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artigianato

Jul 14, 2015

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Marco Sironi
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La grafica e l’impaginazione sono state curate da Italo Curzio, Roma

Le foto dal n. l al n. 10 sono state eseguite daFausto Cintura,quelle dal n. 11 al n. 150 sono state eseguite daGiulio Romano Pirozzi.

© Copyright 1983 by Carlo Delfino Editore – P.za d’Italia 11, Sassari.

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Prefazione

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Ho avuto modo di interessarmi e di scrivere sovente dell’artigianato e delfolklore figurato della Sardegna, alla luce soprattutto dell’ambiente architet-tonico, costituito da case e da chiese, poichè anche il grosso dell’attivitàcostruttiva nell’Isola, è essenzialmente arte popolare, non dovuta cioè a sin-

gole personalità, ma prodotto di un vasto e lento processo corale.Nel 1935, venne pubblicato il bel volume “Arte sarda” di G.V. Arata e G.Biasi, riccamente illustrato, un’esauriente rassegna, in tempo di piena euforiafolkloristica, che stava, tra l’altro, equivocando sugli autentici valori delle artipopolari. Il libro portò una notevole schiarita nella confusione, grazie alnotevole, selezionato materiale raccolto e all’autorità degli autori. E trascor-so da allora quasi mezzo secolo, il libro, che era diventato una rarità bibli-ografica, è stato di recente ristampato. Ho pensato di riunire le mie anno-tazioni sparse in libri e riviste in un volume organico che, partendo da quest’-

opera che ritengo fondamentale e facendo tesoro delle conoscenze ed espe-rienze dell’ultimo quarantennio, offrise un quadro completo dell’artigianatodi qualità fino ad oggi. Non soltanto storia, dunque, se storia si può chiamarela ricucitura delle incerte vicende che si perdono in un grandissimo arco ditempo, ma anche la registrazione di quanto si è dimostrato ancora valido.

Se nel passato non ci furono vere scuole, ma si verificarono periodichespinte da parte di persone colte, nobildonne e prelati, oggi esistono scuole,enti e provvidenze in favore dell’artigianato, che senza dubbio hanno pro-clastinato il suo declino, non solo, ma almeno in determinati campi, come

quello dei tessuti, l’hanno vivificato con un notevole, sensibile apporto dimodernità. Numerosi sono gli artisti che oggi affiancano gli artigiani veri epropri, ma è doveroso ricordarne due, di indiscussa competenza, EugenioTavolara, che non è più, ed Ubaldo Badas, i quali sollecitarono anche lacreazione dell’ISOLA, il benemerito Ente regionale preposto all’artigianato.

Partendo dall’architettura rustica, “tutta fatta a mano”, si contribuisce achiarir meglio il rapporto tra architettura e artigianato, sia come svolgimentostorico, sia come validità di quest’ultimo nell’arredo domestico.

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I Sardi, non soltanto quelli dei centri minori, ma anche quelli di città,hanno conservato una mentalità artigiana: vogliono ancora la casa individ-uale, tutta per sè, esprimono desideri, sostanzialmente improntati a ricordi

artigianeschi, al campomastro, che mantiene un prestigio di sapienza arti-giana, col quale collaborano scalpellini, falegnami, fabbri, decoratori, ossiaquei “maestri” che riteniamo i veri artigiani. Tutti costoro, con alla testa ilcapomastro –nonostante l’introduzione di tecniche e di materiali nuovi – sonoancora più vicini all’artigianato che all’industria: per la stragrande maggio-ranza dei casi, le case sarde sono, come si diceva, “fatte a mano”, poggiandosu una esperienza artigiana.

Nell’architettura della casa – così varia da contrada a contrada dell’Isola–la fantasia gioca entro schemi planimetrici e misurati spazi tradizionali e,

s’intende, entro limiti, piuttosto angusti, di economia. Quando pensiamo allacasa, pensiamo a noi stessi dentro ad essa, assieme a quei determinati arredi,a quegli oggetti che sono ormai nel sangue. La tradizione è in sostanza la nos-tra inerzia, la quale – si sa, – tende alla conservazione delle forme, anchequando è scomparso il bisogno che l’aveva determinato. Basti pensare allapersistenza delle lo/le campidanesi, ambienti di filtro, disimpegno e sog-giorno che caratterizzano quelle dimore, nate come tettoie per la protezionedel bestiame addossate alla casa, e alla sopravvivenza del tipico cassone, dicui ogni sardo è ancor oggi geloso, anche se le destinazioni che ad esso

attribuisce non sono proprio più quelle originarie, ed al “tappeto”, che nelpassato non è stato mai tappeto, ma coperta da letto o copricassa. La soprav-vivenza delle forme è più forte delle primarie ragioni pratiche: fenomenoquesto comune a molti popoli, ma più spiccatamente accentuato in Sardegna;e pertanto, noi, anche quando possediamo una casa veramente moderna, nonpossiamo fare a meno di decorarla con manufatti del nostro artigianato: tap-peti, arazzi, ceramiche, canestri ......

Un manufatto di artigianato non si può intendere in assoluto, facendoastrazione dell’ambiente che dovrà ospitano: così lo concepisce semprel’artefice e lo sente sostanzialmente l’amatore, che trova subito una sua col-locazione, anche se talvolta non è proprio quella per cui venne creato.

La casa sarda è un meraviglioso prodotto di artigianato, che costituisceun tutt’uno con le cose che contiene, integrate, in un passato ancora recente,dai costumi degli abitatori. Basterà osservare che gli umili materiali sonoidentici: l’argilla del muratore, per i mattoni crudi, e quella del figulo, cheforniva doccioni, acroteri, brocche ed orci; il ginepro e il castagno erano leessenze comuni per orditura di tetti, assiti, scale e mobili. Gli intagli delle

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piantane, delle colonne e dei capitelli delle logge campidanesi e delle colon-nine delle balconate montanare erano simili, perchè scalpellini ed intagliatoriappartengono alla stessa famigla: gli uni e gli altri hanno ripreso, elaboran-

doli, motivi di architetture antiche chiesastiche. Certe forme sono state indus-trializzate: le tegole di Sill e di Segariu rivelano il timbro della mano, ma lebrocche di Oristano, Assémini e Dorgali, che ricalcano antichissimi modelli,sembrano viceversa fatte a stampo. Si usavano gli stessi tipi di porta e difinestra nelle singole contrade, e gli striscioni di legno intagliato o graffitovenivano venduti a metraggio, con motivi senza principio e senza fine. Imuratori ricorrono ancora ad accorgimenti spesso geniali ed hanno il gustodel particolare (basta pensare ai fantasiosi comignoli, che hanno il valore ditrofei per solennizzare la ultimazione della fabbrica), propri dell’artigiano.

Quel senso di gaiezza che si avverte nelle case campidanesi, non appenavarcato la soglia del portale che immette nel giardino fiorito, si avverte all’in-terno della dimora per l’originalità dell’arredamento.

Dopo la casa, in Sardegna, viene per importanza, la chiesa: per essa l’ar-tigiano ha compiuto lavori in collaborazione, spesso, con artefici forestieri.Ha prestato la sua opera all’erezione di magnifici altari lignei intagliati edorati, soprattutto nel Settecento; ha creato sedie e panche priorali, mobili percori e sagrestie, crocifissi e simulacri di legno. E meravigliosa è stata anche

per le chiese l’opera degli argentari e delle donne, che ricamarono paramen-ti sacri e tovaglie d’altare.

L’artigianato in Sardegna era occupazione di tutti, un’autentica passione,non sempre dettata da necessità. Non si spiegherebbe altrimenti il notevoleapporto della donna che certamente non tesseva a scopo di lucro. Si pensi allasua intelligente operosità: alla cestineria, alle trifle e alle tele ricamate, allacura amorevole del cortile–giardino, articolato con ordine e gusto tutto arti-gianesco, alla confezione del pane e dei dolci fatta con religiosità, adoperan-do stampi mirabilmente intagliari e una raffinata coltelleria, si pensi alla fan-

tasiosa modellazione della palma che dovrà per un anno decorare la spallieradel letto, accanto al crocifisso severo, e ravvolta di nodosi rosari. Ma il cap-olavoro della donna sarda è costituito da tappeto: esso è la più bella deco-razione della casa, ed è singolare il fatto che i motivi prevalentemente geo-metrici si riscontrino nei paesi di montagna, dove la casa è d’una geometriameno rigorosa, mentre quelli di colore smagliante, di minuto e prezioso dis-egno, sono nati entro i grigii murati delle pianure meridionali, là dove le casesono di composizione più larga e cadenzata.

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Negli ultimi decenni molti modi artigianali sono ormai scomparsi del tutto;dagli anni Trenta, allorchè il Biasi e l’Arata coglievano gli ultimi sprazzi di unavita serena ma cristallizzata, il progresso nell’Isola ha fatto passi veramente da

gigante. La fatica dei due autori ha soprattutto un pregevole valore documen-tario. Le raccolte etnografiche erano allora, si pùò dire, in embrione. Oggiesistono varie raccolte pubbliche, donate da collezionisti privati: la sezione etno-grafica del Museo nazionale di Sassari (collezioni Castoldi – Bertolio eClemente), il Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde di Nuoro ed ilMuseo delle Arti e tradizioni popolari di Roma. Tutti ben lungi dal rappresentarel’imponente attività artigiana dell’Isola. Si attendono ancora le sistemazioni dialtre eccellenti collezioni, quali la Manconi–Passino e quelle di Amilcare Dallay(solo parzialmente esposta nel Museo di Sassari) e di Luigi Cocco.

Nel periodo compreso tra la fine della Grande Guerra e gli inizi deglianni Trenta, periodo contrassegnato da esaltazione delle qualità tradizionalidell’Isola, si verificarono certe deviazioni del gusto. Basti dire che si confuseil risultato dell’esposizione al fumo del cassone tenuto a lungo in cucina (“sadomo de su fumu”, la stanza del fumo), con il colore di esso che nero non eramai stato. Anzichè sangue d’agnello e succhi vegetali, impiegarono vernicigli inventori e i seguaci del cosidetto “stile sardo”, nero e lugubre. I motivi

d’intaglio, ch’erano stati sempre ben dosati, dilagarono nella casa, soprattut-to quello della gallinella e dell’uccello, ripetuti monotonamente finoall’ossessione: nei tavoli, nelle sedie, nei letti, negli armadi, nella suppellet-tile e persino nelle cornici di quadri che i Sardi non ebbero mai. Nato comefiliazione del liberty, lo “stile sardo” ebbe successo per l’applicazione steroti-pata di elementi floreali, d’intaglio, più o meno stilizzati. E dalla casa passòagli ambienti di rappresentanza dei palazzi pubblici, incoraggiato da buro-crati forestieri, che della Sardegna tutto ignoravano. Oggi si lamentano leaberrazioni, forse maggiori, che popolano i numerosi empori di souvenirs, lequali non hanno niente a che fare con l’autentico artigianato sardo.

Il vero stile sardo è quello della casa del villaggio; l’interpretazione e latrasposizione di elementi rustici nel mobilio della casa cittadina fu ed è ungrosso equivoco, determinante un inquinamento del gusto.

Il cassone nuziale, l’unico mobile veramente sardo, quello autentico, dibelle proporzioni, di buona partitura e decorazione appropriata, come tutti glioggetti di autentica arte, sta bene dovunque. Così, nella casa moderna, stan-no bene le forme pure, genuine, di terracotta, ceramica, paglia e giunco: sia

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quelle che conservano la primaria distinazione, sia quelle essenzialmentedecorative, ricche di colore, come i tappeti e gli arazzi.

La casa sarda dimostra chiaramente che la sua bellezza scaturisce da una

necessità realizzata col minimo dispendio di energia: lo dimostrano i dosatiambienti ed i mobili; è il taglio solenne di questi e allo stesso tempo la lorosemplicità ed essenzialità che li rende attuali. La severità non va confusacolla tetraggine: chè il nero è impiegato solo come necessario contrappunto,distribuito sempre nella giusta misura sia nei tappeti (i quali non si può direche non siano piuttosto vivaci), sia nei cestini.

Con la riproduzione fedele di antichi modelli e con la creazione di nuovidovuti alla interpretazione di artisti d’oggi, la cui attività è volta all’arredodella casa e che dai primi si diparte, fino ad affrontare una scala inusitata

(grandi tappeti di Sarule e di Nule, che ben possono inserirsi in altri temi mod-erni di architettura, oltre la casa), e con moduli affatto nuovi (cestineria, anzi-tutto, terracotta, ceramica, legni intagliati), si può dar luogo a un arredo diclasse. Allorchè la nota folkloristica sisappia mantenere in sordina, le formepure ed essenziali si inseriscono felicemente in qualunque ambiente moderno.

Necessariamente, questo rinnovamento del gusto che si avverte in unadignità generale, impone un adeguato aggiornamento in estensione per i nuovicompiti che l’artigianato deve assolvere (e i già ricordati empori di souvenirsne sono la riprova). Dopo le esperienze invero non felici, degli anni in cui

imperversava il folklore, svolte su temi scaturiti al primo ingresso nell’Isola diinvoluzioni stilistiche, più che con la presenza di forme architettoniche, perl’influenza di certo gusto letterario, oggi, come si diceva, per merito degliartisti, come ebbe a verificarsi certamente nel passato, anche se non sono tra-mandati nomi di artefici di spiccata personalità, l’artigianato sardo ed il gustogenerale rinnovato sono preparati per l’inserimento di valide forme di arredoe decorazione in un moderna architettura, non più essa artigianesca.

Fra le arti popolari europee, le produzioni di artigianato sardo si sonoforse conservate le più pure: esse presentano, tutte, il timbro peculiare einconfondibile della regione, suscitando sensazioni particolari, sia dal puntodi vista visivo che tattile.

L’arte popolare isolana, di cui si scorge un fondo lontano nelle manifes-tazioni della civiltà nuragica, ha beneficiato di flussi dei periodi succedutisi,in particolare quelli bizantino, romanico, rinascimentale e neo–classico,nonchè di periodi più recenti.

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Le espressioni di pittura popolare sono, si può dire, pressocchè inesisten-ti, perchè non poterono avere riferimenti alla quasi assente pittura colta; a ciòaggiungasi la congeniale preferenza del disegno al colore, nonchè per le

immagini aniconiche. La plastica ebbe invece esempi con continuità, a partiredai bronzetti nuragici, fino alle sculture puniche e romane, agli ornati bizanti-ni e romanici; gli scalpellini catalani costituirono un’autentica scuola, sia pergli scalpellini che per gli intagliatori. Ha avuto un notevole sviluppo la plasti-ca figulina e la plastica effimera (pani di festa, dolci, ex–voto di cera, ecc.).

Il colore, tuttavia, non è stato assente: si pensi ai costumi e ai tappeti, iquali sono di tipo orientale sia per la tecnica che per la lavorazione, ma gen-uinamente sardi. I tappeti delle collezioni risalgono al più al sec. XVIII; essiripetono motivi più antichi, che venivano tramandati da madre in figlia, i quali

sono comuni anche ad altri popoli, motivi geometrici, rabeschi (mutuati forsetramite la Spagna) e motivi derivati dall’arte antica delle colture succedutesi.

L’arte popolare come produzione autonoma non esiste; l’artigianato diqualità, anche se sembra un’attivitàschiettamente individuale, è frutto di col-laborazione. Il fatto più evidente oggi è dato da quei grandi tappeti cheescono da un unico telaio, ove lavorano contemporaneamente fino a sei tes-sitrici, battendo lo stesso ritmo. Il lavoro delle artigiane (una volta erano tutte,indistintamente, le donne sarde), emana un soffio di personalità, contro l’ap-parente uniformità determinata dal rispetto assoluto del ritmo: si pensi alla

varietà dei tappeti, delle trifle e delle tele ricamate, delle infinite sfumaturedella cestineria.

E in virtù della rigida osservanza dell’utilità funzionale posta a costume,che quando l’artigiano–artista ha avuto a portata di mano un gagliardo pezzodi legno di pero, o una zucca singolare o un bel corno, ha creato ancora coseegregie e valide, pur concedendo libertà alla propria fantasia, quasi come undivertimento, per fare un dono prezioso all’amico o agli sposi (una fiaschet-ta, una tabacchiera, un corno da caccia, un vassoio). I vasellai che fabbrica-vano i manufatti come fatti a stampo, si compiacevano la domenica o neglialtri giorni non lavorativi, di imprimere un diverso ritmo alla ruota figulina,sfornando quelle anfora fantasiose che non ci stanchiamo di ammirare.

Come nei secoli andati ci sono state le presenze vivificatrici, così gliartisti o gli artigiani, essi stessi artisti, continuano nel processo degli aggior-namenti. Il problema non è quello di ripetere all’infinito gli antichi modelli,ma occorre conservare o ritrovare l’antico linguaggio, per non ricadere nel-l’equivoco folkloristico di cui si è discorso. Sarebbe un vero peccato che ilpatrimonio d’un magistero sensibile andasse perduto, che l’artigianato si

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ritrovasse costretto alla ripetizione di forme, per sopravvivere esso, essendoormai da qualche tempo scomparsi i bisogni che quelle forme determinaronoe che integre sopravvissero per singolari vicende storiche in cui l’Isola venne

a trovarsi.Le illustrazioni del volume sono in gran parte immagini di manufatti

recenti di un artigianato selezionato, mentre si rimanda al citato volumedell’Arata e del Biasi per le illustrazioni di manufatti più antichi, strettamentetradizionali. Si è preferito qui offrire un panorama della “nuova tradizione”,utilizzando l’archivio fotografico dell’I.S.O.L.A., a cui si deve la pubbli-cazione del volume, ricorrendo il venticinquesimo anno dalla sua istituzione.

Vico Mossa

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ARCHITETTURA RUSTICA

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La casa sarda del contado, l’ambiente confortevole della famiglia, era,fino a non molto tempo addietro, il contenitore delle cose necessarie alla vitaquotidiana, cioè delle produzioni artigianali di cui ci occuperemo. Per questo,soprattutto, e perchè essa stessa produzione di artigianato, iniziamo con l’anal-

izzare l’architettura domestica come andò lentamente sviluppandosi fino allaprima metà del presente secolo, allorchè si è verificato un diffuso processoaccelerato di aggiornamento. Dato che da quella svolta non è trascorso moltotempo e che un buon numero di esemplari di casa tradizionali forma i centriabitati, appare legittimo usare ancora l’indicativo presente. In Sardegna, levicende dell’architettura domestica del contado si indentificano con le vicendedell’architettura rustica, costituendo essa il grosso dell’attività edificatoria; lecittà, d’altra parte, sono poche ed anch’esse, in parte, di origine contadina. Losfondo è quello di una economica agricola e pastorale, singolare e statica, in

cui si crogiuola il villaggio, anch’esso di struttura singolare, in forme semprepiù eccentrate. Con lo spopolamento delle coste, iniziato alla cadutadell’Impero romano e proseguito sempre più intensamente nei secoli succes-sivi, si spensero gradatamente le attività marinare e commerciali; salvo la par-entesi genovesepisana e sporadiche attività estrattive in aree circoscritte,dall’Alto Medioevo e per lunghi secoli, si può parlare soltanto di una econo-mia agricolo-pastorale e di attività artigianali ad essa connesse.

L’impianto fenicio–punico delle città nelle coste sud–occidentali nonaveva influito sull’insediamento disperso e sull’architettura delle popolazioni

nuragiche. Un arabesco continuo di muri curvilinei e di costruzioni a piantacircolare più o meno poderose caratterizzava, infatti, in modo curioso il ter-ritorio dell’Isola avanti la penetrazione romana: le popolazioni nuragicheerano giudicate dagli scrittori greci incapaci a edificare città. La vita,comunque, si svolgeva in prevalenza all’aperto; il nuraghe e la capannanuragica servivano come difesa e riparo all’uomo, per proteggere i suoi ani-mali e le sue cose. Con la dominazione romana, l’arabesco finì per dissolver-si lentamente nell’intrico dei boschi e delle macchie cespugliose.

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I Romani incoraggiarono la formazione e l’incremento di villae, vici e pagi nelle zone più fertili, ma per la scarsa entità di organici scavi archeologi-ci attinenti quel periodo, non ci è dato apprezzare il grado di evoluzione di

quelle costruzioni dell’interno (mentre gli scavi che si stanno effettuandonelle aree delle antiche città costiere ci attestano di evolute ed opulentedimore), nè sappiamo, per le stesse ragioni, molto di più circa le formearchitettoniche dei complessi edilizi che sorsero nelle donnicalie medioevali,di cui ai documenti scritti del tempo, e che reale diffusione e distribuzioneabbiano avuto nel territorio isolano. Poichè non appare verosimile unadegradazione nei secoli che seguirono, se non altro dal punto di vista delladistribuzione degli ambienti, dobbiamo immaginarci quelle costruzioni delcontado elementari, formate da pochi vani gravitanti attorno ad uno più vasto,

la cosidetta “cucina”, quel nucleo cioè della casa monocellulare che si è anda-to trascinando in alcune zone più depresse, si può dire, fino ai nostri giorni.

Un’evoluzione più avanzata dovette certamente verificarsi nelle pianuremeridionali molto prima rispetto alle zone interne dell’Isola, in quanto leprime ebbero più frequenti e stabili contatti sin dall’età preromana. Ciò èdovuto anche al fatto che lo sviluppo della casa del contado è legato all’am-biente pedologico, che nel Campidano è assai più favorevole che altrove. Equi che troviamo infatti la più compiuta espressione architettonica, giuntafino a noi attraverso una lenta, ma progressiva evoluzione.

