo già entrati appienoin quel gran crogiuolo di studi e di rinnovamento che furono gli anni ’70, quando,tra l’altro, s’era già imposto l’interesse per un altro paese d’oltrecortina: l’Unghe-ria. Esso aveva in effetti conservato un buon livello negli studi d’antichistica edello stesso diritto romano. Agli inizi degli anni ’70 era apparso un ottimo e rapidolibro di G. Diòsdi sulla proprietà romana, mentre, più specificamente nella storiaagraria, iniziarono allora ad apparire le ricerche molto interessanti e che prosegui-rono anche nel corso del decennio successivo, di Egon Maròti, un acuto studioso,capace di analisi talora notevolmente innovative della documentazione antica 16.

14 Significativamente focalizzato sulla letteratura giuridica di fine repubblica, tra Servio e La-beone. Era una prospettiva importante che maturerà in seguito. Cfr. Brockmeyer 1971.

15 Nel 1962 erano apparsi in polacco i suoi studi sul colonato nell’Africa romana, seguiti, nel 1968da quelli sul progresso tecnico nell’agricoltura romana e nel 1973 sul trattato di agronomia dei Sa-serna (in francese). Il testo polacco sul progresso tecnico sarà tradotto in italiano con il titolo: L’agri-coltura nell’Italia romana, 1980.

16 In particolare si v. Maroti 1976. Va detto tuttavia che gran parte delle pubblicazioni di tale au-tore sui nostri argomenti appartengono agli anni ’80. Sempre in Ungheria, seppure distante dai no-

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5. È indubbio tuttavia che l’attenzione di molti di noi, per quanto concerne laletteratura dei paesi socialisti, si concentrasse soprattutto sulle opere apparse allorain Unione Sovietica. Dove tuttavia era di enorme ostacolo la lingua, essendo pub-blicate ovviamente in russo, inaccessibile per gran parte degli studiosi occidentali.Allora suscitava particolare interesse quanto si poteva sapere a proposito dei lavoridella Sergeenko, come risultava anche dal libro di Dohr che aveva potuto utilizzarli.Purtroppo dei suoi scritti – di cui con tanta stima mi hanno sempre parlato gli stu-diosi che accedevano alla lingua russa – fu molto scarsa la nostra conoscenza,anche in seguito, non essendone stata fatta una traduzione nelle lingue occiden-tali. Anche per questo maggiore attenzione si concentrò su una sua allieva: E.M.Staerman, di cui almeno un libro, sull’apogeo del sistema schiavistico, era apparsoin traduzione tedesca (mentre solo in seguito io stesso riuscirò a far tradurre in ita-liano un altro suo libro) 17.

Nel seguire i lavori di preparazione della traduzione italiana, mi potei rendereconto da vicino di certe debolezze che essa presentava, soprattutto nell’utilizza-zione delle fonti. Debolezze che facevano intuire a ragione la grande difficoltà incui questi aspetti del lavoro scientifico dovevano svolgersi in quel paese. Quandotuttavia potemmo accedere alla lettura di questi testi potemmo anche accorgerci chevi era, in essi, un impianto storiografico forte, una griglia interpretativa attraversocui i fatti, le cose, acquistavano un significato complesso, in un quadro che pocoaveva a che fare con quegli schemi ispirati ad un marxismo-leninismo ripetitivo estereotipo che apparivano semplicemente sovrapposti alla struttura del discorsostoriografico, come formule liturgiche svuotate di senso. Di lì il doppio andamentodel discorso, con le citazioni rituali dei classici del ‘marxismo-leninismo’ da unlato e, dall’altro, lo svolgersi dell’analisi storiografica in forma più complessa eproblematica. Che, tuttavia, se andava oltre agli schemi del ‘Vulgarmarxismus’,non per questo cessava d’ispirarsi ad alcuni fondamentali snodi del pensiero diMarx. Va però detto che, per quanto importante per lo studio dell’organizzazioneproduttiva nel settore agrario, l’analisi di questa studiosa concernesse in generalele forme di organizzazione produttiva e dello sfruttamento della forza-lavoro. Lastoria agraria restava quindi sullo sfondo mentre centrali apparivano i problemiteoricamente più importanti per la storiografia marxista: ciò che, appunto, eviden-

stri diretti interessi, è di grande rilievo per la storia monetaria l’opera di Mrozek. Appaiono preco-cemente e sono di notevole interesse per l’uso competente della documentazione giuridica – un ele-mento che assumerà crescente importanza nel tempo – i contributi di P. Csillag: mi riferisco inparticolare a Csillag 1971 e 1978, con una particolare attenzione alle forme del diritto romano. V. già,in precedenza, il saggio di un altro ungherese, Brosz 1959, con cui si apriva il problema della pre-coce presenza di forme di locazione agraria, utilizzando in modo corretto un notevole complesso difonti giuridiche interpretate con notevole finezza.

17 Staerman 1969; di tale autrice, la trad. it. cui mi riferisco è Staerman-Trofimova 1975.

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ziava il notevole e per certi versi ‘rischioso’ impegno revisionista degli schemi piùrozzi del marxismo di stampo staliniano da parte di questa studiosa.

Per questo, relativamente alla storia agraria romana, appariva più immediata-mente rilevante il lavoro di revisione condotto da un altro autore sovietico, matu-rato in un contesto storico-politico già in via di lenta modificazione: V.I. Kuziščin.Egli, sin dalla fine degli anni ’50, era venuto sviluppando una serie di ricerchesulle strutture territoriali dell’Italia romana di notevole interesse ed originalità, tral’altro mettendo in discussione stereotipi diffusi sia tra gli studiosi marxisti che tragli storici occidentali 18. Le sue ricerche appaiono ricche d’indicazioni e di spuntifecondi, anche perché esse si ponevano in una prospettiva che illuminava aspettifondamentali, ma sino ad allora leggermente trascurati dalla storiografia agrariaromana.

È forse un po’ paradossale che la più sistematica applicazione del materialismostorico, nei nostri studi, fosse probabilmente quella avviata sin dai tardi anni ses-santa e proseguita poi a lungo, nel cuore dell’Europa occidentale, a Besançon, sottol’egida di Pierre Lévêque e Monique Clavel-Lévêque. Dov’era dato, comunque, dicogliere una certa singolare convivenza di una rigida ortodossia politico-ideologicacon la ricchezza delle relazioni accademico-scientifiche e l’articolarsi dei risultaticonseguiti. Non era solo la partecipazione di figure così singolari come Mario At-tilio Levi o di forti specialisti come Gerard Boulvert, ma, insieme al grande ‘me-stiere’ di Pierre, la vivacissima presenza di Ettore Lepore, con la sua inesaustacuriosità, di un intelligente interlocutore come Robert Etienne, di Kreissig, MarioTorelli e di molti altri a fare degli incontri di Besançon un momento sfaccettato ericco. La schiavitù antica e le sue forme di sfruttamento allora erano al centro diquel lavoro collettivo, non privo di risultati. Ovvie ne erano le ricadute sui temi distoria agraria, ripetutamente richiamati, anche se raramente divenuti, in quel con-testo, oggetto d’indagini autonome. Essi assumeranno maggior rilievo, invece, colmutamento di prospettive intervenuto a Besançon a partire dalla fine degli anni’70, quando gli interessi del gruppo si rivolsero verso un duplice filone destinatoad assumere particolare rilievo verso la fine del secolo. Da un lato un sempre piùinsistito lavoro sulle tracce di centuriazione, in parallelo con quanto veniva matu-rando tra gli archeologi particolarmente impegnati nel campo della topografia, ri-prendendo la strada aperta da Castagnoli. Dall’altro il lavoro di valorizzazione,anche attraverso le traduzioni in francese, con quanto d’interpretazione ciò com-portava, dei difficili testi dei Gromatici. Ed è a Besançon che ebbi occasione d’in-

18 Mi riferisco all’articolo dedicato al latifondo romano e apparso sulla VDI del 1957, in cui si met-teva in discussione la pertinenza di tale vocabolo per la storia romana; tale articolo è stato successi-vamente pubblicato in traduzione italiana, cfr. Kuziščin 1982. Non meno importante, ma mai tradottoper quel che sappia, è il suo saggio del 1973, sull’azienda agraria romana come tipo economico, pub-blicato nella VDI 5; poi di tale a. la traduz. it.: Kuziščin 1984.

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contrare studiosi francesi che poi avranno un ruolo importante proprio nel recuperod’interesse sulla letteratura gromatica romana: mi riferisco anzitutto a Chouquer eFrançois Favory o nello studio del territorio come Rita Compatangelo. Era infattiin quell’università che, in quegli anni, ebbero inizio o presero consistenza percorsiscientifici destinati a dare risultati significativi e innovativi in molteplici campi le-gati alla storia della società romana, da Janine Cels a Jacques Annequin. E doveebbe inizio una crescente concentrazione di lavoro su aspetti storiografici, comequello dei gromatici o della centuriazione, sinora restati al margine dei nostri studi.Un merito non da poco.

6. La distanza che mi separa da quei tempi che ormai ricordo molto vagamentee che ricostruisco anch’io, come i miei amici delle generazioni più recenti, attra-verso gli scritti e le testimonianze che ne restano, è elemento non meno falsantedella vita che si vive. A me sembra peraltro che, cessato l’effetto immediato su-scitato nei protagonisti dalle distanze metodologiche, e dalle diverse visioni delmondo sottese ai diversi modelli storiografici, oggi sia possibile cogliere una sot-terranea unità negli studi di quell’epoca. Nel senso che vi era una generale con-cordanza sia sulla periodizzazione che sui fattori costitutivi dei fenomeni indagati.Da un lato l’ipostatizzazione dell’età ‘classica’ dello schiavismo e della villa ca-toniana: II sec.a.C./I-II sec. d.C., dall’altro il collegamento tra il modello domi-nante, come mutamento qualitativo della produzione agraria, la crescitaquantitativa dei fenomeni proprietari, e la conseguente scomparsa della piccolaproprietà agraria e dei liberi dalle campagne. Infine il rapporto tra la fine del-l’espansione politico-militare romana e il tramonto di questo modello organizza-tivo e del suo dominio commerciale sul Mediterraneo.

È interessante notare che la progressiva erosione di questo modello ebbe inizioproprio quando esso appariva pressoché una vulgata indiscutibile. Ed ebbe inizioalla interno delle diverse tradizioni storiografiche. In ambito marxista ho già ri-cordato il saggio di Kuziščin, sulla struttura della proprietà fondiaria romana. Loavrei ripreso in un’antologia di scritti d’agricoltura apparsi in Italia nel 1982, giac-ché esso mi sembrava avesse un ruolo importante onde rompere l’idea oppressivadi questo latifondo come forma propria dello sviluppo agrario romano d’età im-periale, se non tardo-repubblicana. Oppressione più sentita, ancora una volta, chereale: giacché richiamandosi espressamente a Kuziščin, ma con forza propria, unaltro studioso, René Martin, aveva pubblicato in Francia, già nel 1967, un articoloche, con ulteriori dati, tendeva a confermare la tesi dell’autore sovietico, secondocui sovente «une grande propriété se compos[ait] de plusieurs propriétés de petiteet moyenne étendue, éparpillées dans tous les secteurs du pays» 19.

