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141 «Brave, intelligenti e pulite»: le domestiche eritree e l’eredità ambivalente del colonialismo di Sabrina Marchetti Attorno all’impiego crescente di donne migranti nel settore domestico si è sviluppato un intenso dibattito, di portata interdisciplinare, sia nel conte- sto internazionale che in quello italiano (Lutz, 2008; Catanzaro e Colombo, 2009; Fauve-Chamoix, 2004; Sarti, 2008). Gli studi convergono su una vi- sione ampia di questo tipo di lavoro, includendo in esso «dalla cura dei bambini al mantenimento del giardino, [dal] rispondere al citofono al pulire il bagno (Anderson, 2007: 247)». Affermano inoltre che si tratta di un lavo- ro diverso dagli altri per la dimensione di intimità in cui si svolge, per la forte costruzione di genere su cui si fonda e per l’unicità della relazione tra datrice e lavoratrice (Lutz, 2008: 1). All’interno di questo dibattito, però, rimane spesso marginale il tema della relazione fra paese di origine e paese di destinazione e del ruolo che questa ricopre nell’esperienza soggettiva delle domestiche migranti 1 . Ciò è invece, a mio papere, di grande rilevanza, specialmente quando questa rela- zione si fonda su di un forte legame di tipo storico, come nel caso di una passata dominazione coloniale. Di conseguenza, per illustrare l’influenza di eredità storiche nel vissuto di lavoratrici domestiche migranti, guarderò all’auto-narrazione di quindici donne eritree arrivate in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta e che qui hanno lavorato come domestiche 2 . Le intervi- . Sabrina Marchetti, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, European University Institute, Fiesole (FI). Un ringraziamento speciale a Raffaella Sarti e ai revisori anonimi della rivista per i commenti al mio contributo. 1. Nelle pagine seguenti si farà un uso intercambiabile delle espressioni «collaboratrice domestica», «lavoratrice domestica» e, più brevemente, «domestica» per far riferimento a donne impiegate, in modo privato, per svolgere principalmente compiti di pulizia e servizio e, in alcuni casi, cura di bambini. 2. Si tratta di interviste in profondità raccolte dall'autrice, fra il 2007 e il 2009, nella città Roma, con donne di origine eritrea nell'ambito di un progetto di dottorato condotto nei Paesi Bassi, presso l’Università di Utrecht. La ricerca si basava anche su altrettante in- Mondi Migranti, 2/2013 Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.
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"Brave, intelligenti e pulite": le domestiche eritree e l'eredità ambivalente del colonialismo

Jan 16, 2023

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«Brave, intelligenti e pulite»: le domestiche eritree e l’eredità ambivalente del colonialismo

di Sabrina Marchetti

Attorno all’impiego crescente di donne migranti nel settore domestico si

è sviluppato un intenso dibattito, di portata interdisciplinare, sia nel conte-sto internazionale che in quello italiano (Lutz, 2008; Catanzaro e Colombo, 2009; Fauve-Chamoix, 2004; Sarti, 2008). Gli studi convergono su una vi-sione ampia di questo tipo di lavoro, includendo in esso «dalla cura dei bambini al mantenimento del giardino, [dal] rispondere al citofono al pulire il bagno (Anderson, 2007: 247)». Affermano inoltre che si tratta di un lavo-ro diverso dagli altri per la dimensione di intimità in cui si svolge, per la forte costruzione di genere su cui si fonda e per l’unicità della relazione tra datrice e lavoratrice (Lutz, 2008: 1).

All’interno di questo dibattito, però, rimane spesso marginale il tema della relazione fra paese di origine e paese di destinazione e del ruolo che questa ricopre nell’esperienza soggettiva delle domestiche migranti1. Ciò è invece, a mio papere, di grande rilevanza, specialmente quando questa rela-zione si fonda su di un forte legame di tipo storico, come nel caso di una passata dominazione coloniale. Di conseguenza, per illustrare l’influenza di eredità storiche nel vissuto di lavoratrici domestiche migranti, guarderò all’auto-narrazione di quindici donne eritree arrivate in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta e che qui hanno lavorato come domestiche2. Le intervi-

. Sabrina Marchetti, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, European University

Institute, Fiesole (FI). Un ringraziamento speciale a Raffaella Sarti e ai revisori anonimi della rivista per i commenti al mio contributo.

1. Nelle pagine seguenti si farà un uso intercambiabile delle espressioni «collaboratrice domestica», «lavoratrice domestica» e, più brevemente, «domestica» per far riferimento a donne impiegate, in modo privato, per svolgere principalmente compiti di pulizia e servizio e, in alcuni casi, cura di bambini.

2. Si tratta di interviste in profondità raccolte dall'autrice, fra il 2007 e il 2009, nella città Roma, con donne di origine eritrea nell'ambito di un progetto di dottorato condotto nei Paesi Bassi, presso l’Università di Utrecht. La ricerca si basava anche su altrettante in-

Mondi Migranti, 2/2013 Copyright © FrancoAngeli

N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

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ste analizzate saranno considerate come un esempio di quelle che Nira Yuval-Davis chiama «narrazioni dell’identità», ossia quei racconti che ac-compagnano l’esperienza migratoria per illustrarne la ripercussione sul pia-no della soggettività (Yuval-Davis, 2001: 59-61)». L’esempio delle donne eritree in Italia invita a considerare, in un´ottica postcoloniale3, la rilevanza del legame fra specifici contesti migratori e pre-migratori nei processi d'in-clusione sociale, culturale ed economica delle lavoratrici domestiche mi-granti.

