Gianluca Bascherini Carlino’s way. Appunti su Le confessioni d’un italiano Volendo sintetizzare le ragioni che, in tema di diritto e letteratura, inducono a riflettere su quella che è l’opera migliore di Ippolito Nievo, si può dire che questo romanzo offre un affresco utile ad una miglior conoscenza giuridica (non del diritto) della transizione dall’antico regime all’unità d’Italia e della disordinata complessità di quell’arco di tempo, utile dunque una «miglior consapevolezza della coscienza sociale» e della «qualità dell’esistenza» (Spantigati) che caratterizzarono quel processo. Riesce a rendere visibile il movimento della storia, l’influsso del tempo sui destini individuali e collettivi, i reciproci influssi tra queste differenti durate. Mostra uno spaccato dei problemi che allora si posero (anche sul piano giuridico- istituzionale) e delle contrastanti ipotesi di soluzione che si prospettarono, senza pretendere di ridurle a sistema. Narra la parabola di quella borghesia protagonista del processo di unificazione italiana, con tutte le sue specificità e tutti i suoi limiti, così come l’emergere e l’affermarsi di nuovi valori e dei conflitti che hanno accompagnato queste affermazioni. Le Confessioni dunque come un affresco che testimonia dell’importanza della letteratura nell’interpretare, con una certa ironia, l’esperienza reale, le dinamiche sociali. Un affresco che si caratterizza per la sua “mobilità”, responsabile, tanto degli alti e bassi dell’opera, quanto della sua composita ricchezza; una mobilità che 1
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Carlino’s way. Appunti su Le confessioni d’un italiano
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Gianluca Bascherini
Carlino’s way.
Appunti su Le confessioni d’un italiano
Volendo sintetizzare le ragioni che, in tema di diritto e
letteratura, inducono a riflettere su quella che è l’opera
migliore di Ippolito Nievo, si può dire che questo romanzo offre
un affresco utile ad una miglior conoscenza giuridica (non del diritto)
della transizione dall’antico regime all’unità d’Italia e della
disordinata complessità di quell’arco di tempo, utile dunque una
«miglior consapevolezza della coscienza sociale» e della «qualità
dell’esistenza» (Spantigati) che caratterizzarono quel processo.
Riesce a rendere visibile il movimento della storia, l’influsso
del tempo sui destini individuali e collettivi, i reciproci
influssi tra queste differenti durate. Mostra uno spaccato dei
problemi che allora si posero (anche sul piano giuridico-
istituzionale) e delle contrastanti ipotesi di soluzione che si
prospettarono, senza pretendere di ridurle a sistema. Narra la
parabola di quella borghesia protagonista del processo di
unificazione italiana, con tutte le sue specificità e tutti i suoi
limiti, così come l’emergere e l’affermarsi di nuovi valori e dei
conflitti che hanno accompagnato queste affermazioni. Le Confessioni
dunque come un affresco che testimonia dell’importanza della
letteratura nell’interpretare, con una certa ironia, l’esperienza
reale, le dinamiche sociali. Un affresco che si caratterizza per
la sua “mobilità”, responsabile, tanto degli alti e bassi
dell’opera, quanto della sua composita ricchezza; una mobilità che
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ci rimanda una immagine mossa dei percorsi pubblici e privati che
narra, ma proprio per questo più viva e reale.
Molti temi interessanti i rapporti tra diritto e letteratura
avrebbero potuto indagarsi a partire da questo romanzo o da altri
lavori di Nievo: si sarebbe potuta approfondire la ricostruzione
che questi offre delle diverse vicende costituzionali che si
produssero allora; così come si sarebbe potuta indagare la lettura
che Nievo offre, nel romanzo e soprattutto nel successivo Frammento
sulla rivoluzione nazionale, della questione contadina e/o di quella
religiosa; si sarebbe potuto comparare le Confessioni ai Promessi sposi
alla ricerca delle diverse immagini che queste opere rimandano
della borghesia del tempo; si sarebbero potute approfondire le
allusioni più o meno esplicite ai diversi protagonisti del
risorgimento e dell’unificazione italiana che compaiono nel libro;
o ancora, secondo un “paradigma indiziario” (C. Ginzburg), si
sarebbero potuti guardare più da presso alcuni personaggi minori
del romanzo (penso ad es. al padre di Carlino, ma anche al figlio
di questi, Giulio, e a tanti altri comprimari) i quali- magari
artisticamente meno riusciti- avrebbero potuto dirci qualcosa di
più a proposito dell’autore e delle sue convinzioni.
Qui si è stati portati a concentrare lo sguardo su altri
elementi, quali: le varie coordinate spazio/temporali del romanzo;
la polifonia che lo caratterizza; la generazione che narra; le
particolarità dei suoi principali protagonisti; il potersi leggere
le Confessioni come il romanzo di formazione di un individuo e di una
nazione- scritto peraltro quando il genere (tipico delle borghesie
in ascesa) era già in crisi nel resto d’Europa.
Si è scelto di concentrare l’attenzione su alcuni piuttosto
che su altri percorsi di lettura per diverse e sicuramente più o
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meno valide ragioni, a partire dal fatto che la brevità
dell’intervento da cui questo scritto trae spunto imponeva delle
scelte e dunque delle esclusioni. Ma ci sono altre due e forse
prevalenti ragioni che hanno indotto chi scrive a queste scelte.
Innanzitutto perché alcune cose e non altre hanno colpito,
suggestionato, chi scrive durante la lettura del romanzo nieviano:
perché, potrebbe dirsi con le parole di Riccardo Orestano, si
sconfina dai nostri «orticelli giuridici» per il piacere, il gusto
e il divertimento che ci dà (e «di questa colpa»- scrive ancora
Orestano- «non posso scusarmi … e … meno ancora promettere di non
farlo più»). Per rubare una (sconveniente) citazione a Nievo si
potrebbe dire «Cosa volete? Non tento né scusarmi, né nascondere. Peccai» [XIX,
825]. Secondo poi perché a chi scrive quegli elementi sono apparsi
più interessanti ai fini di un discorso che non voglia andare alla
ricerca del diritto nella letteratura, ma che piuttosto ritiene che
la letteratura e le altre forme d’arte aiutano a comprendere, a
vedere il farsi del diritto costituzionale dal basso più che
dall’alto: dalle trasformazioni della cultura, della coscienza
sociale, dell’economia e della società. Che l’interesse, la
curiosità per l’arte (come anche per la storia, la filosofia,
l’economia, la sociologia …) possa dare un apporto fecondo alla
conoscenza giuridica quando si indaghino tali relazioni in una
prospettiva eminentemente culturale, quando si acquista
consapevolezza che questi campi del sapere non sono complementari
alla conoscenza giuridica ma sono necessari a tale conoscenza e
che «[i]ncludere la conoscenza dell’arte nella formazione
giuridica … non è … solo porre un altro serbatoio di dati a
disposizione del giurista. È capovolgere il rapporto tra giurista
e società rispetto al diritto borghese classico» (Spantigati).