19 Martin 1967, 6.

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In verità lo schema interpretativo, fondato sulla nozione di latifondo, che tantomi turbava, era già al tramonto. Nello stesso anno dell’articolo di Martin, era com-parso in Inghilterra un altro pesante attacco a quest’uso inopportuno. K.D. Whitepartiva infatti dalla constatazione di come una «rational discussion» dei complessiproblemi di storia agraria e sociale potesse «be obscured by the use of this [scil. la-tifundia] term» 20. Il lavoro era appunto dedicato ad una disamina accurata di tuttele testimonianze antiche relative all’organizzazione fondiaria e concludeva sotto-lineando l’inconsistenza e l’ambiguità del moderno uso di tale riferimento. Forseancora più importante era la chiara affermazione ivi introdotta della necessità disviluppare in modo più articolato le indagini di storia agraria romana, onde potercogliere le differenze e le storie regionali, piuttosto che abbracciare preventiva-mente grandi quadri d’insieme.

Era dunque un quadro già in movimento quello a cui qui mi riferisco, che ini-ziava ad erodere i luoghi comuni su cui si era costruita una vulgata, utilizzata so-prattutto nelle ricostruzioni di carattere generale. Sempre in Inghilterra, forse piùche alcuni cenni presenti in Jones, va richiamata la sostanziale rettifica operata daBrunt, delle posizioni di Toynbee 21. Ma a me colpì soprattutto la critica di duepunti chiave delle tesi allora dominanti condotta da Last: a proposito della scom-parsa del libero contadiname italico, e della conseguente colossale riconversionefondiaria che vi sarebbe stata associata. Ciò si collocava, del resto, all’interno diuna visione più problematica, cautamente ma autorevolmente proposta nella CAH,anche in relazione al possibile impatto della guerra antica sulle strutture territo-riali ed agrarie.

Nella stessa direzione si trovava ad operare anche l’accresciuto interesse sulvalore documentario delle tavole alimentari che tanti risvolti hanno anche, se nonsoprattutto, per la storia della proprietà fondiaria romano-italica 22. Era questo unfilone d’indagini destinato ad assumere crescente importanza, non meno dellanuova attenzione per l’uso della proprietà in termini di selezione sociale. Nel 1970era apparso infatti un libro importante anche se solo in parte riferito ai nostri temi:The Romans on the Bay of Naples, di John d’Arms, dove l’aspetto ‘signorile’ emetaeconomico assunto dalle villae in proprietà della ricca oligarchia tardo-re-pubblicana e del Principato era messo in piena evidenza. Restava ancora in ombra,

20 White 1967, 63.21 Brunt 1971a, 121 ss., 269 ss., 294 ss., 345 ss., 351 ss., Più esplicito nella revisione delle idee di

Toynbee è l’altro suo lavoro: Brunt 1971b, 34 ss. Ma v. anche di tale a. Brunt 1975, dove s’includevaespressamente nella nozione di latifondo anche quelle proprietà «which took the form of many scat-tered estates» (619 n.1).

22 Nell’ambito degli studi riferiti al valore di tale documento in ordine alla distribuzione della pro-prietà fondiaria ed alla condizione agraria di tale località, oltre al breve saggio di Bourne 1960, fac-cio riferimento a Garnsey 1968, con cui il carissimo amico iniziava il suo fecondo lavoro sulla storiaagraria romana o su temi ad essa strettamente connessi

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tuttavia, il rapporto tra tale lusso e gli sviluppi dell’organizzazione fondiaria verae propria.

Ma, soprattutto, in quello stesso lasso di tempo apparvero due monografie, adopera degli autori che abbiamo già incontrato: gli Agronomes latins et leurs con-ceptions économiques et sociales di René Martin e il Roman Farming, di K.D.White, della cui importanza si ebbe immediata consapevolezza.

Un aspetto che colpiva immediatamente, nella prima di queste, era l’indubbiacapacità dell’autore di ricondurre l’organizzazione produttiva dell’agricoltura ro-mana all’interno di una più comprensiva analisi del relativo sistema economico-so-ciale Era la prima grande apertura verso quello che sarà l’alveo centrale su cuilentamente, e non senza difficoltà, si sarebbe orientata la moderna storiografia.Certo, sin dal titolo appaiono evidenti i limiti che ancora prevalevano in questotipo d’indagini, circoscritte essenzialmente ad una produzione letteraria che do-veva necessariamente essere messa a confronto con altri sistemi di fonti. Se quindila valorizzazione di Virgilio era un interessante ampliamento delle precedenti pro-spettive, ci si trovava ancora più all’interno di una tradizione che veniva conclu-dendosi che nell’ambito di un vero rinnovamento dei nostri studi. Anche se èindubbio che la serietà dell’analisi e l’attenzione ai particolari dei testi consideratipermetteva all’autore di mettere a fuoco una grande quantità di problemi, facendoacquisire adeguata consapevolezza delle loro interconnessioni, lasciandociun’opera tuttora utilizzabile.

Con essa aveva inizio una lunga e feconda stagione in cui apparvero, in Fran-cia, un insieme di ricerche che investirono la storia economica dell’antichità à tousazimouts. A parte collocherei l’autorevolissimo Paul Veyne con i suoi molteplici epuntuali interventi su singoli nodi molto strettamente collegati alla storia agraria:dalla Tavola Alimentaria di Veleia, al contenuto delle locazioni agrarie. Di poco piùgiovane, maturava poi un’intera generazione, con Jean Andreau, sulla storia dellafinanza e della banca romane, concentrata tuttavia su una località così fortementeagraria come Pompei, Mireille Corbier, che incontreremo di nuovo, Jean PaulMorel, sulla storia della circolazione di merci nel mediterraneo, anzitutto dei pro-dotti agrari, André Tchernia sulla storia del vino e della sua produzione, e poi Ca-therine Virlouvet. In altri autori francesi si poteva poi cogliere una particolareattenzione verso i dati ricavati dalle fonti giuridiche 23.

23 È il caso del saggio di Jacota 1980, dove per la prima volta, io credo, si richiamava l’attenzionesull’articolazione interna del sistema schiavistico con la presenza di figure dotate di autonomia im-prenditoriale nel sistema agrario e fondiario romano, del tutto diverse, anzi in una logica opposta aquella del vilicus. Va anche citato un interessante contributo sulla locazione agraria di Alzon 1963.Mentre al ruolo dei liberti nella società romana alto-imperiale, con i suoi molteplici riflessi sulla sto-ria agraria, è dedicata l’opera troppo presto interrotta di Gérard Boulvert. Sebbene ancora episodi-che queste opere vanno segnalate perché con esse ha inizio il lento processo di valorizzazione delle

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Proprio nell’ampliamento del materiale documentario utilizzato per le indaginidi storia agraria è dato di cogliere il passo in avanti, anche rispetto alle coeve emeritorie indagini di Martin, del libro di White, soprattutto concentrato sugli aspettitecnologici della produzione agraria e della stessa organizzazione della villa. Inesso infatti l’analisi si spostava verso terreni che erano restati a lungo trascurati,dopo il tramonto delle Antiquitäten, con una ricchezza di strumentari analitici eduna capacità di comparazione del tutto nuove. Questo tipo d’indagine, infatti, ri-chiedeva il coordinamento di una molteplicità d’informazioni di varia provenienza,dipendendo in misura molto elevata dalla conoscenza e dall’interpretazione di unmateriale archeologico che solo di recente era stato sottratto alla polvere ed al di-sinteresse dei sottoscala dei musei ad opera di qualche audace e innovativo stu-dioso, come appunto White o il già citato Kolendo. All’alto livello tecnico delleanalisi corrispondeva pertanto un’indubbia novità di risultati, che rendeva evidentel’importanza, per i nostri studi, di un’adeguata competenza in campo archeolo-gico. Essa sarebbe stata messa a frutto in un altro suo lavoro pionieristico, legatofelicemente ai problemi di storia della cultura materiale (come allora li chiama-vamo: adesso non lo so più), e dedicato allo studio degli strumenti di lavoro nel-l’agricoltura antica 24.

In effetti uno degli aspetti più rilevanti del contributo inglese ai nostri studi, sinda epoca molto risalente e restato tuttora fondamentale, è quello in campo archeolo-gico. Mi sembra addirittura offensivo ricordare ad un pubblico così competente co-s’abbia significato per le nostre conoscenze l’ininterrotta serie di prospezioni e di‘field surveying’, di sistematiche analisi del territorio e dei suoi insediamenti, so-prattutto nell’ambito dell’Etruria meridionale – da Veio a Fidene, Capena etc. – in-trapresa o supportata dalla ‘British School’ di Roma. L’esplorazione di questi territorigettava infatti una luce fondamentale sugli assetti territoriali e sulle forme d’inse-diamento, quindi indirettamente anche sulla realtà agraria di aree investite dal-l’espansione romana e determinanti nella configurazione della fisionomia dell’Italiacentrale. I dati così acquisiti si venivano lentamente a comporre in un quadro com-plesso che solo secondo linee molto generali tendeva a coincidere con le notizie deglistorici antichi relative alle vicende di IV e di III sec. a.C. Un quadro, tuttavia, che daun lato sembrava confermare la persistenza di forme abbastanza ampie di minori in-sediamenti rurali, talora non per fattorie isolate ma in forma vicanica. Ma che appa-riva compatibile anche con possibili processi di crescita quantitativa di alcuni sistemifondiari. Si trattava, comunque, di un tipo d’indagine destinato ad attirare la cre-scente attenzione degli storici, condizionandone le future interpretazioni.

Ma più immediata rilevanza, nella storiografia anglosassone e con vasti e du-

fonti giuridiche romane, sino ad allora troppo trascurate in questo ambito di studi e che tuttora ap-paiono lungi dall’aver prodotto tutti i loro frutti potenziali.

24 White 1984.

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revoli impatti, venne ad assumere allora e con vasta e crescente efficacia nel tempo,la diversa visuale di Finley, il cui scetticismo sulle dinamiche delle società antiche,andava ben oltre le problematiche sulla eventuale crisi del II sec. a.C.

7. Sin dai tardi anni ’60, una serie di saggi di questo autore era venuta deline-ando, in modo molto netto, una linea interpretativa profondamente antitetica allavisuale allora ancora dominante. Egli infatti contestava anzitutto l’accentuata sot-tolineatura delle rotture che in genere allora si supponeva essere intervenute nel-l’organizzazione produttiva agraria romana verso la fine della repubblica.