Le popolazioni dell’interno, degli altipiani e delle montagne, abban-donarono molto tardi la dimora circolare e sentirono assai più a lungo dellealtre, per fenomeno atavico, la spazialità, interna ed esterna, dei villagginuragici. Il pastore barbaricino si può dire che la senta ancora, giacchè la pinnetta, la dimora temporanea e qualche volta stabile, ricalca la forma dellecapanne circolari che formavano il villaggio attorno alla mole nuragica.

E caratteristica questa proiezione lontana nelle campagne, del villaggiomontanaro: e se da un lato la capanna favorisce l’isolamento individuale, cheal Sardo è congeniale, dall’altro la dobbiamo considerare come un’autenticaappendice del centro abitato, perchè a esso legata socialmente ed economica-mente. Spesso questa dimora “temporanea” la troviamo in prossimità del vil-laggio, dove si istituisce l’ovile, cioè il posto di lavoro; il decentramento, piùo meno lontano, è determinato da uno stato di necessità (transumanza): decen-tramento che invece non riscontriamo mai nelle borgate ad economia agrico-la, dove troviamo addensati i recinti, che riuniscono assieme uomini, animalie attrezzi da lavoro, qualsiasi risulti la distanza dai campi da coltivare.

La tendenza ad allontanare i rustici dalla dimora vera e propria, sempre

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però nell’ambito del recinto, l’avvertiamo chiaramente nell’evolversi dellacasa di pianura; alla promiscuità subentra man mano la distinzione tra dimo-ra umana e ambienti, tettoie e steccati per il riparo del bestiame e degli

attrezzi da lavoro, dilatando sempre più il recinto, senza però accennare aromperlo. Nell’Ottocento si giunge a una purezza della casa, il cui elementocaratteristico è – come vedremo – la lolla, il portico antistante, che ha avutoorigine dalla tettoia–riparo addossata ad essa per la protezione del bestiamebovino, ed il cortile, diventato parte inscindibile, architettonicamente, sitrasforma poco per volta in giardino.

La tipologia della casa del contado è in Sardegna oltremodo varia, sì cheresta difficile fare una rigorosa e allo stesso tempo chiara classifica. Ci limi-tiamo a ricordare soltanto i tipi fondamentali, rimandando a più ampie trat-

tazioni attinenti l’aspetto geografico–insediativo e soffermandoci invece làdove scorgiamo uno sforzo di quasi–arte. Di arte vera e propria non possiamomai parlare, in quanto in Sardegna mancano esempi in cui si senta la presen-za di personalità, a differenza di quanto è avvenuto in altre regioni italianeanche per l’architettura del contado. Occorre aggiungere che il termine colquale spesso si classificano queste espressioni popolari, “architetture sponta-nee”, è improprio, perchè tutta l’arte è spontanea. Esempi di architetturarurale o rustica in cui si possa avvertire la presenza dell’architetto, nel pas-sato non se ne sono avuti o non sono giunti fino a noi; occorre arrivare al pre-

sente secolo. E lecito, però, pensare a uno “spirito ordinatore”, che in variperiodi del passato, facendo tesoro di pallidi riflessi culturali, abbia con-tribuito ad elaborare modelli: ripetuti e interpretati dall’estro di “maestri dimuro”, essi possono legittimamente inserirsi in quel corpus di espressionipopolari, fresche e genuine, denominate architetture mediterranee. La dimo-ra sarda entra degnamente nel fenomeno costruttivo della casa mediterranea,anche se per vicende storiche, come già le espressioni architettoniche dell’an-tica civiltà nuragica, ha avuto uno sviluppo autonomo, anche se la si giudicainattuale, per non assolvere più la precisa funzione di casa rurale, giusta l’ac-cezione del termine. Ma essa risulta estremamente interessante se consedera-ta nel suo ruolo storico, come cellula in evoluzione nel tessuto urbanisticoconservatosi medioevale, il villaggio, improntato ad una economia chiusa, diautosufficienza e di difesa assieme, determinato da dolorose vicende secolari.

Il più delle volte la casa viene innalzata al posto di un’altra vetusta “stan-ca di vivere”: e questa insistenza su lotti di antica formazione che con-tribuisce a rendere stagnante la trama urbanistica. E mentre il villaggio di pia-nura, pur ricco e vario all’interno dei recinti che lo formano, appare come di

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aspetto stagnante, piuttosto monotono, quelli di collina e di montagna acquis-tano di vivacità man mano che si elevano di quota, per la disposizione aquinte, sul terreno accidentato, delle case che si proiettano sulle strade e sulle

piazzette con le aperture, gli sporti, le ampie balconate pensili, i rampantidelle scale esterne. Essi riflettono anche una vita comunitaria diversa, piùchiusa il primo, più aperta gli altri. Caratteristica comune alla casa di pianu-ra e a quella di montagna è che esse sono organismi che di rado nascono inuna sola volta, ma si sviluppano con le esigenze, con la crescita delle unitàfamiliari, in dipendenza di una buona annata. Pertanto, i volumi e le formeacquistano varietà e la costruzione non risulta mai un’entità geometrica, con-clusa. E sorprendente lo spazio interno, sia per la misurata articolazione, siaper la sapiente utilizzazione: specie le dimore più modeste colpiscono per

l’organizzazione di tutto quanto è necessario, che si traduce in un armonicorisultato fra esterno e interno. Foma e funzione si identificano: è questa qual-ità architettonica fondamentale che rende le dimore sarde ancor piacevoli.

Importanza hanno avuto, necessariamente, i materiali a disposizione: ilmattone crudo, impiegato nelle pianure, povere di materiale litico, ha con-dizionato le costruzioni in altezza; la varietà delle pietre (tufi calcarei e vul-canici, basalti, graniti, trachiti, scisti) nelle altre zone ha favorito, oltre le casein altezza, una varietà di espressione esterna: talvolta, il diverso materiale e1’ opus bastano a differenziare dimore aventi schemi distributivi pressochè

identici.

Come si è accennato, non conosciamo con esattezza come fossero strut-turati e articolati i centri agricoli nel periodo giudicale, succeduto alla domi-nazione romana e all’amministrazione bizantina. Dalla presenza di ruderi discarsa entità e dalla documentazione dei condaghes, possiamo solo farcil’idea della distribuzione planimetrica dei complessi edilizi delle donnicalie,edificati in vicinanza di chiese, costituiti dalla domus, l’abitazione vera e pro-pria del maggiorente, da magazzini e dalle pertinenze per la servitù e per gliaddetti ai lavori agricoli, all’allevamento del bestiame e alla lavorazione dellatte, del lino e della lana. Le donnicalie sono espressione del latifondo chesi estrinseca in forme di tipo curtense, dominate spesso dalla presenza d’unoo più nuraghi adibiti a deposito di derrate, alla guisa di moderni silos.Dobbiamo immaginare dei corpi di fabbrica semplici, ma non abbiamo –almeno fin ora – elementi onde poter giudicare circa le qualità architettonichedi essi, che per altro non dovevano essere dissimili dai nuclei degli odierni

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villaggi. I nomi di Donigala Fenughedu, Donigala Siurgus e della Donigalaogliastrina denunciano l’origine di detti villaggi da altrettante donnicalie, informe di agglomerato andato sempre più addensandosi.

Forse, maggior interesse architettonico presentavano le costruzioni rus-tiche annesse ai complessi abbaziali, innalzati dagli ordini monastici che pro-mossero le prime opere di bonifica, come fecero i Camaldolesi a Plaiano(Sassari) e poi a Saccárgia (Codrongianus) ed i Vallombrosani a Salvenero(Ploaghe). Anche in queste località, i ruderi sono di modesta entità ed il ricor-do è costituito, si può dire, soltanto dalle magnifiche chiese sopravvissute.

Dobbiamo, pertanto, documentarci su quanto offrono i villaggi attuali eduna ricostruzione del processo evolutivo resta ancora agevole farsi attraversonumerosi esempi cristallizzatisi negli stadi intermedi.

Si individuano nell’Isola, fra numerose forme, cinque tipi fondamentalidi casa, di contadini e di pastori: elementare, con cortile chiuso, con cortileretrostante, in profondità e in altezza con balconate lignee. Il primo tipo sitrova nelle zone periferiche (Gallura, Anglona, Nurra e regione sassarese,Sulcis, Sàrrabus), nonchè negli a1tipiani centrali. La casa con cortile chiusoè tipica del Campidano, con varianti locali nella Trexenta, nella Marmilla, neivillaggi alla foce del Flumendosa e nell’arco costiero del golfo di Cagliari,fino a Teulada. Ai confini settentrionali del Campidano si è localizzata la casain profondità. In più vasta area, la casa in altezza, caratterizzata da balconate

lignee, è tipica delle borgate montanare (Sardegna centro–orientale, conincuneamenti nel Montiferro, nel Goceano e in Gallura).

Lungo la valle del Tirso confluiscono tutti e cinque tipi, oltre ad altriinteressanti tipi intermedi di saldatura, elaborati soprattutto nella deco-razione, per la presenza ivi di ottime pietre e di buoni lapicidi.

Nelle zone periferiche, ad insediamento disperso, la casa elementare è diestrazione relativamente recente, perchè riferibile a un fenomeno spontaneosei–settecentesco (stazzi, cui/i, furriadroxius, baccilÒ. una casa elementare,ma diversa da quella che dette origini ai diversi tipi, la domus, in quanto carat-terizzata da una pura linearità e per l’isolamento dalle pertinenze rustiche, dis-poste attorno, che sono oltremodo singolari nelle diverse zone. La Nurra e laGallura in particolare sono ricche di costruzioni accessorie, nelle quali prevalel’andamento curvilineo, in contrasto col lindo corpo di fabbrica racchiudenteuna o più dimore affiancate. E una forma elementare pura, con strutturemurarie semplicissime, dalla quale sporge solo il forno col fumaiolo, in comu-nicazione all’interno con la casa manna, la camera grande, ossia la “cucina”.Gli altri ambienti, giustapposti da un lato, sono camere o magazzini.

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La forma elementare antica, che riscontriamo un pò dappertutto e che hadato luogo alle forme complesse in tempi e zone diversi, era ed è rimastaancora contaminata dai locali per la stabulazione e per il riparo degli attrezzi

agricoli–pastorali. In alcune zone marginali è dato ancora osservare – per unfenomeno di cristallizzazione – gli stadi che hanno portato alla formazionedella casa isolana. La dimora e i rustici sono disarticolati, il forno a palla odal profilo parabolico è isolato, e così il pozzo, attorno all’aia antistante,recinta da basse muricce a secco; la tettoia–riparo per il bestiame addossataalla dimora, unicellulare o formata dalla “cucina” e da pochi altri ambienti.

Gradatamente e lentamente, il complesso si è andato organizzando, inmodo da isolarsi completamente dalla strada e dai vicini con muri alti eciechi, in lotti quadrangolari tendenti sempre più a dilatarsi e a regolarizzarsi

in forme rettangolari, in guisa che la dimora risultasse a cavallo dei due spaziliberi, quello retrostante in genere destinato ad orto e quello antistante, piùvasto, a cortile, disponendo i rustici (tettoie) lungo il lato di questo su stradaed anche sugli altri due lati. Il recinto è in comunicazione con la strada permezzo di un unico ingresso carraio, protetto da tettoia all’interno, quasi sem-pre centinato e di norma a tutto sesto, di misura tale da potervi transitatre ilcarro col tettuccio a botte, fatto da canna spaccata e tessuta (Ióscia).

L’originaria tettoia, sorretta da piantane di ginepro, addossata alla dimo-ra, per la protezione del bestiame bovino, si trasformò gradatamente nella

caratteristica loggia (Io/la), l’ambiente che caratterizza la casa. Il forno vennesempre più attratto da questa, fino a diventare un’appendice della “cucina”,che occupa di regola un’estremità del corpo di fabbrica che diaframma i cor-tili. Altrettanto avvenne per il pozzo, non più scavato in un punto a caso, main prossimità dell’ingresso alla loggia o, molto spesso, in comunione col vici-no (funtana a mIgias, corruzione dello spagnolo a mIdyas, a metà).

Ciò che sorprende, negli esemplari più progrediti, è il rapporto, voluto ocasuale, col quale il corpo di fabbrica divide il lotto e la correlazione, pres-sochè costante, tra ampiezza della casa e profondità del cortile anteriore, checonsente sempre a chi varca la soglia del portale, di godere una riposanteprospettiva della casa affacciantesi sul cortile ingentilito da aiuole, linda, ser-ena e civettuola. Contrasta il muro esterno del recinto, alto, cieco e grigio, perl’impiego del mattone crudo senza intonaco, col prospetto “interno” dellacasa, bianca di calce o arricchita da decorazioni cromatiche, con la zona basa-mentale chiaroscurata dalla loggia variamente modulata da spartiti architet-tonici architravati o arcuati. Attraverso esemplari superstiti, soprattutto nelleborgate attorno a Cagliari, si può osservare lo sviluppo degli elementi

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architettonici: dalle semplici piantane, si è passati ai pilastri lignei intagliati edecorati con figure di animali e geometriche, dipinti anche a vivaci colori,poggianti su bassi muretti e sormontati da capitelli a stampella, reggenti le

travi, pur esse decorate, e l’incannucciato fresco del tetto; indi a pilastri inmuratura, prima massicci, poi eleganti, collegati ancora da travature lignee,ed infine, a spartiti arcuati, a tutto sesto, ribassati, ellitici.

La loggia, che si estende di norma per tutta la lunghezza del corpo di fab-brica, diaframma la luce intensa che illumina gli ambienti retrostanti a pianter-reno, costituisce il disimpegno, l’ambiente principale della casa: in essa,arredata da numerose sedie basse e anticamente da panche, s’incontrano mez-zadri e amici; le donne tessono e ricamano, i bimbi fanno i primi giochi; sipurgano il grano e i cereali, si ripongono gli incannucciati per il dissecamen-

to dei pomodori, delle mandorle e delle noci, si appendono rosari di uvapassa,trofei di zucche. Qualche volta, in un angolo è allogato il torchio o si allineanocilindri di canna tessuta, per il deposito dei cereali, quando la casa non ha unambiente apposito od il piano superiore a ciò riservato (sobáriu).

E soprattutto il ritmo achitettonico della loggia, con le innumerevoli mod-ulazioni del tema, a generare il timbro fondamentale che differenzia la dimoracampidanese da tutte le altre. Altro elemento caratteristico è il forno a palla, avista o riparato da tettoria, ubicato nel cortile anteriore o in quello posteriore.

La “cucina” è un ambiente caldo per l’arredo che impegna tutte le pareti;

sussidiaria è la stanza destinata esclusivamente agli utensili di fieno, corbe ecanestri, di varie forme e dimensioni. Sparito del tutto è l’ambiente dellamola, attorno a cui il somarello girava tutto il giorno, battendo il monotonoritmo domestico. Le camere da letto, da scarse che erano, sono andate sem-pre più aumentando di numero, e una di esse è riservata sempre all’ospite:distribuite, prima, solo a pianterreno, poi, in epoca a noi vicina, anche nelpiano superiore, un tempo adibito esclusivamente a deposito di derrate.

Nel secolo XVIII, come risulta da un documento del 1758, la casa dellapianura campidanese aveva raggiunto la sua compiutezza, conservando unelemento caratteristico, il   pendenti i, un corridoio coperto retrostante allacucina, che la diaframma dall’orto, ricordo del primo espandersi della domus,della dimora monocellulare.

Nell’Ottocento e nei primi decenni del presente secolo, la casa ha con-tinuato a darsi un ordine sempre maggiore, con una migliore organizzazionedei rustici, guadagnando terreno a favore del giardino, denso e compatto,nella parte anteriore. La casa, sia la minima del bracciante che quella delricco possidente, accentua sempre più il carattere di gaiezza e di signorilità;

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il giardino viene curato con amore e, attraverso gli spiragli del portale, l’es-plosione dei fiori a primavera fa dimenticare il grigiore dei murati esterni.

Si riteneva che la casa a recinto chiuso del Campidano fosse derivata dal

cavaedium etrusco o dalla casa pompeiana, od anche dal  patio spagnolo,ipotesi quest’ultima che sembrava più verosimile, in quanto la maggior elab-orazione avvenne in tempi di dominazione aragonese e spagnola: studi recen-ti hanno però dimostrato che essa si è formata autonomamente, senza sensi-bili apporti esterni, per gradi, affinando sempre più lo schema.

Per la individuazione dei successivi stadi che, nella lenta evoluzione,hanno portato alle soluzioni architettoniche giunte fino a noi, sono di buonausilio la nomenclatura popolare, la terminologia e l’etimologia in linguasarda; fra le voci che ricorrono più di frequente, ricordo domus, che al singo-

lare indica la casa monocellulare, mentre is domus, al plurale (camp.), indicala casa formata da due o più ambienti; la voce stáulu (portico) indica il riparoaddossato alla dimora per la stabulazione e ricorda l’origine della lo/la (dal-l’italiano “loggia”); il  pandenti (dal latino  pandò, ere) ricorda l’embrionaleespansione della dimora monocellulare collegata al cortile. La voce  patiu, ilcui uso è ristretto all’area del sassarese, ha indotto qualche studioso a crederedi origine spagnola il cortile con la loggia, mentre in Campidano essa voce èsconosciuta.

Il villaggio di pianura è pertanto formato da vasti isolati composti da lotti

per la maggior parte quadrangolari profondi, molto ampi, con orientamentoin prevalenza sud–sudest. Il tessuto stradale però non è affatto regolare ed èfacile imbattersi in strade cosidette “saracene”, vicoli ciechi residenziali con-formati a denti di sega.

Eccezione costituivano le botteghe artigiane, complementari all’attivitàagricola: le botteghe del carpentiere, del fabbro, del bottaro, del sellaio, ecc.prospettavano direttamente su strada, dando vita ad essa, aventi però sempreil cortile a fianco o retrostante, nel quale era ubicata l’abitazione dell’arti-giano. Quando il cortile non era sufficientemente grande, in apposito spazioesterno, in prossimità della bottega del fabbro era il monumentale castello perferrare ibuoi eicavalli.

Gli isolati ruotavano attorno alla chiesa parrocchiale, nel cui piazzale sisvolgeva la vita comunitaria, collettiva, mentre il “vicinato” rompeva l’isola-mento, molte volte apparente, nei recinti chiusi. E se pensiamo all’organiz-zazione agricola, quale giunse fino al periodo dell’amministrazione piemon-tese, scorgiamo un’intesa comunitaria che sorprende, in quanto il villaggioera organizzato, come si è accennato, in forma autarchica, di autosufficienza

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e di difesa assieme, attraverso l’istituzione del vidazzone e del paberi/e. Si haanche notizia di una collaborazione edilizia, di mutua assistenza e collabo-razione nell’innalzare le case.

Nella Marmilla la casa si eleva, in quanto lo consente il suolo di sedimeed il materiale da costruzione (da rocce calcaree, marnose e basaltiche).Come nel limitrofo Campidano, è frequente la soluzione con dopppia fila distanze, mentre i diversi moduli della lo/la conferiscono alla casa un climaparticolare. Nel Seicento fu influenzata da un’architettura colta, elaboratanella spaziatura e nella decorazione. Nella vicina Trexenta, invece, si perdonoi valori ritmici del Campidano e della Marmilla, e la costruzione si fa menocaratterizzata. Nei villaggi del Sárrabus alla foce del Flumendosa (Muravera,San Vito e Villaputzu) il loggiato è talvolta doppio, servendo quello superi-

ore come disimpegno per la conservazione dei prodotti agricoli.ATeulada, i lotti hanno il lato più lungo parallelo alla strada, con l’ingres-

so carraio che immette nel cortile rustico distinto dal portaletto che immettenel piccolo giardino antistante la casa, che si svolge spesso con pianta ad L;il forno, il pozzo e l’abbeveratorio sono di norma nel cortile rustico, che èseparato dal giardino da un incannucciato o da un basso muretto.

La casa di Cabras e dei villaggi dell’alto Oristanese si differenzia notevol-mente rispetto a quella del limitrofo Campidano: ha il prospetto su una stradae cortile retrostante, con passo carraio a un lato. Nel cortile sono tettoie rus-

tiche per gli animali e gli attrezzi da lavoro, il pozzo e il forno, appendice dellacucina. L’ingresso alla casa denuncia un asse di simmetria, rispettato solo alpianterreno. L’ambiente caratteristico è la “sala”, vasta, centrale, acciottolatanel mezzo, comunicante col cortile per mezzo d’un piccolo vano, detto picca.Da una parte è la stanza per ricevere e la cucina, dall’altra due camere o duealcove. Le costruzioni son anche qui in mattoni crudi, a solo pianterreno oparzialmente sopraelevate in corrispondenza d’una delle ali che fiancheggianola sala. Il gioco volumetrico, frequente, caratterizza la strada. I prospetti sonosemplici, ma ben proporzionati e le piccole aperture sono contornate da mostrein arenaria del Sinis, finemente chiaroscurate e decorate.

Una singolare appendice di Cabras è costituita dall’agglomerato attornoalla chiesa ipogeica di San Salvatore, formato da casupole che vengono abi-tate nei periodi dei lavori agricoli. Le casette, articolate in profondità, sonodotate anche di cortiletto. E un villaggio temporaneo fra i più estesi, di originereligiosa (le cumbessIas o muristenes sono tipiche dell’Isola): lo ricordiamoperchè è dei più antichi, ma l’usanza di soggiornare durante i lavori agricoli incampagna è estesa a diverse località dell’Isola, dotate di piccole case di cam-

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pagna, che servono anche per un soggiorno estivo–autunnale: come avvienenell’agro sassarese, nel Bosano e nelle isole di San Pietro e di Sant’Antioco.