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Le Confessioni come Bildungsroman individuale e generazionale
Le Confessioni d’un italiano narra ottanta anni fondativi della
storia italiana, costituzionale e non solo. Gli anni della fine
della feudalità, che segnano un tentativo di concretizzazione del
“momento machiavelliano”, di quel civismo repubblicano di origine
medievale e comunale: anni in cui «diedero primo frutto di fecondità reale
quelle speculazioni politiche che dal milletrecento al millesettecento traspirarono dalle
opere di Dante, di Macchiavello, di Filicaia, di Vico e di tanti altri che non soccorrono ora
alla mia mediocre coltura e quasi ignoranza letteraria» [I, 4]. Quelli delle
rivoluzioni giacobine che finiscono in repubbliche napoleoniche;
della «pressura austriaca» negli anni della restaurazione; i moti della
prima metà di Ottocento e poi il biennio 48/49, giù fino alle
soglie dell’unità nazionale.
Narrando di quell’arco di tempo, Nievo narra al contempo la
generazione che costituì lo scarto, il senso critico di quel
processo che prese il volo sul «magico soffio della rivoluzione francese» e
che si avvitò nel cesarismo napoleonico, che colse l’importanza
storica di Napoleone pur non subendone il fascino, il quale, «colla
sua superbia, coi suoi errori, colla sua tirannia, fu fatale alla vecchia Repubblica di
Venezia, ma utile all’Italia. Mi strappo ora dal cuore le piccole ire, i piccoli odii, i piccoli
affetti. Bugiardo, ingiusto, tiranno, egli fu il benvenuto» [XV, 672 s.]. E che di
Napoleone Nievo non subisca il fascino è esemplarmente illustrato
dal dialogo che Carlino ha con Napoleone ad Udine, dopo
l’insurrezione di Portogruaro, mentre il barbiere lo rade [X, 482]
e ancora, successivamente, quando- per descrivere e criticare la
deriva imperiale di Napoleone- scrive «L’imperatore s’era fatto grasso, e
s’avviava allora alla vittoria di Austerlitz, io me lo ricordava magro e risplendente ancora
delle glorie d’Arcole e di Rivoli» [XIX, 813].
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Il romanzo attraversa dunque le grandi tappe del pensiero e
della pratica del costituzionalismo preunitario ed al contempo
narra di una generazione (o di quella sua frazione di esuli
sicuramente democratici, talvolta giacobini ma non supinamente
filofrancesi) alla ricerca di una soluzione democratica alla
questione nazionale, con tutti i limiti e le confusioni che
caratterizzarono questa ricerca- «L’uomo è così legato al secolo in cui vive che
non può dichiarare l’animo suo senza riveder le buccie anche alla generazione che lo
circonda» [V, 203]. La generazione, ad es., di Vincenzo Cuoco e di
tanti degli autori dei saggi inviati al “celebre concorso” della
Cisalpina. Il viaggio di Carlino dopo il crollo della repubblica
napoletana coincide con quello di Cuoco e di altri esuli del ’99
e, come Cuoco, anche Carlino per vivere cercherà un lavoro presso
l’amministrazione napoleonica della Cisalpina [XVIII, 775, 780 …].
Una generazione che peraltro frequentemente mescola la prassi alla
teoria e, nella teoria, il diritto e la politica alla letteratura,
vivendo- potrebbe dirsi- una sorta di doppia indistinzione: da una
parte la loro vita è una “vita politica” (A. De Francesco),
segnata da continui e reciproci rimandi tra riflessione teorica ed
impegno militante; dall’altra, la loro riflessione usa
indifferentemente lo strumento del saggio come quello del testo
letterario: strumenti diversi per lo stesso fine. Indistinzioni
che in fondo caratterizzano una buona parte della
costituzionalistica “pre-orlandiana”, caratterizzata da un
approccio non formalista caratterizzato da una profonda
sensibilità ai profili storico-sociali, dalla tendenza ad
approfondire la comparazione (diacronica e sincronica) tra diverse
esperienze costituzionali, da una apertura agli apporti degli
altri saperi sociali.: Compagnoni fu in stretti rapporti con Monti
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e con Leopardi (C. Dionisotti); Zanichelli inseriva poesie nelle
sue trattazioni di diritto costituzionale; Melegari che
intrattenne un fitto scambio epistolare con Mazzini e che ospitò
nella sua casa un importante salotto letterario. Un’indistinzione,
quella tra diritto e letteratura, e quindi una apertura sul piano
del metodo, tanto più necessaria nei momenti di transizione, sui
crinali della storia costituzionale. Quando vengono sul proscenio
nuovi soggetti e nuovi interessi e le ricostruzioni consolidate,
le spiegazioni univoche, autosufficienti e sistematiche non
bastano più. Ed allora si allarga lo sguardo, si apre la
riflessione verso altre direzioni, altri saperi ed altre
esperienze (la comparazione, il dialogo tra le varie scienze
sociali, il diritto che si mescola alla letteratura). Nievo narra
dunque la parabola di quella generazione, e con essa la parabola
del Risorgimento italiano: il suo progressivo attestarsi su
posizioni moderate, la marginalizzazione e la sconfitta delle tesi
e delle istanze più democratiche.
Inoltre, il riconoscimento Nievo dei positivi apporti della
rivoluzione per un rinnovamento delle coscienze- «[e]ra il trionfo del Dio
ignoto, il baccanale dei liberti che senza saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù
di diventar tali io non lo so; ma la coscienza di poterlo di doverlo essere era già qualche
cosa» [X, 460]- non toglie comunque una notevole ironia allo
sguardo di Nievo sulle rivoluzioni e sui facili entusiasmi
suscitati dalle proclamazioni delle repubbliche napoleoniche- si
veda, ad es., quando Carlino scopre, avendo a che fare con poco
esemplari militi cisalpini, «che con una carta stampata, e una festa nel
campo della Federazione si può bensì avviare ma non compiere il rinnovamento dei
costumi» [XV, 680]; la stessa rappresentazione della rivoluzione di
Portogruaro [X, 460 ss.], inoltre, è in fondo una parodia delle
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rivoluzioni italiane di fine Settecento. Peraltro se il sarcasmo
dell’autore si indirizza prevalentemente contro il mondo di antico
regime ed i partigiani della conservazione, ciò nondimeno Nievo
non manca neppure, nel corso del romanzo, di ironizzare anche
pesantemente a proposito dei “puritani” [XXII, 1004]
dell’oltranzismo mazziniano e dei repubblicani irriducibili ad
intese, pur strategiche e temporanee con il partito moderato
monarchico, ma più in generale nei confronti di ogni astrattismo
ideologico. L’avversione di Nievo agli astrattismi di ogni
estremismo, conservatore o democratico che sia, emerge chiaramente
nella doppia conversione di Carlino, dapprima sedotto da Padre
Pendola, che lo vorrebbe arruolare tra le fila della reazione, e
subito dopo conquistato dall’amico Amilcare Dossi, che lo
trasforma in un fervente democratico [capp. VIII e IX]. Due
conversioni antitetiche e studiatamente parallele, indotte con
discorsi, toni, retoriche simili tra loro, quasi indistinguibili e
permutabili. La patria, le leggi e la tradizione cui fa
riferimento padre Pendola («La patria, figliuol mio, è la religione del cittadino, le
leggi sono il suo credo. Guai a chi le tocca! Convien difendere colla parola, colla penna,
coll'esempio, col sangue l'inviolabilità de' suoi decreti, retaggio sapiente di venti, di trenta
generazioni!» [VIII, 389 s.]) non sono tanto diverse dalle fiere
cittadinanze, dalle altrettanto immutabili leggi e dai retaggi
analogamente antichi e sapienti invocati da Lucilio («Licurgo che ha
fatto per ridonare a Sparta la sua potenza? Le ha ridonato colle leggi i robusti costumi.