Nelle pagine seguenti, illustrerò brevemente il dibattito accademico che fa da sfondo all’analisi proposta e descriverò il contesto di partenza e di ar-rivo per le migranti intervistate. Successivamente, nell’analisi delle intervi-ste, cercherò di mettere in luce il ruolo dell’eredità del colonialismo nel modo in cui viene da loro raccontato l’inserimento nel settore del lavoro domestico. Nel far ciò, mi soffermerò, per prima cosa, sulle memorie rela-tive al contesto pre-migratorio eritreo in cui, nonostante la fine della domi-nazione coloniale, l’influenza italiana era ancora forte in ambito sociale, economico e culturale. In secondo luogo, discuterò il modo in cui le inter-vistate descrivono l´esperienza lavorativa in Italia enfatizzando le proprie capacità e la relazione coi datori di lavoro in connessione con la passata storia coloniale4.

L’elemento che fa da collegamento fra le due fasi dell’esperienza delle intervistate sta, a mio parere, nella questione del capitale culturale postco-loniale. È questo infatti lo strumento di tipo discorsivo di cui le domestiche eritree si servono nel narrare il proprio percorso di vita e lavoro, a cavallo fra Italia ed Eritrea, esprimendo l’ambivalenza insita nella relazione fra i due paesi e che esse hanno sperimentato in prima persona.

terviste con donne del Suriname (ex colonia olandese) arrivate a Rotterdam nello stesso periodo per lavorare nel settore domestico e della cura domiciliare, nel tentativo di rin-tracciare elementi comuni nelle narrazioni di ex-colonizzate attive in questo settore. Ringraziando le intervistate per la loro collaborazione, nel presente articolo si useranno pseudonimi per preservarne la reale identità.

3. L’uso di questo termine si riferisce all’idea di «postcolonialità» intesa come quel «regi-me culturale» che determina il valore delle merci scambiate nella globalizzazione fra cui la forza lavoro delle domestiche migranti in connessione con l’eredità del colonia-lismo (Graham, 2001: 6).

4. In questo articolo ho deciso di concentrarmi in particolare sull’intersezione di genere e «razza», ma ciò non toglie che altri importanti fattori quali classe, età, religione, educa-zione abbiano un ruolo nei racconti offerti dalle intervistate. Per la questione dell’intersezionalità si rimanda a Leslie McCall (2005).

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1. Domestiche eritree a Roma: contesto e dibattito di sfondo Le quindici donne intervistate hanno tutte lasciato l’Eritrea prima del

1980, con in tasca un permesso per lavorare in una casa della borghesia romana. Circa la metà di esse aveva già lavorato come domestica per italia-ni ad Asmara5. In quegli anni, con l’intensificarsi della guerra contro l’Etiopia, Roma era la destinazione prediletta dagli eritrei che, alla metà degli anni Settanta, raggiunsero le 40mila presenze6. Tra le ragioni di que-sta predilezione vi era anche la domanda di domestiche straniere da parte delle famiglie italiane, tanto che circa il 90% delle donne eritree che vive-vano in Italia negli anni Settanta lavorava alle loro dipendenze (Scalzo, 1984).

Il confluire di percentuali così alte in questo settore era possibile grazie ad una serie di meccanismi atti a soddisfare le famiglie italiane che si apri-vano allora al «mercato straniero» nella ricerca di tate e cameriere (Andall, 2000). Le lavoratrici erano impiegate attraverso contratti «a chiamata no-minativa» organizzati da agenzie o da intermediari individuali, spesso lega-ti alle missioni cattoliche, all’epoca molto attivi nelle principali città eritree. Questa mediazione era necessaria al fine di redigere i contratti, gestire i rapporti con le ambasciate e «incrociare» al meglio le esigenze delle future datrici di lavoro e delle lavoratrici. I contratti prevedevano un periodo di prova di un anno, alla fine del quale la lavoratrice poteva o tornare nel suo paese o fare domanda per un contratto a tempo indeterminato e un permes-so di soggiorno, a seconda della richiesta da parte della datrice di lavoro. Il contratto di lavoro vero e proprio seguiva la normativa sul settore domesti-co del 1958 (Sarti, 2011: 79-84).