La casa in profondità del Montiferro non presenta spiccate qualità

architettoniche, all’infuori della caratteristica planimetria degli ambienti dis-tribuiti in un lotto stretto e profondo, con cortile retrostante senza comuni-cazione diretta con la strada: attraverso l’ingresso e la vasta cucina, su unaguida di pietre, passavano il cavallo e l’asino che stabulavano nel cortile. Lepecore stanno negli ovili (incomincia a far capolino qui la  pinnetta del pas-tore) ed i buoi si tengono in recinti periferici all’abitato. Il pergolato d’uva èun elemento comune a molte località dell’Isola, sia esso su strada o dalleparte del cortile. E esterno, frequentissimo, nei villaggi del Montiferro e dellaPlanárgia ed ombreggia, in prossimità del portaletto d’ingresso, i montatoi,

che servono anche per la siesta.Dopo la casa campidanese, per carattere e per la vastità dell’area in cui

si è sviluppata, segue in ordine d’interesse la casa montanara sviluppata inaltezza, dotata di ampi loggiati lignei. L’ascendenza di queste strutture è daascrivere ai secoli XIV–XV; l’uso dei ballatoi fu introdotto nell’Isola nellecittà di Cagliari e Sassari, dai Pisani.

I villaggi montanari hanno un’economia essenzialmente pastorale e, acausa del nomadismo dei pastori, per buona parte dell’anno sono popolati dadonne, vecchi e bambini. Il villaggio è formato da strade anguste e tortuose

in pendenza, andato addensandosi per la saldatura di originari piccoli nucleistaccati, detti “rioni”. La casa si proietta sulla strada, in cerca di sole e di luce;attraverso le aperture e gli ampi ballatoi filtra la vita della comunità pastorale.Il fenomeno della transumanza, attestato sin dal Quattrocento da documenti,determinò una specie di matriarcato, una comunità composta prevalente-mente da donne, che trovano nella strada e nelle logge, più che nella casachiusa, compagnia reciproca, aiuto e difesa.

La presenza della balconata non esclude tuttavia il cortile, pur minimo,per la catasta della legna, la stalla, gli alveari. A pianterreno era un portico,detto Iósgia, per il riparo delle capre e dei buoi, elemento che si è trasforma-to successivamente in un ambiente chiuso; adiacente sta il fándagu, ambienteadibito a magazzino, stalla per il maiale, ecc. Mentre nelle zone collinari, lascala è esterna e conferisce sapore alla dimora, in montagna è interna. Alpiano superiore le camere si aprono nei ballatoi: stanze sono adibite alla con-servazione dei formaggi e dei latticini, disposti su larghe tavole; la cucina,che è spesso al piano superiore (in comunicazione con la  Iósgia mediantescale), oltre al foghile, il focolare tradizionale, ha il camino, con sedili ai lati.

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Sopra il focolare è sospeso un graticcio di legno, ad altezza d’uomo, per affu-micare il formaggio. Alle pareti sono in mostra padelle di rame, graticole,spiedi, paioli, tripodi, canestri e corbe di giunco e di asfodelo, recipienti ed

oggetti di sughero e di cuoio, bisacce e fucili.In alcuni villaggi, come ad esempio ad Aritzo, il forno aggetta sulla bal-

conata e ha la bocca nella stessa cucina, che talvolta (nel Nuorese) è enorme,poichè in essa si riceve, si pranza e vi dormono i servi. Però è diffusa anchela sala, ove campeggia un grande canterano con in alto lo specchio, e moltesedie attorno. Le case dei nobili e dei maggiorenti hanno portoncino ad arco,logge in muratura, finestra a mezzaluna.

Che i ballatoi lignei abbiano avuto origine colta, cittadina, è comprova-to dal modulo dei montanti, dalla finezza d’intaglio e di tornio della colon-

nine. Come la loggia campidanese caratterizza architettonicamente la dimo-ra, così le balconate lignee, ad uno o più piani, caratterizzano la casa monta-nara. Le ombre violente sulla massiccia zona basamentale e i chiaroscuridelle logge modulano le facciate disposte a quinte e, pertanto, il villaggio sipresenta gaio e vario. Note di colore costituiscono le mostre vivaci dipinteattorno alle aperture (bianco, celestino) ed i vasi di fiori sui ballatoi. I balla-toi sono quasi scomparsi in questi ultimi anni.

Ai tipi fondamentali esaminati convergono sottotipi e s’intrecciano sche-mi e modi con una varietà che veramente sorprende: ogni subregione storico-

geografica si può dire che abbia adottato un particolare tipo di dimora.Accenniamo brevemente alle soluzioni più salienti. La casa ogliastrina, diderivazione montanara, è sviluppata in altezza, improntata a grande semplic-ità, perchè priva di sporti e di balconate.

Nel Nuorese e nelle Baronie, in aree circoscritte, rimangono ancoraesemplari di corti collettive. I quartieri bassi della vecchia Sassari, che eranoabitati da contadini, erano strutturati in corti o campi all’uso toscano: nell’in-tricata maglia urbanistica, si leggono ancor oggi quegli spazi comuni. NellaPlanárgia, la tettatura delle case si distingue da tutte le altre zone dell’inter-no: i tetti affiancati costituiscono un’eccezione per le case rustiche, qui evi-dentemente influenzate dal linguaggio marinaro della vicina Bosa.

La forma del palattu, di origine cittadina, tipica del Meilogu e delSassarese, si incontra un pò in tutta l’Isola, perchè nei secoli a noi vicini si èandata generalizzando: è la casa del contadino abbiente, che vuole abbinarele comodità “cittadine” con le necessità della casa del contado; essa è sempredotata di corte retrostante piuttosto vasta. Consta di due ambienti a pianter-reno e di due ambienti al piano superiore, con scala laterale interna, ma è

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molto frequente anche la composizione simmetrica, con scala centrale nel-l’ingresso, e due ambienti per lato in entrambi i piani. Da modello han servi-to le case dei nobili e, salvo per il vasto ambiente d’ingresso, ove si svolge

spesso la scala a tenaglia, per la decorazione attorno alle aperture e la presen-za di qualche balcone, non presenta qualità architettoniche di rilievo. Diqueste case esistono nel settentrione dell’Isola esemplari del XVIII secolo, epertanto, l’introduzione non è così recente come potrebbe sembrare. La stra-da principale dei villaggi, nell’Ottocento, si andò contornando di case a duepiani, anche nel Campidano, ove per l’attrazione esercitata dall’edilizia dellacittà di Cagliari, si sostituiscono ai lati dello “stradone” i recinti chiusi.

Come si è accennato, nella valle del Tirso convergono i vari tipi e trovi-amo un’elaborazione più raffinata nei loggiati (a filo strada) e attorno alle

aperture, dovuta alla presenza di buoni lapicidi, che si trasmettevano ilmestiere da padre in figlio. Il più felice incontro fra la casa di pianura e quel-la di montagna avviene in Samugheo, ove troviamo aggraziati portali cheimmettono nelle corti antistanti, e la dimora, interna, distribuita su due piani,si arricchisce di balconi e di gentili loggette in muratura, dai quali lo sguardoraggiunge la strada.

Col muratore collaborano sempre il falegname e il fabbro. Si conservanoancora graziosi portaletti e finestre; dappertutto, ogni villaggio vanta tipi par-ticolari di maniglie, di picchiotti, di serrature, di reggipertiche, recanti sim-

boli religiosi e magici: assieme alla croce compaiono il cuore e l’uccello, bat-tuti sempre con tecnica eccellente.

Abbiamo accennato ai centri temporanei attorno ai celebri santuari, dovesi svolgeva più intensamente per pochi giorni all’anno la vita comunitaria,quando la popolazione del villaggio si recava alle sagre. Accanto allo svilup-po dello casa rustica occorre considerare anche molte chiese sorte, architet-ture senza architetti, in tutto il territorio isolano, dovute all’estro di campi-mastri. Case e chiese costituiscono gli unici temi architettonici sviluppatinell’Isola, si può dire, fino ai nostri giorni: sia in forma colta che rustica.Oltre certi oratori nei centri abitati, che più o meno mutuano schemi e motividalle chiese maggiori, interessano le piccole chiese sparse nelle campagne.Senza un preciso disegno, esse sono nate per virtù di ricordi, di interpre-tazioni a distanza e, molte volte, con purità di stile.

Le forme icnografiche sono assai semplici: lo schema più frequente èquello a una sola navata, dotata o no di abside quadrata o raramente semicir-

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colare. La copertura è in genere risolta a tetto, con travatura a vista e tegolea coppo; più comunemente, gli arcarecci poggiano su diaframmi arcuati, altrevolte su capriate. Nei rifacimenti e nelle costruzioni sei-settecentesche, è più

usata la volta, a botte o a crociera all’uso aragonese, con manto esterno incocciopisto; i coppi, quando vi sono, ricalcano la curva estradossale. La voltaè denunciata a distanza da contrafforti massicci, dai più svariati profili. Lazona presbiteriale è, a seconda dei casi, più alta o più bassa della navata: l’ar-chitettura talvolta è costituita dal, gioco di questi semplici volumi. Non è rarala cupola ethisferica o a padiglione, di fogge singolari, col manto di coppi.

Nei santuari e nelle chiesette presso cui si svolgono le sagre, specie inquelle delle solatie pianure, è presente un portichetto anteriore. Il loggiatopuò essere ricavato su un lato o sui due fianchi, o anche tutt’attorno. I pilas-

tri che sorreggono le travi di legno e i piedritti degli archi sono quasi sempremassicci, ma disposti con bei ritmi.

Il fascino esteriore deriva loro in primo luogo dall’aderenza al paesag-gio; la limpidezza del cielo e l’incidenza dei raggi solari accentuano la bellez-za agreste, che è data soprattutto dalla essenzialità delle strutture, dalla purez-za dei volumi e dei particolari, delle decorazioni ingenue. Le loro formeacerbe hanno un sapore arcaico e allo stesso tempo moderno.

Sia all’interno che all’esterno, i muri sono spesso irrorati di latte di calce.Durante i giorni di sagra, si appendevano alle pareti, in bell’ordine, gli sten-

dardi, che i cavalieri recavano in processione dai villaggi. \1î si intreccianoancora festoni di mirto e si cospargono di menta e d’altre erbe aromatiche.

Caratteristiche erano le croci nelle piazzette dei villaggi (speciedell’Oristanese) e nei sagrati delle chiese.

Quel contrasto di rude e di gentile che si avverte in ogni dimora sarda, siritrova, con accenti più spiccati, in queste chiese rustiche: quanto di megliol’anima pura dei maestri campagnoli ha saputo esprimere, utilizzando pochisuggerimenti di provenienza colta.

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1. Assémini, portale d’ingresso a un cortile

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2. Assémini, cortile fiorito

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3. Assémini, cavallucci di terracotta sul crinale d’un tetto

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4. Villasor, pozzo davanti a un loggiato

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5. Villasor, cortile fiorito

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6. samassi, casa con loggiato

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7. Samassi, interno di una “lolla”

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8. Abbasanta, antica casa con loggiato su strada

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9. Ingresso a una casa montanara

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10. Serramanna, chiesa campestre

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IL LEGNO E L’INTAGLIO

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Un cofanetto in bronzo di età nuragica, rinvenuto presso il nuragheLunghenia di Oschiri ed ora al Museo Archeologico di Cagliari, dotato dimanico e poggiante in modo curioso su due coppie di ruote, riveste partico-lare interesse, perchè quasi certamente riproduce, in piccola scala, l’arca di

legno tradizionale. Da questo bronzetto si può dedurre, appunto, che il pro-totipo di essa risale all’età nuragica. Apribile dall’alto, le quattro facce delcofanetto sono scompartite da risalti orizzontali, che ricordano la strutturalignea della cassa. L’elaborato ed elegante oggetto, d’altra parte, attesta ilgrado raggiunto dall’artigianato, per cui non ci dobbiamo meravigliare affat-to che in quei lontani tempi fosse stato già creato il mobile domestico anco-ra ricercato. Sono stati fatti accostamenti con lo stile bizantino provinciale edin particolare col sarcofago di Teodosia a Pavia (C. Albizzati). Già nel sec.XV si distingueva la cassa. sardesca dalle altre; in documenti si parla di cassa

 piana, cioè liscia, il che implica che ce ne fossero intagliate. Questa sua anti-chità è convalidata inoltre dal fatto che tutti i Sardi l’amano più d’ogni altromobile di un amore che si potrebbe definire di natura atavica. In ogni casa,infatti, c’era e c’è ancora almeno un esemplare di cassa nuziale o di piccolacassa da viaggio.

Data la grande richiesta, col tempo si giunse ad una sorta di industrializ-zazione delle fasce decorative: i mercanti che percorrevano coi loro nervosicavallini tutta l’Isola, vendevano a palmi, della lunghezza richiesta, le strisce dicastagno intagliato dagli artigiani di montagna, strisce che ripetevano motivi

geometrici, e che i falegnami applicavano poi ai paliotti dei cassoni. Il motivodecorativo, senza principio e senza fine, in opera non risultava mai ben inseri-to, sia in senso orizzontale che in senso verticale: gli attacchi ortogonali dellestrisce che girano attorno al campo centrale risultano infatti quasi sempreimperfetti. Ed anche ciò contribuisce a conferire carattere arcaico alla cassa.

L’arca, sempre apribile dall’alto, sollevata dal suolo a mezzo d’una cop-pia di supporti, col paliotto decorato e le altre facce lisce, serviva per riporviun pò di tutto: biancheria, indumenti, coperte ed anche oggetti preziosi.

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Costruita quasi sempre con legno di castagno (Santulussùrgiu, Aritzo,Désulo, ecc.) oppure in noce ed anche in rovere, era il mobile tipico della casaed anche da viaggio (quando si andava alla sagra). Racchiudeva tutta la ric-

chezza della famiglia, pronta anche per spostamenti. Alta, di tipo barbaricinoo piuttosto bassa e lunga, del tipo di Santulussùrgiu, le due forme peròcoesistono nelle stesse aree. Il legno era tenuto al naturale o veniva dipinto inrosso col sangue d’agnello, salvo il campo centrale, dipinto in color verdolinoo turchino con succhi vegetali. Con lo stare molto tempo in cucina, nella“stanza del fumo”, essa si anneriva. Nacque così, in tempi moderni, l’uso didipingerla di nero. Sobria, essenziale, è la ferramenta impiegata. In origine, ilpaliotto doveva essere certamente liscio, come le altre facce, poi venne den-samente decorato da intagli, incavi verticali e semicerchi includenti palmette,

anche su due file, ad elementi sfalsati. Nel campo centrale sono incisi sim-boli, in genere il sole, contornato da clessidre, uccelli e motivi floreali.

Quando è intesamente decorata la fascia attorno ai bordi, lo specchio cen-trale è tenuto liscio o viene diviso in due campi. Nel tipo cosidetto diSantulussùrgiu, gli appoggi sono a foggia di zampa di leone, le modanature dibase sono grosse e alle due estremità sono mensole di forte rilievo e intaglio.

Di dimensioni diverse, i cassoni possono essere alti e stretti, adattisoprattutto per contenere indumenti, o di forma bassa e allungata. Piccolecasse sono decorate con lievi tocchi d’intaglio.

Il cassone nuziale è l’unico mobile che abbia avuto diffusione in tuttal’area isolana e, come si è detto, è ancora ricercato sia di nuova fattura checome pezzo di antiquariato. Può ingannare il modo con cui è fatto l’intaglio,nel senso che il cassone ritenuto più antico, invece non lo sia: l’artefice hacontinuato con modi medievali, anche quando dall’esterno provenivano soffidi cultura rinascimentale e barocca.

Nell’Isola non ci sono state scuole e per il fatto di essere stati gli artefici iso-lati, lontani dai grandi centri di produzione, i modi decorativi sono rimasti bizan-tineggianti, della tipica scultura a nastro, e il trattamento a punta di coltello, del-l’arabesco. I monaci, che pur stavano in numerosi monasteri, non dovettero darealcun contributo, occupati com’erano in altre attività, soprattutto nell’agricoltura.I Sardi non videro mai le realizzazioni rinascimentali e barocche sia dell’architet-tura che della ebanisteria e le sculture conosciute erano solo quelle minuscole deicapitelli e delle decorazioni nelle chiese romaniche. Sono sempre spartiti e deco-razioni elementari, ingenue, che accentuano il carattere di arcaicità. Nè seguironoi suggerimenti gotici che invece si leggono nella ebanisteria delle altre regioni,anche perchè quello isolano è un goticoaragonese tutto particolare.

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Pur con influenze di modi esterni italiani e spagnoli, il cassone cosidettodi Santulussùrgiu mantiene nell’intaglio i caratteri regionali. Anche in questomobile, l’area barbaricina si è mantenuta incontaminata, ovverosia medievale:

per i motivi tradizionali e per i simboli, per i partiti decorativi e la forma del-l’intaglio. Anche in esemplari recenti, privi di modanature aggettanti, la deco-razione si mantiene planare, prevalentemente floreale, con simboli e uccellistilizzati. Modi settecenteschi sono talmente fusi con motivi isolani, che diffi-cilmente si avvertono. L’originalità della cassa si completa col tessuto vivaceche ricopre il coperchio: l’intagliatore e la tessitrice ricorrono agli stessi sim-boli, ma il colore denso del copricassa smorza la severità dell’arca.

Questo mobile, comune a molte culture, in Sardegna mantiene caratteredi severa originalità: è il mobile autenticamente sardo, e forse anche l’unico.

In alcuni centri (Pattada, Buddusò, ecc.) si trovano, inoltre, esemplari dicasse barocche di derivazione spagnola; recano il paliotto liscio e quattrocolonnine tornite ricoprono gli spigoli.

Altro supporto del cosidetto “tappeto” era il letto, di legno, ma le cuistrutture quasi non si vedevano, celate da coperte, trifle, merletti (tutt’attornocorreva il “giraletto”), velari. Era originale quello del Capo di Sopra, che perragioni igieniche, veniva sollevato molto da terra, tanto che talvolta era nec-

essario ricorrere alla scaletta.La maggior parte degli uomini (giovani e servitù) dormivano però su

stuoie di sala, disposti a raggera con i piedi volti al foghile, il focolare; dopoil sonno, le stuoie venivano arrotolate, per guadagnar spazio.

Nell’Ottocento si andarono sempre più diffondendo i letti di ferro, aven-ti le testate riccamente docorate con volute dipinte: a una o a due piazze, erafrequente anche quello cosidetto “francese”, a una piazza e mezza. Dalle cittàandarono diffondendosi nei centri dell’interno.

Accanto alletto, si trovava la piccola culla, intagliata.L’arredo della casa era sobrio per ogni strato sociale: si trattava di

possedere un maggior o minor numero di cassoni, diletti, di sedie, di tavoli edi canterani; di avere batterie più o meno numerose di cucina: pentole, tega-mi, graticole, taglieri, schidioni, e la stanza del fieno più o meno fornita dicestini e di corbe.

Sedie e panche svolgono quasi gli stessi motivi del cassone, ed altrettan-to dicasi dei rari esemplari di tavoli elaborati. Il tavolo, per la lavorazione delpane e per desinare, era in genere privo di decorazione d’intaglio; un tavolo

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piccolo e basso serviva per il governo della cucina e per pranzare, chiamatoin Campidano alla spagnola mesi/la. Il tavolo aveva il piano con sporgenzapronunciata; quello intagliato, di derivazione colta, aveva mensole e deco-

razioni di origine chiesastica. Lo accompagnavano sedie dallo schienale scol-pito, di color rosso lacca o blu o verde, e con dorature, di introduzione spag-nola.

La sedia che accompagna la mesi/la, che si fabbrica ancora, bassa, è dilegno bianco (una volta era di legno di fico), decorato col for del melograno,e impagliata (fattura di Assémini).

Negli altipiani centrali e nel Sassarese, si fanno ancora sgabelli assaimolleggiati e caratteristici, con tronchi di ferula disposti alternativamente perlato.

Molto diffuse erano le sedie del tipo cappuccinesco, di origine cittadina.

Altre sedie, di derivazione toscana, si trovano soprattutto nelle chiesedella Barbágia. Ma poco resta della suppellettile presbiteriale, già poveraall’origine. Nelle chiese di città, domina un eccletismo d’importazione.qualche reminiscenza classica assieme ad elementi barocchi di derivazionespagnola. Sedie e panche possono avere il fondo in legno (più frequente-mente) oppure impagliato, le spalliere formate da elementi torniti e, aifianchi, i poggia–cuscini.

Gli stalli corali attingono all’arte colta, raramente a quella popolare: sonoi prelati che danno i suggerimenti e forse disegni ad ebanisti ed intagliatori;qualche volta, assieme al monogramma di Cristo, ricompaiono i simbolitradizionali, i soliti rosoni e le solite palmette. I begli stalli corali d’improntaartigianesca che esistevano nella chiesa di San Domenico di Cagliari sonoandati distrutti durante i bombardamenti del 1943. Ne possiede ancoraqualche centro, come Désulo, Osilo, Ploaghe e qualche santuario di cam-pagna, come quello di Bonu Ighinu, presso Mara. Bellissimo è il pulpitointagliato riccamente della chiesa parrocchiale di Désulo.

