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Berardini - Commento a Kierkegaard · Introduzione In una pagina del suo diario, Kierkegaard annota il seguente pensiero: «Dunque ora esce La malattia mortale, ma pseudoni-ma, con

Aug 13, 2018

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Sergio Fabio Berardini

INTRODUZIONE E COMMENTO

LA MALATTIA PER LA MORTE

DI KIERKEGAARD

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Copyright © MMXARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133/A–B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–3621–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: novembre 2010

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A Isabella Adinolfi

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Indice

9 Introduzione 19 Capitolo I La malattia per la morte: l’opera e l’esordio

1.1. L’opera, 19 – 1.2. L’esordio, 20 23 Capitolo II Commento alla parte prima, sezione A

2.1. L’uomo, lo spirito, il sé, 23 – 2.2. L’uomo come sintesi, 25 – 2.3. Il rapporto come terzo positivo: il sé, 31 – 2.4. Ancora su uo-mo, spirito e sé, 34 – 2.5. Ciò che ha posto il rapporto, 37 – 2.6. Due forme di disperazione, 40 – 2.7. La disperazione: vantaggio o miseria?, 43 – 2.8. Caduta e ascesa: essere disperato, non essere disperato, 45 – 2.9. Da dove viene la disperazione?, 47 – 2.10. La disperazione si contrae in ogni istante del disperare, 51 – 2.11. La disperazione è: “la malattia per la morte”, 54 – 2.12. Disperare per qualcosa, disperare per se stessi, 57 – 2.13. Disperatamente non voler essere se stesso, disperatamente voler essere se stesso, 59 – 2.14. Il compito dell’uomo: essere un sé, 62

65 Capitolo III Commento alla parte prima, sezioni B e C

3.1. L’universalità della disperazione, 65 – 3.2. Le figure della di-sperazione, 68 – 3.2.1. La disperazione vista sotto la determinazio-ne “finito–infinito”, 69 – 3.2.2. La disperazione vista sotto la de-terminazione “possibilità–necessità”, 71 – 3.2.3. La disperazione

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Indice 8

vista sotto la determinazione “coscienza”, 75 – 3.2.3.1. La dispera-zione che ignora di essere disperazione, 75 – 3.2.3.2. La dispera-zione che è cosciente di essere disperazione, 78 – 3.2.3.2.1. Dispe-ratamente non voler essere se stesso (debolezza), 79 – 3.2.3.2.1.1. La disperazione per qualcosa di terreno o per il terreno, 79 – 3.2.3.2.1.2. La disperazione per se stesso o dell’eterno, 82 – 3.2.3.2.2. Disperatamente voler essere se stesso (ostinazione), 84 – 3.2.3.2.2.1. Il sé attivo, 86 – 3.2.3.2.2.2. Il sé passivo, 88

91 Capitolo IV Commento alla parte seconda, sezione A

4.1. La disperazione è peccato, 91 – 4.2. Il sé davanti a Dio (grada-zioni nella coscienza del sé), 93 – 4.3. La definizione socratica di peccato, 97 – 4.4. Il peccato non è una negazione, bensì è una po-sizione, 103 – 4.5. Disperazione, peccato, salvezza, 105

109 Capitolo V Commento alla parte seconda, sezione B

5.1. La continuazione del peccato, 109 – 5.2. Il peccato di dispera-re per il proprio peccato, 114 – 5.3. Il peccato di disperare della remissione dei peccati, 116 – 5.4. Il peccato di porsi contro il cri-stianesimo (abbandonandolo, o dichiarandolo falso), 120

127 Bibliografia

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Introduzione

In una pagina del suo diario, Kierkegaard annota il seguente

pensiero: «Dunque ora esce La malattia mortale, ma pseudoni-ma, con il mio nome per editore? Vi è scritto: “per edificazio-ne”, ciò che è più della mia categoria di poeta: “edificante”. Co-me il fiume Guadalquivir […] scompare a un certo punto sotto terra, così vi è un tratto, l’edificante, che porta il mio nome. Vi è qualcosa che è inferiore (la cosa estetica), questa pseudonima; e un’altra che più alta (il contenuto) che è anche pseudonima, perché la mia personalità non vi corrisponde. Lo pseudonimo si chiama Johannes Anticlimacus, in opposizione al Climacus che diceva di non esser cristiano. Anticlimacus è l’estremo opposto, l’esser cristiano in grado straordinario: magari potessi diventare un semplice cristiano».1 Johannes Climacus è lo pseudonimo col quale Kierkegaard firma le Briciole di filosofia e la Postilla alle briciole: una penna abile, questa, che unisce all’ingegno speculativo un’ironia quasi socratica, capace di segnare lucida-mente i limiti e le insufficienze della filosofia hegeliana, utiliz-zandone il metodo, sebbene in modo ironico. Tracciati in rosso tali limiti, l’unica conclusione possibile per Climacus è questa: soltanto nella fede in Cristo è possibile trovare la Verità ― solo in Cristo la Verità si svela, e non già in quel falso cristianesimo ordito dalle speculazioni di Hegel e dei suoi continuatori, le cui