È vero tuttavia che la grande maggioranza delle donne e degli uomini eritrei arrivati in Italia in quegli anni, anche con il pretesto del lavoro do-mestico, dopo breve tempo scelse di ripartire per il Nord Europa, gli Stati Uniti, l’Australia o il Canada dove avrebbe potuto far domanda di asilo po-litico. Le donne intervistate fanno parte di quella minoranza che decise in-vece di fermarsi. Molte di esse hanno continuato a lavorare come domesti-

5. In un caso (Behare, arrivata a Roma nel ‘60) fu la stessa famiglia italiana per cui lavora-

va a portarla con sé durante il rimpatrio. 6. Sfortunatamente, pochi dati sono disponibili circa la presenza di donne eritree in Italia in

quegli anni. Tale mancanza si deve, innanzitutto, al fatto che fino all'indipendenza del 1993 gli eritrei erano registrati come etiopi. Altra ragione sta nel fatto che per tutti gli anni Settanta e parte degli anni Ottanta la documentazione rispetto agli ingressi è relati-vamente scarsa, tendendo ad unificare diverse nazionalità in macro-gruppi (es: africani) e non distinguendo sulla base del sesso.

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che per tutta la vita o hanno trovato impiego in ditte di pulizie e settori affi-ni. Al momento dell'intervista circa la metà era ormai in pensione.

Diversi dibattiti accademici fanno da sfondo alla lettura che farò delle interviste. In primo luogo, farò riferimento al tema della costruzione dell'i-dentità di soggetti neri, migranti ed ex-colonizzati che ha dato vita alla di-scussione su un «postcoloniale italiano» in particolare in campo letterario, storico e degli studi culturali (cfr. Andall e Duncan, 2009; Petricola e Tappi, 2010; Chelati Dirar et al., 2011). Dal punto di vista socio-antropologico oc-corre invece sottolineare la scarsità di studi sull’immigrazione verso l´Italia dall’Eritrea e dalle altre ex-colonie. Sono un’eccezione i lavori di Anna Ar-none (2008) e di Petra Mezzetti et al. (2008) sulla comunità eritrea di Mila-no e, per gli anni addietro, alcuni brevi articoli pubblicati negli anni Ottanta e a cui faccio riferimento per i primi dati sugli eritrei in Italia (Capalbo, 1982; Scalzo, 1984; Anselmi, 1987). Altro contributo importante è quello di Jaque-line Andall (2000) sulle domestiche nere in Italia (capoverdiane, somale, eri-tree e etiopi) che quindi, pur lasciando in secondo piano la dimensione post-coloniale, mi precede nell’affrontare il caso delle domestiche eritree.

In secondo luogo, è importante considerare il dibattito sulla «globalizza-zione della cura» per il quale il lavoro domestico migrante è un tassello di quella divisione globale del lavoro riproduttivo il cui funzionamento è de-terminato, nei diversi contesti, dalle articolazioni delle differenze di «raz-za», classe e genere (si veda fra gli altri Parreñas, 2001; Lan, 2006; Ehren-reich e Hochschild, 2002; Glenn, 2002).

Dal punto di vista della razzizzazione delle eritree in Italia in quanto donne nere postcoloniali, oltre al già citato saggio di Andall (2000), sono fondamentali sia gli studi sulla relazione tra domestiche nere e padrone bian-che durante la segregazione razziale negli Stati Uniti (Palmer, 1989; Rollins, 1985) e in Sudafrica (Cock, 1989), che quelli sul servizio domestico svolto dalle popolazioni indigene nei contesti coloniali, come in Locher-Scholten (2000), Stoler (2002), Haskins (2001), Lowrie (2009) e Banerjee (2004).

Gli studi citati convergono nel sostenere che l'esperienza di lavoratrici domestiche (migranti, nere, colonizzate) è simultaneamente caratterizzata da una gerarchia di tipo «razziale» fra la forza lavoro e da una segregazione di genere in ambiti tradizionalmente connessi con mansioni e abilità ritenu-te femminili. Nel caso qui discusso, si aggiunge un ulteriore elemento: le specificità di tipo storico e culturale quali il passato coloniale e le sue eredità – che accompagnano il percorso di donne straniere che arrivano in Italia, alla luce della relazione fra italiani in quanto ex-colonizzatori ed eri-trei in quanto ex-colonizzati.

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2. Il contesto pre-migratorio: italianizzazione ad Asmara Per mettere in luce proprio questo aspetto, è necessario guardare alla fa-

se pre-migratoria delle esperienze delle intervistate. Torniamo così all’Eritrea degli anni Quaranta e Cinquanta quando, nonostante la fine dell’amministrazione coloniale (1941), circa diecimila italiani decisero di rimanere nel paese, concentrandosi nella città di Asmara (Bottaro, 2003). Iniziò a questo punto una fase neocoloniale (Young, 2003) che gli italiani «asmarini» ricordano come un periodo dorato in cui, smessi i panni dei co-lonizzatori, facilmente indossarono quelli dell’élite bianca, con una posi-zione egemonica a livello socio-economico e culturale.

Molte delle intervistate, all’epoca bambine o ragazze, ricordano attività e conversazioni avute in contatto diretto con questi «asmarini» come occa-sioni, più o meno formalizzate, d’informazione sull'Italia e sulle pratiche culturali condivise fra italiani. Questa contaminazione e acculturazione ver-so l’Italia, in una parola questa italianizzazione, risulterà essere l’ingrediente principale di quel bagaglio pre-migratorio che i racconti delle intervistate descrivono come prerequisito fondamentale all’esperienza di lavoro successiva.