L’attività degli intagliatori fu notevole ed eccellente nel Seicento e nelSettecento, a giudicare dai bellissimi altari lignei intagliati e dorati, specie delCagliaritano e del Sassarese, e dai pulpiti, anch’essi intagliati e dorati.

Gli intagliatori accudivano anche alla fattura dei portali e dei portalettidelle case e delle chiese; alle colonnine sia delle balaustrate dei presbiteri chedei ballatoi delle case.

Si ribadisce, però, che manufatti barbaricini risalenti al più alla metà del

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secolo XVIII possono apparire di fattura molto più antica, per via della con-servazione del modo di scolpire e incidere tutto medievale.

La modestia dei Sardi era un modo costante di vita, chiaramente rispec-

chiato dalla sobrietà dell’arredo domestico e chiesastico.

Tornando all’arredamento della casa, non si può tacere di accennare a un fre-quentissimo mobile pensile, importato, su parastággiu (campidanese, dalcatalano parastatge, scaffale), decorato, come i ripiani del camino e degliarmadietti a muro, – numerosi nelle case sarde – con carta colorata e ritagli-ata a disegni fantasiosi, che serve da mostra di piatti dipinti.

Funzione parimenti decorativa più che pratica ha l’immancabile spec-

chio, collocato molto in alto, inclinato (in montagna, su in alto al gran “can-terano di Aritzo”); accanto ad esso, una volta pendevano un candido lino e unpittoresco bacile.

In casa non mancavano inai alcune macchine, quasi immobili per desti-nazione: in un angolo del cortile o sul tratto di strada antistante, il carro abuoi, erede dell’antico plaustro; sotto la loggia, il monumentale torchio per lapigiatura dell’uva; la mola, azionata dal somarello nella, cucina o in un ambi-ente particolare a questa attiguo, ed infine il telaio o i telai per la tessituranella stanza che fungeva da soggiorno o sotto la loggia. Veniva trasportato tri-

onfalmente nella casa degli sposi. Il carro richiedeva l’opera di un artigianospecialista, il carpentiere: essenzialmente strutturale, senza alcuna deco-razione, solenne come un monumento.

Parimenti molto antica, risalente al mondo greco–romano, era la mola,che non mancava mai. E scomparsa definitivamente, allorchè la leggeimpose, nel 1948, di non macinare in casa.

Il telaio poteva avere le piantane e le congiunture orizzontali intagliate:le prime terminanti di solito con un simbolo, in genere l’uccello del buonaugurio. Gli intagli lo alleggerivano notevolmente.

Complementari al telaio erano i naspi, le rocche, le spole. Nella lorolavorazione l’artigiano metteva tutto il suo impegno e la sua abilità per offrirealle gentili tessitrici strumenti personali. Si trovano nelle collezioni e ancorain molte case, mille motivi di conocchie, di naspi, di fusi e di spole. Assiemea questi oggetti, si creavano portafusi pensili e supporti per spolette, portafer-ri da calza, porta–rocche.

Infine, altri manufatti di legno intagliato sono taglieri, vassoi, mestoli,forchette e cucchiai, bicchieri, reggisettaccio, graziosissimi stampi da pane in

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gran varietà, e sigilli. Recano motivi floreali e vari, come il sole, le stelle, lacroce, colombe e cavalieri.

Il pastore, nella solitudine e nelle lunghe ore di attesa, diventa un eccel-lente intagliatore: tronchi di rovere, di pero e di altre essenze vengonoaggrediti con l’affilatissimo coltello. Una materia preferita dopo il legno è ilcorno: sono nate così le tabacchiere, le fiaschette, i porta-polvere da sparo, ibicchieri, le pipe, gli uncinetti per lavori donneschi.

La decorazione del corno si scosta sensibilmente dai motivi fin ora ricor-dati degli altri manufatti; intanto appare, con notevole frequenza, la figuraumana assieme a figure di animali: molto spesso motivi di derivazione

chiesastica. Sovente sono firmati e recano la data.Bellissimi manici di coltello sono ancora fatti di corno di montone

(Pattada, Santulussùrgiu, Désulo, Dorgali, ecc.).Una ricca collezione di corni lavorati trovasi nella Sezione etnografica

del Museo Nazionale di Sassari. Naturalmente, non mancano i soliti motivifloreali, però qui sono più sciolti, meno stilizzati, meno geometrici. Frequenteil crocifisso, ben inquadrato, contornato dal sole e dalla luna.

Altre volte, la materia impiegata è l’avorio (tabacchiere), con trionfo deisanti più popolari, come San Gavino.

La decorazione è sempre densa, di carattere nastriforme; qualche volta,le raffigurazioni dei santi sono inquadrate in uno spartito architettonico. Frai doni nuziali ricorre il motivo decorativo della coppia (gli sposi). Sono fre-quenti figure di vescovi, di angeli e demoni, nonchè la Madonna dei SetteDolori, traffitta dalle spade.

Dai tempi nuragici, i Sardi si può dire che non abbiano più scolpito atutto tondo, anche se hanno sempre intagliato, graffito, inciso. Alcuni si sonodedicati a scolpire simulacri per le chiese e i lari domestici, ed in Barbagia(Nuoro, Ottana, Mamoiada), maschere carnevalesche.

I simulacri di legno di pero ritraggono con ingenuità le sembianzetradizionali dei santi. Nel Settecento è stato famoso un artista–artigiano nati-vo di Senorbì, Giovanni Antonio Lonis, che ha riempito le chiese dellaTrexenta di simulacri e di crocifissi.

Qualche pastore-artigiano sembra attingere da sogni ancestrali formefantastiche, che non trovano applicazione nella decorazione di oggetti utili, ai

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quali si dedicano invece altri (vassoi, saliere, taglieri, ecc.). Essi riallaccianoallo spirito dei creatori delle antiche maschere barbaricine, che si produconoancor oggi, in color legno naturale o dipinte di nero o, parzialmente, di rosso

e di turchino e che sembrano. ricordare una piccola scultura sotto un archet-to pensile della chiesa di San Lorenzo di Silanus, del XII secolo.

I lavori di intaglio in legno e in corno sono tuttora coltivati egregiamentedagli artigiani.

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11. Cassone nuziale, particolare

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12. Cassone nuziale, particolare

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13. Cassone nuziale

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14. Cassone nuziale, particolare

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15. Sedia impagliata

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16. Mostra di piatti

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17. sedie di Assémini

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18. Mastello in ginepro

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18. Cucchiaio e forchetta in legno

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20. Tagliere intagliato

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21. Maschera

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22. Corno intagliato

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23. Scatole in corno con coperchio

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24. Bicchiere in corno intagliato

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25. Bicchiere in corno

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26. Fiaschetta per polvere da sparo, in corno

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27. Zucca intagliata

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28. Zucca intagliata

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29. Fermacarte in steatite

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30. Fermacarte in steatite

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I METALLI

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Il fabbro ferraio non mancava, fino a tempi vicinissimi, in nessun villag-gio: sua mansione principale era quella del maniscalco, di ferrare, cioè, cav-alli, asini e buoi, tenuti stretti in monumentali, caratteristici castelli.

Alcuni centri erano e sono tuttora famosi per i morsi di bardatura di cav-

allo e per gli speroni (Abbasanta, Santulussùrgiu, Gavoi).Ma, oltre a queste fatiche, il fabbro era un collaboratore domestico diprima grandezza, alla pari del muratore e del falegname. Fabbricava catenac-ci, fantasiose copriserrature a forma di mostricciatoli, di animali, di cuore conla croce, maniglie con la placca traforata, battenti di porta a forma di animalie simboli vari.

In ogni cucina facevano mostra di sè, a guisa di trofei, numerosi schid-ioni di ogni grandezza, ben allineati, appesi a parete o disposti in caratteristi-ci portaschidioni. Dove si estrinsecava più la fantasia dell’artefice erano gli

alari per il caminetto, i girarrosti, nonchè le branchie e le lucerne, spesso dilamiera traforata col simbolo della croce. Altro allineamento era costituito daitreppiedi, di diversa grandezza. Poi, c’erano le graticole girevoli, le pinze, lepadelle per le caldarroste e piccoli oggetti, come le rotelline dentate, per laconfezione del pane e dei dolci. Dall’Ottocento, il fabbro prese a fabbricareletti, con le testate elaborate, ricche di volute.

Le due città di Cagliari e di Sassari, soprattutto la prima, sono stati i cen-tri principali del ferrobattuto. Restano ancora numerose ringhiere di balconibarocchi e di scale, arreccias, grate di finestre (Campidano), roste, cancelli,

supporti per carrucola soprastanti i pozzi. Si ricordano i preziosi ferrobattutidella chiesa di San Michele in Cagliari, la cancellata della chiesa di S.Giorgio di Suelli e una preziosa lampada a forma di cavalletta, nella stessa.Fra i migliori fabbri sassaresi del Settecento è ricordato il maestro AntonioCastiglia, che trasmise ai suoi discendenti, fino ai nostri giorni, l’arte del bat-tiferro.

Il fabbro era spesso anche armaiolo. I coltelli a serramanico richiedonoparticolare attenzione, sia per la tempera delle lame che per la preparazione

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del manico, fatto di corna di montone, dopo averlo scelto accuratamente(ricercato è il corno completamente nero, senza venature). Alcuni centri sonorimasti famosi: Pattada (si chiamano infatti, genericamente, “coltelli di

Pattada”), Santulussùrgiu, Dorgali, Désulo, Gùspini), dove si fabbricanoanche lucenti forbici d’acciaio per la tosatura delle pecore.

Nei coltelli a serramanico, il manico può essere liscio o lavorato minuta-mente.

Ogni casa, nell’Isola, vantava e andava gelosa delle armi da caccia, lavo-rate con finissimo gusto decorativo. Il calcio, se rivestito in avorio, venivascolpito; se invece era ricoperto di lama di acciaio o d’argento, veniva cesel-lato. Preziosi erano i complicati meccanismi.

Fra fucili, sciabole, pugnali, coltelli e relativo armamentario, che costi-

tuiscono numerose collezioni private, è difficile poter stabilire quali siano digenuina importanza regionale. Sono conservati antichi archibugi dei calciarabescati con una decorazione densa (intagli in legno, ottone e argento),minuta. Se non originali essi stessi, sono certamente copie di modelli africanio moreschi, introdotti durante la dominazione spagnola.

Le armi sarde erano caratterizzate dalla leggerezza. Gli archibugieririchiedevano le parti grezze dalle fabbriche continentali della Val Trompia, lemontavano e le incidevano.

Centri rinomati di produzione di archibugi erano Tempio e Dorgali; il

primo anche di armi bianche.

Accanto agli oggetti in ferro battuto, nella cucina della casa tradizionalec’era la mostra del rame sbalzato. Incontrastati maestri specialisti nella lavo-razione del rame erano e sono ancora i calderai di Isili, per tradizione che siperde nei secoli (e una volta, anche Gavoi). Non a caso, questi centri operosisono prossimi alla miniera di rame di Funtana Raminosa, conosciuta sin dallapiù remota antichità. Gli isilesi trasportano tuttora i loro manufatti in ogniangolo dell’Isola. La tradizione dei ramai pare ascenda a fonti zigane.

A Sassari, c’e’ ancora la via Ramai, dove anticamente avevano bottegaquesti artigiani.

I ramai di Isili fabbricano caldaie di ogni dimensione e un tipo standarddi braciere con la bordatura e la paletta di ottone, che è una lega inossidabiledi rame e di zinco. Il colore dalla tonalità calda del rame battuto, unito alleforme semplicissime, conferisce pregio a questi manufatti, ancora moltorichiesti. Ma dove i ramai eccellevano era nella costruzione di forme per la

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confezione degli sformati e dei gatò, di disegni fantasiosi, sfaccettati comecristalli.

L’arte del lattoniere, con l’avanzare del progresso, è stata fra le prime adessere sacrificata. Fino a qualche decennio addietro, in ogni paese c’eraalmeno un artigiano della latta, oggi il lattoniere è quasi scomparso, con l’im-missione nel mercato dei recipienti e altri oggetti di materie plastiche, di allu-minio e altri metalli.

Tutto il giorno la caffettiera giaceva presso il focolare, per trovarsi a por-tata di mano e poter così offrire la bevanda calda a chiunque entrasse in casa.La caffettiera poteva essere anche di terracotta, ma in genere, le caffettiere,

con o senza filtro, erano di competenza del lattoniere, d’antica data (perchè ilcaffè venne introdotto presto in Sardegna), il quale ne fabbricava di formebellissime. Altrettanto varie e sithpatiche erano le forme dei bidoni, deglioleatori, degli innaffiatori, delle padelle, dei tegami, delle lucerne e dellelanterne ad olio che venivano appese sotto ai carri. L’artefice rendeva il suolavoro sempre più vario, apportando agli oggetti continue varianti, soprattut-to agli oggetti più piccoli.

FIGURE 31–36 

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31. Cavallino poggia spiedo, graticola, spiedo, muflone

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32. Bue in ferro

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33. Muflone in ferro

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34. Capra in ferro

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35. Cavallino in ferro

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36. Isili, rami

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LA CESTINERIA

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Visitando il Museo del Cairo o rovistando fra collezioni di reperti delleciviltà precolombiane, sorprende il constatare che le forme di antichissimicestini sono identiche, anche per dimensioni, a quelle che si confezionanoancora a Ollolai, in Barbágia, e a San Vero Milis, nel Campidano Maggiore.

Allorchè il norvegese Thor Heyerdahl studiava le antiche imbarcazionidi vimini per tentare l’attraversamento dell’Atlantico (avvenuto nel 1970), sirecò allo stagno di Cabras, nell’Oristanese, per osservare isfassonis, le imbar-cazioni fatte di piante palustri, che si spingono con una pertica, simili a quelleche solcavano le acque del Nilo, nell’antico Egitto, ancora usate dai pescatoridello “stagno”.

Sia che trattasi di scambi avvenuti nella più remota antichità, nel bacinodel Mediterraneo e attraverso l’Atlantico, o dovute a fenomeni di convergen-za, le forme della cestineria tradizionale isolana ripetono quelle di antichissi-

mi modelli. Un bronzetto nuragico, rinvenuto nel territorio di Villasor e oraal Museo Archeologico di Cagliari, raffigura chiaramente una donna che recasul capo una cesta, sintetizzata da un cordone svolto a spirale, svasata. Altribronzetti riproducono forme di corbe e di pissidi, ispirati all’artigianato vimi-neo; la decorazione dei vasi è infatti a cordoni concentrici sovrapposti, sim-ulanti cioè la tessitura del giunco e dell’asfodelo; uno in modo particolare hauna forma interessante di cestino, munito anche di coperchio.

Non vale la pena di indagare a lungo se sia nato prima il cestino di vimi-ni o il vaso di argilla. Certo, si è portati a credere che sia nato prima il cesti-

no, visto che la sua confezione risulta più semplice di quella del vaso, e che laspirale è uno dei motivi che ha colpito per primo l’uomo. Il fatto che non sianogiunti fino a noi frammenti di cestini appartenenti ad antiche culture, mentre imusei di tutto il mondo sono colmi di cocci, non implica affatto attribuire lapriorità all’attività figulina; se mai, riscontriamo impressi nell’argilla dei vasimotivi propri della cestineria, la spirale appunto, poichè il vaso veniva sago-mato su un canestro di vimini, come un rudimentale tornio (altre volte venivaadoperato un pannello di canna tessuta, come si usa fare ancor oggi).

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Canestri e vasi, nelle loro molteplici forme per i diversi usi domestici,man mano che crescevano le esigenze – pratiche ed estetiche – hanno costi-tuito assieme il primo arredo domestico.

Non si può fare una distinzione fra forme semplicemente funzionali eforme decorate, rispondendo esse sempre in primo luogo all’uso pratico, macontemporaneamente pensando alla loro grazia: sono forme perfezionate neltempo, lentamente, e poi cristallizzatesi. Se ancor oggi ci piacciono i cestinidi Ollolai, privi assolutamente di decorazione, è che rispondono al nostrogusto di perfezione essenziale; la modernità, cioè, è da intendersi un’as-trazione fuori del tempo, è quasi sinonimo di universalità.

Se nei musei sardi troviamo forme assai varie di manufatti ceramici, cono senza decorazione, possiamo immaginare che altrettanto sia accaduto per la

cestineria. Le forme elaborate della ceramica inducono a pensare che sindalla più remota antichità anche la cestineria fosse dotata d’un particolarerepertorio decorativo.

Quali sono state, dunque, le esigenze e quali le forme che esse hannodeterminato e che sono giunte fino a noi? In primo luogo, i recipienti per dif-ferenti contenuti, servivano per il grano e le sue trasformazioni, la farina, lapasta, il pane. Dalla Ióscia od órriu, il grande recipiente cilindrico per la con-

servazione del grano (e di cereali in genere), si passa al piccolo canestro, piat-to (pobIna, camp.) per purgano, al canestro più ampio e al crivello pervagliare la farina e al canestro ancor più grande per le forme di pane,anch’esse più o meno elaborate. Poi, cestini per la frutta, fresca e secca, e perla biancheria, per il ricamo.

Le forme sono in funzione anche della materia, sempre umile, a dispo-sizione. Riscontriamo forme simili in centri di area diversa che impiegano lostesso materiale. Forme più propriamente regionali sono quelle del centrodell’Isola: l’asfodelo è impiegato, infatti, a Ollolai e Olzai (Barbagia diOllolai) e a Montresta, FlussIo e Tinnura (Planàrgia), mentre il giunco e lapaglia di grano sono impiegati a San Vero Milis (Campidano Maggiore) e aSinnai (Campidano di Cagliari), e la palma nana è impiegata a Castelsardo eTergu (Ampurias), a Sorso e Sénnori (Romangia).

I cestini di vimini (in genere, salice od olivastro) e canna spaccata sonoinvece comuni a moltissimi centri dell’Isola e le forme non si scostano moltol’una dall’altra. Questi, a differenza degli altri cestini confezionati da donneper essere usati da donne, vengono di norma confezionati da uomini, conta-

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dini o pastori e adoperati, appunto, per usi agricoli e pastorali. Fra le materie,l’asfodelo richiede fatiche maggiori; il taglio a strisce si effettua a giugno; lequali strisce si stendono ad essicare al sole, in strada, nello spazio fron-

teggiante le case (quasi tutte le case di Tinnura e di Flussio). Dopo dissecate,vengono selezionate a seconda della tonalità, che varia dal giallo al bruno,pronte per essere intrecciate secondo la spirale delle forme ed il repertoriodecorativo.

Anche la palma nana (Chamaerops humilis) viene tagliata ed essicata. Ilgiunco e la paglia richiedono anch’essi l’essicazione, ma sono d’impiego piùimmediato. Le manifatture di San Vero Milis includono anche i crivelli per lafarina, raffinatissimi. Per coprire l’occhiello della spirale dei cestini sidispone un dischetto di stoffa sgargiante o di broccato (San Vero Milis e

Sinnai).Per la decorazione, si usano strisce di tonalità diversa: di tonalità bruna

nei cestini di asfodelo; nera o colorata in quelli di San Vero Mills e diCaste!sardo, mentre a Sinnai si impiega largamente il cotone di color rosso equalche volta anche nero. In quest’ultimo centro esistono case arredateall’antica, con la “stanza del fieno” originaria, zeppa di corbe e canestri. Parteessenziale dell’arredo muliebre era l’arredo della “stanza del fieno”: spessocorbe e canestri avevano prima percorso, portati sul capo da fanciulle in cos-tume, le vie del paese, colmi di doni nuziali. Di queste ceste, tonde e piatte,

molte non venivano mai adoperate; contribuivano solo alla disposizione rit-mica nella “stanza del fieno” o nella cucina. Esse conferivano colore e caloreall’ambiente, il più caratteristico della casa tradizionale.

La decorazione è ottenuta con elementi che contrastano con la tonalitàgiallognola della paglia o della palma nana, elementi ottenuti non con tintenaturali. Forse, questo modo di decorare non risale a tempi molto antichi edè stato mutuato da altre aree d’oltremare: come anche l’impiego del disco distoffa sgargiante nel fondo e dei fiocchetti distribuiti con civetteria nel labbroterminale del manufatto.

Il repertorio decorativo è costituito da motivi geometrici stellari intrec-ciati, da stilizzazioni floreali e faunistici (l’uccello, il capriolo, il cervetto, ilgatto).

Nel primo quarto del presente secolo, un artista francese fece introdurrealtri motivi nei cestini di Castelsardo, neri e colorati, che accompagnano ilmotivo tradizionale del mostro alato, di tonalità bruna.

La cestineria di asfodelo, che basava la decorazione sul motivo dei “ramidi pero”, nel Settecento introdusse il fregio a greca, un suggerimento certa-

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mente della popolazione immigrata a Montresta a metà del secolo, prove-niente dalla regione di Mayna, la più meridionale del Peloponneso. Si prestabene, il motivo, per i piccoli manufatti a forma di ciottole e di cofanetti.

In Castelsardo sono dette  póntine grandi ceste con coperchio, di formacilindrica o panciute come giare, che servivano per la conservazione dei fic-chi secchi ed anche della biancheria. Era bellissimo, fino a non molti anniaddietro, vedere, sulle soglie o disposte sulle rampe gradonate nell’anticonucleo di Castelsado, le donne di tutte le età, intente a intrecciare i cestini,ormai conosciuti in tutto il mondo.

