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BREVI MA BRAVI Scuola di scrittura Roberto Agostini Racconti di: Maria Luisa Aldegheri, Maddalena Allievi, Melania Bodo, Daniela Bonaretti, Martina Cimmarrusto, Mariella Colosi, Chris Condemi, Monica Federico, Tiziana Gallo, María Belén García, Maria Concetta Giorgi, Serafina Ignoto, Clara Lenoci, Angela Lombardozzi, Fortunata Loviso, Chiara Olivero, Cristina Onofri, Alessio Pedroletti, Luca Petucco, Pietro Severino, Lorenzo Stanca, Maria Paola Toschi, Giovanna Zappalà. per Scuola di Scrittura-Roberto Agostini, Milano ([email protected])
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BREVI MA BRAVI

Mar 28, 2023

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BREVI MA BRAVI

Scuola di scrittura Roberto Agostini Racconti di: Maria Luisa Aldegheri, Maddalena Allievi, Melania Bodo, Daniela Bonaretti, Martina Cimmarrusto, Mariella Colosi, Chris Condemi, Monica Federico, Tiziana Gallo, María Belén García, Maria Concetta Giorgi, Serafina Ignoto, Clara Lenoci, Angela Lombardozzi, Fortunata Loviso, Chiara Olivero, Cristina Onofri, Alessio Pedroletti, Luca Petucco, Pietro Severino, Lorenzo Stanca, Maria Paola Toschi, Giovanna Zappalà. per Scuola di Scrittura-Roberto Agostini, Milano ([email protected])

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IL LIBRO Un’antologia di short stories. Perché? Perché la short story insegna a cogliere, ad andare dritti al punto, senza facili cliché. E come mai un’antologia? Perché Roberto Agostini crede nel gruppo. Chi vuole imparare ha già qualcosa nel cassetto, ma viene a incontrare altri che condividono questa passione, con un'unica regola ferrea: sì ai commenti, no alle critiche inutili. Il gruppo di aspiranti scrittori diventa, così, anche gruppo di lettori. E si valorizza il patto fiduciario alla base della narrativa: non c'è libro senza lettore, e viceversa. IL CURATORE Giornalista e scrittore, Roberto Agostini è nato a Milano dove si è laureato in filosofia, e diplomato in regia alla Scuola del Piccolo Teatro. È stato redattore e dirigente di case editrici, e precedentemente critico teatrale per La Repubblica, collaboratore di periodici e trasmissioni radio-televisive. Ha pubblicato romanzi per ragazzi, guide artistiche, saggi e opere enciclopediche, con Rizzoli, Bur, Fabbri, Pearson, Dorling-Kindersley, Rba, Nuove Edizioni Romane, Ubulibri. Sue traduzioni sono apparse negli Oscar Mondadori, da Piemme, Saggiatore, Tropea. Per la poesia ha pubblicato Mattini antartici (2008), Plaquette (2012), Onde del ritorno (2012), Minime (2013) e il poemetto La creazione. Dal 2008 organizza gruppi di scrittura e lettura in biblioteche, librerie e circoli. La Scuola di Scrittura Roberto Agostini è presente su Facebook.

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Un coach e un gruppo La nostra storia

La short story americana è il genere più letto. Da John Cheever a Andre Dubus e Flannery O' Connor (la sacra trimurti del racconto del Novecento). Vanta un altro record: il brano più breve, di Amy Hempel (Una sola volta nella vita: oh, quando mai ho desiderato qualcosa una sola volta nella vita?). Il racconto corto è alla portata di tutti. L'ho sempre usato come un invito, per sbloccare. Mezza pagina, chiunque è grado di riempirla. E così superare gli ostacoli più alti per il principiante: non trovo l'ispirazione (foglio bianco) e non sono mai soddisfatto (foglio pasticciato = perfezionismo). La misura minima innesca un'altra reazione positiva che ho osservato nei miei corsi: può essere letta. In un'ora ci possiamo raccontare tre, quattro racconti. La short story è ad alto tasso di coinvolgimento. Credo nel gruppo. Chi vuole imparare ha già qualcosa nel cassetto, ma viene a incontrare altri che condividono questa passione. L'emulazione positiva si intreccia a conoscenza, talvolta sboccia l'amicizia. Nei gruppi un'unica regola è ferrea: sì ai commenti, no alle critiche. La critica è distruttiva, inutile. Il gruppo di aspiranti scrittori diventa anche gruppo di lettori (lettura in pubblico, ad alta voce). Si valorizza il patto fiduciario alla base della narrativa: non c'è libro senza lettore, e viceversa. Christopher Hitchens, lo squisito oratore inglese, insegnava a parlare come premessa allo scrivere. Si completa il ciclo della concezione della parola: pensata, scritta, declamata. Il talento non si vende e non si acquista. Possiamo, però, essere aiutati, spronati a rivelarlo. Possiamo allenarci a sviluppare doti personali e innalzare il livello delle relazioni. Il racconto blocca l'istante. Lo filtra. Lo mette fra parentesi. Fa capire e assaporare. Scrivendo una short story, ci esprimiamo e comunichiamo. Miglioriamo il curriculum personale. Un racconto è superiore alla vita, anche se nasce sempre lì. Natsume Sōseki, il grande autore giapponese, ci esorta nel suo capolavoro (Guanciale d'erba): Siate presenti e nello stesso tempo assenti dalla vostra composizione. Un'impostazione sincera, non esibizionista. La short story può inquadrare un fatto vero o fantasie, essere sociale, psicologica, confessione o confidenza, si adatta al ricordo e al trauma, è certe volte prosa poetica, mai neutra. Spesso utilizzata come diario, per le riflessioni che il pudore tiene segrete. È un genere malleabile. Così ascolterete la varietà di temi e timbri di questa antologia. La short story insegna a cogliere uno spunto, farlo proprio, e sebbene le scritture professionali abbiano meravigliosi intrecci a uncinetto, la brevità aiuta anche a percepire lo sviluppo. Quel che chiedo ai partecipanti è approfondire il lessico, mostrare immaginazione e conoscenza, non bloccarsi alla prima parola che viene. Guerra ai cliché. E sintesi: c'è sempre un modo migliore per dire quel che abbiamo appena scritto. La scrittura ricca, intensa, corre su un crinale, fra forze opposte. Impariamo ad abbandonarci all'ispirazione e nello stesso tempo a dosare, asciugare. Anche proteggersi è importante, mettere degli schermi fra il proprio io autobiografico e l'io che scrive. Non tutti i nostri vissuti valgono o meritano di essere pubblicati. Leggerete questa antologia, frutto degli incontri di un gruppo di scrittura creativa per alcuni mesi. Persone diverse per estrazione, professione e cultura, rinsaldate dal cammino che le ha portate a queste pagine. Viene il momento in cui gli aspiranti vogliono mettere il nome sulla loro creazione, essere visibili. Non si diventa scrittori chiacchierando di tecniche. La partecipazione a questo libro collettivo è un primo passo. Ciascuno prenderà la sua strada. Alcuni hanno già pubblicato. Tutti conserveranno la memoria dell'esperienza fatta. La scrittura-lettura in comune lascia tracce. È un lieto evento. Due anni fa, come writing coach ho deciso di allargare questo perimetro, impegnandomi su Facebook con una pagina dedicata ogni giorno alla Scuola di Scrittura-Roberto Agostini. È uno spazio aperto a chiunque desideri divertirsi nel campo della narrativa, partecipando con racconti e poesie. Il gioco si è esteso a collaboratori da Dresda a Milano, Roma e Palermo. Un'esperienza anche geografica. Non una vetrina per ricevere o distribuire complimenti: la scrittura libera, ponderata, appartiene ai compiti di una società civile. Non so cosa farò, so da cosa sono partito: scrivere è una malattia, leggere una cura. Scavare in noi e nella realtà (la realtà è anche sogno, ipotesi). La scrittura potrebbe essere perfino egotista – narcisista, mai – e continuare a condurci avanti.

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Maria Luisa Aldegheri Ritorno

Un mattino di ottobre arrivai al paese dopo quasi quarant'anni dalla mia partenza e parcheggiai l'automobile vicino al cimitero. Entrai passando accanto alla cappella vecchia, e mi ricordai che quando abitavo lì la campana a morto suonava spesso. Coloro che andavano all'estremo riposo erano annunciati dal campanile della chiesa. Osservai il cimitero, le bianche e nere pietre tombali, quelle che avevo lasciato quando me ne ero andata alla fine degli anni Sessanta. Mi balzarono agli occhi tombe pompose destinate come dimora alle famiglie benestanti del paese. Sopra i marmi fiorivano corone intrecciate da memori affetti e petali bianchi di crisantemi; lampade votive e tremule fiamme di ceri erano accese e splendevano mettendo in evidenza i particolari ben curati delle scritte e delle fotografie. Mi avevano riferito che eri morto due mesi fa, ai primi di agosto. Non avrei voluto venirti a salutare, poi fu più forte di me, ritornare poteva aiutarmi a riprendere tutto quello che mi avevi tolto per la tua mancanza di coraggio. Nostro figlio non c'era, si trovava a Boston per il piano di studi universitari. Ti cercai fra coloro che, diventati polvere, sonnecchiavano sotto l'ombra di cipressi, le loro lastre sbiadite avevano assunto un tenero color rosa. Leggevo i nomi, alcuni noti, altri sconosciuti, fino a che una tomba fresca mi colpì. "A Giovanni. I tuoi cari", la scritta di fianco a una foto, l'unica sembianza familiare erano i tuoi occhi. C'erano fiori di campo e un vasetto di veronica appena sbocciata. I battiti del cuore accelerarono, riguardai la tua foto, mentre formulavo piccole frasi nella mente. Uscii subito dopo, per non lasciarmi commuovere. Salii in macchina, girai la chiave e decisi di rivedere la nostra casa. Imboccai la via che dal cimitero portava alla frazione, ma tutto era cambiato. Erano sorte case, erano nati quartieri. Giunta in fondo riconobbi i due fabbricati, l'uno davanti all'altro, in mezzo un lungo cortile. Erano stati ristrutturati, conservando le antiche strutture e la freschezza del giardino. Un'edera fitta copriva i muri della nostra casa. Il cortile era pieno di rose rampicanti, rosse come fiamme e candide come neve. L'erba ben curata, una palma allungava le foglie sul pergolato, dietro una cancellata di ferro battuto. Le mie radici affondavano nella casa d'edera. Ero venuta ad abitarci quando ci eravamo sposati il 3 ottobre 1944, spostandomi di due chilometri dalla mia casa. Dalle nozze nacque un bambino che chiamammo Roberto. In un primo tempo lavoravi la terra con tuo padre, poi decidesti di aprire una bottega per riparare le biciclette. Dall'altra parte della via stava una coppia senza figli, Rosa ed Ermes. Diventammo amici, in particolare Rosa e io. Facevamo lunghe passeggiate in paese. Tu eri impegnato con il lavoro, non avevi tempo per me. Piangevo, ero giovane e avrei voluto la tua compagnia. Ermes mi chiedeva se mi sentivo sola. Rosa mi invitava, e quando Ermes non era al lavoro uscivo a passeggio con lui, raccontandogli di noi. Una sera ritornasti a casa, dicendo che avevi ricevuto una lettera anonima, eri su tutte le furie. «Caro Giovanni, mi sono deciso a scriverti perché sei bravo anche nel tuo mestiere. Mi dispiace, ma sono costretto a dirti che tua moglie è una puttana, ha già passato quattro o cinque uomini e continua a farti le corna. Sono un amico che frequenta la tua bottega, ti giuro che non ho mai tentato di corteggiare tua moglie, ho solo osservato i suoi comportamenti, ma tu sei tanto stupido e non ti sei accorto di niente. Ti ricordi un mese fa? L'hai trovata con Ermes, le hai fatto una scenata, lei si è difesa dicendo che non facevano niente di male e anche Rosa sapeva che si parlavano. Io ti scrivo per aiutarti a far confessare tua moglie. Non dirle di questa lettera, sorvegliala quando va a fare la spesa e sta via per ore. In piazza ha una camera dove si incontra con degli uomini, prova a interrogare i tuoi operai, loro sanno tutto. Interroga il facchino che viene a casa tua, è un suo spasimante, lei gli prepara perfino il pranzo. E sai che fine ha fatto la bicicletta che ti è stata rubata? È stata lei a regalarla a un altro. Caro Giovanni, datti una mossa, cerca di liberarti da questa donna che oltretutto ti sta mandando sul lastrico spendendo tutti i tuoi soldi. Se lo farai, ti dirò chi sono e mi darai ragione.» Tu sai quanta angoscia e quanto dolore provai! Vergogna no, perché avrei dovuto? Era tutto falso, non andavo a letto con nessuno. Speravo di convincerti della mia innocenza. Per tutto questo tempo sono stata combattuta fra due forze, l'oblio e la memoria. Cancellare tutto mi avrebbe fatto bene; ricordarlo, però, mi aiutava a difendermi dalla menzogna. Il nostro piccolo Roberto giocava nel cortile. Girava intorno ai cespugli, correva incontro al nonno che tornava dai campi. «Ma Giovanni» dissi piangendo, «come potrei farti questo, abbiamo un figlio, io desidero solo te, vorrei tanto restare di più con te…»

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I tuoi occhi erano pieni d'ira, capii che avresti voluto scrollarti di dosso anche la paternità, tale era la sofferenza per essere stato ferito nel tuo orgoglio. Ti sedesti, con le mani unte d'olio afferrasti un bicchiere e ti versasti del vino nero. La settimana dopo, ti recasti dai carabinieri per querelarmi. Parlasti della lettera anonima, degli unici due nomi menzionati, Rosa ed Ermes. Parlasti con loro. Lei ti raccontò di averci seguiti una sera e di averci visti dietro la ferrovia, a parlare nascosti da un muro. Poi aveva fatto una scenata al marito e lui aveva confessato che era vero, precisando che i nostri incontri carnali erano frequenti e avvenivano in aperta campagna. Un giorno Rosa ammise di essere stata l'autrice della lettera anonima. Intanto l'accaduto aveva scatenato le voci del paese. Rosa era una poveretta divorata dalla gelosia e l'aveva fatto perché Ermes mi stimava come madre e come moglie. Interrogata dai carabinieri la mia versione fu sempre la stessa: «Fino a quando mio marito aveva lavorato nei campi con suo padre, nella nostra famiglia era regnato il massimo accordo. La vita divenne difficile, quando aprì l'officina meccanica. Cominciarono le liti e a volte per un nonnulla mi picchiava. Fu così che strinsi amicizia con Rosa ed Ermes. Ci scambiavamo le visite, andavo io da loro o venivano loro da me. E senza accorgermi trovai Ermes che mi corteggiava, minacciandomi che se non gli avessi ceduto avrebbe fatto di tutto per dividermi da Giovanni. Dopo la lettera anonima mio marito è peggiorato, quando è sereno crede a me, ma se è arrabbiato minaccia di buttarmi fuori di casa.» Ermes non poteva più ritrattare, altrimenti la moglie sarebbe stata accusata di aver dichiarato il falso. Passai tre anni terribili tra interrogatori e litigi con Giovanni. Persi l’aiuto dei miei suoceri, mio marito divenne invisibile. Dopo alti e bassi, Rosa ed Ermes ritirarono le accuse contro di me e nel processo che seguì fui condannata soltanto al risarcimento delle spese, per un accordo intervenuto tra le parti. Trovai lavoro come aiuto parrucchiera. Pagai i debiti e dopo cinque anni convinsi Giovanni a lasciarmi andare con Roberto, ormai pronto per la scuola, in una città dove avevo trovato un posto in un grande salone. Fra noi non c’era più niente, solo rancori, umiliazioni, silenzi. Povero Giovanni, la sua debolezza aveva distrutto tutti i nostri sogni. Non si oppose alla mia partenza. Prima di allontanarmi gli dissi: «In tre anni tua madre non si è degnata di guardarmi una sola volta in faccia, per sapere chi sono veramente. Vai pure da lei e dille che non deve più temere. La piccola donna che vi ha disonorato se ne va e non disturberà più la vostra quiete!» Vidi Giovanni soffrire e contemporaneamente odiarmi. Improvvisamente dal suo fragile involucro gli uscirono le ultime parole: «Allora buona fortuna. Porta con te Roberto. Non lo sento mio.» Ci sono nostalgie strazianti e nostalgie sognanti: le ho provate entrambe. Per tutto questo tempo ho sognato di arrivare in paese e urlare sulla piazza: «Giovanni non mi meritava». Ma ho voltato pagina, chissà se dimenticherò il male che mi ha fatto. Terrò a mente solo un riassunto indispensabile, mentre tutti i dettagli li cancellerò. Se un giorno mi verrà voglia di raccontarli a un amico, gli dirò che ricordo pochi frammenti della mia vita. Insieme potremo costruire due vite completamente diverse. Addio. "Sulle pareti si spensero le stelle / e le bianche figure della luce... dolcezza d'incenso nel vento purpureo / della notte."

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Maddalena Allievi Quando mi sono persa

Le sette del mattino. Guardo nello specchio che mi rimanda l'immagine di una ragazza di vent'anni alta, slanciata, con lunghi capelli mossi, di un caldo colore castano e gli occhi verdi chiari con un cerchio più scuro all'esterno, che catalizzano l'attenzione di chi si trova a guardarli la prima volta, e non solo la prima. Un'ombra ne sottolinea la luminosità, testimonianza indiscreta di una notte fatta di brevi momenti di sonno agitato. Sì, sono proprio io, Rachele, Rachel, come mi chiamano qui ad Aberdeen. È una fortuna che sia sabato, e non sono nemmeno di turno alla libreria. Non ho voglia di rimanere a letto, ho bisogno di uscire, camminare. Non chiamerò nemmeno Lindsey, l'amica scozzese che mi accompagna a fare jogging nel parco. Devo riflettere su quanto è accaduto e cercare di capire. Apro la finestra, non sono vicina al mare, ma l'aria è impregnata di salsedine e gli strilli dei gabbiani, che stazionano vicino ai pescherecci appena rientrati in porto, non danno tregua. Sono uccelli impertinenti, arrivano a rubarti il panino dalle mani se hai la sventatezza di mangiare per strada! Il cielo è coperto, ma, stranamente, non piove. Qui è inutile fare previsioni, è estate, ma possono esserci tredici gradi come ventitré e il tempo cambia spesso: la chiamano la terra delle quattro stagioni in un giorno, perché può capitarti di entrare con il sole nel Mall di Union Street e uscirne dopo dieci minuti con l'ombrello. Esco con la solita copertura a strati, tipo cipolla, e mi dirigo verso il prato di King's College Church, mi siedo su una panca di granito, come la maggior parte degli edifici di questa granite city. I raggi del sole che si riflettono sulle vetrate attenuano la monocromia, e tutto sembra più bello.

*** Il sole! C'era il giorno in cui mi diplomai al liceo linguistico con il massimo dei voti. Ero felice del risultato e dell'orgoglio che vedevo negli occhi di mia madre. E c'era il sole anche un altro giorno. Le nove di un mattino, gli zii cominciavano a radunarsi davanti all'ingresso di casa. Soltanto una delle sorelle di mia madre salì le scale, una delicatezza che apprezzai, non desideravo che tante persone invadessero il piccolo appartamento, dono di mamma, che era diventato il mio rifugio, il mio mondo. «Rachele, sei pronta?» Zia Antonietta era fuori della porta, l'aprii, mi guardò con un cenno di approvazione. Sapevo che non avrebbe obiettato per il giallo acceso del mio abito, mamma non avrebbe sopportato di vedermi in gramaglie. Ero pronta ad assolvere tutte le incombenze del momento. La sepoltura. Forse è vero che una cerimonia pubblica può aiutarti a elaborare il lutto, ma quanto è pesante! Ascoltare tutte quelle frasi, talmente simili da essere banali. Amo la lingua italiana, così ricca e musicale, e la sentii improvvisamente povera e monotona. Ma le parole sono quelle e sarebbero state comunque inadeguate a lenire l'enorme senso di abbandono, a cancellare l'immagine del volto di mia madre immobile, quasi inespressivo, dipinto, appena appoggiato sul cuscino d'ospedale. È stata soprattutto quella mancanza di calore a darmi la misura di quanto definitiva e totale sarebbe stata la nostra separazione. «Ti riprenderai. Ti accorgerai di averla ancora accanto a te.» Sì, ma intanto non sentivo più rumori nella cucina se non ero io a prepararmi il pranzo, e la carezza della sua mano fra i capelli quando riposavo sdraiata sul divano. Se avessi voluto sfogarmi, e urlare che non ne potevo più della rottura di scatole della prof. di matematica, nessuno mi avrebbe più risposto. Non l'avrei mai pensato, ma mi mancava della mamma persino il tono querulo con cui mi spiegava come si piegano le magliette, già, perché se non facevo esattamente come voleva lei, sicuramente sbagliavo. Arrivò mio padre e mi abbracciò, ma mi ritrassi, lo sentivo lontano. Da qualche anno, dopo la separazione, viveva altrove. Non era questo che mi faceva sentire così, ma il fatto che fosse concentrato sui suoi problemi e non avesse più spazio per me. Quando ci vedevamo mi chiedeva le solite cose, quasi in sequenza, la scuola, la casa. Sembrava che le mie risposte non gli facessero desiderare di conoscere meglio questa figlia che da tre anni non vedeva più. Non riuscivo più a sentire in lui un punto d'appoggio, un rifugio. La cerimonia era finita, preferii rimanere a casa da sola. Le premure possono soffocare, io avevo bisogno di respirare. Osservavo la mia casetta, mi sentivo triste. E libera. Troppo. Vedevo davanti a me una strada senza la riga bianca, e c'era la nebbia.

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Zia Antonietta cercò di fare le veci di mia madre. Non era lo stesso. Sapevo che si prodigava per me, ma non riuscivo a nascondere l'insofferenza per le sue continue ingerenze nella mia vita. A volte fuori luogo. Non riuscivo a spiegarmi con lei, non sapevo nemmeno cosa dirle, non potevo fare progetti. Mi iscrissi all'università, ma nonostante i buoni risultati non fui in grado di ritrovare un briciolo di entusiasmo. Come se tutto mi fosse diventato indifferente.

*** «Ciao! È un secolo che non ti fai viva, cosa fai di bello?» Cristina, la mia compagna di banco e di scherzi alle superiori. Una corona di ricci rossi le incornicia il viso. Ho sempre invidiato il suo nasino alla francese punteggiato di lentiggini, lei se ne faceva un cruccio perché si accendevano se soltanto beveva mezzo bicchiere di vino. Il rossore non le permetteva di nascondere ai genitori la minima trasgressione. Cristina era il mio sostegno nei giorni bui, conosceva il mio bisogno di ridere nonostante tutto. La sua voce mi metteva allegria. Aveva ragione, non mi ero più fatta sentire. «Perché non vieni con me in Scozia? Ci sono andata per un corso e mi sono innamorata...» La osservai di sottecchi. «... della Scozia.» Rise. «Be', non solo, è un ragazzo così carino! I miei sarebbero contenti, potremmo dividere l'alloggio. Ho già trovato un lavoro. Farebbe bene anche a te un cambiamento.» L'idea mi stuzzicava e man mano che ne parlavamo, provai persino un po' di eccitazione. Ne parlai con mio padre e mia zia, avrei potuto vendere qualche azione della mamma per mantenermi nei primi tempi e la zia avrebbe potuto occuparsi dell'appartamento di Milano. Approvarono, con qualche apprensione difficile da dissimulare. Ma la presenza di Cristina, che fornirono di un'intera agenda di numeri telefonici per qualunque necessità, li tranquillizzò. Andammo insieme all'aeroporto, superammo i saluti, gli abbracci, le lacrime e i controlli di sicurezza. Ridevo come non mi capitava da tempo. Mi sentivo un po' sciocca, ma il nuovo progetto mi spronava a guardare al futuro, se non altro ora avrei saputo dove indirizzare le mie energie, non le avrei disperse in dubbi e rimuginazioni. Aver preso una decisione mi fece sentire sollevata, ma non inconsapevole delle difficoltà che avrei incontrato. Un gruppo di scozzesi salì dietro di noi sul velivolo EasyJet, il più economico per viaggiare. Non erano niente male, i kilt non toglievano nulla alla loro virilità nonostante i commenti di alcuni ragazzi. Ma non potei fare a meno di sorridere alla vista dei peli che uscivano dai loro calzettoni che a Milano, con i trentasette gradi di fine agosto, dovevano essere proprio fastidiosi. Cristina mi aveva spiegato che lassù le temperature erano nettamente più basse, e che gli scozzesi indossavano gli abiti tradizionali perché fra poco avrebbe avuto inizio la festa del Military Tattoo e i giochi delle Highlands, la più importante manifestazione dell’orgoglio scozzese.

*** L’aeroporto di Aberdeen è minuscolo, usciamo in fretta e ci mettiamo subito in fila per prendere il bus che ci porterà a destinazione. Il primo impatto è deprimente. Il cielo è grigio e sta piovendo. Il grigio è proprio il colore della città di granito, anche se le case, per lo più basse, sono circondate da giardini. In Union Street, la grande via centrale, un raggio di sole penetra attraverso le nubi, si riflette da una finestra all'altra e brilla sul granito bagnato. La città si trasforma, mi sento trasportata nel Medio Evo di Ivanhoe, come l'avevo sempre immaginato. L'appartamento di Cristina è piccolo ma accogliente, e lei l'ha personalizzato con gusto. Passiamo i primi giorni a fare le turiste, girando per la città con il naso per aria, la macchina fotografica al collo e al braccio l'ombrello. Ad Aberdeen non manca nulla: il Museo del Mare, il Teatro che ha in cartellone anche La Traviata, gallerie d'arte e una quantità di caffetterie dove ci si può rifugiare quando piove e trascorrere qualche ora sprofondati in poltrona con un libro o le dita che corrono sulla tastiera del PC, davanti a un'enorme tazza di caldo, orribile caffè. La sera ci uniamo alla moltitudine eterogenea che dilaga nei vari pub: bere è lo sport nazionale, più del golf, e la birra è davvero buona. Mi sento bene, mi sembra di riacquistare pian piano la mia energia, o almeno una parte. David, il ragazzo di Cristina, ci accompagna spesso, è proprio carino e simpatico, i capelli di un biondo rossiccio e la pelle pallida che sembra non essere mai stata esposta al sole. Invece lavora sulle piattaforme petrolifere, principale ricchezza del posto; guadagna bene, anche se è una vita faticosa ed è duro passare lunghi periodi lontano dalla terraferma. Perciò appena può cerca di trascorrere tutto il tempo con Cristina. Passato il periodo delle scoperte, la mia amica riprende a lavorare al ristorante italiano in attesa di

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ricominciare i corsi universitari; vorrebbe diventare insegnante di lingue e nello stesso tempo sviluppare la sua passione per il disegno di stoffe e di gioielli. È piena di idee, ma come fa a metterle insieme? La mattina la guardo uscire con invidia. Mi piace andare verso il mare, sul litorale piatto e battuto dal vento. Sulla lunga spiaggia si può camminare, correre e giocare. Vedo individui che fanno surf o windsurf. Strano per un'italiana fermarsi a guardare il mare senza essere sfiorata dal desiderio di immergersi in quell'azzurro liquido, ma temo che sarebbe un gelido abbraccio. Ho preso l'abitudine di annotare le mie impressioni su un quadernetto, non ho mai tenuto un vero diario, ma ora mi piace riportare sulle righe le parole della mia nuova vita, quasi che diventi in questo modo più reale. Cerco di informarmi sulla terra che mi ospita, entro da Waterstone, la maggiore libreria di Union Street, mi dirigo allo scaffale di storia, prendo alcuni libri che si possono consultare prima di scegliere quale comperare. Porto il mio carico alla caffetteria, ordino un cappuccino, me lo servono in una tazzone che conterrebbe tre dei nostri. E mi accomodo in una poltrona di pelle marrone che sicuramente ha conosciuto tempi migliori. Magari negli anni Trenta, prima della guerra. Lindsey è seduta poco distante, nota i libri che ho preso e capisce che sono straniera. Incrocio il suo sguardo discreto e le chiedo un parere. Ride, dice che pochi scozzesi conoscono veramente la loro storia, e nessuno s'informa dopo la scuola dell'obbligo. Lei studia storia all'università, insieme a italiano, e questo è il modo in cui ha inizio la nostra amicizia. Mi spiega subito la differenza fra scozzesi e inglesi: la sorella di Lindsey ha sposato un veneziano e il padre l'ha accolto con «Finalmente qualcuno come noi!», perché il precedente fidanzato era un inglese. Lindsey ha capelli biondi sottili e gli occhi di un celeste così chiaro che sembra finto. Mi introduce nel mondo dell'università, dello sport, delle riunioni e di tutte quelle attività che sono il pane quotidiano dei giovani della nostra età. Inoltre conosce uno dei cassieri di Waterstone, e per il colmo della fortuna, scopre che stanno cercando un aiuto part-time. Sono al settimo cielo. Vengo assunta, anche se non so nulla del mondo del lavoro! Mi hanno sempre affascinato le librerie a causa della mia passione per i libri, non solo per la lettura, ma per la pagina, i segni dell'inchiostro. Un libro è un mondo. Già m'immagino di poter leggere di tutto e cercare libri rari, e mi vedo consigliare le ultime novità letterarie con dovizia di particolari. La realtà è molto diversa, almeno per gli ultimi arrivati.

