Uno sguardo conclusivo sulla Devianza 207 Capitolo XI UNO SGUARDO CONCLUSIVO SULLA DEVIANZA 1. Sintesi delle teorie e dei paradigmi sulla Devianza 2. Tipologie e classificazioni 3. Tre domande: perché deviante? Come si diventa? Chi diventa? In quest’ultimo capitolo cercheremo di tirare le fila di tutto il discorso fatto sulla devianza, tentando una sintesi che ci faccia scorgere le principali categorie con cui questo concetto è stato trattato nella sociologia della devianza 1. SINTESI DELLE TEORIE E DEI PARADIGMI SULLA DEVIANZA Nell'ambito della psicosociologia della devianza ci siamo imbattuti in alcuni autori che intendono la devianza in modo molto diverso, a seconda degli approcci di cui fanno parte, delle tendenze, ed, in ultima analisi, dei paradigmi Interpretativi che hanno dominato la scena da qualche secolo a questa parte. 1.1 Il Paradigma utilitarista Il bisogno di definire in modo organico la devianza si affaccia per la prima volta nella seconda metà del sec. XVIII, entro l’ambito degli studi giuridici e filosofici suscitati dall’Illuminismo razionalista ed empirista. Sono pensatori come Hobbes e Locke in Inghilterra e Montesquieu e Rousseau in Francia che preparano il clima culturale da cui nasce un consistente nucleo di elaborazioni teoriche che costituisce una prima e schematica criminologia. L’interesse per i problemi della devianza sorge più precisamente dall’istanza dell’egualitarismo che spinge a rivedere in modo sostanziale la prassi e la dottrina penale del tempo, caratterizzata da eccessi e da arbitri di uomini e di istituzioni, assolutamente contrari all’ideale illuminista del valore e della dignità di qualsiasi persona umana, compresa quella del delinquente. Ma non è estranea a questo rinnovato interesse per la devianza la curiosità verso un fenomeno apparentemente inspiegabile, data la concezione illuminista che vede nella razionalità il fondamento della natura umana e, più a monte, dallo stesso sistema sociale. È C. Beccaria che già nel 1764 nel suo “Dei delitti e delle pene” tenta un primo bilancio organico di molte riflessioni elaborate da più parti sul significato del crimine e sulle risposte che la società deve dare all’infrazione della legge. Presupposto essenziale del libro di Beccaria è senza dubbio la dottrina del contratto sociale che sottolinea l’origine e la natura consensuale della società e pertanto la sua intrinseca necessità e razionalità. Di qui la definizione del crimine (e della devianza in genere) come comportamento essenzialmente patologico perché irrazionale e la concezione della pena come giusta rivalsa del sistema sul deviante (purché mantenuta entro i limiti della proporzionalità simmetrica) e come tentativo di una sua riconduzione alla normalità o razionalità. Egli dà per scontato che l’ordine sociale esistente sia razionale. Il suo unico obiettivo è di renderlo più efficace nell’eliminare la parte deviante del sistema. Pena come deterrente alla
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Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
207
Capitolo XI
UNO SGUARDO CONCLUSIVO SULLA DEVIANZA
1. Sintesi delle teorie e dei paradigmi sulla Devianza
2. Tipologie e classificazioni
3. Tre domande: perché deviante? Come si diventa? Chi diventa?
In quest’ultimo capitolo cercheremo di tirare le fila di tutto il discorso fatto sulla devianza, tentando una sintesi che ci faccia scorgere le principali categorie con cui questo concetto è stato trattato nella sociologia della devianza
1. SINTESI DELLE TEORIE E DEI PARADIGMI SULLA DEVIANZA
Nell'ambito della psicosociologia della devianza ci siamo imbattuti in alcuni
autori che intendono la devianza in modo molto diverso, a seconda degli approcci di
cui fanno parte, delle tendenze, ed, in ultima analisi, dei paradigmi Interpretativi
che hanno dominato la scena da qualche secolo a questa parte.
1.1 Il Paradigma utilitarista
Il bisogno di definire in modo organico la devianza si affaccia per la prima volta
nella seconda metà del sec. XVIII, entro l’ambito degli studi giuridici e filosofici
suscitati dall’Illuminismo razionalista ed empirista. Sono pensatori come Hobbes e
Locke in Inghilterra e Montesquieu e Rousseau in Francia che preparano il clima
culturale da cui nasce un consistente nucleo di elaborazioni teoriche che costituisce
una prima e schematica criminologia. L’interesse per i problemi della devianza sorge
più precisamente dall’istanza dell’egualitarismo che spinge a rivedere in modo
sostanziale la prassi e la dottrina penale del tempo, caratterizzata da eccessi e da
arbitri di uomini e di istituzioni, assolutamente contrari all’ideale illuminista del
valore e della dignità di qualsiasi persona umana, compresa quella del delinquente.