Illustrare qui l’opera di Finley o semplicemente ricordarne le coordinate intel-lettuali sarebbe affatto inutile, dato che essa è profondamente presente nella nostrastessa consapevolezza storiografica. Quello che interessa, a tanti anni di distanza,quando tuttavia ancora possiamo apprezzare la così feconda presenza tra noi deisuoi diretti allievi, è anzitutto un preciso aspetto di storia delle idee. Mi riferiscoal fatto che i ripetuti ed articolati interventi di Sir Moses riprendessero e rilancias-sero addirittura l’interesse per i presupposti teorici alla base dei vari filoni storio-grafici, tra l’altro introducendo per la prima volta, nel dibattito storiograficodell’epoca, il nome ed il peso di un autore sino ad allora restato ai margini di esso:Max Weber.

È una prospettiva che maturerà nel tempo e influenzerà sempre più profonda-mente una nuova generazione di studiosi. In Italia, come sempre, con le sue stra-ordinarie antenne, Arnaldo Momigliano, non mancherà di rilanciarla con forza sindal suo ben noto seminario del ’74, seguito poi da tanti altri studi, anzitutto suoi.In Germania, nei nostri studi, sarà soprattutto Nippel, mentre in Francia, insiemea Bruhns sarà un’intera generazione da Descat ad Andreau a muoversi verso tali di-rezioni. Con un merito fondamentale: l’inserimento progressivo della storia agra-ria romana in un più ampio quadro di storia economica.

Ormai molti aspetti contingenti del dibattito, sovente assai vivace, sviluppatosiallora intorno all’opera di Finley, legato anzitutto al rinnovato contrasto tra mo-dernisti e primitivisti, lasciano il passo ad un bilancio più freddo e collocato in unaprospettiva più congrua. Tale da aiutarci a meglio apprezzare il suo grande contri-buto all’arricchimento teorico del dibattito sull’agricoltura romana. Giacché il suoapprofondimento di tali temi si avvaleva di una gamma di strumenti concettuali edi categorie di riferimento sicuramente maggiore dei livelli che avevano caratte-rizzato sino ad allora quegli studi.

Oggi disponiamo di una crescente massa d’informazioni sugli anni di forma-zione del giovane Finkelstein 25 – che documentano questo punto in modo incon-

25 Penso ai saggi di Saller e di Morris, oltre ovviamente ad Hopkins. Ma oggi molto bella è la ri-costruzione di Tompkins 2006. Di notevole interesse e vivacità anche Nafissi 2005.

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testabile. La sua conoscenza di Marx, la sua frequentazione della Scuola di Fran-coforte emigrata alla Columbia University, un altro prezioso dono di Hitler 26, la suaprecoce conoscenza di Weber si fondevano infatti in un complesso processo in cuila ricostruzione dei fatti storici veniva continuamente riconsiderata alla luce di uninsieme di modelli interpretativi, a loro volta plasmati e riplasmati come progres-sivi momenti d’approssimazione per costruire un punto di vista carico di un fortesubstrato teorico.

È in questa logica che egli, più di altri, fu in grado di cogliere la provocazionedi un lontano saggio di Mickwitz, apparso alla vigilia della seconda guerra mon-diale 27 e da questa catastrofe inevitabilmente oscurato. Esso concerneva un puntocruciale per i nostri studi costituito dall’arretratezza tecnologica dell’organizza-zione agraria romana. Era certo una tematica antica che risaliva addirittura ad unben noto articolo di Marc Bloch sul mulino ad acqua e che, dopo i contributi diMickwitz, nel dopoguerra era stata ravvivata, non solo da buone ricerche comequelle di Kolendo e di White ma anche se non soprattutto dall’opera monumentaledi Forbes apparsa tra il 1955 ed il 1964 sull’Ancient Technology.

La comparsa, insieme a quelli di Finley, dei saggi di Pleket 28 evidenziava la ri-levanza di tale questione per l’interpretazione del carattere della storia economicaromana. Essi concordavano su un punto fondamentale: che le notizie relative al-l’invenzione ed alla introduzione di strumenti tecnologici e di particolari applica-zioni di principi scientifici, negli antichi scrittori greci o romani, non si fosseromai trovate in rapporto significativo con un incremento della produttività o del-l’economia della forza-lavoro utilizzata nei processi economici 29. Addirittura lostudioso olandese si spingeva più avanti di Finley nel radicale pessimismo sul-l’arretratezza tecnologica romana, collegandolo ad un fattore sino ad allora rara-mente individuato all’interno delle ricostruzioni storiografiche e che echeggiavanuovi approcci destinati a divenire anche troppo popolari. Egli infatti insisteva sulruolo determinante giocato dalla ‘mentalità’ dei proprietari fondiari. Una mentalitàche li spingeva a cercare risorse aggiuntive nella tecnologia solo nei casi di crisidelle situazioni correnti. Affiorava così la tendenza a ipotizzare l’esistenza di or-ganizzazioni sociali fondate su altri valori unificanti rispetto a quelli della moder-

26 Purtroppo l’affascinante descrizione di questo tragico dono fatta da Medawar & Pike, 2000,non abbraccia anche l’emigrazione di studiosi di scienze umane e sociali, non meno rilevante ai finidei complessivi spostamenti degli equilibri scientifici di quanto non sia stata quella dei protagonistidelle scienze biologiche, fisiche e matematiche.

27 Mickwitz 1937. Ma v. anche Idem 1932 e 1939.28 Pleket 1973, nel quale ripiglia il suo ‘general Report’, al Congresso di Storia economica svol-

tosi in Bloomington (USA) nel 1968.29 Un punto di forza è per Pleket costituito dalla mancata utilizzazione del mulino ad acqua: un

argomento classico sin dal saggio di Marc Bloch e sempre nuovamente affrontato nella nostra tradi-zione di studi.

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nità. Ad es. immaginando la logica interna ad una società di ruoli e non di profitti,orientata pertanto in via pregiudiziale ad assicurare la persistenza delle condizioni‘abituali’ di funzionamento, e gerarchie di statuti, piuttosto che a perseguire mi-glioramenti e più elevati livelli d’efficienza.

Sul modo in cui, a suo tempo, è stato posto (e continua ad esserlo, seppure intermini talora ribaltati) il problema dell’arretratezza tecnologica del mondo clas-sico e in particolare dei Romani, oggi sono abbastanza critico giacché mi sembraposto in termini pericolosamente generalizzanti. Tuttavia è indubbio che l’emer-sione di tale problematica abbia costituito, in quel contesto, un passaggio indi-spensabile per il definirsi del quadro di riferimento della storia economica di Roma.L’interpretazione datane allora privilegiava una conclusione negativa che, a suavolta contribuiva a svalutare ogni idea di crescita economica. Il che, poi, agevolavala tesi, soprattutto da parte di Finley, della preminenza dello status nella condottaeconomica degli antichi.

Un terreno privilegiato, in tal senso, era indubbiamente quello degli statuti pro-prietari: e non a caso un passaggio importante è costituito da un’opera miscellaneada lui coordinata sulla Roman Property, del 1976. Un tema dominato, all’apparenza,dagli aspetti giuridici e tuttavia tale da permettere una più generale riconsiderazionedel modo in cui le forme proprietarie si erano sostanziate nel regime fondiario ro-mano. Basterebbe citare l’ottimo saggio di E. Rawson contenuto in tale raccolta ededicato alla circolazione delle ville romane nell’ultimo secolo della repubblica percogliere un nuovo problema. Se il rapporto tra i proprietari e queste loro semprepiù splendide tenute era così labile, come si fa a parlare seriamente di una strategiaproduttiva e di un’organizzazione produttiva? Non si è forse trattato di un uso par-ticolare di beni che solo in parte rispondevano ad una funzione di tipo aziendale?

Tutto ciò rientrava bene in una prospettiva tendenzialmente riduttiva di molteidee correnti, che finiva sostanzialmente con l’allontanarsi da ogni paradigma in-terpretativo troppo fortemente legato sia alle idee di trasformazione che a quelle dievoluzione. Non mi sembra facile valutare sino a che punto questo orientamentofinisse poi con l’affermarsi effettivamente sostanziandosi in quella che è stata in-terpretata come una vera e propria ‘ortodossia’. Certo, però, la sua rilevanza anchenell’ambito della storiografia continentale fu tale da imporsi in primo piano, po-nendo al centro del dibattito anzitutto il problema della quantificazione dei feno-meni economici antichi. Un problema di cui il grande storico anglo-americano, piùche a sottolinearne l’insolubilità, tendeva a sostenerne la relativa irrilevanza.

Erano ovviamente posizioni destinate a suscitare notevoli echi e reazioni, anchemolto accentuate. Ora, proprio riconsiderando globalmente le discussioni di allora,ma anche tenendo conto della prospettiva in cui ormai l’opera finleyana mi sem-bra consacrata (ma anche, mi permetto di dire, congelata) nella riflessione storio-grafica contemporanea, mi spingo in questa sede ad avanzare un’ipotesi

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interpretativa affatto personale. Ho infatti il sospetto che questi aspetti abbiano fi-nito con l’oscurare quello che mi sembra fosse allora il vero e più importante ap-porto innovativo di Finley. E cioè che la sua radicale contestazione di molti luoghicomuni e di schemi consolidati, seppure finalizzata a sostenere ricostruzioni sto-riografiche talora piuttosto discutibili, avesse un obiettivo molto preciso e tuttoradi grande rilievo ed attualità. Si trattava infatti di evidenziare quanto di precon-cetto e di non dimostrato si celasse alla base delle interpretazioni correnti dellastoria dell’economia e della società romana concepita in termini di sviluppo e fon-date sull’assunto di una naturale crescita delle forme produttive. L’esigenza di ri-pensare agli schemi sino ad allora dominanti mi sembra, oggi, il seme più fecondopresente nell’opera di Finley di quegli anni. Ed è proprio questa apertura che par-rebbe essere stata sfruttata troppo poco a ripensare i fondamenti teorici di una sto-riografia economica di Roma antica 30.

8. Anche se, va detto, qualche spunto importante si ebbe in tal senso e non solonell’ambito diretto della sua scuola. In tal senso andrebbe valorizzata, ad es., ladura critica, svolta da John K. Evans, nel 1979, di una serie di luoghi comuni cheavevano appesantito i nostri studi, sia nel senso ‘catastrofista’, associati all’ideadella generalizzata scomparsa del libero contadiname romano-italico dagli inizidel II sec. a.C., sostituito dalla manodopera schiavistica, sia con l’abuso del terminelatifondo a qualificare l’organizzazione fondiaria tardo repubblicana ed imperiale31.La polemica si rivolgeva direttamente contro i principali mallevadori delle tesi al-lora dominanti: da Tibilietti a Toynbee ed allo stesso Brunt, e s’ampliava esplici-tamente ai presupposti concettuali ed agli equivoci che si trovavano alla base delleloro interpretazioni. Ma è soprattutto da sottolineare come, in tal modo, si co-gliessero bene alcuni assunti di base su cui non v’era stato finora alcun dibattito.Venivano così messi in questione la “indefensible assumption that historical de-velopment is invariably linear”, l’uso aneddotico delle fonti, l’omissione di testi-monianze rilevanti su cui si fondavano le tesi allora dominanti 32. Mentre altrischemi interpretativi venivano almeno evocati: in un’epoca in cui il nome di Cha-yanov era ormai dimenticato salvo che da qualche specialista, Evans evocava in-fatti la nozione di “peasant economy” per la comprensione della storia agrariaromana. Una prospettiva allora innovatrice, contemporanea del resto, al libro diSahnin. E, attraverso di essa, ci si poneva anche a proposito della realtà romana ilquesito sulla possibile presenza di quel fenomeno così caratteristico delle società

30 Su questi aspetti mi permetto di rinviare al mio contributo in corso di stampa nella Rivista distoria economica.

31 Evans 1980, 19, 23 s.32 Evans 1980, 26 s., 31. A p. 33 l’a. associa molto acutamente «the primacy of the latifundia»

all’«anecdotal method and a static perception of historical development».