Un contesto privilegiato in cui avveniva questa acculturazione erano le scuole e i collegi italiani che si trovavano ad Asmara. Alcune delle donne intervistate frequentarono queste scuole o per volontà di qualche parente italiano o perché l’educazione scolastica e al tempo stesso religiosa che ve-niva impartita in questi istituti era spesso preferita a quella delle scuole pubbliche, gestite dagli inglesi prima e dagli etiopi poi. Si trattava di un ambiente scolastico originariamente pensato per i bambini italiani, ai quali era diretto l’insegnamento della lingua e di nozioni storiche e culturali sul paese dal quale provenivano i nonni o i genitori. Per queste giovani eritree ciò ha comportato il rapido apprendimento della storia, la geografia, la lin-gua e la letteratura italiana che padroneggiavano alla stregua degli alunni italiani. Al tempo stesso, ha significato un’esposizione a quella retorica pa-triottica e all’idealizzazione dell’Italia come Bel Paese che nutriva la quoti-dianità dei loro compagni di classe. Altrove ho discusso le implicazioni, per le bambine e ragazze eritree, dell’apprendimento della lingua e della cultura italiana all’interno di questo sistema scolastico (Ghidei Biidu e Marchetti, 2010). Tale esperienza ebbe sicuramente un grande impatto nella percezio-ne delle intervistate del proprio rapporto con gli italiani incontrati lungo il percorso migratorio.

Tuttavia, ugualmente importante è stata una forma di italianizzazione che ebbe luogo in contesti più informali, a casa, nel quartiere e per le strade

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di Asmara e a proposito della quale vorrei discutere alcuni esempi. Inizian-do con Azzeza che ricorda:

Ci sono tanti italiani ad Asmara. Tanti bambini parlano italiano ad Asmara. Poi siamo tranquilli... Ad Asmara puoi andare in giro con tutti. […] Ci sono tanti italiani... Ci sono i preti italiani! [L’italiano lo] parlano tutti. Noi siamo già abi-tuati agli italiani nel nostro paese. Non è la prima volta qui (intervista con Az-zeza, 60 anni, in Italia dal 1975).

Azzeza, nata ad Asmara nel 1957, racconta di essere «già» abituata – prima di arrivare in Italia alla presenza degli italiani e alla loro cultura, in virtù della condivisione di uno spazio pubblico, in cui la lingua italiana era do-minante. Dalle parole di Azzeza la convivenza pacifica fra gruppi diversi sembra possibile grazie all’attitudine «tranquilla» degli eritrei.

Similmente, Madidah, racconta degli incontri quotidiani con i vicini di casa italiani come occasioni di contatto non solo in senso fisico (poiché la sua famiglia e quella degli italiani condivideva lo stesso cortile), ma anche e soprattutto in senso culturale. Era l'occasione per le prime informazioni sulla vita in Italia e per apprendere la lingua. Gli incontri ruotavano attorno alla preparazione comune del caffè eritreo durante la quale Madidah ascol-tava i racconti degli anziani vicini:

[Loro dicevano che] l'Italia era bella e anche gli italiani. [...] Dicevano così, tra loro, quando parlavano. [...] Loro parlavano la nostra lingua e noi con loro par-lavamo italiano. [...] Quindi parlavamo mentre facevamo il caffè. [...] C’era un cortile. Carino. Allora lì si faceva, così. [...] Quindi quando tornava il professo-re, si faceva il caffè. Mi piaceva (intervista con Madidah, 58 anni, in Italia dal 1973). Il cortile di casa, spazio a metà fra il pubblico e il privato, è descritto

come il luogo fisico di uno scambio culturale italo-eritreo per Madidah, in condizioni che sembrano improntate su una certa eguaglianza e reciprocità. Tuttavia, in linea con la visione di Anthony King (1990) sulla «razzizzazio-ne» degli spazi urbani, una gerarchia fra italiani ed eritrei è in atto anche negli incontri apparentemente paritari descritti da Madidah e Azzeza. Nes-suna delle quindici intervistate eritree ha fatto riferimento ad un rapporto di tipo amicale con italiani, ma sempre piuttosto ad incontri che si svolgevano in uno spazio pubblico, innescati da relazioni di vicinato che non sembrano essersi trasformate in qualcosa di più personale.

L'impressione di una gerarchia, concretizzata nel riconoscimento di una certa «autorità» degli italiani verso i quali gli eritrei provano un sentimento di «rispetto», è ben espressa dalle parole di un'altra donna, di nome Semira.