*** Mi ritrovo ad aprire scatoloni di libri, catalogare quantità di libri, sistemare negli scaffali pile di libri, togliere dagli scaffali vecchi libri da imballare e rispedire. Se avessi scelto di fare il facchino probabilmente non avrei faticato di più. Altro che occupazione intellettuale! Essendo impegnate in orari diversi, con Cristina mi vedo sempre meno. Mi mancano le nostre maratone di shopping, e le poche sere che siamo entrambe a casa dobbiamo studiare oppure siamo troppo stanche per uscire. Quando c'è David, poi, mi sento fuori posto. Parlare l'inglese mi è sempre piaciuto, ma doverlo fare sempre perché nessuno parla come te, a lungo andare è una fatica che non avevo calcolato. Mi manca anche la cucina italiana. Le varietà di verdure che riempiono i banchi dei nostri mercati rionali. Qui sono molto care, le più abbordabili sono i broccoli, i cavolfiori, i cavoli e le patate, tutte buone ma sempre le stesse. Soprattutto mi manca il sole. Ad Aberdeen la luce, ancora godibile in estate quando l'alba arriva alle tre del mattino, è rara in inverno perché il buio se ne va alle otto del mattino e ricompare nel primo pomeriggio. Nemmeno la neve abbondante e il paesaggio natalizio che ho sempre adorato mi rallegrano. Soffro di frequenti emicranie, dormo poco nonostante la stanchezza. Mi sento strana. Un giorno mi perdo sulla strada che porta al lavoro, non la riconosco più, come se non l'avessi percorsa ogni volta negli ultimi quattro mesi. Mi confido con Cristina, lei pensa che dipenda dalla stanchezza, non si preoccupa e mi rassicura, ma io comincio a osservarmi con più attenzione. Qualche giorno dopo sono i colori a essere diversi, chiedo a Cristina se ha cambiato le tende, mi sembrano più scure, lei ride. «Ma chi ha soldi?» Continuo con lo studio e il lavoro. L'avvicinarsi del Natale mi fa avvertire la mancanza di mia madre. Mio padre e zia Antonietta vorrebbero che tornassi per le vacanze, ma non mi sento abbastanza forte. Qui l'atmosfera natalizia è fantastica: le luci, la neve, mi fanno sentire nel Paese di Babbo Natale, ma nello stesso tempo è diverso e lontano da tutto quello che facevo con la mamma. Il lavoro sotto le feste diventa sempre più caotico, finiti gli esami passo più ore in libreria, lascio il carico e scarico per creare confezioni artistiche, ho uno spiccato senso del colore e mi sbizzarrisco con i nastri su carta monocroma. I clienti sono soddisfatti e anche i miei superiori, ma la sera continuo a vedere macchie colorate e le gambe sono stanche. Con Lindsey esco spesso dopo il lavoro, ci ritroviamo davanti a una birra a scambiare le nostre impressioni

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sulla giornata. Mi fa piacere perché in questo periodo Cristina è divisa fra lavoro e David, e non ha tempo per me. Ho fatto amicizia anche con alcuni colleghi, siamo giovani e ci sentiamo un po' complici. Nelle pause del lavoro, mi fermo alla caffetteria al secondo piano. Giacomo, il ragazzo del bar, è di Pavia, anche lui è arrivato per una vacanza e si è fermato. Mi serve un cappuccino decente e scambiamo qualche parola nella lingua madre. Mi piace dire lingua madre, mi fa sentire meno orfana. Poi mi immergo nella lettura e dimentico per un po' il mondo. Dormo poco. Il mio corpo è confuso, come il cervello. Mi alzo al buio, esco al buio, appena compare la luce mi chiudo nella libreria da cui esco con il buio. La mia vita si svolge sotto la luce artificiale, mi manca sempre di più il sole. Nelle ore insonni penso e ripenso alla mia vita, questo periodo finirà, cosa farò dopo? Ma non serve parlarne a me stessa. Mi manca l'affetto. Qualche ragazzo ha provato a corteggiarmi, ma non riesco a lasciarmi andare, sono incredula, sospettosa, penso che probabilmente mi deridono per il mio inglese anche se l'ho decisamente migliorato, o forse ritengono che una straniera sia una facile conquista, con me non dovranno impegnarsi troppo, e se ho i fianchi larghi non importa. Un collega, Alan, non si scoraggia e mi riempie di complimenti, ma non riesco a fidarmi di lui. Il 20 dicembre sto facendo pacchetti per tutti, ma non ho ancora fatto i miei. Ci sto pensando mentre varco la soglia di Waterstone. Lo stomaco brontola, non ho fatto colazione perché mi sono alzata in fretta dopo essermi addormentata che era quasi mattino. Alan mi saluta sorridente e il suo sorriso mi sembra un ghigno cattivo. Decido di prendermi un caffè con un muffin ai mirtilli, il mio preferito, e al diavolo la linea, devo sostenermi. Giacomo mi osserva, dice che ho l'aria di un coniglio inseguito dai cani. Strano, il caffè è amaro come il muffin. Vado in bagno a sciacquarmi la bocca, sollevo lo sguardo fino a incontrare una donna sconosciuta che mi fissa dallo specchio. Occhi rossi, quasi satanici. Chi è quella scarmigliata? Intorno non c’è nessuno, devo essere io quella, possibile che mi sia ridotta in questo stato? No, non sono io, eppure le mani che esplorano quel viso si muovono come le mie. Sono spaventata. Esco di corsa per recarmi alla mia postazione, ma sbaglio strada, gli scaffali sembrano crollarmi addosso. Un cliente mi chiede un'informazione. Chi è? Cosa vuole da me? Perché mi aggredisce? Indietreggio finché qualcosa mi blocca, mi giro, è un muro di libri. Alan si avvicina preoccupato, mi circonda con le braccia. Mi sento imprigionata, mi arrabbio, mi divincolo, le labbra lasciano sfuggire un grido soffocato e mi affloscio per terra come un sacco vuoto. Non mi riconosco più, non so chi sono, tutti intorno a me sono ostili. La mia mente lacerata si rifiuta di pensare e scoppio in un pianto dirotto. Mi arrendo come un condannato alla fine inevitabile. Non ricordo quasi nulla di ciò che è successo dopo. Dentro di me c'è solo paura. E lo sconcerto di chi non riconosce più nulla della sua vita e teme tutto.

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Melania Bodo Parlo con le viole

Il vaso di viole sta lì in bella vista dietro la porta-finestra. La tendina rialzata quanto basta. Una cornice. Sembra una perfetta vetrofania. Invece sono viole vere, tenere e vellutate, magnifiche nell'esuberanza di colori forti o sfumati: giallo-giallino-bianco, viola-violetto-azzurro, amaranto... Nel centro un bottone d'oro da dove si spandono macchie nere con bordi frastagliati o filiformi striature. Sembrano ciglia sapientemente truccate. E sotto, un letto di fragili foglie verdi, delicate e morbide. Mentre le guardo ammirata e rapita da tanta arte, immagino la dolce premura nell'acquisto, la cura nella scelta dei colori più accattivanti, uno più bello dell'altro. Penso alla delicatezza con cui sono state travasate nella grossa ciotola, proprio adatta a questi fiori, alle mani nella terra friabile e fragrante e poi allo studio attento per trovare una posizione strategica, visibile, per goderne la bellezza. È stato un regalo veramente apprezzato. Sono viole del pensiero. In una giornata un po' umida di avanzato autunno, che ha ormai tinto le foglie degli alti ippocastani di giallo e i faggi di rosso ambrato, queste viole spiccano con la violenza della loro fioritura multicolore. Sembrano fuori tempo e stupiscono più che in primavera. Credo si debba proprio ringraziare Demetra, la dea che per festeggiare il ritorno della figlia Persefone, rapita da Ade, regalò alla terra fiori così allegri per sei mesi, rigogliosi anche in una stagione inconsueta. Un evento straordinario. E allora, perché stupirsi?

*** Era tornata un po' prima a casa. Aveva tempo. Si era fatta una doccia calda e aveva asciugato i capelli con particolare cura. Al trucco avrebbe pensato più tardi. La telefonata del pomeriggio l'aveva sorpresa. Non accadeva spesso che si sentissero durante la giornata. Non accadeva quasi più: il lavoro, le riunioni, gli appuntamenti, bla bla bla ... «Stasera usciamo.» «Veramente sono un po' stanca.» «No, dai, è importante. Ho un incontro cui tengo molto e vorrei che venissi anche tu.» «Ma...» «Allora, pronta per le nove, nove e mezza. Mettiti il vestito rosso che mi piace un sacco!» «Figurati se c'entro!» «Prova. Sarebbe fantastico!» Aveva preparato una tazza di Earl Grey, il suo tè preferito e volendo rilassarsi per qualche attimo, si era seduta in poltrona davanti alla vetrata che dava sul cortile e su un immenso spazio aperto. Cominciava a imbrunire. I colori del tramonto autunnale sono una meraviglia. Voleva assaporare lo spettacolo della natura. Un vento di tramontana aveva spazzato il grigio e asciugato l'aria umida. Il cielo era limpido. Al di là della vetrata vedeva il sole calare pian piano, mentre l'orizzonte rosseggiava. Nel luminoso crepuscolo risaltarono le grandi macchie scure degli alberi. I primi lampioni accesi nella strada e qualche finestra già illuminata fecero inaspettatamente assomigliare quella visione al misterioso quadro di Magritte, L'Empire des Lumières. Aspirò la fragranza di bergamotto del tè, e abbandonandosi al piacere, lo gustò a piccoli sorsi. Con il suo piccolo rito riusciva a dimenticare la frenesia del ritmo quotidiano e lasciar correre i pensieri. Chiuse gli occhi ed entrò in un sogno.

*** «Ciao! Ma sei già a casa?» «Sono arrivato da poco. Ero in centro per un appuntamento. Ho finito prima del previsto. Così ho pensato che ti avrei fatto una sorpresa!» «Che sorpresa?» «Se te lo dico, non è più una sorpresa!» «Dimmelo...» «Stasera cucino io!» «E cosa, se non c'è...» «C'è tutto! Vedrai! Ma tu, non devi fare qualcosa di là? Magari vestiti come se andassimo a cenare fuori. Ti chiamo quando ho finito.» Il pendolo del salotto scandisce il tempo. Ecco, nove rintocchi e mezzo!

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«È pronto. Adesso puoi venire. Ehi! Sei bellissima, il rosso ti dona, è proprio il tuo colore. Ma non sgranare quegli occhioni... Be', sì, non ho cucinato proprio io! Sono passato a prendere due cosine sfiziose e una bottiglia di champagne, un Pol Roger. Ma ho preparato bene, non trovi? Sei contenta della mia sorpresa?» Sul tavolo le tovagliette americane comprate a Pienza l'estate scorsa, i calici scintillanti, le candele blu. «Non dici niente?» «Oggi non è ...» «Nessuna ricorrenza. Cosa importa, è ancora più bello. E questi sono per te.» «Tulipani in autunno? Grazie, sono stupendi!» «Ma guarda e leggi.» Il biglietto è fatto a mano. Un acquerello a matite. Sono viole coloratissime, bellissime, e le parole ancora di più: Sei tu la mia primavera, sempre! «Allora, a cosa pensi?» «Che sei tu la mia sorpresa, sempre!»

*** La chiave che gira nella serratura mi sveglia. Guardo l'orologio: le 20.45. Mi sono addormentata. «Ciao. Sei pronta?» «Sì, sì, in un attimo!» «Bene, intanto mi cambio anch'io e faccio una telefonata veloce!» Mi vesto. Il vestito rosso perfetto! La collana di perle. Le décolleté di vernice. Un po' di rossetto, una linea di rimmel, due gocce di profumo. Sì, può bastare. Torno in salotto, apro la porta-finestra e accarezzo le viole del pensiero: è vero che nei loro arabeschi si può vedere il viso della persona amata? Ma questi francesi cosa vanno a immaginare! Sono tenerissime e lisce, vivaci ma vulnerabili. Hanno fatto innamorare i protagonisti del Sogno di una notte di mezza estate. Shakespeare adopera il succo magico delle viole come filtro d'amore. Hanno il pregio di dire "ti penso" e di "far pensare a". E non chiedono, non pretendono, non annoiano. Vogliono solo un po' d'acqua e uno sguardo. Le annuso. Profumano d'amore! Ho un brivido. C'è una brezza leggera. La serata sarà fresca. E i pensieri? Il cielo è stellato. Non si può che sorridere! «Oh, eccoti! Che bello, proprio bello quel vestito. Ma cosa fai?» «Niente, parlo con le viole!» Chiudo la porta-finestra. Indosso il cappotto, infilo i guanti, prendo la borsetta e usciamo.

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Daniela Bonaretti Strane solitudini

Marta sbuca dall'ascensore tenendo la borsa della spesa in una mano e un mazzo di gladioli nell'altra. Poi si volta e sorride alla signora sulla sessantina che la segue con incedere lento e la faccia beata. Questa signora, che si chiama Lea, ha appena confidato alla giovane di soffrire di gonfiori alle gambe, ma di non voler rinunciare per questo alle sue passeggiate nel parco. «Certo che non devi rinunciare! Se anch'io potessi, se non lavorassi tutti i santi giorni, un giro nel parco, di mattina, lo farei sempre» dice Marta mentre armeggia con la serratura. Dopo di che apre la porta, appoggia la borsa all'ingresso e spalanca le braccia, per rendere solenne e gioioso il benvenuto a Lea nella sua casa. La luce che filtra dalle persiane è sufficiente per mostrare la forma dell'appartamento, la linea moderna dei mobili, il divano celeste. «Questi fiori sono stupendi, Lea. Sei andata decisa verso i gladioli, come facevi a sapere che li adoro? Davvero non dovevi! Occorre risparmiare i soldi di questi tempi.» «Che importa! La gioia di fare un regalo è impagabile. Bisogna farsi i regali tra amiche perché solo le donne sanno cosa piace alle altre donne. Gli uomini non capiscono niente, non trovi?» Marta ride di gusto, è vero, pensa. E intanto dispone i fiori nel vaso di ceramica cinese, al centro del tavolo, tra lei e l'amica. Quel mattino è già pomeriggio, ma potrebbe non esserlo. La luce del sole è immutata. La giornata è ancora lunga. E dire che Marta si è svegliata più presto del solito per la smania di andare a perlustrare il parco. Lo chiamano Bosco in Città, anche se è in periferia. Lo può vedere dalla sua finestra. Però, da quando abita lì, tre mesi ormai, ci è andata oggi per la prima volta. «Sono così contenta di averti incontrata, Lea, e proprio in questa fantastica giornata di sole. Quando ti ho vista seduta sulla panchina, è stato il tuo sorriso così bello, spontaneo, che mi ha portato verso di te. Ecco, ora sei al centro della mia attenzione!» Marta pronuncia queste parole con una smorfia scherzosa sul viso, ma sente che è vero. Guarda la mano bianca e liscia della donna e vorrebbe toccargliela, però si trattiene. Dopo tutto si sono appena conosciute, benché Lea le ispiri confidenza come una cosa naturale. «Conoscerai Antonio ... il mio compagno» aggiunge, e le mostra alcune foto in attesa che sia pronto il tè.

*** Giorno dopo giorno Marta impara a conoscere i pensieri dell'amica, ma anche le sue reticenze a parlare di sé. Lea fa accenni ogni tanto ai suoi trascorsi sentimentali, però sono frammenti, allusioni, in cui non si intuiscono facce, luoghi, riferimenti temporali. Tuttavia non rinuncia a esprimere le sue teorie, sull'insensatezza della vita di coppia, sull'egoismo degli uomini. L'impressione di Marta è che la cosa più importante Lea gliel'abbia già detta, la mattina del loro primo incontro, riferendosi al suo matrimonio fallito trent'anni prima: «Mi adattavo ai suoi modi di concepire l'ordine, l'amicizia, l'educazione di nostro figlio. L'ho capito dopo. Ci teneva che sembrassimo una coppia che andava d'amore e d'accordo, non sopportava l'esitazione. Voleva un mondo di facciata. Ciò che pensavo e come mi sentivo io non gli importava, così dopo sette anni l'ho lasciato. Ancora adesso posso dire che preferisco stare da sola». Marta ci era tornata su: «Eri innamorata di tuo marito?» «L'amore non è una vampata in cui ti perdi, qualcosa di incomprensibile che prescinde da te. E neanche uno sforzo a cui ti devi sottoporre. Esiste se c'è il riconoscimento del valore dell'altro. Un equilibrio precario, insomma» aveva replicato Lea, e Marta era rimasta impressionata da quelle parole. Lea ha opinioni su ogni cosa, l'amore, la società, il lavoro, l'amicizia. Riveste l'indeterminatezza dei desideri di Marta con l'apparato delle sue sicurezze.

*** L'estate è sbocciata di colpo. Accanto al balcone di Marta arriva un lembo della vegetazione esuberante del parco e ora si accorge che le fronde degli alberi le occultano la vista del vicolo. Deve sporgersi per capire se Antonio sta arrivando e se c'è posto nel piccolo parcheggio sotto casa. Appena Antonio sale, glielo dice: «Inviterei Lea… così finalmente la conosci.» «Certo!» La passano a prendere con l'auto, vanno al Ticino per una scampagnata con amici. Antonio è alto, moro, faccia meridionale, fisico atletico e falcata lunga. Mentre camminano verso la riva del fiume, nei sentieri che entrano ed escono dalla boscaglia, Lea procede adagio, e Marta è al suo fianco. Antonio, avanti, non le aspetta. Ma una volta giunti alla spiaggia si capisce che ozia volentieri, è tranquillo e amabile, con la battuta pronta, e anche Lea gli risulta simpatica. Antonio si avvicina a Marta e le mormora all'orecchio: «Vi assomigliate!» Ride. «Con un bel po' di anni di

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differenza, però vi assomigliate!» Entrambe con gli occhi azzurri, entrambe bionde. Può essere, pensa lei. «Da giovane avevo i capelli del tuo colore» le ha detto Lea una volta. Adesso se li tinge di un giallo paglierino, che non le sta affatto male.

*** Dopo la gita, Marta chiede all'amica che impressione le abbia fatto Antonio. Nella pausa di silenzio in cui Lea fa oscillare il capo come a inseguire un pensiero, Marta riprende a parlare, cercando di riempire con apprezzamenti per il compagno la vaghezza che legge nel volto dell'amica. «Ma cosa avete in comune?» interviene Lea a un certo punto. Bella domanda! Marta ci ha pensato diverse volte, eppure in quel momento si sente spiazzata. Afferra la tazzina del caffè che il cameriere ha appena portato e ne beve un lungo sorso, cercando di mettere rapidamente insieme un discorso assennato. Quindi dice: «Sono sempre stata attratta da persone che come me amassero le tavole imbandite, far baldoria con gli amici, andare al cinema, partire all'improvviso. Cose così. Perché è ciò che ho sempre fatto. Con Antonio, invece, niente di tutto questo. Non beve, mangia quel che gli capita, non gli piacciono i film, non guarda neanche la tv. Ed è piuttosto solitario. Condividiamo invece, altri interessi. Camminare, andare in bicicletta, la vacanza spartana. In comune abbiamo il piacere dell'essenzialità, ci attira e ci diverte cercare cose semplici.» Lea commenta: «Vuoi vedere i lati positivi! Ma obiettivamente tu non sei una persona sobria, essenziale! Basta notare la tua casa, i tuoi gusti. Tu sei mobile, mentre lui... non è che in fondo lo assecondi? Siamo alle solite, tu rinunci e lui no, per paura di perderlo.» Il tono è lento, strascicato, come si fa con i bambini, e Marta vi coglie una nota di durezza che l'infastidisce. A quel punto distoglie lo sguardo, alzando le sopracciglia. Non è vero!, sbotta dentro di sé. E poi chi l'ha detto che per stare insieme non si può essere diversi? Vorrebbe dirglielo, ma tace. Ciò che più la indispone è la presunzione nel giudizio di Lea.

*** Marta si sente addosso quella conversazione, come fosse un camice, per il resto della settimana. Lea, pare non vi abbia dato alcuna importanza, ma lei sì. Lei è frastornata. Comincia ad avvertire un senso d'inadeguatezza in tutto ciò che fa. Ha trentacinque anni, e ancora non crede di sapere cosa vuole e come fare a raggiungerlo. Nel suo cielo, quello che scorge dalla finestra, le nuvole non prendono mai una forma definita, anche quando si preparano al temporale. Prima avevano i profili spezzati dalle linee degli alberi. Adesso che le osserva tutti i giorni, cerca di guardare in lontananza, e lì, ancora più incerte, vulnerabili, le appaiono come la rappresentazione fisica della sua stessa inconsistenza, delle sue vaghe aspirazioni, dei suoi sogni, in bilico tra il restare e il volare via.

*** Si devono vedere nel fine settimana. Un impegno già preso da tempo: Lea si era offerta di accompagnare Marta a scegliere dei mobili. E così sia!, decide Marta, ma al pensiero avverte un fondo d'ansia. Non ha quasi mai niente da fare, Lea. Riflette tra sé: È sola, fondamentalmente, e vuol far credere di essere contenta. Le viene anche in mente che dei suoi rapporti col figlio non parla mai. Vanno, scelgono, comprano, poi nel risalire in macchina Lea sfodera il più amabile dei suoi sorrisi. Marta non sa come classificarlo. Ha solo voglia di tornare subito a casa. Si rende conto che non riesce più a reggere lo sguardo di Lea senza sentire dentro di sé una straniante delusione. È come se tutto sia già stato detto e fatto. A Lea associa pensieri negativi, ingombranti. «Dove andiamo?» Ecco. La richiesta di Lea, pur normale, le suona come una minaccia, aggiungendo al suo disagio un vago senso di colpa. In fondo Lea l'ha aiutata negli acquisti. «Io vado a casa. Sono un po' stanca. E tu? Ti riaccompagno?» dice Marta, abbozzando un sorriso quasi di scuse. Un attimo di esitazione, poi Lea insiste: «Dai, ceniamo insieme. Semmai preparo qualcosa da me.» «No, davvero. Dopo forse viene Antonio.» «Mi avevi detto che non c'era.» «Sì, ma forse torna.» «Ah, e tu lo aspetti? Potresti fare aspettare lui, ogni tanto.» Ha toccato il punto dolente. Marta si accorge che lì, intenzionalmente o meno, ce l'ha portata lei. Le verrebbe da dire: Non è che tu mi vuoi tutta per te? Invece le scappa una risata aspra, beffarda dove si prosciuga ogni complicità, ogni riguardo. «Ma pensa! Cosa ti viene in mente? Che significa?» Lea è sbigottita. «Scusa, è che non ti sopporto. Non sopporto più le tue sentenze che vogliono essere consigli» butta lì Marta,

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ma le trema la voce, sopraffatta dalla scossa della sua stessa risata. «Perché io dico la verità, e tu hai paura della verità. Non ci sono sotterfugi, trucchi. Tu invece continui a difenderti. Non hai introspezione, nascondi la testa sotto il cuscino come i bambini. Bisogna avere degli ideali…» Lea riversa parole che a Marta arrivano a intermittenza, forse perché non vuole ascoltare o per quell'intercalare stridulo, concitato, che fatica a seguire. Di colpo nell'abitacolo cala il silenzio. Entrambe sono visibilmente scosse. Marta al tempo stesso è sollevata. «La verità non esiste!» aggiunge solo, mentre accosta la macchina sotto casa di Lea. «Esiste eccome, cara mia!» Si lasciano con un cenno della mano, come se non fosse un addio. Una volta a casa Marta apre le finestre e annusa il profumo dei tigli, che gettano le loro ombre lunghe sul verde del prato. Si sporge per veder meglio quello che le sta attorno, e d'un tratto le sembra di intercettare un leggero movimento di ali, che tornano indietro, verso di lei.

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Martina Cimmarrusto Rotoli termici senz'anima

«Non siamo in ritardo vero?» Dall'auto esce freneticamente una ragazza sulla trentina, indossa stivali troppo pesanti per la stagione e i capelli le ricadono in maniera scomposta davanti agli occhi. Il suo compagno, allampanato e con l'aria di chi preferirebbe trovarsi altrove, si lascia alle spalle l'Opel Astra color argento, azionando il comando che blocca le portiere, senza voltarsi. Lei cammina davanti, hanno parcheggiato abbastanza lontano e sono appena in orario, ma a lui non importa. L'animata discussione che hanno avuto lo ha lasciato quasi senza voce, e i suoi gesti recano ancora la rabbiosa veemenza con cui poco prima ha sbattuto la portiera. L'auto è un regalo dei suoi genitori, come tutto, del resto. Ricorda ancora il tintinnio delle chiavi mentre passano dalla mano del padre alla sua, e il nastro rosso che brilla nel sole avvolgendo l'auto dei suoi sogni come un gigantesco pacchetto regalo. Il sorriso compiaciuto della madre di fronte alla sua reazione gli aveva fatto presagire che a quel regalo ne sarebbero seguiti altri. Aveva conosciuto Aglaia al cenone di Capodanno, una di quelle feste caotiche in cui tutti hanno un invitato in più a cui salvare la serata e ci si ritrova ad aggiungere posti a tavola. Era luminosa, interessante, il tipo di persona che va conquistata, forse per questo gli era piaciuta subito, non sarebbe bastato desiderarla per trovarla davanti alla porta con un fiocco rosso in fronte. Anche allora gli aveva chiesto «Siamo in orario?», un attimo prima di premere il pulsante del campanello, per il fatidico incontro con i genitori del fidanzato. L'attenzione per la puntualità era uno degli aspetti che l'avevano fatto innamorare di Aglaia, quell'attenzione scrupolosa nei confronti del tempo che scorre e delle persone che aspettano, come se le lancette dell'orologio fossero il suo modo per accordarsi con il mondo. Era ormai da un anno che si frequentavano e lei aveva deciso di trasferirsi dalla provincia di Treviso a Venegono, cercando lavoro nelle vicinanze pur di stargli vicino. Avevano preso in affitto un piccolo bilocale nei pressi della stazione, lei amava il rumore dei treni, il loro ondeggiare sulle rotaie le ricordava l'infanzia. Una pila di riviste di arredamento e di annunci immobiliari sostava costantemente sul pouf in salotto. Era lei a portarle a casa e le studiava con fare assorto al mattino, davanti a una tazza di caffelatte. Sua madre li aveva accolti con l'abito delle grandi occasioni, i capelli raccolti e un vistoso filo di perle al collo. L'incontro si era svolto tranquillamente, nessun silenzio imbarazzato, nessuna frase lasciata a metà. Eppure avrebbe dovuto capirlo allora. Dal modo in cui la madre l'aveva lasciata parlare senza mai interrompere, dai movimenti impercettibili delle sopracciglia del padre. Tanti piccoli segnali confusi che in quel momento la mente aveva catalogato come binari morti di ragionamenti senza destinazione. Non era passato che qualche mese e, finalmente, Aglaia aveva trovato lavoro in uno studio di amministrazione condominiale vicino al centro del paese, ottenendo quasi subito un contratto a tempo indeterminato. Gli torna in mente il giorno del compleanno, all'inizio dell'anno successivo. Il ricordo lo colpisce con una sferzata di voci sovrapposte e confuse, non riesce a individuare la causa del senso di incomprensione provato. Sua madre si avvicina con un minuscolo pacchetto di cartone blu scuro che emette un lieve rumore metallico. Sono chiavi, altre, diverse questa volta. Ce n'è una grossa e piatta che fa un trio con altre due più piccole, tradizionali. Il viso di Aglaia non tradisce alcuna sensazione, è cereo e teso, quello di chi spera sempre che riguardando un film più volte il finale cambierà, sapendo però in partenza che si arriverà all'inevitabile sviluppo già visto. Lei aveva capito subito. Era stato sufficiente intravedere l'anello del portachiavi per metterla in allarme. Come aveva potuto lui, invece, chiedere con voce stupita a cosa servissero quelle chiavi? Come aveva potuto alimentare il compiacimento della madre dandole l'occasione di spiegare: «Abbiamo pensato di farvi un regalo, tutto qui. Siete giovani, crediamo che questo sia un buon modo per aiutarvi. Oggi non è facile, sapete, i tempi sono quelli che sono ed è difficoltoso avere una solida base di partenza, così... Hai presente la villetta a schiera in fondo alla via? Proprio qui a trecento metri, davanti al parco giochi?» Mentre parlava, la madre piegava e ripiegava il tovagliolo di stoffa come un origami, rimarcando la perfetta, coerente simmetria del discorso. Aglaia era rimasta senza parole, aveva accennato un timido ringraziamento mentre lui si precipitava ad abbracciare i genitori, che con gli occhi lucidi si erano limitati a scuotere le mani e arricciare le labbra, come per dire che chiunque, con un minimo di sale in zucca, lo avrebbe fatto. Era seguita la prevedibile visita alla nuova casa. «Amore, non è fantastico?» aveva chiesto ad Aglaia mentre i suoi si erano allontanati per prendere i soprabiti. Lei lo aveva guardato con uno sguardo vacuo e sfuggente, lui non aveva compreso che era troppo impegnata a imbrigliare i suoi pensieri per dargli una risposta logica. Faceva scorrere avanti e indietro la lampo della borsa, come se in quel gesto si concentrasse la gravità del

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mondo. Si era limitata a emettere un flebile «Sì... ma...», un attimo prima che la madre si rivolgesse a loro con voce squillante: «Venite, sarete sicuramente entusiasti, abbiamo girato come trottole per trovare una casa adatta, senza accorgerci di averla proprio qui vicino! Poi, un giorno, tornando dal supermercato, incontro la signora Veronesi – ti ricordi caro? quella con lo Yorkshire zoppo – che mi dice che hanno appena appeso un cartello VENDESI proprio qui in fondo...» Mentre la madre parlava e parlava raccontando dell'impresa eroica per bloccare l'agenzia prima che vendesse a una coppia che intendeva fare della villetta una palestra per Yoga e Pilates, lui si era voltato verso Aglaia che era rimasta indietro e camminava con le mani affondate nelle tasche. Quasi poteva sentire cedere le cuciture. Avrebbe voluto stringerla e chiederle cosa non andasse, ma in un battibaleno erano arrivati all'ingresso della villetta passando attraverso un piccolo cancello pitturato di verde e ornato da un rampicante che aveva conosciuto tempi migliori. Con fare solenne, la madre aveva girato la chiave nella toppa («La serratura andrebbe oleata, sarà il caso di far venire il fabbro domattina»), spalancando la porta e lasciandoli entrare nell'ingresso buio. L'odore di vernice fresca era molto intenso e, quando la luce aveva inondato lo spazio («E voilà!» aveva esclamato la madre premendo l'interruttore di cui lei sola conosceva l'ubicazione), si erano trovati davanti a un salotto con le pareti color malva, dal cui soffitto pendevano due ridondanti lampadari a motivo floreale. Si era sentito come aggredito da quella casa che immaginava vuota e invece tradiva la sua immaginazione con una sfilza di mobili in legno antico: madie, credenze, consolle, librerie e un enorme tavolo con le gambe intagliate. Il passo deciso e quasi marziale di Aglaia lo riporta per un attimo a quel pomeriggio di gennaio quando erano risaliti in macchina, terminata la visita delle stanze con la promessa di una cena tutti insieme la domenica per celebrare l'evento. Nell'abitacolo il silenzio sembrava solido e nessuno dei due lo aveva rotto. La conversazione era stata sviata su altri argomenti, ma il mattino successivo aveva notato che le riviste erano sparite e il pouf era vuoto, mentre il pennarello rosso che Aglaia utilizzava per cerchiare le inserzioni e teneva sempre a portata di mano giaceva inutile e confuso tra altre penne nello svuotatasche. Dopo la cena in famiglia, durante la quale erano stati esposti davanti a parenti e amici i meriti della recente transazione, avevano fatto ritorno nel loro appartamento. Aglaia era rimasta in silenzio per la maggior parte del tempo, dosando le poche parole in frasi di circostanza piuttosto aride. Si era diretta verso il bagno, buttando il cappotto sulla spalliera del divano. Passandoci accanto, aveva notato i punti sfilacciati in cui le tasche avrebbero dovuto congiungersi al tessuto. A febbraio, Aglaia si era trovata china sulla scrivania dell'ufficio stritolando tra le nocche livide un opuscolo Tecnocasa arrivato nella casella insieme ad altri volantini. Guardava fuori facendo fremere la carta tra le dita, le increspature dei fogli tra le sue mani si allungavano minacciose sui piccoli riquadri che ritraevano villette e planimetrie. Parole come "camino", "taverna", "signorile", le evocazioni di serate invernali davanti al camino, erano state mutilate dall'abbraccio rabbioso, infine lanciate con un gesto deciso nel cestino. Mesi dopo, un tardo pomeriggio di settembre, un viale alberato con l'asfalto inumidito dalla giornata piovosa. Lei cammina avanti, preoccupata di non essere puntuale, gli occhi lucidi le bruciano, spera che nessuno li noti. Il corso prematrimoniale comincerà tra pochi minuti, il prete e le altre coppie saranno già nella saletta messa a disposizione dall'oratorio. Un attestato li attende alla fine degli incontri, per certificare la loro idoneità a condividere la vita, i dolori, le gioie, e il color malva delle pareti scelto dalla madre su consiglio di un estroso arredatore. Entrano e prendono posto nello spazio scarsamente illuminato. Le coppie sono disposte attorno al tavolo ovale, scrutano le reciproche espressioni, cercando complicità nella punta di nervosismo che trapela dai minimi gesti convulsi di chi si scosta una ciocca di capelli dal viso o controlla l'ora su un polso senza orologio. Il prete aspetta paziente che tutti siano pronti e dà loro il benvenuto recitando una benedizione. Poi comincia il discorso: «Sono certo che conosciate la funzione di questi oggetti» dice, posando sul tavolo due rotoli termici di carta chimica, quelli utilizzati nei registratori di cassa, su cui ogni giorno vengono stampati centinaia di scontrini fiscali. «Apparentemente sono due rotoli uguali, ma se osservate bene noterete che uno dei due ha un'anima più spessa, di cartone rigido, che rimane sempre al centro delle spire di carta e viene nascosta fino alla fine, fino a quando l'ultimo brandello di carta viene tagliato e il rotolo finisce. L'altro, invece, contiene la stessa quantità di carta stampabile ma, se provate a svolgerlo, alla fine in mano stringerete solo aria. La vostra decisione e le motivazioni che la muovono devono avere la stessa consistenza dell'anima rigida del primo rotolino, essere il centro, il cuore pulsante. Un rotolo senz'anima circonda solo un istante vuoto, e non lascerà nulla dietro di sé una volta esaurito.» Aglaia ascolta attentamente, solleva un angolo della bocca in una smorfia indecisa. Lui la guarda, perdendo il filo della predica. All'improvviso gli appare evidente la stanchezza di lei, ha cominciato a mangiarsi le pellicine delle mani e un'ombra scura accompagna sempre più spesso il suo sguardo. Dopo un'ora escono,

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in silenzio percorrono il breve tragitto in auto, nell'aria è sospeso come una nuvola carica di pioggia il discorso che nessuno dei due riesce a cominciare. Una volta varcato il cancello verde passano sotto l'arco metallico da cui il rampicante è stato completamente rimosso con un paio di enormi cesoie che giacciono appoggiate al muretto. Un biglietto svolazza attaccato con una striscia di nastro adesivo alla porta d'ingresso: "In primavera farò in modo di procurarvi un glicine. Sarà un incanto, vedrete!"

