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Mossa nella storia COMUNE DI MOSSA
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Aspetti di antico regime [in Mossa nella storia]

Jan 12, 2023

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Antonio Russo
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Mossa nella storiaCOMUNE DI MOSSA

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Francesca BoscarolPaolo Iancis

Marco PlesnicarIvan Portelli

Mossa nella storiaa cura di

Liliana Ferrari e Donata Degrassi

COMUNE DI MOSSA

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Coordinamento editoriale:Paolo Iancis

Cura redazionale, impaginazione e gra ca:Valentina Vidoz

Stampa:Ideago Sas - GoriziaAprile 2009

Autorizzazioni alla riproduzione:Archivio di Stato di Gorizia (concessione prot. n. 1130/28.34.01.10(35) del 17.04.2009. Divieto di riproduzione)Archivio storico provinciale di Gorizia (autorizzazione n. 236 del 16.04.2009)Si ringrazia inoltre per le gentili concessioni l’Archivio della Curia Arcivescovile di Gorizia, l’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine; la Biblioteca del Seminario Teologico di Gorizia; la Biblioteca Statale Isontina di Gorizia; l’Archivio privato della famiglia Attems (Lucinico).Per la preziosa condivisione di materiali e informazioni la riconoscenza degli autori va a: Giovanna Franzò, Mario Kodermaz, Paolo Malni, Vanni Marega, don Igino Pasquali, Egeo Petean, Elisa To¨ul.

Foto di copertina:Pianta del distretto di caccia detto Paludo Tremul, particolare villa di Mossa, 1795(Archivio Privato Attems Lucinico, Patrimonium Attems, VI, c. 463).

In collaborazione con:

Con il contributo di:

Comune di MossaVia XXIV Maggio 59 - 34070 Mossa (GO)

Istituto di storia sociale e religiosa di Goriziavia del Seminario 7 - 34170 Goriziawww.issrgo.it

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Indice

Presentazione 8

Liliana Ferrari Introduzione 11

Francesca Boscarol L’antichità e il medioevo 15

Paolo Iancis Aspetti di antico regime 45

Ivan Portelli L’Ottocento 87Marco Plesnicar Novecento mossese (1918-1960) 163

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Territorio, stato, poteri locali

All’inizio dell’età moderna il piccolo villaggio di Mossa, da ottant’anni gastaldia veneta, segue le sorti del distretto gradiscano nel tumultuoso passaggio territoriale dalla Repubblica ai domini asburgici. Mentre infatti per la confinante contea di Gorizia l’estin-zione della dinastia comitale aveva già determinato nell’anno 1500 l’ingresso tra i possessi di casa d’Austria, un ampio territorio sulla riva destra dell’Isonzo deve attendere, per conoscere la stessa sorte, la conclusione di una sanguinosa guerra che dal 1508 per tredici anni vede contrapposti veneziani ed imperiali.

Con il trattato di Worms, stipulato nel 1521, pur nel quadro di una questione confina-ria destinata a rimanere inesorabilmente aperta fino addirittura alla metà del Settecento 1, una frastagliatissima nebulosa di villaggi della pianura friulana meridionale interrotti dal territorio di Palma e di Monfalcone e capaci di spingersi con alcune enclaves fino al Tagliamento, diventano imperiali e si coagulano attorno alla fortezza di Gradisca che viene costituita in centro amministrativo capace a lungo di mantenere prerogative auto-nome dal capoluogo goriziano.

Mossa diventa così una delle gastaldie del capitanato di Gradisca, e con la frontiera oramai spostata sullo Judrio, quindi oltre Cormons, viene meno per il villaggio quella fase che dal 1420 gli aveva assegnato un ruolo di villa confinaria tra la Repubblica di San Marco e la Contea (dei conti), divisa quindi dai vicini lucinichesi e da quelli cormonesi da un confine di Stato (figura 1) 2.

Per molti decenni nel corso del Cinquecento Gradisca svolge principalmente funzioni militari. Questo conferisce al territorio ad essa subordinato un assetto amministrativo che a lungo rimane poco delineato e sul quale in ogni caso la storiografia non si è ancora ben cimentata. Sono noti tuttavia la gran mole di conflitti in materia feudale e giurisdizionale, le sovrapposizioni di competenze amministrative e fiscali, le contestazioni e le rivendica-

1 Su questi temi: Silvano Cavazza, Donatella Porcedda, Le contee di Gorizia e Gradisca al tempo di Marco d’Aviano, in Marco d’Aviano Gorizia e Gradisca. Dai primi studi all ’evangelizzazione dell ’Europa, a cura di Walter Arzaretti e Maurizio Qualizza, Gorizia, Fondazione Società per la conservazione della basilica di Aquileia, 1998, pp. 86-89; Con ni, contea di Gorizia e repubblica di Venezia, a cura di Annalia Delneri e Donatella Porcedda, Gorizia, Musei provinciali, 2001.

2 In mancanza di fonti cartogra»che più attendibili si può ricorrere, pur con alcune cautele a Paolo Cicuta, Lucinico tra cronaca e storia, a cura di Eraldo Sgubin, Gorizia, Centro studi Amis di Lucinis, 1995, p. 44. Cicuta descrive un con»ne molto spostato verso il centro di Lucinico. La linea di frontiera, seguendo le attuali vie San Roc di Luzzinis, Antico Castello e Romana, poco prima di entrare in piazza San Giorgio, avrebbe deviato nel Bariazut (l’attuale corte San Carlo) per a¨acciarsi su quella che oggi è la via Persoglia. Da qui sarebbe scesa nella sottostante valletta, toccato l’imbocco dell’attuale via delle Vallette e percorso via Brigata Re »no al rio Potoc.

Slovenija na vojaskem zemljevidu 1763-1787. Josephinische Landesaufnahme 1763-1787 fur das Gebiet der Republik Slowenien, 3, a cura di Vincenc Rajsp e Drago Trpin, Ljubljana, Znanstvenoraziskovalni center Slovenske akademije znanosti in umetnosti, 1995, mappa 181, particolare zona di Mossa.

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zioni territoriali che Worms lascia irrisolti 3, molti dei quali ora si trasferiscono all’interno dei territori annessi in un nuovo livello di conflittualità interregionale, che rende ad esem-pio il confine con i vicini goriziani tuttaltro che meramente amministrativo.

Basta del resto il colpo d’occhio cartografico per sincerarsi di un iter che ha demarcato territori e poteri in forma molto complessa e che inevitabilmente risente di un disordinato pregresso che getta le sue radici in epoca medievale. Mossa ne sa essere una brillante rap-presentazione, come si può osservare nella mappa di figura 2, che è della fine del Seicento, ma esemplifica una situazione plasmatasi fin dall’inizio del secolo precedente (almeno per la parte qui di nostro interesse). In essa è ben evidenziato come la villa di Mossa appar-tenga al capitanato di Gradisca, ma si insinui in un territorio integralmente goriziano (Lucinico, San Lorenzo, Capriva, Moraro, Corona, Mariano). Non solo. Se ricorriamo al particolare di figura 3 e osserviamo la lingua di terra comunale “promiscua”, prolungamen-to della Campagna lucinichese, che si insinua tra Mossa e Villanova e che sarà oggetto di

3 Cfr. Ancora Cavazza, Porcedda, Le contee di Gorizia e Gradisca al tempo di Marco d’Aviano cit., in particolare le pp. 89 ss.

Figura 1. Dal 1420 al 1500 la veneta Mossa è zona di frontiera con la contea di Gorizia. Stando alla descrizione di Paolo Cicuta il confine lambisce il villaggio di Lucinico. Nella ricostruzione cartografica che si propone l’approssimazione è elevata perché la mappa utilizzata è solo settecentesca, la più antica disponibile.

Conteadi Gorizia

Repubblica di Venezia

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contesa praticamente per due secoli, per il territorio mossese si prefigura quasi uno status di enclave gradiscana in territorio goriziano.

Già la fine del Quattrocento del resto esibiva per Mossa, pur ancora saldamente all’ombra di San Marco, una posizione piuttosto esposta verso la contea di Gorizia con l’esistenza di prerogative giurisdizionali esercitate dal locale gastaldo su alcune ville del Carso goriziano, dove egli si reca almeno due volte all’anno ad amministrare una giustizia verosimilmente di prima istanza 4. A complicare ulteriormente il quadro, questi imprecisati villaggi appaiono anche tributari nei confronti di Mossa di una serie di censi decimali, capaci naturalmente di suscitare le continue proteste di Gorizia, ma contemporaneamente

4 Augusto Geat, La villa di Mossa, in “Studi goriziani”, 31 (1962), pp. 59-109 e 32 (1962), p. 85, dove l’autore trascrive parzialmente un documento veneto dei primi anni ottanta del Quattrocento, genericamente indicato come tratto dal fondo Luogotenente alla Patria del Friuli dell’Archivio di Stato di Venezia. D’ora in avanti tuttavia, per ciò che attiene ai riferimenti di pagina dell’opera di Geat, ci si riferirà alla di¨usa riedizione monogra»ca Arti Gra»che Fulvio, Udine, s.d.

Figura 2. Disegno in pianta del principal contado di Gradisca con la sepratione delle città terre & villaggi a questo sottoposti, 1689, particolare della zona orientale con la gastaldia di Mossa (Biblioteca Statale Isontina di Gorizia, senza coll., inv. n. 197.129). La situazione confinaria qui ritratta può essere presa a riferimento per quella cinquecentesca.

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Figura 3. Catastico del Stato di Gradisca, 1681, p. 2, Villa di Mossa, in ASPGo, Serie diverse, Politica, 2, n. 33.

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anche di preoccupare le autorità venete per l’eccesso di autonomia esercitato dai mossesi, che suggerisce l’opportunità di una più stretta dipendenza dal capoluogo gradiscano 5.

Non si sopravvaluti tuttavia nella prima età moderna la capacità di penetrazione ammi-nistrativa del potere statale soprattutto nelle zone rurali, tanto più in una villa come quella di Mossa popolata da 270 “anime da comunione”, corrispondenti a circa 450 abitanti com-plessivi, quindi a non più di un centinaio di gruppi familiari 6. Ciò rende l’antico istituto della vicinìa, ovvero l’organo assembleare di autogoverno della comunità, l’istituzione di riferimento per la vita quotidiana della maggior parte dei mossesi. Si tratta fondamen-talmente di un’assemblea dei capifamiglia del villaggio che si riunisce periodicamente per discutere dei problemi di una società contadina di antico regime in cui la dimensione comunitaria della vita sociale ed economica ha ancora la prevalenza su quella privatistica. A capo dell’assemblea, quindi con compiti di rappresentanza dell’intera comunità, viene eletto un decano (deàn in friulano, župan nei villaggi di lingua slovena), coadiuvato nel suo lavoro da alcuni “giurati” e “ufficiali” a cui vengono affidati compiti esecutivi 7.

Il termine di vicinìa nel corso dell’età moderna verrà gradualmente sostituito con quello di “comune”. Si faccia attenzione tuttavia: siamo in una fase in cui l’espressione è ancora solo sinonimo di comunità e a lungo manterrà questo significato prima di andare a desi-gnare l’esistenza di un vero e proprio ente. In questo anche il passaggio molto tardo dal femminile (la comune, quindi ancora la comunità) al maschile (il comune, più compiuta-mente ente pubblico). Ma l’iter compiuto di questa transizione di genere rischia di farci trovare già nell’Ottocento.