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agrarie rappresentato dalla celata forma di sottoutilizzazione della manodoperaagraria 33.

Ma non meno significative appaiono alcune reazioni critiche alle stesse presedi posizione di Finley. Trascurerò, in questa sede, il dibattito sviluppatosi relati-vamente alla storia greca (strettamente unita, nella visuale di Finley, come soventeavviene tuttora nella storiografia angloamericana, alla storia romana) dove s’im-pone la discussione con uno studioso molto presente nell’orizzonte di Finley, comede Ste. Croix. Quanto alla storia romana e per gli aspetti che più direttamente ci in-teressano, i riflettori s’accesero, soprattutto in Italia, sulla vivace discussione traFinley e Carandini. Sotto il profilo da me privilegiato, appare però, oggi, più si-gnificativo un altro intervento critico costituito dall’approfondita ed articolata re-censione all’opera forse più impegnata ed esplicita di Finley, Ancient Economy,pubblicata da Martin Frederiksen sul Journal of Roman Studies. Questo studioso,che brillò di una luce singolare nella scienza europea per un periodo troppo breve,ahimè, si caratterizzava per l’eccezionale dominio di una pluralità di campi scien-tifici, ma anche per un peculiare bilinguismo culturale. Profondamente impregnatodella migliore scholarship anglosassone, rispettoso e attento all’evidenza ed al sin-golo dato, ma anche interessato alle idee ed agli schemi generali dibattuti daglistudiosi continentali e in particolare italiani.

Le sue considerazioni si svolgevano essenzialmente su due piani, da un lato ri-chiamando un ricco insieme documentario, dominato con mano sicura quanto leg-gera, per verificare gli enunciati di Finley sul terreno dei fatti. In parallelo egliapriva una discussione sull’utilizzazione da questi effettuata degli schemi webe-riani. Era una discussione assolutamente nuova nell’ambito della storiografia an-tichistica e, più in generale, nel contesto culturale dell’epoca. Dove alla prevalenzadegli orientamenti marxisti, nel continente, faceva riscontro talora una sporadicacitazione di Weber, sovente nella vulgata riduttiva di Talcott Parsons o secondo glischemi di Shiels. Era qui che il recensore appariva invece particolarmente ag-guerrito, evidenziando una familiarità non comune, per l’epoca, con le prospet-tive, i metodi e la problematica weberiana, che andava ben al di là della circoscrittavisuale offerta dalla Storia agraria del ’91. Ed è qui, nel ridimensionamento divecchi idola, nella ridiscussione di un’applicazione acritica di schemi interpreta-tivi troppo forgiati sul presente e così privi di fantasia storiografica che il grandestorico di Cambridge e lo studioso di Oxford s’incontravano in modo ancor oggisignificativo.

Giacché, alcuni anni prima della sua recensione a Finley, già Frederiksen avevareso ben evidente, in un suo folgorante saggio pubblicato in Dialoghi d’Archeolo-

33 Sostanzialmente più pessimistico sulle potenzialità dell’agricoltura romano-italica ed imperialeappare invece Evans 1981. Uno dei primi saggi in cui appare utilizzato il pensiero di Chayanov.

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gia la vivace rivista di Bianchi Bandinelli e dei suoi allievi, la sua autonomia daglischemi allora dominanti. In esso infatti egli s’era impegnato a demolire l’inter-pretazione corrente del De agri cultura di Catone «in terms of competitive econo-mics of a modern age, that a priori the large Catonian unit must have driven outthe small», giacché le condizioni dell’Italia precapitalistica impedivano «such aneasy formula». Da qui l’ipotesi di una vicenda più complessa, dove in certe areele piccole proprietà, non solo avrebbero continuato a sussistere, ma si sarebbero ad-dirittura espanse ulteriormente. Per la prima volta, che io sappia, si poneva il pro-blema della natura della peculiare forma assunta dalla dominanza di un assettoproduttivo in una società precapitalistica. Io credo poi che fosse merito di quel suobilinguismo già da me ricordato la sua comprensione dei caratteri intrinseci dellamorfologia del paesaggio dell’Italia centrale, così estranea all’immagine del lati-fondo e della piantagione. Con il che diveniva facile immaginare una più articolatasfaccettatura sociale dei proprietari fondiari, talora titolari non di ‘latifondi’, ma«owners of a series of smallish plots scattered over central Italy» 34.

Era un aspetto già emerso, come s’è ricordato, nella riflessione degli anni pre-cedenti: ora tuttavia diveniva più chiaro come esso s’intrecciasse strettamente alproblema della composizione delle forze produttive da un lato, della natura del-l’intera organizzazione produttiva dall’altro. Di fatto s’apriva in quegli anni il pro-blema di una più generale riconsiderazione dei caratteri dell’economia agrariaromana, tra repubblica e principato.

Questo è per me, oggi, il punto qualificante in cui registriamo l’aspetto più si-gnificativo dell’incontro/scontro tra questi due autori. Esso rendeva chiara, infatti,l’esigenza di una riconsiderazione ed un arricchimento degli schemi su cui gli an-tichisti avevano sinora prevalentemente fondato le loro interpretazioni della so-cietà agraria romana. Per questo vi ravviso l’anticipazione di quel mutamentoprospettico che prenderà evidenza nel corso degli anni ’80, preparando il quadrodi riferimento entro cui oggi ci muoviamo. La polemica di Frederiksen, andandoal di là della valutazione di fatti empirici o di aspetti meramente quantitativi, ri-prendeva l’apporto di Finley in funzione di una nuova teoria economica dell’anti-chità. Era una strada importante che si apriva così, improvvisamente interrotta dallatragica scomparsa di questo studioso.

9. Insieme a tanti suoi amici e colleghi italiani, anche Frederiksen prese partea quel disordinato e vitale lavoro collettivo intrapreso dall’eterogeneo ma riccogruppo di studiosi di diverse discipline relative al mondo antico che faceva capoall’Istituto Gramsci. L’obiettivo era quello di una ricostruzione storica della so-cietà romana tra fine repubblica e prima età del Principato, applicando i canonipropri del materialismo storico.

34 Frederiksen 1970-1971, 356.

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Non sto qui a tracciare racconti autobiografici o postumi bilanci: i risultati diquesto prolungato ed intenso lavoro sono acquisiti da tempo alla nostra tradizionedi studi, e restano, un po’ ingialliti ormai, nelle nostre biblioteche. Una sola con-siderazione personale vorrei aggiungere: ed è che, nella mia esperienza, quello fuun punto alto di un lavoro interdisciplinare che, in seguito, non mi è stato dato direalizzare né di veder realizzato nuovamente. In esso ciascuno dei nostri speciali-smi venne costantemente sottoposto alla pressione di altri metodi ed altri modid’interrogarsi e d’operare sulla storia antica. Sotto questo profilo, direi, un lavororiuscito, durato più di un decennio, carico di una pedagogia tanto più feconda per-ché spontanea. E ricco di fermenti e di aperture: i volumi che ho ora citato costi-tuirono un quadro d’insieme d’indubbio interesse ed i risultati erano destinati asuscitare echi persistenti 35. E dal ricordo che è dato di cogliere in noi e intorno anoi, si può dedurre che esso sia stato, per molti dei partecipanti, una delle espe-rienze più formative nella loro carriera professionale.

Ovviamente l’agricoltura romana era ben al centro di queste indagini: la villaschiavistica, come sappiamo, da sempre era stata vista come il modello più ‘avan-zato’ dello sviluppo economico romano. Su questo vi era piena concordanza tra stu-diosi di orientamenti ideologici e metodologici affatto diversi. Ed è qui, però, cheoggi assai più chiaramente di allora, è dato di cogliere una distorsione abbastanzasingolare all’interno dai volumi che raccolsero la prima stagione di questi lavori,apparsi nel 1981 36. Essi erano dedicati infatti alla Società romana e produzioneschiavistica, con una vasta confluenza di saggi appartenenti ad archeologi, storici,giuristi e filologi, dov’erano trattati molteplici aspetti, non solo materiali, di que-sta società tardo-repubblicana. Quanto invece alla produzione schiavistica ed allasua forma organizzativa idealtipica, la villa – il nodo di tutta la periodizzazione

35 Si tenga presente che in nessun modo, nelle considerazioni che seguono, intendo procedere aduna valutazione complessiva di questa vicenda. Non è questo il mio obiettivo, anche se ribadisco lospessore delle analisi settoriali e l’ambizione di pervenire ad una visione d’insieme, grazie anche adun lavoro intensamente interdisciplinare. Sono qualità dell’opera già allora riconosciute: il mio pro-blema, qui, è affatto specifico e concerne esclusivamente la portata delle analisi in essa contenute in-torno al possibile carattere e funzionamento dei sistemi produttivi ed economici dell’agricolturaromana.

36 Quest’ambiguità si coglie sin dal titolo dell’opera: assai più circoscritto ed asettico di quantonon fosse quello del convegno originario, tenutosi a Pisa tre anni prima, nel 1978, relativo alla ‘formadi produzione schiavistica e tendenze della società romana: II sec.a.C. - II sec.d.C. Un caso di svi-luppo precapitalistico’. Ho sottolineato io l’indicazione chiave per cogliere la pesante presenza diquell’assunto che univa allora gli storici di qualsiasi orientamento metodologico e ideale, in una vi-sione di tipo evolutivo e sostanzialmente continuistica. Ma ancor più interessante è a mio avviso, ilconfronto tra l’impianto teorico sotteso al lavoro del Gramsci e ben presente nel volume che rac-colse la prima stagione di lavori del ‘gruppo’: Capogrossi Colognesi et al. (eds.) 1978, con l’operaedita nel 1981. Già in alcuni dei saggi raccolti in questo volume e che ben riflettevano il livello d’ana-lisi che veniva svolgendosi nel corso dei lavori del ‘gruppo’, i problemi di periodizzazione (e quindil’ipostatizzazione dei ‘modi di produzione’) restavano al margine di un altro filone del pensiero mar-xiano costituito dal rapporto tra valori d’uso e valori di scambio.