Ma non è estranea a questo rinnovato interesse per la devianza la curiosità verso un
fenomeno apparentemente inspiegabile, data la concezione illuminista che vede
nella razionalità il fondamento della natura umana e, più a monte, dallo stesso
sistema sociale.
È C. Beccaria che già nel 1764 nel suo “Dei delitti e delle pene” tenta un primo
bilancio organico di molte riflessioni elaborate da più parti sul significato del
crimine e sulle risposte che la società deve dare all’infrazione della legge.
Presupposto essenziale del libro di Beccaria è senza dubbio la dottrina del contratto
sociale che sottolinea l’origine e la natura consensuale della società e pertanto la
sua intrinseca necessità e razionalità. Di qui la definizione del crimine (e della
devianza in genere) come comportamento essenzialmente patologico perché
irrazionale e la concezione della pena come giusta rivalsa del sistema sul deviante
(purché mantenuta entro i limiti della proporzionalità simmetrica) e come tentativo
di una sua riconduzione alla normalità o razionalità. Egli dà per scontato che
l’ordine sociale esistente sia razionale. Il suo unico obiettivo è di renderlo più
efficace nell’eliminare la parte deviante del sistema. Pena come deterrente alla
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natura “utilitaristica dell’uomo”. Pena però che deve essere “certa, pronta, mite e
proporzionata”, per rimanere nei canoni illuministici del tempo. Ben diverso dalla
tendenza attuale, che, rivalutando la natura razionale dell’uomo (rational choice)
insiste di più sulla gravità della pena più che sugli altri elementi. Se questo è fare
un passo in avanti nella “razionalità”.
1.2 Il Paradigma Positivista
Le teorie di tendenza positivista (psicofisiche) "concepiscono la disuguaglianza,
la povertà e l'emarginazione come fenomeni collegati a fattori naturali, conseguenze
di cause ereditarie e di degradazione umana. Possiamo mettere in risalto la teoria
degli elitisti, che secondo lo stile darwiniano considera l'emarginazione come valore
in quanto seleziona i più capaci dagli altri. Il marginale va ritrovato "nel criminale,
l'uomo selvaggio e insieme l'ammalato" (Lombroso), le cui tracce caratteriali e
comportamentali dimostrano, tra altro, l'uso del tatuaggio, una diminuita sensibilità
al dolore, una grande acuità visiva, il mancinismo, il carattere atavico, la grande
insensibilità morale e affettiva, le passioni (alcool, gioco, libidine, vanità) ecc. Tale
prospettiva ha valore esplicativo del modo in cui spesso, ancora oggi, segmenti della
società interpretano il fenomeno della marginalità. I miserabili, i malati di aids, i
drogati, i ragazzi di strada sono identificati ed etichettati come "marginali" (nel
senso morale e medico).
1.3 Il Paradigma Sociale
Il paradigma sociale comprende tutte quelle teorie che rintracciano nella società
(disorganizzata o non perfettamente funzionale) la causa della devianza.
1.3.1 La "Scuola di Chicago"
La "Scuola di Chicago" identifica una più intensa presenza della marginalità
nelle aree geografiche caratterizzate dalla disorganizzazione urbanistica e sociale.
Tali aggregazioni sociali sono funzionali alla presenza di gruppi delinquenti, i quali
trasmettono culturalmente i set di valori che servono da matrice dei comportamenti.
Se all'inizio, l'apprendimento dei comportamenti devianti ha motivazioni ludiche, in
un secondo momento essi sono sostenuti da motivazioni di carattere utilitaristico
(C. R. Shaw e H." "D. McKay). E. Sutherland nella sua teoria delle associazioni
differenziate, interpreta la devianza come un comportamento appreso
nell'interazione, sia coll'ambiente familiare che col gruppo dei pari; si imparano non
soltanto le tecniche, ma anche le motivazioni, le razionalizzazioni e gli atteggiamenti
propri della marginalità.
I territori urbani problematicamente strutturati (ad es. le 'favelas' e i
"barracati") producono la "marginalità ecologica", che, insieme alla marginalità
economica contribuisce all'emergere della cultura criminale, ed i gruppi sociali non
integrati sono più vulnerabili all'influenza e alle pressioni del crimine. Quando le
risposte alle pressioni sono caratterizzate dal timore, dall'omertà, dalla tolleranza e
dall'indifferenza si creano le premesse per lo sviluppo della devianza, un "terreno di
coltura in cui si istalla, crea radici e prospera il crimine organizzato".