È più incisivo invece il nodo giurisdizionale. Alcune ville del capitanato di Gradisca sono già affidate a una giurisdizione privata da prima dell’arrivo degli Asburgo 8, altre la riceveranno nella prima metà del Cinquecento, ma per la maggior parte l’amministrazio-ne della giustizia rimane a lungo prerogativa capitaniale, pur nel quadro delle persistenti

5 Ivi.6 I dati sulle animae communionis presenti a Mossa provengono dalle dichiarazioni raccolte dal visitatore

apostolico Bartolomeo da Porcia durante la sua visita nel 1570: Biblioteca Civica di Udine, Sezione manoscritti, n. 1039, Purliliarum comitis Bartholomei visitatio dioecesis aquilegensis 1570 (d’ora in poi BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia), c. 306r. Il rapporto di 3/5 utilizzato per stimare la popolazione complessiva proviene dall’applicazione di una proporzione valida nei villaggi adiacenti, in cui è possibile il confronto incrociato. La stima di nuclei familiari di 4-5 membri è una proporzione consolidata in storiogra»a per i centri rurali di antico regime. Il dato diverge (pur in un Cinquecento di forte crescita demogra»ca) da alcune conte anteriori fornite dallo storico goriziano settecentesco Carlo Morelli provenienti dalla “pretoria di Gradisca”: 74 maschi “atti alle armi” a Mossa nel 1525 per 260 anime complessive nel 1528 (Carlo Morelli di Schönfeld, Istoria della contea di Gorizia, I, Gorizia, Paternolli, 1855, rist. anast. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2003, p. 180).

7 Cfr. ad esempio Archivio Storico Provinciale di Gorizia (d’ora in poi ASPGo), Stati provinciali, sezione seconda (d’ora in poi Stati II), b. 580/1/2, c. 21.1.1582.

8 Morelli, Istoria cit., I, p. 149.

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sovrapposizioni di competenze che rimbalzano da una parte e dall’altra del confine gori-ziano 9.

Nel caso di Mossa la prima istanza in materia civile e nel cosiddetto criminale minore, cioè nelle cause penali meno rilevanti, è affidata a un gastaldo di nomina camerale che opera in loco e le cui sentenze sono appellabili presso il capitano di Gradisca.

Dell’operatività della cancelleria mossese in questa fase storica è rimasto un interessante stralcio documentario 10 che ci concede lo sguardo pur frammentario su una competenza di giudizio spesso spicciola, ma capace di spaziare su disparati fronti. Il nodo fondiario è quello più praticato con la frequente lite confinaria o con l’incerto assetto proprietario di arativi, prati, vigne e boschi, ma si propone con assiduità la materia creditizia (nelle prevalenti varianti del ritardato pagamento e della contestazione fideiussoria), inevitabile del resto in una società rurale di antico regime fortemente discontinua nel momento della produzione del reddito e quindi esposta all’insolvenza. In assenza di qualsivoglia forma di assistenza l’indebitamento è dietro l’angolo anche nell’eventualità della malattia, come avviene a Michel Cadauciz nel 1559, costretto al prestito per saldare medico e speziale 11. Compare anche la questione ereditaria irrisolta e il patto dotale violato, per poi spaziare ampiamente nella litigiosità più rissosa come quella che il 2 luglio 1560 vede il decano di Mossa Furlano denunciare una sassaiola avvenuta tra suo nipote Paolo e i compaesani Agostino Linussio e Domenico Tribul finita malamente con una profonda ferita alla testa e un ginocchio acciaccato 12.

La cancelleria del gastaldo è anche il luogo attraverso cui il capitano di Gradisca eser-cita il suo potere di controllo sul territorio, con l’emanazione di editti, disposizioni e pro-clami, spesso ambiziosi, ma con un’efficacia che rimane ignota, come avviene in occasione di un ampio regolamento sull’ordine pubblico affisso a Mossa il 5 novembre 1562 capace di spaziare dal controllo degli ospiti forestieri nelle case dei locali, ai furti e ai danni nelle coltivazioni, fino a una reprimenda esemplare contro i bestemmiatori del nome di Cristo, della Madonna e dei santi 13.

Lo status di gastaldia concede a Mossa, seppure per un breve periodo all’inizio del Cinquecento, la prerogativa di partecipare alle sedute degli Stati provinciali goriziani, l’or-gano assembleare di rappresentanza cetuale che originariamente raccoglie tutti gli “ordini” della società, compreso quindi un terzo stato suddiviso tra cittadini e comunità rurali 14. Per le diverse contadinanze tuttavia il privilegio della rappresentanza viene meno quasi subito e già verso la metà del secolo l’organo di autogoverno provinciale seleziona l’ingresso solo a patrizi ed ecclesiastici. Per Mossa la partecipazione da allora in poi potrà rimanere solo

9 Cfr. Ancora Cavazza, Porcedda, Le contee di Gorizia e Gradisca al tempo di Marco d’Aviano cit., in particolare la p. 90.

10 ASPGo, Stati II, b. 580/1/2.11 Ivi, c. 12.3.1558.12 Ivi, c. 15.13 Ivi, c. 5.11.1562.14 Morelli, Istoria cit., I, p. 111.

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indiretta, attraverso il locale parroco che, quale titolare di pieve, mantiene il privilegio dello scranno provinciale, sembra fino a tutto il Settecento 15.

Questo l’assetto istituzionale del territorio, se non fosse che ci troviamo in un’epoca in cui le inerzie feudali del precedente periodo medievale si fanno ancora sentire con insistenza. Sull’organizzazione camerale, cioè statale, si sovrappone infatti il complesso intreccio di poteri territoriali, risultato della concessione di prerogative feudali alla nobiltà locale accumulatesi nei decenni quando non addirittura nei secoli e che spesso andranno a sovrapporsi con la nuova ondata di concessioni giurisdizionali di cui molte famiglie patri-zie beneficeranno in particolare tra fine Cinquecento e inizio Seicento. Gli Asburgo, fin da quando entrano in possesso della contea di Gorizia, non esitano a confermare in blocco gli statuti, i diritti e i privilegi esistenti prima del loro arrivo, non preoccupandosi troppo di dover adattare vecchie regole (emanate dalla precedente amministrazione di San Marco, quando non addirittura da quella patriarcale) ad una realtà completamente mutata 16. Il risultato è una situazione estremamente caotica, a tratti fuori controllo, che inizialmente ci si limita a ratificare e che successivamente si dovrà affrontare (ad esempio nel 1525) con ripetute commisioni feudali di nomina governativa chiamate all’ingrato compito di mettere ordine in una materia tanto complessa 17.

A Mossa i nodi vengono al pettine nel 1560, quando i beni feudali esistenti all’inter-no del suo territorio diventano oggetto di contesa tra i discendenti dell’antica famiglia detentrice, i De Erasmis, di origine friulana, e il neoacquirente Giovanni Hoyos, in quel momento capitano di Gradisca. Il risultato è un lungo e giuridicamente complesso processus in causa pheudalj, i cui incartamenti sono giunti fino a noi e che concedono per Mossa uno straordinario affresco di storia feudale dal tardo medioevo alla prima età moderna 18.

Il tema è tanto più significativo perché i beni oggetto della ricostruzione processuale vertono sul luogo simbolo attraverso cui si snoda la vita di Mossa dalle sue origini, nonché sede secolare delle diverse generazioni di poteri territoriali che si sono alternati alla guida del villaggio, la zona della Vallisella, ovvero la collina al confine occidentale del paese. La citazione concede l’immersione:

una curia iacente in Mossa cum quatuor mansis. Uno prato cum sijlva adiacente. Duabus alijs curijs cum campis et pratis illis pertinentibus. Uno manso in Mossa. De omnibus alijs benis [...] in Mossa [...]. Tribus curijs et domibus habitationum in Mossa cum suijs pertinentis. Castellatio et monte toto a sumitate ad podem montis cum omni in quod in eo habemus

15 Ivi, p. 114.16 Si veda il diploma concesso dall’imperatore Massimiliano I il 7 aprile del 1518 conservato in ASPGo,

Pergamene, n. 566, marca 581, riprodotto e trascritto in Divus Maximilianus. Una Contea per i Goriziani 1500-1619, a cura di Silvano Cavazza, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2002, pp. 126-127; si confronti poi ivi le considerazioni fatte da Silvano Cavazza a p. 138 e si concluda con Morelli, Istoria cit., I, pp. 2-3.

17 Morelli, Istoria cit., I, pp. 210-212.18 ASPGo, Stati II, b. 559.

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Mossa nel particolare di alcune carte cinquecentesche. 1. Disegno anonimo dei fiumi di risorgiva friulani, in Archivio di Stato di Venezia, Savi ed Esecutori alle Acque, Diversi, n. 157; 2. Goritiae, Karstii, Chaczeolae, Carniolae, Histriae, et windorvm marchae descrip[tio], 1573; 3. Principat[us] Goricens[is] cvm Karstio et Chaczeola descripcio, Wolfgang Lazius, 1561; 4. Carta del Friuli, della Contea di Gorizia, dell’Istria e delle aree limitrofe, forse Giorgio Liberale, 1560 ca.; 5. Forum Iulium, Karstia, Carniola, Histria et windorum marchia, Gerhard Kremer (Mercator), 1589; 6. Disegno anonimo dei territori veneti e arciducali, in Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla Camera dei Confini, b. 141/30; 7. Fori Julii accurata descriptio, Abram Oertel, 1573;

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8. Raffigurazione della Patria del Friuli e della penisola istriana, Egnazio Danti, 1581; 9. Disegno anonimo della valle dell’Isonzo e della Val Canale, in Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Ms. It. VI.188 (10039), tavola 35; 10. Mappa delle valli del Natisone e dell’Isonzo “retratto dal disegno del s[ign]or Evstachio Boiano”, forse metà Cinquecento, in Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Ms. It. VI.188 (10039), tavola 34.

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8. Raffigurazione della Patria del Friuli e della penisola istriana, Egnazio Danti, 1581; 9. Disegno anonimo della valle dell’Isonzo e della Val Canale, in Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Ms. It. VI.188 (10039), tavola 35; 10. Mappa delle valli del Natisone e dell’Isonzo “retratto dal disegno del s[ign]or Evstachio Boiano”, forse metà Cinquecento, in Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Ms. It. VI.188 (10039), tavola 34.

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et de omnibus bonis pheudalibus ad ipsum castellatium pertinentibus et cum omnibus suis iuribus 19.

Curie e mansi nella terminologia agraria medievale designano entrambi dei poderi, delle fattorie, di maggiori dimensioni le prime, più parametrate sull’autosussistenza alimentare della singola famiglia contadina i secondi. Si tratta quindi di un pacchetto fondiario ben nutrito, anche se non quantificabile in estensione e in molte delle sue parti neppure ben identificabile in posizione, comprendente cinque curie, di cui una con casa d’abitazione e pertinenze, un’altra con campi e prati annessi. A queste si aggiungono cinque mansi, un prato, un bosco e qualche altro bene residuale. Ma è ovviamente il corpo centrale del feudo il nucleo di maggiore interesse, tra l’altro capace di un dettaglio superiore, se incrociato con le informazioni provenienti da altre sezioni del documento. Si tratta di due colline mossesi, possedute “dalla sommità ai piedi” e con tutte le “pertinenze” e i “diritti”: la prima è il monte de Mossa ubi erat castrum 20, la seconda quella su cui sorge un castellacio. È inequi-vocabile pertanto il riferimento al rialzo della Vallisella e al suo prolungamento orientale che ancora oggi mantiene il toponimo friulano di Ciascilut, castelletto. Infatti la distin-zione terminologica tra castrum e castellatio non può che essere di ordine dimensionale, una sorta di gerarchia che è necessario creare tra l’originario castello medievale di Mossa e una seconda costruzione, verosimilmente successiva e supplettiva della prima, ma meno ambiziosa e discosta qualche centinaio di metri più ad est.