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marxista cui si ispirava questo lavoro collettivo – a ben vedere, non v’era molto.Certo ricorrente, nel linguaggio dei singoli interventi, era il riferimento alla pre-senza servile, al modo di produzione schiavistico. E tuttavia, poi, nel concreto vol-gere delle pagine non si riesce bene a identificare la specifica fisionomia di questa‘produzione schiavistica’. Almeno per quel settore da sempre privilegiato a tal pro-posito: l’agricoltura romana tra fine repubblica e prima età del principato.

Questo vale anzitutto per la sedes materiae, dove tale problematica quasi si dis-solve, tra il saggio di Andrea Giardina, e quello di Mireille Corbier. Il primo s’oc-cupa di ciò che è fuori della produzione schiavistica: l’economia della selva e delgrande allevamento, né vale la grande capacità d’inquadramento dell’autore a ri-condurlo al centro del fenomeno schiavistico romano-italico, né l’apparente ade-sione allo schema di Toynbee. In esso prevale infatti una prospettiva di lungoperiodo destinata poi a maturare ulteriormente nell’ulteriore produzione scientificadel nostro carissimo amico. Una prospettiva, in verità, che gettava le basi per uncomplessivo ripensamento proprio della scansione tradizionale imposta alla storiaagraria romana. Quanto alla Corbier è sufficiente ricordare come il suo contributofosse essenzialmente centrato sui rapporti di locazione agraria: un sistema alterna-tivo alle forme organizzative proprie della villa catoniana. Neppure da citarsi infineun mio intervento abbastanza scialbo, se non per alcune note dedicate all’impiegodel lavoro libero nelle campagne 37. Forse l’unico saggio concentrato su quella cheavrebbe dovuto essere la struttura portante dell’economia schiavistica, la villa, restaquello di M. Frederiksen, mentre ulteriori motivi di cautela in una valutazione uni-voca delle trasformazioni del II sec. a.C. appaiono introdotti da Vallat.

Né granché diverso appare il quadro generale dei tre volumi di quest’opera:dalle trattazioni regionali, dove per la Sicilia gli argomentati interventi di Coarellie Mazza tendono semplicemente a rettificare, ma non a capovolgere l’idea di unariespansione della piccola proprietà contadina rispetto al latifondo nel corso del Isec. a.C. Ancor più significativo, però, è il quadro di sintesi tracciato da Mario To-relli a conclusione delle disamine regionali, in particolare a proposito delle indi-cazioni di M. Andreussi circa le tracce di ville nel territorio laziale. Giacché egliesplicitamente sottolineava una continuità piuttosto che una radicale innovazionetra la realtà insediativa agraria del II sec. a.C. e quella della fase precedente. Unpunto rilevante rispetto alla visione tradizionale della grande rottura di II secolo 38.

37 Questo intervento pubblicato va confrontato con le posizioni già molto articolate emerse sianel mio saggio del ’74, apparso solo alcuni anni dopo: Capogrossi Colognesi 1979, sia in CapogrossiColognesi 1981a. Su due punti insistevo allora in modo particolare: l’inconsistenza dell’idea di grandiproprietà accorpate e gestite unitariamente come modello dominante dell’agricoltura tardo-repub-blicana, l’impossibilità di una forma produttiva esclusivamente caratterizzata dal lavoro schiavistico.Di qui l’importanza del sistema delle locazioni agrarie cui facevo cenno già nel saggio del ’74. Unaprospettiva che si annacqua e si sfuoca invece in Capogrossi 1981b.

38 Giustamente evidenziato dall’acuta ed equilibrata recensione di quest’opera collettiva, di Spurr

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Così l’articolato e ricco complesso di contributi veniva a sfuocarsi rispetto adun nodo centrale e qualificante proprio al fine di definire la struttura interna ed imeccanismi di funzionamento della formazione economico-sociale presa in esame.Per questo restavano abbastanza isolate le pagine di Carandini, dove in effetti, lasocietà romana tardo-repubblicana era rigidamente compressa nella tradizionaleperiodizzazione. Lì effettivamente, ma lì soltanto, si ribadiva lo schema evolutivosecondo cui alla fase medio-repubblicana caratterizzata dalla piccola proprietà con-tadina sarebbe succeduto, nell’età dello ‘stato imperialistico’, il «lavoro collettivodegli schiavi chiusi in medio-grandi unità produttive» 39.

Riletta oggi, quest’opera appare presentare una fisionomia complessa che an-ticipa per molti aspetti il nuovo quadro di riferimento che verrà imponendosi inquegli anni. Seppure al centro dell’interesse si colloca inevitabilmente l’organiz-zazione produttiva della villa schiavistica, essa non appare tuttavia isolata come laforma caratteristica di organizzazione delle forze produttive coincidente con l’apo-geo di una particolare formazione economico-sociale. In tal modo questo lavorocollettivo evitava d’appiattirsi in un’applicazione rigida dello storicismo marxista,secondo una visione evolutiva fondata sulla meccanica successione dei modi diproduzione, di tipo sostanzialmente unilineare. Una logica peraltro che, come s’ègià accennato, finiva con l’avvicinare paradossalmente questo orientamento alla vi-suale evolutiva su cui s’erano adagiate le precedenti generazioni ed affatto estra-nea agli orizzonti marxisti.

Questa complessità prospettica dei volumi del ‘Gramsci’, d’altra parte, rischiavadi dissolvere lo stesso modello interpretativo di partenza. A ben vedere è propriociò che si appaleserà nella successiva opera, apparsa qualche anno dopo e relativaalla ‘crisi’ del sistema schiavistico. Dove tuttavia possiamo cogliere il consape-vole impiego dello strumentario marxiano nella costruzione di un modello inter-pretativo che ormai non si limitava solo ad una parziale negazione della versionetradizionale della genesi e della crisi del sistema schiavistico. Basta, a tal propo-sito, rileggersi il saggio d’apertura del coordinatore generale dell’opera, AndreaGiardina. Esso ci colpisce, dopo tanti anni, per la raffinata e innovativa utilizza-zione dello strumentario marxista effettuata dall’autore in funzione di risultatiormai molto lontani dagli schemi consueti in tale orientamento storiografico.

Mi sembra di poter cogliere tre punti di riferimento nella costruzione di talesaggio: in primo luogo, in esso appare ormai consacrata la distinzione tra la cre-scita quantitativa di terra in mano allo stesso proprietario e la dimensione delleunità fondiarie: un punto chiave per comprendere le effettiva potenzialità di svi-

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1985, 124 s., in cui tuttavia la periodizzazione e lo schematismo di tipo marxiano presente in questivolumi sono assai più fortemente sottolineati che in queste mie annotazioni. Che però s’incontranonel richiamare l’ombra di Toynbee che si stende su quest’opera.

39 Carandini 1981.

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luppo qualitativo dell’organizzazione produttiva, ma anche per cercare di coglieregli effettivi fattori di crisi di questo stesso tipo d’accumulazione. Questo permet-teva di mettere a fuoco un secondo aspetto costituito dal carattere articolato terri-torialmente del sistema delle ville, non definibile in termini generali, ribadendosialtresì la coessenzialità del lavoro libero alla villa catoniana. Anche in base a ciòl’autore si spingeva infine ad enunciare la conclusione più importante, secondo cuisarebbe stato impossibile collocare le trasformazioni organizzative dell’agricol-tura antica in una linea di continuità in termini evolutivi, considerando il colonatosemplicemente come una forma regressiva rispetto all’economia a schiavi.

Le lontane premesse cui ho sopra fatto riferimento trovavano qui la loro maturaconclusione: si scompaginava definitivamente in tal modo una versione rozza, madiffusa, della serialità dei modi di produzione e, soprattutto, s’avanzava l’ipotesiche «il modo di produzione schiavistico [fosse] entrato in ‘crisi’ prima di espri-mere pienamente una qualsiasi delle sue possibili contraddizioni interne» dovendoessa essere piuttosto riferita a fattori esterni «alla logica del sistema produttivo, in-tesa in senso pienamente… economico». Ciò che permetteva di concludere ap-punto affermando l’esigenza «di una visione più articolata dei grandi fenomenistorici di dominio economico, che neppure nell’età del capitalismo moderno… sisono presentati in forma autonoma» 40. Un passaggio chiave, che ho voluto ripor-tare testualmente perché, con esso, appare chiaro come lo strumentario marxistanelle mani sapienti di Andrea Giardina, mostrava una capacità di rinnovamento edi apertura che non si discostava dai nuovi orizzonti che venivano allora matu-rando.

I contributi miei, della Corbier 41 e le analisi settoriali svolte dagli archeologi nonfacevano che completare questo quadro innovativo 42. Da un lato infatti la storicafrancese, proseguendo in fondo nella linea già intrapresa nell’‘81, insisteva sul ca-rattere articolato del paesaggio agrario, non riconducibile all’immagine stereotipache si era venuta costruendo della villa ‘latifondistica’ romana. D’altro canto, nel-l’ampio – questa volta – mio intervento si tendeva a dimostrare in modo abba-stanza sistematico quanto nell’‘81 era stato appena accennato, e cioè che esisteva,almeno a partire dal II sec. a.C., un sistema complesso di contratti – uno strumentonuovo nel sistema giuridico romano dell’epoca – attraverso cui, in modo moltodifferenziato, il lavoro libero era stato ampiamente utilizzato nelle campagne ro-

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40 Giardina 1986.41 È sul paesaggio agrario che viene posto l’accento dall’autrice. Almeno nella Gallia settentrio-

nale, esso sarebbe caratterizzato da un tessuto di insediamenti isolati sul modello delle villae e da unapluralità di agglomerati di tipo vicano: Corbier 1986.

42 Dove è da segnalarsi soprattutto (in particolare nei saggi di Verzar-Bass e di Guzzo) la relativaeterogeneità, sotto il profilo cronologico, delle forme insediative e, in linea generale, l’estraneità digran parte della Penisola al quadro evolutivo-tipo fondato sull’espansione massiccia della villa a par-tire dal II sec. a.C.

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mane tardo-repubblicane. Ciò che, a sua volta, era funzionale ad un’altra e più in-cisiva conclusione: che cioè tali forme negoziali fossero funzionali a forme di uti-lizzazione della proprietà fondiaria assai più ampie dello schema costituito dallavilla schiavistica tardo-repubblicana. Ormai s’affermava a chiare lettere quantoprima solo accennato 43: che sin dalla tarda repubblica ci si trovasse di fronte ad untipo di organizzazione produttiva parallela alle forme di gestione diretta della villache sino ad allora aveva monopolizzato o quasi l’interesse dei moderni, dominatidel resto dalle prospettive della letteratura agronomica romana. Ma non solo, giac-ché, diversamente dal più restrittivo orientamento di De Neeve, io tendevo a insi-stere sul fatto che questa complessità si fosse riflessa anche sul carattere delle formedi lavoro dipendente.