Purtroppo, la grande domanda e la scomparsa dalla campagna castel-lanese della palma nana, han portato ad imbastardire il prodotto, giacchè allapalma dalla tonalità calda e vibrante è stata sostituita la sorda refe e, recente-

mente, anche i fili di plastica colorata. Qualche donna anziana lavora ancorasecondo i modi tradizionali nella vicina Tergu, dove la palma nana non è deltutto scomparsa.

La refe si adopera anche in altre località, come Montresta ed Ittiri. Inquest’ultimo centro, oltre a piccoli cestini d’uso corrente, è stato fatto ancheun ottimo tentativo di confezionare cofanetti e scatole, che ha avuto succes-so qualche lustro addietro. Nei cestini di Sinnai prevalgono i motivi geo-metrici e floreali ottenuti – come si è detto – con il cotone in rilievo. Si usanomolto i cofanetti da lavoro, decorati in rosso, oppure in nero, quando la pro-

prietaria è in lutto.Negli ultimi anni, gli artisti hanno introdotto nuovi modelli, che

riscuotono successo, perchè dilatano le applicazioni pratiche alle esigenzemoderne (portariviste, porta–gomitoli, ecc.).

Anche a San Vero Milis, le artigiane lamentano che il nuovo sistema dimietere con le mototrebbie non consente più l’utilizzo dei lunghi steli e dellapaglia lunga di grano: incentivo, questo, a un inquinamento della produzione,con l’impiego più facile della refe e dei fili di plastica. Oltre alla forma (cheviene comunque rispettata), le materie tradizionali presentano migliori qual-ità tattiche e visive, che contribuiscono ad arricchire e a dare sapore al man-ufatto.

Alle tecniche e allo spirito dei cestini, si riallacciano quei modi di rive-stire, finemente, i recipienti di vetro, come si fa ancora a San Vero Milis.

I cestini di salice e canna, più generalizzati, presentano varianti interes-santi in località diverse: la valle del Tirso (ZerfalIu, Zuri, Baroneddu), il

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Bosano, il Sassarese, la bassa Gallura. Il modo di scegliere i rami di vimini edi tagliare le strisce di canna influisce sul risultato. Cestini di differentegrandezza, piccoli per la merenda dei ragazzi e per la raccolta delle uova,

medii per contenere i panni e la frutta, con o senza manico, fino alle grosseceste per deporre i cereali, la lana e la profenda degli animali domestici.

I cestini normali, col manico, sono prodotti dappertutto, ma la formavaria nel rapporto cesto–manico, nella sagoma del cesto, cilindrico o tronco-conico o panciuto, ed anche nel rapporto tra salice e canna. Di salice normal-mente, si fa il fondo, il labbro terminale e il manico, ma viene anche interrot-ta la superficie verticale di canna con fasce più o meno ampie di salice. Quellipiù antichi, pressochè in tutta l’area isolana, avevano la sagoma dell’ogiva. ASassari si fanno ottime ceste di forma rettangolare, per frutta, biancheria, ecc.

Si confezionano anche cestini per bambini, ed altri in scala da bom-boniera, tagliando fette sottilissime di canna e intrecciandole con grandepazienza e gusto.

A San Vero Milis si confezionano bellissime misure cilindriche fatte disolo giunco, strettamenti funzionali, di ottimi rapporti.

FIGURE 37–56 

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37. Castelsardo, cesto in rafia

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38. Castelsardo, cesto in rafia

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39. Flussio, corbula in asfodelo

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40. Flussio, canestro in asfodelo

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41. Flussio, cesto in asfodelo

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42. Montresta, cesto in asfodelo

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43. Montresta, cestone con coperchio

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44. Sinnai, canestro in giunco

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45. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

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46. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

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47. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

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48. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

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49. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

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50. Sinnai, canestro in giunco

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51. Ollolai, cestino in asfodelo

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52. Ollolai, cesto con coperchio in asfodelo

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53. S. Vero Milis, fuscella in “zinniga”

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54. S. Vero Milis, vetri impagliati

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55. Tinnura, cesto in asfodelo

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56. Urzulei, cesto in asfodelo

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LA CERAMICA

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Abbiamo ricordato che è difficile poter stabilire se è nato prima il cestodi vimini o il vaso di terracotta e che, comunque, entrambi risalgono alla piùremota antichità.

Le forme ceramiche tramandate non sono molte, considerando la varietà,

veramente sorprendente, che ci offrono le colture nuragica e prenuragiche,come è facile riscontrare osservando i reperti conservati nei musei archeologi-ci di Cagliari e di Sassari. La produzione è andata via via restringendosi ai mod-elli essenziali d’uso ancora corrente, tliventando un’industria vera e propria.

Le forme pervenute non sono originarie delle culture della Sardegna pre-romana; alcuni modelli risalgono ai tempi della Magna Grecia e di Roma. Si sonofatti convincenti raffronti tra le elaborate brocche oristanesi e quelli di Canosa,che si trovano al Louvre: è facile pensare a scambi, essendo Oristano l’eredediretta di Tharros, la fiorente città costiera che aveva un porto molto attivo.

Mentre nelle regioni del continente italiano quest’arte, al pari delle altre,nel Medioevo decadeva, in Sardegna si conservò integra. I centri attuali diTeulada e Florinas ricorderebbero nel toponimo romano, Tegula e Figulinas,antichi centri della terracotta. E accertato che si lavorava la terracotta nellacittà di Turns. Ad Olbia era un’attiva officina ceramica che possedeva la lib-erta Acte, la celebre concubina di Nerone. Ma, forse, sia a Tegula che adOlbia si fabbricavano solo manufatti impiegati in edilizia. Oltre al nome,Figulinas –che fa pensare alla specifica attività artigianale dei terracottai – siricorda che a Bánari, un piccolo paese vicinissimo a Florinas, fino a non molti

anni addietro si fabbricavano fornelli di terracotta.Non si hanno notizie di botteghe o scuole d’arte ceramica in tempi lon-

tani, nè di immigrazione di artisti continentali. Nel periodo romanico è stataaccertata la presenza di maestranze arabe fra quelle che innalzarono le chiese,ma le scodelle maiolicate impiegate nella decorazione delle facciate eranoimportate.

Del 1692 è uno statuto della corporazione oristanese degli alforeros, ifabbricanti di brocche: era fatto divieto agli appartenenti alla confraternita di

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fabbricare manufatti di terracotta che non fossero brocche, pentole e mastel-li. Da testimonianze del secolo scorso, si sa che solo un figulo godeva delprivilegio esclusivo di poter fabbricare mattonelle e tubi di terracotta.

A Cagliari, nei primi anni del Settecento, era fiorente un’officina ceram-ica: da essa uscirono le graziose mattonelle raffiguranti l’aquila bicipite, chedecorano il presbiterio della chiesa di San Lucifero.

Ma, le numerose formelle figurate impiegate nella pavimentazione e perrivestimento delle scale della città, soprattutto di Cagliari e di Alghero, neisecoli XVIII e XIX, erano produzioni d’importazione.

Si continuò, però, nella tradizione dei figuli, fino ai nostri giorni, nei cen-tri di Oristano, Pabillonis, Decimomannu, Assémini, Villaputzu, Dorgáli eSiniscola, quasi tutti ancora vivi. Il centro principale è Oristano, che gode

d’un antico prestigio: nel secolo scorso era senz’altro l’industria cittadinaprincipale, esercitata dai cosidetti con giolargius (stovigliai), che occupavanoun quartiere dei borghi, e lavoravano la creta con metodi primordiali (ruotafigulina), riproducendo forme greche e romane, in virtù dello statuto dellaconfraternita sopra ricordato.

I manufatti constano di recipienti per acqua, vino od olio: orci con o senzacoperchio, brocche e brocchette, a forma di anfora, di gallinella e di anello,fiaschette, barilotti, boccali, bicchieri; stoviglie: piatti, tegami, pentole,cassemole, mastelli, mestoli, caffettiere; orci caratteristici per olive sott’olio e

pomodori secchi; conche di varie dimensioni; recipienti per acquavite; con-tenitori scalda–grembo e scalda–letto a forma di frate e di suora, sempre incoppia, con un foro nella testa attraverso cui si versava l’acqua calda; scaldi-ni e fornelli; cavallucci decorativi da disporre sul crinale dei tetti; doccioni aforma di leone, tubi pluviali, tazze speciali (tuvus), per le none degli orti.

Una distinzione fra centro e cento, si ha soprattutto nei manufatti deco-rati: le brocchette basse, a forma di gallinelle, sono tipiche fatture di Dorgalie di Villaputzu; le piccole anfore decorate da fiorellini sono tipiche diAssémini, come pure i cavallini da disporre sui tetti; gli scalda–grembo esoprattutto le grandi anfore figurate sono dei figuli oristanesi; a Siniscola sifabbricano le anforette sovrapposte, aventi le anse sfalsate.

Una differenza sensibile tra centro e centro si ha per la varietà dell’argillaimpiegata e, di conseguenza, anche per la cottura, impiegando la vernice diverde ramina. Sono tutte varianti, però, di un unico modo di fare, intendendospirito e tecnica.

Al pari della varietà degli oggetti, ricchezza maggiore di forme decora-tive troviamo nella manifattura oristanese. Una reminiscenza forse romana

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costituiscono i doccioni figurati che ornavano le parti terminali delle grondedelle case baronali e dei maggiorenti ed una reminiscenza forse ancora piùantica, l’uso di decorare con cavallucci i tetti, a guisa di acroteri.

Le anfore anulari sono forse di derivazione pugliese, un pò lontane dalgusto locale. Sono invece originalissimi quei barilotti usati in campagna daicontadini campidanesi, per contenere acqua o vinello, molto pratici e diforma caratteristica.

Le grandi anfore che ricordano quelle venute alla luce negli scavi dellecittà della Magna Grecia, rielaborate dai figuli oristanesi, recano figurette diangeli e di santi con cartigli, ritmi di rosari e, nel coperchio, altri santini o lagiudicessa Eleonora d’Arborea o anche teste di gallo. L’euritmia risulta sem-pre ben pensata e distribuita. Dalle antichissime figurazioni geometriche,

astratte, graffite con rotelle dentate o con un pettinino, si è passati a modi-fiche naturalistiche, a tutto tondo, mutuando i simboli dal cristianesimo. Ledecorazioni sono improntate a ingenuità e la forma del manufatto, cherisponde a praticità, è sobria e armonica.

Oltre che per l’arredo e la suppellettile domestica, si fabbricavano statu-ine di terracotta per le chiese. Il Santuario di Sant’Antonio Abate di Orosei –per esempio – era ricco di figurine disposte, assai graziose, sul crinale deltetto (provenienti, con tutta probabilità, dalla vicina Dorgali).

Alberto della Marmora, a metà del secolo scorso, aveva spedito al diret-tore delle manifatture, di Sévres, che le aveva richieste, terraglie sarde: ciòdimostra l’interesse per queste forme tradizionali, che vennero disposte nelcelebre museo che raccoglie ceramiche di tutto il mondo. Il La Marmoraricorda inoltre nell’Itinéraire di aver concesso a un figulo oristanese il perme-sso di fabbricare ceramiche diverse da quelle usuali, in delega allo statuto deifabbricanti di brocche, “non senza pensare tuttavia che sarebbe stato difficileche le terraglie uscite dalle sue mani, potessero eguagliare in grazia ed ele-ganza, quelle che una tradizione costante o meglio l’abitudine, ha conserva-to identiche alle brocche del bel tempo di Roma”.

Il La Marmora, se da un lato contribuì a conservare in un museo di famainternazionale, le forme tradizionali, con quest’atto aministrativo diedel’avvio ufficiale alla creazione di nuove forme. Le quali, tuttavia, non furonoper la verità molte, continuandosi invece a fabbricare forme collaudate dasecoli: forme che hanno continuato a farsi fino ad oggi, mentre l’unico figu-lo privilegiato che poteva fabbricare mattonelle e tubi di terracotta fu a un

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certo punto disturbato dalla concorrenza continentale, indubbiamente piùaggiornata. “Al divieto delle innovazioni – commentava il La Marmora – sideve certamente la conservazione delle belle forme delle brocche antiche,

greche e romane, che escono ancor oggi dalle vecchie fabbriche”.La clausola statutaria deve essere stata ispirata con tutta probabilità da

ragioni di semplice concorrenza, poichè stentatamente si riesce a crederech’essa abbia influito sulla conservazione delle forme, che per altro non sidiscostano molto da quelle degli altri centri figulini, dove gli artigiani nonerano vincolati da statuti corporativi.

Se le forme si sono conservate integre fino a noi è, dunque, un fenome-no di persistenza, tipica di ogni forma artigianale dell’Isola, dovuto a model-li che per la loro essenzialità e praticità si sono dimostrati perfetti. Per man-

canza di concorrenza continentale – a causa dell’isolamento – l’arte deglistovigliai era diventata un’industria vera e propria: allineate ad essicare, lebrocche, tutte eguali, sembrano fatte a stampo.

La ruota figulina, con la sua rudimentale millenaria semplicità, incantaancor oggi come un meccanismo magico: una manciata di pasta di argilla, invirtù del tocco agile della mano e della dosata velocità impressa al tornio dalpiede scalzo, asseconda le più sbrigliate fantasie dell’artefice. La ripro-duzione in serie come questa delle stoviglie implica di contro rinuncie all’e-stro e un disciplinato controllo; richiede attenzione e perizia non comuni,

poichè i manufatti sono talmente identici uno all’altro, che sembrano, appun-to, eseguiti meccanicamente in serie. E se talvolta ci sorprende il riscontrocon forme di oggetti conservati nei musei, è solo ossequio a ciò che è con-sacrato dall’uso quotidiano. La loro purezza soddisfa il nostro gusto moder-no unitamente al culto dell’antico, che non è affatto di natura arcaica e nem-meno del tutto popolaresca, ma come abbiamo visto, colta per non direaddirittura classica.

I mori di Spagna applicarono la ceramica all’architettura; i Pisani intro-dussero forse prima in Sardegna che nel continente italiano quei “bacini”ceramici o scodelle iridescenti per decorare le chiese romaniche, provenientimolto probabilmente dal traffico mediterraneo arabo–ispano o arabo–siculo.Dall’esiguo numero di esemplari superstiti, nonchè per mancanza di fonti,non si può affermare che i Sardi abbiano appreso dai mori di Spagna e dagliSpagnoli o da altri artigiani continentali, l’arte raffinata della maiolica, che,d’altra parte, sarebbe rimasta relegata solo a questo genere decorativo. I man-

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ufatti isolani, prevalentemente brocche e orci, sono verniciati esteriormentesolo in prossimità dell’orlo del collo e all’interno di questo, e soltanto inanfore particolari la verniciatura è estesa alle altre parti. Essi conservano quel

carattere artigianesco sommario, ben lungi dalla perfezione tecnica dellescodelle maiolicate; la tonalità dello smalto è quasi sempre tipicamente gial-lo–verdognola.

Più varia si presenta la produzione oristanese, abbiamo visto, e più riccadi forme decorative. Gli altri centri figulini hanno prodotto sempre brocche emastelli. Per varietà e per tecnica, dopo Oristano, interessa Dorgali, dalle cuiofficine sono uscite graziose brocchette a foggia di galline accocolate e belleanforette con le anse a treccia. E specialmente nella decorazione (in parte ese-guita a rilievo e in parte a stecca), che scorgiamo una differenziazione.

Mentre i modelli oristanesi sono essenzialmente plastici, nella produzionedorgalese è palese l’influenza delle incisioni dei manufatti delle culture pre-romane.

Isolati o disposti a gruppi, i manufatti ceramici sardi costituiscono, uni-tamente ai cestini, l’arredo più originale della casa, ornano ancora “la stanzabuona”, la sala da ricevere.

All’infuori del ricordato statuto degli stovigliai oristanesi e di un accen-

no alle “fabbriche della Sardegna” nell’opera Les Merveilles de la céramiquedel Jacquemart, il primo studio devesi all’Arata.

Una scuola d’arte decorativa, volta soprattutto alla ceramica, istituitanegli anni Venti dal Comune di Oristano ed affidato allo scultore FrancescoCiusa, ebbe breve e travagliata esistenza. Più fortuna ebbe la Bottega d’arteceramica in Cagliari l’organizzazione creata dal ceramista Federico Melis,che aveva impiantato ad Assémini un’attiva fornace. Allontanatosi il Melis,cessò di esistere. Essa sviluppò quasi esclusivamente motivi di folklore ed iprodotti ebbero una tipica fisionomia, dovute anche alla varietà d’argille plas-tiche locali.

Nel 1949, l’Istituto statale d’arte di Sassari, per interessamento del diret-tore, pittore Filippo Figari, venne dotato di un moderno laboratorio di ceram-ica. Nel 1951, venne creato ad Oristano l’Istituto statale d’arte, volto soprat-tutto all’insegnamento della ceramica.

In virtù delle predette scuole, oggi, gli artisti che si dedicano alla ceram-ica sono diventati numerosi. La novità più saliente, rispetto a quella del pas-sato, è costituita dal fatto che l’artigiano–artista indirizza la sua attività alla

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decorazione architettonica, pur non trascurando la creazione di oggettid’arredo. Un sensibile interprete moderno è stato il dorgalese SalvatoreFancello.

Dalla terracotta in forma industrializzata, si è passati alla ceramica verae propria, come tecnica non solo, ma come espressione, che è arte necessari-amente individuale e, allo stesso tempo, squisitamente artigiana. Anche negliartisti più spregiudicati è evidente, però, il peso della tradizione, che èun’eredità di purezza di forme. E da lamentare, d’altra parte, l’invasione nelmercato di souvenirs (poichè la ceramica si presta più degli altri manufatti),la cui produzione, anche nei centri antichi figulini, s’inserisce tra la pro-duzione tradizionale e quella moderna, senza peraltro saper attingere allospirito che anima entrambe.

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57. Oristano, anfore anulari

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58. Oristano, conche

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59. Assèmini, theiera

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60. Oristano, galletto

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61. Oristano, brocchetta

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62. gorgali, gallina

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63. Oristano, boccale

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64. Assémini, oliera

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65. Sassari, donna a cavallo

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66. Cagliari, gallina e candeliere

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67. Oristano, servizio da caffè

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68. Cagliari, portafiori

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69. Sassari, anfora

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70. Sassari, rosario

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I TESSUTI E I RICAMI

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Al Museo Archeologico di Sassari è annessa una sezione etnografica, atermine dell` itinerario” che ha inizio coll’eneolitico. Il visitatore è tentato dicollegare i contrappesi di telaio, venuti alla luce nello scavo della cosidetta ziqqurath di Monte d’Accoddi, risalente all’età del rame, con il normale tela-

io ancora in uso in quasi tutta l’area isolana. Certamente, però, il telaio con icontrappesi del “luogo alto” era di tipo verticale, giacchè il telaio verticale,meno complesso, è nato prima di quello orizzontale. Il visitatore è tentato dicollegare altresì i resti di quell’antichissimo telaio con le produzioni artigia-nali che fanno nelle sale bella mostra di sè. In genere, quando si pensa allaSardegna, si pensa a questi suoi prestigiosi manufatti, detti impropriamente“tappeti”.

Senza volerci spingere tanto indietro nel tempo, la donna sarda nondovette tardare a tessere qualcosa che non riguardasse esclusivamente gli

indumenti familiari. Il cosidetto “tappeto” non era altro, all’origine, che uncopricassa o un coperta da letto. E poichè i letti, fino al secolo scorso, eranopiuttosto rari, è da pensare che il tema principale fosse la decorazione dadisporre sulla severa arca tradizionale, il cassone nuziale, che custodiva ilpiccolo tesoro domestico. Poi c’era la bisaccia, portata da tutti gli uomini,sulla spalla o a cavallo, e quei ricchi collari per la bardatura a festa dei caval-li e dei buoi. (Già qualche bronzetto nuragico raffigura il bue o il toro con ilgrande collare, forse per il suo carrattere sacrale).

Proporci di svelare le origini di questi manufatti sarebbe certamente una

fatica vana. Si possono intessere raffronti, come è già stato tentato, con ana-loghe produzioni umbre, abruzzesi e di altre regioni, nelle quali compaionoanaloghi motivi decorativi e certi accostamenti di colori, per altro senza giun-gere a nulla concludere. È difficile, perfino, il raffronto tra le produzioni dellevarie subregioni, perchè i motivi si intrecciano. Cercheremo di individuarequali sono i centri di produzione più caratterizzati, ricordando che quest’arteera un tempo non lontano diffusa in tutta l’area isolana.

Su tutti spiccano, per la fantasia compositiva e la vivacità del colore, due

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centri della Marmilla. L’esuberante produzione di Mógoro e di Morgongiorida una lezione di struttura e compostezza rinascimentali, del tempo dellegrandi ancone che inondano di luce le chiese. Se il loro denso, sfavillante cro-

matismo è di gusto che si potrebbe definire postrinascimentale, non di menole composizioni non possono dirsi di derivazione barocca, per via, appunto,del rigore geometrico e della compostezza dell’impianto.

L’Arata, che ha studiato con serietà l’arte popolare della Sardegna, hasaputo leggere bene in questi manufatti: “I tappeti di Morgongiori sono a cro-matismi bassi: il rosso bruno con sfumature di turchino si frammischia colnero e con i gialli, qualche tocco d’oro e d’argento ben distribuito fra i mean-dri, cosparge di un luccicante tremolio tutta la composizione decorativa. Glisprazzi vivissimi e di gustoso effetto si alternano con tonalità scure, come se

il colore passasse dalla gioia alla tristezza”.Nei manufatti della vicina Mógoro si avverte un crescendo di gaiezza, un

trionfo di colori che ricordano per pastosità le colline infiorite a primavera(rossi, gialli, turchini, verdi, viola) ei cortili–giardino delle dimore, giardinet-ti densi, dove si trovano accostati rose, gerani, violaciocche, dalie, zinie,garofani, gelsomini, gladioli.