Non ci si illuda tuttavia sull’esistenza a Mossa di un castello in età moderna (e nep-pure nel tardo medioevo). Si faccia infatti caso all’inequivocabile tempo del verbo – erat castrum – che descrive una struttura non più esistente e di cui rimangono solamente i resti (“totius castri nunc diserunt”, ma anche “in maximam ruinam et desolationem”). Non solo, ma il verbo al passato si mantiene anche negli allegati processuali che arretrano fino alla metà del Quattrocento, in cui già ricorrono espressioni come “propter antiquam ruina” o anche “ipsum castrum [...] ab antiquo peritus ruinatum”, che ci danno indicazioni inequi-vocabili su una distruzione del castello avvenuta in epoca per nulla recente 21. Non solo, ma se ci soffermiamo sulle carte quattrocentesche, l’intera collina della fortezza sembra del tutto abbandonata dopo i fasti medievali, come se la parte occidentale di Mossa avesse perso quella centralità insediativa delle origini e l’abitato fosse del tutto sbilanciato verso la centa. Il monte del castello viene ad esempio descritto nel 1459 come ricoperto integral-mente da boschi e arbusti (“conversus in sylva et spinis”) e i suoi terreni abbandonati (“in pustota”). Ma neppure il colle del castellatio sembra passarsela meglio, anch’esso incolto e privo di ogni attività 22 e bisognerà attendere la metà del Cinquecento per ritrovare campi e

19 Ivi, c. 21r.20 Ivi, c. 13r.21 Ivi, cc. 15r-16r, 29r.22 Ivi, c. 15r.

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sedimi nuovamente coltivati (“arativis et plantatis”) e condotti da coloni mossesi residenti sugli stessi 23.

Cade a questo punto la tesi di Augusto Geat che vede l’origine di ogni male nell’an-no 1480, quando la villa – stando alla testimonianza dello storico friulano ottocentesco Francesco di Manzano – conosce un “notabile incendio” 24, i cui effetti tuttavia sono del tutto ignoti. Per Geat il dato è sufficiente invece per riconoscere in quello il momento di cesura tra la fase medievale e quella moderna, ma soprattutto la causa della distruzione del castrum, anche se su questo specifico aspetto è egli stesso ad accusarsi di “asserzione [...] priva di ogni fondamento” 25.

In ogni caso, visto che solo due o tre decenni dopo lo svolgimento di questa causa pheudalij il colle della Vallisella ritornerà a nuova vita con l’arrivo dei Cobenzl e la costru-zione della villa signorile che da allora contraddistinguerà con tratto aristocratico il pae-saggio di questa parte del paese e diventerà il nuovo centro della vita politica mossese, non è esagerato affermare che il processo abbia rappresentato un significativo momento di svolta, certamente poco solenne e tantomeno nobile nel suo iter, ma che di fatto permette-rà agli Hoyos di entrare legittimamente in possesso di Mossa e, dopo una fase di profonda decadenza, di aprire un capitolo nuovo per la sua storia.

A questo punto però è necessario un passo all’indietro perché capire la contesa tra gli Hoyos e i De Erasmis richiede la tracciatura di una mappa della storia feudale mossese, almeno fino al punto in cui si spinge la capacità narrativa della fonte (e che comunque si connette alla ricostruzione presentata nella sezione medievale di questo stesso volume).

Il castello di Mossa è in origine feudo patriarcale. Il punto di partenza di cui si dispo-ne è una doppia investitura cum sigillo pendente, la prima fatta dal patriarca Nicola di Lussemburgo (sul soglio aquileiese dal 1350 al 1358) a Rodito di Mossa, che la condivi-de con i suoi nipoti e con lo zio Giovanni. La seconda è emanata dal patriarca Antonio Panciera nel 1403 a Pietro Mussolino e al fratello consanguineo Giovanni Bernardo 26. Alla loro morte, avvenuta senza eredi, il feudo diventa vacantis e nel 1420 Venezia, subentran-do ai patriarchi nei domini friulani, lo avoca a sè per concederlo nel 1459, attraverso il luogotenente della Patria del Friuli Leonardo Contarini, ad Erasmo de Erasmis di Udine, sindaco fiscale del capoluogo friulano 27. Quello di sindaco del fisco camerale è un ufficio importante dell’amministrazione veneta, lo si ritrova nei principali centri della Terraferma lungo tutta l’età moderna e attraverso di esso vengono tutelati i diritti della camera ducale

23 Ivi, c. 49r. Gregorio Trivisan conduce quattro campi di arativo piantato, Daniele Della Meduna altri due, Giacomo Pecudario un sedime grande mezzo campo, mentre Agostino Linussio e Peterin di San Lorenzo ognuno una braida di un campo. In»ne il ronco di dieci campi del castellatio è condotto da Gasparo Bahely.

24 Francesco Di Manzano, Aggiunta all ’epoca VI degli Annali del Friuli, Udine, G.B. Doretti, 1879, p. 85.

25 Geat, La villa di Mossa cit., pp. 20-21.26 ASPGo, Stati II, b. 559, c. 9r.27 Ivi, cc. 14r-18v.

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in sede processuale, incarico in cui evidentemente un funzionario zelante ha buon margine con i suoi servigi di guadagnarsi un premio di fedeltà:

in dicto officio fidelissime servivit sine sallario suis expensis non solum in Utino, sed etiam in diversis alijs locis sustinens iura n.ri Dominis 28.

I de Erasmis, come avviene per molte altre famiglie venete che hanno possedimenti nel Friuli goriziano, rimangono titolari dell’investitura anche dopo la guerra austro-veneziana e il passaggio del territorio mossese alla casa d’Austria. Anzi nel frattempo acquisiscono il titolo nobiliare e nel 1525 l’arciduca Ferdinando conferma i privilegi alla famiglia udinese, ratificando la successione ereditaria dal capostipite Erasmo ai tre figli maschi Barnaba, Ambrogio e Andrea, i quali rispondono con l’omaggio di fedeltà al nuovo principe 29.

28 Ivi, c. 7r.29 Ivi, cc. 18v-23r.

Figura 4. Genealogia della famiglia De Erasmis, feudatari di Mossa dalla metà del Quattrocento fino all’arrivo degli Hoyos nel 1560 (ASPGo, Stati II, b. 559, c. 48r).

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Negli anni successivi e fino al 1560 è solo un gioco di passaggi ereditari della titola-rità feudale tra i discendenti della famiglia, che è meglio lasciare alla rappresentazione di figura 4, finché il 23 agosto di quell’anno Mario, Ilario, Ruggero e Ambrogio, in quel momento contitolari dei feudi mossesi, optano per l’alienazione in favore di Giovanni Hoyos 30. Le condizioni contrattuali sono tutt’altro che chiare. L’alienazione sembra avere per contropartita un pagamento in contanti di 167 ducati da effettuare subito e, scaglionate, una serie di altre voci proporzionate all’estensione dei terreni (forse 10 ducati per campo, il cui numero tuttavia è imprecisato) e decurtate dei gravami fiscali (da versare in libbre di pepe) a cui il possessore del feudo è tenuto nei confronti della camera gradiscana.

Ed è proprio sulla legittimità di questo atto che è intentata la causa che fa da base all’intero dibattimento processuale. Già nell’autunno del 1560 infatti Luca, Antonio e Ottavio de Erasmis, ultimi discendenti della famiglia, sentendosi defraudati dello storico patrimonio in terra gradiscana, contestano la legittimità della decisione paterna, soste-

30 Ivi, cc. 48r-51r. L’originale pergamenaceo del documento è riprodotto in �gura 5.

Figura 5. Contratto di alienazione del feudo di Mossa tra gli eredi de Erasmis e Giovanni Hoyos stipulato il 23 agosto 1560 (ASPGo, Pergamene, n. 763 (marca 779).

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nendo in giudizio l’inalienabilità di un corpo feudale secondo le comuni regole del diritto privato, quindi la nullità giuridica del contratto che l’ha sostenuto e in ultima analisi la restituzione ai de Erasmis di quanto impropriamente ceduto a Giovanni Hoyos come se si fosse trattato di un normale bene di proprietà 31.

31 Ivi, c. 55r, ma passim.

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Figura 6. L’imperatore Ferdinando nel giugno del 1560 investe Giovanni Hoyos di un lungo elenco di possessi fondiari nella gastaldia di Mossa (ASPGo, Pergamene, n. 762, marca 778).

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È noto l’esito del processo. Ma l’interesse di Giovanni ( Juan) Hoyos per Mossa non è nuovo. Il barone di Stichenstein, spagnolo di Burgos, capitano di Trieste dal 1545 al 1558 e poi di Gradisca, membro autorevole di una famiglia imparentata con i Salamanca e giunta in Austria al seguito dell’arciduca Ferdinando 32, ha un precedente di poco ante-riore. Già nel maggio del 1560 infatti egli era stato investito direttamente dall’imperatore Ferdinando di un elenco consistente di beni fondiari a Mossa per un totale di una ventina di terreni tra mansi, campi, prati e pustote (a cui se ne aggiungono altri a Lucinico e nel borgo di Potbreda, Pubrida), tutti lavorati da coloni locali, recente acquisizione camerale, risultato – sembra – di un esproprio privato di grosse dimensioni (figura 6).

Un lavoro preparatorio quello di Giovanni Hoyos, di cui il dinamico capitano di Gradisca non potrà però godere i frutti. Glielo impedirà una morte prematura che lo coglierà 55enne solo pochi mesi dopo, nel maggio del ’61. I possedimenti mossesi verranno ereditati allora dal figlio Ferdinando Alberto, che nel 1582 li cederà al fratello Lodovico 33, il quale l’anno successivo a sua volta li trasferirà al conte Giovanni di Ortenburg 34. Non si tratta però di un’uscita dalla cerchia familiare. Giovanni di Ortenburg infatti è cugino di Lodovico Hoyos, dopo che già nel ’24 i Salamanca avevano ricevuto in feudo la contea carinziana di Ortenburg e ne avevano assunto il predicato 35.

Il vero passaggio di testimone infatti si avrà solo nel 1585, quando per Mossa comin-cerà quella fase lunga un secolo e mezzo in cui il nome del paese sarà legato a quello della prestigiosa famiglia Cobenzl. La svolta è significativa perché per la prima volta Mossa diventa giurisdizione privata, in cui cioè il feudatario diviene titolare per concessione sovrana anche della facoltà di amministrare la giustizia di prima istanza in materia civile e penale, competenza fino ad allora svolta come è noto dal gastaldo di nomina capitaniale. Si faccia attenzione tuttavia, non si tratta dell’instaurazione a Mossa in avanzata età moderna di privilegi signorili veri e propri, comprendenti cioè diritti reali sui sudditi. Certamente però da allora, e per i successivi due secoli, l’identificazione tra Mossa e il suo dominus diviene più stretta.