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Mariella Colosi Siamo stati qui

La musica è una chiave che apre la stanza dei ricordi. Trasportato al passato dalle note e dalle parole di un brano, quella sera aveva preso in grembo la scatola di latta dai colori sbiaditi che custodiva le vecchie fotografie. Passando i cartoncini ingialliti da una mano all'altra, osservava come le immagini sulla carta apparissero diverse da quelle di cristallo della tecnologia moderna. Soprattutto quelle in bianco e nero sembravano intrise del colore dei ricordi. Poteva quasi sfiorare i momenti ritratti, e sentire di nuovo il fluire degli incontri imprigionati nelle immagini. La musica fece la sua parte, ma ancora di più la luce tenue del far della sera fu complice di quella malinconia che scende in fondo al cuore a una certa età quando, riordinando i pensieri, si vede la lunga strada alle spalle e la breve, invece, rimasta davanti. Seduto, guardava i volti degli amici e dei parenti nel fiore della giovinezza: espressioni sicure, spontanee, di chi sa ancora poco della vita. Trovò una foto della sua compagna giovane. Si commosse fino alle lacrime per l'assenza della sua gioia lì accanto, ma in fondo lei l'aveva solo preceduto e l'avrebbe ritrovata per sempre. Ciò che conta nella vita è percorrere un tratto insieme, prendere qualcosa gli uni dagli altri, scoprire i significati delle cose attraverso le esperienze comuni. Ripensò al giorno del loro primo incontro. Subito avevano capito di avere cose importanti in comune: la leggerezza dell'inizio da condividere con avidità e amicizia; la pesantezza della vita da sminuzzare facendosi scudo a vicenda, nell'amore. Erano diventati amici, poi qualcosa di più, quel qualcosa che ci divide dalla felicità completa. Di nascosto rubavano istanti al tempo, gocce che a poco a poco divennero una distesa mossa, da veleggiare, anziché rimanere ancorati in un porto a rimuginare su come sarebbe stato. La loro unione era intensa e le tante foto nella scatola lo testimoniavano. Erano tutte vicine, radunate insieme da un nastrino celeste, il celeste di una bella mattina di marzo con il cielo terso. Tornò quel momento. Si erano preparati per il piccolo viaggio che avevano deciso tanto tempo prima, ma fino ad allora non avevano potuto realizzare. Era sempre mancata la congiuntura favorevole, ora finalmente Dio aveva voluto che quello fosse il giorno giusto. Il loro sogno si riaccese quando l'uno negli occhi dell'altra lesse l'energia del desiderio tenuto a freno per tanto tempo, improvvisamente liberato dalla possibilità di stare insieme, lontani da tutto, lontani dalla realtà che stritolava fino a farli star male. S'immersero nella libertà ritrovata e la vita si aprì in tutta la sua bellezza. Giovani, spensierati, pieni di vitalità. Per le loro fughe d'amore avevano cercato una casa al mare. Pensavano che avrebbe potuto essere un luogo d'ispirazione, rispetto alla grigia città dove vivevano. Finalmente avevano trovato il loro nido d'amore, che li accoglieva ogni volta che riuscivano a ritagliarsi un'occasione. Era un piccolo appartamento di due stanze, ma c'era la grande terrazza sulla baia, a sud, affacciandosi da lì sembrava loro di librarsi lievi, e volare. Ogni volta che partivano per quella destinazione, luce, gioia e colore si mescolavano in un sapore nuovo, il gusto proibito di chi sa attendere. Tutto si fermava dietro i loro passi e al ritorno in città i ricordi del tempo spensierato trascorso insieme generava la forza per attingere alla speranza e andare avanti. Giunti in prossimità della meta, mentre si profilava il viale bordato dai minuti aranci, palpebre e spalle si sfioravano, in acerbi sospiri di benessere. Lasciata l'automobile al parcheggio, prima di salire in casa e accostare le tende per raccogliersi di più, erano soliti andare a vedere il mare dalla passeggiata a strapiombo sugli scogli. Davanti allo spettacolo delle onde che s'infrangevano sulle rocce consumate dal tempo, era subito fuoco, fra baci d'intesa. Fuoco e tenerezza, per scaldare cuori assetati di pace. S'erano così incise nel suo cuore emozioni indimenticabili, quei momenti in cui, ignari del loro destino, si giuravano amore eterno. Le fotografie lo rimandarono a quella volta in cui la cornice casuale della primavera in arrivo aveva creato un'atmosfera particolare. Il sole sorrideva sopra il mare, che sembrava molto agitato al di là del molo, mentre il maestrale ne invecchiava l'aspetto, arruffandolo in mille creste bianche. Nella luce riflessa si specchiava un cielo puro, da est a ovest. La terra abbracciava l'acqua e qui e là, sulle

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pietre incastrate nei muretti a secco, i germogli di capperi presto sarebbero fioriti, e in sottofondo il trillo del campanellino puntuale annunciava l'arrivo di un treno. La voce meccanica trasportata dall'aria veloce nei dintorni della stazioncina, di fronte al mare, informava che il convoglio si sarebbe fermato lì fra pochi istanti. E la voce pregava i distratti assorbiti dal panorama di rimanere lontani dai binari fino al fischio prolungato che riscuoteva i sensi. Ecco, in lontananza si scorgeva dalla galleria di levante la locomotiva che avvicinandosi rallentava, si arrestava per qualche minuto e poi ripartiva sferragliando. Il rumore sfumava in quello sottostante delle onde che battevano e ribattevano contro la scogliera, attirando di nuovo gli sguardi. L'olfatto si faceva catturare dal profumo della salsedine misto a quello acre della vegetazione mediterranea. Durante le loro lunghe passeggiate giungevano fino ai cancelli del roseto a picco sull'acqua. Qui la bellezza sembrava svelare qualcosa di divino ai due cercatori d'ispirazione e tutto era possibile dentro gli occhi, nel cuore e nelle viscere dei giovani innamorati. L'invisibile, che nessuno può scorgere se non in sogno, si mostrava all'orizzonte. La scogliera, più della casa, li faceva sentire parte di quella meraviglia e allora corsero verso l'acqua, mano nella mano. Lei scese per prima, un piede dopo l'altro, giù per i gradoni di roccia. Voltandosi lo invitò a seguirla e immergersi insieme nella natura. Lui venne veloce senza arrestarsi e in breve le fu davanti. Cercarono un punto dove sedersi per scrutare l'orizzonte e rimanere lì, accoccolati nella pace. Videro che in un anfratto c'erano degli abiti abbandonati, vestiti da uomo ripiegati con cura e le scarpe allineate ordinatamente. Forse qualcuno per la bella giornata aveva avuto il coraggio di tuffarsi anticipando la stagione, ma non c'era nessuno in mare nelle vicinanze. Scrutando più lontano si accorsero di qualcosa che si agitava al largo, fra le onde. Un uomo in mare, gridò la ragazza. Sembrava in difficoltà. Sotto di loro impietriti si consumò lento e irreversibile il dibattersi di una vita così vicina da coinvolgerli. Tutti i loro sensi allertati, mossi gli animi e affollati i pensieri. Ancora il vento portò da lontano un rumore. Era un motore. L'elicottero della polizia stava sorvolando la zona. La rotazione delle pale sollevava vortici mentre il mare era agitato sotto il cielo che cominciava a imbrunire. Giunse la guardia costiera e cercò di accostarsi al corpo in balia dei flutti. Il natante gli girò intorno più volte. Furono lanciati dei salvagente legati con le funi allo scafo. Furono sporti degli arpioni cui aggrapparsi, ma tutto fu inutile finché quell'essere stremato, inabissandosi, scomparve dalla loro vista. Riemerse poco dopo, riverso sull'acqua, galleggiava senza più volontà. Si creò un piccolo assembramento perché la gente a passeggio si era arrestata e si accalcava incuriosita alle balaustre. Ciascuno viveva a modo suo il momento, conferendo a esso il proprio significato. Alcuni gettavano uno sguardo al drammatico spettacolo e poi, disturbati dall'invadenza della morte divenuta così presente, si allontanavano. Come se potessero escluderla dalla loro esistenza. Il giorno si stava spegnendo. E tutti, all'improvviso, fissarono immobili il prodigio del sole che anche quel giorno si compiva, senza curarsi di quanto stava accadendo. La dimensione scura assorbiva la lunghezza delle ombre, mentre la luce scivolava nella notte e la vita nella morte. Nell'attimo in cui uno amava intensamente ed era amato, la morte intersecava all'improvviso la vita. La morte entrava indisturbata a farle compagnia, a ricordarci che il nostro tempo è contato. E siamo stati qui dove non avrebbe valore la vita senza la consapevolezza di doverla un giorno perdere.

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Christian Condemi A Belfast-ory

Per Hollie, capelli color luppolo in un atollo di lentiggini, l'attesa era terminata. La stava aspettando come un diabetico l'insulina o un amante in una sala d'aspetto ferroviaria di provincia, il sabato pomeriggio. Finalmente la lettera era giunta dritta sulla sua scrivania, e il profumo fresco di stampa si intarsiava al legno di ciliegio; Hollie, come ogni giovane con le pupille educate al bello, prese il tagliacarte, l'aprì e ne esaminò il contenuto con chirurgico piacere. Era un biennio che sperava in un momento così. Si sarebbe trovata a coprire una docenza per un ente caritativo dall'altra parte della regione, sì e no tre orette di corriera e poco meno di settantadue ore di rito per fare i fagotti e tutto era pronto. La sua mente era un ottovolante di flash persino quando si lavava i denti. Non poteva fare a meno di pensare quante mani avrebbe stretto, quante facce avrebbe visto, l'esperienza l'avrebbe sbucciata, si sa, tornare indietro è semplice e sempre possibile, ma ripartire alle volte no, quindi per lei questa era una sorta di chiamata alle armi finale. I suoi progetti sembravano ancora verosimili. Chiuse la lampo della giacca a vento, abbracciò la madre che la seguì con lo sguardo fino al cancelletto di ferro battuto che recintava il perimetro della sua infanzia e dei suoi ricordi. Anche se in casa la notizia era stata accolta tiepidamente, sua madre progettava già cosa fare nei periodi in cui lei sarebbe tornata per riposare – e non era ancora partita – perché era sempre rimasta ancorata come un conchiglia alla spiaggia di cui faceva parte. L'ultima volta che era stata a Belfast, dieci anni prima, non aveva trovato simili unioni mistiche nell'abbraccio che a stento era riuscita a strappare. Era uno di quei beoni di osteria che nutrono affetto incondizionato solo per il rugby. Entrato di corsa nella sua vita per poi uscirne dall'uscita d'emergenza, ben lontano dall'infatuazione che aveva nutrito per Timothy. Timothy era poco più di un soldo di cacio, un orfano adottato da un lattaio burbero, il quale preferiva studiasse all'università della vita, nei polverosi, arcigni marciapiedi di East Belfast. L'unico pregio in questa esistenza sommaria fu incrociare lo sguardo perso di Hollie, smarrita per le sirene del coprifuoco delle 19, all'ora in cui il Gate, uno dei varchi che congiunge il Peace Wall, chiude. E lei, per tornare a casa, non avrebbe mai saputo che giro fare. Ricordava le parole della nonna, poco prima della sua partenza, lei era ancora quasi un'adolescente. «Brutta gente quelli del Nord, per giunta protestanti.» «Nonna, Timothy è di Belfast.» «Be', brutta gente lo stesso» fu la sentenza. Timothy era stato il suo primo ragazzo, una di quelle storie iniziate presto e finite altrettanto in fretta, ma andava bene così, la sua anima se n'era già nutrita a sufficienza. Hollie era semplice come la brughiera e il microcosmo delle sue radici. Unica nota di colore in un'esistenza vera come milioni di altre storie, era la laurea in pedagogia presa alla Queen's di Belfast, vissuta come un'inusuale aspettativa e rivelatasi in seguito un regalo, un tributo da riscuotere sotto forma di lettera molto dopo. Nel frattempo aveva vissuto mestamente sei anni fra la casa e la bottega di McPerkins, facendo l'aiuto caramellaia e dando lezioni di solfeggio nei weekend. Ci voleva una svolta e quella lettera era il segno, l'ennesimo round del match iniziato anni prima a Belfast. E che aspettava di vederla solennemente vincitrice. Quello strano omuncolo, che sembrava sfornato da un film di Truffaut e l’aspettava nell'atrio, le si rivolse con fare gioviale. «L'appartamento è stato appena rimesso a nuovo, Miss Hollie, con qualche mano di bianco. Ma se vuole le mando mio figlio uno di questi giorni; sa, con le parate orangiste di luglio non abbiamo un attimo libero; cosa vuole, due cose sappiamo fare bene a Belfast, bere e marciare...» Continuò il discorso scendendo le scale con una mano alzata in un accenno di saluto, dandole le spalle. Hollie fece un buffo sorriso senza guardare i giornali lasciati sulla credenza che parlavano di un altro allarme bomba, o le scritte nel vicoletto adiacente che inneggiavano alla resistenza repubblicana. Le era piaciuta subito quella sistemazione, aveva ottenuto l’indirizzo da un amico di Timothy che era passato a trovarla in bottega uno degli ultimi giorni in paese, e non le importava da quanto tempo fosse sfitta. Non ascoltava le ciance del proprietario. Le andava bene così, quella stradina era vibrante e tranquilla quanto bastava per i suoi gusti. La pioggerella che l'aveva accolta alla stazione di Aldergrove, nel buio umido di Belfast, era stata sufficiente

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per invogliarla a buttarsi in quella tana, un connubio di comfort e spifferi. Hollie non era mai stata affascinata dal paesaggio, l'aveva sempre considerato un mero sfondo ornamentale, eppure anche il suo neon in quella camera spoglia sembrava far da satellite all'unico grande spettacolo, la luna. La prima sera fu splendida, verso le 20 c'era già quella soffice oscurità che pareva dipinta, e lei poté gustare il calduccio del piumone acquistato per quattro sterline a Sprucefield perché il negozio di quartiere era stato costretto a chiudere dopo una bomba. La piena beatitudine la spinse a ridere, pervasa dall'attesa origliò le conversazioni dei vicini senza sentirsi in colpa. Nell'articolo sul "Telegraph", nella classifica delle città con i muri più sottili nel dopoguerra, Belfast conquistava il bronzo dopo Bucarest e Napoli. Ma questa è un'altra storia. In pochi giorni avrebbe dato una sistemata a tutto.

*** Dopo due anni dal suo arrivo tutto sembrava fluire, il tempo di spedire una lettera a casa, correggere i compiti dei selvaggi di West Belfast e il giorno era finito. Un pomeriggio decise di lasciare tutto a metà e lievemente incompiuto, una sorta di "torno subito", per tuffarsi in qualcosa di nuovo, almeno per poco, almeno per errore. S'incamminò verso il cuore artistico della città, a nord, una zona aspra ricca di sorprese, incurante del freddo e della pioggia. Alcune strade, chiuse per gli scontri della sera precedente, l'obbligarono a una deviazione e ad allungare il tragitto di mezz'ora. Ma aveva molta energia e raggiunse Cave Hill, il belvedere panoramico della città, nonostante le ballerine inzuppate. Ormai abituata al fatto che il Creatore decideva di aprire i rubinetti trentacinque ore alla settimana, e l'innaffiata riguardava tutti, indistintamente, Verdi o Arancioni. Come non sentirsi ottimista a trentacinque anni, nella tavola calda fra i tavoli di plastica e i ragazzi vestiti all'ultima moda, tutti i colori giocavano a rimpiattino nelle pupille di Hollie, e l'odore di bacon e fish-and-chips si amalgamava al profumo dei baci. Lei stava aspettando un ragazzo squattrinato e già stempiato che faceva il giardiniere occasionale, per giunta non automunito, anche se chiunque in quegli anni a Belfast possedesse una sgangherata Ford l'esibiva fiero come una coccarda dello sviluppo industriale della città. Quel giovane faceva anche i conti con quella cosa rumorosa chiamata asma, in compenso si guadagnava da vivere con articoletti su una rivista presbiteriana di quartiere, perché non era difficile ottenere una collaborazione in una città le cui chiese si fanno concorrenza con offerte promozionali da discount. Lui non si azzardava a farle la corte e lei ne aveva preso atto, forse era come una delle ortensie da non curare troppo perché ci avrebbe provveduto la pioggia di Belfast anche nei giorni festivi. Belfast le sembrò rimasta intatta in alcuni tratti, quasi vi fosse passata con Timothy il giorno prima. Trascorsero un allegro pomeriggio, come non ne passava da un pezzo. In lontananza i Gigantic, le gru gialle del porto, si distinguevano nello skyline. Emblema di un Novecento fiorente, che aveva lasciato il posto all'erba alta; anche i magazzini in fila sui moli, che un tempo accoglievano migliaia di lavoratori, erano desolatamente vuoti. Il fascino provinciale si era mantenuto intatto. Dieci volte meglio del mondo sfolgorante e confuso di cui erano solite parlare le sue amiche emigrate negli States. A lei questo non importava, Chicago, Londra, Dublino, sarebbe stata una dei tanti, mentre a Belfast era una di loro. Doveva ammettere che da queste parti il terrorismo politico si era stagliato con colori diversi. Un sanguinario acquerello su una tavolozza ingrigita dal torpore, sino a sgretolarla, dato che non esistevano due eserciti che si fronteggiavano, ma uno sparuto gruppo di persone che lasciava qua e là bombe, per quale perverso ideale d'indipendenza non sapeva. Passeggiarono ancora, forse al ragazzo-giardiniere-reporter piaceva proprio questo tetro abbandono, un groviglio di mistero. E Hollie si senti un po' smarrita ripensando che, nonostante tutte le nozioni impartite ai suoi allievi, non conosceva veramente nessuno che fosse cresciuto e avesse lavorato in questi posti e magari marciato durante i tafferugli. Si lasciarono con il buio. Hollie si ritirò nell'appartamento. Stava mescolando la cioccolata per evitare che si addensassero i grumi. Fuori della finestra la vita era le solite grida di bambini e genitori divenuti tali troppo presto, shop, murales, auto usate, uccelli striduli, comignoli fumanti, e il rumore delle pale degli elicotteri. Mentre sorseggiava lentamente la bevanda calda, con gli occhi cercava di decifrare il tatuaggio di una neo-mamma ferma all'angolo della strada. Ma una telefonata la interruppe, era il fratello che annunciava la morte di loro padre.

*** Il tempo aveva fatto il suo corso. Ora accanto al fratello e alla madre, Hollie era cosciente che l'unico vero uomo della sua vita era venuto a mancare e non riusciva a credere che il loro abbraccio, durante una visita a

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casa pochi mesi prima, fosse stato l’ultimo. Che uomo forte era stato il padre, una vita spesa ad allevare puledri di ogni razza, non si era mai spostato da lì, per lui Belfast era già oltre le colonne d'Ercole. Era sopravvissuto ai Troubles che avevano insanguinato l'Irlanda del Nord. Rivide la mattina in cui si era precipitato a scuola a riprenderla e c'erano state alcune sassaiole proprio nel cortile. I lealisti avevano alzato il tiro. Lei spaventata era corsa fra le sue braccia. Lui l'aveva portata al maneggio, l'aveva fatta sedere sulle ginocchia e aveva cercato di rispondere alla domande di una bambina alta poco più di cinquanta centimetri. Le aveva spiegato la ferrea logica del loro mondo: «Se Adam dà un calcio a Gerry, Gerry non restituisce il calcio ad Adam, ma dà uno schiaffo a Connor». Lei aveva riso, ma a distanza di anni aveva capito tutto, meglio di una lezione di storia. Questo era il conflitto. E dalla bocca di suo padre, l'enciclopedia della vita le era stata rivelata.

*** Neanche il tempo di girare la chiave nella toppa dei pensieri, e si sentì travolgere dal battito dei ricordi. In passato non avrebbe trovato un minuto per se stessa, seduta a conversare di banalità con fantomatiche amiche del venerdì. Adesso si prendeva il tempo che le serviva. Faceva colazione seduta, si dedicava allo Yoga che a differenza della palestra rilassa sul serio, camminava lenta per Falls Park, sceglieva un bagno caldo al posto della solita doccia. Aveva smesso di dar retta ai surrogati di informazioni propinati dal notiziario del mattino. Servivano solo a spalmare percentuali, dallo sconto sulla lavatrice alla quantità di disoccupati, all'indice di svalutazione della sterlina. Fine. Reset. Viveva slow.

*** L’ultima campana era suonata da un pezzo, una pioggerellina le si appiccicò al viso accaldato. Quando era salita per la prima volta sul piccolo autobus per Belfast, con le reti di protezione ai vetri, non aveva il trolley e trascinava invece molte valigie, d'impeto fu abile a sedersi su quelle valige. Amava respirare la leggera atmosfera di irrealtà. Belfast certe sere assomiglia a un set con schiere di bus rosa e bianchi dai nomi bizzarri e oscuri, Erinvale, Dungannon, Omagh, L’Derry. Guardava alla televisione le immagini del concerto alla Grand Opera House, esordiva un giovane rampante dal cognome italiano, un certo Pavarotti, guardare l'opera la rilassava. Sdraiato accanto a lei, il suo futuro marito, che nel suo grembo aveva già incorporato il frutto delle molecole dell'amore. Sarebbero esplose da lì a pochi mesi, chiamandola «mamma». Era contenta di avere obbedito alla volontà della sorte, in quell'oscura stradina di Belfast dove i randagi erano benvoluti più dei militari inglesi, dove aveva trovato incoscientemente l'amore, conversazioni casuali, sguardi rubati, il modo migliore di spostarsi da una parte all'altra della Terra, mentre rimboccava le coperte ai gemelli, dono di quell'amore. Dormivano beati, avevano divorato la torta fatta con le mele della sua infanzia, sapori viscerali che si tramandano nell'orto della vita. Aveva messo radici profonde nei legami che la circondavano come in un placido abbraccio. Per Hollie andava bene così, sembrava un film più ampio di eventi e scenari, in poche parole la sua vita tradotta in storia come tante. Una Belfast-ory.

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Monica Federico Chi parte chi resta

Per non dimenticare l'orgoglio delle radici

e il piacere sempre rinnovato del viaggio e della scoperta.

(Antonio Calabrò, Cuore di cactus)

Elettra legge il libro e riflette sulla sua esperienza di "esiliata volontaria"; si riconosce nel racconto delle ragioni di chi parte col cuore gonfio di amore e rabbia, di sete d'avventura e paura della stagnazione, di sogni da realizzare e ferite da rimarginare. Speranza e disillusione. Cu nesci, rinesci, recita un proverbio siciliano: chi esce (da se stesso, dal guscio, da una realtà stretta come l'Isola), riesce, si realizza nella vita. Quanta verità in questo preannuncio. Ma il successo può avere un retrogusto amaro. La realizzazione di sé vale il sacrificio, eppure prendere il largo lasciando alle spalle non un luogo qualsiasi, ma la propria terra, è un punto di non ritorno. Partendo si perde per sempre l'orgoglio delle radici, la catena e l'ancora di salvezza. L'emigrato "come storia insegna, prima o poi potrà pure tornare"; forse sì, tornerà, ma cambiato, estraniato dalla memoria di cose e persone. Figlio dell'altrove. La sua diversità farà la sua ricchezza, ma anche la sua eterna solitudine. Come un cucciolo adottato da una specie diversa, non verrà più riconosciuto dai suoi simili. L'emigrato, per quanto ammirato, invidiato come simbolo vincente per i successi che vanterà, rimarrà dolorosamente privo del dono dell'appartenenza. Ripudiato, per l'insolenza del proprio coraggio. Elettra sa che questo è il prezzo, anche se spera di poter tornare. E chiudere il cerchio. Prova il senso di colpa di chi si chiede: non è una pretesa assurda che una terra cambi, se i suoi figli "migliori" l'abbandonano? Una terra senz'acqua si secca, si sgretola, finisce per rigettare qualunque buon seme deposto. Forse anche a causa di quelli che sono andati via, il fiume si è prosciugato. E la terra si è inaridita. Forse tante piccole gocce di pioggia, umili e costanti, sono più efficaci di un temporale.

*** Dalla Svizzera Elettra era rientrata in Sicilia nel 2003 inseguendo un sogno, lasciando un impiego fisso per cambiare vita e mestiere. Per più di un anno ci aveva rimuginato, il testo di Battiato le ronzava nelle orecchie come un tormento : Quando non coincide più l'immagine di te con quello che realmente sei... Quando cominci a detestare i percorsi meccanici e i tuoi comportamenti... Ti viene voglia di spazi sconosciuti per allenare la tua mente a nuovi stati di coscienza. Finalmente si era decisa. Ed era partita, lasciando i colleghi a bocca aperta, per tornare nella sua Sicilia. Aveva trascorso le ultime ferie in una scuola d'arte. Lì, in poche settimane aveva cercato di acquisire la tecnica per riuscire a realizzare oggetti di ceramica. Elettra, tutto pensava, fuorché di poter essere un'artista. Aveva scoperto per caso di sapere disegnare all'età di trentacinque anni, durante un viaggio di lavoro. La pittura la teneva sveglia fino alle prime luci dell'alba. Per mesi aveva studiato esercitandosi con matite, carboncino, pastelli. Quando si era sentita più sicura, era passata ai pennelli. Aveva dipinto i primi oli, i primi quadri da autodidatta. A scuola aveva conosciuto il suo primo, vero maestro, Romano. Emanava un carisma straordinario. Un anziano pittore e ceramista, cantante e poeta. Abitava in un monolocale-studio, nonostante fosse sufficientemente famoso da potersi permettere il lusso. Ma aveva costruito la sua esistenza su ideali di condivisione, umiltà, chiarezza. Bastava che entrasse in una stanza per illuminarla col suo spirito. Col cuore in gola, alla fine del corso si era presentata al maestro chiedendogli a bruciapelo se la ritenesse sufficientemente brava da praticare una professione che di solito richiede anni di apprendistato. La risposta, un «sì» convinto, aveva prodotto un'esplosione di gioia e commozione che si erano fermate negli occhi di Elettra. Non era riuscita a dire una parola di ringraziamento. Quel «sì» era il lasciapassare per una svolta totale, e non lasciava più spazio a calcoli.