Imitiamolo, imitiamolo! Leggi nuove, leggi valide, leggi universali, chiare, severe senza
scappatoie senza privilegi! Ricordiamoci degli avi nostri che si chiamarono Bruti, Cornelii e
Scipioni!» [IX, 408]). Una doppia conversione dunque che somiglia ad
una sorta di vaccinazione contro opposti estremismi e che lo
condurrà a individuare la strada a lui più congeniale, quella in
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dolce pendio di un “borghesissimo” realismo progressivo, «la gran via
maestra del miglioramento morale, della concordia, dell’educazione». E lungo
quella strada Carlino presto si accorgerà di essersi lasciato
dietro tanto il prete retrogrado quanto l’amico enragé: il primo
destinato ad un rapido oblio («Dopo una settimana non se ne parlava già piú,
e di tanta ambizione null'altro era rimasto che un vecchio e marcio carcame ravvolto in
una tonaca e inchiodato fra quattro assi d'abete. Nemmeno gli avean lustrato la cassa
come si usa ai morti di rilievo! Che ingratitudine!... In fin dei conti poi credo che la Curia
patriarcale fu contenta di essere liberata dal pericoloso aiuto d'un sí furbo zelatore della
gloria di Dio e dei proprii interessi»[XIX, 877]) e il secondo ad un furore
scriteriato e parolaio, che lo condurrà ad una «fine miseranda»,
(«immischiato nella guerra abruzzese del ventuno, e carcerato, era giunto a fuggire, ma
… poi passato in Sicilia, dopo una vita piena di sventure e di delitti, avea terminato sul
patibolo arringando fieramente il popolo, e imprecando sui suoi carnefici la giustizia di
Dio» [XXII, 1025]).
Nievo peraltro è perfettamente cosciente delle legature tra le
varie dimensioni- tra la storia degli individui e la storia degli
ordinamenti- e anzi ne fa l’ordito della sua trama. Che le Confessioni
voglia essere Bildundgsroman, oltre che di un individuo e di una
generazione, anche di una nazione, Nievo lo dichiara sin
dall’inizio del romanzo: la vita di Carlino è una parabola del
processo di unificazione nazionale ed a quegli eventi Carlino
partecipa- anche mediante la progressiva messa a fuoco di alcuni
valori etico-politici- alla ricerca di una identità individuale
che è poi la ricerca di una identità nazionale: «l’attività privata di un
uomo […] mi pare debba […] riflettere l’attività comune e nazionale che la assorbe; come il
cader d’una goccia rappresenta la direzione della pioggia. Così l’esposizione de’ casi miei
sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei
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vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran sorte nazionale
italiana» [I, 5]. Questo mescolarsi di pubblico e privato, di lunga e
breve durata danno visibilità al tempo ed ai suoi influssi su
individui e società ed al contempo sottolineano l’intima
relazionalità di ogni esistenza («l’uomo d’ogni lato si perde nell’umanità»
[V, 203]). La storia del singolo diventa storia di una e di più
generazioni. E di una comunità nazionale in formazione. «Gli è della
storia della mia vita, come di tutte le altre credo. Essa si diparte solitaria da una cuna per
frapporsi poi e divagare e confondersi coll’infinita moltitudine delle umane vicende […] i
casi miei sarebbero ben poco importanti a raccontarsi, e le opinioni e i mutamenti e le
conversioni non degne da essere studiate, se non si intralciassero nella storia di altri
uomini che si trovarono meco sullo stesso sentiero, e coi quali fui temporaneamente
compagno di viaggio per questo pellegrinaggio nel mondo» [V, 202]
Le Confessioni dunque anche come romanzo di formazione- e, come
ogni romanzo di formazione, organico ad una borghesia in ascesa
(F. Moretti)- ma nel quale la Bildung è un prodotto, più che della
società, della storia (Mengaldo). E che questo tipo di romanzo
arrivi in Italia quando ormai- dopo il biennio ‘48/49 è già in
crisi nel resto d’Europa, testimonia delle peculiarità della
borghesia italiana rispetto al contesto europeo, e dei limiti del
suo orizzonte assiologico e della sua azione. Di questo genere
narrativo le Confessioni presenta del resto molti dei limiti- a
partire dalla sua capacità di indagare una parte del mondo (quella
euro-occidentale) una epoca (la prima metà di Ottocento), una
classe (la borghesia), un sesso (quello maschile)- e delle
caratteristiche.
Innanzitutto la gioventù. Per paradossale che possa apparire le
Confessioni di un ottuagenario narra in gran parte vicende legate alla
gioventù. Una gioventù che costituisce la cifra dei tempi nuovi
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perché di questi mette in luce dinamismo ed instabilità. E questo
elemento dinamico aiuta a capire perché, come in ogni romanzo di
formazione che si rispetti, il protagonista, oltre che giovane, è
esponente di una classe media. Perché se le condizioni sono di
norma più stabili agli estremi della scala sociale (basti vedere
le descrizioni nieviane del mondo aristocratico e di quello
contadino), nel mezzo tutto è più magmatico, dipendente da merito
e concorrenza: ci si può fare da sé (come Carlino) o da sé
perdersi (come ad es. Amilcare). Una mobilità peraltro non solo
sociale ma anche geografica, quasi che non si possa fare storia
senza geografia. In secondo luogo la passione calma del protagonista
e la capacità del romanzo di padroneggiare il tempo storico: di
intrecciare il quotidiano con la storia e, per dirla con Bachtin
«l’uomo diviene insieme con il mondo, riflette in sé il divenire
storico dello stesso mondo». Ancora, il romanzo, la vicenda che
narra, può collocarsi al punto di passaggio tra classi, una sorta di
tentativo di compromesso, dopo la frattura originatasi con le
rivoluzioni europee di fine Settecento. Il borghese Carlino (come
altri protagonisti dei romanzi di formazione) è una curiosa
mescolanza di vecchio e nuovo, una identità ancora incerta e
molteplice. Un ulteriore elemento, avvicina le Confessioni al
paradigma del romanzo di formazione: anche questo romanzo infatti
non si lega organicamente ad una specifica ideologia e/o teoria
politica: pur nella molteplicità dei rimandi, più o meno
espliciti, ai protagonisti ed alle principali opzioni politiche
caratterizzanti il campo unitario risorgimentale, il romanzo
appare ideologicamente spurio, alla ricerca di un compromesso
adeguato alla transizione in atto.
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Tempi e luoghi
Il romanzo di Nievo, peraltro, prima e oltre che un romanzo di
lotta politica, racconto del processo di unificazione nei suoi
passaggi salienti e rivoluzionari, è in realtà narrazione di una
pluralità di storie individuali, a loro volta calate nella più
vasta dimensione delle storie sociali che le contengono. Le
Confessioni dunque anche come romanzo del tempo: del tempo storico e
di quello intersoggettivo, del tempo che condiziona le esperienze
dei singoli. Al tempo istantaneo e puntiforme, Nievo contrappone
il tempo duttile ed esteso proprio dell’esistenza del
protagonista. Una narrazione che si distende in certo modo su di
una lunga durata (Braudel) e che al contempo si svolge attraverso una
serie di giochi specchi tra i differenti piani temporali, con un
andamento discontinuo fatto di dilatazioni e di brusche
accelerazioni, con repentini cambi di velocità. E la lunga durata
ci restituisce le tensioni, i conflitti che connotano il dipanarsi
del romanzo e il mutare degli ordinamenti che questo racconta; va
oltre il tempo breve, per andare in profondità e in complessità,
senza tuttavia perdere mai un punto di vista ironico, mantenendo una
certa distanza dai materiali su cui si lavora. La lunga durata,
così come la letteratura e le altre forme d’arte, possono dunque
aiutare a ritrovare il piano ed il punto di vista umano nel
dinamico dipanarsi delle esperienze costituzionali, «il molteplice
gioco della vita: i suoi movimenti, le sue durate le sue
variazioni» e anche le possibilità non realizzate (“la storia come
somma di tutte le storie possibili”).