I Cobenzl sono un’antica famiglia nobile di origine carinziana, ma da tempo con inte-ressi nel Goriziano. Giovanni (Hans), artefice dell’acquisizione mossese, è certamente uno dei suoi esponenti più illustri. Per dirla con Carlo Morelli, che gli dedica grande risalto, “non si può essere cittadino più acceso di gloria e ministro più indefesso” 36. Egli infatti nel corso della sua vita riveste incarichi di altissimo rango presso la corte di Graz, dove è consigliere aulico e presidente della Camera arciducale. Fine diplomatico, si mette al ser-vizio degli imperatori Massimiliano II e Rodolfo II soprattutto sul fronte polacco e russo.

32 Cfr. Peter Rauscher, Gabriel de Salamanca, conte di Ortenburg e capitano di Gorizia, in Divus cit., pp. 157-159 e, per un rapido pro»lo biogra»co, Christopher F. Laferl, Die Kultur der Spanier in Österreich unter Ferdinand I. 1522-1564, Wien, Böhlau, 1997, p. 242.

33 L’atto di cessione è in ASPGo, Pergamene, n. 834 (marca 850).34 ASPGo, Pergamene, n. 839 (marca 855).35 Cfr. Rauscher, Gabriel de Salamanca cit., p. 158.36 Morelli, Istoria cit., III, p. 274.

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Infine è a lungo capitano della Carniola e nel 1590-92 anche di Gradisca 37. Nell’epitaffio impresso sull’imponente monumento funebre che ospita il suo corpo nella chiesa dell’or-dine teutonico di Ratisbona dal 1594 si legge (nella traduzione italiana che ci concede lo storico goriziano Giuseppe Domenico Della Bona): “Qui giace sepolto il reverendissimo ed illustrissimo signore Giovanni Cobenzl di Prosek barone di Mossa, di Luegg e di

37 Per un pro»lo biogra»co: ivi, pp. 274-282; Silvano Cavazza, Giovanni Cobenzl, in Divus cit., pp. 237-239.

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Figura 7. L’arciduca Carlo nel 1585 concede a Giovanni Cobenzl e ai suoi due cugini Filippo e Raffaele la giurisdizione di Mossa al prezzo di 1.393 fiorini (ASPGo, Pergamene, n. 846, marca 862).

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Losa [...]” 38. È lo stesso titolo nobiliare che ritroviamo inciso su una lapide nell’atrio del palazzo Cobenzl di Gorizia, poi Codelli e oggi Curia arcivescovile, costruito proprio da Giovanni nel 1587 come residenza di città, gli stessi anni a cui risale con ogni probabilità la scelta di insediare a Mossa, dopo secoli di attesa, un nuovo palazzo signorile sulle rovine dell’antico castello di Vallisella. Per il colle sarà la sua rinascita, ridiventando centrale nella vita mossese e determinando l’inizio dello sviluppo del paese sull’asse est-ovest che allora come oggi congiunge le alture occidentali con la centa.

L’insediamento dei Cobenzl a Mossa avviene in tre tappe, in cui l’ottenimento da parte dell’arciduca Carlo dell’Austria interna della prerogativa giurisdizionale avvenuta il 18 marzo 1585 (figura 7) precede di due anni l’investimento feudale dei beni che erano appartenuti agli Hoyos e prima ancora ai de Erasmis (30 aprile 1587, figura 8). Nel dicembre dello stesso anno infine il completamento formale dell’iter con l’adeguamento

38 Morelli, Istoria cit., III, p. 280n.

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Figura 8. Il 30.4.1587 l’arciduca Carlo ratifica la cessione del feudo di Mossa da Giovanni di Ortenburg a Giovanni Cobenzl (ASPGo, Pergamene, n. 848, marca 864).

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del blasone in cui al predicato baronale di Prosegg (Prosecco sul Carso triestino, ottenuto negli anni sessanta) si aggiunge quello di Mossau 39.

Con i Cobenzl Mossa finalmente stabilizzerà la frenetica storia politica che l’ha con-traddistinta fino a quel momento, instaurando un rapporto continuativo destinato a durare ben 150 anni e che si concluderà solamente nel 1734 per decisione di un esponente della famiglia che per rango e importanza non è da meno rispetto al suo celebre antenato. Si tratta di Giovanni Gasparo, consigliere aulico imperiale, ex capitano di Gorizia e della Carniola, maresciallo di corte e cameriere maggiore, uno che all’imperatore Carlo VI si rivolge con tono confidenziale 40. In quanto barone di Mossa è lui che il 15 luglio di quell’anno, con un contratto sottoscritto proprio nel palazzo della Vallisella, vende per 60.000 fiorini, da corrispondere in tre rate all’interesse del 5%, la “signoria” di Mossa “con la giurisdizione, case, benni, decime, et ogni altro provento che possede e gode” 41. L’acquirente è il nobile di recente lignaggio Agostino Codelli de Fahnenfeld, probabil-mente l’esponente più ragguardevole del casato di origine bergamasca presente a Gorizia già dalla prima metà del Seicento 42.

“Dispensarci non possiamo dal tramandare alla memoria de’ posteri il nome di un uomo, a cui la patria dee in generale una grata ricordanza” 43: così ne tratteggia la figura un Carlo Morelli sinceramente colpito e quasi stupito di una personalità che sarà ricor-data per la sua straripante generosità. La biografia ne svela i tratti: un’eredità di notevole consistenza proveniente dallo zio paterno, che Agostino utilizzerà per compiere nel giro di pochi anni una serie di operazioni che lasciano senza fiato. Acquista in blocco il patri-monio immobiliare goriziano e mossese dei Cobenzl e i diritti giurisdizionali della villa di Mossa, ristruttura entrambi dotando il primo di una cappella dedicata all’Esaltazione della santa Croce e il secondo di un ampliamento della già esistente chiesetta di Santa Maria Assunta. Infine il colpo grosso: la disposizione di un lascito generosissimo e comprensivo degli immobili goriziani all’imperatrice Maria Teresa vincolato al suo utilizzo nella costi-tuzione della nuova diocesi goriziana, un progetto secolare che ora finalmente potrà vedere la luce. Ma non con gli occhi del suo finanziatore, che per una manciata d’anni – morirà nel 1749 – non potrà assistervi 44.

La rinuncia al patrimonio cittadino significherà per i Codelli uno spostamento netto del baricentro della vita familiare e dei propri affari verso la campagna mossese. A rimar-

39 ASPGo, Stati I, b. R6, c. 127.40 Sulla sua »gura: Morelli, Istoria cit., III, pp. 56-57; Friedrich Edelmayer, “Caro Cobenzel”: Giovanni

Gasparo Cobenzl e Carlo VI, in Gorizia barocca. Una città italiana nell ’impero degli Asburgo, Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1999, pp. 247-253.

41 Copia del contratto è conservata in ASGo, Archivio Coronini Cronberg - serie atti e documenti, b. 371, fasc. 1086, c. 12.

42 Cfr. voce Codelli, in Vittorio Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. II, Milano 1928-36, pp. 490-491.

43 Morelli, Istoria cit., III, pp. 284-285.44 Archivio Privato Attems Lucinico, Patriarchen von Aquileja - Erzbistum Görz 1621-1753, in

particolare cc. 139 ss.

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Figura 9. La Vallisella con la villa Codelli (ex Cobenzl) nel 1749 in un acquarello commissionato dalla famiglia (ASPGo, Stati II, b. 325a/93).

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carlo, l’intera tenuta conoscerà una ristrutturazione che le assegnerà i tratti architettonici e paesaggistici che da allora la contraddistinguono (figura 9). Per la Vallisella e per tutto il territorio è l’inizio di un legame destinato a durare fino ad oggi.

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Una bella descrizione fisica del territorio mossese alla fine del Seicento. Catastico del Stato di Gradisca, 1681, p. 2, Villa di Mossa, in ASPGo, Serie diverse, Politica, 2, n. 33.

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La vita religiosa nella prima età moderna

Mossa fa parte di quel gruppo di parrocchie del territorio goriziano in cui la ricostru-zione della storia religiosa è costretta al pesante limite dell’indisponibilità di una fonte primaria e diretta. Il suo antico archivio parrocchiale infatti (certo non l’unico, basta spostarsi nella vicina Lucinico) non ha saputo superare l’ostico scoglio della prima guerra mondiale, lasciando oggi a disposizione del ricercatore un limitato patrimonio di carte quasi esclusivamente novecentesche.

La storia ecclesiastica di Mossa, pertanto, va ricostruita su fonti più generali, inevita-bilmente risentendone, ma senza comunque perdere quella significatività già acquisita in epoca medievale. Mossa infatti all’inizio dell’età moderna mantiene lo status di pieve o, per meglio dire, quello di chiesa matrice di una delle circoscrizioni plebanali in cui è divisa la diocesi aquileiese di cui fa parte. La sua giurisdizione ecclesiastica quindi si estende ben al di là del territorio comunale, comprendendo anche quello di una serie di chiese cosiddette filiali che da quella di Sant’Andrea dipendono. Come nel periodo precedente inoltre con-tinua ad esistere un livello intermedio tra le pievi e il patriarca, quello degli arcidiaconati, ora però riformati nella denominazione e nella confinazione dall’avvento di casa d’Austria e nella divisione del Patriarcato d’Aquileia tra Repubblica di Venezia e parte imperii. Per Mossa il distretto di riferimento, a contraddire l’appartenenza amministrativa gradiscana, sembra essere l’arcidiaconato di Gorizia, costituito nel 1574 45, di cui fa parte assieme ad un’altra quindicina di distretti. Confinano con quello mossese le pievi di Lucinico, San Pietro, Farra, Cormons e Bigliana. Nell’estremo sud anche il confine con il veneto Territorio di Monfalcone.

La pieve di Mossa colpisce subito per la sua configurazione geografica piuttosto ano-mala, che tuttavia si manterrà anche nei secoli successivi. Dalla matrice mossese dipen-dono infatti le chiese filiali di Cerovo superiore e Cerovo inferiore sul Collio a nord di Mossa, ma anche quelle di Gabria e San Michele nel Carso goriziano sull’altra sponda dell’Isonzo, nella zona di confluenza del Vipacco (figura 10). Tra i due segmenti plebanali quindi un complicato attraversamento fluviale e un vasto salto territoriale rappresentato dall’ampia zona pianeggiante a sud del paese tra le pievi di Farra e Lucinico, che rende piuttosto disagevole e difficoltosa la cura d’anime complessiva e che quindi non può essere spiegata che come l’avanzo di un precedente assetto circoscrizionale ben più compatto.

Il tema è già comparso nel dibattito storiografico, dove resta suggestiva, anche se obiet-tivamente molto difficile da accettare, la tesi di Augusto Geat che ipotizza drasticamente l’assenza prima del IX o X secolo di un corso dell’Isonzo a sud della Mainizza, cioè lo sbocco del fiume in una zona lacustre che si estendeva tra Mainizza, Lucinico, Gorizia e Savogna prima di essere risucchiato da emissari sotterranei, e quindi l’esistenza in origine di una continuità territoriale tra la parte settentrionale e meridionale della pieve di Mossa

45 Pio Paschini, Storia del Friuli, Udine, Arti Gra»che Friulane, 1990, p. 815.

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Pieve di Cormons

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Pieve di Farra

Pieve di FarraPieve di S. Pietro

Territorio di Monfalcone

Figura 10. L’anomala configurazione della pieve di Mossa nel Cinquecento con le filiali di Cerovo supe-riore, inferiore, Gabria e San Michele, in una riscostruzione stimata dei suoi confini. La carta utilizzata ovviamente è solo tardosettecentesca.