I manufatti di Mógoro e di Morgongiori (e, una volta, di altri centri nonda questi distanti, come Santa Giusta e Siamanna, ma in minor misura) sonoi più ricchi di armonie cromatiche e compositive, i più festosi dell’Isola: pro-

babilmente, perchè la geometria non è così rigida come può riscontrarsi inaltre produzioni, sia di centri vicini, come Isili e Senis, o nei tipi “a fiamma”della lontana Nule. Sembra spontaneo il modo di disporre nelle evanescentiforme geometriche, coppie speculari di uccelli, di animali, di fiori stilizzati.

La tecnica “ad ago” impegna l’artigiana al telaio orizzontale uniposto,favorendo le qualità individuali. La riproduzione di antichi modelli, trasmes-si da madre in figlia, è la classica perfezione alla maniera greca, perfezionan-do insensibilmente con successivi apporti, un modello accettato per valido,dominato da ritmi semplici, come nella musica e nelle danze popolari.

Non basta affermare, come si è soliti, che l’origine dei “tappeti” sardi èorientale, anche perchè diversa è sempre stata in passato, come si è osserva-to, la destinazione: erano dei copricassa o – come questi della zona di MonteArci, in tempi più vicini a noi – delle tele da muro.

Se è vero che i modelli giunsero dalla Persia in Europa dopo il Mille,nell’Isola non si ebbero contributi successivi da parte di altri popoli come

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accadde in altre regioni italiane, per esempio in Sicilia, ove sostarono Arabi,Normanni, Svevi. A partire dal XIV secolo, in Sardegna si ebbero influenzeartistiche da una sola parte, la Spagna, che per altro non sembra aver sostan-

zialmente contribuito all’attività tessile come influì invece in altri campi, spe-cie in quello affine del formarsi di costumi. Comunque, non si ritengonodeterminanti per il risultato successivamente raggiunto, nei secoli XVIII eXIX in modo particolare. La produzione isolana si differenzia nettamentedalle altre produzioni regionali, sia italiane che spagnole.

Vano è stato, dunque, fino ad oggi, scoprirne le matrici, a differenza dialtre categorie di manufatti di artigianato usuale e artistico.

Se negli esemplari di Morgongiori il fondo è in genere grigio, nei copri-cassa, nelle tovaglie e tovagliette, sia di Mógoro che di Santa Giusta, il fondo

è chiaro, bianco sporco o caldocrema. La simmetria adottata è sempre secon-do due assi, longitudinale e trasversale: schema che si. direbbe derivato dallebisacce, che erano di uso comune, perchè tutti una volta erano usi cavalcare.I fiori fantasiosamente stilizzati costituiscono una composizione quasi sem-pre densa, come la gioiosa esplosione di fiori nella brevissima primavera, eformano – dolcemente figure concluse con l’esagono e l’ottagono, ma maischematicamente rigide. Sono i motivi floreali stessi che concorrono a forma-re le figure che racchiudono il fiore prescelto per campeggiare trionfalmenteal centro della composizione.

Da una patera o vaso vengono fuori in genere sette rami, con fiori e boc-cioli, in forma geometrica. Il tema della vite è forse quello trattato più reali-sticamente, nonostante la difficoltà di esprimere la flessibilità dei tralci. Gliagnelli e i cervi (che erano un tempo anch’essi molto comuni), ripetuti all’in-finito, accompagnano gli altri motivi, comuni a tutta l’area isolana, soprat-tutto nelle fasce terminali dei copricassa e degli arazzi. Il cavallo e il cavalie-re con la spada, gli sposi a cavallo sono figurazioni comuni, ma prevale quiuna figura singolare di donzella con simboli, i putti e i geni alati (i cosidetti“vescovi”).

Compaiono simboli attinenti alla tradizione cristiana, quali la colomba,la spiga, l’uva, il vaso fiorito, la fonte; oppure quelli di tradizione bizantina,come il pavone (se non addirittura egiziana, mediata da Tharros e dalle altrecittà finicio–puniche); così le aquile–bicipiti quasi sempre per ragioni di sim-metria – le torri, i castelli, i leoni e i grifoni, di derivazione araldica; e nonmancano i cosidetti simboli magici, quali i ricordati geni, il sole, la luna, lestelle, la clessidra, ecc.

Questo è il repertorio decorativo, comune ad aree diverse. Ma a Mógoro

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e a Morgongiori hanno prevalenza i fiori, che si prestano meglio al gusto deltutto ornato, perchè più proprio dell’arazzo, della tela da muro. Rose e rosel-line e altri piccoli fiori geometrici accompagnano spesso la figura della don-

zella e dei “vescovi”, che fanno ala, quasi levitanti, al motivo principale,quale il monogramma di Cristo inscritto in losanghe. Ciò è ancor più eviden-te nella produzione di Santa Giusta, dove il disegno appare più minuto, fili-forme, con accentuazione verticale, longilinea, dei singoli elementi, trattatiancor più astrattamente. Si comprende la frequenza dei motivi dei fantasticicastelli e delle torri (era, la Marmilla, una zona di castelli e di torri nuragi-che), delle chiese, dei cervi, dei cavallini rossi e neri come quelli della vicinaGiara di Gesturi, e del ballo tondo; la frequenza del motivo del ramo di coral-lo, un pò, perchè anticamente rappresentava un vistoso monile, raro in quei

centri e pertanto prezioso; si comprende meno il motivo dell’aquila e non sicomprende affatto il motivo del pino, che i paesi del Monte Arci non conob-bero fino a quando apparve, nel secolo scorso, ai lati della strada di CarloFelice e di scorta alla linea ferroviaria, tra Uras e Oristano.

Ma tra le mustras, ossia i campionari di motivi, ispirati sempre a simbo-li religiosi, è interessante e famosa nell’Isola quella peculiare di questa zona,sa mustra de su Carmine, la corona del Carmelo, che è venerata a Mógoro,nella bella chiesa omonima del XIV secolo.

L’ambiente storicamente colto dà una ulteriore conferma della localiz-

zazione e della tradizione di questi capolavori casalinghi festosi, nati tra ilsevero Monte Arci e le “giare”.

Sia in Marmilla che nel Sassarese è comune il motivo centrale a candela-bra, mutuato dalla flora e dalla fauna, con un intreccio ed una libera inter-pretazione tali che non si capisce più lo spunto d’origine, chiamato kataluJ’a.E un nome di derivazione spagnola–catalana, che a sua volta – secondo MaxLeopold Wagner – potrebbe derivare dall’italiano antico cataluffa, “certodrappo che si faceva a Venezia”. Un damasco di cotone e lana, Katalufa è pas-sato ad indicare non il genere del tessuto, ma il motivo decorativo principaleche domina la composizione della fànuga (coperta) e del “tappeto”. Le tessi-trici di Villanova Monteleone, che confezionano ancora il grande tappeto innero e grigio su fondo chiaro, dalle dimensioni di circa due metri per tre, assi-curano che il motivo è la fedele riproduzione di un antico modello di coper-ta settecentesca, trasmesso da madre in figlia. E questo fuori di dubbio, maoccorre aggiungere che è anche uno dei motivi più eleganti che si conoscano,

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sembra disegnato addirittura oggi, dato il timbro di sorprendente modernità.Sempre a Villanova Monteleone e in altri centri del Sassarese, del Montiferro(Santulussùrgiu), ecc. ha avuto largo impiego il motivo dell’ùpupa, la quale

– come è noto – reca una cresta sulla testa. Viene denominato bizzarramentesaluda lu re, per via di quella coroncina sulla testa, ma forse anche per evita-re quel brutto suo nome, pubùsa, che, oltretutto, in certi paesi è ritenuto unuccello del malaugurio.

Il copricassa e la coperta sono i manufatti artigianali che sono stati pro-dotti con ininterrotta continuità; folti gruppi di artigiane sono tuttora operosein una cinquantina di centri, alcuni dei quali molto attivi.

E un pò arduo, si è detto, distinguere i manufatti provenienti dalla diver-se aree geografiche per la materia, i motivi decorativi e la gamma cromatica,

anche perchè in molti centri non si è continuato a fare ciò che si faceva unavolta. Le antiche collezioni non ci offrono, neanch’esse, possibilità di indivi-duazioni sicure. Si fa qui un modesto tentativo, in base soprattutto a quantosi opera in centri ancora vivi, con rielaborazione di motivi tradizionali “loca-li”, e che, pertanto, si prestano a un’analisi comparativa.

I centri di montagna presentano di preferenza motivi orizzontalimonocromatici o con l’impiego di pochi colori. In Gallura, dove l’unico cen-tro ancora vivo è Aggius, i piccoli copricassa e tappetini sono formati da stri-sce trasversali di diversa ampiezza, impiegando varietà di grigi. Ma si confe-

zionano anche, come anticamente, grandi tappeti dai colori vivaci e ben acco-stati.

Villanova Monteleone sviluppa in prevalenza strisce con motivi geome-trici minuti (fressada, tessuto a licei). Più delicati sono quelli della vicinaIttiri, sia quando si usano motivi geometrici e arabeschi a rilievo (stilizzazio-ne dell’aquila araldica), bianco su grigio, sia altri motivi, come gallinelle, cer-vetti, e geometrici. Fattura che si ritrova con poche varianti anche a Òsilo eChiaramonti. A Bonorva e a Ploaghe si fanno ottime stoffe per arredamento,in pezze. Tradizionali sono le decorazioni da parete, a strisce orizzontali everticali, larghe, con fondo bianco o colorato, con motivi di cavalieri, di ani-mali e di fiori a colori vivaci e anche con l’impiego di fili d’oro e d’argento.

Pure motivi orizzontali, di preferenza monocromatici, sono nei manufat-ti di Santulussùrgiu, di tonalità azzurra o verde o marron. Sono frequenti imotivi del pavone e della candelabra; frequenti anche i motivi ripetuti a tuttocampo.

A Bolótana, le strisce recano motivi geometrici densi, usando colori forti,ma delicati.

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Nule, in Goceano, è ancora uno dei centri più attivi. Vi si confezionano itappeti di grandi dimensioni: al telaio verticale lavorano contemporaneamen-te fino a sei tessitrici. Si fanno tappeti con svariati motivi: geometrici, florea-

li, e pavoni, spighe, cavallini, uccelli, palma di corallo, balletti, preferendodisporre la decorazione densa, calda, al centro del manufatto o a tutto campo.Vi si continuano a fare ancora tappeti vivacissimi, composti di disegni cosi-detti “a fiamma” e di motivi geometrici intensamente colorati, che ricordanoi tessuti arabi. Anche nella vicina Osidda, le strisce sono dense di motivi geo-metrici.

Come a Nule, a Sarule si lavora il grande tappeto col telaio verticale.Vasto è il repertorio decorativo distribuito preferibilmente in bande orizzonta-li o verticali: la clessidra, il sole, le stelle e altri simboli, i leoni, la colomba.

I centri attorno al Gennargentu sono caratterizzati da un timbro generalepiù omogeneo: Tonara, Gadoni, Busachi, Meana Sardo, Atzara, Samugheo,Isili. Le produzioni di quest’ultimo centro sono forse le più originali, i tappe-ti restano in genere nei toni dei suoi manufatti di rame. Le larghe fasce sonodense di motivi: cavalieri, castelli, grifi, pavoni, balletti, monocromatici,appunto color rame, o a più colori. A Tonara sono frequenti i campi uniti daimotivi molto minuti a strisce orizzontali con tonalità forti, piuttosto uniformi.I tappeti di Samugheo si presentano di tonalità calda, con prevalenza dei gial-li. Più lontano, ad Orune, i manufatti sono simili a quelli tipici di Tonara, e a

Sédilo, i motivi semplici sono in tinta quasi monocromatica, con prevalenzadi rossi e marron. Il tessuto di Sédilo ricorda la fressada di VillanovaMonteleone.

In Ogliastra, i centri di Barisardo, Ulássai e Villagrande hanno solo direcente ripreso un’attività che si era spenta, con manufati non particolarmen-te caratterizzati.

Nel Sárrabus, a San Vito e a Muravera, si ha una ripetizione serrata dimotivi geometrici, e i manufatti ricordano per vivacità gli arazzi di MOgoro edi Morgongiori. Le coperte da letto sono finemente lavorate, a motivi floreali.

Nell’Oristanese, fra i cui centri eccellevano Santa Giusta, Cabras,Siamanna e la stessa Oristano, si confezionavano ottime copricasse e tova-gliette con la distribuzione di ben dosate strisce decorative, dov’erano raffi-gurati “vescovi” e cavalieri.

Nei copricassa del Capo di Sotto (Campidano, Trexenta, Gerrei, Siurgus,ecc.) prevale la ripetizione compatta, densa, a tutto campo, di piccoli motivigeometrici e floreali, riservando figure di animali alle larghe bande terminali.

Nel Sulcis (Sant’Antioco, San Giovanni Suérgiu, Giba) si ripetono in

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tappeti a strisce motivi di cervi, uomini e uccelli. Sant’Antioco era una voltaspecializzato in arazzi e bisacce.

Una tecnica particolare, cosidetta a  pibionis (acini d’uva), è applicata

spesso alla coperta da letto: le decorazioni compatte sono a rilievo, e moltospesso vi appare il nome della tessitrice, il luogo e la data. Centri ancora vivisono Busachi, Paulilátino, Ittiri e Pozzomaggiore. Salvo in quest’ultimo cen-tro, dove si impiegavano anche i colori, le coperte si distinguevano per i moti-vi floreali minuti, in campo bianco. Non si riscontrano differenze sensibili daun centro all’altro, salvo Busachi, che propone anche motivi centrali, comead esempio sa mustra de su soli (la mostra del sole).

L’arte del ricamo è anch’essa antichissima e ha origini nell’Oriente lon-tano. In Sardegna è presente sia in casa che in chiesa: in casa, si hanno tova-glie, tovagliette, asciugamani, “giralettus ‘ e velari negli alti, monumentaliletti di una volta, e camicie spesso bellissime; in chiesa, tovaglie d’altare epizzi di paramenti sacri.

Le tecniche vanno dal merletto (bianco su fondo colorato, in genererosso ruggine) al filet (a nodi, pizzo di Bosa), al buratto.

Le tele bianche sono ricamate con lane o con sete policrome, in genere adue tinte, indaco e rosso ruggine o giallo e marrone, che erano un tempo otte-

nute da succhi vegetali. Il ricamo delle tovaglie o è esteso all’intero campo olimitato alle bordure, con fondo ruggine, od anche il ricamo color ruggineviene ottenuto su fondo grigio.

I motivi decorativi non si scostano molto da quelli visti nei tappetti enegli arazzi, forse sono più numerosi: si trovano spesso donzelle che si ten-gono per mano o il ballo tondo, con l’uomo che si alterna alla donna; ancoradame dal lungo strascico, castellane, cavalieri, cervi. Frequentissimi sono iltralcio della vite e il cancorrente, colombelle, simboli araldici, pavoni. Negliesemplari più antichi, ricorrono assieme il leone, il liocorno e il grifo. Telericamate e ricami a punto croce recano motivi tolti da antiche monete corren-ti in Sardegna (sa mustra de sjsinu, la mostra del sisino, moneta del periodoaragonese), putti che reggono cartigli col nome della ricamatrice. La collezio-ne Dallay, nella sezione etnografica del Museo Nazionale di Sassari, constadi moltissimi pezzi, non tutti esposti per mancanza di spazio, che sorprendo-no per la varietà dei motivi.

Gli elementi decorativi religiosi sono passati con disinvoltura nel reper-torio domestico, come il monogramma di Cristo e teorie di angeli.

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Motivi floreali assai vivaci, con fili d’oro e d’argento, vengono ricamatisugli scialli neri, in particolare quelli confezionati e indossati dalle olianesi.

Non è semplice stabilire quando furono introdotti in Sardegna i ricami di

cui si gloriano molte scuole d’arte italiane; ma è innegabile la caratterizzazio-ne dei merletti sardi, in particolare il filet di Bosa, rispetto alle produzionicontinentali. Anche se elementi decorativi sono stati importati, come il leone,il grifo e il liocorno, il timbro è peculiare; esso si avverte agevolmente nelrepertorio dei motivi semplici tolti dalla fauna e dalla flora locali, comeabbiamo visto per il sisino e per il corallo.

Forse le donne si compiacevano allorchè potevano acquisire motivinuovi, mode nuove, mentre a noi oggi essi appaiono come inquinamenti sti-listici. Il centro principale, incontrastato, del filet è stato sempre la cittadina

di Bosa: forse perchè le sue produzioni, obbedienti a una rigida improntalocale, ebbero fortuna anche fuori dell’ambito isolano. Tuttavia, nel presentesecolo si sono verificate delle infiltrazioni che hanno alterato sensibilmente ilcarattere del filet bosano, rendendo il manufatto spesso banale, se non di cat-tivo gusto. Certo, pur lavorandosi ancora il filet, non si vedono più le stradedella cittadina della Planárgia pbpolate di donne, sul limitare delle case,intente alla lavorazione del filet, come si potevano vedere fino al primo quar-to del presente secolo.

Un altro centro famoso per i tovagliati delicatissimi è Teulada, dove

anche il fine ricamo faceva parte del costume maschile.Aghi e fuselli compiono la magia: i motivi vegetali si confondono con la

fauna, diventata anch’essa vegetazione, e s’intrecciano con meandri e arabe-schi; modi umbri, siciliani e abruzzesi si mescolano con modi locali: la damadal lungo strascico non è un motivo solo sardo, così le castellane nel castelloturrito o l’aquila araldica. Ma qui hanno un sapore compositivo diverso.Contro il verismo di gusto classico, per esempio, della tradizione umbra, lefigure che si tengono per mano, qui hanno un ritmo grave, inconfondibile, delballo tondo.

L’arte del merletto è quasi del tutto scomparsa: un’ampia esposizioneetnografica degli antichi modelli dovrebbe incentivare il ritorno a questi pre-ziosi manufatti, che ornano ancora molte case sarde.

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71. Aggius, tappeto “uccelli in grigio”

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72. Atzara, particolare di coperta

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73. Bolótana, tappeto

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74. bonorva, arazzo “broccato e ghirlande”

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75. Busachi, bisaccia

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76. Gadoni, particolare di tappeto

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77. Giba, tappeto “vasi, fiori e tacchini”

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78. Isili, arazzo

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79. Isili, arazzo

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80. Ittiri, tappeto “rombi e fiori”

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81. Meana Sardo, particolare di coperta in rosso

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82. Mógoro, arazzo

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83. Mógoro, particolare di arazzo

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84. Mógoro, arazzo 85. Mógoro, arazzo

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86. Morgongiori, arazzo 87. Morgongiori, arazzo

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88. Morgongiori, arazzo

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89. Nule, tappeto “aquile e cervi”

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90. Nule, tappeto “balletto” in fondo nero

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91. Nule, tappeto tradizionale “a fiamma”

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92. Orune, tappeto

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93. Osidda, tappeto

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94. Ósilo, tappeto

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95. Ploaghe, tappeto

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96. Pozzomaggiore, coperta

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97. Samuhjeo, tappeto

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98. Sant’Antioco, bisaccia

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99. Santulussurgiu, tappeto

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100. San Vito, tappeto

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101. Sarule, tappeto “cavalcata in campagna”

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102. sarule, particolare di tappeto “uccelli e cervi”

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103. Scano Montiferro, stoffa per arredamento

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104. Sédilo, particolare di tappetino

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105. tonara, particolare di tappeto

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106. Villanova Monteleone, tappeto

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107. Zeddiani, tappeto “papaveri”

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108. Oliena, scialle

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109. Oliena, scialle, particolare

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110. Oliena, scialle

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111. Oliena, scialle

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112. Ósilo, scialle

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113. Villanova Monteleone, tovagliati

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114. Villanova Monteleone, tovagliati

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115. Tovagliati ricamati con applicazioni in filet 

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116. Collare per cavalli

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I GIOIELLI

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Dai bracciali di pietra e dalle collane di conchiglie della preistoria,all’oreficeria del mercato fenicio–punico (documentati largamente nei museiarcheologici dell’Isola) fino ai gioielli distribuiti con dovizia sui costumi,resta ad abundantiam dimostrata la vanità dei Sardi, sia della donna che del-

l’uomo. Assieme alla raffinatezza, talvolta sorprende anche il lusso, come ilcomplemento di gioielli ai costumi di Quartu Sant’Elena e di SInnai.Al gusto diffuso del monile ha fatto, sin dall’antichità, riscontro l’attivi-

tà di un artigianato locale attento. Oltre all’interesse per la lavorazione deimetalli preziosi (fenomeno comune, si può dire, a tutti i popoli), in Sardegnala presenza di miniere argentifere ha stimolato una folta schiera di artigiani,come attestano i documenti degli antichi argentieri, che già dal XIV secoloavevano botteghe fiorenti in Cagliari, Sassari, Oristano, Iglésias. La zecca diquest’ultima cittadina ha avuto anche un ruolo complementare, in quanto le

monete bellissime ivi coniate sono state largamente adoperate come elemen-ti decorativi dei costumi, in luogo di bottoni e piastre.