1.3.2 La Tendenza funzionalista
La concezione della società come corpo sociale unitario fa comprendere la
marginalità come frutto della non integrazione sociale o della mancata
socializzazione. Un intervento mirato alla soppressione della marginalità privilegia,
da una parte, l'utilizzazione di mezzi coercitivi, quando essa si rivela distruttiva per
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il sistema e l'utilizzazione funzionale della marginalità come meccanismo di
colpevolizzazione o come polo di riferimento per i gruppi integrati. Tale prospettiva
di tendenza funzionalista proviene da T. Parsons, R. Merton e K. Davis.
Nella "teoria dell'anomia" R. Merton sostiene che i soggetti appartenenti a certi
gruppi sociali trovano difficoltà nell'accedere alle mete (promesse teoricamente a
tutti), utilizzando norme sociali condivise. La marginalità va ricercata nel disagio
causato dall'impossibilità di certi individui di trovare i mezzi adatti al
raggiungimento dei fini condivisi dalla società. La spinta alla delinquenza è
proporzionale alla discrepanza tra aspirazioni e mezzi per raggiungerle, e a soffrire
di più questo tipo di pressione sono i più poveri: ne deriva che la devianza sarebbe
un fenomeno tipico delle classi sociali inferiori poiché sono esse a subire
maggiormente il disagio dello scarto tra mete e mezzi.
Cohen, nella sua "teoria della deprivazione di status", partendo dallo scarto tra
aspirazioni e mezzi prefigurato da R. Merton, aggiunge che i mezzi sono distribuiti
in modo ineguale: i giovani delle classi inferiori sono formati all'interno della loro
cultura, ma nel periodo della formazione scolastica sono a contatto con quella della
classe media, che serve loro da confronto. Si crea una situazione di conflitto quando
il soggetto si accorge di essere un deprivato rispetto agli altri ed il disagio può
sfociare in comportamenti collettivi, subculturali, all'interno delle bande. Esse sono
un modo di negazione collettiva dei valori della classe media e di enfatizzazione di
quelli della propria classe sociale. La teoria della deprivazione di status interpreta
l'autocoscienza della marginalità poiché le bande vengono considerate un modo di
comunicare e una ricerca di sicurezza nel gruppo. Oggi, oltre alla socializzazione
scolastica, è da considerare anche l'influenza dei mezzi di comunicazione nella
creazione della coscienza della deprivazione.
1.3.3 La "teoria del controllo sociale",
La "teoria del controllo sociale", sviluppata soprattutto da T. Hirschi, attribuisce
la devianza alla carenza di socializzazione normale e al conseguente venir meno del
controllo sociale efficace. Il controllo viene inteso come interno (sviluppo dell'auto-
controllo) e come esterno (dei genitori, della società). Esso è efficace quando il
soggetto ha buoni legami affettivi con i genitori, ha successo nella scuola, è
impegnato nelle attività parascolastiche, ha alte aspirazioni e fiducia nella validità
della norma sociale. La teoria della deprivazione considera il gruppo dei pari e le
bande come il luogo della maggiore manifestazione della devianza giovanile. La
partecipazione al gruppo dei pari, a determinate condizioni, facilita il
comportamento deviante: giovani con problemi in comune, con difficoltà a
mantenere vere amicizie, con mancato autocontrollo, integrati a determinati gruppi
tendono più spesso a commettere atti delinquenziali rispetto a coloro che non
manifestano tali problemi. Uno sviluppo ulteriore di tale teoria ha portato alla teoria
dell’autocontrollo, che pone l’accento sul processo di internalizzazione delle norme e
sulle modalità di creazione di un legame sociale
1.4 Il paradigma costruttivista
1.4.1 La tendenza interazionista
Marginalità e devianza sono un costrutto sociale che avviene in un processo
interattivo al quale prendono parte quattro elementi: il soggetto che compie l'atto
deviante, la norma che lo sancisce, la reazione sociale e il controllo sociale. Più che
l'azione deviante in sé, viene considerato il significato che essa assume da parte
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dell'individuo che la compie, e da parte del senso comune che la percepisce. La
"prospettiva interazionista" indaga sulla formazione del sé dell'individuo quando
affronta la reazione di stigmatizzazione da parte della società: l'assunzione della
propria differenza lo costringe ad interiorizzare un concetto di sé come deviante in
consonanza con le aspettative di ruolo provenenti dalla società. Di qui proviene
l'accettazione passiva della marginalità in quanto assume le aspettative del controllo
sociale: la devianza è il modo che il soggetto trova per comunicare il nuovo ruolo che
gli viene assegnato dalla società.