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Con la liquidazione Elettra aprì un laboratorio di ceramica, Terra Mia, un nome che era tutto un programma. Un buco di 28 mq. Ma suo. Prendeva spunto da ogni cosa, dagli affreschi delle chiese, da quadri famosi, dalle ceramiche di tutto il mondo; non c'era giorno che non disegnasse qualcosa di nuovo, sfidando la paura di non essere all'altezza. A volte, alla fine di una giornata passata a riprodurre una maiolica seicentesca, restava stupita della propria opera chiedendosi come ci fosse riuscita, e ringraziando il cielo per quello stato di grazia, di silenzio e rapimento. Nel laboratorio ascoltava musica e dipingeva, oppure preparava gli oggetti finiti, li smaltava e li metteva a cuocere nel forno. Si accorgeva che il tempo era volato quando il suo cane, accucciato per ore, reclamava un po' d'attenzione per sgranchirsi le zampe. Aveva una bella vetrina. Un vassoio con la riproduzione di un paesaggio seicentesco, in rosso monocromatico, le portò il primo compratore che neanche obiettò sul prezzo. Una riproduzione della Madonna con Bambino del Murillo venne acquistata dai testimoni di nozze di una giovane coppia. Uno sgargiante vaso da farmacia a forma di gufo, con la testa-tazza staccabile e il becco-manico, attirò gli sguardi sulla sua vetrina per settimane. Seduta al tavolo di lavoro, le piaceva incrociare lo sguardo delle persone e il loro particolare sorriso interiore davanti a una cosa bella. Si sentiva fiera e fortunata. Però... Il laboratorio si trovava in una delle strade pittoresche tra due piazze barocche che avrebbero meritato una migliore valorizzazione. Invece, molte delle antiche botteghe erano state abbandonate, i vicoli erano sporchi e male illuminati, il passaggio frettoloso e triste. Salvo la domenica, quando il cineforum a poche centinaia di metri attirava gente rilassata. Si era scontrata con la realtà più avvilente: banche al servizio dei padroni e invece inflessibili con gli onesti lavoratori; associazioni di categoria asservite ai potentati locali. Non un briciolo di senso civico. E il disprezzo del bene comune. Aveva resistito tre anni. Poi aveva avuto il coraggio (viltà? spirito di sopravvivenza?) di chiudere un'attività che era diventata la sua vita. Allora una processione di clienti e amici affezionati era andata a salutarla prima della partenza per Milano.

*** Ora Elettra vive in una meravigliosa città del Nord Europa, a quasi tremila chilometri dall'Isola. Ha trovato un ottimo lavoro. La qualità della vita è imparagonabile a prima. Quando stava per perdere ogni speranza e gusto alla maternità, la serenità ritrovata aveva reso possibile la nascita di Eugenio, il suo tenero e sensibile bambino. Però... Peccato. Potrei trasmettere quello che sono diventata, si dice. Potrei restituire bellezza a una terra scempiata e tradita da quelli – troppi – che la abitano senza gratitudine e senza rispetto. Elettra cerca il modo di essere utile senza tarparsi le ali, senza perdere la forza acquisita negli anni di esilio volontario. Una sorta di assistenza a distanza. Scrive su un giornale on-line siciliano e partecipa come può agli avvenimenti della sua città. Scrive per chi è rimasto. Gioisce delle cose belle, si arrabbia per tutto quello che non va. Forse non basta, ma è possibile che la lontananza dalla Sicilia renda più lucida la sua analisi e più efficace l’azione. È molto combattuta: se vedo, ricordo; se faccio, capisco. È convinta che per capire bisogna vivere la realtà, immergersi. Ma qual è il momento in cui si afferrano le cose? Durante o dopo? Forse dopo, soltanto in prospettiva. Ricorda le parole di Elisabeth Schwarzkopf, che alla domanda dell'intervistatore sul segreto delle sue straordinarie interpretazioni dei Lieder di Schumann e Schubert, rispose: «Per riuscire a commuovere il pubblico, bisogna riuscire a non commuoversi». Allora il giusto distacco è la migliore chiave di lettura del mio passato. Sarà vero? O tendo a crederlo per non sentirmi colpevole? Nei momenti in cui la solitudine l'attanaglia, Elettra è oppressa dalla sua diversità come dal cielo grigio. Se un giorno andrò via anche da qui, lascerò la mia bella casa e il quartiere residenziale dove vivo fra persone rispettose, lascerò questo verde, le foreste, il maneggio, il cinguettio costante degli uccelli. E nessuno e nulla sentirà la mia mancanza. Tutto resterà immutato. Quando era fuggita dal suo buco di 28 mq metri che profumava di argilla, di fiori secchi e incenso, aveva lasciato un vuoto: di giorno una donna e il cane trascorrevano ore in silenzio, sfiorandosi il piede e la zampa; la sera ardevano i lumini e la fioca luce si spandeva su creature di terracotta. Elettra lavorava anche la domenica e osservava il mondo di fuori, i passanti diretti al cinema o in piazza. Ma lei, soddisfatta dal sogno che intendeva realizzare, continuava a essere indaffarata.

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Ripensa allo squarcio nel muro screpolato, quel che resta di un'insegna in pietra lavica che qualcuno le rubò in piena notte, appena dopo la chiusura del laboratorio. Il lampione in ferro battuto, non aveva avuto la forza di staccarlo e ora non illuminerà più. La strada è deserta. Non ci saranno clienti e amici. E i ragazzini del vicolo, che andavano a sbirciarla, e ogni tanto l'aiutavano a trasportare le tavelle con gli oggetti appena smaltati... avranno ripreso a sparare i petardi, per noia o perché nessuno li rimprovera. «Se la qualità di una persona si rivela nella capacità di cambiare il proprio ambiente e renderlo migliore, allora la mia presenza qui, non ha alcun senso» pensa fra i ricordi. Ma forse no. Forse una storia amara ha bisogno di un finale dolce. Un ulteriore strappo di coraggio, un atto di fiducia. Elettra non tornerà. La distanza dal punto di origine è la cifra della sua crescita. Chi parte, diventa anch'egli paese dai confini mobili, che accoglie e raccoglie. Ama ciò che gli appartiene, e ciò che ama gli appartiene. Dispiace sentirsi ripudiati e "incompresi". Chi non parte, non può tornare. Chi parte può soltanto tornare "cambiato". Non esistono patrie belle o brutte, perfette o imperfette. Esistono patrie interiorizzate e superate da un senso di appartenenza esteso. Lontana dalla Sicilia, Elettra ha già conosciuto la chiusura al "diverso"; cento volte ha fatto i conti con questo senso di estraneità. Poi ha smesso di misurare e misurarsi. Ha iniziato a vivere. Chi parte ha una straordinaria opportunità di imparare a vivere secondo coscienza.

*** Sì, ho smesso di misurare. La nuova casa, la riempirò dei ricordi d'allora e dei sogni di oggi. Unirò alla praticità teutonica la levità mediterranea. L'armonia dei colori, gli odori di una cucina ricca, libri letti e ancora da leggere. Suoni infantili, guaiti di cuccioli, piante nell'orto, alberi da curare, nidi di uccelli, tane di ricci. Nuova vita su questa terra. Tenacemente germoglierà. E avrà un sapore dolce.

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Tiziana Gallo Un amore

Era come trovarsi piacevolmente nella nebbia con lei, sentire la sua voce vicina e cercarla. Sonia non parlava mai di sé, la prima volta che l'incontrai fu mentre ero in attesa di un colloquio di lavoro. Ho davanti agli occhi l'immagine di due donne ansiose di essere esaminate: io in tailleur nero con un sottogiacca mozzafiato che faceva risaltare il mio decolté, i capelli sciolti, gli occhiali da vista rigorosamente abbinati al vestito e i tacchi che slanciavano non solo il corpo, anche l'anima, dandomi quel tocco di "donna determinata" che volevo che gli altri notassero. E accanto a me, lei, Sonia, indossava i jeans, una camicia, delle scarpe basse, i capelli corti e neri le scoprivano il viso pallido dalle gote naturalmente rosse, evidenziando i grandi occhi scuri senza traccia di rimmel. Il suo sguardo malinconico mi si rivelò subito, come orme sulla neve. Mi rivolsi a lei per chiedere un'informazione su una via di Roma. Non fu molto gentile, anzi, non vidi sul suo volto nessuna disponibilità ad aiutarmi. Per niente simpatica. Quel giorno fummo assunte tutt'e due, e da allora le nostre vite si intersecarono. Dopo qualche mese sapeva molto di me, forse per la mia smania di essere un libro aperto, non consapevole che certe cose non possono farsi leggere a qualsiasi lettore. Sonia poteva sfogliare le mie pagine quando voleva, poteva scorrere le righe dei miei giorni passati, di quelli presenti e i miei progetti futuri, perché aveva quella sensibilità pura davanti alla quale essere nudi non imbarazza minimamente. Anch'io le volevo bene, forse fu l'affetto a porgermi la chiave di lettura corretta della sua vita. Avevamo sempre voglia di stare insieme, lei era molto premurosa. Mi divertivo quando dedicavamo a noi intere giornate. Appena salivo in macchina l'atmosfera si riscaldava: musica! Le note delle nostre canzoni toccavano il cuore, cantavamo a squarciagola, abbassando il volume sulle frasi per noi più significative, lì partivano i nostri commenti. Ce n'erano tante che sembravano parlare di noi, quasi che le nostre esperienze fossero state le muse ispiratrici. E ci piaceva fare shopping. Io sceglievo i miei capi e lei mi seguiva con i suoi in camerino. Non appena indossati salivo in passerella solo per lei, sapeva consigliarmi, mi scrutava e poi si pronunciava, a favore o a sfavore dell'acquisto. Io l'osservavo nel suo portamento, nel suo abbigliamento, nelle sue reazioni, così la conoscevo e mi legavo sempre più a lei. Spesso le parlavo dei miei amori, degli uomini che avevo incontrato, lei era sempre severa, direi senza pietà. Mi diceva: «Ma come fai a innamorarti di soggetti che non ti sanno amare? Gli uomini sono tutti uguali, non hanno la sensibilità di noi donne!» Un giorno, tra una chiacchiera e l'altra, decisi di concentrare l’attenzione sulla sua vita sentimentale, che teneva in penombra nonostante la confidenza raggiunta. Alle mie parole, la vidi come un animale in gabbia, non poteva più scappare, i miei occhi la puntarono come due riflettori, la volevo in scena, troppo tempo era stata dietro le quinte, era ora che salisse sul palco e si raccontasse. Iniziai a penetrare il suo mondo interiore e ad aprire quei cassetti che Sonia aveva accuratamente tenuto chiusi, lontano da occhi indiscreti. I miei occhi nei suoi, le dissi: «Secondo me, ami una donna!» Le gote di Sonia avvamparono tanto che pensai che per la prima volta avesse usato il fard. Si mise le mani tra i capelli e mi chiese: «Ma come l'hai capito?» «Tu non parli mai di uomini, e poi cancelli in te ogni traccia di femminilità» le risposi. I suoi occhi diventarono lucidi, le lacrime lavarono i miei pregiudizi in un istante: era la conferma che una delle persone più care era omosessuale. L'abbracciai forte e le dissi: «Per me sei solo Sonia, non potrei amarti mai come amante, ma ti amerò sempre come mia amica». Sonia iniziò a straripare, come un fiume che aveva bisogno di rompere gli argini. Mi lasciai inondare. Mi parlò del suo amore. Ricordo bene l'inizio: «Non lo dire a nessuno, ho paura dell'omofobia, non di quello che potrebbe accadere a me, ma al mio amore. Io e Miriam siamo innamorate, ma la nostra vita si svolge in segreto, tra le pareti domestiche, nel silenzio, al riparo dagli sguardi altrui. Se ho voglia di baciarla mi trattengo, se desidero prenderle la mano per strada me lo vieto. La mia famiglia non accetterebbe mai, al lavoro rischierei di essere allontanata perché sono un’insegnante e nessuno accetterebbe una professoressa lesbica, penserebbero che posso influenzare i giovani. Là fuori non vedono il nostro legame come amore, ma come una forma di perversione, anzi, una disabilità permanente». Io ascoltavo coinvolta, non mi ero mai avvicinata così tanto a quel mondo "altro" che vive nei sotterranei del mio.

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Sonia continuò: «Il suo cuore e il mio sono puri. Il suo corpo per me è bello, lei è la mia Venere. Quando i nostri corpi si toccano e si incontrano nella passione che ci pervade, mi sento felice. Facciamo l'amore come tutti, anche se non c'è l’incastro perfetto, e anche se non combaciamo anatomicamente godiamo di emozioni forti e non inferiori a quelle di voi etero». L'ascoltavo con curiosità, in me si alternavano rabbia per la segretezza di un sentimento così bello e tenerezza per i suoi racconti tanto delicati. Da quel giorno la mia visione delle cose e dell'amore subì una forza d’urto. Inizia a pensare che l'amore era stato concepito materialmente, e come procreazione, solo per gli eterosessuali, ma se pensato come sentimento al di là di due corpi, allora doveva inglobare tutte le forme senza discriminazione alcuna. Sonia mi confidò tutto e io scherzavo sulla sua omosessualità, era ormai un gioco delle parti. Quando ci trovavamo nei camerini le dicevo: «Guardami con gli occhi di un uomo, ti piacerei?» Ridevamo come matte e io ero felice di essere diventata il suo giardino segreto in cui poteva scendere a giocare e prendere aria. Lei, però, non era completamente felice di qualche ora d'aria fuori da quella prigione sociale in cui ogni giorno si ritrovava. Lo sguardo malinconico che s'incise nel mio cuore al primo incontro, era sempre sul suo volto. Aveva bisogno di consenso, non della società di cui secondo lei poteva fare a meno, ma della famiglia, voleva che l'approvasse e partecipasse al suo amore. Un giorno decise di rivelare la sua identità sessuale, stanca di menzogne e nascondini. Fu una scelta coraggiosa, la famiglia di Sonia viveva nel profondo Sud, in uno di quei paesi in cui l'omosessualità è vista come "punizione divina", una specie di maledizione, e la cosa più sconcertante è che anche molti giovani la considerano tale. A Roma, sugli autobus vedevo spesso ragazzini o adulti omosessuali derisi con battute sgradevoli, miserabili. Ma ricordo anche una mattina, sul 546, due ragazzine si tenevano per mano, gli occhi ancora assonnati, ma tanto dolci come si guardavano. Le ammirai tutto il tempo, osservando il loro comportamento in mezzo in pubblico. Lo raccontai a Sonia, mi erano sembrate coraggiose e forti nel loro tenero amore. Cosa avrebbe potuto dire il mondo davanti a tanta dolcezza? Credo che in fondo a loro non interessasse, eppure agli sguardi curiosi, invadenti e pettegoli spesso bisogna render conto, come avviene anche con le persone più care da cui ci aspettiamo comprensione. Accompagnai Sonia nel viaggio al Sud, verso l'ufficializzazione del suo status. Non dimenticherò mai il silenzio assordante che calò immediatamente alla sua dichiarazione: «Io ho una compagna, sono lesbica!» Poi il pianto disperato della madre e l’allontanamento istantaneo dei fratelli, che da quel giorno non le rivolsero più la parola, neppure per insultarla. Lasciammo subito quella casa, nel ritorno Sonia non pronunciò una sillaba e io mi limitai a osservare il suo mutismo. Credo che sapesse che stava sancendo la separazione definitiva da un mondo mai evolutosi, per certi versi medievale, in cui non conta essere se stessi, bensì è decisiva l'approvazione. E avere un cuore pulito non equivale ad avere diritto alla libertà. Sì, in quella parte del Sud erano arrivati i wireless, ma i sentimenti erano rimasti alle caverne, al sicuro da "contaminazioni". Certo nella Capitale in cui vivevamo non era neppure semplice, come un’ombra quella Cupola sovrastava e rendeva opache le menti di molte persone, che rifiutavano o, peggio, ignoravano il colore sanguigno di questi legami. Io mi sentivo cristiana, ma ormai davanti al cuore di Sonia mi prostravo come in Chiesa, e credo che il mio Dio si sarebbe inginocchiato con me davanti a un amore tanto candido. Da quando era entrata nella mia vita, le stavo accanto e mi sentivo la sua paladina, o forse mi sentivo la sentinella di chi ama incondizionatamente, convinta che nessun amore possa essere imbrigliato da pregiudizi. Arrivate a Roma la riaccompagnai dalla sua compagna. Miriam l'aspettava al cancello e l'accolse stringendola in un abbraccio. Le lasciai nella solitudine del loro amore, almeno lì erano sicure. Sonia nei giorni successivi appariva spenta. Guardava ossessivamente il cellulare. In uno dei nostri pomeriggi davanti al caffè mi disse: «Se neanche chi ti ha partorito ti accetta per quel che sei, come puoi pretendere che ti accolga il mondo lì fuori?» Le risposi poggiando la mia mano sulla sua, non trovavo le parole, sentivo dentro di me il peso del suo dolore. Decisi di organizzare una serata per risollevarle il morale. Un sabato sera ci recammo in un noto locale gay, c'eravamo tutte, proprio tutte noi amiche, perché anche Giulia, Sara e Paola sapevano della relazione di Sonia. Eravamo disinibite e non ci creò alcun problema trovarsi davanti a uomini che si baciavano e a donne che ballavano in coppia. Preso un cocktail, ci lanciammo sulla pista. Io indossavo una minigonna di jeans e delle scarpe alte. Non avrei immaginato di sedurre delle donne, anzi, guardandomi intorno scrutavo certi uomini affascinanti che mi lasciavano l'amaro in bocca perché non mi degnavano di uno sguardo. Lisa, invece, mi puntò gli occhi addosso senza remore, forse dando per scontato che fossi come lei. Non so cosa accadde, ma assecondai i suoi sguardi, mi prese per mano e mi trascinò con lei sulla pista, mi sorrideva, mi provocava maliziosamente. Mi venne in mente la solita scena a cui ero abituata: uomini che si avvicinano, strofinano il corpo sul tuo con arroganza, come se avessero deciso che tu debba essere un loro

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possesso, e infilano le mani dappertutto, rubando un po' di te in nell'atmosfera invasata in cui sei semicosciente tra musica, alcol e sonno. Lisa non aveva fatto nulla se non stringermi una mano e attirarmi a lei, mi ero trovata improvvisamente nel suo spazio vitale, a me sconosciuto. Il corteggiamento di una donna. Nessun uomo mi aveva trattata così, ero io che dovevo suggerire come corteggiarmi, senza successo. Non fumo, ma quella sera con Lisa andammo a prendere una boccata d'aria, accendemmo una sigaretta e ce la passammo. Mi riempì di complimenti partendo dall'eleganza delle mie movenze, il mio modo di sorridere, per arrivare alle mie gambe esili e snelle. Io rispondevo solo, «Grazie». Anche lei aveva fascino nel vestito nero aderente, i capelli sciolti al vento come i miei. Ridevamo delle nostre battute, poi improvvisamente ci fu silenzio e le sue labbra si avvicinarono alle mie, non mi ritrassi, ferma come quando per strada capisci che stai per scontrarti e non puoi evitarlo. Ci baciammo e il mio corpo sentì dei brividi lunghi e intensi. Le sue mani si persero sul mio corpo e io le lasciai smarrirsi. Dopo qualche minuto di intenso piacere, la fermai, dicendole che non me la sentivo, che ero etero e non volevo deluderla. Lei con un sorriso mi chiese di perdonarla, ma le avevo trasmesso delle forti emozioni. Mandai un sms alle amiche, presi un taxi e scappai a casa. Nel frattempo il cellulare squillava, Davide mi stava cercando, ma non risposi, non avevo voglia di passare la notte con lui, ero confusa e assordata. L'indomani ripensai all'accaduto: era stato bello, come l'incontro tra uomo e donna, e non fui più sicura che l'amore che cercavo potesse arrivarmi solo da uomini. Nonostante non abbia avuto altre esperienze omosessuali, pensavo a quante sfaccettature dei rapporti umani sottovalutiamo. Sicuramente l'uomo che frequentavo non era mai riuscito a darmi tra le lenzuola quel godimento dell'anima che quella donna mi aveva donato in una manciata di minuti. Forse le donne sanno come amarsi, e anche gli uomini sanno bene come sono fatti e cosa desiderano. Con Sonia ridevamo nel parlare della mia conquista, lei mi diceva «mai dire mai». Il suo dolore, però, non smetteva di scavare e anche il rapporto con Miriam, come in ogni coppia, stava attraversando una crisi. Sonia aveva un'aria cupa, lo sguardo spesso incantato nel vuoto. Io provavo a farla parlare, ma non avevo molto da chiedere perché capivo quanto avesse bisogno di approvazione. A volte diceva che stava capendo che non bastava vivere in due l'amore, perché i momenti di gioia o tristezza hanno bisogno di estendersi agli altri, e le mancava la sua famiglia, che resisteva nel suo silenzio, lacerando l'affettività di Sonia. I suoi vivevano rinchiusi in aneddoti, e in vecchie fotografie incorniciate come complementi di arredo. Una notte squillò il cellulare, era lei che farfugliava qualcosa di indecifrabile fra i singhiozzi. Cercai di calmarla, abituata ai suoi momenti di cedimento. Ma ero spaventata. Balzai dal letto, iniziai a vestirmi nel buio della camera senza prestare attenzione a cosa mi stavo infilando, afferrandola al volo dall'armadio. Ricordo solo le scarpe da ginnastica, le scelsi perché mi avrebbero fatto arrivare più velocemente da lei. Aprii la porta, pioveva, ma non sentii la pioggia, provavo solo l'istinto di correre. Sonia abitava a qualche isolato da me. Non avevo paura, ero molto nervosa e l'affanno mi costrinse a fermarmi ripetutamente. Iniziai a piangere, le lacrime si confondevano con le gocce che scendevano impetuosamente, accompagnando i pensieri che mi si affollavano nella mente. Giunsi sotto casa di Sonia in circa un quarto d'ora, i quindici minuti più lunghi della mia vita. Suonai al citofono, pronta a fiondarmi dentro e a stringerla fra le braccia, ma non fu così. Da sotto vedevo le luci accese. Provai con il cellulare, ma era staccato. E se avessi telefonato a Miriam? O avvisato la polizia? Mi sentivo patetica, magari era in bagno o si era addormentata dimenticando di spegnere le luci. Improvvisamente la mia mente si focalizzò su un'immagine nefasta, i miei occhi si sgranarono e le mie urla svegliarono il vicinato, mentre il mio corpo impazzito si scagliava contro il portone nel tentativo di buttarlo giù. Ricordo le mie parole: «Sonia, non lo fare! Sonia! Ti voglio bene. Non sei sola. Ti prego, non mi lasciare!» Furono i vicini, credo, a chiamare la polizia, perché in pochi minuti giunse una pattuglia. Poi non so dire altro, la mia mente passa subito all'abbraccio che diedi al corpo freddo e pallido che penzolava dal soffitto, il collo stretto in un lenzuolo rosso. Appena la tirarono giù, le tenni la testa sulle ginocchia e l'accarezzai, senza piangere, senza parlare. Volevo solo registrare nei miei occhi, nel cuore e nella mente il colore dell'abbandono, il sapore dell'indifferenza, il silenzio dell'emarginazione. Arrivarono Miriam e altre loro amiche. Le lasciai lì. Ma prima avvisai la madre di Sonia dicendole: «Sua figlia le chiede solo amore, per l’ultima volta, almeno quello materno». Me ne andai, ma non a casa. Cominciai a correre. Avevo bisogno di sputare nell'aria la mia rabbia, la mia tristezza, perché non ero arrivata in tempo. Da Sonia imparai il dolore. Non tutti riescono a reggerlo perché a volte si cristallizza in mezzo al cuore rendendolo fragile. E imparai l'amore, l'amore senza colore e sesso, amore che chiama amore. L'amore fatto di tanti piccoli pezzi, tutti necessari per essere felici. All'alba le mie scarpe da ginnastica mi portarono per sempre lontana dal mondo ipocrita che chiude le porte

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in faccia a chi non ama secondo le convenzioni. Promisi a me stessa che le avrei buttate giù ogni volta che ne avessi incontrata una. In nome di Sonia. Perché ognuno sotto questo cielo ha il diritto di amare.

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María Belén García El compadre

Una domenica mattina di fine marzo papà mi svegliò entrando in camera all'improvviso. Cantava, «Algo se muere en el alma cuando un amigo se va1». E piangeva. «Il Compadre Miguel è morto.» Papà e Miguel, il marito di zia Magdalena, diventarono Compadres quando papà fece il padrino al battesimo di Miguelito, il loro figlio primogenito. Tra i due si instaurò un'intesa fenomenale. Entrambi amanti del divertimento, delle feste e del vino, formarono una coppia di amici inseparabili. Miguel era un architetto e papà, dopo essersi sposato, gli affidò il compito di costruire la sua nuova casa. «Bisogna dare enfasi all'area sociale» sosteneva Miguel, mentre tracciava il suo piano per cui il salotto, anzi, i vari salotti occupavano l'80% della casa. Gli piaceva ballare e bere, quindi non considerava il fatto che servissero anche le camere da letto, i bagni e una cucina. L'importante era disporre di spazio per i bagordi. Ogni venerdì si riunivano per controllare lo stato dei lavori, dare la paga ai muratori e brindare con un bicchiere di vino, che poi diventavano due, tre... Spesso sforavano il budget, già risicato, per l’eccesso di brindisi. A quel punto lo zio diceva: «Non è un problema. Basta eliminare un muro e rientriamo nel budget». Fu così che la casa dei miei genitori si riempì di archi al posto dei muri. «Ci siamo appena bevuti una parete» esclamava lo zio, e si affrettava a modificare la planimetria. Miguel morì in un incidente d'auto, di ritorno a Quito da Baños dove avrebbe dovuto concludere un affare, vendendo il condominio che aveva costruito. Ma ahimè! Il risultato finale era totalmente diverso dal progetto originario. I clienti, che gli avevano affidato l'incarico, non vollero pagarlo perché non aveva rispettato il contratto. Così si trovò da un momento all'altro sul lastrico. Aveva investito tutti i suoi risparmi nella costruzione del condominio, si era addirittura indebitato nella speranza di fare il colpo grosso della sua vita, che l'avrebbe messo a posto per sempre. Invece, povero zio. Quel giorno alla guida c'era Miguel, lo accompagnavano il socio e il geometra. Aveva la passione delle auto sportive e guidava bene come un pilota di Formula 1. Nessuno riuscì a spiegarsi come avesse potuto commettere un errore così grossolano, un sorpasso senza accorgersi che in senso opposto arrivava un'altra macchina. O forse se n'era accorto? Lo scontro frontale fu tremendo. Quando l'auto riuscì a fermarsi, i due passeggeri non avevano riportato ferite gravi. Ma lo zio era morto sul colpo, con il volante conficcato nel petto.

*** Il pomeriggio della domenica la famiglia al completo e tutti i conoscenti si riunirono a casa di Miguel, dove era stata allestita la camera ardente. La zia, seduta di fianco alla bara, singhiozzava come una vedova inconsolabile. Ma ogni volta che un parente o un amico si chinava su di lei e le faceva le condoglianze, i due si mettevano a chiacchierare e inevitabilmente cominciavano a ridere al ricordo delle follie di Miguel. Per papà Miguel era come Zorba perché sapeva prendere tutto quello che la vita gli offriva, allo stesso modo del protagonista del romanzo di Kazantzakis. Anch'io lo ricordo sempre sorridente, anche se si era ficcato in qualche guaio. Non aveva molta voglia di lavorare. I pochi posti fissi che riusciva a procurarsi, li perdeva in breve tempo. Al mattino, quando usciva, faceva come il gambero, un passo avanti e due indietro, e così arrivava più tardi possibile sul posto di lavoro. Papà sosteneva che Miguel aveva "l'anima di architetto", e intendeva dire che era nato pigro. La zia aveva dovuto arrangiarsi con mille lavoretti per mandare avanti la famiglia. Papà si sedette vicino alla zia e le prese una mano: «Magdalena, mi sembra impossibile che Miguel sia morto. Ti ricordi quella volta che…» All’inizio degli anni Settanta, l'Ecuador fu sconvolto dall'ennesimo golpe militare. I dittatori di turno erano i "Triumviri". Un giorno si diffuse l’incredibile notizia che il generale Ron, uno dei triumviri, fosse stato rapito. Fu subito scatenato un rastrellamento su vasta scala per liberarlo. E proclamato il coprifuoco. Le abitazioni venivano perquisite a qualunque ora del giorno o della notte, e chiunque sembrasse sospetto veniva fermato. I militari non avevano intenzione di lasciare impunita la sfida al loro potere. In questo clima di tensione e paura, un giorno Miguel era in macchina con papà. Sulla corsia opposta videro avvicinarsi una pattuglia della polizia che stava scortando un ufficiale degli alti comandi. Nel momento in cui le due auto si incrociarono, Miguel fece con la mano il gesto della pistola, con il pollice e l'indice puntato, commentando in tono sornione: «Questo è il prossimo». Papà lo guardò atterrito. «Ma cosa hai 1 Le parole di una famosa canzone popolare: "Qualcosa ci muore dentro quando un amico ci lascia."

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fatto?» mentre lui rideva. Proseguirono senza più pensare all'accaduto, ma quando rientrarono nelle rispettive case, li stavano aspettando. Furono portati alla Centrale di polizia per essere interrogati. «Allora, chi siete? Perché avete minacciato quell'ufficiale?» tuonò il commissario. «Noi non c'entriamo niente! È stato un errore!» urlò papà, visibilmente spaventato. «È inutile negarlo» lo riprese lo zio. «Ci hanno beccato. Ti avevo avvertito che non l'avremmo fatta franca.» Miguel era tranquillo. Papà, ormai vicino alle lacrime, si rivolse ai poliziotti: «Vi prego, non dategli retta. È pazzo!» «Sta calmo» continuò Miguel. «Se collaboriamo, forse non ci tortureranno. Io l'avevo detto al colonnello Chicaiza (il marito di una cugina, che era nella scorta dei Triumviri) che non sarebbe riuscito questo golpe. La cosa migliore è confessare.» «Mi sta prendendo in giro?» urlò il commissario. «No, assolutamente. Le racconterò tutto, ma la prego, non mi appenda per i pollici.» Al commissario bastarono poche altre parole per rendersi conto che non erano dei rivoltosi implicati nel rapimento, e uno di loro molto probabilmente soffriva di disturbi psichici. Li fece riaccompagnare alle loro abitazioni. Quando Miguel suonò il campanello di casa in mezzo a due poliziotti, si vide uscire di corsa Magdalena, con il pancione di otto mesi e Miguelito in braccio. Era in camicia da notte e si disperava. «Cosa avete fatto a mio marito, disgraziati?» gridò ai poliziotti. «Niente, signora» risposero loro. «Mi hanno torturato!» sbottò Miguel. «Alla prima scarica elettrica sono svenuto. Poi mi hanno appeso per i pollici, ma io non ho confessato! Non ho tradito nessuno.» «Signora, non è vero. Non gli dia retta, suo marito è pazzo» dissero i poliziotti prima di allontanarsi in silenzio. Di fianco alla bara la zia e papà scoppiarono in una fragorosa risata che fece tremare l'aria. Subito dopo tornarono ad asciugarsi le lacrime con i fazzoletti.