Anche qui è difficile e forse non pertinente cercare di valutare sino a che puntola forza intrinseca di questo gruppo di ricercatori s’imponesse alla coerenza deglischemi teorici, quanto invece vi fosse di maturazione nell’utilizzazione di questida parte di una generazione esposta ad una molteplicità di stimoli e capace quindidi rileggere e reinterpretare anche gli schemi marxiani su cui era venuto fondandoil proprio lavoro. Allora, tra l’altro, proprio in occasione di quelle ricerche ser-peggiò un problema variamente richiamato da vari studiosi in ordine ai limiti in-trinseci alla crescita della villa schiavistica. Questo era un punto essenziale proprioper definire il carattere della dinamica storica di un certo assetto economico-so-ciale. Affiorava allora la questione della possibile intrinseca staticità ed immodi-ficabilità evolutiva della struttura centrale dell’intera organizzazione agrariaromana nella sua fase di massimo dinamismo e, conseguentemente, della perti-nenza o meno della stessa idea di ‘sviluppo’ applicata ad una situazione del ge-nere. Ma, a sottolineare l’articolarsi delle forme organizzative all’interno di unaformazione economico-sociale precapitalistica, si sviluppò anche un altro puntodi discussione, sempre tra me e Giardina. Si trattava di articolare il concetto di ‘do-minanza’, e individuare i nuclei organizzativi caratterizzanti le varie morfologie so-ciali e tuttavia incapaci di assumere, nonché un valore totalizzante, anche unadimensione quantitativa necessariamente preminente, restando piuttosto a definiregli aspetti qualitativi di un processo.

Certo si è che proprio, nel momento in cui l’intera impalcatura del socialismoreale entrava in una crisi tanto radicale quanto definitiva, la grande riflessione diMarx sulla natura dei processi economici nelle società precapitalistiche sembravamostrare una interessante capacità di rinnovamento. Oggi, in effetti, quest’operacollettiva, lungi dall’apparirci come un fenomeno isolato o di mero attardamentorispetto ai più recenti sviluppi che la storiografia occidentale veniva allora mo-strando, segna essa stessa uno dei punti d’evidenza della più generale trasforma-

43 Questo non solo nei volumi dell’‘81, ma anche in Capogrossi Colognesi 1974.

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zione d’orizzonti maturata in quegli anni. Trasformazione cui faccio risalire l’ini-zio della vicenda che ci porta finalmente ai nostri giorni.

10. In quel lasso di tempo aveva infatti avuto inizio la svolta destinata a se-gnare una nuova stagione della storiografia agraria romana: la stagione in cui oggiviviamo ed operiamo. E che si connota per la presenza importante degli allievi diFinley. Anzitutto con il complessivo riassestamento dei nostri studi, collegato allacomparsa, nel 1976, dei Conquerors and Slaves di Keith Hopkins. Un libro certonon direttamente riferito ai problemi di storia agraria e che, tuttavia, tendeva ad of-frire un quadro interpretativo dei processi economici in ambito imperiale in gradodi dare senso e orientare le specifiche analisi nell’ambito di questo settore produt-tivo. Ma penso ancor più all’altro grande allievo di Finley, Peter Garnsey ed allasua produzione nei tardi anni ’70, in particolare all’opera da lui coordinata sulleforme di Non-Slave Labour in the Graeco-Roman World 44. In essa era molto si-gnificativo il ventaglio di posizioni e prospettive che veniva a delinearsi, attra-verso i contributi di autori provenienti da diverse esperienze, tra cui quell’ottimoKreissig, lo studioso marxista che ebbi già a ricordare. Il risultato centrale cosìconseguito era l’ulteriore e più matura svalutazione della visione tradizionale re-lativa alla centralità della forma schiavistica come fondamento dell’intera orga-nizzazione produttiva romana.

L’arricchirsi delle nuove prospettive nello studio della storia agraria romana ap-pare poi attestato da una serie di ricerche allora apparse: anzitutto dal libro di J.M.Frayn, sulla Subsistence Farming in Roman Italy, in cui venivano utilizzati glischemi ricavati dagli studi moderni sulla peasant economy. Mentre diretti riflessi sutale settore di studi aveva il lavoro del 1981 di Edward Champlin, dedicato al-l’analisi delle ricchissime indicazioni contenute nella Tavola dei Liguri Bebiani, undocumento abbastanza trascurato, in genere utilizzato solo a integrazione della piùnota e studiata Tavola di Veleia. Se ne ricavava infatti la presenza e il forte radica-mento rurale di una ben definita e relativamente stabile stratificazione sociale. Nel1974 l’autorevole libro di Duncan-Jones sulla Economy of the Roman Empire, s’im-pegnava infine nel tentativo di quantificare i fenomeni economici anche per l’agri-coltura romana.

Risale a quegli stessi anni la saettante affermazione di Finley, secondo cui, nellecampagne italiche, il lavoro libero e quello schiavistico si trovavano in un rapporto

44 Di particolare rilievo sono soprattutto i tre saggi di Garnsey, Whittaker e Treggiari in Garnsey(ed.) 1980, dove appunto s’allarga la visuale al di là della forma schiavistica. V. anche Garnsey 1981,dove avvalendosi della sua sensibilità giuridica rettifica la visione brillante quanto forzata in sensoprimitivistico del ruolo dei liberti romani, liquidando altresì le forzature di Alföldy. Ne emerge unarealtà più dinamica e complessa, coerente alla valorizzazione fatta da Lepore e da Andreau di un’ari-stocrazia municipale egualmente legata ai sistemi fondiari ed alle attività mercantili.

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di “symbiosis” 45. Un punto fermo ormai, già acquisito dagli stessi storici marxistio da quelli comunque più influenzati dal tipo di periodizzazione che aveva domi-nato la precedente stagione di studi. Queste nuove indicazioni, insieme a quanto ab-biamo già visto in ordine alla morfologia dei sistemi fondiari, erano tuttavia ancoraelementi sparsi, non ricongiunti in forma coerente all’interno di un’interpretazioneorganica dei modelli produttivi ed organizzativi dell’agricoltura romana a partiredall’età postannibalica 46. Restava così il dubbio che i nuovi elementi acquisiti allavalutazione storiografica si riferissero a forme residue, testimonianze di un delicatoe indeterminato rapporto tra situazioni marginali o subalterne e il carattere domi-nante di un intero sistema produttivo. Mentre ancora al margine era l’altra que-stione che ho già ricordato relativa allo stesso significato di ‘carattere dominante’in relazione all’oggettiva disarticolazione di una formazione precapitalistica.

È proprio su tali intrecci che intervenne allora, con un impatto ed una portataancor più generali, un altro libro di grande qualità pubblicato da un giovane olan-dese, Pieter Willem de Neeve con la sua ricerca sul Colonus apparsa nel 1984. Taleautore, già evidenziatosi con vari saggi di storia agraria e dell’organizzazione fon-diaria di un certo interesse, grazie ad un non comune dominio delle fonti giuridi-che ed una peculiare capacità d’interpretazione, con questa sua ricerca davafinalmente adeguato rilievo a quella miniera d’informazioni che, per la storia so-ciale ed agraria, è sempre stato il Corpus iuris giustinianeo: una miniera peraltroassai spesso molto trascurata dai moderni studiosi. Il tema da lui affrontato, in ef-fetti, a metà tra la storia sociale e quella giuridica, concerneva essenzialmente l’or-ganizzazione della produzione agraria. E su di essa confermava quelle aperture giàavviate rispetto al tradizionale scenario tutto impostato sul modello della villa ca-toniana, abbandonando l’interpretazione stereotipa della condotta economica del-l’oligarchia romana tra repubblica e principato.

Un anno dopo, nella seconda edizione di Ancient Economy, era pubblicata daFinley un’appendice in cui si prendevano in esame recenti tendenze evidenziatesisoprattutto in Italia, affrontando direttamente le critiche di Carandini. In tale oc-casione assumeva maggiore evidenza, nel suo discorso, il valore di riferimento delWeber degli Agrarverhältnisse, e la rilevanza delle posizioni di Bücher e dellostesso Weber nella definizione del rapporto città-campagna nel mondo antico. Equesto contribuiva a chiarire ulteriormente – il punto è per me fondamentale –come per il grande storico di Cambridge, si trattasse soprattutto d’individuare icriteri di lettura del quadro generale e d’interpretazione delle fonti ad esso rela-tive, piuttosto che dare significato ai singoli elementi di esso 47.

45 Finley 1983a, 77 s.46 È un punto che coglie bene Spurr nella sua già citata recensione ai volumi del Gramsci.47 Finley 1985, 182.

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Nel frattempo lo smantellamento delle vecchie posizioni continuava in formaquasi ininterrotta: un momento importante fu, a mio giudizio, la pubblicazione, nel1986, del libro di Spurr sull’Arable Cultivation in Roman Italy, e per più di un mo-tivo. Non solo si contribuiva a sfatare il mito del declino generalizzato della ce-realicoltura italica in età postannibalica, ma si proponeva una generalericonsiderazione della portata della documentazione molto articolata attirando l’at-tenzione sulle peculiarità regionali. Con quest’opera il bravo studioso inglese mo-strava una conoscenza di prima mano delle realtà morfologica e strutturale dellaPenisola che, allora come oggi, a mio avviso è condizione importante per com-prendere, anche alla luce di elementi di continuità, i vincoli che si ponevano allescelte ed alle logiche produttive degli antichi. Essa veniva così a iscriversi entro unapiù generale revisione di quella troppo accentuata cesura individuata tradizional-mente nell’età annibalica. Iniziavano a prospettarsi ipotesi ricostruttive più artico-late di quella semplicistica visione che aveva interpretato la realtàeconomico-sociale romana anteriore alle guerre puniche come dominata ancoradalle forme della piccola proprietà contadina. Importanti appaiono in tal senso leprecoci indicazioni di Emilio Gabba, che avviavano, seppure con cautela ed equi-librio, la revisione di un altro dei punti fermi della visione tradizionale che avevaindividuato una radicale cesura nelle forme produttive e negli assetti organizzativie proprietari romani nell’età di Annibale. Questo processo sarebbe pervenuto apiena maturazione nell’ultimo decennio del secolo, consacrato, anzitutto dall’ot-timo lavoro di Tim Cornell sui Beginnings of Rome. Ma soprattutto un’impressio-nante conferma sarebbe venuta emergendo allora con le nuove risultanzearcheologiche e la loro interpretazione. Del resto, già anteriormente era dato di co-gliere i primi passi per una riconsiderazione della stessa interpretazione dei dati re-lativi ad epoche più recenti 48.

Da allora possiamo datare il definitivo superamento della precedente stagionedi studi: della fase ‘arcaica’, diciamo così, segnata dalle opere dei ‘padri fondatori’,e della stagione ‘pionieristica’ con la grandi ricerche e discussioni che segnaronogli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, più capaci di definire il complessivo quadroproblematico e le linee del lavoro futuro che non di offrire un quadro ricostruttivoadeguato.