L’ottuagenario narratore simbolizza in sé diverse generazioni
e momenti storici; il passaggio tra un mondo che finisce ed uno
che comincia e costituisce a sua volta un espediente per dipanare,
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partiti da quella lontana società oligarchica, il filo di uno
storia che si vuole far giungere sino ai tempi attuali e farne uno
strumento per l’azione futura. Si potrebbe dire le Confessioni
“romanzo storico contemporaneo” (Lukàcs), che parte da un’epoca
vicina a quell’autore per infine raggiungerla. La narrazione delle
memorie di Carlino, si ferma al biennio 48/49. Qui i ricordi del
padre lasciano la parola al diario del figlio, la voce della
memoria lascia spazio alla voce dell’attualità: l’ultima decina di
anni è narrata attraverso il diario di Giulio, figlio di Carlino e
coetaneo di Nievo, e si noti anche che quei due lustri coincidono
da una parte con i nove anni che l’ottuagenario sostiene di avere
impiegato nella stesura delle Confessioni ed al contempo con quel
decennio preunitario che, dopo i fallimenti del 48/49, condurrà
all’unità nazionale.
Il romanzo dunque, sotto apparenze memorialistiche e senili, è
invece un’opera estroversa, espansiva, un appello alla propria
generazione ed alle successive. La “voce del vecchio” non solo
permette a Nievo di intrecciare pubblico e privato, ma crea una
costitutiva ambiguità nell’opera. Il narratore ottuagenario si
pone in un rapporto complesso con il sé stesso più giovane,
caratterizzato da più o meno esplicitate solidarietà e complicità.
Un narratore che rimanda ad un patto narrativo complesso, con
molti doppi fondi seppur apparentemente piano: che veste
contemporaneamente i panni del testimone storico, dell’osservatore
malizioso e divertito e della parte in causa. Un romanzo, inoltre,
scritto da uno scrittore ventisettenne (e morto giovane) che
sceglie un narratore ottuagenario il quale a sua volta si sdoppia
in un io narrato ben più giovane e che quindi appare al contempo
immerso nei ricordi e proiettato in avanti. Le vicende che segnano
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la vita di Carlino escono dal romanzo come sdoppiate: quel che
sono state e come vengono rivissute e interpretate dalla “memoria
etica” dell’ottuagenario narrante. A ricordarci l’importanza del
passato, della storia nella comprensione del presente e
nell’immaginazione di un futuro; la storicità delle vicende umane
e dunque anche di quelle giuridiche; il dialogo tra generazioni
che attraversa la storia dello stato costituzionale e che
contribuisce a fare- assieme al pluralismo delle voci viventi- di
ogni costituzione un racconto, o meglio la narrazione ed al
contempo l’oggetto di un racconto (De Nitto).
Come il tempo, anche lo spazio dell’azione del romanzo muta
continuamente seguendo le peregrinazioni del protagonista,
disegnando una sorta di geografia ideale dell’Italia unita:
Carlino Altoviti viene dalla provincia rurale, si mette in
viaggio, si ferma nelle metropoli e alla fine torna alla campagna
di origine. L’Italia delle Confessioni non è più il concetto ideale
che ancora era ad es. nell’Ortis di Foscolo, ma una concreta
molteplicità geografica che i protagonisti percorrono, anche se è
innegabile un che di sbrigativo nella descrizione dei luoghi,
salvo di quelli dell’infanzia, spesso resi con veloci appunti
visivi, schizzi d’ambiente. Le città in cui sosta sono in genere
senza un volto ed una topografia. I due anni che Carlino trascorre
a Londra sono narrati pressoché interamente “in interni” e per di
più rendendo Carlino temporaneamente cieco.
La varietà di luoghi che si incontra nelle Confessioni
delinea tre grandi scenari storico-sociali: dal tramonto di un
«mondo vecchio» [V, 176] all’incompiuto formarsi di un «mondo nuovo
affatto» [XXIII, 913]. Il mondo di Fratta, dell’antico Regime è
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luogo di una stasi sonnacchiosa, di una sopravvivenza del passato.
Teatro decrepito abitato da non-vivi. Compendio di una nobiltà,
quella veneziana, e dei suoi ordinamenti attardati e corrotti ed
oramai in declino. Una nobiltà inacidita e inerte chiusa nei
castelli a sperperare i suoi ultimi patrimoni. Né miglior figura
ci fa il clero legato a quella struttura feudale. Il ghiotto
monsignor Orlando, il cappellano pavido, l’ipocrita e intrigante
padre Pendola. Nessun cardinale Federigo, nessun padre Cristoforo,
poca o nessuna pietà verso i don Abbondio. Il «mondo della cipria, dei
buli e delle giurisdizioni feudali» [XIII, 456] ed anche il periodo della
Restaurazione e della dominazione austriaca è un periodo di «lunga
sonnolenza d’Italia» [XIX, 750] interrotta dai moti del ’20 e del ’30 e
di una lenta ripresa morale che inizierà solo con il ’48. Lo
spazio della repubblica veneta è peraltro ritratto con attenzione
nelle sue diverse componenti: Fratta ne è l’anima rurale,
Portogruaro quella provinciale, e Venezia e Padova ne
rappresentano invece quella più prettamente urbana. Nievo si
sofferma approfonditamente sulla fine della millenaria Serenissima
repubblica, «corpo già infermo e paludoso» da lungo tempo [I, 30],
lasciandoci un memorabile affresco della società, della cultura,
degli ordinamenti di un mondo feudale al tramonto (v. il cap. II,
20 ss. sulle giurisdizioni feudali veneziane e il capitolo XI
sulla riunione del Maggior Consiglio e la fine delle Serenissima),
restituendoci la fine di un mondo e l’inizio di un altro, i
mutamenti della coscienza sociale e delle istituzioni che
accompagnarono quel passaggio. E spesso alla narrazione del luogo
Nievo sostituisce la rappresentazione collettiva dei soggetti che
lo popolano, offrendo in questo modo vividi spaccati di società
(si veda la descrizione che offre della società feudale veneziana
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nel quadro della gente di Fratta riunita per la messa [II, 66 s.]
o al momento del pasto [II, 70 ss.], ove la topografia
dell’ambiente riproduce i rapporti di potere che legano gli
abitanti del castello e le relazioni spaziali corrispondono a
quelle sociali).