L'interazionismo è stata la prima prospettiva a studiare il "processo secondo il
quale si diventa deviante". Le teorie anteriori erano piuttosto preoccupate nello
spiegare tale comportamento come causato da forze esterne al soggetto.
L'interazionismo riconosce il consenso del deviante, cioè la sua volontà libera e
questo riconoscimento permette di spiegare il processo secondo il quale il soggetto,
in associazione con gli altri (interazione) apprende e interiorizza norme diverse da
quelle convenzionali.
L'interazionismo si è ispirato all''utilitarismo, ma le origini della teoria risalgono
alla ricerca di due autori: George Herbert Mead (1863-1931) e Charles H. Cooley
(1864-1929). Gli autori hanno studiato a livello micro-sociale il processo sociale
della formazione dell'auto-concetto, della socializzazione e dell'interazione. Mentre le
teorie macro-sociologiche sono preoccupate di scoprire l'effetto delle strutture sociali
sui singoli individui e gruppi, quelle micro-sociologiche, come la teoria che stiamo
studiando, partono dai processi interattivi che intercorrono tra i singoli soggetti per
poi spiegare il loro rapporto con le strutture sociali.
Il processo di socializzazione secondo gli autori sopraccitati spiega come i
soggetti imparano i significati, i valori, le regole e le norme attraverso l'interazione
con gli altri. Mead distingue i componenti del processo di socializzazione come un
dialogo tra il sé (soggettivo) e il me (oggettivo). Il me rappresenta l'altro generalizzato
e funziona come un "deposito" di informazioni riguardanti le norme sociali. Il self si
sviluppa grazie al confronto con gli altri. In altre parole, è come se guardassimo allo
specchio e invece di vedere noi stessi vedessimo quello che (immaginiamo) gli altri
pensano di noi. Immaginiamo come siamo rappresentati dagli altri e sentiamo
orgoglio o vergogna di noi stessi, sentimenti che influenzano l'auto-stima e l'auto-
concetto.
Lemert, nella "teoria dello stigma", distingue tra devianza primaria
(allontanamento occasionale e non significativo dalla norma, senza serie
conseguenze) e devianza secondaria (strutturazione del comportamento deviante in
base a un processo in cui il soggetto interiorizza un'identità negativa motivata dalla
reazione sociale ai suoi comportamenti).
D. Matza sviluppa tale teoria, approfondendo il processo secondo il quale il
soggetto diventa deviante; egli distingue tre tappe, graduali e integrate, di questo
processo: l'affinità, o la percezione da parte del soggetto di una inclinazione tra
disagi e condizione sociale; l'affiliazione, o l'aderenza al modello deviante come
soluzione per l'assunzione di un'identità attribuitagli dallo stigma; la
stigmatizzazione da parte della società che lo considera e lo tratta come deviante.
Tale processo è graduale, crescente e integrato, e si mostra più probabile all'interno
delle condizioni di disagio e di marginalità.
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1.4.2 Teorie del conflitto (Tendenza marxista)
La "prospettiva marxista" non sviluppa una specifica teoria della devianza, che,
però, può essere integrata a una teoria della marginalità. Marx considera il processo
di emarginazione come prodotto e conseguenza intrinseca del capitalismo,
potenzialmente eliminabile attraverso un intervento strutturale, basato nella
coscienza del proletariato, attraverso la rivoluzione, fino alla conseguente
eliminazione della proprietà privata e all'organizzazione del comunismo. Il"neo-
marxismo" non imposta il concetto di marginalità in termini di integrazione o meno
al sistema, ma come una conseguenza, "prodotta nello e dallo sviluppo, a motivo
dell'interdipendenza tra centro e periferia, tra polo moderno e polo marginale, fra
strati centrali e strati residuali". La devianza è ricercata tanto nelle classi inferiori
che in quelle superiori; queste ultime considerano deviante quello che nella
competizione sociale danneggia i propri interessi. Poiché la classe dominante è il
riferimento del sistema, essa si trova, in partenza, in condizioni privilegiate per
giudicare ciò che è deviante o non, e ciò che costituisce o non la marginalità. I
poveri vengono considerati devianti nel loro esasperato tentativo di soddisfare i
bisogni negati.