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(e anche di quella di Farra, che risente della stessa anomalia). Le due circoscrizioni eccle-siatiche quindi solo successivamente sarebbero state tagliate dall’alveo del fiume, quando l’Isonzo, proseguendo la sua corsa fino al mare, definì il suo assetto attuale 46.

La congettura di Geat, che si appoggia genericamente ad alcuni studi sulla variazione del letto dell’Isonzo nel corso della sua storia, per essere ammissibile richiederebbe per-lomeno un allargamento dell’orizzonte temporale su una scala di millenni e forse più, e in ogni caso sarebbe in contraddizione con il ruolo rivestito proprio fino all’epoca presa in esame nel suo studio da quel nevralgico punto di transito che è stato il ponte della Mainizza. È pertanto meno appassionante, ma decisamente più bilanciata l’interpreta-zione che fornisce pochi anni dopo Carlo Guido Mor il quale, proprio partendo dalla baricentricità civile e militare di questo elemento di comunicazione viaria per molti secoli nella parte alta e centrale del medioevo, ritiene verosimile l’esistenza di un “distretto mili-tare, conseguentemente giurisdizionale”, attorno al Pons Sontii (quindi sull’una e l’altra riva) configurato proprio a suo presidio, sul quale si è andata poi plasmando un’analoga circoscrizione ecclesiastica in origine verosimilmente più ampia e poi suddivisa tra le pievi nell’assetto che si tramanda fino all’età moderna e che eredita il pur illogico sviluppo sulle due rive del fiume 47.

La chiesa plebanale di Sant’Andrea sul piccolo colle dell’antica centa, molto decentrata geograficamente verso il confine con Lucinico, è il centro della vita spirituale di questo ampio distretto, a capo del quale c’è un pievano, che risiede a Mossa ed è coadiuvato nei suoi compiti da alcuni cappellani ed eventualmente da un vicario, prevalentemente impe-gnati nel calendario eucaristico e nella cura d’anime dei villaggi affiliati.

Come per il periodo medievale, anche per la prima età moderna non è ancora possibile disporre della serie completa dei parroci che hanno retto la pieve di Mossa e in partico-lar modo nella prima metà del Cinquecento la frammentarietà delle informazioni rende ostica l’articolazione narrativa. In ogni caso il secolo sembra aprirsi con il sacerdozio di Giovanni de Castello, che troviamo coinvolto nel 1504 in una disputa con il luogotenen-te di Gorizia in materia di quartese, tributo corrispondente alla quarantesima parte del raccolto, con cui annualmente i sudditi della pieve contribuiscono al mantenimento del sacerdote e dei cappellani 48. Agli anni trenta invece risale l’inizio del mandato di Federico Attems, figlio di Geronimo (o Girolamo) capostipite della linea Santa Croce. Per lui un avviamento molto precoce alla vita ecclesiastica (risultato forse di una carriera program-mata) che gli vale l’ottenimento – certamente complice il blasone – della pieve in giovane età, addirittura prima dell’ordinamento sacerdotale, come viene ricordato dal settecentesco biografo degli Attems Girolamo Guelmi:

46 Geat, La villa di Mossa cit., pp. 37-74.47 Carlo Guido Mor, Sulla formazione plebanale della zona goriziana, in Guriza, atti del 46° congresso della

Società »lologica friulana, a cura di Luigi Ciceri, Udine, Società »lologica friulana, 1969, pp. 176-185.48 Geat, La villa di Mossa cit., p. 79.

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[...] non ancora per l’età capace di matura e saggia risoluzione disegnò di abbracciare lo stato ecclesiastico. Vestito l’abito chericale sebben giunto ancora non fosse al sacerdozio, fu nomi-nato parroco di Mossa. Ma pentitosi ben presto della presa risoluzione si accompagnò con Susanna Savorgnani [...] 49.

Ed effettivamente la biografia clericale di Federico Attems è piuttosto controversa. Nel 1531, per un contratto di vendita di un terreno appartenente alla pieve di Mossa, ancora molto giovane (anche se l’esatta data di nascita non è nota), è costretto a farsi rappresen-tare davanti al notaio Giacomo Florio di Portogruaro dal padre Geronimo e dal vicario plebanale Battista (figura 11) 50, quest’ultimo definito da Guelmi “il sacerdote che faceva le sue veci” 51. Mentre già nel 1545 una vocazione evidentemente scemante (o mai nata) determina l’avvicendamento alla guida della pieve con Carlo Deriet, che vi subentrerà ufficialmente nel ’57 52, quando la scelta della svestizione dell’abito talare è per l’Attems già maturata e fa sì che poco prima del ’60 un’ultima offerta di presiedere la pieve di Lucinico rimasta senza guida per la morte di Mattia de Wayxlbergar, venga declinata in favore di Nicola Reja 53. Per l’Attems, con moglie e quattro figli (più due morti prematuramente) si prepara una carriera politica di ripiego nell’amministrazione gradiscana (sembra dal ’71) a fianco del potente fratello Giacomo, in quegli anni capitano della fortezza. Morirà nel 1593 54.

La seconda parte del Cinquecento si schiude agli occhi del ricercatore più nitidamente. Non tanto dal punto di vista della completezza della serie nominativa, perché di questo periodo sono noti solo i nomi di Carlo Deriet, alla guida della pieve sicuramente fino al 1570, e quello di Giovanni Toros, parroco negli anni ’90, quanto perché la diocesi aquile-iese nel periodo successivo al Concilio di Trento è sottoposta ad alcune visite apostoliche capaci di produrre una documentazione di straordinario interesse per la ricostruzione della vita religiosa complessiva del territorio. Il riferimento va qui in particolare ai due viaggi ispettivi del 1570 e del 1593 compiuti rispettivamente dall’emissario pontificio Bartolomeo da Porcia e dal coadiutore patriarcale Francesco Barbaro, animati da obiettivi regolatori e moralizzatori di un territorio provato dai venti della riforma protestante e da una perdurante debolezza e latitanza dell’autorità ecclesiastica 55.

49 Girolamo Guelmi, Storia genealogico-cronologica degli Attems austriaci, Gorizia, Giacomo Tommasini, 1783, p. 69.

50 Archivio Privato Attems Lucinico, Das Geschlecht der Attems, II, cc. 29-30.51 Guelmi, Storia genealogico-cronologica cit., p. 69n.52 Geat, La villa di Mossa cit., pp. 79-80.53 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., c. 341v.54 Voce Attems, in Genealogisches handbuch der grä¸ichen Häuser, A, IV, a cura di Hans Friedrick von

Ehrenkrook, Limburg an der Lahn, Starke, 1962, p. 25.55 Ad esempio il pievano di Mossa nel 1570 dichiara di non ricordare quando la parrocchia abbia

ricevuto l’ultima visita (“nullum hic hominum memoriam extare de aliqua visitatione facta”). BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., c. 307r. Invece gli atti della visita apostolica di Francesco Barbaro nel Goriziano conservati presso l’Archivio storico arcivescovile di Udine sono stati consultati utilizzando la trascrizione operata da Daniela Calligaris nella tesi di laurea La visita di Francesco

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Figura 11. La copia settecentesca del documento notarile datato 31 dicembre 1531, in cui il pievano di Mossa Federico Attems vende un terreno di proprietà della parrocchia ai fratelli Michele e Oliverio de Volies (Archivio privato Attems Lucinico, Das Geschlecht der Attems, II, c. 29).

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Attraverso le visitationis la vita religiosa della pieve di Mossa nella seconda metà del Cinquecento si schiude e si mostra in una prospettiva più ampia, a partire ad esempio dal meccanismo di sussistenza di una parrocchia non particolarmente ricca, ma solida e che, a dispetto del disegno tridentino di una chiesa romana piramidale e gerarchizzata, appare caratterizzata dall’autonomia che gli deriva da un proprio patrimonio fondiario accumu-lato nei secoli e da un rapporto diretto con le comunità plebanali che si esprime principal-mente nella riscossione del quartese, cioè nella destinazione alla chiesa della quarta parte della decima raccolta tra la popolazione, secondo una convenzione antica e consolidata 56. Il quartese in un’economia poco monetarizzata come quella di una villa rurale cinquecentesca si percepisce in natura, con beni tuttavia ad elevata smerciabilità e convertibilità come il grano e il vino. Annualmente la pieve di Mossa raccoglie in paese circa 8 stai 57 di frumento e di siligo 58 e 30 orne 59 di vino; altre 10 orne provengono dalla filiale di Cerovo superiore, mentre Gabria e San Michele contribuiscono con 3 stai e mezzo di frumento, 3 pesenali e mezzo di siligo e circa 8 orne di vino 60.

Il quartese non rappresenta l’unica voce di entrata del bilancio parrocchiale mossese, il quale può contare anche su 12 stai di frumento, 4 stai e mezzo di siligo e 10 conzi di vino provenienti da affitti di proprietà fondiarie plebanali, il cui assetto purtroppo non è possibile ricostruire. Altri cinque campi di terreno vengono lavorati a communi (quindi, sembra, a titolo gratuito dai parrocchiani, secondo una consuetudine che si ritrova anche altrove nel Goriziano) e sono capaci di rendere 6 stai di frumento e 20 orne di vino 61. Sul meccanismo contributivo incombe l’inevitabile insolvenza, anche se a Mossa – sono le dichiarazioni del cappellano Luca di Lucinico nel 1570 – i debitori generalmente rientra-no in non più di uno o due mesi e i crediti in sofferenza sono marginali.

Per sè il pievano trattiene una “pensione” di 13 fiorini, 31 cruciferorum e 12 parvulorum 62, di cui 4 fiorini disponibili per le spese personali, mentre il cappellano percepisce un “sala-rio” di circa 4 conzi 63 di vino. Se eccettuiamo ancora 6 fiorini annui di imposizione fiscale,

Barbaro alla contea di Gorizia e al capitanato di Gradisca del 1593, relatore prof. Giovanni Miccoli, Università degli studi di Triese, a.a. 1969-70 (d’ora in poi ACAU, Visita apostolica di Francesco Barbaro).

56 Cfr. Morelli, Istoria cit., I, p. 141 e Giovanna Paolin, La visita apostolica di Bartolomeo da Porcia in alcuni paesi del Goriziano (1570), in Marian e i paîs dal Friûl orientâl, a cura di Eraldo Sgubin, Gorizia, Società »lologica friulana, 1986, p. 172.

57 1 staio piccolo di Gorizia = 4 pesenali = litri 100,09; 1 staio grande di Gorizia = 6 pesenali = litri 150,14 (Aleksander Panjek, Terra di con ne. Agricolture e tra»ci tra le Alpi e l ’Adriatico: la contea di Gorizia nel Seicento, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2002, p. 15).

58 Grano duro di prima qualità, »or di farina.59 1 orna di Gorizia = litri 97,01 (Panjek, Terra di con ne cit., p. 15).60 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., c. 307v.61 Ivi, c. 308r.62 Sembrerebbero sottounità del »orino, ma di uso decisamente poco frequente.63 1 conzo di Cormons = litri 83,54; 1 conzo di Gradisca = litri 80,84 (Panjek, Terra di con ne cit.,

p. 15).

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il resto delle entrate è tutto destinato all’attività religiosa della pieve, la cui amministrazio-ne economica è affidata a un cameraro (Pietro Ros ai tempi della visita di Porcia) che viene eletto annualmente nel giorno di San Luca (18 ottobre) da un’assemblea della comune a cui presenzia il pievano.