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Maria Concetta Giorgi Emmet

È freddo, città di notte. Sono solitario con il mio cappotto scuro. Piove. L'asfalto riflette i miei passi. Anche se sono vecchio so riconoscere l'odore dell'amore. Questa pioggia non lo nasconde, lo amplifica. Lo sento vicino, irresistibilmente vicino. Cammino. I negozi sono tutti chiusi, pochi passanti, le insegne dei bar fanno luce. La città è fredda, ho le mani intirizzite, le strofino, cerco di scaldarle come posso, le mie mani sono grandi, le dita nodose, le infilo in tasca. Passano poche automobili, una mi punta i fari addosso. Alzo il braccio e mi copro gli occhi in un gesto di difesa, esattamente come quella sera. L'asfalto è bagnato, ho le scarpe inzuppate, scivolo. Mi muovo lentamente, assaporo i momenti in cui sono solo, sono sempre solo. Sento il tuo odore, e come un segugio annuso. Accendo una sigaretta, il fumo dalla bocca, mi appoggio a una colonna di marmo, la schiena mi dà i brividi. Dicono che quando stai per morire ti passa davanti tutta la vita. Fumo, a ogni boccata un ricordo. Torno indietro. Inverno 1953.

*** Ho vent'anni, sono nato in questa città, i miei genitori sono "negri". Non sono anni facili per quelli di colore, frequentiamo scuole diverse, compriamo in supermercati diversi, mangiamo in ristoranti diversi e anche negli autobus siamo separati dai bianchi. Io sono diverso da un bianco, sono un "negro". Leggo e scrivo bene, amo le poesie. Mia madre si è rotta le ossa per farmi studiare, fa la serva a dei bianchi ricchi. Conosco la letteratura afro-americana, conosco Richard Wright, il migliore per me, ho letto Paura. Questo libro parla dei neri e delle paure che i bianchi hanno di noi. Non è così, io ho paura di chi è bianco. Fa parte della mia vita, quando mi muovo ho paura, quando parlo ho paura, voglio amare e ho paura. I Klansmen seminano terrore, qualche giorno fa alcuni di loro hanno dato un passaggio a un nero, l'hanno picchiato a morte, gli hanno tolto un occhio, l'hanno legato al parafango dell'auto trascinandolo per tutta la città. Il volto maciullato. Noi non abbiamo diritto ad aver un volto. Con la nostra pelle scura dobbiamo rimanere nell'oscurità. Vivo questa paura come un figlio americano Libero di quell'America comunista Che crede nella nostra identità. Mi dicono schiavo, ma voglio lei, La desidero, la pretendo. Il sogno di uno schiavo È l'odore di lei, Dell'eros. Lo inventa, Non ce l’ha, Sa che non può. È il coraggio di volerlo che lo fa insistere, Prende l'essenza della vita, La plasma, Nutre l'anima di passione, Trasforma lo sguardo Da prigioniero in colui Che docilmente guarda. Come ami se non puoi? Cosa sogni? Annusi l'aria che la circonda, Poi stanco immagini lei, La vuoi, respiri forte Le narici dilatate, Ora ce l'hai. Mi chiamo Emmet, cerco la luce e amo lei, che è chiara, la luna che appare di notte e illumina tutto. Il nostro giorno deve arrivare, arriverà, lo aspetto da un po'.

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L'ho notata dai Loggins, i ricchi per cui mia madre si consuma. È la loro figlia. L'amore è straordinariamente semplice, le pulsioni sono uguali per tutti, non c'entra il colore della pelle. Il cuore di un nero batte come quello di un bianco, fremo e mi agito se penso a lei. Non posso farne a meno. Mi sento così vivo quando immagino di averla, di fare l'amore, e quello che sento, vorrei sussurrarglielo. Ho provato a parlarle, un saluto breve, le ho detto il mio nome. Lei vive come i bianchi, studia con i bianchi, non so se mi vede come un essere umano. Sono arrabbiato, ma devo agire con attenzione, desidero incontrarla. Almeno una volta, per dirle che l'amo, che provo sentimenti e non sono un animale. Carolyn è più giovane di me, ha gli occhi chiari, un fazzoletto a fiori le copre i capelli biondi, si trucca come una diva, le labbra rosse. Quando cammina, la gonna ondeggia al passo. Seguo il suo corpo sinuoso, osservo il respiro sollevarle il seno.

*** Arriva la primavera, dopo un lungo inverno, mia madre non sa che amo Carolyn, non mi permetterebbe mai di frequentare la casa dei Loggins. Lei dice che i neri devono stare lontani dai bianchi. Ieri, però, mi ha avvertito che i Loggins stanno cercando un giardiniere, hanno bisogno di uno che sistemi il giardino prima dell'estate. Non posso che accettare, voglio portare a compimento il mio incontro. Dio ha stabilito un'alleanza con gli uomini, con tutti gli uomini. Il Dio che mi riguarda ama incondizionatamente. Non pone veti sul colore della pelle. Gli uomini hanno deciso le differenze interpretando, modificando, confondendo. Ma ho sentito parlare di uguaglianza da un predicatore, ha affermato che per Cristo tutti gli uomini sono fratelli e uguali. Io non sono cristiano, ma Cristo mi piace, rende la mia vita più accettabile. In inverno molte piante si sono seccate. Ma il giardino è profumato, comincia a rifiorire. Lavoro alacremente, poto i rami secchi e li porto via. Vango la terra, sudo. Ho una speranza, quella di vedere Carolyn. È un pomeriggio quasi tepido, Carolyn sta leggendo all'ombra della quercia. Ogni tanto mi guarda con la coda dell'occhio. Mi avvicino, sono alto, potente. Mi invita a sedere. Non può vederci nessuno, il giardino è grande e folto. Il mio cuore batte e fa rumore. Non occorre parlare, quando ami i tuoi occhi sono i suoi occhi, il respiro è identico, l'odore invece è diverso, il mio è caldo, avvolgente, il suo acerbo, fresco, come un fiore che si deve aprire. Quel giorno a parlare per noi è il silenzio. Mi piace la musica e vorrei portare Carolyn a ballare, in questi anni le band tentano di avvicinare i giovani, bianchi o neri, ma le difficoltà sono ancora enormi. Non posso frequentare i locali dei bianchi. L'America, la terra della libertà, dovrà cambiare e un giorno il destino sarà nelle nostre mani. Ma non è ancora il nostro tempo. Il mio tempo sì, è ora, è lei. Estate. Nelle serate calde io e Carolyn ci rifugiamo nell'unico posto in cui ci possiamo incontrare, sotto la quercia. Nessuno lo sa, siamo tutt'e due in pericolo, io di più. Potrebbero dire che l'ho guardata con occhi impertinenti, potrebbero dire che non ho il diritto di rivolgermi a una bianca, potrebbero uccidermi. Carolyn piange, il nostro amore è marchiato dalla violenza e dall'arroganza dei bianchi che si ritengono superiori. Teneramente bacio le lacrime, poi trovo la bocca. Succhio le labbra, imprimo il suo rosso su di me. Sono un guerriero che trema in uno sforzo d'amore. Per molto tempo ho combattuto Forte in audacia e sostanza, Agili le mie membra Lungo le paludi della vita, Un'ultima prova la compio davanti a te Fragile donna. Lo sforzo è enorme. Amare è molto più che combattere. Ero freddo e cinico, Ora tremo e avverto i sensi. Le guerre non sono niente di fronte al cuore di chi ami Al suo corpo, alla sua pelle. Non sarò compiuto Se non avrò vissuto l'amore. Il possesso è un'altra cosa, il dominio pure. Lo lascio alle cose, alla materia.

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Sono davanti allo spirito puro. Questo è il mio muro. Sono un guerriero, Ora combatto per questo estremo. Il tuo busto inarcato. Il tuo pallido seno. Facciamo l'amore, due colori, un corpo solo. Ti ho avuto. Il desiderio non è più un'ombra. Ora lo posso dire, e anche tu mi puoi amare. Ho il tuo sapore su di me. Uscendo dal giardino per la prima volta sono libero. Non ho più catene, e senza colore, trasparente come l'acqua che continua a scorrere nel mondo feroce. Sto per rincasare, quando un'auto con due all'interno mi punta i fari contro, accecandomi. Alzo un braccio e con la mano mi proteggo gli occhi. Mi sento apostrofare, "sporco negro", la paura mi assale, e penso a Carolyn, qualcuno può averci visto. Un uomo incappucciato scende dall'auto, impugna il fucile. Sento il sangue pulsare, devo reagire o sono morto, mi lancio contro di lui con tutto il peso, parte un colpo. E non sono io a morire. Scappo come un cerbiatto braccato, corro e corro, il cuore mi scoppierà, ma il mio unico pensiero è per Carolyn. Devo andarmene per sempre da qui, solo così lei potrà salvarsi. L'altro uomo non riesce a raggiungermi, lo sento urlare, ma ormai sono fuori dalla sua portata e dalla città.

*** Ho fumato un milione di sigarette, il freddo mi entra nelle ossa, sono vecchio, ma non ho dimenticato il tuo sapore, Carolyn, e l'odore di quel giorno. Mi sono nascosto per anni, ho trascinato una vita sotterranea lontano da mia madre, lontano da lei, e da tutti. Sono un sopravvissuto che esce allo scoperto, adesso che i neri possono camminare assieme ai bianchi. Di Carolyn non ho più avuto notizie. Mia madre è morta senza riscatto, da "negra". Questa città, che per molto tempo mi è stata ostile, questa sera mi rende un favore, perché percepisco il profumo. Sono quasi arrivato al grande edificio dietro al quale c'è il mio vicolo e il mio rifugio. Due crani calvi, con la croce uncinata tatuata sul braccio, mi minacciano: "Negro"! Con una spranga mi colpiscono sulla schiena. Cado in ginocchio e ghermiscono quel poco che ho addosso. Non importa se muoio, ora so che Carolyn e io siamo stati un corpo solo. Cristo si è dimenticato di me. L'antico odore dell'odio. Il sangue mi cola dalla bocca, rosso come quella sera in giardino. L'amore e la morte si assomigliano.

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Serafina Ignoto Quaggiù fra le montagne

Il cellulare squillò alle prime luci dell'alba. Il tempo era ancora tiepido, nonostante l'autunno inoltrato. Lo tenevo sul comodino a un volume discreto, per non svegliare la famiglia nei casi di emergenza come questo. Risposi con la voce impastata di sonno. «Sì, pronto.» «Commissario, deve venire subito! Una donna, pare una ghanese, ha accoltellato il figlio e lanciato fuori dal balcone la figlia più piccola, che però si è salvata. Ho allertato i carabinieri e il centro di salute mentale della Asl. Fra pochi minuti ci saranno tutti. L'ambulanza è già qui.» «Sto arrivando.» Riagganciai, dopo avere preso nota dell'indirizzo. La giornata cominciava male. Ingollai un caffè in fretta. E accesi la prima sigaretta nel giardino sul retro. Mi concessi pochi minuti di fumo. Mia moglie e i ragazzi dormivano ancora quando mi richiusi la porta alle spalle. Non appena arrivato davanti alla casa ordinai di transennare il marciapiede: quel pezzo d'asfalto era stato teatro di un miracolo incredibile. L'ispettore mi ragguagliò sui dettagli dell'accaduto, nel suo tono incolore. Salii le poche scale che conducevano all'appartamento, al primo piano di una costruzione dignitosa. Varcai la soglia e mi voltai a osservare le impronte rosso sangue delle mie suole: avevano tracciato un macabro disegno sul pavimento. Pensai al più piccolo dei miei figli e in un lampo lo vidi sorridere. Scacciai quella immagine, respinsi perfino l'idea di avere un figlio. Impartii le necessarie disposizioni ai miei uomini, in attesa che arrivassero i colleghi dell'Arma: il caso era di loro competenza e se ne sarebbero occupati da lì a poco. Vidi la gente del paese, ne udii il mormorio sconvolto, i loro occhi mi consegnarono una richiesta che non potevo accogliere. Girai la testa dall'altra parte e ritornai sopra per proseguire il sopralluogo. Il paesino era poco più di una frazione, un paio di chilometri distante da quello in cui ero andato ad abitare dopo il matrimonio. Era adagiato sulle rive del lago, ora appena increspato. Stava iniziando il consueto frastuono del mattino lungo la statale che sopra le case correva aggrappata alle lastre lucide dei monti. Da lì passavano i bisonti sulle ruote che, dopo aver attraversato lo Stivale, si dirigevano verso il Nord Europa: sembrava quasi di scorgerlo l'aristocratico Vecchio Continente, mentre si svegliava placido al di là della Alpi. Amavo quella zona, amavo la montagna e le sue guglie. Quando il bisogno di purificare l'anima si faceva pressante, indossavo gli scarponi, avvolgendomi di corde, chiodi e picchetti e lanciavo la mia sfida al cielo, ancorandomi alle pareti di roccia: lisce e scivolose, erano insidiose ma anche protettive. Lassù incontravo la voce di Dio e iniziavo a parlargli: mi oltrepassava le vene col suo silenzio o col fischio dell'aria che si insinuava fra i denti della cerniera della giacca a vento. Spirali di gelo mi pungevano. Le nuvole, sotto di me, coprivano ogni cosa mettendo a tacere il nostro inferno, i disastri che affrontavo quotidianamente. Dopo, quando avevo conquistato la vetta, una pace rasserenante veniva a trovarmi. Mi sedevo e guardavo l'immenso azzurro, con i piedi penzoloni nel vuoto. Allora potevo riprendere la discesa verso l'odore dei miei giorni. Questa rossa pazzia. Il sangue rallentò dentro le vene, le mani si strinsero in pugni che non avrebbero colpito nessuno. Sentivo un sudore freddo scivolarmi lungo la schiena, e il cuore accelerare il battito. Ma soltanto per pochi istanti. Mi controllai, misi a posto l'espressione, ripresi la misura dei movimenti del corpo: niente doveva trapelare. Simulavo una distanza che non avevo. La maschera era ciò che gli altri avrebbero visto. La mia maschera era rassicurante per tutti loro. Compii la necessaria ricognizione sul povero corpicino, sentivo la rabbia repressa dei miei uomini mentre eseguivano gli ordini, il tacito assenso con cui accompagnavano ogni disposizione. Il silenzio appesantiva l'aria più di un gas. Mi mancava il respiro e non dissi nulla. Allentai il nodo della cravatta. Recitavo il consueto copione. Mi bloccai, ma ripresi subito dopo il controllo. Con la coda dell'occhio verificai che i miei uomini non si fossero accorti di nulla. I loro visi erano concentrati sulle procedure da seguire. Osservai le chiazze di sangue sul pavimento: erano larghe pochi centimetri, quanto l'ampiezza della piccola gabbia toracica, mentre due ali partivano dal lettino disegnando le braccine. La madre l'aveva trascinato fino al corridoio. Da lì la scia diventava un'accozzaglia di geometrie insensate. Doveva essere stato il momento in cui il marito, entrato in casa, aveva affrontato la moglie impazzita, gli occhi inchiodati nel vuoto e iniettati. Mi sembrò di vedere la donna mentre la ragione l'abbandonava. Potevo fissarne la mano alzarsi e abbassarsi

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ripetutamente, e accanirsi sul pupazzo di stoffa, quel che era rimasto del bambino. Un dolore doveva essersi impigliato in qualche posto, dentro di lei, e l'aveva avvelenata fino a renderla sorda a qualunque richiamo d'amore. L'uomo aveva lottato con la donna, mi raccontò quando ne raccolsi la testimonianza, perché lei voleva impedirgli di avvicinarsi al corpo agonizzante del figlio. Avevano lottato a lungo, uomo contro donna, padre contro madre. L'aveva respinta con tutta la forza della disperazione. Con una spinta più forte l'aveva scaraventata contro lo spigolo del tavolo, lei aveva battuto la testa ed era svenuta. Solo così la battaglia aveva potuto finire. Allora l'uomo aveva abbrancato il figlio con ancora addosso una coperta di sangue caldo. Ed era scappato dalla porta. Rimesso il corpicino fra le braccia di chi non ricordava più, fu di nuovo risucchiato nel maledetto appartamento: il pianto improvviso della figlia neonata, svegliata dal trambusto, aveva risvegliato anche la belva. La udì rialzarsi nel fragore di vetri rotti e sedie rovesciate, dalla bocca le uscivano parole incomprensibili, pronunciate nella sua lingua. Barcollò nella cameretta, afferrò la neonata e la sospese nel vuoto. Ma questa volta il fato teneva il banco e vinse. Ascoltando la testimonianza angosciata dell'uomo, avevo chiuso gli occhi e li avevo riaperti su quel terrazzino: vidi la piccola inerme precipitare nel vuoto. Non piangeva più, cadeva in silenzio: una donna che si trovava per caso di sotto, se la trovò fra le braccia. Un urlo, e la piccola fu salva.

*** Ero sollevato mentre ultimavo le consegne al tenente dei carabinieri. Richiamai i miei e ordinai loro di rientrare. Non ce la facevo a chiudermi nelle mura dell'ufficio. Anche senza di me, il commissariato non era sguarnito. Salii in auto e guidai fino alle pendici rocciose che racchiudevano il lago. Dopo un'ora che non fumavo, accesi una sigaretta. Alla prima boccata mi venne un conato. Rigettai l'anima su un tappeto d'erba. Tutto roteava attorno a me: il piccolo angelo coperto di sangue, la sorellina, i miei figli e mia moglie. Mi afferrai la testa, cercando di fermare il vortice che mi stava risucchiando. Una paura improvvisa e inaspettata. Mi ripulii a una fontana; saltai in auto velocemente, rimisi in moto e con una corsa folle raggiunsi la scuola dei miei figli. Mi appostai in modo che non mi vedessero mentre li guardavo da fuori durante la ricreazione in cortile. Il più grande giocava a pallone con i compagni ed era tutto concentrato; il più piccolo, seduto sul muretto, stava scambiando delle figurine con un amico. Tornai al commissariato e lavorai fino a tardi, senza una distrazione. A casa, dopo un veloce «Ciao», mi chiusi nello studio. Scostai la tenda e aprii uno spiraglio della finestra per assaporare i bianchi ghiacciai: illuminati dai raggi della luna piena, sembravano sorridermi eternamente. Ringraziai Dio. Mi sedetti alla scrivania e accesi una sigaretta, le volute di fumo si disperdevano nell'aria fino a incontrare la luna. Il freddo pungente mi ripulì dai pensieri più brutti. Da sotto provenivano suoni familiari. La voce di Laura che rimproverava i ragazzi per il disordine e perché non avevano ancora finito i compiti. Ero allenato alla percezione di ogni suono. La voce era sempre un buon indizio negli interrogatori. Quella di mia moglie era calma, nonostante la discussione con i figli. Tutto tranquillo, Tommaso, mi dissi. Nessun segnale di pericolo. I ragazzi si difendevano dai rimproveri materni a monosillabi, sbuffando. Il profumo del cibo filtrava attraverso la porta perché era l'ora di cena. Spensi la sigaretta e spalancai completamente la finestra per far uscire la puzza di fumo. Spensi la luce e scesi di sotto. La mia giornata con la maschera imperturbabile era finita. Mai come in quel momento l'espressione compunta di Laura mi parve tanto bella. L'abbracciai da dietro in cucina, mentre era intenta a lavare una padella. «Ma che fai?» disse con un risolino, scostando la mia mano che la stringeva alla vita. Avvertii il suo profumo che sempre mi seduceva. Quella notte ritrovai il sentiero di un amore che non poteva morire.

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Clara Lenoci Disturbo bipolare

«Vieni a mangiare il couscous stasera, sul terrazzo di Nabila? Lo prepara lei, proprio come lo fanno in Marocco. È andata a prendere la carne di montone al mercato, le spezie e le verdure adatte. Vieni, dai, ci divertiremo.» Chissà perché le era tornata alla mente quella storia. Era passato tanto tempo, eppure ricordava ogni particolare. Roberta non era molto convinta di potersi presentare senza che Nabila l'avesse invitata, non le sembrava per nulla conveniente. Non era così in confidenza da potersi presentare a casa sua. Allora Giovanna aveva insistito, rassicurandola; a Nabila piaceva creare queste situazioni conviviali. Lo faceva per distrarsi dal marito, un uomo volgare e prepotente, convinto di poter sottomettere la moglie trattandola con disprezzo, soprattutto davanti agli amici. Una becera dimostrazione di potere. «Nel dubbio, non ti sposare Roberta, guarda di che cosa sono capaci gli uomini...» Ma sapeva che la sua amica aveva altro per la testa e che sicuramente si sarebbe impegnata per disattendere il suo consiglio. Voleva un uomo, Roberta, o meglio, un uomo che potesse aiutarla a realizzare il sogno di avere un figlio. Se poi loro tre si fossero amati per tutta la vita, tanto meglio. La vita di Roberta era scandita da certezze. Con la laurea in lingue straniere aveva imparato tre lingue. Le era servito, abbandonata una sonnolenta città del Piemonte, per trovare lavoro in Costa Azzurra, e per viaggiare. Con lo sport si era conservata un corpo sodo e flessuoso, mentre la cultura l'aveva resa piacevolmente sicura di sé. Mancavano solo due tasselli alla sua esistenza: un compagno e un figlio. Gli amici rappresentavano lo sfogatoio al quale affidare la sua ansia. Non avrebbe fatto in tempo a trovarli entrambi, il compagno e il figlio, soprattutto. Quante volte Giovanna le aveva buttato un plaid sul divano, dicendole: «Ti puoi fermare a dormire se vuoi». Il figlio, i quarantatré anni e ancora sola. Non si trattava solo di quello. Disturbo bipolare, c'era di mezzo anche questo. Quella sera erano andate a cena da Nabila, avevano mangiato il couscous con le mani secondo la tradizione, e bevuto vino, riso, e bevuto ancora, finché Roberta sembrò stordita. Nabila teneva sulle ginocchia Stella, la sua bambina di sei anni. Erano molto dolci, si scambiavano continuamente tenerezze. In quella casa la loro presenza, il loro comportamento affettuoso, facevano pensare ai fiori che spuntano dal cemento ingentilendo lo spazio. Guardandole, Roberta aveva sentito il cuore spaccarsi e aveva iniziato a confidarsi con Nabila. Le aveva detto che il tempo era diventato come il mercurio, e lei cercava vanamente di prenderlo e infilarlo nella colonnina del termometro dal quale era uscito, ma il mercurio scappava da ogni parte, sfuggiva alla presa, beffardo. L'alcol le aveva dato alla testa. Era evidente che stava cercando una scappatoia ai suoi pensieri. Giovanna non se la sentì di lasciarla lì da sola, la vedeva troppo alterata. Avrebbe tirato fuori dall'armadio il plaid. Il divano era pronto ad accogliere la sua amica, come altre volte. Erano diventate amiche qualche anno prima a Montecarlo, quell'amicizia un po' solidale che si crea per scelta o per caso stando in un paese straniero. Si erano conosciute una sera. Roberta collaborava con un famoso giornalista italiano che organizzava "pizzate" per italiani all'estero. Riuniva attorno a un tavolo persone accomunate dal sentimento di nostalgia, dal desiderio di ricordare e raccontare. Pizza, birra e anche se da quelle parti non sapevano farlo, caffè. Il mare là fuori raccontava la sua storia e sembrava che alla fine anche loro, guardando la grande distesa d'acqua, si confidassero al mare. Finite le chiacchiere, il ritorno a casa era malinconico, ma c'era la voglia di rivedersi. Giovanna e Roberta si erano piaciute subito, a pelle, e avevano iniziato a frequentarsi. Roberta piaceva agli uomini, ma le storie che le erano capitate si erano rivelate senza futuro. Uomini sposati, relazioni strappate e ricucite più volte, finché la trama dei sentimenti si rivelava inconsistente. Nessun rapporto destinato a mantenersi nel tempo. Forse, nell'intimità della sua casa, mentre progettava un possibile futuro con loro, il maledetto disturbo bipolare veniva a galla. Quelli lo annusavano. Figurarsi, mettere al mondo un figlio... e scappavano. Capitava sempre più spesso che Roberta dormisse sul divano di Giovanna. Prendeva delle pastiglie per il disturbo bipolare. Avrebbero alleviato un po' la sofferenza, attenuando il male che provava quando andava a sbattere contro gli spigoli della vita. Giovanna si sentiva soffocare dalla presenza di Roberta. Non sapeva più come consolarla, come aiutarla, e l'angoscia del tempo che passava stava contagiando anche lei. A volte, al mattino presto, andava a

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camminare sulla riva del mare per ritrovare l'equilibrio. Poi tornava a casa, vedeva l'amica sdraiata sul divano e il mondo le crollava addosso. Roberta stava diventando ingombrante. Giovanna quasi si vergognava dei propri sentimenti, talvolta si detestava, ma era inevitabile. Roberta intontita dai sonniferi era un quadro che voleva rimuovere dalle pareti di casa. Lo pensava, eppure tutto rimaneva dentro. Ma la voce interiore continuava a urlare. Quel che è peggio, Roberta l'aveva sentita. Aveva capito. Roberta volle ritrovare certezze. I nuovi progetti per un po' avevano funzionato. Aveva cambiato appartamento, si era trasferita addirittura in Liguria, avvicinandosi alla sua gente. Aveva lasciato il vecchio lavoro e frequentava le nuove colleghe. Giovanna la vedeva di quando in quando, ascoltando le sue rivelazioni sugli uomini con cui usciva. Ricchi, distinti, abbronzati. Qualcuno era capitato nella lussuosa concessionaria di barche dove Roberta lavorava e, entrato per andare sul mare, si ritrovava sulla terra. In un ristorante elegante o nel letto di Roberta o, quando avevano bevuto troppo, sdraiati sulla spiaggia, lui con la camicia fuori dai pantaloni, svegliato dal verso di un gabbiano o dal pianto di Roberta. Si ricomponeva e andava via. Non sarebbe ritornato... L'estate era passata così e anche l'autunno. A quarantatré anni non ci sono molte estati o molti autunni per concepire un figlio. Stava arrivando l'inverno e in primavera sarebbero stati quarantaquattro. Quel maledetto mercurio scappato dal termometro! A causa del mercurio si era ammalata, il suo disturbo bipolare dipendeva da questo, ne era certa. Con l'inverno agli sgoccioli il sole aveva ripreso a scaldare. Giovanna si stava allacciando il parka, pronta a uscire per fare due passi. Le mancava l'ultimo capitolo di un libro intrigante e voleva gustarlo di fronte al mare. Innocenti tentativi di perfezionare una giornata, tutti ne hanno bisogno. Uno squillo di telefono. Dal display aveva riconosciuto il numero di Roberta. No, adesso no. La chiamo al rientro. Potremo cenare insieme. Le preparerò il couscous. Ci divertiremo a mangiarlo con le mani come ci ha insegnato Nabila, con un bel bicchiere di vino. Che sciocca, non ho vino in casa, devo ricordarmi di comprarlo al ritorno. Poi la chiamo. Se vuol fermarsi, il plaid è sempre pronto. Ma non era andata come previsto. Nel pomeriggio Giovanna aveva richiamato Roberta e il telefono era squillato a vuoto. Aveva riprovato con lo stesso risultato. Il Chianti era già sulla tavola apparecchiata e il couscous aspettava in frigorifero, coperto dalla pellicola trasparente. Delusa e inquieta, aveva acceso il televisore e aveva finito per addormentarsi sul divano. I suoni si sovrapposero fastidiosissimi: la sveglia e il telefono contemporaneamente, un'accozzaglia senza armonia. Districandosi dalla coperta e vincendo il disorientamento del risveglio bloccò la sveglia e riuscì a sollevare la cornetta. Era una collega di Roberta. «Ciao Giovanna. Roberta è lì? Non riusciamo a rintracciarla, c'è un cliente che l'aspetta. Ci aveva detto che sarebbe venuta da te.» «No, non l'ho vista.» Si vergognava a dire che Roberta aveva chiamato, ma lei non aveva voluto rispondere. E la vergogna stava diventando presentimento. «Mi spiace. Fatemi sapere.» Dopo un'ora aveva saputo. Una di quelle robuste corde che servono per ormeggiare, impedendo che il mare risucchi l'imbarcazione, aveva risucchiato la vita di Roberta. Se l'era stretta attorno al collo finché il respiro l'aveva abbandonata. Come succede ai gemelli, le cui sensazioni passano da un corpo all'altro, alla notizia del suicidio dell'amica Giovanna avvertì qualcosa che la stringeva e le impediva di deglutire. E continuò a sentirsi mancare il fiato, mentre passeggiava lungo la riva.

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Angela Lombardozzi Non ti scordar di me

Piove sulle case. Piove sui tetti delle case. Piove sulle antenne. Piove sopra gli uccelli che gridano l'ultimo sole. Piove sulla terra. Piove sui fiori sepolti e sulle foglie. Piove sulla croce. Piove sul fianco della chiesa. Piove sulle scale. Piove sul molo. Sulla riva del mare, piove, piove. Piove sugli occhi. Piove dagli occhi. Piovono lacrime. E non c'è consolazione. Lo vedi? È Giovanni. Sguardo serio, quasi assente, dietro i pensieri che non sai se sono buoni, se sono bui, oppure belli e solamente timidi. I capelli imbevuti di sale. Le braccia forti e tenaci, capaci di sollevare più lettini alla volta come se trasportassero rettangoli di tela senza legno. Il passo del guerriero sulla sabbia. Un passo deciso e ben distribuito, che sa dove andare, che sa cosa fare. Giovanni lavora per ore senza dire una parola, perché le parole non servono, sembra dire con gli occhi quando gli fai una domanda che va oltre il necessario. Buongiorno. Ciao. Grazie. Prego. A domani. Buonasera. Sillabe monotematiche accompagnate all'arsura. Giovanni ragazzo dai gesti muti e gentili, ha sogni di stelle marine che puoi facilmente intuire. Belli e possibili. La barba folta e rossiccia, lo sguardo accigliato, un mezzo sorriso rubato a un istante. La fossetta al centro del mento, tra i ciuffi ramati, ribelli. Giovanni. Se vuoi puoi vederlo arrivare al mattino, molto presto, quando il paese è ancora avvolto per metà dall'ultima ombra notturna. Gli short a righe sottili, aderenti sui fianchi, attrazione curiosa non solo di donne attempate col cane. Lui non si accorge, oppure fa finta di niente perché infastidito o imbarazzato, è per questo che forse quest'anno ha lasciato la barba più lunga. Con un cenno del capo saluta il giornalaio, prende un cappuccio senza cacao, legge svogliato una pagina della "Gazzetta", manda un messaggio a Lisa, la bella e sottile Lisa, che ha un modo così gentile di portare le mani alla bocca quando Giò le strizza un occhio d'intesa. Oltrepassato il ponte, fiancheggia l'ultimo tratto di case che come una corazza proteggono il promontorio dal mare, e senza scorgere alcuna premonizione passa veloce sotto l'insegna dei bagni NON TI SCORDAR DI ME, apre gli ombrelloni, sistema i lettini con una perfezione geometrica - millimetrici spazi indispensabili al passaggio -, pulisce e rastrella la sabbia, nuota fino alla punta sinistra del golfo, fa una doccia gelata e inizia a ricevere i primi bagnanti.