Una "teoria del controllo sociale "sul versante critico, diversa da quella
sviluppata nell'ambito del funzionalismo, si colloca verso la fine degli anni '60,
quando la società post-industriale, a volte con problemi di governabilità della
complessità sociale, tenta di legittimare l'esigenza di un controllo capillare. La
marginalità è valutata come risultato di un accesso differenziato alle risorse e al
potere del sistema; essa può generare nei gruppi una coscienza della contraddizione
vissuta che si traduce in movimenti sociali vari e ai quali il sistema risponde con
diverse forme di controllo che vanno dalla persuasione alla cooptazione e alla
coercizione.
1.5 Il paradigma multifattoriale
Attualmente il discorso sulla devianza registra molte posizioni tra loro
divergenti e spesso inconciliabili. Talmente che è sorto una nuova posizione,
discutibile, ma assai diffusa, che propende per una “integrazione” tra le varie teorie
criminologiche e sociologiche. E' un tentativo che si basa sulla constatazione che la
devianza più che un problema teorico è una questione concreta che mette in crisi
società, governi, istituzioni, senza esclusione di parte. Pertanto si invoca un
atteggiamento responsabile e pragmatico rispetto a tale tematica, senza soffermarsi
troppo su questioni di tipo teorico, che appaiono poco funzionali alla soluzione dei
problemi reali.
Per cui prevale in questo periodo un approccio sincretico, che impiega i concetti
più disparati, in ordine alla comprensione della devianza. Si cerca di valorizzare
l'apporto di ogni teoria, basandosi sull'assunto che le differenze tra le diverse teorie
non solo sono colmabili, ma costituiscono una ricchezza da sfruttare perché
consentirebbero di “completare le manchevolezze di una teoria con un'altra”
(Ceretti, 1992, 209).
1.5.1 Il realismo criminologico di sinistra
La svolta più significativa fu rappresentata da Taylor, Walton & Young, che
erano partiti da una posizione rivoluzionaria, tale da farli ritenere vicini ai
“radicals”. Tuttavia nel corso degli anni ’80 avvenne in loro una “conversione” in
senso realista. Da una parte furono indotti a farlo dalle critiche che provenivano dai
criminologi di destra, dall’altra dalla osservazione del progressivo dilagare in UK
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della micro-criminalità e dalla constatazione che gran parte delle vittime erano dei
ceti sociali più poveri (vittimologia). Ciò li spinse ad accogliere alcuni principi del
“realismo di destra” e a farli propri. Questo anche per favorire politiche di
contenimento del crimine e che si guadagnassero la fiducia della gente. Ne nacque
una sociologia della devianza più realista e concreta, che senza abbandonare del
tutto le prospettive rivoluzionarie di derivazione marxista, cercano di declinarle nelle
situazioni concrete di ogni giorno.
1.5.2 “Criminologie della vita quotidiana” o “Teorie delle opportunità”
Le «teorie della scelta razionale» di scienziati della politica e di illustri
economisti si accordavano particolarmente bene con un clima culturale complessivo
che poneva l'idea di individuo e soprattutto di responsabilità individuale a base
della svolta generale in senso neoliberale.
Dal lato opposto si faceva strada il tentativo di “normalizzazione della
devianza”. Secondo tale prospettiva «la criminalità rappresenta un aspetto usuale e
normale della società moderna. Si tratta di un fatto - o, meglio, di un insieme di fatti
- che non richiede nessuna speciale motivazione o predisposizione, nessuna
patologia o anormalità, e che è inscritto nella routine della vita economica e sociale
contemporanea» (Garland 1996, 450). Le “criminologie della vita quotidiana”
rappresentano i fenomeni criminali come normali elementi del vivere sociale,
risultanti da una combinazione di contingenze, di opportunità e di rischi inseriti
nell'ordinario svolgersi della vita di tutti noi. Gli eventi criminosi, visti nel loro
insieme, diventano così «regolari, prevedibili, sistematici come gli incidenti stradali»
(Garland 1997, 86). La progressiva dissolvenza e diluizione del termine devianza
entro la normalità era anche il frutto o la logica conseguenza di alcune significative
trasformazioni. La conseguenza più importante di questa visione della criminalità fu
il fatto che l'attività di controllo o contrasto cessò di essere indirizzata al deviante e
diventò invece azione designata a governare le routine economiche e sociali.
1.6 L’introduzione dei termini “disagio” e “rischio”
I termini “disagio” e “rischio” sono entrati di recente nella letteratura
sociologica, in seguito alle critiche rivolte dalla corrente interazionista sul ruolo
dello stigma sociale nella definizione della devianza. Attraverso questi termini si
vuole indicare uno stato non ancora definito di devianza, che, se affrontato
adeguatamente, può evitare di passare da una devianza primaria ad una secondaria
e definitiva. I due termini sono pressoché intercambiabili e rappresentano, con la
loro elevata indeterminatezza, la logica conclusione di un processo di
“normalizzazione della devianza” (Neresini – Ranci, 1992, 23). L’apparizione di
questi termini segna la progressiva dissolvenza teorica dei termini “devianza” e
“marginalità” e di conseguenza il loro superamento sul piano interpretativo.