A fronte di questo rudimentale, ma rodato sistema di organizzazione delle risorse, il servizio religioso prestato è intenso per venire incontro alle esigenze liturgiche di tutta la circoscrizione ecclesiastica. Limitandosi solo alla celebrazione delle messe, la presenza del pievano e del cappellano al rito domenicale avviene inevitabilmente a rotazione per garan-tire la liturgia tutte le domeniche nella chiesa matrice e almeno una domenica al mese a Cerovo superiore, a Cerovo inferiore e a Gabria (nella quale confluiscono anche i fedeli della villa di San Michele).

Inoltre un celebrante è richiesto a Cerovo superiore nella chiesa di San Nicola una volta alla settimana e in occasione di specifiche festività, secondo un calendario particolare: il giorno del patrono, quello di santa Maria Maddalena e quello di santa Barbara la messa viene celebrata sull’altare centrale; nelle feste di sant’Urbano, san Cristoforo, san Giobbe e san Sebastiano il rito si svolge sull’altare che sorge sul lato sinistro della chiesa; infine nelle feste di sant’Ermacora e Fortunato e in quella di san Lorenzo su quello posto sul lato destro. Anche nella chiesa di san Lorenzo di Cerovo inferiore i chierici mossesi sono obbligati ad una presenza minima una volta alla settimana e, annualmente, nella festa di Tutti i santi. Nel tempio di san Nicola a Gabria invece il rito avviene con una cadenza bisettimanale, oltre che in occasione della festa patronale di san Mattia e nel giorno della Conversione di san Paolo. Infine nella chiesa sul San Michele sono garantite delle celebra-zioni settimanali e anche nella festa di Tutti i santi, alla vigilia della stessa, per san Giorgio, e la domenica dopo l’Epifania.

È cauto Carlo Deriet nel lamentarsi del non indifferente carico di lavoro, che viene con molta morigeratezza ritenuto responsabile solamente del poco tempo che rimane da dedicare all’intimità della preghiera. Non rimane tuttavia taciuta al visitatore la generale “scomodità” geografica della pieve, che diventa un vero dramma “tametsi crescat aquae Lisontii”. Quando infatti montano le acque dell’Isonzo, la pieve realmente si spacca in due, le filiali di Gabria e San Michele non sono più raggiungibili attraverso gli ordinari passi di barca e bisogna ricorrere al ponte del torrione a Piuma con un evidente pesante allun-gamento della strada da percorrere. Ma nelle piene più impetuose anche quel passaggio è interdetto e agli isolati parrocchiani della sponda sinistra del fiume non resta che rivolgersi al cappellano di Merna 64.

Il decano di Mossa Michele di Paolo e altri due rappresentanti del comune, Domenico Tribul e Romano Rubeo, interpellati dal visitatore, riconoscono la valida opera pastorale svolta da Deriet, anche se è difficilmente celabile la diseguale ripartizione del lavoro spor-co tra il pievano e il dinamico cappellano originario di Lucinico. Incalzato dal visitatore, Deriet infatti ammette la sua scarsa frequentazione delle filiali, di cui non conosce neppure

64 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., c. 307r.

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il numero dei fedeli che vi abitano. La cura d’anime di quelle ville infatti gli è totalmente preclusa – e quindi affidata al suo collaboratore – dall’ignoranza della lingua slava che è universalmente parlata in quei paesi, sia dalla parte del Collio, sia da quella del Carso (“nam incolae earum villarum nesciunt italice loqui”) 65.

La vita religiosa in una villa rurale del XVI secolo molto più che come gesto indivi-duale si esprime spesso attraverso la dimensione comunitaria, testimoniata anche a Mossa dall’esistenza di due confraternite: nella seconda metà del Cinquecento quella di San Rocco e quella dei Tre Re. Si tratta di organizzazioni di ispirazione solidaristica e mutuali-stica, prive di statuto o di regole scritte e funzionanti sulla base di consuetudini consolidate come il frequente obbligo di accompagnare i confratelli deceduti alla sepoltura. La sensa-zione più generale tuttavia è che buona parte della ritualità paesana collettiva, quella reli-giosa, ma talvolta anche quella laica, passi attraverso questa dimensione associazionistica.

La confraternita di San Rocco conta circa 30 confratelli e lo scarno patrimonio (amministrato da un cameraro che viene eletto annualmente il giorno del santo) consiste in mezzo campo di terra (acquistata con le elemosine) che annualmente rende 2 conzi di vino e 1 staio di frumento. La fraterna celebra in chiesa in occasione delle quattro tem-pora 66 e nel giorno di san Rocco. In quel momento le offerte di pani e ceri permettono di raccogliere 10 solidorum circa. I riti delle quattro tempora e la rielezione annuale del cameraro nel giorno di san Rocco è comune anche alla confraternita dei Tre Re, che riu-nisce 40 membri e celebra in chiesa anche nel giorno dell’Epifania. Anche in questo caso il patrimonio consiste in un piccolo terreno, che concede una rendita annua di 4 orne di vino e 2 stai di frumento. Il resto delle entrate sono elemosine 67.

La fraterna dei Tre Re è difficilmente inquadrabile. Non è nota la data di costituzione, anche se lo scarno patrimonio non induce a richiamare origini antiche, ma soprattutto va sottolineata probabilmente la sua unicità nel panorama diocesano, per nulla avvezzo al culto dei Magi. Rimane pertanto abbastanza singolare il suo radicamento nella villa di Mossa e oscuro il motivo della sua intitolazione. Il sodalizio di San Rocco è invece una delle innumerevoli espressioni con cui nel Goriziano e in genere in buona parte dell’Eu-ropa occidentale si esprime la devozione al santo che fin dal Quattrocento è invocato come protettore dal terribile morbo della peste. Chiese, altari e confraterne dedicate a san Rocco sono frequentissime nel territorio aquileiese e nella maggior parte dei casi la genesi è votiva, cioè associata ad un contagio scampato. Così è certamente anche per la confraternita mossese, costituitasi, come risulta dai verbali delle visite, nel 1545, pertanto immediatamente a ridosso dell’epidemia del ’44 che, come ricorda Carlo Morelli, “penetrò i confini della nostra patria, ma dalle provvide cure del governo troncato nel suo principio

65 Ivi.66 Periodo di tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) collocati all’inizio delle quattro divisioni dell’anno

liturgico, nei quali corre l’obbligo di digiuno e preghiera. Cadono fra la terza e la quarta domenica di Avvento, fra la prima e la seconda domenica di Quaresima, fra Pentecoste e la festa della Santissima Trinità e la settimana seguente l’Esaltazione della Santa Croce (14 settembre).

67 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., c. 308r.

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il corso, appena osservaronsi le conseguenze del funesto contagio” 68. Un palese caso quindi di scampato pericolo e argomento valido per cui rendere grazie alla provvidenza.

Il rapporto gregge-pastore è buono. La comunità mossese si dichiara complessivamen-te soddisfatta della guida plebanale e la vita liturgica a Mossa procede ordinata e priva di significativi scostamenti dall’ortodossia aquileiese. Il pievano e il cappellano risiedono stabilmente in paese e tengono un registro dei battezzati (visto et comprobatus dal visita-tore), dato significativo perché pratica ancora estremamente rara prima del XVII secolo anche in pievi più importanti. L’omelia viene dispensata in ogni celebrazione festiva e i sacramenti amministrati con cotta e stola, le esequie e le sepolture sono un diritto per tutti (e i poveri le ricevono gratis). Le benedizioni battesimali seguono il rito diocesano, noto anche alle ostetriche per intervenire sui frequenti casi di morte neonatale. Anche la visita degli infermi è una pratica rispettata e così l’estrema unzione che viene impartita tempestivamente 69.

La comunità dei fedeli dal canto suo partecipa con un buon grado di devozione. È difficile incontrare violatori dei precetti della chiesa (“an contemptores decretorum [...], non”) e sono diffusamente rispettate la quaresima, le tempora e le vigilie, secondo l’“anti-quo instituto” che permette un minimo sostentamento a base di latte e uova nei periodi di digiuno. Non ci sono matrimoni celebrati secondo riti proibiti, né adùlteri o separati e si registra un solo caso di concubinato, quello di Andrea Chiuch nella villa di Cerovo superiore. Gli inconfessi si contano sulla punta delle dita e quei pochi sono stati convocati e hanno promesso quanto prima di presentarsi 70.

Quindi poche e veniali le trasgressioni complessive: è vero che nelle processioni laici e chierici e uomini e donne non procedono separati come dovrebbero, ma l’infrazione è subito ovviata dal visitatore con una disposizione rettificatrice che si estende alla racco-mandazione di non ammettere in chiesa chierici vaganti e mercanti e di intervenire sulla biasimevole abitudine di molti fedeli di assistere alla messa dall’esterno della chiesa. Non può essere considerata invece inadempienza locale quanto responsabilità diocesana la disa-bitudine nella parrocchia di impartire la cresima. Così pure è veniale il ritardo dell’adozio-ne del rito tridentino, appena disposto da papa Pio V, nella liturgia dei matrimoni 71.

Ma è la moralità della conduzione parrocchiale l’aspetto più delicato dell’indagine apostolica, quello che Carlo Morelli definisce l’intervento sulla “rilassatezza dei costumi del clero” 72. Su questo tema i visitatori sono chiamati a un compito arduo, consapevoli che la riconquista per le gerarchie cattoliche dell’integrità perduta sia un tassello imprescindi-bile della strategia controriformistica. Da questo punto di vista la situazione mossese non si discosta troppo dalla media delle pievi diocesane, in cui il cruccio più ricorrente degli

68 Morelli, Istoria cit., I, p. 161.69 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., cc. 308r-308v.70 Ivi, c. 308v.71 Ivi.72 Morelli, Istoria cit., I, p. 256.

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inquisitori è il concubinato di pievani e cappellani, pratica diffusissima praticamente ovun-que. “Non vi sono trovati otto sacerdoti in nefando concubinato non involti” è lo scon-fortante bilancio del vicario apostolico Bartolomeo da Porcia nella relazione conclusiva del suo viaggio 73. Tanto per rimanere nei paraggi di Mossa, a Capriva il curato Matteo de Vincenzini, persona tutta d’un pezzo, solo da un mese ha allontanato la sua serva, la figlia avuta da lei e quella nata dall’unione con la precedente domestica. A Farra il pievano ospita in casa il fratello con la moglie, che vi gestiscono un pubblico locale, mentre il cappellano è un figuro che gira armato, ama divertirsi alle cacce e alle feste, gioca a dadi ed è reduce da una malattia venerea. A San Lorenzo il cappellano Nicola Milizia vive a Vogrsko con una donna goriziana, che ha provveduto ad allontanare, ma non così le tre figlie avute da lei 74. A Lucinico il pievano Nicola Reja tiene in casa un’ancilla di nome Agata, di circa trent’anni, con cui ha una relazione che è nota pubblicamente e anche un numero impre-cisato di figli. Nella stessa villa il cappellano Primo ha una concubina di nome Ursa con cui ha cinque o sei figli, un legame risaputo e che dura da ormai quindici anni 75.