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Nata alla periferia di Asmara nel 1941 e arrivata in città per lavorare come domestica per una coppia italo-eritrea, Semira così ricorda la presenza ita-liana dell'epoca:

Gli italiani sono molto rispettati. E come mai? Non lo so... È questo lo spirito – non so come spiegarti... Per i forestieri abbia-mo molto rispetto, di più per gli italiani: per me stanno meglio lì che nel paese loro. Anzi lo dicono proprio loro. Lo dicono, perché lì comandano, sono molto rispettati e sono sempre al primo posto (intervista con Semira, 66 anni, in Italia dal 1973). Dal punto di vista di Semira, l’autorità che gli italiani detengono in città,

unita all'atteggiamento di accettazione e cortesia da parte degli eritrei, spie-gano la loro permanenza in Eritrea dopo la fine dell’amministrazione colo-niale. Nelle parole di Semira ritroviamo degli elementi di continuità nel rapporto fra italiani ed eritrei, fra fase coloniale e neo-coloniale. Si tratta di un rapporto che, in fase coloniale, fu caratterizzato da ideali di «predilezio-ne», «fedeltà» e «lealtà» nel tentativo mussoliniano di rafforzare il legame col popolo eritreo in vista di un’ulteriore espansione dell’Africa Orientale Italiana.

Questi ideali discendono dalle rappresentazioni coloniali, tutt’ora in vita, dell’Eritrea come «colonia primigenia», dei soldati ascari eritrei come mar-tiri in nome dell’Italia e della facile assoggettazione della popolazione loca-le a politiche razziali e sessuali (cfr. Volterra, 2005; Barrera, 2003; Sorgoni, 1998; Ponzanesi, 2005). Tutto ciò torna nelle narrazioni delle intervistate, come in quelle degli eritrei in generale, non come desiderio di riscatto o ri-bellione7, bensì come rivendicazione di un rapporto «privilegiato» basato su una vicinanza e familiarità che vedremo essere, nella sua doppiezza, carico di implicazioni. Nei paragrafi successivi illustrerò come questi elementi dell'interazione fra eritrei ed italiani ad Asmara vengono utilizzati oggi dal-le intervistate per descrivere la relazione con le famiglie presso le quali tro-varono lavoro in Italia.

3. L’arrivo a Roma: «brave, intelligenti e pulite» Guardiamo quindi alle memorie relative al periodo dell'arrivo e dei pri-

mi lavori svolti a Roma. Sono gli anni in cui una gran quantità di donne eri-

7. Sull’invisibilizzazione dell’esperienza di ribellione da parte degli eritrei alla dominazio-

ne italiana si veda Ghidei Biidu e Hagos, cit.

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tree, avvolte negli inconfondibili scialli bianchi, si ritrovavano nei pressi di piazza Indipendenza, dietro alla Stazione Termini, tutte accomunate dal fat-to di lavorare come domestiche in casa d’italiani. Se andiamo a vedere co-me le protagoniste di queste storie oggi «danno senso» a tali vicende, ossia quali sono le spiegazioni che offrono del fenomeno che le ha coinvolte, es-se si concentrano prevalentemente sull'aspetto della «sostituzione»: furono chiamate a fare i lavori che gli italiani non volevano più fare. Il tema è af-frontato nell’intervista con Anna, arrivata a Roma nel 1967, che ad Asmara aveva lavorato a lungo in una missione italiana. Anna spiega i motivi che fanno da sfondo al suo arrivo citando l'opinione di un personaggio istitu-zionale visto in televisione («il Ministro») a conferma delle sue parole:

Quando [gli italiani] si sono stufati, [gli eritrei] son venuti a prenderne il posto, son venuti così. Eh no... dico... Quello che hanno lasciato gli italiani, [gli eri-trei] hanno preso. Chi è quello che l’altro giorno diceva...? Il Ministro: «Son venuti a lavare i nostri guai, le nostre cucine, [a fare] i lavori umili, il lavoro che non ha voluto fare l’Italia». Che gli italiani non hanno voluto fare! (intervi-sta con Anna, 75 anni, in Italia dal 1966). Centrale, in questo brano, è la dicotomia fra l'essere necessario per soddi-

sfare bisogni primari e l’essere considerato inferiore e relegato al livello più basso della gerarchia sociale in cui sono confinanti i/le migranti postcolonia-li. Sono loro a prendersi cura di compiti caratterizzabili come «abietti» (Kri-steva, 1980) e che Anna efficacemente sintetizza nell'espressione «lavare i nostri guai». Qui la parola «guai» rende metaforicamente le incombenze rela-tive a quel lavoro domestico e di cura, umile e stigmatizzato, che le famiglie italiane vivono come un problema, delegandolo perciò a persone esterne.

L’arrivo delle donne eritree viene inoltre spiegato in riferimento alle re-lazioni diplomatiche fra Italia ed Eritrea. Nell'opinione di Anna e della sua amica Amarech la questione può essere così riassunta:

Amarech: Selassiè8 aveva fatto la pace con l’Italia... I consolati si sono messi d’accordo... Così siamo potuti uscire, sennò dove andavamo?! Anna: E tutte queste domestiche in Italia... In Italia a quei tempi non era ben vi-sto [come lavoro] per il popolo italiano... Allora gli è venuto facile di chiedere, per pochi soldi, le ragazze dall’Eritrea! Amarech: Gli italiani sapevano che noi lavoravamo bene, perché stavano lì! – fino ad adesso stanno lì...

8. Si riferisce qui ad Hailè Selassiè, imperatore dell'Etiopia (che all’epoca includeva

l’odierna Eritrea) al potere fino al 1974.