All’affermazione di tali termini ha dato un notevole contributo la situazione di
complessità sociale e di pluralismo etico, che rende difficile determinare le
situazioni di reale devianza o marginalità, che hanno senso solo in situazione di
normativa chiara (devianza) o di centro-periferia (marginalità).
Essi hanno permesso il superamento di un'interpretazione rigidamente
determinista dei processi che possono portare alla devianza o alla marginalità”,
anche se ciò ha creato notevoli problemi a livello concettuale. Però questa nuova
formulazione ha fornito una diversa immagine delle sequenze (in senso causale-
lineare/sistemico) che legano tra loro disagio, rischio, devianza e marginalità.
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2. TIPOLOGIE E CLASSIFICAZIONI
Abbiamo già tentato nella pagine introduttive di fornire della categorie per
comprendere il concetto di devianza. Dopo aver conosciuto i diversi approcci diventa
ineludibile lo sforzo di cercare di trovare delle classificazioni e distinzioni secondo i
diversi tipi di devianza che sono emersi dallo studio. Ovviamente ci limiteremo a
presentare alcune tipologie particolarmente utili e conosciute, senza pretesa di
esaustività, data la complessità del fenomeno.
2.1 Secondo il comportamento non conformista aberrante
Una prima distinzione è avanzata da R. K. Merton1 (Merton e Nisbet, 19662,
808-811) il quale parla di comportamenti non conformisti e comportamenti
aberranti, senza entrare in ulteriori suddivisioni. In sintesi i comportamenti non
conformisti e aberranti possono essere descritti per contrapposizione come segue:
a] visibilità del comportamento
Massima nel non conformista che cerca positivamente di comunicare
all’ambiente sociale i motivi del suo dissenso mediante proteste, manifestazioni,
pubblicazioni, ecc.
Minima nell’aberrante che spesso agisce nella clandestinità, nell'immerso,
evitando di scontrarsi con i detentori del potere e del controllo sociale.
b] Legittimità delle norme
Contestata dal non conformista, accettata in modo abbastanza passivo e
acritico dall’aberrante, il quale per altro le viola di fatto come il non-conformista ma
solo per motivi contingenti ed utilitaristi, non ideali.
c] Riformismo
Massimo nel non-conformista; che tende esplicitamente a progetti alternativi e
ad azioni rivoluzionarie, minimo negli aberranti che perseguono prevalentemente
Di tipo sociale, collettivo, largamente umanistico e rivoluzionario nel non conformista, di tipo individuale, egocentrico, banale nell’aberrante.
In sintesi si possono considerare non conformisti i comportamenti che esprimono un progetto di cambio sociale come le ribellioni, il dissenso ideologico, la disobbedienza civile ecc.; mentre i comportamenti aberranti sono quelli caratterizzati da attività criminali o illegali prive di prospettive socio-politiche.
2.2 Secondo la devianza positiva/negativa
Fichter2 parla a sua volta di devianza positiva e negativa. La distinzione si
fonda sulla differente funzione dei modelli ideali e reali di comportamento. La
devianza positiva è infatti un tentativo di avvicinarsi ai modelli ideali che accede la
norma del comportamento statisticamente medio: in questo senso si possono
considerare devianti positivi i santi, i riformatori, i radicali, gli eroi, gli entusiasti.
La devianza negativa comprende invece i comportamenti che stanno al di sotto
delle aspettative di ruolo (oppure contro di esse, in altra direzione); e vi
appartengono la gran parte dei comportamenti criminali, illegali, ecc.
1 cf. Robert King MERTON - Robert A. NISBET (Edd.), Contemporary social problems, New York, Harcourt,
Brace World 1966 (Loc. 20-C-2223).
2 cf. Joseph Henry FICHTER, Sociologia fondamentale, [Roma], ONARMO 1961 (Loc. 20-C-975 / 20-C-558 / 67-B2-6).
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Devianza positiva e negativa possono considerarsi in realtà più due poli estremi
di un “continuum” (con diverse sfumature intermedie) che due categorie distinte e
contrapposte.
2.3 Secondo il conformismo non conformismo
Analoga alla distinzione di Fichter, ma più analitica e più descrittiva, è la
tipologia di R. Cavan3 (1962, cap. III) che pone su una distribuzione “normale”
(curva di Gauss) le seguenti categorie:
• Controcultura criminale: si tratta di una forma di devianza organizzata e radicale, che persegue aggressivamente un progetto rivoluzionario e che generalmente si appoggia su un gruppo ben identificabile.