*** Lisa è poggiata al parapetto, osserva lo strapiombo che porta all'acqua, morbide onde schiumano vivaci contro la roccia. La linea all'orizzonte è nitida e spacca in due il cielo e il mare, senza dividerli. Un vento leggero scuote i rami del glicine poco distante. Partire o restare sembra dire con il corpo. Un piede saldato a terra e l'altro sulla punta pronto a ricominciare. Non importa da dove, da qui o da un'altra parte fa lo stesso, si può partire anche restando. Prima, però, occorre togliersi di dosso la morsa di questo dolore che come una tenaglia torce tutto il corpo. Attendere che diventi un piccolo spillo. A poche miglia dalla costa una nave da crociera si ferma, sul fianco è illuminata da luci colorate, sembrano stelle senza dimora, pensa Lisa facendo oscillare il corpo senza cadere. Vorrebbe accasciarsi al suolo, stendersi esile sull'asfalto, ma è tenuta salda e in equilibrio da una forza che le viene dal basso. Hai occhi grandi come la luna, le disse Giò una volta, mentre nuotavano insieme di notte. Rischiarano i miei pensieri bui. Uniti partirono in un abbraccio che sembrò lungo come un treno, un treno senza meta. Era così il loro stare insieme, un viaggio senza promesse e sulle spalle uno zaino pieno di sogni. Poi un giorno qualsiasi, senza preavviso, il viaggio si arresta. I gabbiani sopra la chiesa lanciano un grido simile a uno strazio, e iniziano a volteggiare in una danza macabra. A ovest il sole sparisce e appare un angelo con le ali nere e un lungo mantello di squame blu. È l'angelo del caos. Le dita dei piedi sono artigli. A guardarlo bene sembra un'aquila. Atterra sul dorso e strappa la carne. Porta via gli abbracci, i silenzi, i baci, le stelle e tutte le lune che devono ancora arrivare. Cancella la luce dei sogni e lascia un vuoto buio da ricostruire. È l'angelo della beffa. Finito il lavoro si apre in tutta la sua ampiezza, smuove l'aria in rotondi e polverosi vortici, si stacca dal suolo soddisfatto, e vola via col ghigno del sazio. Lisa inclina la testa e abbozza un sorriso dolce e malinconico. Oh Giò! Quale sorte consumava per te l'abbraccio del mare? Una lacrima scivola sulla guancia e vola via. Evapora, come tutte le cose sopra questa terra. Lungo il promontorio e sulla superficie dell'acqua una grande ombra lascia indelebile la sua orma. Giovanni non c'è più. Nell'abisso di un mare tremendamente bello ha emesso il suo ultimo respiro. Sul pergolato il glicine fiorisce, la nave spegne le luci e lancia decisa il suono vivace della sirena.

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*** Il cielo questa sera è di una bellezza che trattiene il fiato sullo sterno. Bello questo dolore. È lieve come un'onda. Il respiro ha il ritmo giusto, lungo e profondo, anche se il nodo sullo sterno non si scioglie. Da tempo, un tempo che non so definire, vivo l'arrivo di una gioia assieme all'idea della sua fine. Questa sensazione mi commuove. Sento pungere e stringere al centro del petto. A volte piango. Di felicità e di tristezza insieme. Resisto. Ieri notte ho fatto un sogno, credo fosse a occhi chiusi, qualcuno mi chiedeva: «Come stai?» «Come chi sta dentro un uovo.» «E come si sta nell'uovo?» «In attesa.» «In attesa di cosa?» «Sto aspettando di rompere il guscio…» La schiena era inarcata sulla curva dell'uovo, le gambe piegate in posizione fetale. Attendevo il momento. Quando è arrivato, ho allungato un braccio, picchiettato il guscio con un dito, raschiato, e di nuovo picchiettato. Non senza fatica. Poi con la nocca dell'indice della mano destra ho creato la prima piccola crepa, ho sollevato il dito e con una pressione impercettibile ho aperto il primo foro. La luce era immensa fuori. Argento turchese sugli occhi.

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Fortunata Loviso La carezza

Ecco è di nuovo giorno. Ma che giorno è? Dunque vediamo… ah… lunedì. Non ho nulla contro i lunedì a parte il fatto che inizia una settimana di lavoro, una delle tante, ormai così faticose. Sarà il momento storico, sarà che le cose cambiano, onestamente oggi si fa più fatica. Durante la giornata, man mano che passano le ore, è sempre più difficile arrivare alla sera. Il mattino, però, è sempre stato il mio momento magico. Il momento in cui sento di avere energia e di poter affrontare le difficoltà e poi… In questo lunedì c'è qualcosa di diverso nell'aria. Prima di estrarre le gambe dalla coperta e mettere giù i piedi, un'immagine mi occupa la mente: una mano maschile mi sfiora la guancia. Un gesto semplice al quale è difficile dare un significato, ma che ha creato un collegamento, una sottile vibrazione si è incastonata indelebilmente nella mente. Sono sensazioni alle quali ci si potrebbe lasciare andare se non fosse lì, pronta, la razionalità a calmierarci. Mi pento ogni volta che non riesco a resistere al richiamo della razionalità. Peccato. Il tipo conosciuto in campeggio quest'estate, l'ho già rincontrato, è proprio carino. Una visita culturale a una mostra d’arte, una cenetta in un ristorantino etnico e poi... poi quattro chiacchiere e alla fine... quella carezza. Oggi fa freddo, ma non piove, meno male. Nell'armadio scelgo il vestito più adatto al mio umore. Passando camicette, maglioni e pantaloni, vedo una maglietta forse un po' troppo leggera, un po' troppo aderente per essere usata in ufficio, ma del colore perfetto abbinato alla mia pelle. Ho deciso, è la maglietta adatta al prossimo incontro. La giornata scorre fra alti e bassi, mi sembra di avere qualche freccia in più al mio arco, un alito di energia e un po' di buonumore. Mi sento ispirata e mi lancio a fare quattro chiacchiere perfino con la collega alla quale so di non piacere. Finalmente è sera, una spesa veloce al supermercato all'angolo per acquistare le quattro cose che mi mancano. Mentre preparo la cena non ascolto il notiziario, ascolto un cd di jazz, la mia musica preferita. Mi preparo al piacere del palato con il piacere dell'ascolto. Prima di addormentarmi leggo sempre. Ho in sospeso almeno quattro libri che leggo contemporaneamente, un saggio, due romanzi e un testo di studio. Scelgo senza indugio il romanzo, racconta una storia d'amore e lo divoro fin quasi alla fine. Crollo in un sonno profondo. Adoro l'attimo prima del crollo in cui pregusto il sottile piacere di sprofondare nell'incoscienza del sonno. La settimana prosegue. Ogni giorno, pur essendo diverso, irrepetibile, scandisce in modo costante e ripetitivo la mia esistenza. Ecco, arriva venerdì. L'appuntamento è davanti alla chiesa di S. Lorenzo. Lui non è di Milano, ma sa dov'è, e lì vicino ci sono alcuni bar carini dove possiamo prendere l'aperitivo. Ci vado in tram e per tutto il percorso mi sento addosso i brividi. La temperatura è invernale e la famosa maglietta adatta alla serata non mi copre abbastanza, è stretta, a ogni movimento sento la pelle che viene sollecitata dal tessuto un po' ruvido. Lui è già lì. Curato ma non elegante. Direi che veste sportivo. Sospetto che abbia scelto gli abiti in modo da valorizzare i suoi aspetti positivi. Be', ci sa fare, quanto meno su di me fa colpo. Ci salutiamo in modo formale. È chiaro che nessuno di noi ha voglia di lasciarsi andare, almeno per il momento. Per superare l'imbarazzo, propongo subito l'aperitivo. Nel bar ci accomodiamo a un tavolo apparecchiato con candele galleggianti e fiori freschi. Finalmente possiamo liberarci dei pesanti giacconi e rilassarci. Lui per me è ancora uno sconosciuto, ogni particolare che mi rivela della sua vita costituisce la tessera di un mosaico. E pian piano prende forma. Io faccio altrettanto con lui, e non riesco a capire se desidero di più comunicare o conoscerlo. Le parole scorrono velocemente, anche se entrambi sappiamo che la fretta è l'unico ingrediente inutile perché il fluido magnetico che ci mette in connessione ha bisogno di lentezza. Entrambi non ci preoccupiamo del tempo che passa. I nostri sguardi si incrociano raramente. È un patto segreto di "non belligeranza", perché ogni sguardo richiama la carezza leggera che ha avvicinato i nostri sensi. Vogliamo aspettare. Lo abbiamo deciso senza dirlo. Dopo l'aperitivo, ci starebbe la cena, ma chi ha fame? Propongo allora un locale dove si ascolta musica, jazz ovviamente. Durante il tragitto in auto restiamo muti. Solo frasi tecniche: Gira a destra, dritto fino al semaforo... Forse sono i giacconi che creano una barriera al fluido magnetico, ma appena entrati al Blue note riprendiamo il nostro viaggio verso la meta sconosciuta che ognuno di noi ha in mente. Le note musicali sono onde d'acqua e noi, pesci fluttuanti, ci facciamo cullare e con il nostro musetto curioso

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vaghiamo qua e là nella vasca a noi dedicata. Il resto del mondo è altro da noi, esterno. Arriva il momento in cui restiamo senza parole con lo sguardo dell'uno incastrato in quello dell'altra, ed ecco parte la carezza leggera. È esattamente come la ricordavo. Io la riconosco proprio come se fossimo già amanti. Non c'è bisogno di dire sì o no. I gesti e le parole seguono un copione già scritto fin dalla notte dei tempi. Tutto il resto è da costruire, se lo vorremo, ma non dobbiamo pensarci, ora non c'è fretta. Non ci sarebbe fretta anche se avessimo trent'anni. A sessanta ce n'è ancora meno, perché la vita... quel che è stato è stato, e non potevamo chiedere di meglio.

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Chiara Olivero Triptychon

Aveva la sensazione che ciò che le stava accadendo l'avrebbe cambiata per sempre. Avrebbe cambiato il suo modo di vedere le cose e affrontare la vita. Anche il modo di presentarsi agli altri, inconsapevolmente, sarebbe a poco a poco mutato. Non sarebbe stata più la donna che tutti conoscevano, dal sorriso accogliente e materno: il volto avrebbe assunto un'espressione diversa, gli occhi lo specchio del suo stato d'animo. Il marito e i figli, alle prese con i loro problemi adolescenziali, si sarebbero accorti della sua metamorfosi? Apertura, sensibilità, capacità di ascolto e di comprendere l'altro, anche solo attraverso uno sguardo, erano requisiti indispensabili per la professione che svolgeva con successo da anni. Era sempre riuscita a trovare la chiave giusta per aprire le serrature e, quando necessario, sfondare le porte, anche quelle chiuse a doppia mandata, ed entrare in empatia con l'altro. Ora sentiva che non sarebbe stata più in grado di ascoltare chi aveva di fronte, di aiutare ad affrontare i problemi, dispensare consigli, infondere forza e fiducia nel futuro. Si sentiva imprigionata, come un corpo XL in una taglia XS. Le parole che giungevano con veemenza e incuria alle sue orecchie non erano che suoni vuoti, privi di significato. Gliele vomitavano addosso. Totalmente disinteressati al suo stato fisico e mentale. Quello era il suo lavoro, ripeteva a se stessa, ai suoi pazienti non doveva interessare come lei si sentisse. Durante le sedute non faceva altro che annuire con la testa. Ogni tanto tentava di inserirsi nel discorso per dire qualcosa, agganciandosi all'ultima parola ascoltata. Per restare a galla, praticava l'arte della simulazione: si arrampicava tenendosi ben stretta a quelle sillabe che man mano componevano le parole, poi cadeva, scivolava giù, negli abissi. Sullo sfondo i rintocchi di un vecchio orologio a pendolo, immobile e sempre uguale a se stesso, che a ogni ora le ricordava che l'appuntamento era terminato. Così congedava il paziente di turno: «Ci vediamo la settimana prossima. Sempre mercoledì, alle 19.» «Grazie dottoressa. Buonasera.» Poco dopo, la soffice poltrona di pelle nera ancora tepida avrebbe accolto un altro corpo. Un'altra storia.

*** Ogni sera A. usciva dal lavoro piuttosto tardi, all’incirca alla stessa ora. Quasi tutti gli appuntamenti si concentravano verso la fine della giornata: il suo lavoro cominciava quando terminava quello degli altri. Dopo aver fatto uno spuntino al bar, si avviò alla fermata, indecisa se scegliere il metrò o il tram, pochi metri più in là. Escluse il taxi perché sarebbe tornata a casa prima, ma non aveva voglia di rientrare. Optò per il tram che stava arrivando. Se l'avesse perso avrebbe dovuto aspettare mezz'ora prima del prossimo. Lo prese al volo. Riuscì anche a trovare un posto: a quell'ora i mezzi pubblici non erano affollati. La maggior parte delle persone stava insieme alla famiglia, nel tepore delle loro abitazioni. Amava viaggiare in tram: poteva osservare il mondo dal finestrino, un osservatorio protetto dallo schermo dei vetri. Affascinata dalla città di notte. Sotto il suo manto tutto si trasformava, si nascondeva o veniva allo scoperto. Era l'unico momento della sua giornata per guardare con attenzione fuori. E dentro di sé. Alcuni giovani davanti a un locale, con un drink in mano, si scrollano di dosso la stanchezza e allontanano la malinconia. Una donna in pelliccia di visone esce da un hotel, seguita dal concierge con un set di valige, l'uomo è pronto ad assecondare ogni esigenza o necessità della donna. Dall'altra parte della strada due tizi, stesi per terra sotto dei cartoni per rifugio, chissà se avrebbero rivisto la luce del sole. A. provava uno strano sentimento di invidia e ammirazione per individui che ai suoi occhi erano liberi e avevano scelto quella vita, mentre lei si sentiva intrappolata in un'esistenza ormai estranea. Dopo alcune fermate il tram si addentra nella periferia, e comincia a prendere vita. Sale un capannello di persone rumorose. Sono dei cinesi, anche se parlano normalmente nelle loro voci stridule sembrano litigare. Poi appare una gang, sono ragazzini che si appendono alle sbarre come scimmie e volteggiano fra i sedili. Una coppia sta litigando, indifferente allo spettacolo. Basta. A. non sopportava più di stare in mezzo alla gente. Scese dal tram prima di arrivare a destinazione, preferendo percorrere l'ultimo tratto di strada a piedi. Tirò su la zip del piumino, avvolgendosi al collo la sciarpa di cachemire, un regalo del marito quando si amavano

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ancora. Se non fosse stato per il freddo che le tirava la pelle delle guance, avrebbe pensato di essere morta. Trasparente, invisibile per i rari passanti notturni che la sfioravano, non degnandola di uno sguardo. Forse sono morta davvero. Rallenta il passo e appoggia una mano sulla giugulare per sentire se il cuore pulsa. Il battito c'è ... è viva. Lo sarebbe stata anche per la sua famiglia?

*** Quando A. entrò nell'appartamento erano le 22.30. Henry, il figlio piccolo, stava in soggiorno con due amici, gli occhi incollati alla tv guardando la partita in religioso silenzio, rotto dal rumore delle mandibole che sgranocchiavano patatine, pop-corn e schifezze del genere. Ma d'un tratto la stanza echeggiava di grida di gioia o di delusione, accompagnate da espressioni poco eleganti. Paula, la più grande, era in camera sua, con la porta semiaperta. Al telefono con un'amica, le raccontava di aver conosciuto un ragazzo molto carino e mentre chiacchierava chattava su un social network. La figlia le fece un cenno e riprese a battere le dita sulla tastiera. Trovò il marito rintanato nello studio davanti al suo portatile. «Ciao, George.» Non le rispose mentre una voce di donna filtrava dalla cornetta, era la suocera che si lamentava sempre con il figlio, perché lei non era una brava moglie, una brava moglie non deve tornare a casa così tardi. Erano isole. Bagnate dallo stesso mare. Scoraggiata dal quadro che si era trovata di fronte, decise di rinunciare al bagno caldo e farsi una doccia veloce, subito dopo si sarebbe coricata. Prima, però, si recò in cucina. Aprì la dispensa e posò lo sguardo su una bottiglia di brandy. Si riempì un bicchiere e sorseggiò lentamente, a occhi chiusi, inspirando il profumo dell'alcol dalle narici. Riaprì gli occhi e fissò meravigliata una fila di formiche, che prendevano d'assalto delle briciole sotto il tavolo. Si sentiva come quelle briciole sul pavimento. Schiacciata e assediata. Poggiò il bicchiere vuoto nel lavandino, salutò tutti con un sonoro «Buonanotte» cui non ebbe risposta. Le piaceva la compagnia di un libro prima di addormentarsi, ma adesso non aveva nessuna voglia di altre storie.

*** Non penso a niente. Desidero soltanto spogliarmi e infilarmi sotto le coperte più in fretta possibile. A. spense la luce della lampada e si abbandonò all'abbraccio della notte che amava.

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Cristina Onofri Cocci sparsi

Buio Com'è bello poter scendere nell'oscurità, poter chiudere gli occhi e sparire dal mondo. Cadere, lasciarsi cadere, in quella tenebra senza forma… senza spazio… senza tempo. Scendo nell'abisso con passo leggero, quasi volando, con un battito di ciglia. Buio, tu comprendi tutto e custodisci nel profondo, nella notte interna, i tesori degli uomini: i loro occhi ardenti, una volta chiusi, tu sai abbracciare. E le vuote apparenze dissolvi, e ridai la pace. Un universo parallelo, un vuoto estatico, lì ci ritroveremo. Senza sapere di essere vicini, saremo insieme a occhi chiusi, nella stanza profonda. Dentro il mare nero già nuotiamo e ci confondiamo. Riaprirò gli occhi poi, e vedrò una luce diversa, più pallida. E velate tutte le cose, quasi lontane e separate dal mio sguardo, ormai freddo, da una nebbia leggera. Saprò camminare, e non avrò dolore. Ora so che posso tornare. Richiuderò gli occhi che bruciano e nell'ombra del tuo abbraccio si scioglieranno tutte le pene. I miei tormenti sono solo scarabocchi cancellati, nel soffuso e tenue chiarore che irradia dal cuore segreto del tuo oscuro e invisibile colore. L'alba Cammino sulla riva del mare, ma so che sto solo sognando e in questo sogno tu ci sei. Sei accanto a me, cammini al mio fianco, anche se sei invisibile. Vedo i tuoi occhi splendenti dentro le onde che corrono, corrono. E poi ritornano piano alla riva, docili lambiscono i miei piedi nudi, con le molte lingue. La sabbia grigia è un grande schermo splendente, un quadrante dove si riflette il tuo volto, sorridente. Non so chi sei, ma penso a te ogni giorno, da quando ho coscienza di esistere, separato dal mondo. Sento che questo mare ci divide e ci unisce e che un giorno ci incontreremo, tu che sei un altro me che abita oltre tanta acqua. Ma so anche che sto solo sognando. Questo mare non c'è. E neppure io che sto camminando sono mai esistito. Posso svegliarmi quando voglio da questo sogno e rapidamente lasciarmi cadere in un altro, fino a diventare finalmente te, che mi osservi dal profondo del mare, dal profondo dei miei sogni. In tram Ho attraversato la notte in tram e mi parevano le strade uguali a tante altre, non avevano poesia ma solo case accanto, e fuori pioveva, quella pioggia leggera che pare inesistente, eppure t'inzuppa fino all'osso, più che l'altra, quella allegra, cadenzata. Ero così lontano ormai dalle solite vie. Poi è salita una donna. Ero io. Mi sono accorto che avevo dimenticato quel corpo e quelle mani e le guance arrossate. Non ho detto nulla. Aspettavo un cenno, un segnale, da parte di lei. Ma non era sola, aveva qualcuno accanto che non vedevo. Qualcuno che era invisibile. Mi sono tanto incuriosito di lui, che ormai aveva preso il mio posto. Chi era, e perché lei non mi aveva detto nulla? Chi le sedeva accanto ora e dolcemente le sussurrava parole tenere, tenendo quelle piccole mani, strette tra le sue? Una via di fuga Stringevo sempre più forte le tue mani, ma erano fredde. Un manichino sembravi e tante volte provavo e riprovavo il tuo abbraccio, sforzandomi di sentirmi ancora una sola cosa con te, ma tu non eri più lì, nel tuo corpo. O forse non c'ero più io. Ero tornato dentro, mi ero tuffato in me? O ero altrove, fuori, in cerca di te...

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Avevo rinunciato subito alla conoscenza e mi accontentavo della superficie vitrea, che non potevo nemmeno scalfire e mi respingeva, sempre. Un muro trasparente, come d'acqua, ma invalicabile, che cela un nocciolo segreto e irraggiungibile. Qualcosa che noi siamo in una dimensione altra, ma non riusciamo a ricordare, o lo potremmo essere, ma abbiamo rinunciato a crederci, tanto siamo deboli ormai, nella forza del nostro desiderio. In una camera straniera Qualcosa si era mosso e ora non potevo più controllare la piena del dolore che saliva dal profondo. Ricordavo tutto: che avevo sofferto e soffrivo ancora, senza saperlo. Forse per colpa mia. Ero stato scosso dai tremiti e dai singhiozzi, e poi finalmente mi ero calmato, con un grande sforzo di volontà avevo arginato le lacrime. Ero tornato impassibile. Liscio come un manichino, una forma perfetta di legno levigato. Poi mi sono disteso in quella camera, dove alcuni di voi andavano e venivano, e ho ascoltato a lungo le vostre voci che si tuffavano in me come onde e salivano e scendevano. Erano un oceano di suoni, ma non c'erano solo suoni. Tutte le cose, i pensieri, le emozioni e i sentimenti, tutto ciò che di umano e disumano esisteva nell'Universo e oltre, tutte le forme materiali e spirituali, appartenenti a tutti e a nessuno, galleggiavano in quel mare immenso di luce, erano salite tutte alla superficie e ora erano evidenti contemporaneamente al mio sguardo. Splendide e reali, incastonate le une nelle altre, eppure singole, si spostavano, danzavano. Si trasformavano senza dolore e mantenendo la loro unicità. Ricordo… Odo gli schianti, le voci lontane. Vengono piegate e riposte le ultime bancarelle. Oltre il parco dove mi sono seduto a riposare, sul bordo di un'aiuola, sotto un grande albero. Sono qualcuno che si è fermato. Cade su di me la polvere di millenni e lascio che cada. Sorrido e osservo come il sole si prende gioco di quella polvere e delle ultime foglie d'autunno, spezzate, che si sbriciolano al vento. Una vecchia ho incontrato, venendo verso questi alberi. Penso a lei mentre il pulviscolo dorato riempie e confonde la mia vista. Non c'è altro che luce nei miei occhi. Quella donna anziana voleva leggere la mia mano. È venuta a me, imponente, vestita con abiti colorati e sfavillanti che trasfigurati dal sole apparivano bellissimi. Aveva lunghissimi capelli grigi che contro il tramonto diventavano biondi, arrotolati in molte trecce e anche disciolti. Era una statua di luce, un'apparizione… lei che mi ha sorriso e mi ha detto: qualcuno che ti ama c'è! Lo vedo chiaramente. Il sole ora è appena tramontato. Tutto l'incantesimo è svanito, tanto che pare non sia mai esistito. Il grande mercato si è sciolto e quel che ne resta assomiglia a un circo spento. Le luci e i colori accesi sono scomparsi, inghiottiti dalle ombre. Rimangono poche tracce indecenti e sudice, ai margini delle vie e sul grande piazzale di cemento scuro: domani gli spazzini lavoreranno e non resterà alcun segno. Ma ora il vento gelido scompiglia le carte e i cartoni, un vento che è una voce di solitudine, ma fa compagnia e consola. Seduto per terra sono rimasto a guardare mentre gli ultimi uomini si allontanavano. E ora resto qui, accanto alle rovine, vicino alle cassette di frutta abbandonate... Eppure sono in pace, perché non cerco più di trattenere un'idea. Un sogno. Ho rinunciato ai miei strani disegni, su un vetro sempre più appannato e distorto. Verso sera La nonna mi portava con sé nelle sue passeggiate dopo il tramonto. Ci lasciavamo avvolgere dolcemente dall'oscurità che scendeva intorno, ovunque. Facevamo il giro dell'isolato e arrivavamo fino al grande orologio rotondo, sospeso come un fiore luminoso sul suo gambo liscio e diritto, di metallo scuro. Lì ci fermavamo e la nonna, senza spezzare l'incantesimo del silenzio animato dal vento, mi indicava la lancetta dei secondi, per farmi contemplare come lenta e inesorabile tracciava il suo percorso circolare fino al punto di partenza. Ogni volta, osservandola mentre si muoveva a scatti, temevo che potesse non ritornare, che potesse deviare in qualche modo, per altre vie… In un altro quadrante, forse di un orologio identico, su un altro pianeta! Ma la lancetta ritornava sempre al punto sacro da dove era partita, e io mi sentivo colmo di pace, come se la

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lotta tra le cose future e le cose passate per sempre si fosse placata. Il tempo ritorna su di sé. Si allontana da noi, fugge lontano e poi un giorno, o una sera, improvvisamente ritorna. Quello che ci appartiene sempre riaffiorerà, dal profondo. Ma ciò che non siamo… cade, cade. La notte Hai tanti pezzi in giro, troppi cocci, possibile che non te ne accorgi? Tu mi attaccavi furente, in sogno. Non ci conosciamo nemmeno, nella vita! Mi passi accanto in silenzio, abiti sull'altro pianerottolo. Perché in sogno mi dici queste cose? Perché ti sei accorta che la nostra vita è fatta solo di frammenti, disuguali e scostanti. Piccoli sprazzi di luce in un mare di vuoto, ci illudiamo della continuità, perché non vediamo le lacune. L'amore Tenevo la tua mano calda, le tue dita delicate, sul mio petto. Sento ancora la tua mano ardente, nella mia, ma è stato un sogno. Tu non eri. L'ultimo giorno, inondato di luce Poi improvvisamente è saltato fuori questo caldo giorno di primavera, subito dopo Natale. Così luminoso e intenso che sembrava un dono. Un dono del soprannaturale. Avevo deciso che avrei camminato quel pomeriggio, che avrei attraversato tutte le vie, fino al confine del nulla. Fino all'Assoluto. E così sono partito, ma lentamente scendeva la sera e mi sono ritrovato in una notte fredda e lontano dalle solite vie. Avevo perduto l'orientamento. L'ultima notte, al freddo I tram danzavano nell'oscurità della pioggia. I riflessi scivolavano dentro le gocce nere. Ero divenuto nulla, irrilevante, tutto ciò che mi aveva dato corpo si era dileguato ed era tornato all'origine. Nessuno abitava più in me, finalmente scisso e disperso in mille frammenti, in tutte le onde sonore delle più piccole cose, e nel loro riverbero, che mi attraversava... non era rimasto che il loro incessante flusso e riflusso. Ho sofferto davvero? Ho sofferto abbastanza? O ho solo sognato di soffrire e in realtà non provavo nulla? Sento ancora la tua mano calda, nella mia, ma è stato un sogno. Tu non eri. Quando alla fine mi sono svegliato nel cuore della notte mi sono finalmente accorto che era pieno giorno e che non avevo dormito affatto, che non avevo dormito mai. E lei era lì, silenziosa, graziosa, assente ma sempre presente, nella piazza assolata, accanto a me. Era una statua addormentata e vigile, un angelo che aveva vegliato me, per tutto il tempo.

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Alessio Pedroletti Mary & Matthew

Il sole splendeva sullo stato di irritazione di due giovani fidanzati. Mary e Matthew, entrambi ventitreenni, insieme dal liceo, riconosciuti come una coppia affiatata nonostante alcuni problemi. «Vuoi per caso prendermi in giro?!» Le urla si sentivano su tutto il pianerottolo. Matthew aveva rivolto a Mary queste parole, dopo che lei gli aveva spiegato certe cose accadute nelle ultime settimane, dicendogli che lo avrebbe lasciato. «Non ti sto prendendo in giro. È finita, non può continuare così, non ce la faccio più!» Alla fine lei aprì la porta di casa. Lui si appoggiò al muro coprendosi con la mano destra la faccia. Mary uscì e andò verso la casa dei genitori. Matthew non riuscì a far altro che urlare il nome di lei: Mary! Persi i contatti, non si videro più. Sia lui che lei erano addolorati dalla decisione presa. Tutt'e due credevano di ricevere almeno una telefonata dall'altro. Niente. Nessuno dei due ebbe il coraggio, finché persero anche le speranze. Qualche anno dopo...

*** Mary stava girando per negozi. Aveva deciso di comprare degli abiti per l'inverno. Era così felice di essersi riservata del tempo per se stessa, per riscaldarsi durante l'inverno grazie al lavoro svolto negli ultimi mesi. Nella metropoli in cui si trovava la gente riempiva le strade per lanciarsi nei negozi. IL PRIMO CHE ARRIVA PRENDE IL PIÙ BELLO: sembrava quella la mentalità delle persone. Come se stessero facendo una maratona, mancava soltanto l'arbitro col fischietto a indicare il vincitore. Infatti! Ahi... Spinta da un ragazzo, Mary si ritrovò per terra. Anche il ragazzo cadde. Lei lo sapeva. Ogni volta è così, nessuno guarda dove mette i piedi e poi ecco, tutti giù per terra. Non riusciva a vedere il volto del ragazzo perché era caduto dalla parte opposta e quindi le stava dando le spalle. Anche a terra mi danno le spalle, pensò Mary, scuotendo la testa. Rialzatosi, il ragazzo disse a voce alta: «Oh mi dispiace, spero non si sia fatta male.» Era una voce familiare. Era un così dolce richiamo. «No, tranquillo» rispose nonostante pensasse, che imbranato! Le porse la mano per aiutarla a rialzarsi. Mary la prese e si trovò faccia a faccia con lo sconosciuto. Incrociarono gli sguardi e per alcuni secondi nessuno parlò. Si guardavano negli occhi senza distogliere lo sguardo un attimo. Era inevitabile visto che si trattava di Matthew, il ragazzo che per diverso tempo l'aveva amata. «Ciao Mary!» Le fece un dolce sorriso. Il cuore batteva a tutte e due, a rischio di infarto. «Matthew!» Non avrebbe mai creduto di poterlo incontrare lì, a gironzolare tra i negozi. Ma anche lui si doveva vestire. «Posso offrirti da bere?» le domandò. «Solo perché si gela qui fuori!» Erano due ghiaccioli. Le mani avevano perso sensibilità. Matthew le teneva in tasca giocherellando con la carta delle caramelle e Mary se le stava sfregando come fosse la lampada di Aladino. Entrarono in un bar vicino. Si sedettero al tavolino più nascosto, dietro a una colonna. Nessuno da fuori poteva vederli. Eccetto il barista. «Posso prepararvi qualcosa di caldo?» chiese a loro con in mano il blocchetto. «Per me una cioccolata!» rispose Mary. Anche Matthew ordinò una cioccolata. Entrambi sorridevano. Rivedersi dopo anni in quel modo era molto buffo. Si raccontarono quello che avevano fatto nel tempo della loro lontananza. Durante la conversazione non poterono non ricordare quello che avevano passato insieme. Allora stavano bene ed erano sempre uniti. Tutte le decisioni prese all'unisono: tutti per uno, uno per tutti! A dividerli fu una lite, quella che ti ho scritto all'inizio del racconto, caro lettore. Ti ricordi? Non ho spiegato per cosa stessero bisticciando e quindi lo dico ora. A causa dei loro genitori. Perché si

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volevano sposare, ma i genitori cercavano di convincerli a non farlo per non sborsare i soldi. Matthew parlava male dei genitori di lei e Mary, per la stessa ragione, dei genitori di lui. Insomma, erano riusciti a realizzare quel che desideravano i loro familiari. Così, a causa di una stupidata erano rimasti separati per anni.