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Anna: «Le ragazze di Asmara sono brave, sono intelligenti, sono pulite», [lo] sapevano! (intervista con Amarech, 65 anni, in Italia dal 1970 e Anna, 75 anni, in Italia dal 1966). Le «ragazze di Asmara» erano, nelle loro stesse parole, le candidate mi-

gliori per risolvere il problema della cura e della pulizia nelle case degli ita-liani, in un sistema di welfare, come quello italiano, che si basava fonda-mentalmente sull'iniziativa individuale delle famiglie (cfr. Andall, 2000). Dal loro punto di vista, le ragazze eritree «brave, intelligenti e pulite» erano apprezzate e ricercate dalle famiglie italiane.

Un'immagine simile degli eritrei è in diretta connessione col repertorio ereditato dal colonialismo e al quale le donne intervistate non esitano ad at-tingere auto-rappresentandosi come «brave domestiche». Per esempio, du-rante l'intervista, Anna sostiene che gli italiani pensano degli eritrei

che sono intelligenti. Soprattutto per questo legame con gli italiani, fra eritrei e italiani, avevano più fiducia. Veramente. Perché [in Eritrea] è conosciuta l'Ita-lia, gli italiani (intervista con Anna, 75 anni, in Italia dal 1966).

In effetti, gli eritrei sono descritti come una popolazione docile, quasi

«addomesticata», in un modo che conferma la loro posizione di inferiorità nel momento stesso in cui li elogia per la loro «predisposizione» al lavoro, la loro affidabilità e la loro propensione all'italianizzazione. Il modo in cui Anna descrive le qualità necessarie al successo dell'incontro fra italiani ed eritrei rivela l’assimilazione, da parte sua, della prospettiva degli ex-colonizzatori. Le sue parole riecheggiano la descrizione del «buon selvag-gio» che è stato «civilizzato» diventando buono, bravo e pulito. Sempre Anna, parlando del primo incontro con la sua datrice di lavoro, dice:

Subito mi ha fatto vedere il sugo, tutto lì. «Visto come ha imparato subito An-na? Basta lasciarli liberi, sono bravi questi eritrei!», diceva (intervista con An-na, 75 anni, in Italia dal 1966).

Qui emerge con efficacia quello che Albert Memmi (1987) chiama «il

marchio del plurale» uno degli elementi fondamentali della costruzione della rappresentazione dei colonizzati nel passaggio dalla forma singolare alla plurale quando la datrice di lavoro generalizza le qualità di Anna a tutto il popolo eritreo. Si tratta di un’omogeneizzazione del discorso del coloniz-zatore sul colonizzato che «non è mai caratterizzato come soggetto indivi-duale» in quanto «gli è permesso solo di disperdersi in una collettività ano-nima» (ibidem., 129).

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È interessante tuttavia notare come le intervistate abbiano trovato in tali affermazioni un'opportunità di autovalorizzazione, nell'identificazione con la lavoratrice «buona e affidabile». Semira, ad esempio, che conserva un ricordo estremamente positivo della prima famiglia italiana presso la quale ha lavorato a Roma, racconta di un giorno in cui si mise ad origliare una telefonata e sentì la datrice che suggeriva alle amiche:

«Non gli dite: fai questo e fai quest’altro, perché sono molto responsabili, le eritree». Diceva: «Sono molto responsabili e fanno tutto senza dire niente». Ho sentito una volta che lo diceva a un’amica sua (intervista con Semira, 66 anni, in Italia dal 1973).

A mio avviso, Semira sta qui «usando» le rappresentazioni comunemen-

te diffuse sugli eritrei per descrivere una specifica «personalità» che carat-terizza positivamente il loro modo di essere e lavorare. Nei brani tratti dalle interviste con Semira e Anna, infatti, entra in gioco un insieme di rappre-sentazioni che risale al periodo coloniale e descrive gli eritrei come fedeli, modesti, servizievoli, accondiscendenti, ma anche dotati d'intuito per quel che riguarda il recepire degli ordini. Vediamo nel prossimo paragrafo come la descrizione di questa «personalità» vada oltre la descrizione generale dell’atteggiamento e delle disposizioni delle lavoratrici, per entrare nel me-rito delle mansioni che queste dovevano svolgere. Si può parlare, allora, di un tentativo di rivendicare, sul piano narrativo, un vero e proprio «capitale» che contraddistingue le eritree, in quanto ex-colonizzate, in confronto ad altri gruppi migranti.

4. Un capitale sui generis: «le faccende degli italiani»

Le donne intervistate sembrano esprimere un senso di orgoglio per il fat-

to di essere «competenti» rispetto alle cose che «piacciono agli italiani». Tale competenza si basa sulla convinzione che esista un modo specificata-mente italiano di svolgere i compiti domestici e di cura dalla preparazio-ne del cibo e la cura dei bambini, fino alla pulizia, al modo di stirare e lava-re il bucato, o all'apparecchiatura della tavola per il quale le eritree sono più preparate di altre straniere. È interessante il fatto che ciò sia reso dalle intervistate come un elemento capace di dar loro più potere di negoziazione nel confronto con le datrici di lavoro e, più in generale, nel far fronte alle difficoltà incontrate in Italia. Anna spiega:

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Io perché grazie Dio avevo la conoscenza di saper stirare, di saper alzare [i letti]... Di natura, il lavoro [era] quello che ho fatto ad Asmara [...] Per me, [con] il lavoro... non mi sono trovata in difficoltà. [...] Perché se non sapevi la lingua non puoi orientarti, ma [se] sai stirare, sai lavare, sai capire: che voglio-no di più? (intervista con Anna, 75 anni, in Italia dal 1966).