Il risultato di questa stagione, a noi ormai più vicina, fu dunque l’affermazionedi un nuovo ‘common sense’ legato ad alcune convinzioni abbastanza generaliz-zate che segnano il distacco dalla precedente interpretazione della storia agrariarepubblicana ed alto-imperiale. Così tenderei a riassumerle: a) l’inesistenza di unaradicale frattura tra un ‘prima’, costituito dalla presenza totalizzante di un mondodi piccoli proprietari-contadini, ed un ‘dopo’ (rispetto alle guerre annibaliche) dove

48 Mi riferisco soprattutto a Carandini 1994.

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si assiste alla loro sostituzione dalla generalizzata forma della villa catoniana; b)la difficoltà di associare le forme organizzative della produzione agraria tardo-re-pubblicana al solo modello della villa schiavistica sotto la gestione del vilicus, cosìcome descritta, appunto da Catone e dai successivi agronomi romani; c) la conse-guente presenza di forme di lavoro libero nelle campagne italiche, accanto alla ma-nodopera schiavistica e la loro integrazione sia nel sistema della villa che in altreforme di proprietà e di gestione agraria; d) l’inesistenza di grandi concentrazioniuniformi e unitariamente gestite, nella forma delle ‘piantagioni’ e costituenti verie propri ‘latifondi’ in senso moderno; l’esigenza di una maggiore attenzione, piùche verso una evoluzione lineare ed uniforme delle forme produttive, ad un loro ar-ticolarsi di tipo regionale e locale. Una conseguenza ulteriore di tali mutamentiprospettici era la sempre più netta consapevolezza di una articolazione regionaledella realtà agraria romana di cui gli storici dovevano tener conto in misura ade-guata

11. Nei volumi del ‘Gramsci’ era apparso un interessante riferimento, da partedi A. Ricci, alla scoperta di un’importante villa situata nelle vicinanze di Cosa 49:la villa di ‘Settefinestre’. Anche qui mi sembra inutile ricordare cosa abbia signi-ficato la scavo di questo impianto: sia sotto il profilo dell’alto livello tecnico chelo caratterizzò, sia dell’interesse suscitato e in qualche modo del suo valore di ‘pa-lestra’ per un’intera generazione di archeologi.

D’altra parte, come tutte le cose importanti, per il loro valore ‘esemplare’ vi eraun pericolo: che un documento di rilievo, ma circoscritto, venisse più o meno in-consapevolmente dilatato a rappresentare un’intera storia. Del resto era quello che,per l’enorme peso specifico da essi assunto nell’intero contesto della letteraturalatina, era stato un po’ il destino dei tre grandi trattati d’agronomia romani. Il rife-rimento relativamente uniforme al tipo di proprietà prevalente nell’ambito del-l’oligarchia romana tra repubblica e principato era divenuto, nella lettura costantedei moderni, la forma generalizzata e uniforme dell’organizzazione fondiaria del-l’Italia romana.

Il paradosso fu così che la fortunata scoperta di Settefinestre finì col divenireun fattore d’irrigidimento di una visuale che invece, nella stessa esperienza del‘Gramsci’, come nel generale contesto della produzione storiografica degli anni‘80 si era già venuta articolando e settorializzando. Ne conseguì un ulteriore sti-molo anzitutto ad una polemica tra Carandini e Finley che assunse toni virulenti:due prospettive storiografiche rischiavano di divenire scelte di fede ed opzioni ad-dirittura politiche. Ma soprattutto questi sviluppi contribuirono a quello che, allafine, doveva rivelarsi un fenomeno di ritardo, quasi un regresso, giacché interven-

49 Ricci 1986.

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nero proprio quando, come scrive uno dei principali protagonisti di questa vicenda,«this historiographic trend» aveva inziato «to lose momentum as early as the se-cond half of the 1980s» 50. Proprio allora infatti interveniva l’ipostatizzazione dellavilla schiavistica, nella sua forma ‘classica’ definita da un’ormai consolidata tra-dizione di studi, come forma generale e totalizzante dell’economia primo-impe-riale.

In effetti all’indubbio e persistente interesse per la rilevante scoperta di unosplendido exemplum, man mano che questo si trasformava in una rappresentazionegeneralizzante poterono subentrare elementi di perplessità. Soprattutto di fronte alcontenuto ed alla concezione di Schiavi in Italia, pubblicato da Andrea Carandininel 1988, poteva insorgere, come avvenne a me, l’impressione di una ‘teoria ge-nerale’ della produzione schiavistica. Era un libro incisivo, come tutte le cose diquesto autore, e per questo in grado d’ingenerare una spirale in cui una serie d’in-terpretazioni – ragionevoli tutte, ma concatenate secondo una serie di nessi logicicorretti, ma sempre più ipotetici – dei dati archeologici, di quelli giuridici e deitesti agronomici finivano col confermarsi reciprocamente, trasformandosi un ap-parenti certezze 51. E questo dopo due anni dalla seconda serie dei volumi del Gram-sci, quasi a smentire l’alto grado di problematicità delle prospettive in essi aperte.

Si trattò tuttavia di un particolare sviluppo che non era destinato a incidere du-revolmente, giacché la corrente profonda andava ormai in altra direzione. E delresto particolarmente significativa ed esemplare mi appare, alla distanza, la fe-conda correzione che venne maturando nello stesso Carandini 52. In tal modo, egliha avviato una nuova stagione di ricerche, con l’apporto di nuovo materiale addi-rittura determinante per gli sviluppi più recenti dei nostri saperi. Ma, soprattutto ciha dato un’ammirevole lezione di metodo con la sua capacità di ripensare e rinno-vare i propri paradigmi. Sino alla più recente e così importante sua interpretazionedegli scavi della villa dell’Auditorium che contribuisce a capovolgere una tradi-zionale periodizzazione che lui stesso aveva contribuito a suo tempo a consolidare.

Un rinnovamento che invece non mi sembra di cogliere nel pur così apparen-temente innovativo modo in cui Schiavone, ancora vero la fine del secolo scorso,è tornato a interrogarsi sul quesito che, in apparenza, Weber s’era già posto ottan-t’anni prima. Scrivo ‘in apparenza’ perché anche Weber s’era chiesto perché il ca-pitalismo non si fosse sviluppato nel mondo antico: questo però a lui era servito,non tanto per riflettere sulla città antica o sull’economia romana (ché questi aspettierano stati il suo punto di partenza per giungere a proporre tale quesito), ma per ca-pire meglio che cosa di specifico, rispetto alla storia romana, nelle per certi versi

50 Giardina 2007, 21.51 Si v. ad es. il rapporto di reciproca conferma intervenuto tra le ricostruzioni di Carandini e le

ipotesi interpretative di Di Porto 1984a e 1984b.52 Si v. già Carandini 1994.

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simili ‘città-stato’ dell’Italia tardo medievale, avesse fatto germinare i primi ele-menti del capitalismo. Ricondotto, invece, come nel caso del romanista di Firenze,essenzialmente alla storia romana, esso ci distoglie dalle premesse dalle quali egliera peraltro giustamente partito, costituite dal fondamento irrazionale, per eccel-lenza ‘anticapitalistico’, della ricchezza romana.

Piuttosto che proporre una vera comprensione dei processi tardo-repubblicani,questa ‘storia spezzata’ finisce con l’appiattirsi sulla pesante eredità che ho cer-cato di evocare nel corso di queste pagine e che esaltava i fenomeni di crescitatardo-repubblicani, sia all’interno di una interpretazione marxista della storia chenella storiografia occidentale. Si annullava così – senza adeguata discussione –proprio quella specificità dei processi economici delle città medievali, rispetto allasocietà romana, su cui Weber aveva fondato la sua interpretazione delle condizionideterminanti per l’avvio di un’economia di tipo capitalistico. Invece di analizzarela diversa logica che ispira la direzione di due forme organizzative, l’accento ve-niva ad essere posto sull’ipotetica rottura intervenuta all’interno di una di esse. Ilche a sua volta si basava sull’erroneo presupposto di uno schema evolutivo uni-forme a tutte le società precapitalistiche. Di qui l’ipostatizzazione a nodo storio-grafico di quello che, invero, appare un non problema, con la riemersione di quegliassunti di tipo unilineare che costituiscono uno degli aspetti più caduchi dell’an-tico storicismo marxista. In gran parte superati già nelle due serie dei volumi del‘Gramsci’, essi si ripropongono così alla fine del secolo, come un fenomeno di at-tardamento senza esiti apparenti.

Nella sua intima essenza tale vicenda si collega alla singolare eterogenesi diquella che uno dei suoi protagonisti definirà la nuova ‘ortodossia finleyana’. Giac-ché non deve ingannarci l’onnipresente richiamo al grande storico anglosassone:sotto le sue numerose citazioni si viene infatti svolgendo quasi sempre una logicaaffatto diversa, che comporta la radicale negazione dei presupposti di fondo su cuiegli aveva fatto leva nel corso della sua opera 53. Che non consiste già nella merainterpretazione riduttiva della dimensione e del significato dei fenomeni econo-mici nelle società antiche. Come ho già detto il vero apporto finleyano, a mio giu-dizio, riallacciandosi a Weber, è stato quello di aver contestato l’applicazione deglischemi dell’analisi economica elaborati ed applicati alla storia della moderna eco-nomia capitalistica a sistemi sociali e storie radicalmente diverse. Quanto, appunto,malgrado l’apparenza, ha giustificato lo stesso quesito posto da Schiavone a basedel suo libro, ma anche quanto appare sempre più arditamente seguito da gran partedegli studiosi contemporanei di storia economica e sociale.

È però anche vero che, nel nostro campo specifico, proprio negli anni in cui èdato di registrare anche questi fenomeni di ritardo, lo scenario si fosse venuto ra-

53 Un fenomeno che spiega tra l’altro il singolare atteggiamento storiografico colto dall’occhioacuto di Giardina 2007, 25 n. 32.

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pidamente modificando: vi ho già fatto cenno in precedenza. Emergeva alloral’aspetto effettivamente periodizzante in coincidenza con gli ultimi anni di finemillennio, nella prospettiva variamente perseguita in una molteplicità di opere piùrecenti. Da un lato il definitivo superamento di quella cesura sino ad allora fattacoincidere con le guerre annibaliche. Dall’altra, ancora più importante, la defini-tiva liquidazione di una visione unitaria e continuistica delle forme economichetardo-repubblicane e di quelle del Principato.

12. Ma qui inizia la storia di cui voi siete i protagonisti: come non ricordarel’epocale contributo ad una conoscenza affatto nuova e ad una totale rivisitazionedegli antichi schemi ad opera di autori che costituiscono oggi una straordinariaconcentrazione di sapere? E ricorrono immediatamente i nomi di Aubert, Caran-dini, Carlsen, Coarelli, Crawford, Frier, Giardina, Grelle, Kehoe, Kolendo, Jon-gman, De Ligt, Lo Cascio, Marcone, De Neeve, Purcell, Rathbone, Rosafio,Scheidel, Vallat, Terrenato, Volpe e Vera. Alcuni di questi li abbiamo incontratiprofondamente incardinati nella storia che ho ora evocato, altri invece stanno a te-stimoniare qualcosa di più importante: l’apporto sempre più consistente di nuovegenerazioni di studiosi destinate a proseguire e rinnovare i nostri studi.