*** Ora hanno scoperto che nessuno di loro ha messo su famiglia e non hanno nessun altro nella loro vita. Matthew le chiede di fare una passeggiata, hanno ancora un po' di tempo a disposizione. Percorrono un sentiero. È innevato nonostante siano giorni che fiocchi di neve non scendono più dal cielo. Lui le fa notare la bellezza della natura. Purtroppo sono pochi i giardini nella metropoli. Per questo ha scelto di portarla su questo sentiero del parco. Sono davvero contenti come se fossero al loro primo appuntamento. Scherzano e giocano come ai vecchi tempi. Fino a giocare a rincorrersi. «Ce l’hai!» «No, ce l'hai tu!» Mary ride. E scappa. «Va bene, l'hai voluto!» Matthew fa uno scatto e la raggiunge. La prende e cadono sulla neve, uno sull'altra. Si guardano negli occhi sorridenti. «Sei sempre rimasta nel mio cuore. In questo periodo ho fatto di tutto per maturare e avere i soldi per tornare da te!» «E se nel frattempo mi fossi sposata?» Gli accarezza il viso. Sono sempre nella stessa posizione, sdraiati sulla neve. «Sapevo che avrei corso questo rischio! Spero che ne sia valsa la pena.» Lei lo bacia e lui contraccambia. Sono di nuovo insieme. È bastata qualche oretta a parlare, cercando di dimenticare gli errori passati. Qualche mese dopo sono fidanzati. E dopo un anno, eccoli sposati nel luogo che hanno sempre sognato, un giardino. I genitori non hanno dovuto sborsare nulla, a parte una busta con cinquanta penny. Che tirchi! Be', almeno sono tornati insieme e i loro parenti hanno perso la scommessa. Il vero amore ha vinto!

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Luca Petucco Spalle al muro

A pranzo mangio gli avanzi della sera. Quello che capita, di solito compro un panino e lo riempio di quel che c'è. Ho la mia bella borsetta termica che porto al lavoro, blu con la cerniera gialla, ha due comparti interni per dividere le posate dai contenitori del cibo. È proprio bellissima. So sempre cosa c'è dentro, ma in ufficio la apro lentamente, in modo teatrale, e dico: «Bene, bene, vediamo cosa c'è di buono oggi». Nessuno sa che da mesi lei non prepara il pranzo al marito. Ma è meglio che nessuno lo sappia, troppe domande a cui rispondere. Il dolore è ancora lì. Avevo un piccolo dubbio che qualcosa non andasse, ma non mi rendevo conto della dimensione della cosa. Era diventato qualcosa di devastante. Al punto di non poter fare più nulla. Fino alla rottura. Ero come un cane a cui applicano il collare di plastica per non grattarsi, passeggiavo tranquillo, facevo i miei bisogni, senza vedere cosa succedeva intorno. Guardavo soltanto davanti.

*** La camera è buia a sufficienza, dalla tapparella traspare una piccola luce, proveniente dal lampione in strada. Anche oggi è stata una giornata faticosa, cinquecento chilometri in macchina per non concludere praticamente nulla. Ma fa parte del mio lavoro, i clienti vanno mantenuti anche se comprano sempre meno. La crisi, dicono. La Cina. Ci sentiamo appena c'è qualcosa. In ufficio non l'hanno presa bene, ma vadano a quel paese. «A che pensi?» «Nulla. Al lavoro...» Silenzio. È il massimo della nostra conversazione serale, poi il suo viso s'illumina della luce bianca dei sei pollici di schermo. E si eclissa, dice su Facebook.

*** Mi guarda, lo so, anche se siamo al buio sento il suo sguardo indagatore. Vorrebbe avvicinarsi e abbracciarmi, lo so, ma metto il muro, non me la sento di affiancarlo in un momento di evasione fisica che non ammette sentimenti diversi da quelli provati nell'istante del piacere. Ho voglia di altro, ho bisogno di altro. Prendo il cellulare dal comodino e mi collego per vedere cosa dicono gli altri, leggo qua e là, ma sono troppo stanca e sento che mi si chiudono gli occhi. Meglio lasciarsi andare al sonno, almeno non mi devo mettere alla prova.

*** È domenica. Domenica mi regalo il solito giro. Non sono ancora abituato alla solitudine, ma comincio a starci bene. Forse mi compro un cane. Sono dentro l'enorme centro commerciale, seduto nel ristorante pseudo americano, la cameriera mi conosce. Mi potrei definire un cliente abituale, non ho neanche bisogno di ordinare. Arriva fumante la mia bistecca al sangue con patatine e con la salsa della casa, ho chiesto più volte cosa diavolo fosse, ma si nascondono dietro il segreto professionale. Maionese di sicuro. E spezie varie con qualcosa che fa prendere un colore rosa scuro. Birra di frumento, caffè e limoncino offerto. Poi rimango una mezz'ora a gustarmi la visuale. Un mare di individui con le loro vite mi scorre davanti, la vetrata del ristorante dà proprio sul corridoio centrale. Persone che sono qui per riempire il tempo, fanno compere, i bambini sembrano felici di scorrazzare e salire sulle giostre. Pensare che fuori c'è il sole, ma sembra che non si possa fare a meno di entrare nel grande centro commerciale. Io ci vengo perché la carne è buona.

*** Il giorno in cui ci siamo separati, quando ce lo siamo detti, è stato uno dei più tristi della mia vita. Non per il fatto in se stesso. Era ormai inevitabile. L'atmosfera mi deprimeva, sembrava la scena di un film scadente, girato con pochi soldi. E attori incapaci,

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dei dilettanti. Il solito copione, visto e stravisto. Lei esce di casa con la sua roba. Non so perché ci siamo concessi anche questo male. Avrebbe potuto andarsene senza che fossi in casa, non sbattendo la porta in faccia a nessuno. Invece abbiamo preferito fare una cosa da amici, quello che una coppia non deve mai essere. Complici sì, ma amici mai.

*** Quante volte nell'ultimo anno ho rivisto il momento, le parole, i gesti, le lacrime. Adesso guardo la porta, come sempre ho una sacco di cose tra le mani e nella testa, valanghe di pensieri che prendono piede nella consapevolezza che sto chiudendo per sempre qualcosa in cui ho investito tutta me stessa. Il progetto della mia vita, il più importante e sono qui con la valigia che trascino a fatica e il fazzoletto umido mi scivola tra le dita. Non potremo mai essere amici. Non si può essere amica di qualcuno che hai amato al punto di sposarlo e desiderare di costruire una vita insieme.

*** Dimenticare, seppellire, far finta di nulla. Questo è il primo impegno. In seguito impari che non sono atteggiamenti che la mente umana tollera. Non serve a nulla. Basta un'immagine, un profumo, per spalancare la porta dei ricordi. Delle emozioni. Allora bisogna fare spazio alla convivenza, bisogna affogare nei propri demoni, conoscerli e non aver paura di loro. Consapevolezza, autostima, coraggio. Queste le nuove parole. Lei è seduta alla fermata del tram, la pelliccia finta che le ho regalato anni fa, le cade morbida sulle gambe. Sorride. È distratta, mentre ascolta musica dalle cuffie. (Ciao, come stai? Che piacere vederti!) Non sono ancora pronto. Aumento il passo prima che possa incrociare il mio sguardo. Sembra serena. Fino a quel momento pensavo di esserlo anch'io, ma il mio coraggio è andato a farsi benedire. L'autostima seppellita in un attimo, persa nello smog. Non mi accorgo che sto correndo. Scappo veloce come non facevo più. Prendo la strada verso il parco e imbocco di corsa l'entrata, schivando una bici. E giù per il sentiero, seguendo lo strano avvallamento, l'erba è leggermente bagnata. Mi sento instabile. Non cedo alla stanchezza, i muscoli mi fanno male, ma continuo a correre, i polpacci pesanti quasi rigidi. Abbandono il sentiero, sono in mezzo al verde, un cervo che scappa dai cacciatori, corro, respiro, corro, mi manca il respiro, corro, cado inciampando in una radice. Caccio un urlo disumano. Non smetto di urlare anche in terra, finché ho fiato nei polmoni. Mi gira la testa. Supino, piego le gambe e aspetto che il sangue fluisca. Sono a pezzi. Mi abbandono sul manto verde. Ho un dolore lancinante al petto. Sto svenendo?

*** E stasera? Ho dato a lavare il vestito. Cambio donna e cambio umore, stasera. Stasera voglio uscire. Voglio che mi facciano parlare e ridere e bere. Stasera cambio amore, è tutto qui. Ma sapere dove andare è come sapere cosa dire. E dove mettere le mani. Io non so nemmeno se ho capito quando t'ho perduta, qui fioriscono le rose. Ma dentro casa è inverno.

*** «L’altro giorno ti ho vista.» «E perché non ti sei fermato?» «Non ho ancora trovato una risposta.» «Già, tipico, sei tu. Scommetto che non hai trovato una risposta neanche al perché ci siamo lasciati...» «Vorrai dire, mi hai lasciato...» «Tu mi hai lasciato andare!»

*** L'eco di quelle cinque parole mi risuona nelle orecchie. «Tu mi hai lasciato andare.» Perché ho cercato ogni modo per stargli vicino quando ha dovuto fare i conti con se stesso e il passato. L'ho amato anche nei silenzi infiniti e nel sonno che lo coglieva a ogni ora del giorno. Nella distrazione, nell'ira improvvisa, nell'egoismo di chi non riesce a reagire. L'ho amato in tutto. Non è bastato. Non si è accorto di me. Anche quando ho gettato la spugna e mi sono allontanata. Ero alla disperata ricerca di considerazione e di emozione, non riuscivo più a vivere nell'ombra.

*** Avevo appena smesso di parlare al telefono con lei.

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In poltrona sorseggiavo un whisky invecchiato, ascoltando in sottofondo un cd di Fossati. Non era stata una grande idea chiamarla. Come sempre lei sapeva come disarmarlo, conosceva ogni sua mossa, i suoi punti deboli, lei aveva le armi segrete. In un attimo si era ritrovato con le mani alzate contro il muro, in attesa di essere giustiziato, ma cosciente di essere stato lui il proprio carnefice. Il carnefice del destino.

*** «Buongiorno, signora.» «Buongiorno.» «Ho chiamato ieri, per Jordan. Vorrei, se possibile, vederlo.» «Ah, sì. Salve! Si accomodi là in fondo. Un attimo e arriviamo.» Mi siedo su una sedia traballante, c'è un odore forte di cibo per gatti e i neon funzionano a intermittenza. D'improvviso, dalla porta di lato sbuca la tipa. Ha in braccio Jordan. Scoppia un amore a prima vista, non ho mai creduto ai colpi di fulmine, ma questo lo è. «Lo vuole prendere in braccio?» Certo che voglio. Me lo passa delicatamente e lo guardo come fosse mio figlio, mi avvicino e lui mi riempie la faccia con la sua lingua. È un cucciolo di bernese, tra una settimana me lo possono dare, pesa già otto chili, sembra un peluche e lo coccolo per un po'. Lo rendo alla tipa e prendo accordi su quando tornare a ritirarlo. Intanto mi faccio dire cosa deve mangiare, soprattutto per i primi giorni. Esco dal negozio e m'incammino verso la macchina con passo leggero. Mi accompagna una piacevole sensazione che da tempo non provavo.

*** Quattro minuti sul display della metropolitana. Anche stamattina sarò in ritardo in ufficio. Finalmente arriva, salgo con il libro sottobraccio pronta a crearmi un mondo parallelo già alla seconda pagina. Lo apro, ma una frenata improvvisa mi costringe a richiuderlo di scatto per attaccarmi alla maniglia. Alzo lo sguardo e li vedo, sono bellissimi, si baciano leggermente sfiorandosi il viso, comunicano con i loro sguardi e si sorridono, quasi chiudendo gli occhi. Aiuto, stanno salendo, ricacciale giù, non puoi metterti a piangere in metrò. Ma perché non riesco mai a trovare i fazzoletti in questa borsa?

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Pietro Severino Hanna

«Hanna?» «Diego! Ho saputo di tua moglie, tramite Flavio. Mi dispiace. Avrei voluto conoscerla e starti vicino.» «Ormai sono due anni e la ferita si sta rimarginando. Ma tu, come stai?» Qualcosa al telefono s'inceppa, siamo bloccati da tutto quello che abbiamo diviso e non si è mai spento. Dopo qualche frase fatta, la promessa di risentirci appena arriverà a Venezia. Giuriamo che questa volta ci vedremo, dopo trentacinque anni. Mi butto sul letto come se una fatica millenaria stesse prosciugandomi le forze, e a poco a poco la mia mente rivive i giorni della nostra avventura. Estate, Angola «Ti amo!» Lentamente apre gli occhi e si guarda intorno. «Ti amo» ripeto mentre l'aiuto ad alzarsi, facendo attenzione alle sue ferite. «Hanna, tra un po' sarà buio e bisogna muoversi, dobbiamo percorrere più strada possibile.» «Non mi reggo» risponde con le lacrime agli occhi. «Dobbiamo andare, amore mio.» Stiamo perdendo tempo prezioso. Le condizioni di Hanna peggiorano a ogni minuto. Sono passate sei ore dall'agguato, le ferite scure e gonfie forse si sono infettate, quella profonda sotto il ginocchio destro ricomincia a sanguinare appena Hanna tenta di mettersi in piedi. Provo a farla camminare, la sua smorfia di dolore mi blocca. Lei è una donna pronta ad affrontare ogni difficoltà, ma la situazione sta precipitando. Decido di mollare il fucile, tanto non lo userei mai, mi lego le due borracce dell'acqua in vita e così posso caricarmi Hanna sulle spalle. La sollevo delicatamente sulla mia spalla sinistra lasciando che la testa e il busto penzolino sulla mia schiena. Per evitare che scivoli, le tengo la mano con la mia, con l'altra libera mi mantengo in equilibrio. «Reggiti forte, amore mio, vedrai che riusciremo a raggiungere la salvezza. Tu devi tornare da tua figlia, io a casa. Voglio rivedere il mare, la mia Palermo.» In un sussurro mi dice che anche lei mi ama. Adesso tutto dipenderà dalle mie forze. Spero di non incontrare i ribelli o i loro alleati. I miliziani non hanno mai tollerato i soccorsi alla popolazione nei territori da loro conquistati, e ci considerano dei traditori. Adesso stanno scappando, dopo essere stati sconfitti dall'esercito regolare appoggiato dai cubani. Bruciano qualsiasi cosa e uccidono chiunque incontrano. Sicuramente non risparmierebbero due volontari come noi. Sto camminando da ore, il peso di Hanna rende ogni irregolarità del terreno insopportabile, ma non mollo, la voglio portare al sicuro, dove la cureranno. «Mon amour, fermati. Non puoi proseguire tutta la notte. Mettimi giù, voglio provare a camminare.» Hanna protesta nel suo italiano misto a francese, si agita come per scendere, ma il dolore e la mia caparbietà la costringono a desistere. Un sospiro annuncia la sua resa, mentre lacrime silenziose mi scendono sulle guance, non voglio perdere anche lei. Cerco di mantenere una direzione retta, Hanna mi ha insegnato a correggere i passi per evitare di andare in circolo. Ma le rocce, i cespugli o le asperità inaspettate mi costringono a cambiare direzione. La mia mente torna indietro: come eravamo finiti in quella situazione? La mattina eravamo usciti in missione. La sera prima era giunta notizia che i ribelli avevano abbandonato un villaggio, dopo aver dato fuoco alle capanne e sparato contro la popolazione. Hanna e io dobbiamo portare i primi aiuti e farci un'idea della situazione per poter organizzare, magari il giorno stesso, un convoglio umanitario. Arriviamo al villaggio alle prime luci dell'alba e, consegnate le medicine, prendiamo nota di quello che può servire ancora lì. Torniamo indietro. In altri momenti saremmo stati prudenti, evitando le strade battute. Questa volta, complice l'euforia di non aver trovato il solito contorno di morte, e il desiderio di organizzare subito i nuovi soccorsi, decidiamo di rientrare al campo il più velocemente possibile, percorrendo le strade segnate. In quei giorni il fronte cambiava repentinamente, dove la mattina c'erano i regolari, il pomeriggio ci si poteva imbattere nei ribelli. Infatti, appena superata una collina, siamo intercettati da una pattuglia sudafricana. I soldati sono nervosi, ci fanno scendere e perquisiscono la nostra auto. Il bottino è scarso, qualche effetto

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personale e le nostre riserve d'acqua e di benzina. Sembra che possiamo cavarcela, ma quelli insoddisfatti cominciano a sparare sull'auto, e una fumata bianca dal motore sale dritta in cielo. Uno di loro fissa Hanna e parlotta con i commilitoni che sghignazzano. È una preda per i loro istinti. Ma la fortuna ci viene in aiuto, improvvisamente da dietro la collina spuntano alcuni mezzi blindati governativi e un reparto cubano, attratti dal rumore degli spari e dal pennacchio di vapore bianco; i sudafricani, in inferiorità, decidono di sganciarsi, dopo un breve e violento conflitto a fuoco e dopo aver fatto saltare in aria la nostra automobile. Schegge di vetro e di metallo piovono dappertutto, Hanna non fa in tempo a ripararsi ed è colpita alle gambe e alle braccia. I blindati si lanciano all'inseguimento dei sudafricani tra nuvole di polvere e fumo nero; solo due soldati cubani e un ufficiale si fermano. Dopo aver controllato le nostre credenziali, nella fretta di non perdere il contatto con i loro, si limitano a lasciarci una cassetta di soccorso e le borracce dell'acqua. L'ufficiale mi porge anche un fucile a ripetizione. I tre stanno per scomparire dalla nostra vista quando l'ufficiale, che mi ha sentito parlare in italiano con Hanna, torna indietro. Per un momento temo il peggio, invece con un sorriso e in un italiano smozzicato, mi indica la strada per arrivare al villaggio liberato più vicino, e facendo segno alle gambe di Hanna, urla, «Andare, go, andare.» Accampamento della Croce Rossa qualche settimana prima Quando l'ho conosciuta, Hanna faceva la guida e l'interprete, parlava il portoghese, conosceva l'Umbundu, una delle lingue nazionali dell'Angola, e anche il francese perché è nata in Benin, ex colonia francese. Appena arrivato al campo della C. R., partecipo al mio primo briefing. Ascolto quel che dicono sulle missioni del giorno dopo, a occhi bassi perché non voglio incontrare lo sguardo di nessuno, ho milioni di pensieri, ho perso la mia compagna e non voglio che qualcuno mi legga negli occhi. Però avverto una trafittura che mi costringe ad alzare lo sguardo e dall'altra parte del tavolo incontro gli occhi sorridenti di Hanna. Alla fine del briefing rimango seduto al mio posto, lei si alza e parla con altri collaboratori. Ogni tanto mi guarda e sorride. Una mano mi passa un foglio con le consegne per il giorno dopo e mi distraggo, ma di nuovo quella sensazione di essere trafitto, questa volta alla nuca, mi giro, Hanna sta alle mie spalle, con in mano due tazze di tè. «Please!», me ne porge una e l'accetto volentieri. «Grazie, ne ho bisogno. Parli italiano?» Hanna si siede vicino: «Sì, parlo un po' la tua meravigliosa lingua, anche se preferisco il francese.» «Grazie, mi fai sentire a casa.» «Qui sei a casa, tranquillo. Siamo tutti amici. Imparerai a conoscerci.» Finito di bere il tè, e mentre sta andando mi dice: «Io mi chiamo Hanna. Tu, Diego, vero?» Annuisco e l'osservo allontanarsi flessuosa. Flavio, l'altro italiano del gruppo e capo missione, ha seguito la scena. Conosce la mia storia e gli piace l'idea che per un attimo mi sia distratto. Poi mi riporta alla realtà: «Ma chi ti imbambolasti? Lasciala stare, quella morde.» La mattina seguente vengono formate le squadre. «Allora, Diego, vista l’esperienza di Hanna nella zona che dovete visitare, credo che sia meglio se andate insieme.» Mentre me lo comunica, Flavio sorride. Scoprirò dopo che Hanna ha spinto per questa decisione. Nei giorni seguenti, nelle missioni successive faccio coppia stabile con Hanna, all'inizio cerco di oppormi a quello che sto cominciando a provare per lei; troppi ricordi dolorosi e violenti mi avevano portato a fuggire in Africa, ma poi la solitudine, la ricerca di un sorriso fanno cedere le mie fortezze di solitudine e aprono quella porta che sembrava destinata a rimanere per sempre chiusa all'amore. Hanna, in quei giorni, è bellissima, gli occhi verdi, i capelli corvini, la pelle dorata, una donna di colore, dicono gli altri, per me è l'immagine di quanto sia stupendo il creato. Il territorio dove operiamo, all'apparenza povero, è ricco di risorse nascoste e per questo stimola gli appetiti delle superpotenze. Pur di mettere le mani su diamanti e petrolio, hanno scatenato una guerra civile con centinaia di migliaia di morti. La sera, dopo ogni missione ci fermiamo a chiacchierare vicino al fuoco. Hanna racconta della sua adolescenza e della ricerca disperata di un lavoro, fino all'impiego come interprete nella Croce Rossa; e del suo matrimonio, dell'abbandono del marito, della gravidanza vissuta da sola, delle difficoltà a provvedere alla figlia in una società che non vede di buon occhio una donna sola, senza marito. Mi tempesta di domande. Vuole che anch'io le spieghi perché mi trovo lì, così lontano da Palermo. È affascinata dal racconto dei miei viaggi incredibili su treni e navi, ma pensa che io abbia una grande fantasia e che ogni cosa sia in parte inventata.

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Una sera, non so spiegarmi il perché, mi avvicino e la bacio sulle labbra. Temo di aver rovinato tutto, invece mi passa le braccia intorno al collo e ricambia con gioia. La nostra ultima avventura Continuo ad andare avanti, sono esausto. Hanna, per confortarmi, canta con il poco fiato rimasto una dolce canzone della sua terra. Adesso il sentiero comincia a salire mentre un vivace chiarore colora l'orizzonte, tra pochi istanti la luce inonderà le colline. Sono preoccupato, finora ho potuto camuffarmi nel buio, ora dovrò stare attento a ogni suono, a ogni ombra. Non sento più le gambe, ormai divenute dei pezzi di legno. Hanna è crollata, ne avverto il respiro, lei riesce a riposare in qualsiasi posizione e mi ha insegnato anche a dormire sugli alberi legandomi ai rami per non cadere. Ma questo non è il sonno di una persona stanca. Forse è svenuta. Domando al mio corpo un ultimo sforzo e sono quasi in cima, quando un rumore improvviso giunge dall'altro versante della collina. Se sono i ribelli, sarà la fine. Prendo una decisione fulminea, torno indietro verso uno sperone roccioso, nascondo delicatamente Hanna, le metto vicino le borracce d'acqua, le do l'ultima carezza e la copro con dei rami secchi, poi comincio a correre, e allontanandomi più possibile da lì arrivo in cima nello stesso momento della jeep. Con mia enorme sorpresa mi accorgo che è l'avanguardia di un convoglio della C. R. La jeep mi supera come se fossi invisibile, ma il passeggero vicino all'autista si è accorto e urla, «Ferma, ferma, eccoli». Scendono a soccorrermi. «Non mi serve niente. La mia compagna è là dietro e ha bisogno d’aiuto!» Hanna è pallidissima, ma con gli occhi aperti accenna a un sorriso misto a sofferenza. I due fanno attenzione a sollevarla e trasportarla alla jeep. Nel frattempo sono giunti altri che mi prendono sottobraccio e mi aiutano ad arrivare all'auto. Finalmente crollo in un sonno ristoratore. Dopo le cure sarò rimpatriato. Hanna tornerà in Benin, nella sua Cotonou, la città sulla baia dalle mille luci. Da sua figlia, ai suoi pomodori e al suo caldo. Fino alla partenza trascorriamo insieme due stupende settimane di convalescenza. Facciamo l'amore come se fosse l'ultima volta. La guerra è ovunque, villaggi bruciati, popolazioni massacrate. Una profonda tristezza ci avvolge. Cerchiamo di sfuggirla amandoci. L'ultimo giorno in Africa Il mio aereo decollerà prima di quello di Hanna. Siamo abbracciati, non troviamo la forza di staccarci. L'altoparlante mi chiama, ultimo avviso d'imbarco. «Amore mio, non voglio che questa storia finisca. Vieni a trovarmi in Italia.» «Sai che per me non sarà semplice, ho una figlia e i miei genitori da accudire. Vorrei, invece, che fossi tu a conoscere la mia terra, la mia gente. Saranno orgogliosi di te.» Un lungo bacio sensuale suggella il nostro addio. Nessuno di noi due troverà la forza di cambiare. Le promesse che ci siamo fatti sbiadiranno col tempo. Hanna si risposerà, io mi trasferirò a Roma dove conoscerò la mia seconda moglie. Continueremo a scriverci per gli auguri di Natale e i nostri compleanni. Momenti sempre più brevi, un saluto e un «come stai» di circostanza. Venezia La voce di Hanna mi tormenta. Telefono a Flavio. Siamo rimasti amici dopo l'esperienza africana. Accetta di invitarmi al meeting di Venezia come ex volontario. Dovrò pagarmi le spese. Però mi troverà un posto nell'albergo di Hanna. Ottobre arriva in un lampo, ed eccola, più bella di come la ricordassi, con i capelli raccolti e un filo di trucco non si nota più la sua aria selvaggia. Dirige una onlus legata alla C. R.. Io sono un uomo maturo, i capelli radi e qualche chilo in più, stanco di guerre e alla ricerca di una donna con cui dividere i pochi anni che restano. Hanna è loquace, mi racconta della figlia avuta dal secondo marito, adesso vivono in una casa bellissima nel Benin. L'ultima sera rimaniamo in camera sua, come quella prima volta nella sua tenda. A un tratto Hanna si confessa: «Abba ha compiuto trentacinque anni pochi giorni fa, ha un brutto carattere come il tuo, ti somiglia tantissimo, abbronzata con i capelli chiari». Resto a bocca aperta, scherza? Dal suo guardo capisco di no, provo a dire qualcosa. Hanna mi ferma con un

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lungo bacio, sento il suo seno, la stringo. «Perché?» Lei fra i baci mi sussurra: «Volevo un figlio da te, lo volevo, e basta.» «E io?» Sono confuso. «Tu, adesso, come quel giorno, caricami sulle spalle e portami in salvo.» Sento il calore dei nostri corpi. La mattina ci trova ancora abbracciati. Mi prega di scordare Abba, lo prometto, ma voglio conoscerla almeno in foto. Il ricordo non si cancella. «Je t'aime Hanna!»

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Lorenzo Stanca Che bella città

«Che bella 'sta città, Giovà. Ma lo sai che è proprio bella?» «Dici, Nicò? A me non mi pare così bella. Ci sta poca luce.» «Non hai visto bene, Giovà. Non hai visto bene. Guarda meglio.» Mentre a passo lento ripercorrevano la strada verso l'hotel, Giovanna guardava. Viale Romagna pareva ancora più immenso e nemico di quando ieri lo aveva visto per la prima volta. «Sai che ti dico, Giovà? Stasera usciamo. Ce ne andiamo un po' in giro. Non importa che abbiamo perso il treno.» Avevano fatto una corsa da infarto, ma non ce l'avevano fatta. Era stato un lunedì lungo e faticoso. Erano arrivati molto presto allo studio del dottore. Nicola era stato visitato una prima volta, dopo una lunga attesa. Poi gli esami, poi ancora in fila per rivedere il dottore. Appena finito il secondo incontro, il tempo di parlargli e poi di corsa dallo studio, a piedi, fino alla metropolitana in piazza Piola. Era sembrata non finire mai, la strada. Giovanna avanti, con il suo zainetto a rimbalzare sulla schiena, e dietro Nicola, con la valigia marrone stretta nella mano sudata. I minuti infiniti nel metrò pieno di gente, sottoterra. Il treno partiva alle 15. Erano arrivati alla Centrale che mancavano due minuti. Giovanna si era buttata fuori dal metrò e aveva cominciato a correre. Ma aveva sentito il grido di Nicola, «Giovà, non ce la faccio.» Era fermo, molto indietro. Ansimava forte nei pantaloni di velluto a coste, con il maglione girocollo blu. Lo guardò interrogativa per un istante e tornò a prenderlo. «Dai, Nicò, andiamo, cercheremo di salire sul prossimo treno» gli disse una volta accanto. Lui la guardò, e si girò verso i binari, restando in silenzio per un istante. «Giovà, partiamo domani» disse finalmente. «Ora che siamo qui, stiamoci calmi un pochino. È tanto che non faccio un viaggio. Non ci saranno problemi con l'ufficio, chiamo Totonno e gli spiego tutto quanto. Partiamo domani. Ci torno mercoledì in ufficio.» Giovanna all'inizio non rispose. Ma sorrise, fissandolo con affetto. Insieme ritornarono piano verso l'albergo. Una volta lì, dopo aver prenotato nuovamente le camere per la notte si erano seduti soddisfatti sul divano nella hall. «Mo' mi riposo, che sono un poco stanco. Ma più tardi usciamo. Andiamo a fare un bel giro. Vedrai che cambierai idea. Milano ti piacerà, è una città così viva...» L'albergo, nella zona di Città Studi, era di quelli che negli anni Ottanta erano di gran voga. Ora uno sfarzo slabbrato. I divani di tela rossa consumati. Le tende color senape. Il portiere, capelli tinti, faccia segnata dalle rughe. Probabilmente dell'Europa dell'Est.