1 S. KIERKEGAARD, Diario, tr. it. di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980–1983, vol.

VI , X1 A 510, pp. 63–64.

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menzogne egli smaschera ad una ad una. Eppure Climacus si professa non–cristiano: scorge la Verità, ma non l’afferra ― scorge la Verità, ma non la vuole. Quanto siamo lontani dalla fede di Dostoevskij! Una fede sofferta e tormentata, eppure viva e in lui presente e voluta, al punto che egli confessa, con timore e tremore, che sarebbe preferibile abbandonare la verità della ragione, qualora questa dovesse costringerlo a vivere separato da Cristo: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cri-sto, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».2 Johannes Climacus sa che la Verità è in Cristo: sa dove essa risiede e dove poterla trovare, e tuttavia rimane al di qua, prendendo dimora entro il dubbio (che pure sgretola ogni edifi-cio costruito dalla ragione), e non vi si dirige.

In uno scritto del 1843 (rimasto incompiuto), Kierkegaard sviluppa una variazione letteraria circa quello che poco più tardi sarà il suo acuto pseudonimo: «Nella città di H. viveva anni fa un giovane studente di nome Johannes Climacus […]. [A que-sti] piaceva cominciare da un singolo pensiero, da esso salire per la via dell’implicazione logica, gradino su gradino, a uno più alto, perché l’implicazione logica era per lui una scala pa-radisi, e la propria beatitudine gli sembrava ancor più magnifica degli angeli».3 Per Climacus il procedere del pensiero è dunque una sorta di scala paradisi (in riferimento a La scala del para-diso dell’autore medievale San Giovanni Climaco, cui Kierke-gaard trae spunto per lo scelta dello pseudonimo) ― una scala per la quale egli agilmente si eleva, di dubbio in dubbio, chiari-ficando la via che gli si svolge innanzi tramite l’uso della sola ragione, seguendo, more geometrico, le sue necessarie tappe. A questa scala, tuttavia, se ne oppone una differente: quella di An-ti–Climacus ― una scala desperationis, e non già paradisi, se con questo secondo termine, “paradisi”, qualifichiamo ciò che reca in sé la propria ricompensa, cioè qualcosa di perfettamente

2 F.M. DOSTOEVSKIJ, Lettere sulla creatività, tr. it. di G. Pacini, Feltrinelli, Milano 1991, p. 51.

3 S. KIERKEGAARD, Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est. Un raccon-to, a cura di S. Davini, ETS, Pisa 1995, p. 29.

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compiuto, da godere ad libitum, seppure finito: una scala, in-somma, che non deve condurre in alcun luogo, ché è bastevole a se stessa. Anti–Climacus descrive una ascesa nella coscienza del sé, ad augusta per angusta ― una ascesa tra le terribili pie-ghe dell’animo umano e sempre più intense ombre (quasi che l’ascendere si precisasse in un discendere, in una disperante ca-tabasi), che ha come ultimo approdo, al termine della scala, ol-tre essa, la fede. Climacus dichiara di non essere cristiano: com-prende i limiti della scala su cui esercita la propria abilità, ma proprio per questo, soddisfatto di tale esercizio, non ne vuole fa-re a meno, e vi siede sopra come appollaiato. Anti–Climacus di-chiara di essere un cristiano in misura eccezionale: compiendo una profonda analisi psicologica, ci invita a salire per la scala della disperazione, questa via per la morte, passo dopo passo, nella sua intensificazione, mostrandone l’assurdità, affrontando l’infittirsi delle ombre prodotte dalla debolezza e dall’ostinazio-ne umana; esortandoci, infine, ad abbandonare questa scala, per conquistare il nostro vero essere nella fede.4