Se l’allestimento degli scenari d’antico regime è accurato nei
particolari, le cose cambiano quando Nievo passa a narrare gli
anni della transizione. L’Italia giacobina e napoleonica è
ritratta nel romanzo come spazio della velocità, del disordine e
dell’imprevisto, proscenio sul quale i personaggi sono «profughi,
esuli, morti, vaganti qua e là» [XVIII, 793]. Ad alcuni momenti storici
Nievo collega a dimensioni temporali peculiari. Basti qui come
esempio la rappresentazione che offre delle vicende della
repubblica napoletana: «Napoli è rimasto per me un certo paese magico e
misterioso dove le vicende del mondo non camminano ma galoppano, non s’ingranano
ma s’accavalcano, e dove il sole sfrutta in un giorno quello che nelle altre regioni tarda un
mese a fiorire. A voler narrare senza date la storia della Repubblica Partenopea ognuno,
credo, immaginerebbe che comprendesse il giro di molti anni, e furono pochi mesi! Gli
uomini empiono il tempo, e le grandi opere lo allargano» [XVIII, 764].
Rispetto allo spazio dedicato alla morente Serenissima
repubblica, ben minore spazio è dedicato alle vicende della
repubblica veneziana del 1848/49, e l’attenzione è rivolta più ai
combattenti venuti da fuori a proteggerla (i Pepe ed i Rossarol ad
es.) che non ai patrioti, ai politici locali ed ai loro
particolarismi. Si ricordi a questo proposito la scena, feroce,
della morte del cavalier Alfonso Frumier il quale, al sentire che
è tornata la repubblica e che in piazza si grida “Viva San Marco”,
si scuote per un attimo soltanto da un «torpore semisecolare»,
chiedendo che gli si portasse la toga e la parrucca, prima di
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«stramazzare al suolo» e di morire «per un eccesso di consolazione» (XXII,
1027 s.). Una sproporzione che vuole forse testimoniare della
maturazione di una coscienza nazionale in Nievo e nella sua
generazione. Venezia, nonostante i suoi antichi fasti non sarà più
la “Patria”, pur rimanendo un elemento dialettico permanente dello
sviluppo italiano, come emerge chiaramente dallo scritto Venezia e la
libertà d’Italia.
Carlino e Pisana
C’è un’ulteriore chiave di lettura dei rapporti tra dimensione
individuale e dimensione sociale del romanzo che merita qualche
parola: quella delle influenze che la seconda esercita sulla
prima: sulla vita, sul carattere e sulla fisionomia dei
personaggi. Protagonisti plausibili e mutevoli delle più ampie
vicende in cui sono calati ed al contempo incarnazione,
personificazione di altri soggetti (individuali e collettivi). Lo
svolgersi del rapporto tra Carlino e la Pisana si intreccia
indissolubilmente allo svolgersi delle vicende storiche nel corso
dell’opera: nel cadente microcosmo di Fratta e nel crollo della
millenaria repubblica la sola cosa “viva” è il rapporto, anche
ambiguo, perturbante che lega i due bambini; il loro rapporto tra
l’allontanamento di Carlino da Venezia ed il suo matrimonio con
l’Aquilina [XIX] si dipana sullo sfondo delle vicende delle
rivoluzioni italiane di fine secolo ed in seguito tra la
burocrazie borghesi delle intendenze della repubblica e del regno
italici. Una passione infine dolente e spirituale nell’esilio
londinese. Più in generale può dirsi che nel romanzo c’è un
evidente legame tra le vicende sociali e la psicologia, il
comportamento dei personaggi: nella Venezia della Restaurazione si
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sviluppa l’involuzione dell’Aquilina sempre più confinata al ruolo
di anti-Pisana, ma anche l’ipocrisia della Pisana e gli sviamenti
dei figli di Carlino. Per riprendere quanto detto da Francesco
Cerrone circa l’unheimlichkeit che caratterizzerebbe la letteratura-
quel qualcosa in essa (come nelle altre forme artistiche) che una
volta, come giuristi, ci era familiare e che ora, avendone fatto
oggetto di un processo di rimozione, spaventa, strania, è
estraneo, non è più heimlich-, potrebbe dirsi che delle Confessioni
perturba il mescolarsi di passione politica e di passione amorosa,
senza alcuna idealizzazione dell’una o dell’altra, ma anzi
squadernando sensualità e torbidezze di entrambi, a memento
dell’importanza delle umane passioni nello svolgersi delle
esperienze giuridiche.
Carlino è attivo, onesto, civicamente impegnato, ma senza
vocazioni d’eroismo e di martirio, ironico, passionale e concreto,
laicamente religioso, al contempo radicale e moderato (o forse,
meglio, prudente). Candido senza essere ingenuo, Carlino fa le
cose seriamente senza prendersi troppo sul serio e- leggendo tra
le righe- si nota che il resoconto che fornisce delle proprie
vicende è meno trasparente di quanto appare inizialmente. Figura
al contempo solidale e divaricata, dalla personalità franta ed in
divenire, Carlino mostra un’identità articolata, mutevole nel
tempo. Cittadino di un tempo costitutivamente ibrido, Carlino è
l’italiano di un’Italia che ancora non c’è e che richiede, al
patriota come al letterato, uno sforzo di immaginazione. L’esponente
della borghesia che avanza e sulla quale Nievo poggia le sue
speranze di costruzione nazionale e democratica, ma la “medietà”
di Carlino, come già s’è accennato, è mediazione più che
17
moderazione, non è un dato statico quanto piuttosto il punto
problematico di incontro e di un fascio di contraddizioni, sforzo
di convivenza e di bilanciamento tra fedeltà ai valori e progetti
di rinnovamento. La scelta di interrompere la componente
memorialistica del romanzo al biennio 48/49 e di concludere il
romanzo lasciando la parola al diario del figlio Giulio forse non
ha solo ragioni di ordine narrativo. La medietà, non fa dunque di
Carlino un moderato, la sua è una moderazione strategica più che
politica, disposta a sospendere le contese e le prese di distanza
politiche ed a collaborare con chi aveva la forza di raggiungere
l’obbiettivo dell’indipendenza. Privato e pubblico, famiglia e
partecipazione contribuiscono alla pari alla equilibrata
costruzione del soggetto. La galleria delle occupazioni che svolge
e le sue diverse fortune sociali ne fanno un paradigma della
borghesia agli albori. Con tutte le caratteristiche e i limiti di
quella che fu la borghesia italiana del tempo, alla quale la nuova
ricchezza non aveva ancora tolto il portamento contadino ed ancora
profondamente impastata di valori e riferimenti aristocratici.
Nelle azioni e nei pensieri di Carlino si ritrovano molti valori
tipicamente borghesi, ma anche valori tipici invece dell’orizzonte
aristocratico e di quello popolare. Della borghesia Carlino ha il
senso della propria autonomia («oh bella! A nessuno appartengo», replica
il Carlino bambino allo Spaccafumo [III, 106]), la pragmatica
operosità, ma anche la duttilità, il senso della famiglia, la
predisposizione all’ironia, quella passione calma tipica dei
protagonisti dei romanzi di formazione. Aristocratica è invece la
ricorrente esaltazione della magnanimità, dell’orgoglio e
dell’eroismo, mentre decisamente popolari sono le qualità della
pazienza e della speranza, che infatti Carlino incontra per la
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prima volta nel libricino di devozioni di Martino. Le Confessioni
offrono dunque una sorta di breviario laico, una costellazione di
valori e riferimenti di diversa origine sociale, culturale e
politica ma ritenuti dall’autore utili al fine di guidare
l’italiano nuovo in quei tempi di transizione.