Nelle parole di Anna, la familiarità degli eritrei con l'Italia e la facilità

con cui recepiscono le richieste «italiane» sono in primo piano: poiché alla missione dove lavorava ad Asmara, le insegnarono come lavare, stirare, pu-lire, fare i letti, e parlare italiano e quindi a «capire» Anna ritiene di es-ser diventata la persona «giusta» per soddisfare le necessità degli italiani.

Una conferma dello stesso meccanismo è offerta da Haddas per la quale il fatto di aver lavorato per una famiglia italiana in Eritrea è un fattore de-terminante per il successo del progetto migratorio. In realtà al momento di organizzare il proprio «contratto a chiamata» Haddas non aveva alle spalle un’esperienza di lavoro in casa d’italiani (lavorava in una fabbrica italiana di scarpe). Proprio per questo si considera particolarmente fortunata per es-sere riuscita a trovare un lavoro in coppia con un'amica che era stata invece, lei sì, precedentemente impiegata come domestica da italiani ad Asmara. Nelle parole di Haddas:

Insieme a un’altra mia amica, ad andare, non mi sento tanto che trovo difficoltà, perché lei sa l'italiano, sa lavorare, perché lavora per italiani a servizio. [...] Lei lavorava con italiani, in casa, allora sa tutto! E continua: [A Roma] sono entrata subito a lavorare, avevo voglia di imparare per bene tut-to [quello] che vogliono, [come fare] «le faccende degli italiani», insomma, di-ciamo (intervista con Haddas, 66 anni, in Italia dal 1975). Nelle interviste con Haddas e Anna si trova l’esempio di come il passato

coloniale sia fonte di un vero e proprio «capitale» di conoscenze e saperi pratici. In virtù della presenza continuativa degli italiani nel proprio paese, prima e dopo la fine del colonialismo, le intervistate sentono oggi di essere state «preparate nel modo giusto» per incontrare il favore italiano e, di con-seguenza, per avere una esperienza migratoria e lavorativa di successo. Le abilità apprese ad Asmara sono considerate come un capitale che esse han-no utilizzato per aumentare il proprio status e le proprie condizioni lavora-tive.

Nel proporre tale declinazione del capitale culturale prendo spunto dalla definizione di Beverly Skeggs (1997) di «capitale culturale femminile».

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Skeggs sostiene che la vita personale e professionale di donne della classe lavoratrice inglese dipende dalle risorse (ossia i «capitali») a cui hanno ac-cesso sulla base della concezione del genere, e delle rappresentazioni ad es-sa collegate, in cui queste stesse risorse hanno preso forma. La tipologia di capitali disponibili ad ogni categoria sociale è il risultato di processi storici e culturali che conferiscono specifiche abilità a certi gruppi piuttosto che ad altri. Il risultato di tali negoziazioni trova espressione nell'idea di «giusta personalità». Per Skeggs, parlare della propria personalità come quella «giusta» consente alle donne della classe lavoratrice inglese di valorizzare la precedente accumulazione di capitale in termini di esperienze, formazio-ne e acculturazione per controbilanciare un posizionamento sociale svan-taggioso.

Per illustrare ulteriormente questo punto, relativamente al caso delle domestiche eritree a Roma, guardiamo alla questione del cibo italiano e delle pratiche ad esso collegate. Narrative riguardanti il cibo entravano spesso nelle interviste in modo spontaneo, per illustrare la familiarità con la cultura italiana acquisita durante la gioventù e il suo impatto sul lavoro in Italia. Il seguente brano è tratto dall'intervista con Lemlem, una donna arri-vata a Roma nel 1972 dopo aver lavorato in casa d’italiani ad Asmara. Dal suo punto di vista, è proprio quell'esperienza ad averla correttamente equi-paggiata per la vita che l'aspettava in Italia. Ecco come Lemlem descrive la sua abilità nel cucinare «all'italiana»:

In casa [ad Asmara] cucinavamo le stesse cose [che cucino qui]. Si facevano pure gli gnocchi, la pasta [fatta] in casa, qualche cosetta. All'epoca un po' ho la-vorato come cuoca, un po' come aiuto-cuoca [per italiani]. Così. [...] Siccome ho imparato lì con loro, al lavoro, così poi lo facevo a casa. Qualche volta, quando andavo a casa. E dove comprava gli ingredienti? Si compra[vano]! La farina ce l’abbiamo a casa. Le patate: le coltiviamo dalla terra nostra. Facevamo tutto: le patate fritte, il purè… (intervista con Lemlem, 58 anni, in Italia dal 1972). A casa propria, nei giorni liberi, Lemlem proponeva ai parenti le ricette

che imparava sul posto di lavoro come giovane aiuto-cuoca in una ricca famiglia di italiani «asmarini». I frutti del proprio orto (le patate) vengono usati per cucinare quei piatti italiani che erano ormai diventati d'uso comu-ne anche ad Asmara.