Climacus, Anti–Climacus ― e Kierkegaard? Kierkegaard, lo abbiamo visto, si pone s’un piano differente. Egli afferma: «Che solo io stesso giunga a essere del tutto semplicemente un cri-stiano»! Qui Kierkegaard ammette di essere ben al di sotto di Anti–Climacus, e tuttavia si pone sopra Climacus.5 Johannes Climacus non è cristiano, sebbene riconosca in Cristo la verità, e questo gli basta; Anti–Climacus è cristiano in misura eccezio-nale; Kierkegaard, invece, vuole essere cristiano. Il diventare cristiano, per il filosofo danese, emerge così come un compito ― esserlo è il suo telos. Così egli è e non è cristiano: non lo è perché sente di doverlo diventare, ma lo è nella misura in cui vuole diventarlo, nella misura in cui il dover–essere permea il

4 In una sua Introduzione all’Esercizio del cristianesimo di Kierkegaard (edizione

Studium), Cornelio Fabro affronta ampiamente la questione circa la «dialettica dello pseudonimo Anti–Climacus» e il suo «significato», in costante riferimento allo pseudo-nimo Climacus e in generale alla intera produzione kierkegaardiana (cfr. C. FABRO, In-troduzione, in S. KIERKEGAARD, Esercizio del cristianesimo, Editrice Studium, Roma 1971, pp. 7–48).

5 «Io mi pongo un po’ più in alto di Jo. Climacus, un po’ più in basso di Anti–Cli-macus» (S. KIERKEGAARD, Diario, cit., vol. VI , X1 A 517, p. 65).

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suo essere. Questa tensione assume così la dimora esistenziale privilegiata da Kierkegaard, il quale, ponendosi al di sotto di una idealità cui ardentemente tende, ma di cui a tratti dispera, spesso abbandonato a una debole malinconia, si definisce un “poeta”, o meglio: un “poeta religioso”. Di questa figura, ne La malattia per la morte, troviamo una densa descrizione: «Un si-mile poeta ha un profondo bisogno religioso, e la rappresenta-zione di Dio è unita alla sua disperazione. Egli ama Dio sopra ogni cosa, Dio che è per lui il suo unico conforto nel suo tor-mento segreto, e tuttavia ama il tormento, non vuole lasciarlo andare».6 E poco oltre: «Egli è un amante infelice in rapporto al religioso, ossia, non è in senso stretto un credente; ha solo il primo stadio della fede: la disperazione, e in essa un ardente a-nelito del religioso».7 Si può dire che lo sforzo di staccarsi da questa condizione poetica, di portarsi oltre il semplice desiderio malinconico, di lasciar cadere il tormento, risale fino alla sua prima produzione a carattere “estetico”, e dunque quando, ac-canto alla figura del poeta, egli opponeva con forza quella dell’uomo etico. E tuttavia, Kierkegaard non è un semplice poe-ta (ed anzi, è bene non confondere il poeta religioso con la figu-ra dell’esteta, e dunque la profondità spirituale del primo con la vitale immediatezza del secondo, ché una differenza qualitativa li separa): egli è molto più “ricco” dell’infelice “A”, le cui carte sono state pubblicate in Enten–Eller. Kierkegaard è un poeta posto in direzione del religioso: il suo tormento non è sparso tra le cose terrene, non riguarda questo o quell’ente finito (sia esso un amore non corrisposto, o un’opera letteraria che rimane in-compiuta), ma germina da un intimo e cosciente rapporto con Dio.

«Kierkegaard, dunque, ha considerato il compito di scrittore religioso come la sua vocazione, ma anche come una limitazio-ne dell’essere cristiano. Un poeta, infatti, non è un apostolo, né un cristiano in carattere, ma colui che ha compreso l’ideale e lo

6 S. KIERKEGAARD, La malattia per la morte, tr. it. E. Rocca, Donzelli, Roma 1999,

pp. 79–80. 7 Ivi, p. 80.

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rappresenta nella sua purezza, anche se la sua esistenza ne è lontana, anche se la sua vita non l’esprime».8 Tuttavia, egli non solo ha compreso l’ideale cui dà voce, ma altresì lo ama, seppu-re a distanza, come un innamorato che segue e osserva di nasco-sto la propria amata, sospirando per lei ― egli non solo lo co-glie col pensiero, ma insieme vorrebbe tradurlo nell’azione, conducendo quel possibile alla realtà, al concreto vivere, seppu-re qualcosa in lui glielo impedisce, quasi spezzasse il suo impe-tus. In tal senso, Kierkegaard è un «amante infelice in rapporto al religioso»: per questo egli, sebbene non riesca ancora a defi-nirsi un cristiano, tuttavia desiderando disperatamente una vita cristiana, non è Climacus ― sta più in alto di Climacus. Egli vi sta sopra, ché nel proprio cuore custodisce l’ideale di Anti–Cli-macus. Così egli ― Kierkegaard ― scrive e non scrive La ma-lattia per la morte: la scrive facendosi dettare dal proprio idea-le. E così la firma non può essere sua ― ma sua è la cura di queste pagine quale editore.