Per quanto concerne i riferimenti più propriamente politico-
culturali dell’opera, qui non interessa ascrivere Nievo al campo
dei democratici o dei moderati, dei mazziniani o dei giobertiani,
né ci si soffermerà particolarmente sulle evoluzioni nel tempo
della sua identità politica (Maffei, Casini, Della Peruta). Qui
interessa piuttosto registrare le oscillazioni di Carlino, i
diversi rimandi più o meno esplicitati ai protagonisti del campo
unitario- Mazzini, Gioberti, Cattaneo, D’Azeglio, Balbo …-, che
possono restituire meglio di tanta saggistica la fluidità e
magmaticità del decennio durante il quale le Confessioni vennero a
maturazione. Le Confessioni vanno dunque contestualizzate nel tempo
in cui furono scritte, al crepuscolo di quel decennio preunitario
che cominciò nella delusione delle speranze accese dal biennio
‘48/49, e che presto si caratterizzò come un tempo di
convalescenza, di riflessione realistica sui limiti e gli errori
delle teorie e delle pratiche politiche sino ad allora messe in
campo. Un periodo al contempo dialogicamente denso, di assiduo e
vario dibattere, anche se di quel dibattito, causa censura, non ne
rimase su carta (negli stampati e negli epistolari) che una parte.
Di questo clima dà conto lo stesso Nievo nelle primissime pagine
delle Confessioni, quando fa riferimento a quei «nove anni nei quali a sbalzi
e come suggerivano l'estro e la memoria venni scrivendo queste note», anni che
iniziano con la disfatta di Novara- «[l]e quali incominciate con fede
pertinace alla sera d'una grande sconfitta e condotte a termine traverso una lunga
19
espiazione in questi anni di rinata operosità, contribuirono alquanto a persuadermi del
maggior nerbo e delle piú legittime speranze nei presenti, collo spettacolo delle debolezze
e delle malvagità passate» [I, 5]. O ancora, quel che Nievo scrive di
quel tempo in Venezia e la libertà d’Italia (1859), quando «[s]i tralasciarono le
astratte discussioni, e la rigenerazione Italiana divenne il tema di tutte le opere, di tutti i
pensieri. Nella sfera industriale e nella letteraria e drammatica, nella politica e nella
pedagogia d’altro non si trattava. Era la nazione che raccoglieva tutte le sue forze in un
solo conato e si preparava per la seconda volta in dieci anni a tentare la prova» (IV,
p. 77).
Opera per molti versi politica, crogiuolo di incontro e
confronto di tante voci della cultura e della politica
preunitaria, le Confessioni risulta un testo difficilmente riducibile
agli schieramenti in campo, all’una o all’altra delle principali
proposte politiche risorgimentali. Obbiettivo di Nievo è
contribuire alla formazione di un uomo nuovo capace di
attraversare il complicato mondo della transizione italiana e di
preparare l’unificazione. Nievo si propone di allargare la base
del moto risorgimentale e di offrire un modello di comportamento
ed una serie di valori etico-intellettuali legati a ceti diversi
più che di comportamenti politici specifici attorno ai quali
questo uomo nuovo deve articolarsi, dando in tal modo alle Confessioni
un orientamento (politicamente) unitario e lasciando in secondo
piano le divisioni interne allo schieramento risorgimentale, a
smorzarne le differenze, a subordinare strategicamente le istanze
più democratiche e repubblicane all’obbiettivo dell’unità
nazionale: una posizione allora condivisa da molti democratici non
mazziniani. E forse quella che Federico Spantigati, nell’incontro
che ha dato impulso a questo scritto, ha definito con icastica
sintesi caciara può intendersi come riferita a quella magmaticità
20
del dibattito politico e culturale nel decennio preunitario, alla
mancanza di una bussola, innanzitutto assiologica, capace di
orientare i comportamenti di Carlino e di quella borghesia
protagonista dell’unificazione italiana.
La Pisana invece è spiazzante. È una intollerabile infrazione
al moralismo e al conformismo dell’epoca. Impone a Carlino un
rapporto freudianamente sadomasochistico, fatto di continui
abbandoni e ritrovamenti, compie atti contro la sua vera natura e
volontà fino a negarsi come compagna per darsi come sorella.
“Ossimoro vivente” (M. Colummi Camerino) è espressione di una
vitalità, di una drammatica volontà di divenire persona,
rivendicazione di dignità personale, di un processo di costruzione
di una identità civica (processo al contempo di liberazione e di
disciplinamento) che passa attraverso una autoeducazione, una
presa di parola ed una messa in campo (se non fosse un aggettivo
inflazionato, potrebbe dirsi biopolitica) del suo stesso corpo; icona
di una irrazionalità irriducibile alla razionalità della storia
che traversa il romanzo. Mentre gli altri personaggi vengono
generalmente descritti “singolativamente”, forse non è un caso che
lei sia l’unico personaggio che viene “continuamente ridescritto”
nel corso del romanzo, rispetto alla quale il narratore sente
ripetutamente il bisogno di razionalizzarne le azioni con giudizi
a posteriori molto spesso inadeguati (Mengaldo), quasi a
riconoscimento di una complessità costitutiva della soggettività
femminile.
Come romanzo “d’amore” il romanzo procede per opposizioni di
personaggi e di coppie di personaggi: Carlino vs Lucilio,
Carlino/Pisana vs Lucilio/Clara. Il destino dei due grandi amori del
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libro, quello di Carlino e della Pisana e quello di Lucilio e
Clara, per quanto differenti, sono legati da un filo: il primo si
realizzerà pienamente, seppur nella sua sregolatezza, al di fuori
di un matrimonio, ma senza avventure e/o adulteri. Il secondo si
nega per l’ostinazione di Clara (ostinazione eguale e contraria a
quella di Lucilio)- succube di un voto da falsa crociata impostole
per motivi ideologici e politici ben più che religiosi. Clara,
capace di rivoltarsi ai propri genitori rifiutando il marito che
avevano scelto per lei, ne accetterà poi la punizione
sottoponendosi ad una negazione della sua stessa vita, fino al
tragico destino che la storia le riserva, quando si ostinerà a non
voler lasciare il convento e solo una legge “civile” la farà
ridiventare donna, ma lei ormai non sarà altro che una ex monaca.
Ma in questo romanzo amore e matrimonio sono parallele che non si
incontrano: anche la Contessa ha sposato il Conte di Fratta per
interesse, ma conserva racchiuso il ritratto di un suo amore
passato. L’unico matrimonio che funziona è quello tra Spiro e
Aglaura, a lungo credutisi fratello e sorella in un rapporto dai
tratti a volta incestuosi (ad es. la gelosia del primo verso la
seconda). Va detto inoltre che se è sulla Pisana che converge
l’attenzione a proposito di tali tematizzazioni, è anche vero che
forse è la figura di Aglaura (la figlia degli Apostulos) il
personaggio che meglio verbalizza la consapevolezza dei
condizionamenti che quel mondo esercita sulle donne e al contempo
la consapevolezza del possibile ruolo attivo che queste potrebbero
avere nella famiglia e nella società. Rimarca lucidamente la
diversa condizione loro riservata in famiglia («noi femmine siamo pei
padri un bene passeggiero, un trastullo per alcuni anni; ci considerano, credo, come roba
d’altri» [XV, 656 s.]); rivendica orgogliosamente l’irrilevanza del
22
genere nella partecipazione alla vita civile e politica («sia donna o
uomo che importa? … Gli adoratori della libertà non hanno differenza di sesso. Sono tutti
eroi» [XV, 669]).