• Non conformismo estremo: comprende devianze sistematiche accompagnate da una forte ambivalenza nei riguardi dei valori fondamentali del sistema sociale.
• Non conformismo moderato: Implica la presenza di devianze occasionali che però non intaccano un consenso sostanziale sui valori del sistema.
• Conformismo “medio”: è la forma di adattamento più diffusa, che si incontra nella minoranza più consistente della distribuzione.
• Superconformismo moderato: presenta una consistente attività dei soggetti nel senso della osservanza rigida delle norme e consuetudini sociali.
• Superconformismo estremo: ingloba già forme ritualistiche di comportamento ed accentua il carattere ormai patologico dell’osservanza delle norme.
• Superconformismo controculturale: comprende i comportamenti superstrut-turati di fanatici, riformatori, idealisti, radicali ormai isolati entro gruppi sub e contro-culturali, catturati della logica dell’estremismo.
La tipologia di R. Cavan, fondata su premesse statistiche, permette di
quantificare i diversi tipi, anche se ovviamente ciò vale solo per i grandi numeri.
2.4 Secondo l’attività / passività
T. Parsons già nel 1951 (1951, 259) aveva contribuito a rendere più analitiche le classificazioni dicotomiche (cfr. quelle di Merton), inserendo un triplo criterio di distribuzione dei comportamenti conformi/devianti, come risulta dalla tabella seguente:
Fig. 4 – La classificazione dei comportamenti conformi/non conformi di Parsons
ATTIVITÀ PASSIVITÀ
Innovazione Ritualismo
Riferimento agli
oggetti sociali
Riferimento alle
norme
Riferimento agli
oggetti sociali
Riferimento alle
norme
Predominio della
conformità
Dominante Fanatico Sottomesso Perfezionista
Ribellione Rinuncia
Predominio del
distacco
Aggressivo Incorreggibile Indipendente
compulsivo
L’uomo in fuga
3 cf. Ruth Shonle CAVAN, Criminology, 3ª ed., New York, Crowell 1962, 735 p.; CAVAN Ruth Shonle - CAVAN
Jordan T., Delinquency and crime. Cross-cultural perspectives, Philadelphia, Lippincott 1968, 244 p.
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1. Il primo criterio è quello della attività-passività (activity-passivity) che
distingue i comportamenti a seconda del prevalere di un comportamento
orientato all’innovazione (compulsive performance orientation) o al ritualismo
(compulsive orientation).
2. Il secondo criterio è quello del predominio della conformità (conformative
dominance o del distacco (alienative dominance) che sottolinea la direzione
conservativa - innovativa del comportamento.
3. Il terzo si riferisce alla dicotomia oggetto sociale – norma (focus on social
objects – f.… on norms) e sta a significare i bersagli verso cui vengono
focalizzati i comportamenti.
La combinazione dei tre criteri dà luogo ad otto tipi di condotte, di cui quattro di
orientamento conformista: dominante (rispetto alla società), fanatico (nel far
rispettare le norme), sottomesso (all’oggetto), perfezionista (osservanza perfezionista
delle norme); e quattro in cui predomina il distacco (alienative dominance):
aggressività verso gli oggetti sociali, incorreggibilità, indipendenza compulsiva,
evasione (uomo in fuga).
La tipologia parsoniana si presenta già ricca di contenuti non solo formali ed entra in merito, sia pure ancora timidamente, alle concretissime modalità di devianza che in seguito altri autori svilupperanno ancor più analiticamente4.
2.5 Secondo la natura della deviazione
Dinitz e coll.5 (1969, 12) ha seguito in sostanza la linea parsoniana, assumendo
il criterio della «natura dell’ordine normativo» violato e della «natura della
deviazione», come mostra lo schema alla pagina seguente.
Senza dubbio la tipologia di Dinitz si qualifica per la sua maggior completezza e
concretezza; essa richiama inoltre un quadro delle teorie e concezioni della devianza
che si sono venute via via succedendo nel progredire della riflessione sociologica, e
pur tuttavia in questa linea sembrano possibili altre più specifiche determinazioni,
almeno all’interno dei grandi “tipi”, come hanno tentato di fare ad es. Ferdinand6
(1966), Hoover (1966) per conto del FBI americano, e il President Crime Commission
Report (1956), relativamente al tipo “criminale”.