Una volta arrivata in Italia, Lemlem cerca di guadagnare una posizione lavorativa migliore mostrando la sua bravura in cucina. Difatti, le doti di cuoca «all’italiana» si rivelarono la chiave per acquisire una posizione di relativo vantaggio rispetto al resto del personale di servizio al quale erano

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assegnati compiti più umili e faticosi. Lemlem, tuttavia, racconta che, a di-stanza di anni, le sembra di non aver ottenuto un miglioramento poi così grande. Nelle sue parole:

Però alla fine io come cucinavo una volta là [ad Asmara], facevo [altretta]tanto qua. [Ma] non è che qui... Lavori, lavori e non ti danno nessuna medaglia. «Brava, fai questo», e «Brava, fai quell’altro» (intervista con Lemlem, 58 anni, in Italia dal 1972).

Oggi, a ben guardare, il fatto di sapere cucinare all'italiana appare a

Lemlem solo come uno strumento in più, per la datrice di lavoro, nel cari-carla di compiti e responsabilità. In questo senso, le parole di Lemlem fan-no eco alla lamentela, incontrata sovente nel corso delle interviste, del mancato riconoscimento del legame storico fra Italia ed Eritrea da parte dei datori di lavoro. In questi casi, le narrative delle intervistate convergono nel dire che il processo d’italianizzazione sperimentato in gioventù non era ac-colto come elemento significativo dagli italiani, ma che essi, al contrario, lo normalizzavano, dandolo come per scontato.

Ciò rimanda innanzitutto al carattere egemonico della percezione dell’ex-colonizzatore che legittima l'imposizione della propria cultura sui popoli dominati. Emerge inoltre la limitata capacità trasformativa del capi-tale culturale detenuto da soggetti subalterni che non consente loro un reale cambiamento di condizioni di vita e gerarchie di potere. Si tratta cioè di un capitale che non permette di trasformare in modo radicale il proprio status poiché non diviene mai un capitale di tipo simbolico (Skeggs, 1997). Cio-nonostante, nel caso specifico qui analizzato, il capitale culturale accumula-to dalle lavoratrici domestiche eritree sembra essere stato una risorsa im-portante al fine di acquisire sicurezza materiale ed emotiva e, più di tutto, autostima. Come strumento, ossia, per comprendere e «dare senso» alla propria esperienza migratoria e lavorativa.

Conclusione. Le ambivalenze delle eredità coloniali In queste pagine si è offerto l’esempio di come il rapporto far paese di

origine e quello di destinazione entri nelle narrative di domestiche migranti. I processi di formazione della soggettività migrante acquisiscono difatti un significato particolare quando la «cultura» del paese di origine è stata in-fluenzata, modificata, contaminata da quella del paese di destinazione in virtù di un rapporto di tipo egemonico, come quello coloniale. È questo un elemento che caratterizza fortemente i racconti di migranti ex-colonizzati

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per i quali il legame col paese di destinazione raggiunge una forte intensità, a livello materiale e simbolico. Rispetto alle donne intervistate, si avanza quindi l'ipotesi che esse siano state in grado, nell’auto-narrazione del pro-prio percorso, di «usare» il passato legame coloniale fra l'Eritrea e l'Italia come uno strumento per la promozione delle risorse accumulate nel conte-sto pre-migratorio.

Le narrazioni che valorizzano la «personalità» della donna eritrea come ex-colonizzata appaiono come uno strumento importante per le negoziazio-ni nella relazione fra la lavoratrice eritrea, la società italiana e, in particola-re, le datrici di lavoro. La descrizione della propria personalità si basa spe-cificatamente sull'eredità di rappresentazioni, relazioni e stigmatizzazioni che giocarono, a suo tempo, un ruolo fondamentale nella dominazione co-loniale italiana in Africa. Si tratta di una risorsa, di un vero e proprio «capi-tale», che fu per loro estremamente importante per conquistare sicurezza materiale ed emotiva, auto-stima e per dare senso alla propria esperienza migratoria e lavorativa.

Tuttavia, come si è detto, tali eredità compaiono nei racconti delle inter-vistate in modo ambivalente. Il sentirsi brave, dotate, e capaci per il lavoro in casa d’italiani è descritto a tratti come una ragione di orgoglio. Così l’impiego nel settore domestico è raccontato non come elemento di margi-nalizzazione, ma di successo e riconoscimento. Le interviste, però, suggeri-scono anche che il passato coloniale può facilmente trasformarsi in fattore di vulnerabilità e di segregazione lavorativa in mansioni socialmente stig-matizzate quali, appunto, il lavoro domestico e di cura. In tal senso, l’auto-narrazione delle intervistate pone l’accento sulla continuità fra periodo co-loniale e la presente condizione d’immigrazione nella riproposizione, nel rapporto fra italiani e migranti, dell’antica gerarchia fra colonizzatori e co-lonizzati.

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