Se la Pisana è espressione di una ribellione, tanto ai ruoli
esterni che la società in cui vive riservava per le giovani di
buona famiglia, quanto alle coazioni interiori che quel mondo le
aveva costruito dentro, questo stesso discorso vale, rovesciato,
anche per altre figure femminili del libro (Clara, Aquilina):
contro/esempi, narrazioni di strategie perdenti in quanto muovono
dalla negazione del proprio sé, incarnazioni di quella esclusione
femminile, di quella diseguaglianza. Clara è una vittima senza mai
avere della vittima gli atteggiamenti. Vittima delle imposizioni
familiari prima e di una forma estrema di ritorno reazionario
dopo. Considerata un oggetto dalla propria famiglia: oggetto di
contrattazione e poi di un sacrificio espiatorio. Anche la figura
dell’Aquilina, nella sua involuzione, non è certo priva di
interesse. Ragazza non bella ma simpatica; sposa imposta a Carlino
dalla Pisana, spera a lungo di far innamorare di sé Carlino, madre
apprensiva ma comprensiva delle ragioni che spingono il
primogenito a partecipare alla lotta per l’indipendenza della
Grecia. Dopo la morte del figlio Donato si trasformerà
progressivamente in una donna acrimoniosa, chiusa in una
intransigenza bigotta, sempre più gretta e preda di eccessi che
sboccheranno in vere e proprie crisi isteriche fino a perdere ogni
ragione e sentimento. Ma più che la morte del figlio è il rancore
verso il marito a condurla in questo stato, a questa tragedia
sotterranea.
La Pisana e le altre figure femminili del romanzo rimandano ad
un crinale nella storia della cittadinanza, ad un insieme di
23
tensioni e valori centrali nella rimessa in discussione di un
discorso giuridico della cittadinanza connotato anche da strategie
di esclusione femminile. Raffigurazioni di strategie più o meno
efficaci di lotta per i diritti e al contempo di una “critica”,
sul piano letterario, di questa esclusione. “Critica” da
intendersi nel senso che a questo termine assegna Michael
Foucault, come «arte di non essere governati in questo modo, in nome
di questi principi, in vista di tali obiettivi e attraverso tali
procedimenti”.
Polifonia
All’ampiezza e complessità dell’arco temporale ed alla varietà
dei luoghi d’azione delle Confessioni si aggiunge la massa di
personaggi e di eventi che affollano il romanzo e che accompagnano
le vicende dei maggiori protagonisti. Una narrazione dunque
decisamente polifonica, che esprime una pluralità di punti vista. E
forse anche questo pluralismo di voci che accompagna il soggetto
narrante rimanda ad una transizione ancora aperta, ai conflitti
tra le diverse istanze e possibilità in campo, alle oscillazioni
della condizione umana ed alle non composte contraddizioni della
società. Il titolo stesso dell’opera, Le confessioni di un italiano fa di
Carlino un testimone più che il protagonista: compagno di viaggio
che a volte si confonde in mezzo alle altre varie voci del
romanzo, ma che non perdiamo mai di vista, su di una strada sulla
quale camminano tanto i singoli quanto la storia e lungo la quale
l’uno muta incessantemente l’altro. «Nel racconto della mia infanzia i
personaggi mi si sono moltiplicati intorno che è un vero spavento … è una vera falange
che pretende di camminar di fronte con me, e col suo strepito e colle sue ciarle rallenta di
molto quella fretta ch’io avrei d’andar innanzi» [V, 203]
24
Il romanzo, in altri termini, nella multiforme polifonia che
lo caratterizza, in quell’«intenzionale disordine», mostra una
apertura nei confronti della varietà del reale- varietà tanto di
voci, di opinioni, quanto di strumenti per interpretarle- che può
costituire un utile richiamo per un giurista che voglia migliorare
la proprio “conoscenza giuridica” di quella transizione. Il
ricorrere dell’immagine della “matassa”, del “viluppo” sembra
ricordarci che le dinamiche sociali, e dunque anche giuridiche,
all’interno delle quali gli individui sono calati non hanno forme
lucidamente geometriche. Racconto di una vita, il libro ne
mantiene tutta l’irregolarità e l’approssimazione (B. Falcetto).
Significativa al contempo è invece l’assenza del mondo
contadino, assenza cui lo stesso autore allude nell’episodio delle
rivolta di Portogruaro, alla quale infatti i contadini
parteciperanno per così dire dall’esterno, per poi ritrarsene. Una
estraneità alla quale Nievo dedicherà di lì a poco il Frammento sulla
rivoluzione nazionale, dove si insiste sull’importanza di coinvolgere
direttamente le masse contadine affinché, dopo la rivoluzione
politica determinata dall’adesione alla nascente Italia sabauda,
possa aversi anche la rivoluzione nazionale ed evitarsi al contempo
quella sociale. Per Nievo, prevalgono nel «volgo campagnolo»
sentimenti di «inerte opposizione» e di «muta indifferenza» e le «menti
elevate» [III, 159] potranno coinvolgere le popolazioni contadine
nel processo di costruzione nazionale non «col sangue», ma con una
maggiore giustizia sociale e con l’educazione. «Prima di istruire, prima
di educare bisogna procurare quell’assetto di vita comoda, indipendente, dignitosa che
rende possibili istruzione e educazione. Mal s’insegna l’abbiccì ad uno che ha fame; mal si
presenta l’eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi di un fattore.
Sono sforzi che aggiungono la ridicolaggine all’impotenza» [VII, 164]. A tal fine
25
Nievo sostiene una pragmatica alleanza con «il clero delle campagne» per
aprire un dialogo con quelle masse insensibili alle opinioni delle
«menti elevate», riconoscendo in questo modo l’oggettiva limitatezza
di una strategia e di un discorso interno solo alle élites colte e
dunque la necessità di non cedere all’illusione di una minoritaria
rivoluzione degli intellettuali. Nievo riesce a superare «a forza
di senso storico, alla Cuoco, le astrattezze giacobine e
illuministiche di certa borghesia italiana che, generalizzando la
propria avversione al clero e alla chiesa, misconoscevano la forza
del sentimento religioso nelle masse popolari» (G. Petronio).
Nievo è consapevole della ineludibilità di una ricomposizione
della frattura tra popolo e classi dirigenti risorgimentali, della
necessità di «ricostruire l’unità nazionale; di ricongiungere la mente con il braccio;
(di puntellar la rivoluzione politica già in via di essere compiuta colla rivoluzione nazionale
che sola può darle appoggio durevole); di indurre cioè nelle opinioni del volgo rurale un
cambiamento che le colleghi alle opinioni della classe intelligente» [X, 169]. La
posizione dell’autore è dunque quella di un liberale aperto che
consapevolmente si pone il problema delle masse rurali, ma sempre
dal punto di vista delle classi proprietarie, non esente da
paternalismo, e che propone, quasi cinicamente, di usare il
sentimento religioso e il basso clero rurale quale freno alle
rivendicazioni sociali dei contadini. «Il tempo né è maturo né è opportuno
[per una rivoluzione sociale che renda l’agiatezza cosa comune nel volgo campagnolo].