Neppure Mossa sa sottrarsi a quello che – beninteso – è uno scandalo più per l’osser-vatore contemporaneo che per il parrocchiano del tempo. In ogni caso durante l’ispezione di Porcia il pievano è coinvolto solo indirettamente, perchè ad essere concubinario è il cappellano, che da quattro o cinque anni vive in consuetudine turpissima con una giovane serva di nome Margareta, come lui originaria di Lucinico. Carlo Deriet tuttavia dimostra di essere tutt’altro che estraneo alla vicenda, allevando in casa propria i due figli (poveri) di lei 76. Quando l’imbarazzante situazione solleverà gli inevitabili strali dell’inquisitore sembra che Margareta sia già stata allontanata dalla casa del cappellano Luca. L’alternativa per lui sarebbe stata l’immediata perdita di tutti gli uffici e i benefici ecclesiastici. Unica attenuante l’irreprensibile condotta sua e del suo superiore in relazione all’abitudine di frequentare feste o ricevimenti, di giocare d’azzardo o di fare esercizio di mercatura negli spazi parrocchiali e in generale di contaminare gli uffici religiosi con pratiche venali 77.

È noto come in molte pievi della diocesi l’intervento repressivo di Bartolomeo da Porcia sulla questione morale non abbia avuto l’atteso effetto calmierante, ottenendo spes-so risultati blandi o solo temporanei. Mossa sembra essere tra le parrocchie recidive perché ventitre anni dopo il suo successore Francesco Barbaro si imbatterà in una situazione se è possibile ancor più compromessa, che lo induce al pugno di ferro. Anche stavolta a finire nella rete è il cappellano, per la precisione un sacerdote giunto a Mossa da pochi mesi, Piero Mazzalorso (o Mazza l’Orco), originario di San Martino (altrove di Redipuglia), ex curato di San Lorenzo (filiale di Lucinico), da dove è fuggito per aver impegnato una putta e giunto a Mossa dopo un’infruttuosa tappa a Farra. Qui il processo del visitatore è

73 Ivi, p. 257.74 Paolin, La visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., pp. 165-173.75 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., cc. 344r-344v.76 Ivi, cc. 310r-310v.77 Ivi, c. 308v.

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inevitabile, come la condanna a dieci anni di bando dal territorio goriziano e gradiscano. Sotto processo negli stessi giorni finisce anche il pievano Giovanni Toros, con accuse deci-samente meno scandalose sul piano morale, ma rilevanti su quello della condotta pasto-rale e che ripresentano l’annoso e irrisolto problema dell’amministrazione di una pieve territorialmente complessa ed eterogenea dal punto di vista linguistico. Toros, originario di Medana nel Collio, viene condannato da Barbaro a 36 lire di multa per una reiterata negligenza nella cura d’anime e nella somministrazione dei sacramenti discriminatoria nei confronti dei fedeli di lingua italiana (o friulana): Toros celebra messa raramente e, quan-do lo fa, predica in sloveno. Similmente il sacramento della confessione viene impartito solo a Pasqua e di nuovo solo ai fedeli di lingua slovena 78.

Ma le visite pastorali non indugiano solo sugli uomini. Si potrebbe anzi dire che le intense giornate dei visitatori sono dedicate prevalentemente alle cose. Ridare dignità agli edifici di culto e ai loro arredi o ripristinarli a una condizione di decenza è infatti il secondo grande fronte di intervento riabilitativo dei visitatori. Ai fini documentari il dato rilevante è tuttavia che la minuziosità con cui Porcia e Barbaro descrivono lo stato fisico di chiese e cappelle e gli interventi migliorativi di cui necessitano permette di avere un affresco straordinario dei luoghi della locale religiosità cinquecentesca.

A Mossa il principale di questi è ovviamente la chiesa di Sant’Andrea sul colle della centa. Quella visitata da Porcia il 13 aprile 1570 e da Barbaro il 19 giugno 1593 è tuttavia una chiesa alcune generazioni precedente rispetto a quella che ha resistito fino alla prima guerra mondiale.

Si tratta quindi dell’edificio che Augusto Geat azzarda come tardoquattrocentesco, certamente più piccolo dei successivi, quindi ampliato e ristrutturato nel corso dei secoli 79. Geat tuttavia, pur richiamando un’architettura austera, già lo descrive “con la torre campa-naria ergentesi a circa sette metri dalla facciata, di fronte al portale e di fianco alla gradi-nata di pietra che portava sul sagrato”, quindi dipingendo già qualcosa di molto simile alla chiesa ottocentesca. È probabile invece che l’edificio così congetturato sia di là da venire. È vero che le relazioni apostoliche non si soffermano troppo a descrivere l’aspetto esteriore dei luoghi sacri visitati, tuttavia le sparute indicazioni sembrano tratteggiare una chiesa decisamente più piccola e a tratti addirittura inadeguata nelle dimensioni (“transitusque inter altare et custodiam sit angustus, totaque capella stricta et incommoda”) 80 e soprattut-to priva di torre, cioè con campanile ancora a vela: “super portico ecclesiae tegulis cooperto sunt campanae tres” 81. La facciata descritta comprende cioè un portico coperto di tegole sopra il quale – e quindi non discoste – sono collocate le tre campane, da cui la probabile forma a vela. Due di esse sono in buone condizioni, la terza invece è rotta, ma viene fatta

78 Geat, La villa di Mossa cit., p. 80.79 Ivi, p. 28. 80 ACAU, Visita apostolica di Francesco Barbaro, c. 40r.81 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., c. 307r.

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battere ugualmente. Per il resto la descrizione è stringata, ma positiva: finestre in vetro, muri, pavimento, tetto e chiusure si trovano tutti in buone condizioni strutturali 82.

Adiacente alla chiesa, come sarà fino al 1830 83, prima di essere spostato fuori dal centro abitato, sorge il cimitero parrocchiale, ben recintato, ma per il quale Bartolomeo da Porcia lascerà la consegna di sostituire il cancello di legno sul quale il pievano misteriosamente “signat tempestates”, richiamo che Francesco Barbaro dovrà ribadire nel 1593, assieme all’ordine di abbbattere il fico che nel frattempo è cresciuto in terra consacrata 84.

Nella chiesa si celebra tutte le settimane dell’anno di venerdì, di sabato e naturalmente di domenica, oltre che nelle feste dedicate. Il tempio ospita tre altari. Nell’abside a volta con tribuna l’altare maggiore è consacrato a sant’Andrea ed è ornato da una bella pala lignea dipinta in oro e incisa, sulla cui sommità svetta un grande crocifisso di legno affian-cato da una statua della Vergine da un lato e da una di san Giovanni dall’altro. L’altare è rivestito con tela cerata, tre tovaglie e un palio di zambellotto (grossa stoffa fitta di lana) orlato di seta nera con croce centrale ed è illuminato da due candelabri di ottone e due di ferro, una lanterna di stagno e due portaceri. Completa l’arredo una croce di bronzo dorata sorretta da un bastone, due vasi di bronzo per l’acqua benedetta e due ombrelli con manici dipinti. Il tutto è definito non più di “mediocre” da Porcia, mentre Barbaro si sofferma maggiormente sulla scarsa pulizia dell’icona, degli arredi e della volta dell’abdside annerita dal fumo delle candele. In generale un po’ tutte le pareti della chiesa sono imbrattate di iscrizioni, che dovranno essere eliminate.

L’eucaristia, secondo una prassi proveniente dall’epoca medievale, è conservata in una pisside di bronzo dorato riposta non in un tabernacolo dell’altare maggiore, come avverrà successivamente, ma in un armarium (o custodia) foderato internamente di panno rosso, sorretto da una colonna di pietra ben lavorata, discosto verso la parete sinistra dell’altare maggiore, davanti al quale pende una lampada di vetro perennemente accesa. Qui si con-servano anche gli oli sacri in ampolle d’ottone. Completa l’arco della tribuna un crocifisso ligneo di grandi dimensioni posto dietro l’altare maggiore e il cero pasquale del peso di oltre 70 libbre.

Fuori dalla tribuna gli altri due altari. Il primo, a cornu evangeli, cioè a sinistra del cele-brante, è dedicato ai tre re magi ed è affidato alla relativa confraternita. Possiede una bella pala lignea scolpita con diverse figure dipinte e dorate. L’arredo è simile a quello dell’altare centrale: tre tovaglie, tela cerata e un palio di zambellotto con una pregevole croce lavorata in seta nera. L’illuminazione è affidata a una lampada assieme a due candelabri di legno e uno di ferro. Completa la descrizione lo sgabello (cioè la base dell’altare) in buone con-dizioni e un piede di legno privo di croce. La dedicazione si celebra il giorno del Corpus Domini.

82 Ivi.83 Geat, La villa di Mossa cit., p. 32n. 84 ACAU, Visita apostolica di Francesco Barbaro, c. 40r.

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A cornu epistolae, quindi sul lato opposto, il secondo altare è intitolato a san Rocco e a san Sebastiano (ma la visita di Barbaro nel ’93 lo indicherà come non consacrato) e appartenente alla relativa confraternita. L’aspetto è più povero del precedente: privo di pala, anche se con figure affrescate alla parete, piuttosto rozzo lo sgabello e con un unico candelabro di ferro. Infine i consueti orpelli: tre tovaglie, tela cerata e palio di zambellotto con croce di seta nera 85.

La chiesa è priva di sacrarium, la vasca nella quale si scaricano le sacre lavature, per cui l’acqua usata nei battesimi e gli oli esauriti vengono dispersi nel cimitero annualmente il sabato santo. Manca anche la sacrestia e un confessionale. Il sacro fonte battesimale invece

85 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., cc. 306v-307r.

La chiesa di Sant’Andrea sulla centa di Mossa poco prima della sua distruzione avvenuta durante la prima guerra mondiale, un edifico molto diverso dall’originario cin-quecentesco (Fototeca Seminario Teologico Gorizia, Fondo Drexler, Mossa, F118).

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si presenta in ottime condizioni, dotato di copertura in legno chiusa a chiave e sostenuto da una colonna di pietra. All’interno il recipiente dell’acqua è di vetro.

Altre dotazioni: un ostensorio processionale (utilizzato nella festività del Corpus Domini) di bronzo e vetro con lunetta dorata per il sostegno dell’ostia consacrata; un vasetto argenteo e dorato contenente l’olio degli infermi; due vessilli di seta rossa e uno dorato con croce di bronzo; una pianeta con lavorazioni seriche rosse e una con ricami di tela azzurri; altre due pianete con inserti, una di seta rossa con croce dorata e una fulva con una pregevole croce serica anch’essa dorata. Al servizio della messa quattro calici, due patinati d’argento e d’oro e due argentei con piede d’ottone dorato, di cui uno con corporale e saculis, un leggio, tre messali e un libro degli inni. Il libro dei battesimi è di rito aquileiese, mancano invece il graduale, l’antifonario e il liber inscriptus. Alcune altre suppellettili minori e qualche tovaglia lisa completano l’inventario 86.

L’immagine è quella di una chiesa essenziale, ma dignitosa, anche se la lista delle constitutiones, cioè delle disposizioni correttive che i visitatori apostolici lasciano in com-pito alla pieve dopo la loro partenza, risulta ugualmente nutrita. Non ancora sentito come un problema da Porcia, che si limita a disporre che l’armarium sia foderato internamente di seta fina e che gli oli sacri non condividano lo spazio con l’eucaristia, sarà Barbaro ad ordinare che il Santissimo corpo di Cristo sia d’ora in avanti conservato in un tabernacolo ligneo collocato nell’altare maggiore e il precedente piedistallo sia lasciato inutilizzato. Anche il battistero, pur valido, richiede che la copertura sia sostituita con una di forma piramidale, dotata di portella richiudibile e al cui vertice andrà collocata una croce. La chiesa ha poi bisogno di una sacrestia, di un confessionale e di un sacrarium, quest’ultimo da costruire in un angolo dell’edificio secondo la prassi comune (e che effettivamente la visita di Barbaro annoterà come esistente). Andrà riconvertito invece l’obitorio (cadaveris depositum) e rimossi alcuni misteriosi canestri appesi alla parete vicino alla porta principa-le. Due campanelli, uno fissato su una trave ad uso della messa e l’altro per l’accompagna-mento dei sacramenti completano la lista degli adeguamenti strutturali.