Questo trattato di «psicologia cristiana», si è avuto modo di

anticipare, tenta di analizzare il fenomeno della disperazione, cui nessuno, è scritto, può dirsene immune. La disperazione vie-ne così colta nella sua universalità, e mostrata secondo diverse intensità e posta su diversi piani. Qui vi è descritta la discesa non tanto nell’anima, quanto in quella sintesi di anima e corpo che è l’uomo visto nella sua concretezza ― un descensus tra lu-ci e ombre, tra possibilità e necessità, tra finito e infinito, che coincide con una terribile e lucida intensificazione della dispe-razione. Terribile e lucida è questa progressione, giacché il po-tenziamento della disperazione denuncia una maggiore presa di coscienza della sua “natura” ― e terribile è diventare sempre più consapevoli della propria disperazione e, nello stesso tempo, insistervi, non abbandonarla, voler essere in essa. Terribile è sapere della propria disperazione; ma più terribile ancora è ri-conoscere di essere disperati «davanti a Dio»: questo è il poten-

8 I. ADINOLFI, Poeta o testimone? Il problema della comunicazione del cristianesi-

mo in Søren Abye Kierkegaard, Marietti, Genova 1991, p. 44.

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ziamento che segna il passaggio tra la “semplice” disperazione e la disperazione intesa quale peccato ― una «malattia per la morte», quest’ultima, che è qualificata da una differente misura ― una misura che non guarda al rapporto tra l’uomo e se stesso, ma al rapporto tra l’uomo e Dio. Si comprende in tal senso per-ché per Kierkegaard il cristiano (o meglio, chi ha accesso al messaggio di Cristo) è più disperato del pagano, sebbene il cri-stiano sia più vicino alla salvezza. Al cristiano, infatti, è rivelata la vera condizione dell’uomo e la sua autentica possibilità ― nonché il compito divino che gli è assegnato. Qual è questo compito? Diventare “se stesso” ― diventare un “sé concreto”. L’uomo, e qui si scorge la radice cui germina la disperazione, è e non è ― l’uomo non è “dato”, non è “fatto”, ma deve farsi.

Perché Dio, perché Cristo? Non può il singolo diventare se stesso autonomamente, dandosi la norma e la forza, direzione e fine? A queste domande, poste se non in modo indiretto, Kier-kegaard/Anti–Climacus dà risposta via via che procede la sua trattazione, la quale principia con una intensa e impegnativa de-finizione di “uomo”. Questi, lo abbiamo ricordato poco sopra, è una sintesi di opposti, di finito e infinito, di necessità e possibi-lità, di tempo ed eternità ― una sintesi riflessiva, in quanto è cosciente di se stessa ― una sintesi riflessiva sempre in atto, che si svolge, si costituisce spiritualmente, istante dopo istante. L’uomo è il farsi di un rapporto che si rapporta a se stesso. Ma egli è altresì un rapporto che si rapporta con la potenza che lo ha posto. Un rapporto che non può essere eliminato, quest’ulti-mo, o negato, ché ogni tratto dell’esistenza umana è testimone di questa apertura alla trascendenza ― apertura a un Altro che supera l’uomo e che induce l’uomo a superarsi. L’inquietudine della ricerca e della domanda ― quella inquietudine che lo ca-ratterizza e lo distingue da qualunque altro ente ― testimonia che l’uomo non è un mero oggetto finito, una cosa tra le cose, ma è come richiamato da un “oltre” che costantemente lo solle-cita, lo induce a uscire da sé: ad ex–sistere. L’uomo coglie la propria parentela col divino nella misura in cui, esistendo, va incontro alla propria possibilità, anelando l’eternità e figurando-si l’infinito. Occorre tuttavia riconoscere il rapporto con il divi-