Adunque in questo caso io che non sono religioso […] vi consiglio a mantenere nel
popolo quel freno religioso che rende mutola quell’invidia [di beni materiali] per mezzo
del dovere e sopperisce in parte a quei beni che non potete dargli. Costretti a lasciargli la
maggior parte della sua miseria, lasciategli quella speranza che gli fa vedere in questa la
promessa di una felicità eterna» [XIII, 173]. Qui emerge il limite
sostanziale dell’analisi di Nievo e di tanta parte dei democratici
26
e dei moderati italiani del tempo, la sproporzione tra l’acuta
percezione del problema e della sua urgenza e quelli che sono
invece i rimedi che suggerisce. Il suo interesse ed il suo impegno
a favore dei contadini non bastano a farlo andare oltre l’angolo
visuale “borghese”. I suoi contadini sono nonostante tutto
“oggetto” più che “soggetto” della storia e il problema del
coinvolgimento di queste masse finisce per essere ricondotto su
quel terreno pedagogico che lo stesso Nievo poco prima aveva
tacciato di astrattezza (F. Della Peruta). «Prima condizione di ottener
ciò [la rivoluzione nazionale, la «fusione del volgo campagnolo nel gran partito
liberale»], è l’educazione». Pur riconoscendo che «prima condizione per rendere
l’educazione possibile è l’alleviamento della miseria, e il retto soddisfacimento dei
bisogni», lascia al contempo che tale alleviamento e soddisfacimento
vengano da graziose concessioni dei proprietari: «migliorate … subito
finché c’è tempo la condizione del volgo rurale se volete avere un’Italia» [XI, 170].
Forse l’interesse della posizione di Nievo rispetto al mondo
contadino risiede anche in questa irrisolta contraddittorietà, in
questo conflitto non composto tra istanze conservatrici, o
quantomeno moderate, ed istanze radicali, talvolta più avanzate di
quelle sostenute dalle componenti più democratiche- basti pensare
alle sue rivendicazioni di suffragio per i contadini- «Possibile che
nessuna legge elettorale si degni di scendere fino a lui?» [XII, 172] «Date una
rappresentanza ai contadini … fateli in qualche maniera … partecipare
all’amministrazione comunale, alla legislatura del paese» [XVI, 177].
Nota bibliografica
27
Le citazioni delle Confessioni d’un italiano sono tratte dall’edizione A.
Mondadori, coll. Oscar Grandi classici, Milano, 2001, le cifre romane indicano i
capitoli e quelle arabe le pagine. Per gli scritti Venezia e la libertà d’Italia e
Frammento sulla rivoluzione nazionale, si è fatto riferimento alla raccolta curata da G.
SCALIA, I. NIEVO, Scritti politici e storici, Cappelli, Rocca San Casciano, s.d. (ma
1965), rispettivamente 67 ss. e 158 ss. Inoltre, tra le introduzioni e le
prefazioni alle varie edizioni del romanzo nieviano, si segnalano: quella di S.
ROMAGNOLI, al volume delle Opere nieviane per la collezione Ricciardi
“Letteratura italiana – Storia e testi”, Milano-Napoli, 1965, IX ss. quella di
G. MANACORDA, all’edizione curata da Editori Riuniti, 1968, V ss.; quella di M.
GORRA nell’edizione Mondadori supra cit.; e infine quella di S. CASINI
all’edizione curata dalla Fondazione Pietro Bembo, Milano, Guanda, 1999, VIII
ss.
Le citazioni di F. SPANTIGATI sono tratte da: ID., L’attenzione del giurista alla
letteratura, in questo fascicolo. Il riferimento al “paradigma indiziario” rimanda al
bel lavoro di C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A. GARGANI (a cura
di), Crisi della ragione, Torino, Einaudi, 1979, 53 ss. Il richiamo a R. ORESTANO è
al suo Lasciando la cattedra che riprende il testo della sua ultima lezione (19
maggio 1979), apparso in Foro it., 1979, 5141 ss. e successivamente in ID., ‘Diritto’
Incontri e scontri, Bologna, il Mulino, 1981, 57.
Di “vita politica” parla A. DE FRANCESCO a proposito di V. Cuoco nel suo
Vincenzo Cuoco una vita politica, Laterza, Roma-Bari, 1997. Sui rapporti tra Compagnoni
e Leopardi v. C. DIONISOTTI, Leopardi e Compagnoni, in ID., Appunti sui moderni
cit.,103 ss. Sulle caratteristiche del romanzo di formazione: F. MORETTI, Il
romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, di cui v. in particolare la Prefazione,
VII ss. Le citazioni diV. MENGALDO è tratta da Storia e formazione nelle “Confessioni”, in
F. MORETTI, P.V. MENGALDO, E. FRANCO (a cura di), Il romanzo. Vol. V Lezioni, Torino,
Einaudi, 2003, 255, mentre quella di M. Bachtin da Il romanzo di educazione e il suo
significato nella storia del realismo, in L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi, 1988, 210 s.
Riguardo la riflessione di F. BRAUDEL sulla longue durée qui ci si limita a
rimandare ad alcuni dei saggi contenuti nel volume Scritti sulla storia, Milano,
Bompiani, 2001, tra cui in particolare si vedano: Posizioni della storia nel 1950; Storia e
scienze sociali. La “lunga durata”; Il presente spiega il passato; La storia delle civiltà: il passato spiega il
presente. Al “romanzo storico contemporaneo” G. LUKÁCS si riferisce ne Il romanzo
storico, Einaudi, Torino, 1965. Il richiamo a A. DE NITTO deve intendersi a
28
Introduzione: Consuetudine con la libertà, in C. RUPERTO, La costituzione in mezzo a noi,
Giuffrè, 2005, XXIII ss.
Sulla collocazione di Nievo tra i giobertiani o i mazziniani v.
rispettivamente i lavori di G. MAFFEI, Nievo e la «dialettica»: Gioberti in Nievo, in S.
CASINI, E. GHIDETTI e R. TURCHI, Ippolito Nievo tra letteratura e storia, Bulzoni, Roma,
2004, 75 ss. e di S. CASINI, Nievo e Mazzini: le rivoluzioni del 1849 tra biografia e finzione, in
ivi 117 ss. F. DELLA PERUTA invece- in ID., Ippolito Nievo e la questione contadina, in G.
GRIMALDI (a cura di), Ippolito Nievo e il Mantovano, Venezia, Marsilio 2001, 368 ss.-
individua tre momenti del percorso politica nieviano: mazziniano seppur distante
dalla linea del partito d’azione nei primi anni Cinquanta; criticamente
moderato, giobertian/cavouriano ai tempi della guerra di Crimea e dell’alleanza
franco-piemontese; infine, dopo l’armistizio di Villafranca del 1859,
democratico radicale, antimoderato e antigovernativo, militarmente e
politicamente garibaldino. La citazione di M. COLUMMI CAMERINO è tratta da
Introduzione a Nievo, Bari, 1991, 79; quella di M. FOUCAULT da Illuminismo e critica,
Roma, Donzelli, 1997, 37.
La citazione di B. FALCETTO da ID., L’esemplarità imperfetta. Le «Confessioni» di
Ippolito Nievo, Marsilio, 1998, 10; quella di di G. PETRONIO da Nievo e la letteratura
popolare, in Società 1956, 1100 e, infine, quella di F. DELLA PERUTA da Ippolito Nievo
e il problema dei contadini, in Rinascita 6/1952, 356.