Non si tratta di nomi isolati. Sono solo quelli che immediatamente mi ven-gono in mente: per rapporti personali, storie comuni, amicizia, letture recenti. Chetuttavia vanno ricordati insieme a molti altri studiosi: anzitutto, a coloro che hannolavorato e lavorano in settori vicini, la cui comprensione è essenziale ai fini diuna storiografia agraria degna di questo nome. Come non pensare a tutti i topo-grafi ed allo straordinario lavoro di recupero di una storia del territorio, effettuatonel corso di quest’ultimo mezzo secolo ad opera di giuristi, storici ed archeologie così determinante per qualsiasi storia agraria che voglia andare al di là di unamera storia di una tecnica? Come non ricordare la rinnovata e feconda attenzioneverso quella fondamentale documentazione per tanto tempo trascurata costituitadai Gromatici veteres, come non sottolineare ancora l’importanza di una miglioree più puntuale conoscenza delle realtà organizzative locali, del mondo munici-pale, o agli straordinari ampliamenti prospettici legati ad una rinnovata riflessionesulle categorie interpretative della storia economica, si pensi a Banaji? Come nonricordare infine il ruolo fondamentale degli archeologi: da una sempre più ap-profondita e complessa conoscenza del territorio e degli insediamenti, in cui laBritish School ha esercitato un’indiscussa leadership, ai contributi dei nostri ar-cheologi nel recupero di una documentazione sempre più articolata e risalente re-lativa agli insediamenti nel territorio romano? Potrei continuare ancora: ed i nomiqui si affollano. Ma non sono qui a dare riconoscimenti e a far lodi, per cui nonho titolo alcuno. Solo per prendere atto del nuovo panorama che si spalanca da-vanti a noi.

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La storia nuova incomincia da qui, con alcuni studiosi, ormai alla fine dellaloro parabola scientifica, ma soprattutto con le generazioni più giovani, che s’ac-crescono di anno in anno. E sono proprio questi straordinari sviluppi, di cui oggicelebriamo un’altra tappa, che mi danno la gioia grande di chi vede gli studi, a luiforse più cari, avviati ad una vita ancor più rigogliosa in un futuro che ormai lo tra-scende.

Già molto s’è fatto e molto si viene facendo, come vedremo sicuramente inquesti tre giorni, nell’acquisizione di un insieme di conoscenze sempre più precisee, insieme, articolate in cui il dato empirico, le continue reinterpretazioni delle te-stimonianze antiche, il nuovo materiale che soprattutto gli amici archeologi ci ven-gono fornendo, si combinano in una serie suggestiva d’ipotesi e d’interpretazioni.Il disegno non monocromo, sfumato, pieno di lacune e di punti oscuri che ne de-riva dà, più di ogni altra cosa, la percezione dell’enorme lavoro compiuto in que-st’ultimo quarto di secolo. E, come sempre, lo stesso fenomeno di crescitameramente quantitativa di un tipo d’indagini che sino ai tempi della mia giovi-nezza e maturità si contavano ad unità od al massimo a decine, comporta dei mu-tamenti qualitativi. Anzitutto – ed è il punto da me più apprezzato – ai fini di unaben maggiore articolazione del quadro ricostruttivo.

Non tanto per la varietà dei punti di vista o per le ipotesi interpretative, ma pergli approcci, per il carattere delle domande storiografiche, per la capacità di rivol-gersi a sistemi sempre più complessi e distanti di fonti di conoscenza. Ma soprat-tutto, questo è il punto, perché il crogiuolo in cui s’incontrano e si scontrano questevarie visuali sempre più si è venuto discostando da ogni vulgata pericolosamenteunificante. Non è solo il disarticolarsi per età diverse di un quadro che non può es-sere tracciato in modo uniforme, ma lo spessore delle identità regionali, il divari-carsi di storie locali cui le nuove generazioni sono sempre più attente e su cuiappaiono particolarmente impegnate, la segmentazione di analisi che solo in modoavventato od arbitrario possono essere portate ad un eccessivo livello di genera-lizzazione che condizionano il nuovo quadro in cui si trova ad operare le storio-grafia contemporanea, sicuramente più cauta nei rischi sempre presenti diconclusioni troppo generali e affrettate e di arbitri interpretativi.

Certo, anche i pericoli ed i motivi di dissenso metodologico si ripropongono inquesta nuova situazione. Ad es. io sono lievemente perplesso di fronte a quello chea me sembra un eccessivo ottimismo di molti autori sulle possibilità di quantificare,con relativa precisione, i fenomeni economici dell’antichità. Ma non è questa lasede per discutere di questi aspetti specifici 54: mi interessa piuttosto concludere

54 Il pericolo maggiore, in tal senso, lo ravviso più in generale in una tendenza che mi sembraemergere talora nel senso di una sostanziale deproblematizzazione del quadro storiografico quasiche un approccio fondato su parametri di riferimento e su schemi concettuali elaborati in astratto

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volgendomi a considerare un appuntamento più o meno inevitabile che s’imponea questa nuova stagione delle nostre ricerche. Giacché la stessa ricchezza del pre-sente rende sempre meno evitabile o rinviabile la riformulazione di un quadro teo-rico, non solo con nuovi contenuti, ma fondato su metodologie e su consapevolezzediverse e più ricche di quelle che hanno ispirato il lavoro delle prime generazioni.

Non sarà un lavoro né semplice né pacifico il modo in cui tutte le nostre cono-scenze in via di rapida accumulazione potranno essere ricondotte all’interno di unquadro, non dico unitario, ma coerente. Mi limito, al termine di questo mio troppolungo intervento, a concludere, come sempre più spesso tendo a fare, con unanuova domanda. Mi chiedo infatti se la strada cui ora mi riferivo non debba pas-sare attraverso il definitivo superamento di un atteggiamento che ha permeato inprofondità non solo la nostra specifica tradizione di studi, ma almeno tutta la sto-riografia economica di Roma e del mondo antico.

Esso mi sembra il frutto di una lettura dei processi storici in termini lineari:come ‘evoluzione’ e ‘sviluppo’, una visione continuistica di una storia, da un ini-zio sino alla sua necessaria conclusione. Per un certo verso ogni narrazione di una‘storia’, segue un percorso del genere. E che una serie di vicende siano tra loroposte in relazione, secondo una sequenza non solo cronologica, è ciò che facciamotutti, sia riferendoci agli aspetti più squisitamente politici, alle forme sociali, alleistituzioni giuridiche e religiose o agli aspetti più esplicitamente culturali. Delresto a rafforzare tali orientamenti può facilmente operare quel principio di cau-salità che è uno dei nostri riferimenti essenziali. In un racconto storico tutto ciò èimplicito.

E tuttavia si deve fare i conti con l’effetto distorcente di quella visione perio-dizzante dell’economia e della società romana. che ho cercato di ricostruire nellasua parabola e nella sua crisi. Essa infatti ha fortemente condizionato tutte le in-terpretazioni che tendevano ad accentuare il carattere uniforme delle trasforma-zioni interne al sistema economico romano, in cui si accentuava con variaconsapevolezza, il suo carattere modernizzante, interpretato secondo le caratteri-stiche dei fenomeni economici contemporanei (uniformità, forza assimilatrice, ca-pacità totalizzante). Ma è anche, paradossalmente, il carattere della più immediatareazione critica verso tale tendenza, che forse nessuno meglio di Finley ha saputosuggerire ed argomentare e che si concreta in una più meno radicale reinterpreta-zione primitivistica dei fenomeni sociali ed economici dell’antichità romana.

possa legittimare una ricostruzione fondata su domande analoghe a quelle che poniamo alla realtàcontemporanea. In tal modo parrebbe quasi affiorare l’idea, quasi che le diversità strutturali, gli abissiquantitativi anche nella disponibilità delle testimonianze, la difficoltà d’interpretazione dei singoli do-cumenti e la loro specificità di linguaggio e di contesto siano aspetti marginali e trascurabili. V. anchesupra, § prec., quanto osservavo a proposito del capovolgimento contemporaneo dell’‘ortodossiafinleyana’.

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Avendo voluto contestare l’esistenza o il carattere di questo ‘sviluppo’ se ne sononegati i presupposti di carattere ‘modernista’: da qui la negazione della stessa ideadi crescita (e di cambiamento), ma, alla fine, l’idea stessa di una ‘storia’.

Mi chiedo dunque se questa antinomia non possa essere superata facendo levasul carattere più evidente e meno controverso dei risultati conseguiti in quest’ul-timo trentennio. Che mi sembra sia costituito dalla complessità: sia quella deri-vante dalla persistente coesistenza di forme organizzative e produttive diverse, siaquella propria delle diverse fisionomie regionali e locali, sia, infine, per l’artico-larsi vario dei rapporti centro-periferia. Ma ho anche il dubbio che, a sua volta,questo quadro debba essere interrogato e interpretato con categorie e strumenticoncettuali adeguati, non meccanicamente ed esclusivamente dedotti (anche se dif-ficilmente potranno prescinderne) dal nostro presente. Strumenti che dovranno es-sere ricavati dalla storia stessa ed essere coerenti alla razionalità interna ai processiindagati e di cui sono incerto sino a che punto siano compatibili con i modelli ge-neralizzanti di quell’homo oeconomicus su cui s’è fondato e si fonda il modernopensiero economico.

Per questo io dubito dell’applicazione dei dogmi del presente, intimamente le-gati all’esperienza capitalistica: ripensando così alla nostra fondamentale idea dello‘sviluppo’, ridefinendo l’idea altrettanto basilare di ‘crisi’: che può essere diversada quella in genere utilizzata, anch’essa sovente in modo volgare e irriflesso 55. Einterrogandosi su valori marginali nelle economie capitalistiche che potrebberoavere avuto un peso ben maggiore nel plasmare la morfologia di certe società pre-capitalistiche. Ad esempio, riprendendo il discorso sulla mentalità, e riflettendosui comportamenti concreti all’interno di queste ultime, riflettere sull’irrilevanzarelativa di certi meccanismi fondamentali dei sistemi economici moderni come‘investimento’ o ‘interesse’ e, soprattutto, sulla diversa percezione dei fenomeni di-namici. Laddove potrebbero essere privilegiati invece altri valori e, quindi, altrimeccanismi: quali la stabilità, la sicurezza, la costanza nel tempo. Ma sono ideebuttate lì, ad altri il compito di creare strumenti interpretativi adeguati: io mi limitoad esprimere la convinzione che i vecchi schemi non possono più avere corso.

55 Anche qui suscitando una reazione opposta, ma di segno eguale: giacché non si tratta di negaree minimizzare fenomeni di ristagno o di crisi, ma di non collocarli secondo la logica sequenziale percui la ‘crisi’ è tanto più grave in quanto definisce la curva di una parabola tracciata in termini di con-tinuità. Mi è grato concludere queste pagine richiamando un’idea di Lepore circa la peculiare fisio-nomia dell’economia antica. Dove sarebbe da indagare la possibile presenza di una “crescita senzasviluppo”. Si tratta di uno schema ermeneutico che dovrebbe essere verificato sulla sua efficacia con-creta.

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