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no, con questa potenza che lo ha posto, per non perdersi nell’in-determinatezza del possibile, nell’immobilità dell’eterno, nell’a-bisso di infiniti spazi ― ovvero per non fuggire angosciati da tale visione e tentare di trovare un vano rifugio nel finito. Un rapporto misurato con quella potenza, con Dio (o l’Altro, come inizialmente è definito), permette all’uomo di trovare l’autentica misura del proprio sé, cioè permette di alzarsi al di sopra delle cose, di non perdersi tra esse «come l’acqua nell’acqua»,9 per usare una suggestiva espressione di Bataille; e altresì permette di non naufragare nell’immenso sopra di lui, come un Icaro ca-povolto che, perdendo le ali, precipita non già in mare, ma in un cielo dall’incommensurabile profondità. Riconoscere Dio, per il danese, significa trovare il proprio posto e porre equilibrio nel proprio sé, e porsi in equilibrio nel mondo (ché la disperazione, questa malattia, è appunto uno squilibrio) ― significa compren-dere la propria finitezza e la propria elevazione. Ma per ricono-scere Dio e non essere consumati dalla sua idea e non morire nella sua visione,10 per porsi innanzi a lui in modo trasparente, deponendo resistenza e vanità, occorre affidarsi a Cristo, il Dio–uomo, questo paradosso che solo testimonia l’autentica discen-denza dell’uomo e che solo può insegnare a questi la vera “na-tura” del peccato e mostrare che la salvezza è sempre possibile. Chi si scandalizza di ciò; chi, pur avendo udito la Buona Novel-la, non ne presta ascolto, distraendosi o recependo altri annunzi (più semplici, più pubblici); ovvero chi, sebbene l’ami e se ne strugga, pone resistenza ad essa, oppure la rifiuta, negandola con ogni forza; chi si scandalizza di ciò, è un disperato. Chi si scandalizza è un uomo che ha contratto la «malattia per la mor-te».

La «malattia per la morte» è disperazione ― è un voler esse-re disperati, un non voler essere in salute. La «malattia per la morte» è il disperante tentativo di estirpare dal proprio sé la pa-rentela con Dio, il quale costantemente chiama e invita a met-

9 G. BATAILLE , Teoria della religione, tr. it. di R. Piccoli, SE, Milano 2002, p. 22. 10 Così disse il Signore a Mosè: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun

uomo può vedermi e restare vivo» (ESODO, 33,20).

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tersi in rapporto con lui ― essa è la resistenza a tale rapporto che non può essere in alcun modo strappato. Il tentativo di eli-minare questa parte di sé è disperante, giacché ciò che si vuole togliere è l’eterno, l’infinito dell’uomo ― e tale movimento non potrà che essere eterno ed infinito a sua volta ― un movimento cui nulla, nemmeno la morte, riesce a porre fine, ché la morte qui non è la fine, bensì il fine. La morte stessa muore per chi è disperato, il quale vive così un «morire la morte». Al disperato la disperazione fa temere questo: ch’essa non possa essere tolta. Italo Valent ha scritto che «“morire la morte” è la morte alla se-conda e invincibile potenza: cioè un morire che si perpetua, un finire che non finisce mai, un passare che non passa mai e che ci distrugge abbandonandoci soli e senza scampo con il pensiero e l’esperienza della distruzione».11 L’esistenza di chi è disperato si precisa in una continua mortificazione di sé, in un mai risolto mancare a se stesso che induce a sostare presso «miriadi di alta-ri» (tale è il destino, secondo Carmelo Bene, di quanti «non hanno visto la Madonna»12), di finito in finito, per placare una lacerante sete di infinito; ovvero che induce a vestirsi di una “particolare saggezza” cucita all’occorrenza, per non patire quella sete, o di neri e malinconici panni cui foderare la propria debolezza; oppure, infine, che induce al tentativo di farsi infiniti a se stessi, in un’impresa titanica, e farsi burrascoso oceano, che già non si vuol bere, bensì essere. L’approdo ultimo, che sanci-sce lo scacco cui è sottoposto il disperato nel “morire la morte”, per quanti rimedi cerchi, è la condanna definitiva del proprio sé ― un sé visto, nella sua universalità, come «immondo, atroce,

11 I. VALENT, Dialettiche della guarigione, in E. SEVERINO/R. BENEDUCE/I. VA-

LENT, La guarigione, Moretti & Vitali, Bergamo 1999, p. 99. 12 «I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove,

nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti preghiere – e questo por-ta a miriadi di altari. […] Non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio» (C. BENE, Nostra signora dei turchi, in ID., Opere, Bompia-ni, Milano 1995, p. 79). Per una possibile lettura del teatro di Carmelo Bene alla luce delle categorie kierkegaardiane rinvio al mio Lo spirito sognante: innocenza e angoscia nel Pinocchio di Carmelo Bene, in I. ADINOLFI/I.L. RASMUSSEN (a cura di), La profon-dità della scena. Il teatro visitato da Kierkegaard, Kierkegaard visitato dal teatro, “No-taBene. Quaderni di studi kierkegaardiani”, 6/2007, Il Melangolo, Genova 2007, pp. 207–218.