Fig. 2 – La tipologia di Dinitz sulla natura della devianza
TIPO DI DEVIANTE
NATURA DELL’ORDINE NORMATIVO VIOLATO
NATURA DELLA DEVIANZA
ESEMPIO DI DEVIANZA
L’ANORMALE modelli ideali di tipo fisico, fisiologico, psicologico
L’AMMALATO definizioni culturali di salute mentale
aberrante nell’agire psicotico psiconeurotico
L’ALIENATO scopi e mezzi culturali rigetto dei valori culturali dominanti
vagabondo, ozioso, suicida, hippie, bohémien
4 cf. ad es. Merton con la sua teoria dell'anomia, che prevede i tipi: innovatori, ritualisti, rinunciatari, ribelli.
5 cf. Simon DINITZ - Russell R. DYNES, Alfred C. CLARKE (Edd.), Deviance, New York, Oxford University Press 1969 (Loc. 20-C-348 e 37-C-2562).
6 cf. Theodore N. FERDINAND (Ed), Juvenile delinquency, Beverly Hills, Sage 1977 (Loc. 20-B-1975).
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
216
2.6 Secondo la percezione della devianza
In tutt’altra direzione si muovono le distinzioni che si rifanno ad una teoria
generale della devianza che attribuisce al controllo sociale (o stigmatizzazione -
etichettatura) la responsabilità causale dello strutturarsi della devianza e che
tengono conto del suo carattere prevalentemente progressivo-processuale. Così
Becker7 (sulla linea di Lemert), assumendo come criterio la distinzione tra
percezione della devianza e il fatto della devianza (v. Becker 1963), propone una
tipologia così articolata:
• l’accusato falsamente: è un conformista percepito come deviante;
• il conformista: agisce ed è percepito come conformista;
• il puro deviante: agisce ed è percepito come deviante;
• il segretamente deviante: agisce come deviante ma è percepito come conformista.
Secondo questa tipologia è dunque la “scoperta del deviante” che ne causa effettivamente e spesso irreversibilmente la devianza.
Analoga classificazione è proposta da Blake e Davis (1964) che incrociano i due criteri dei motivi o desideri devianti-conformi e atti devianti-conformi, secondo lo schema seguente:
Fig. 3 – La tipologia di Blake e Davis (1964) sui conformità/devianza
conformizzanti devianti
conformizzanti 1 2
devianti 3 4
Esclusi i casi 1 e 4 che non creano difficoltà, vanno considerati i casi 2, e 3 che
denotano un conflitto tra intenzioni conformizzanti ed atti effettivamente devianti e,
viceversa, intenzioni devianti ed atti conformi.
Questa tipologia oltre ad accettare il fatto fondamentale dei processi di
stigmatizzazione mette in evidenza le possibilità di devianza preterintenzionale,
dovuta ad errore, mancanza di conoscenza delle norme, compulsività ecc.
Come pure la possibilità di un comportamento deviante mancato a causa delle pressioni ambientali contrarie, paura delle sanzioni, carenze di effettive opportunità di deviare, ecc.
Nella prospettiva evolutiva è di grande importanza la distinzione di Lemert8
(1951) tra devianza primaria e secondaria; analoga è quella di Clinard9 (1963, 211),
fondata sul grado di professionalizzazione o avanzamento della devianza: di mano in
mano che i ruoli devianti si cristallizzano e il soggetto si identifica con essi e
progredisce nella partecipazione subculturale alla devianza, si passa da una
devianza “non career” (cioè non professionale) ad una “career” (cioè professionale).
2.7 Secondo criteri psicologici
Rimane infine da riferire per completezza su alcune tipologie fondate
soprattutto sulle caratteristiche psicologiche dei devianti. Winslow10 (1970, 130-
7 cf. Howard Saul BECKER, Outsiders. Studies in the sociology of deviance, London, Free Press of Glencoe 1963,
179 p. (Howard Saul BECKER, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, Gruppo Abele 1987, 174 p.).
8 cf. Edwin M. LEMERT, Social pathology, New York, McGraw Hill, 1951; LEMERT Edwin M. Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Milano, A. Giuffrè 1981 (Loc. 37-C-1624(1) e 65-030-C-34).
9 cf. Marshall Barron CLINARD., Sociology of deviant behavior, New York, Holt, Rinehart and Winston 1974, (c1957) (Loc. 20-C-850); Marshall Barron CLINARD (Ed), Anomie and deviant behavior. A discussion and critique, New York, Free Press of Glencoe 1964, xii + 324.
10 cf. Robert W.WINSLOW, Society in transition, New York, The Free Press 1970 (Loc. 20-C-1244).
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
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133) riporta quelle fornite da Alexander11 e Staub (1956, 83-124), Sanford (1943),