Non è una novità che il cero pasquale in molte chiese della diocesi da tempo abbia travalicato il suo semplice ruolo liturgico nella veglia di risurrezione per divenire spesso oggetto di ostentazione e quindi dilatandosi a dismisura nelle dimensioni. Quello mos-sese dovrà essere ridotto drasticamente a una più morigerata misura di 8 libbre. Infine le integrazioni negli arredi: un antipendium, cioè un rivestimento per la parte anteriore dell’altare maggiore, un turibolo con navicella, un piviale 87, un mantello nuovo, un palio di panno nero con croce rossa per le salme, una lanterna con bastone e un lavamano ad uso del celebrante. Ogni altare dovrà infine avere un palio di cuoio dorato e ad ogni calice

86 Ivi.87 O pluviale: paramento liturgico consistente in un ampio mantello con cappuccio chiuso davanti con

un fermaglio.

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dovrà essere garantita la dotazione di due corporali, quattro purificatori con borsa, saculo e velo serico 88.

Oltre alla chiesa di Sant’Andrea, nel Cinquecento nell’ambito parrocchiale mossese esiste un solo altro edificio di culto, la chiesa di Santa Maria nel Preval, al confine con Cerovo inferiore, poco discosta dal rio Barbacina. Le indagini di scavo che nel 1993 hanno preceduto l’intervento di ricostruzione dell’edificio hanno dimostrato la sua origine alme-no tardomedievale, riportando alla luce un notevole numero di unità stratigrafiche e di strutture murarie 89. Quella visibile nel Cinquecento pertanto è probabilmente la terza ver-sione architettonica con cui la chiesetta del Preval si è mostrata ai fedeli nel corso della sua storia e che a sua volta si sovrappone su una fase costruttiva verosimilmente antecedente al XIII secolo che gli autori dello scavo hanno interpretato come un edificio rustico, quindi non ancora dedicato al culto. La prima chiesetta invece, di ridotte dimensioni (9 metri di lunghezza per 6 di larghezza circa), con impianto rettangolare a una sola aula e con l’absi-de a ferro di cavallo, sembrerebbe poter risalire al XIII o XIV secolo, costruita sfruttando alcuni elementi strutturali dell’edificio rurale preesistente e dotata di un altare collocato al centro dell’abside e verosimilmente di un semplice pavimento in terra battuta.

Ai primi decenni del Quattrocento, almeno a giudicare da una moneta del patriarca Ludovico di Teck ritrovata nello strato preparatorio per la messa in posa della pavimen-tazione in ammattonato dell’aula, dovrebbe datarsi una prima trasformazione dell’edificio attraverso la quale l’abside diventa rettangolare e ingloba la precedente, mentre l’aula si amplia leggermente (di circa un metro) ad ovest. A questa fase risale tra l’altro la prima menzione della chiesa in un documento scritto, un atto notarile rogato a Gorizia il primo settembre del 1399, in cui – stando alla trascrizione che propone Ferruccio Tassin 90 – Radech di Mossa dona al nipote Johannes detto Sauser del fu Mattiussius di Medea tutti i suoi beni, mantenendone l’usufrutto e a condizione che il beneficiario assicuri in perpetuo una donazione annua di cinque libbre d’olio alla chiesa di Santa Maria e di una libbra a quella di Sant’Andrea (figura 12) 91.

Quello quattrocentesco è un luogo di culto che afferisce alla matrice di Sant’Andrea, vi sovrintende infatti un vicario plebanale, ma sembra già allora risentire dell’isolamento rispetto al centro abitato e comunque adempiere prevalentemente alle esigenze liturgiche degli abitanti di Cerovo più che di quelli mossesi se nel 1499 il vicario Giacomo Severin, viene richiamato a una maggiore assiduità liturgica nella chiesetta campestre (soprattutto

88 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., cc. 306v-307r.; ACAU, Visita di Francesco Barbaro, cc. 40r-40v.

89 Fabrizio Bressan, Fabio Mezzone, Mossa. San Marco in Preval. Relazione di scavo 1993, Archeometra Srl, 1993. Più complessivamente la campagna di scavo è stata oggetto di studio nella tesi di laurea in Conservazione dei beni culturali San Marco in Preval, fra storia e restauro discussa all’Università di Trieste (relatore prof. Pietro Ruschi) nell’a.a. 2006-07 da Elisa Tofful, che qui si ringrazia per i preziosi materiali e le utili informazioni che ha voluto condividere.

90 Ferruccio Tassin, Chiese del Collio, Gorizia, Nuova Iniziativa Isontina e Centro studi politici, economici e sociali “Sen. A. Rizzatti”, 2002, p. 126.

91 ASGo, Archivio storico Coronini Cronberg, Serie atti e documenti, b. 120, fasc. 18.

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in occasione della solennità della Vergine) proprio come conseguenza di una protesta dei fedeli del villaggio collinare 92.

Nel XVI secolo la chiesetta subisce un’ulteriore ristrutturazione e diventa un edificio con aula ret-tangolare non sporgente rispetto ad un’abside poli-gonale e, in più, rispetto agli edifici precedenti, si dota di un portico anteriore profondo circa 7 metri. A parità di larghezza il risultato è un edifico più allungato, in quanto ampliato ad est di 3 o 4 metri. L’abside e il portico sono pavimentati con matto-nelle quadrate disposte obliquamente in una cor-nice di mattoni rettangolari, mentre l’aula riprende la pavimentazione dell’edificio precedente. L’altare, in muratura (mattoni e scaglie lapidee legate con malta di calce e sabbia) viene spostato in fondo all’abside. Quella qui descritta è la chiesa “campe-stre” visitata da Porcia nel 1570 e da Barbaro nel 1593, dotata di un piccolo cimitero e governata da una confraternita intitolata a Santa Maria 93.

L’evidenza documentale è quindi coerente con il dato archeologico, ma in più concede ulteriori elementi. La facciata è sovrastata da una bifora campanaria e l’abside ospita un unico altare ornato da una pala lignea dipinta e dorata, su cui è col-locata la statua in legno della santissima Vergine, mirabilmente cesellata e ben dorata. Si tratta vero-similmente dell’esemplare tuttora esistente, attri-buito alla scuola tolmezzina del XV secolo e oggi conservato nella chiesa di Sant’Andrea (figura 13). Completano la dotazione dell’altare, che è senza palio ma con una predella in pietra, un crocifisso posto sulla sommità, due candelabri in ferro, tre

tovaglie, una tela cerata, una vecchia pianeta verde con gli accessori e un messale di rito aquileiese. Il tutto è illuminato da una lampada di rame. Il resto,

probabilmente per ragioni di sicurezza, è conservato nella parrocchiale di Mossa, ma si riduce a poca cosa: la borsa con il corporale e il calice con il saculo.

92 Tofful, San Marco in Preval cit., pp. 17-18.93 BCUd, Visita apostolica di Bartolomeo da Porcia cit., cc. 310r.; ACAU, Visita di Francesco Barbaro,

cc. 42r.

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Figura 12. La chiesetta di Santa Maria nel Preval compare per la prima volta in un documento scritto nel 1399 (ASGo, Archivio storico Coronini Cronberg - Serie atti e documenti, Pergamene, b. 120, n. 18, cm. 31,5x16,7).

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Figura 13. La statua della Madonna del Preval (probabilmente secolo XV).

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La chiesa di Santa Maria sopravvive con una rendita proveniente da due campi di ter-reno dai quali si ricavano annualmente 10 pesenali di frumento e 12 conzi di vino circa, anche se l’annotazione di Francesco Barbaro (“dicitus habere satis bonos redditus”) tradi-sce forse l’esistenza di una più ampia capacità di raccolta devozionale. A questo proposito un’indicazione sul tasso di frequentazione e di attrazione religiosa del tempio ci viene dal suo calendario liturgico, che sembra assecondare tutte le feste della Beata Maria, e soprat-tutto dall’esistenza sotto il suo portico di un secondo altare (non cansacrato), utilizzato nelle celebrazioni, come quella del 25 di aprile (festa di San Marco e di dedicazione della chiesa), che richiama sul Preval un grande afflusso di fedeli (“propter frequentiam populi”) che l’edificio non sarebbe in grado di ospitare.

Le diverse fasi costruttive della chiesa di Santa Maria del Preval, così come evidenziate dalle indagini di scavo svoltesi nel 1993.

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eGli atti della visita di Francesco Barbaro alla chiesa di Santa Maria del Preval nel 1593 (ACAU, Visita apostolica di Francesco Barbaro cit., c. 42r.).

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Nel 1570 la chiesa è in buone condizioni strutturali. Mura, tetto e pavimento sono sani e la porta d’ingresso sicura. Porcia può raccomandare adeguamenti solo sugli arredi (un palio, tre tovaglie e una tela verde per l’altare). Ventitre anni dopo invece Barbaro sot-tolineerà l’urgenza di riparare la copertura, di restaurare il piano della mensa, di ricavare due finestre di maggiori dimensioni e di proteggerle con vetri e grate di ferro. Anche la “fossa” del cimitero, piuttosto esposta, richiederà degli accorgimenti. Infine l’altare ester-no – comprensibile l’esigenza pratica alla sua origine – non risponde all’ortodossia della disposizione degli arredi e andrà pertanto sacrificato. Già Porcia del resto aveva disposto una improbabile recintazione dell’ara per difenderla dall’accesso degli animali.

La chiesa tardocinquecentesca non sembra subire ulteriori modifiche fino al XVIII secolo, quando i Codelli, neogiurisdicenti del paese, inaugureranno su questo e su altri luoghi della vita religiosa mossese una stagione di importanti trasformazioni. Santa Maria del Preval, d’ora in avanti più diffusamente San Marco, conserverà l’abside poligonale, ma crescerà in dimensioni e in altezza, con l’abbattimento dei muri preesistenti e l’aggiunta di una sacrestia e una cantoria 94. Il progetto farà probabilmente da base per il contemporaneo intervento di ampliamento sulla cappella dell’Assunta annessa al palazzo della Vallisella. E bisognerà attendere lo stesso periodo anche per assistere alla ristrutturazione della chiesa di Sant’Andrea, talmente radicale da richiedere la riconsacrazione nel 1759, durante la visita pastorale dell’arcivescovo Carlo Michele Attems 95. Pur in un quadro di lavori che si svilupperanno su un arco forse di decenni, sarà quindi questa la fase in cui i luoghi della religiosità mossese indosseranno la nuova veste con cui poi arriveranno fino alla prima guerra mondiale.

94 Tofful, San Marco in Preval cit., p. 22.95 Atti delle visite pastorali di Carlo Michele d’Attems arcivescovo di Gorizia 1752-1774, 1, Atti delle visite

pastorali negli arcidiaconati di Gorizia, Tolmino e Duino dell ’Arcidiocesi di Gorizia 1750-1759, a cura di Franc Kralj e Luigi Tavano, Gorizia, Istituto di storia sociale e religiosa, 1994, p. 678.

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