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assurdo» (quale è l’uomo per Céline13). Un essere, questo, ov-vero un “se stesso”, che tuttavia non è il suo autentico essere ― il sé che l’uomo deve essere ― ma un sé infinitamente e ostina-tamente corrotto, giacché è questo ch’egli desidera essere: un sé che non si pensa come sintesi e rapporto, bensì come sintesi spezzata colta in un infelice rapporto; e che, soprattutto, non si pensa nel rapporto con la potenza che lo ha posto, presso la qua-le solo può infine ritrovarsi. E non si pensa in tal modo, cioè nell’aderenza trasparente con Dio, non perché non può, ma per-ché non vuole ― perché non vuole credere sia possibile. E tut-tavia, là ove la disperazione pare giungere al suo estremo, là ove l’oscurità toglie l’ultimo grado di visibilità, ecco la luce i-naspettata: «La disperazione, al suo estremo limite, non lascia aperta che la via della salvezza: il movimento negativo della di-sperazione potrà alla fine trasformarsi nel movimento positivo della fede».14 Tra disperazione e rapporto, dunque, tra dispera-zione e fede, è possibile disegnare una fenomenologia di questa «malattia», che non è «per la gloria di Dio», bensì «per la mor-te»15 ― e dunque riconoscere il senso più profondo delle parole di Cristo: «Beato colui che non si scandalizza di me» (MATTEO, 11,6).

Prima di procedere al commento del testo, devo informare il

lettore circa la struttura del presente lavoro. Le pagine iniziali relative alla “sezione A” della prima parte del saggio di Kierke-gaard, essendo tanto brevi quanto decisive e complesse, sono state oggetto di una specifica analisi, o meglio, di un commento riga per riga. Le rimanenti sezioni e la seconda parte, invece,

13 «La gran fatica dell’esistenza non è forse insomma nient’altro che questo gran

darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant’anni, o più, per non essere semplice-mente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi. L’incubo di dover sem-pre presentare come un piccolo ideale universale, un superuomo da mane a sera, il sot-touomo zoppicante che ci hanno dato» (L.–F. CÉLINE, Viaggio al termine della notte, tr. it. E. Ferrero, Corbaccio, Milano 1992, p. 459).

14 E. PACI, Estetica ed etica, in ID., Relazioni e significati. II : Kierkegaard e Thomas Mann, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1965, p. 67.

15 Cfr. GIOVANNI 11,4 e l’esordio de La malattia per la morte che andremo subito ad analizzare.

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sono state oggetto di una analisi più aperta, lungo il procedere della riflessione kierkegaardiana. Chiude queste pagine una nota bibliografica che elenca i testi di Kierkegaard citati, la letteratu-ra secondaria adoperata e altre opere, qui richiamate, non stret-tamente dedicate al filosofo danese. Credo non sia superfluo ri-cordare che il presente commento non può in alcun caso sostitu-ire il testo di cui è “commento”: il suo utilizzo, insomma, può solo seguire oppure accompagnare la lettura de La malattia per la morte, e non precederla o, peggio ancora, surrogarla.

Sento di dover ringraziare il prof. Silvano Zucal, il quale mi

ha convinto a realizzare questo libro, dandomi fiducia e forza. Ringrazio inoltre il prof. Ettore Rocca e l’editore Donzelli, per la disponibilità e il consenso all’utilizzazione della loro tradu-zione; nonché la dott.ssa Laura Liva, per aver sciolto i miei dubbi circa il corretto intendimento di alcuni termini danesi e per la segnalazione di fondamentali saggi critici. Voglio altresì ringraziare Vittorio Bustaffa per la bella illustrazione che im-preziosisce la copertina e gli amici del gruppo “Ricerca AM”: Massimo Bettin, Giovanni Panno, Enrico Tommaso Spanio e Gabriele Zuppa, la cui generosità nell’ascoltare e corrispondere ha dato accoglienza e senso al mio filosofare. Un profondo rin-graziamento va alla prof.ssa Isabella Adinolfi che, negli anni, con attenta cura, ha saputo guidarmi entro le vie kierkegaardia-ne, e alla quale il presente scritto è dedicato. E infine, da ultima, ma prima per importanza, ringrazio Katia per la sua infinita pa-zienza.