Il grande centro di produzione di gioielli e di vasellame era Cagliari.L’attuale via Mazzini era detta via Argentari, i quali prima erano riuniti inCastello, nel Carrer de los Plateros. L’attività si espanse in seguito anche aivillaggi attorno a Cagliari: Quartu Sant’Elena, Quartucciu, Selárgius, SInnai.

A Sassari, in gran numero sin dal Trecento, avevano le loro botteghe nel-l’attuale via al Rosello, che conservò fino al 148 il nome di via Argenteria.Nei documenti antichi si fa sovente cenno ad essi ed al loro glorioso “gre-

mio”. Ma anche nelle cittadine di Alghero e Bosa e nei centri barbaricini siandò sviluppando la loro arte: centri che nella maggior parte dei casi sonoancora attivi: Nuoro, Oliena, Dorgali, Gavoi.

Nel 1386, si sa che l’orafo cagliaritano Giovanni di Cione eseguisce unabellissima croce astile per la Cattedrale di Salemi, in Sicilia: ciò dimostracome sin da allora fossero famose le botteghe cagliaritane.

Le vicende dell’oreficeria, forse l’attività artigiana preminente nell’Isola,non sono dissimili dalle altre attività artigiane, ma desta sorpresa il fatto di

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trovare presenti in Roma – in pieno dominio spagnolo – parecchi orafi sardi,come sorprende anche nel Tesoro della Cattedrale di Cagliari siano conserva-ti oggetti di orificeria cinquecentesca, di carattere decisamente italiano

(Leggi facevano allora divieto d’importazione nell’Isola di oggetti d’argente-ria che non fossero di provenienza spagnola).

I gremi degli argentieri son fra i più antichi: le corporazioni di mestieretutelano il lavoro fecondo di questi artigiani, che popolano le chiese di crociastili, calici, custodie, reliquari. Della seconda metà del Cinquecento e deiprimi anni del Seicento, si conoscono i nomi di vari artisti, fra i quale eccelleGiovanni Mameli, “maggiorale” del gremio degli argentieri di Cagliari. Notierano anche Giovanni Antonio Piccioni, che aveva bottega nel quartierecagliaritano di Villanova (è rimasto il nome alla strada), Matteo Manca e

Sisinnio Barrai. Ignazio Serra è autore delle belle cartaglorie custodite nellachiesa di San Giacomo. Il capolavoro dell’orificeria sarda è costituito dal cro-cione processionale del Duomo di Cagliari, del Quattrocento. E firmato con lasigla N. D., per cui non si può stabilife se l’artigiano fosse sardo o immigrato.

Per le botteghe cagliaritane fu un periodo di stasi il Seicento, anche per-chè la peste del 1652 decimò le maestranze orafe di quella città. Già nel 1610,però, maestri di Palermo avevano eseguito il grande tabernacolo del Duomodi Cagliari e maestri spagnoli nel 1635 avevano eseguito il magnifico paliot-to dell’altare maggiore.

Se abbiamo accennato all’attività” aulica” degli artentieri, è per sottoli-neare il grande mestiere da essi acquisito durante i secoli; ma la loro attivitàci interessa, soprattutto, per la produzione dei gioielli e degli amuleti, per laproduzione di carattere popolaresco, che è stata particolarmente notevole.

Al metallo prezioso si aggiunge il disegno prezioso: una volta acquisitele tecniche, l’argentiere e l’orafo si può dire che non abbiano limiti alla lorocreazione.

I gioielli, ornamento complementare sempre presente nei costumi, com-prendono orecchini, bottoni, anelli, braccialetti, gancere, collane, pendagli,ciondoli, amuleti, orologi, catene, fibbie.

Dopo il bottone di filigrana, la collana è il gioiello più diffuso, d’oro ed’argento, talvolta lunghissima, di varia foggia: o formata da elementi diver-si uno dall’altro, o con la ripetizione di uno solo, al massimo di due elemen-ti (per esempio, rosette con pietre o perle incastonate e coppie d’aquile aral-diche); il crocifisso reca ai bracci pendagli e al centro un santino inciso a tuttotondo. E sorprendente con quanta fantasia sia stato trattato il simbolo dellacroce.

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Le catene, soprattutto quelle provenienti da area barbaricina, decoratecon misurato gusto da figure di cavalieri, cuori e uccelli, sono forse i gioiel-li che più rispecchiano la sardità di queste produzioni.

Orecchini e anelli di semplice, elegante fattura, raggiungono spessoanche elaborazioni interessanti, con incastonature di perle e di pietre.

I pendenti di collana recano spesso medaglie con il santo inciso o a tuttotondo, ed i rosari in filigrana, decorati da rosoni di varia geometria e dal cro-cifisso elaboratissimo, sono talvolta di grande dimensioni, da appendere acapo del letto.

Portaprofumi, campanellini e amuleti contro il malocchio completano ilcorredo dei gioielli personali; fra gli oggetti di toeletta, si distinguono gli spu-ligadentes, decorati con perline, mostricciatoli, cavalieri, cuori con putti o

con aquile.

L’attività principale degli argentieri e degli orafi era volta agli oggetti diabbigliamento, sia femminile che maschile; poi seguiva il vasellame dome-stico e la suppellettile chiesastica (cartegloria, candelabri, pissidi, calici,ostensori, reliquari, croci astili, corone, medaglie, crocifissi).

Non è da trascurare neanche il complesso, veramente notevole, degliex–voto che tappezzano i celebri santuari: cuori, occhi, arti e putti in lamina

d’Argento. Le Madonne sono cariche di gioielli e di ex–voto, tra cui antichirosari molto belli e amuleti legati in argento.

Sorprende, di alcuni tipi, trovare molti esemplari identici: specie gli spu-ligadentes e le gancere venivano fatti in serie, per fusione. La matrice venivaeseguita a mano, adoperando il martello e il cesello. Per la riproduzione, siadoperava l’osso di seppia: dopo averlo asciugato, squadrato e appiattito,veniva premuto dal modello, che lasciava l’impronta, costituendo il negativo.Indi, si effettuava la colata sull’osso di seppia e poi si riprendeva la forma colcesello e la lima.

Fra i metodi di lavorazione del metallo, era praticata la fusione, nel modoanzidetto, lo sbalzo e l’incisione, ma la più diffusa di tutte era la tecnica dellafiligrana. Con accorgimenti, si arrivò alla saldatura perfetta della filigrana.

Si esaltava la brillantezza degli oggetti in oro, immergendoli in una solu-zione di allume di rocca, sale da cucina e salnitro, in una terrina.

E raro trovare incastonature di pietre preziose. Nella sezione etnograficadel Museo Nazionale di Sassari si trovano smalti, smeraldi e rubini sapiente-mente incastonati. In genere, le pietre sono di scarso valore, perchè si cerca-

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vano solo effetti di colore. L’unica pietra da incastro era il granato. Si usavail vetro colorato e, spesso, la carta stagnola sotto il vetro trasparente.

Le collane si facevano anche col corallo – conosciuto da molto tempo

–con i granatini e con le perle. Dal Settecento si adoperano diffusamente leperline di mare.

Il corallo fu introdotto nelle gancere da portare attorno al collo, eliminan-do lastrine fatte a stampo, di cui un tempo erano interamente composte (usate,per esempio, nel costume di Busachi), poi sostituite del tutto, nel Settecento,dalla filigrana.

Oltre gli effetti di colore, interessavano spesso gli effetti magici, ricor-rendo contro il malocchio all”occhio di Santa Lucia”, che è un opercolo dimurice, una conchiglia di mare; contro la iettatura in genere, si usava la pie-

tra nera, un vetro detto sa sabeccia (campidanese).

È da lamentare che per ricavare monili, siano stati impiegati – specie aiprimi del Novecento – gli “scudi” d’argento: assieme a quelli dei Savoia e delRegno d’Italia, gli argentari fusero i preziosi “scudi” e le monete d’argento diepoca spagnola. Si fece, cioè, il contrario di quanto si usava nel Medioevo, quan-do le guerre facevano rastrellare i monili, e si coniava rifondendo i metalli: e lascarsezza degli esemplari pervenutici dell’alto Medioevo è una delle cause,

infatti, che non consente lo studio comparato dell’orificeria presso i vari popoli.Dalla caduta dell’Impero romano, si può dire, fino al XII secolo, si nota

in tutto l’Occidente una decadenza in conseguenza dell’impoverimento gene-rale: corrispondono in Sardegna ai secoli del periodo bizantino e del primoperiodo giudicale.

Non sappiamo se i monasteri, anche nell’Isola, ebbero un ruolo nella for-mazione degli artigiani. Le correnti di rapporti tra regioni e paesi continenta-li, avvenute dopo l’XI secolo, in Sardegna non giunsero affatto o giunseromolto attutite, per via dell’isolamento e della depressione cui essa venne atrovarsi; l’arte rimase di tono modesto, ma arrivò ad assumere un caratteredecisamente sardo. Gli scambi che vedremo a proposito dei costumi, con larepubblica di Pisa devono aver influito anche per la formazione artigiana deigioiellieri. Nel secolo XIV, erano attivi in Cagliari due argentieri immigratipisani, Puccio e Vanni di Guido.

Ma, se il gusto del monile prezioso andò di pari passo con quello deicostumi, dobbiamo ritenere che il passo maggiore nella diffusione in tuttal’Isola si ebbe dalla seconda metà del Seicento in poi.

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La donna sarda, parca in tutto, tiene però alla proprietà dei gioielli, chetrasmette ai propri figli. I gioielli completano decorativamente i costumi: tal-volta, questi sembrano la struttura portante d’una mostra di gioielli. Sono essi

che distinguono i costumi l’uno dall’altro nello stesso paese, la nota di indi-vidualità di cui ogni donna si sente gelosa.

Se è difficile cercare di stabilire quali modi appartengano a un determi-nato popolo sotto il profilo dell’originalità, è arduo indagano per la Sardegna.La riproduzione degli stessi motivi decorativi non sempre si può spiegarecome fenomeno di convergenza: come ad esempio, spirali e meandri distri-buiti a formare un identico disegno, pur nelle infinite combinazioni possibi-li. Per quanto riguarda l’Isola, si può dire che si notano le imitazioni delleforme importate, italiane e spagnole, che molto spesso inquinano le linee alta-

mente espressive della produzione locale, di sapore ancora di purezza arcai-ca, sobria e raffinata a un tempo. I classici bottqni gemini in filigrana, dacollo e da polso, che si dice rappresenti il simbolo del seno di Tanit, lo si tro-vano anche presso altri popoli, ma in Sardegna ha conservato un timbro par-ticolare. E vano tentare un riallaccio molto antico, a gioielli orientali perve-nuti attraverso il mercato fenicio–punico: traffico che era stato fiorente, comeattestano le necropoli di Tharros e degli altri centri semitici costieri. E piùverosimile che la tecnica della filigrana sia stata introdotta dal mercatoarabo–ispano, anche se non è improbabile, come si è accennato, che l’abbia-

no importata i Pisani durante il loro periodo egemonico. Risalgono però alSettecento gli esemplari che ci dicono quale raffinatezza la filigrana sardaavesse raggiunta. E parimenti al Sei–Settecento risalgono alcuni motivi fre-quenti, quali i leoni coronati e le aquile araldiche. Gli amorini e le perle rag-gruppate – caratteristici dell’orificeria campidanese – sono di gusto francese.

Fra le attività artigianali, quella degli orafi e degli argentieri è forse la piùstimolante il senso d’arte, non avendo si può dire, l’artigiano limitazioni diordine tecnico: la sua fantasia interpreta e soddisfa la domanda; il limite, ècostituito dal metallo prezioso e dal piccolo formato, non da come l’oggettoviene confezionato. Gli artigiani sardi acquisirono le tecniche, che andaronosempre più affinando; nella lavorazione del “filo” d’argento diventaronoaddirittura virtuosi, la loro arte raggiunge un timbro schiettamente locale,regionale, sia per la tecnica acquisita che per il ritmo compositivo, anche senon sempre di carattere unitario.

Se troviamo miscuglio di elementi, accostamenti di epoche diverse,gusto e tecniche diversi, si devono alle influenze negative esercitatedall’Italia e dalla Spagna a discapito dell’unità stilistica che si stava deline-

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ando in campo regionale. Quanto esiste nelle raccolte pubbliche e private,non è stato fin ora classificato con criteri scientifici. Come si vedrà per icostumi, anche per i gioielli è difficile l’attribuzione per regioni. Si riscontra

un gusto eccletico, che accomuna motivi religiosi e profani: accanto al santi-no e al crocifisso, troviamo il grifo, il putto, l’aquila araldica; è assai ricor-rente la forma del cuore.

Si può dire che il fondo indigeno si andò via via arricchendo di motivi,con apporti delle diverse culture: bizantina, romanica, forse araba, rinasci-mentale, barocca, neo–classica.

Gusto arcaico presentano i piccoli portaprofumi, anche se di produzionerelativamente recente. Gli spuligadentes, che fanno parte degli oggetti di toe-letta e che si trovano appesi alle cinture, sono per lo più di derivazione spa-

gnolesca. Anche quei tipi di orecchini che simulano grappoletti d’uva, conl’accostamento di piccole perle, ritenuti comunemente locali, sono comuni adaltre regioni, così come abbiamo notato che i bottoni d’oro e d’argento hannoforme che appartengono a un’area europea molto vasta.

In Sardegna, nonostante la religione diffusamente praticata, radicata è lacredenza nella iettatura e nel malocchio; per cui, sono stati adottati numerosiantidoti: simboli magici, talismani, amuleti e feticci (fenomeno anche questocomune a tutti i popoli). Qui in Sardegna interessa in modo particolare, per-chè ha data adito alla creazione di oggetti preziosi che vengono appesi al

collo, soprattutto dei bambini. Essi vengono a formare un unico corpus congli altri gioielli.

Concludendo, si può affermare che pur non essendo agevole ricostruirela storia dei gioielli e degli amuleti, essi si impongono per una impronta for-temente caratterizzata, che si può senz’altro definire sarda.

FIGURE 117–130

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117. Spilla in oro, perle e giada africana

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118. Spille in oro e perle

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119. Spille in oro e perle

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120. Spillo con pendente

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121. Rosario e collana

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122. Cammei, corallo e madreperla con spilla in oro

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123. Rosario d’argento e madreperla con medaglione

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124. Spillo con pendenti

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125. Spille con pendente

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126. Spillo con pendente formato da bottoni

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127. Spillo con pendente

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128. Bottoni in oro

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129. Spillo con pendente

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130. Spillo con pendente

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PRODUZIONI EFFIMERE

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Si può dire che in Sardegna sia mancata la grande scultura. Anche con-siderando le figure al naturale di età nuragica, venute alla luce recentementenel Sinis e che i Sardi, ai cui lontani progenitori si devono i prestigiosi bron-zetti, hanno sempre scalfito, intagliato, inciso, resta quasi un mistero. Nè si

possono considerare vere sculture quelle rare figure di uomini e di animaliespresse dai terracottai. I rari scultori sono tutti del nostro tempo.Non si può, però negare che i Sardi non abbiano il gusto della plastica,

anche se spesso di natura effimera per la materia adoperata: creta, pasta dipane, di dolci, di formaggi, palma e cera.

Quando in Campidano si escavano i pozzi per ripulirli e fuoriesce l’ar-gilla rossiccia, umida e compatta, i terrazzieri si compiacciono comporreplasticamente figurette nella scala degli antichi bronzetti, per far sorridere ibimbi: capita di vederne di eccellente fattura. Queste esercitazioni, che non

durano neanche lo spazio di un giorno, sono da considerare veramente un’ar-te effimera, durano infatti appena il tempo per poterle fotografare. Ci sono,tuttavia, altre espressioni più durature, cui si dedicano ancora le donne, comei pani di festa e certi dolci, nonchè gustosi formaggi.

Il pane, sia esso di festa o quotidiano, rappresenta sempre una faticaaccompagnata con amore. Basta osservare, infatti, con quale delicatezza lamassaia esplora la cottura, spingendo delicatamente di quando in quando lapala dentro il forno, onde non risulti compromesso il coronamento d’unasomma di fatiche: oltre quello dello sposo, le proprie: la battitura, la setaccia-

tura, la formatura. Ha accompagnato ogni atto col canto – il battito del setac-cio richiede un ritmo particolare – ma ora tace, per l’attesa e la commozione.Come il terracottaio, durante l’infornata.

La lavorazione della pasta è un ritmo collettivo, le donne cantano soprat-tutto perchè trovano in questo atto un pretesto di gioia, dando forma, conamore, alla propria fatica. Essa emula qui l’artigiano, adoperando la materiaplastica che le è consentito governare, la pasta di grano. E si compiace delvasto e vario corredo dei canestri, per poter disporre delicatamente queste sue

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effimere creature. Dalla lievitazione alla cottura e alla disposizione ordinatadelle forme dorate nei canestri, è come assolvere a un servizio religioso.Anche la veglia ha un sapore rituale, e la mondatura del forno con scope for-

mate di particolari erbe aromatiche di campo, colte la sera precedente, è svol-ta con la stessa accuratezza che ha presieduto alla formatura del pane. E purnella ricca gamma di forme del pane quotidiano, siano esse focacce o foglicroccanti, eccellono le varie forme del bianchissimo  pan ‘e sim buia (pan disemola), confezionato sia per consumo pur esso quotidiano che per partico-lari ricorrenze e circostanze.

Si fanno forme particolari per le cerimonie: battesimi, cresime, sponsali,celebrazioni di prime messe, e in particolare ricorrenze dell’anno, come ilcapo d’anno, l’Epifania, la Domenica delle Palme, la Pasqua. E comune pres-

socchè a tutta l’area isolana il pane pasquale con l’uovo, cesellato e “verni-ciato” con spennellature d’acqua tiepida, durante la cottura; è in genere aforma di coroncina, tutto seghettato di creste dette, in campidanese, pizzicor-rus, per mezzo di speciali coltellini. Può anche essere a forma di pupazzo odi navicella, a intagli di fiorami e persino di idoli. Per i bambini, a capodan-no, si fanno i bastoncelli di Dio, cioè pani a forme di bastone episcopale, diun bastone animato di bracce e di piedi, seghettato nella parte esterna dellaspirale come la cresta del gallo.

In alcuni centri del Logudoro, si confeziona per l’Epifania una schiaccia-

ta, detta sa giuada, adorna di bassorilievi con scene a arnesi agricoli.Il pane a tondelli intrecciati, come si usa fare con le foglie di palma, è

detto per questo “pane di palma”: il traliccio viene costellato di foglie, rosel-line, uccellini. Per la domenica della palme, si prepara anche una specie ditrofeo con gli strumenti della “Passione”: a forma di croce, di scalette, ditenaglie, ecc.

Per le nozze è frequente, oltre la forma della colomba, quelle di cuore, dimezzaluna, di uccelli. In Logudoro, il pane degli sposi novelli dura a lungo:su rosoncini si praticano graziosi intagli di forma triangolare, circolare edovoidale. Per le decorazioni, si adoperano piccole pinze dentellate con lequali si tracciano dei rialzi (pintabai = decora pane), o le forbici.

Specie nei villaggi di montagna, è ancora in uso lo stampo di legno: idischetti di pasta ripetono le decorazioni tratte dal cassone nuziale, a guisa diuna piccola opera d’incisione e di intaglio. Ogni villaggio adopera un tipo distampo: c’è la ripetizione, in questi casi, quasi meccanica, dei motivi, chesono geometrici, floreali e simbolici, come il cuore e le fedi intrecciate.

Il pane, a forma circolare, stellare, di croce greca, di quadrifoglio e di

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varia, polilobata geometria, viene premuto coi timbri di legno, tutto traforatoe trapunto con gusto, con impeccabile simmetria. Poi c’è il pane decorato confantasia, a tutto tondo: pesci dalle strane forme, cagnolini, caprioli, uccelli

fantastici, pupazzi, o forme decisamente astratte, o anche gruppi modellaticon somma pazienza e perizia, densi densi, raffiguranti il gregge, scene del-l’aia, ecc.

Anche il “pane benedetto”, che si distribuisce ai poveri in certe ricorren-ze festive, ha spesso forme fantasiose, onde appaia più gentile il dono (unarozza cornacchia è detta sa carro ghedda).

Come presso i ceramisti l’anfora composita, così ha avuto fortuna inBarbágia, un trofeo di abilità, che assomiglia a un vaso di fiori fatto di pastae che è stato forse suggerito dal nénniri, l’erba sacra del venerdì santo. E un

motivo importante di folklore figurato, come certe forme strane di uccelli, disimboli sacri di fecondità, di lune con croci e candelabri.

Oltre i “decora–pane”, per la modellazione dei pani cerimoniali, le for-bici e i timbri, si adoperano anche le rotelle dentate e i bottoni di filigranadelle camicie. Il bambino si accontenta di roari di dadetti croccanti; per laprima comunione riceverà ostie a forma di calice e di croce, con fiocchi rossiintrecciati tra le trine di pasta; gli sposi e i sacerdoti conservano per lunghianni alcuni esemplari di pane fra i più belli ricevuti nel giorno delle nozze oper la prima messa, assieme agli altri doni.

Il pane di Natale – la festa più bella dell’anno, che vede la famiglia,anche quella del pastore nomade, tutta raccolta attorno al focolare – è deco-rato con noci, noccioline, mandorle. E attorno all’uovo di Pasqua, si svolgo-no ghirigori fantasiosi: pane lucido, dorato, tutto seghettato e a guglie. Aguisa di fantastici cavallucci marini, quelle forme, disposte nei cestini di asfo-delo, di palma o di paglia, sembrano delle nature morte. Qui troviamo la fan-tasia individuale, completamente libera da schemi o da ricordi, veri pezzi diartigianato.