*** Quando dieci giorni prima, chiusa la porta della camera da letto, Immacolata aveva chiesto alla sorella Giovanna il favore di accompagnare il marito Nicola alla visita a Milano, dal dottor Pangelli, lei era rimasta interdetta. Andare a Milano con il marito della sorella! Non era pensabile. Anche se ormai aveva trent'anni ed era una ragazza che tutti in paese giudicavano forte e indipendente. A Immacolata con un bambino di neppure un mese, e l'altra di poco più di un anno, sarebbe stato impossibile seguire il marito. Il dottore era un luminare. E dopo tanto affannarsi avevano ottenuto l'appuntamento grazie all'avvocato Palumbo, che conosceva Pangelli e gli aveva detto che non potevano assolutamente rimandare. «Quello vuole andarci da solo. Ma tu lo sai come è stato Nicola in questi ultimi giorni. Non è proprio il caso. Per favore, Giovà, accompagnalo tu. Magari riesci anche a svagarti un po'.» Con le braccia tese l'aveva stretta forte sulle spalle, guardandola negli occhi. Lei a quel punto, aveva ceduto: «Sì, Immacolà, ci vado io. Non ti preoccupare più». Erano tornate nella sala, alla tavola dove Nicola stava mangiando e intanto guardava la televisione. Dopo che Nicola fu salito in camera sua, Giovanna rimase per un po' da sola nella hall a sfogliare le riviste. La mente le pulsava e cercava di distrarsi. Ma non riusciva a leggere nulla. Decise di andare a fare due passi. No, quell'aria che sapeva di umido e di sporco non le piaceva. E non le piaceva la luce oscura che non pareva neppure pomeriggio. Ma continuò lo stesso. Una lenta passeggiata. Pensieri veloci. Erano partiti da Sicignano domenica mattina, prima dell'alba, con il pullman per Salerno. Pioveva, ma era una pioggerella e l'aria era fresca. A Salerno erano saliti sul treno delle 9.15 per Milano. Lei aveva cercato di parlare durante le ore di viaggio, ma Nicola non sembrava dell'umore giusto. Forse era imbarazzato. Tutto quel tempo con la cognata da sola, non l'aveva mai passato. Anche se si conoscevano da

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tanto. Lei si ricordava di quelle volte che veniva a casa, da fidanzato, a trovare Immacolata, e lei, la sorellina, lo spiava timida da dietro le tende del salotto. Qualche volta portava dei regalini anche a lei. Che tipo, Nicola. Sempre allegro. Sempre pronto a scherzare. A casa tutti avevano presto cominciato a volergli bene. Anche papà, che all’inizio era così restio («Immacolata, tu a quel cafone là, non lo devi degnare neppure di uno sguardo, mi hai capito?» le aveva detto una volta quando aveva notato le occhiate fra loro davanti al bar della piazza). «Giovà, che dici, andiamo?» La voce di Nicola al telefono dell'albergo era velata come da un'inattesa malinconia. Giovanna, che era rientrata in camera da non più di un quarto d'ora, fu tentata di chiedere almeno una mezz'ora per prepararsi. Ma capì che sarebbe stato meglio uscire subito. Nicola non riusciva più a stare da solo. «Scendo, Nicò, dammi dieci minuti e arrivo.» Il ristorante l'aveva scelto il portiere. «Un posto come si deve, senza esagerare, però» si era raccomandato Nicola con l'uomo che parlava con accento straniero. Per andarci avevano preso il tram. Una volta sulla vettura cigolante, a Giovanna le lucine tristi che parevano prese dalla casa dei nonni e le facce assorte dei passeggeri erano sembrate così lontane dall'idea che s'era fatta della grande metropoli. Ci avevano messo un po' ad arrivare alla loro destinazione. I semafori parevano eterni e le partenze erano lente e stentate tanto che Giovanna si domandò com'era possibile che le linee tranviarie fossero ancora utilizzate. Guardava fuori, vedeva le file di grandi palazzi, le luci nelle case accese per la cena. Si domandò come potesse essere la vita in un posto così. Nicola era animato da una crescente agitazione. Parlava a scatti. Le diceva che qui, a Milano, ci sarebbe voluto venire a vivere con Immacolata e i bambini. Che in un posto così la moglie sarebbe rinata. Che i bambini avrebbero potuto studiare come si deve e avere una prospettiva. Che anche lui, anziché restare impiegato fisso al Comune, avrebbe sicuramente trovato di meglio a Milano, magari un posto in uno studio privato di professionisti o in una grande azienda, come i grandi palazzi che sfilavano fra le ombre dietro il vetro del tram. «Me lo sento, qui potremmo ricominciare. Sarebbe la volta buona.» Giovanna lo scrutava assorta, senza aggiungere una parola. Nicola continuò a parlare anche al ristorante, un posto in via Agnello, vicino al Duomo («Che bello, Giovà, ma tu lo vedi quanto è bello?»). Pareva che avesse la febbre. «Hai sentito, Giovà, il dottore dice che sto bene, che se mi faccio le cure da subito, in qualche settimana mi passa tutto.» Ora era eccitato, con gli occhi lucidi. Sognava, e costruiva già nei sogni. Giovanna ascoltava, e non osava interromperlo se non con qualche: «Ma sì?», «Dici davvero?» Quell’uomo aveva due figli e una moglie a casa. Una vita. Sì, avrebbe fatto grandi cose. E magari ci sarebbe venuta anche lei a Milano. Si sarebbero dati una mano. Lei, Immacolata e Nicola. Un colpo di reni. Questo avrebbero fatto, all'unisono. Giovanna sorrise a quel pensiero. Le vennero alla mente fantasie di un futuro possibile. Immagini di una lei trasformata in una persona finalmente soddisfatta di sé. Bevve più del solito e tornata nella camera d'albergo, riuscì ad addormentarsi subito. Fu al momento della partenza, il giorno dopo, quando il treno cominciò a muoversi con una oscillazione sottile, che le esplosero nella testa le parole del dottore dopo la visita, lunga e accurata, al cognato. L'aveva presa in disparte mentre Nicola si rivestiva, cogliendola di sorpresa e porgendole furtivamente la cartella degli esami con la diagnosi. Risentiva la voce piatta del luminare che le consigliava educatamente: «Mi raccomando, signorina. Deve cominciare la terapia immediatamente. Le metastasi sono dovunque. E la speranza di salvarlo è appesa a un filo. Dovrete cercare di farlo soffrire il meno possibile.»

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Maria Paola Toschi Mano nella mano

La luce del giorno cominciò a inondare la stanza. Il vecchio era sveglio. Immobile nel grande letto, fissava il muro con la foto del matrimonio e gli oggetti abbandonati sul comò. Il posto al suo fianco vuoto. La sera prima, non aveva neanche abbassato la tapparella, si era buttato sul letto semidisfatto e si era addormentato in un attimo. A quest’ora la casa era gelata. Aveva controllato il radiatore, era già al massimo. Si era avviato in bagno trascinando le ciabatte. La vasca ingombra di panni sporchi. Nel lavabo la goccia del rubinetto aveva lasciato una macchia di ruggine. Un brivido gli percorse la schiena mentre azionava lo sciacquone. Gettò uno sguardo nel cortile dalla finestrella verticale. Le aiole erano coperte di brina. Il vialetto di cemento spazzato dal vento invernale. Un tempo a quell'ora era già fuori da un pezzo. Gli sembrava una vita dura e sacrificata. Rimanevano i ricordi. Le giornate sui ponteggi, l'amicizia dei compagni, le sigarette da spartire e la schiscetta del pranzo consumato tra chiacchiere e barzellette. Aveva dimenticato il bricco del latte sul fornello spento. Ormai non lo poteva più bere. Si preparò una tazza di tè più facile da digerire. Mentre aspettava che l'acqua bollisse, aveva messo nel secchiaio i piatti sporchi. Ci versò un po' d’acqua bollente e qualche goccia di detersivo. Prima o poi avrebbe dovuto decidere di lavarli e sistemare la baraonda delle sue tre stanze. L'acqua iniziò a gorgogliare mentre rovistava nella credenza alla ricerca di una bustina. Ne restavano un paio in un bicchiere, ma non capiva se fosse tè, camomilla o qualche tisana, una di quelle che lei comprava e assaporava dopo cena, sdraiata sul divano con le gambe sotto la coperta a riquadri che aveva lavorato all'uncinetto. Non avrebbe mai pensato che se ne sarebbe andata prima di lui. Era più giovane ed era sempre attiva. Un'energia che a lui mancava. Forse perché si sfiniva di fatica, mentre lei si dedicava alla casa e a quel figlio tanto amato che adesso non si faceva vivo quasi mai. Si aggiustò il maglione che si era gettato sulle spalle. Uno spiffero arrivava da sotto la porta-finestra del cucinino. Ci aveva messo uno straccio, ma l'aria passava ugualmente. Sul balcone le mollette appese ai fili del bucato oscillavano al vento. S'immaginò che lei potesse ricomparire da un momento all'altro. Non sarebbe stata contenta di tutto il disordine. Avrebbe cominciato a sfregare, pulire, riordinare, borbottando. Gli mancava il suo borbottio. Quella presenza rassicurante. Si mise a sfogliare il giornale spiegazzato cercando qualche notizia che gli fosse sfuggita o un articolo rimasto indietro. Poteva leggere le vicende politiche. Ma non aveva la testa per appassionarsi. Non era la politica a cui era abituato quando scioperava per il salario, lottava per condizioni migliori nei cantieri, per i turni. Il tè era una colazione assai scarsa, e i biscotti erano finiti. Aveva aperto il frigo e si era accorto che era rimasta solo una fetta di formaggio rinsecchito e una busta di prosciutto aperta che aveva assunto un colore poco rassicurante. Doveva uscire a fare la spesa. Ma la cosa lo terrorizzava. Lo attendevano le code al supermercato, e sgomitare per aggiudicarsi le offerte migliori. Era entrato in bagno con la tazza in mano. L'aveva appoggiata sulla vasca dove sarebbe rimasta un pezzo. Si era lavato sommariamente, strofinato i denti e le ascelle. Poi si era rimesso i vestiti del giorno prima, ammucchiati sulla poltroncina di fianco al letto. Il cappotto era appeso nell'ingresso e sotto c'erano le scarpe pesanti per l'inverno. Si era calato il cappello in testa e arrotolato al collo la sciarpa di lana che gli aveva regalato lei, l'ultimo compleanno trascorso insieme. Sul pianerottolo un puzzo di chiuso e di umanità ammassata gli provocò un moto di disgusto. Le porte degli appartamenti sbattevano sgarbatamente. Gente che usciva di fretta, persone che scendevano di corsa. Un ragazzo lo urtò senza chiedere scusa. Gli venne voglia di protestare. Ma non voleva esporsi all'umiliazione di una rispostaccia. Cominciò a scendere i gradini a piedi. L'ascensore era bloccato. Qualcuno aveva lasciato la porta aperta ai piani alti, o magari si era rotto e chissà quanto tempo sarebbe passato prima che portinaia si decidesse a chiamare l'assistenza. Aveva percorso l'ultima rampa appoggiandosi al corrimano perché la plafoniera non funzionava, ma prima di arrivare in fondo alle scale aveva intravisto una sagoma che ostruiva il passaggio. Qualcuno era seduto e gli impediva di passare. Aveva dovuto quasi scavalcarlo per arrivare a terra. Si era girato a guardarlo. Questa volta mi faccio sentire. Ma aveva rinunciato. Sul gradino c'era un bambino infagottato in un piumino rosso,

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allacciato storto, con un berrettino di lana con il pon pon. Il vecchio lo aveva guardato con uno sguardo di rimprovero, ma il bambino lo aveva fissato con due occhi vispi e impertinenti. «Cosa fai qui?» Fu tutto quello che riuscì a dire. Non c'era nessuno intorno che assomigliasse a una madre con cui lamentarsi. «Non sei troppo piccolo per stare da solo?» Il bambino continuava a fissarlo con gli occhioni spalancati. Tremava, ma non parlava. «È il figlio della Morini, della Scala C. Lavora di mattina e lo lascia a casa. Passa le ore sulle scale o in cortile. Gli dico, vai via, ma lui no.» La portinaia, uscita per spazzare l'androne, gli stava spiegando. Il vecchio osservò un attimo il bambino. Poi uscì in strada proprio mentre il tram passava davanti sferragliando. Dopo un paio d'ore era di ritorno, infastidito dal traffico e dalla maleducazione della gente che lo spingeva e urtava di continuo. Reggendo il sacchetto del supermarket, camminava a testa china cercando di proteggersi dalla pioggia che cadeva fitta. Si diresse verso le scale con passo pesante. Non pensava più al bambino, ma poi lo scorse che giocherellava con un sasso. La portinaia aveva chiuso la guardiola per il pranzo e il bambino era in piedi, nell'ombra, sotto l'arco dove finiva l'androne e iniziava il vialetto. Prima l'aveva guardato di sfuggita. Ora si mise a studiarlo. Era davvero piccolo. I riccioli castani gli sfuggivano dal berretto, e incorniciavano una faccetta smunta con le labbra screpolate. Le mani erano blu dal freddo e le unghie sporche. Ma non si lamentava. «Cosa fai ancora qui?» Un lungo silenzio. «La mamma non vuole che parli agli sconosciuti.» Aveva continuato a giocherellare con il sasso. Il vecchio si sentiva incapace di rompere quella diffidenza. Ma gli venne spontaneo fare un tentativo. «Vuoi venire su da me?» Il bambino scosse la testa, guardando in terra. Poi alzò gli occhi. Nel suo sguardo c'era una storia di solitudine e una richiesta impacciata d'aiuto, almeno così il vecchio aveva creduto. Era durato un attimo. «E quando torna la mamma?» Silenzio. Non aveva insistito.

*** Buttò il cappotto sull'attaccapanni e sfilò le scarpe bagnate. In bagno, osservò il tappetino spelacchiato. Ora aveva fame. Aveva comprato una fetta di pizza e una busta di mortadella. Le mise su un piatto. Mentre gettava la carta nel secchio, gli scappò un'occhiata al cortile. Il piccolo era lì, dove l'aveva lasciato. Sotto l'arco, per proteggersi dalla pioggia. Gli sembrò incredibile abbandonare quella creatura tanto a lungo. Forse la madre aveva avuto un contrattempo. Finora non l'aveva notato. Ma non usciva spesso e non si erano mai incrociati. Aprì la finestra e fece un fischio nella direzione del bambino, riuscì a scorgerlo nell'ombra che lo salutava con la piccola mano, dopo si rintanò in un angolo dove non riusciva più a vederlo. Appena si sdraiò sul divano con la coperta sulle ginocchia, sprofondò nel sonno. Si risvegliò sudato. Aveva sognato se stesso ragazzo, la fatica in campagna quando seguiva nei campi i fratelli e il padre. Il lavoro nei cantieri gli era sembrato una grande opportunità. E poi era arrivata lei e l'aveva travolto con la sua esuberanza. Erano le quattro, fuori era quasi scuro. Pensò a lei, gli sembrò di sentirne il profumo. E l'immagine della casa trascurata lo riempì di tristezza. Dopo lo sforzo per rimettersi in piedi, si trascinò nel cucinino. D'improvviso se n'era ricordato e aveva guardato il cortile buio. Presto si sarebbero accesi i lampioni. Gli sembrò di vedere qualcosa, ma forse era un'allucinazione. Avrebbe potuto telefonare al figlio. Era molto fiero di lui, della carriera che aveva fatto. Rinunciò, per non disturbarlo. Era sempre impegnato, in giro per lavoro. Lo aspettava una nuova, lunga serata. Riuscì a sintonizzare la tv su un programma: le immense savane dell'Africa selvaggia lo aiutavano a passare il tempo. Aveva comprato una zuppa pronta. La scaldò. Aggiunse il formaggio rimasto nel frigo e portò la cena davanti allo schermo per guardare il telegiornale. Poco dopo, stanco si sdraiò a letto, con il libro di Simenon sul comodino. Lo aveva preso tra le cose della moglie. Le piacevano i romanzi gialli. Aveva riempito la libreria. Lui non aveva mai avuto tempo per leggere e se ne pentiva. Gli occhi gli si stancarono presto. Si girò sul fianco e si addormentò. Al risveglio si sentì in preda a una grande agitazione. Doveva accertarsi se il bambino era già in cortile. E magari cercare di capire meglio la situazione. Si lavò in fretta. Da uno sguardo alla finestrella aveva capito che il tempo era peggiorato. La brina diventata ghiaccio, e il vento veniva giù a folate dalle montagne. Le nuvole nere che correvano in lontananza non promettevano niente di buono. S'infilò i mutandoni che gli

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arrivavano sotto il ginocchio, i calzoni scuri di lana, la camicia di flanella e il giaccone con la zip. Voleva fare colazione al bar, un lusso che non si permetteva tutti i giorni. L'ascensore aveva ripreso a funzionare, ma era occupato. Scese a piedi. Il pianerottolo ancora al buio. Sulle scale e in cortile, non c'erano il piumino rosso e il berretto con il pon pon. Si sistemò a un tavolino nel bar di fronte al portone del suo palazzo. Dopo aver ordinato il cappuccino con la brioche, si mise a osservare la strada. Ogni tanto passava un tram e lui restava con il fiato sospeso fino a quando non era tornata la visuale completa. La portinaia spazzava il marciapiede e lo cospargeva di sale per evitare scivoloni. Riconobbe alcuni inquilini. Tra loro notò una signora giovane, con stivali dal tacco alto e un piumino stretto in vita. Si era messa a correre per prendere il tram. Del bambino neppure l'ombra. Forse era a scuola. Meglio così. Averlo incontrato da solo era stato un puro caso. Alzatosi per pagare, era fermo ad ascoltare le chiacchiere di un gruppo di tifosi, quando il piumino rosso e il berretto con il pon pon comparvero nell'androne. La portinaia stava parlando al bambino con veemenza. Nella fretta di raggiungere il portone di casa, attraversò senza guardare e per un pelo non fu investito da un'auto. «Vecchio rincoglionito!» Aveva rischiato di cadere sul ghiaccio. La portinaia se ne accorse e venne in suo aiuto. «Deve stare più attento.» «Sono stato fortunato. Grazie.» Il bambino lo fissava. Sembrava contento di rivederlo. La portinaia riattaccò: «La Morini è appena uscita. Ed eccolo qui, ce lo dovremo tenere tutto il giorno. Quanto andrà avanti questa storia? Ma io chiamo i servizi sociali. Non ho tempo per questo moccioso.» Il vecchio non l'ascoltava. Prese il bambino per mano e insieme si mossero. «Non si allontani troppo, se no, chi la sente quella quando torna e non lo trova.» Il vecchio stringeva la manina gelata. Era tanto che non provava una gioia simile. Camminarono per un po' senza parlare e si fermarono in una pasticceria. Non aveva idea di cosa potesse mangiare. Ordinò un latte caldo e una pasta al cioccolato che il bambino divorò mentre le guance si accendevano di una nuova luce. «Finisci il latte. Poi andiamo. Non voglio che la tua mamma stia in pensiero.» Si lasciarono nell'androne. «Adesso vai a casa, mi raccomando. Se fai il bravo, domani ci rivediamo.» Una volta nel suo appartamento, si accorse con sgomento di quanto fosse sporco. Si vergognò, una sensazione che non provava da tempo. Si mise a lavare i piatti, le pentole, e a caricare la lavatrice. Non si fermò fino a quando le stanze non assunsero un aspetto nuovo. Si coricò esausto e felice. Il giorno dopo si alzò presto e si lavò nel freddo con la poca acqua che sgocciolava dal rubinetto. Era pronto per uscire, ma erano appena le 7, quindi riprese la lettura di Simenon. Alle 9 non aveva più resistito. Il bambino era nell'androne e quando lo vide gli prese la mano. Passarono davanti alla portinaia che li squadrò in silenzio. Conveniva anche a lei, perché le toglieva il moccioso dai piedi. Divenne un appuntamento quotidiano. Si trovavano nell'androne alla stessa ora e si avviavano tenendosi per mano, come nonno e nipotino. Il vecchio lo portava ad assaggiare le paste in posti diversi. Se il tempo lo permetteva si fermavano nei giardini, il vecchio sulla panchina e il piccolo che saliva e scendeva dallo scivolo. A modo suo il bambino gli raccontò la propria storia. Un giorno il padre era sparito e non si era fatto più vedere. La mamma era sempre nervosa. Ogni tanto si chiudeva in camera a piangere al telefono. Poi aveva trovato un lavoro e uscendo gli faceva mille raccomandazioni. Ma lui aveva paura a stare solo in casa. Nell'androne poteva vedere passare la gente, anche se faceva freddo e la portinaia lo sgridava. La gente del quartiere si era abituata a vederli insieme. C'erano nonni e nipotini per strada, nei negozi, ai giardinetti. Verso la fine della mattina il bambino voleva sempre rientrare. Il vecchio aveva capito che non aveva raccontato alla mamma delle loro passeggiate. Un giorno il bambino non si presentò. Il vecchio non si preoccupò pensando che avesse il raffreddore. Anche nei giorni seguenti il piumino rosso e il berretto con il pon pon non si fecero vedere. Dopo due settimane d'attesa, la portinaia glielo comunicò: «La Morini è partita. Non lo sapeva? È tornata al paese, dai suoi.» Il vecchio fece dietrofront. L'appartamento gli apparve di nuovo nel suo triste stato di abbandono. Seduto davanti al televisore spento si lasciò catturare dal solito torpore.

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Giovanna Zappalà L'abito da sposa

La notte è trascorsa lenta per Silvana, distesa sul letto guarda i vestiti che ha stirato con cura, ben disposti sugli ometti fuori dall'armadio, nella mente i ricordi si affollano e incalzano.

*** La testa poggiata al tavolo mentre lui racconta, le parole diventano immagini e prendono forma negli occhi assonnati di bambina. Le ruote della carrozza procedono lente sulla ghiaia, un uomo accende per le strade buie i lampioni a petrolio, mentre la brezza marina porta la salsedine che inumidisce la pelle. Il cocchiere incita i cavalli trattenendo e allentando le briglie, sul sedile posteriore un uomo in frac con la mano carezza la canna fredda della pistola; un tonfo, la ruota della carrozza si piega. L'uomo è sceso urlando e imprecando contro il mondo e i santi. Non si arrende, a passo svelto raggiunge il porto; troppo tardi per lavare col sangue l'offesa. Sulla nave la moglie, se ne andava per sempre, per seguire l'amante americano.

*** Nella stanza silenziosa, accanto a lei Luca stride serrando i denti, poi farfuglia qualcosa nel sonno che Silvana non riesce a capire. Cerca di distogliersi dai pensieri che la risucchiano come un vortice, rassegnata si alza, lo stretto corridoio è rischiarato da un coperchietto fluorescente alla presa della corrente. Socchiude la finestra nella camera dei ragazzi; Clara dorme con gli occhi aperti, si era spaventata la prima volta che aveva notato questo suo modo di restare vigile anche nel sonno. La piccola Sara si è addormentata con il ciuccio sotto la guancia, lo toglie sollevandola piano per non svegliarla, lei si stiracchia e continua a dormire. Ivan dorme scomposto, un braccio penzoloni dal letto, il lenzuolo arrotolato a un ginocchio. Poi va in cucina, si riempie un bicchiere di latte, accende una sigaretta.

*** La sigaretta, che lui tiene accesa in un angolo delle labbra, gli fa socchiudere un occhio, il fumo crea dei piccoli anelli nell'aria, s'allargano e svaniscono. Il suo viso avvolto dalla schiuma bianca e soffice, le guance si gonfiano mentre la lametta crea dei solchi, le labbra sporgono e a poco a poco la mano esperta fa riapparire il viso amato. Il suo giornale, il "Corriere della Sera", il viso nascosto tra le pagine. Le monete gli scivolano dalle tasche dei pantaloni, tra il cuscino e la spalliera della poltrona su cui si è addormentato dopo pranzo, prima di bere il caffè e tornare al lavoro.

*** Silvana controlla di non aver scordato niente della lista della spesa, uova, latte, pane... Raccoglie una bambola finita sotto il divano, un album da disegno, e li ripone, camminando piano per non turbare il silenzio.

*** A tavola, la sera, il chiacchiericcio allegro per raccontarsi la giornata, ma lui protesta, vuole seguire il telegiornale; poi li guarda serio e dice con amarezza: «Piuttosto che vivere un'altra guerra apro il rubinetto del gas». Lo immagina mentre gli aerei col suono stridente stanno sorvolando la nave, le bombe che lanciano fanno dei buchi nel mare, l'acqua si alza fino a raggiungere il cielo. Poi uno scoppio a prua, fuggi fuggi generale, la nave s'inclina, la corsa alle scialuppe. La guerra è guerra, è vero, ma chi sopravvive non può scordare.

*** La sveglia rompe il silenzio, la spegne in fretta per regalarsi degli attimi; prepara il caffè, avvolge le persiane, i colori rosati che striano il cielo promettono una bella giornata.

*** Silvana sente il suo passo che si avvicina, il lieve tintinnio della tazzina che tiene nella mano. «Alzati, è ora, è una magnifica giornata» annuncia porgendole il caffè con il suo aroma nell'aria, si china e solleva il lenzuolo che è scivolato a terra durante il sonno guardando altrove per non turbarla.

***

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«Alzati, Luca, è ora», lui la guarda cercando un appiglio per riagganciarsi alla realtà, quando vede i vestiti appesi negli ometti l'abbraccia e sorride. Dicono che quando ci s'innamora si trovano delle somiglianze del padre nel viso dell'amato, lo scruta, ma non riesce a trovare niente che gli assomigli. Torna di là a preparare il biberon per Sara, latte e cacao con i biscotti per Clara, per Ivan yogurt con cereali.

*** Seduta accanto a lui sul grande divano di plastica con disegni di dame e cavalieri, «Raccontami delle bistecche ai ferri». «Ancora?» risponde sbuffando. «Ti prego, ti prego, per l'ultima volta.» Un giorno il capitano mi ha detto: «Abbiamo un problema, il cuoco e l'aiuto cuoco sono a letto con la febbre alta, e altri due marinai sono svenuti dopo una sola ora in cucina. Mantelli, ci deve andare lei che sicuramente è abituato alle alte temperature, è siciliano, vero?» «Sì, signor capitano, sono siciliano, ma di cucinare proprio non me ne intendo.» «Cucini qualcosa di semplice, che so, delle bistecche ai ferri.» Ho messo il ferro da stiro a scaldare sul carbone, come si faceva una volta, poi l'ho unto, ma appena ci ho appoggiato la carne, ha cominciato a saltare, e io cercavo di acchiapparla. Mentre racconta alza il braccio come se la bistecca fosse volata sul soffitto e lui zigzagando per la stanza cercasse di prenderla.

*** I ragazzi si azzuffano per il bagno, Ivan si è barricato dentro, Clara urla che se non esce subito se la farà addosso, interviene Luca che consola Clara e sollecita Ivan. Per fortuna Sara ha ancora il pannolino, pensa Silvana. E fantastica sulle loro mattine in case con almeno due bagni. Sara con una mano tiene il biberon e succhia beata, con l'altra si accarezza l'orecchio, mette un piede sulla sedia di Clara, che la scaccia stizzosa, Ivan rovescia i cereali che rimbalzano sul tavolo e si tuffano picchiettando sul pavimento.

*** Dalla finestra Silvana guarda impaziente la strada, e quando sente il clacson strombazzare, chiama i fratelli che corrono elettrizzati, «È arrivato!», ed escono di corsa per accaparrarsi il posto vicino al finestrino, poi pigiati sul sedile posteriore fanno il giro dell'isolato, sulla sua prima auto, una 1100 blu usata.

*** Luca li aspetta dabbasso, mentre i ragazzi scendono rumorosamente le scale Silvana li accarezza con lo sguardo, Clara ha protestato prima di infilarsi i collant perché la pizzicano, Ivan rifiutava di mettere la cravatta dichiarando che stavano cercando di ucciderlo, Sara non ha protestato e se la stringe tra le braccia.

*** Al suo braccio sicuro Silvana ha varcato la soglia della chiesa, l'Ave Maria di Schubert e un profumo di fiori d'arancio la salutano, davanti all’altare si è fermato, l'ha guardata con occhi lucidi, ha preso la sua mano e l'ha messa tra quelle di Luca.

*** I fratelli e le sorelle di Silvana sono già arrivati; quando Luca la vede entrare le va incontro e la bacia, lui è al suo fianco felice.

*** Silvana la rivede poco più che bambina incamminarsi verso la fontana e, zigzagando tra le macerie di case bombardate, abbassare gli occhi imbarazzata, sentendo che il suo sguardo l'avvolge. L'immagina dietro le persiane in Corso Vittorio Emanuele, sogguardarlo mentre passando e ripassando sotto il balcone canticchiava "Io te voglio bbene assaie". All'inizio forse voleva solo lenire la pena dell'amore che gli era stato rubato; ma il destino tesseva la sua trama con fili sottili intorno a loro, e ora le imbrigliava una mano, ora le labbra, ora il cuore.

*** Nella sala adorna di quadri antichi e specchi dalle cornici dorate, un uomo con la fascia tricolore sigilla l'unione della coppia matura.

*** Silvana rivede il padre inclinare la testa all'indietro nell’estremo, disperato tentativo di sottrarla al

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destino che si stava compiendo, e tra un singhiozzo e l'altro diceva, «Che ne sarà di lei senza di me».

*** La cerimonia è finita, lei esce al suo fianco con un mazzo di fiori nella mano, Silvana distoglie lo sguardo per non mostrare il dolore nel vedere un altro al posto suo.

L'ABITO DA SPOSA

I giorni con il loro susseguirsi ritmico Scandiscono il tempo alle stagioni

Che lo seguono silenziose, Scivolando in un finire che inciampa

In un inizio silenzioso.

Un ricordo, quel giorno Che l'anima fremeva, Quel giorno spezzava

Un passato che si confondeva Con il futuro.

Sì, quel giorno d'autunno

Che si mescolava all'inverno, Soffiando aria fredda sul sole

Che si rimirava tra le foglie rosse.

Era quel giorno in cui l'adolescenza Si vestiva di maturità

Col suo bianco abito da sposa.