E le forme di pane biscottato, che è quasi un dolce? Non si sa, infatti,molto spesso, dove finisca il pane e dove inizi il dolce. La sapa, la ricotta,l’uva passa sono i termini di passaggio: col pan di sapa, le “formagelle”, le párdulas, le tiriccas.

Ad un dolce, is pistoccheddus de Serrenti (i biscottini di Serrenti) si dàmolto spesso la forma di uccello, il comune motivo della decorazione del cas-sone nuziale e dei tappeti, ma a differenza di questo, stilizzato e severo, è di

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forme spigliate, con la cappa bianca cosparsa di confetti variopinti (trageda).Il fatto che si sia ricorso all’uccello è spiegabile con la resa efficace del

semplice ritaglio: sia per quelli di grandezza d’una diecina di centimetri che

si confezionavano una volta, sia per quelli di formato minuto che sfornanooggi. Ma dove veniva prestata la maggior attenzione era il monumentale gatòdi mandorle, il cosidetto (camp.) su cambali, che la priorissa portava con sus-siego in processione per la festa della Candelora e ne faceva poi omaggio alparroco. Era quasi sempre un’architettura composita (la torre, il castello, ilnuraghe o anche un santo annicchiato) di mandorle tostate e di zucchero,dove c’era abbondanza di zucchero, o di mandorle tostate e miele, dove siproduceva il miele.

L’abilità della mano asseconda la fantasia anche nella confezione dei

cavallucci, uccelletti e trecce di cacio.Queste forme che si rinnovano ogni volta, con fresca fantasia, sono assie-

me al gustoso contenuto, prodotto di autentico artigianato artistico.

Per il periodo della Pasqua, l’artigianato casalingo non si limitava allareligiosa preparazione dell’erba sacra e alla confezione del lucente pane difesta con l’uovo, ma si estendeva anche alla lavorazione della palma, che incerti paesi era riservata a dei veri specialisti. Le palme meglio operate erano

destinate al parroco, ai priori delle confraternite religiose, ai maggiorenti.La palma operata – anch’essa una fatica effimera – durava tutt’al più un

anno – sembrava una fantasia borrominiana, fatta di intrecci, “cuori” e infioc-chettamenti. Decorata con pezzetti di stagnola o d’oro in foglia, vi si aggiun-geva qualche ciuffo di violaciocche e qualche ramoscello d’olivo. E si porta-va, con grande emulazione e orgoglio, in chiesa a benedire per riportarla poia casa e appenderla in capo al letto.

La passione per la plastica, assai diffusa, come è facilmente constatabilenella lavorazione del pane, si rivelava anche nella scelta degli ex–voto che,

fino a poco tempo fa, si facevano preferibilmente di cera pecie le figure dibambini, derivati dai putti attraverso il barocco dell’Italia meridionale, sonofrequenti forme che i cerai sardi ripetevano e portavano in copia nelle sagrereligiose. Sono un capitolo notevole della plastica votiva che si estrinsecavaanche con manufatti di altre materie, in primo luogo il legno, l’argilla, il bron-zo e l’argento.

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MANUFATTI DI MATERIE VARIE

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Fra le umili essenze usate dall’artigianato, non potevano mancare lepiante palustri che, anch’esse abbondanti, allignano sull’orlo degli “stagni”,specie di quelli numerosi dell’Oristanese. In primo luogo, il biodo, detto allalatina buda (Typha Angust(folia) e l’erba salla (Rumex Acetosella), con cui si

confezionano ancora le stuoie: un tempo impiegate per riposare, oggi perpannellature varie e per riporre frutta ad essicare. Il fogliame giallastro, tenu-to da tre legature di cordicelle nel senso longitudinale, con i bordi liberi, dàun senso di freschezza. La stuoia presenta anche il vantaggio che, dopo l’uso,si può arrotolare, occupando poco spazio. Si confeziona ancora a Zeddiani,Milis, San Vero Milis e Santa Giusta, nella misura ormai standard, di m.1,70x0,90.

Con un’altra pianta palustre, detta cruccuris (Ampeloderma Mauritanica), i pescatori di San Giovanni di Sinis e di Mistras confezionano

vaste, magnifiche capanne rettangolari, con la sola apertura d’ingresso, inte-ressanti per come sono strutturate, ma soprattutto per la decorazione dientrambe le testate. La forma di esse è antichissima, come parimenti ilfasso-ni di cui si è già parlato, l’imbarcazione di vimini ancora in uso nello “sta-gno” di Cabras. I pescatori di Cabras confezionano queste imbarcazionianche in piccola scala per i loro bambini e da un pò di tempo sono apprezza-ti souvenirs.

Si ricollegano a detti manufatti le chiuse di canne palustri e le capannuc-ce dei guardiani delle peschiere di Mar’e Pontis, nel Sinis, le quali sono

anch’esse opera di eccellente artigianato.Nella stessa area dell’Oristanese, a Milis, si lavora un’altra essenza, che

ivi cresce gagliarda, la canna, per confezionare ancora stuoie. Un tipo è otte-nuto con la stessa tecnica della stuoia di biodo, fatto di canne tagliate dellalarghezza voluta, un altro tipo è ottenuta con la canna spaccata e tessuta. Laprima si usa per creare zone d’ombra e per deporvi ad essicare pomodori,mandorle e noci. Della seconda attualmente si confezionano pannelli che dinorma hanno le dimensioni di m. 2,50x1,50 e dim. 1,70x0,90. Questi ultimi,

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usati per deporvi le arance (Milis produce molti agrumi), sono i più antichi,come le misure denunciano: la lunghezza, infatti, è la traduzione metricadella bracciata (passa), mentre i primi servono per la costruzione dei tetti,

come protezione (recente) dei ponti di servizio, ecc. Una volta, coi pannellisi faceva il tettuccio del carro, per far ombra e riparare dalle intemperie(quando si andava alle sagre, si stendeva sopra una coperta da letto, altrimen-ti detta “tappeto”). Si facevano i cilindri–silos per la conservazione del granoe dei cereali, detti orrios (dal latino horrea). I milesi, in particolare, se ne ser-vivano per il trasporto degli agrumi sul carro a buoi. Disposto il cilindro inposizione orizzontale, dentro si ammucchiavano le arance e vi si sistemavaanche il venditore, come è ricordato da un noto acquarello della RaccoltaLuzzietti.

I tessitori di canna (che operavano in vari centri) sono di un’abilità stra-ordinaria: praticano alla canna due nervosi tagli alle estremità, indi con lapunta affilatissima d’un falcetto praticano un taglio longitudinale assai rapi-do, l’appoggiano su una pietra levigata murata a pavimento e la battono conuna mazza di legno (il manico è ricavato dallo stesso pezzo), la aprono e lasbucciano. Questa operazione la eseguono per ultimo (al contrario di quantopuò sembrare ai non esperti), perchè risulta assai più rapida di quando lacanna è intera: il falcetto scorre su una superficie piana anzichè su una super-ficie di un cilindro di piccolo diametro. Una volta preparate le strisce, si

dispongono a compenso ed infine si tessono a spina di pesce: ed è sorpren-dente la rapidità con cui nasce il pannello, che viene bordato tutt’attorno,ripiegando le stesse strisce, affinchè non si sbocconcelli. Poi, i pannelli sidistendono nel cortile o sulla strada, al sole, per ingiallire, e vengono accata-sti, come si usa fare per i fogli di compensato.

Che la tradizione dei tessitori di canna sia antichissima, lo dimostranoalcuni manufatti ceramici del periodo nuragico, che si trovano – come si è giàaccennato – nei nostri musei: precisamente, quei vasi denominati dagliarcheologi “a stuoia”, perchè si ottenevano facendo ruotare una piccola stuo-ia tessuta che serviva da appoggio alla creta, per ottenere la forma voluta:funzione che più tardi è stata meglio disimpegnata dalla ruota figulina. Sulfondo gli antichi cocci recano ancora l’impronta dell’ordito.

Con le canne, si fabbricavano alcuni giocattoli per i bambini. Equitare inarundine, cavalcare su cavallucci di canna è una tradizione molto antica. Quili ricordiamo per la varietà e la grazia con cui venivano confezionati: o for-

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mati da due pezzi di canna e da una cordicella (le briglie) oppure da tre pezzidi canna, di cui il maggiore da cavalcare, e due più piccoli per simulare latesta, con le orecchiette ben puntute e il taglio della bocca, e allo stesso tempo

le briglie. Il rapporto delle tre aste raggiungeva spesso una rappresentazioneastratta di grande efficacia. Veniva sovente infiocchettato, come si bardavanoi cavalli veri per le processioni.

Un altro giocattolo, fatto essenzialmente di canna, con la sola rotellinadentata di legno che batteva contro la linguetta petulante, era la “raganella”.Non era propriamente un giocattolo, ma i ragazzi si divertivano un mondo,durante la settimana santa, per cacciar via il demonio.

Sempre con le canne, si confezionano ancora gli strumenti musicali a fiato:i pifferi, gli zuffoli e il tipico strumento isolano, le launeddas, a tre canne.

I ragazzi si divertivano con lo zuffolo ad incantar le lucertole, ma sidivertivano anche e forse più con lo schioppo (scupeta), consistente in unpezzo di canna della lunghezza di circa cinquanta centimetri, solidale con unafetta sottile, pur essa di canna, tesa ad arco, la quale nella parte libera scorre-va in un foro dalla banda opposta; mediante una leggera pressione dell’indi-ce, essa spingeva il proiettile, un tubetto di canna, di diametro inferiore diquello della canna dello schioppo. Nella sintesi costruttiva, il grilletto è tut-t’uno con la cinghia per portare lo schioppo ad armacollo, sicchè la genialesemplicità del giocattolo è veramente ammirevole.

Le bambine si accontentavano di recare “in processione” lo “stendardo”,costituito da un’asta lunga, su la cui estremità superiore si disponevano duestecchi ad X e due altri orizzontali, tenuti reciprocamente per contrasto.

Nel Capo di Sopra, dove abbondano la ferula e l’asfodelo, si facevano icavallucci con due tronchi di feruda, e sediette per bambole, adoperando glisteli di asfodelo, tenuti ad incastro.

Il sughero non ha sollecitato molto la creazione di forme, forse perchè lamateria resta un pò sorda. Solo di recente, assieme a brutti oggetti, su disegnidi artisti sono stati eseguiti anche ottimi modelli, previo trattamento delsughero. In Gallura, dove se ne produce e se ne lavora in maggior quantità, sitrova un maggior numero di tipi di manufatti. Naturalmente, alludiamo alleforme tradizionali, non alle aberrazioni–souvenirs degli ultimi anni, intar-siando il sughero grezzo con quello rifinito.

Del sughero si scelgono le forme naturali più adatte per servire da vasso-io per gli arrosti; ugualmente si ricavano recipienti cilindrici per vasi da fiori,

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per contenere latte e liquidi in genere, fra i quali molto diffuso l’uppu, collungo manico di legno. Belle le antiche misure, anche per le soluzioni degliincastri, delle giunture e del bordo. Dai nodi di sughero si fanno rustici bic-

chieri per le cantine, soprattutto per bere acquavite.

E curioso che alla pari del sughero, anche un’altra materia di pregio eabbondante, il cuoio, non abbia suggerito molte applicazioni. Notevoli con-cerie erano quelle di Bosa e di Sassari, ricercate per la qualità del cuoio. Masi conciava in tutte le case dei pastori ed anche dei contadini.

L’applicazione che ebbe larga diffusione fu la creazione dei finimenti percavallo, sia per uso quotidiano che per la bardatura a festa (Serramanna,

Santulussùrgiu) e per alcuni indumenti.Cinghie larghe e istoriate, fatte a stampo e a colori facevano parte del-

l’abbigliamento maschile; se ne fabbricano ancora, unitamente a portafogli eportamonete, a Dorgali. Si può dire chç quasi tutte le pelletterie si confezio-nano ancora in quest’ultimo centro. La produzione, però, è volta a modelliaggiornati di borse (Pattada, Bosa, Santulussùrgiu, Monserrato).

Le zucche sono state da tempo graffite, onde ottenere borracce per con-

tenere vino o acquavite o per usarle come fiaschette per la polvere da caccia.Delle svariate forme cucurbitacee, non sono mai state scelte quelle di formebizzarre – come si fa oggi, pirografandole malamente – ma quelle di formapiù comune, di sfera schiacciata. Si agganciava una cordicella o una striscio-lina di cuoio, per portarla a tracolla.

La lavorazone è in genere come quella dei corni incisi: scene religiose,con figure di santi, scene di caccia ed elementi floreali e geometrici. Il pasto-re graffiva con grande pazienza, nelle lunghe ore di sosta.

FIGURE 131–140

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131. Recipiente in sughero e cucchiaio con forchetta in legno

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132. Scatola in sugherone

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133. Recipiente in sughero

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134. Bamboline

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135. Donna di Ollolai e uomo di Núoro

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136. Girotondo e bambino

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137. “Launeddas”

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138. Zuffoli

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139. Raganelle

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140. Báttola

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I COSTUMI

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Oggi, chi desidera vedere raggruppati i celebri costumi, in numero dav-vero imponente, non ha che assistere alle sfilate, da molti anni ormai in calen-dario, che si tengono per la sagra di Sant’Efisio a Cagliari, per la “Cavalcata”di maggio a Sassari e per la festa del Redentore a Nuoro. Queste sfilate costi-

tuiscono un museo vivo, che si rinnova ogni anno al sole dell’Isola; ma chidesidera fare un ponderato esame di essi, c’è a Nuoro, sebbene ancora incom-pleto, il Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde. E difficile trovareormai i costumi nel loro ambiente naturale, anche nei paesini più sperduti del-l’interno. In qualche centro barbaricino ci si può ancora imbattere, nei giorniferiali, in persone anziane che non hanno mai abbandonato il costume di fog-gia tradizionale e, nei di festivi, in qualche giovane donna in costume, aDésulo.

Certo, poterli vedere in gran numero nell’ambiente del villaggio o nelle

sagre campestri, come avveniva fono al primo quarto del presente secolo, eraben altra emozione.

“Ma il nostro timore – scrivevano negli anni Trenta l’Arata e il Biasi –èche la vita moderna, col suo travolgente impeto che sposta e sgretola valoricon rapidità vertiginosa, faccia sparire anche questa espressione etnografica,nonostrante lo spirito tradizionale della razza tenti di ritardare quello svilup-po graduale che trascina uomini e cose in una evoluzione costante e precisache, spesso, nessun urto può far, deviare o arrestare. E ciò sarà un gravedanno per l’integrità della nostra Isola e per le caratteristiche fisionomiche

della nostra razza”.I Sardi sembrano però aver preso coscienza di ciò, se in ogni cassone tra-

dizionale tengono riposto un costume di gala preziosissimo, da indossare perle grandi sfilate. Rispetto a mezzo secolo addietro, anzi, il patrimonio incostumi è oggi forse superiore, se si pensi che alcuni centri, dove se l’eranoscordato, se lo sono ricostruito attraverso le documentazioni grafiche e lette-rarie dell’Ottocento.

Indossati una volta sia dal modesto lavoratore che dal benestante

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maggiorente in tutti i giorni dell’anno, si può dire che i costumi abbiano dura-to a lungo, incalzati dal progresso travolgente. Fino alle soglie del nostrosecolo, tutti i centri sardi dovevano apparire gai, come parati a festa: costumi

contro i ferrigni murati montanari e contro il gialliccio dei mattoni crudi, neicentri di pianura. Da un centro all’altro era una sorpresa: resta infatti da inda-gare il perchè della differenza dei costumi sgargianti al di qua di un modestorilievo e altri invece più austeri una volta superato il colle, o il perchè dellediverse fogge di copricapo – che costituisce forse l’aspetto più saliente –come per esempio, tra la cuffietta di Désulo col copricapo muliebre della vici-na Tonara, del severo fazzolettone giallo delle orgolesi col composto fazzo-letto delle donne di Nuoro.

Non solo non è semplice, ma è addiritura arduo indagare a quando icostumi risalgono. Dalle collezioni di stampe ottocentesche e dalle descrizio-ni entusiastiche degli scrittori che visitarono l’Isola nel secolo XIX, è quasiimpossibile poter risalire alle origini. Si pensi che oggi li vediamo già diver-si da come appaiono nelle rappresentazioni figurative di allora, tempere,acquarelli e litografie, quasi tutti ottocenteschi: sono stati, cioè, soggetti a unacontinua evoluzione, seppur talvolta lenta; il fatto che gli indumenti muliebrinon siano rimasti cristallizzati, è un fatto squisitamente femminile, come

dimostra anche il raffronto con il costume maschile, che non ha subito sensi-bili modifiche.

Credo che l’autentica storia, scientificamente credibile, del costumesardo resti nei desideri di chi si proponga di affrontarlo: esso sembra sfuggi-re, infatti, a qualsiasi analisi comparativa, come giustamente fece osservareFrancesco Alziator. Uno studio responsabile implica una documentazionemuseografica di tutta l’area nazionale non solo, ma anche delle regioni alleestremità del Mediterraneo, chè soprattutto dalla Spagna diversi costumidevono essere pervenuti. Si trovano, infatti, qua e là, assieme ad elementi chepossiamo ritenere indigeni, elementi comuni ad altre culture. Questo, perquanto concerne le origini, che si vorrebbero molto antiche. Ma già nelMedioevo erano in atto influenze esterne. Si sa che sotto la repubblica, aSassari si lavorava panno lombardiscu; antiche carte parlano di tela finissima,di fustagni rigati, oltre che di orbace. I Barbaricini barattavano i loro prodot-ti dell’agricoltura e della pastorizia, stoffe, tra cui il costoso broccato, con iPisani e con i Genovesi, i quali li acquistavano dai paesi del Mediterraneoorientale. Nel Cinquecento erano fiorenti alcune fabbriche di stoffa, dato l’ac-

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cresciuto numero dei filatoi. G. Cossu riferisce che nel Settecento era lodatala tela di lino tessuta a Sassari, “la più compatta e fina di quante altre tele sihanno nel regno”. Il Comune di Sassari, con l’intento di formare allievi, nel

1834 incoraggiò e finanziò una fabbrica di “tela a scacchi”, ma l’industrianon diede i risultati sperati e durò poco.

L’arte del conciatore è anch’essa antichissima, e in alcuni centridell’Isola la trasformarono in industria fiorente: e anche quest’attività ebbeinfluenza sullo sviluppo di alcuni indumenti maschili.

Come è accaduto per altre produzioni artigianali (tele da muro e “tappe-ti”), già dal punto di vista coloristico e decorativo, è facile il riscontro delladifferenza sensibile tra costumi antichi e quelli fino a noi pervenuti. L’orbace– che resta il tessuto fondamentale per l’abbigliamento – si tingeva con tinte

vegetali, che assumevano tonalità meno vivaci; con l’introduzione di coloran-ti forniti dall’industria, si ebbe una brillantezza maggiore. Fra le tinte, ha pre-dominato sempre il rosso scarlatto: risalendo nel tempo, il rosso ricordava ilsangue e il fuoco.

Le dominazioni che si sono succedute hanno dato apporti, e poichè gliSpagnoli sono stati nell’Isola in unarco di ben quattrocento anni, possiamoimmaginare che buona parte sia stata assoggettata ad influenza spagnola.Mode e gusti continentali non è possibile non abbiano inciso sul costumefemminile; nobildonne e mogli di funzionari spagnoli devono essere stati i

veicoli di novità della moda, dal Trecento al Settecento.Già dalla metà del secolo scorso si notava l’imbastardimento dei costu-

mi in prossimità della costa, nel Campidano, nelle due città principali e nellazona mineraria dell’Iglesiente, poichè si sono verificati ivi più frequenti con-tatti esterni. Meno contaminati risultavano, ancora nel primo quarto del pre-sente secolo, i costumi dei centri ricadenti nella fascia orientale dell’Isola(dalle coste poco accessibili) e della zona centrale. Già una differenza esiste-va tra il costume di tutti i giorni e quello di gala, più rappresentativo e, per-tanto, conservandosi meglio, restava più fedele agli antichi modelli, menoinfluenzato da mode esterne.

Diamo inizio ad esaminare il costume maschile, che quasi certamente èil più antico ed il più stabile e quasi sempre unitario. Si presenta, intanto, conun’unica fisionomia in tutta l’area regionale, con qualche variante locale. E ilcostume che il tempo ha selezionato, soprattutto per la praticità, in rapportoal clima; esso non presenta niente di superfluo e di arbitrario. Il berretto fri-

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gio è il primo elemento saliente, anche se comune a molti popoli delMediterraneo: era portato con disinvoltura in diversi modi, a cecciu o ripie-gato sul davanti, nelle Barbágie, o con la punta sul petto, in Gallura e nel

Sassarese, o buttato sulle spalle, nell’Ozierese; ed anche di colore diverso dalnero. La berritta, che in origine era corta, andò allungandosi considerevol-mente negli ultimi tempi.

In Campidano, attorno alla berritta veniva annodato sul davanti un faz-zoletto rosso.

Altri elementi originali erano costituiti dalle ragas (dal greco rhacos),una sorta di corto gonnellino di orbace quasi sempre nero, bordato, con ampiapieghettatura. Sotto, le larghe braghe di tela bianca, libere al ginocchio o rien-trate nei borzacchini, del tipo a uosa, in genere con abbottonatura laterale, e

anch’essi di orbace nero, come le scarpe un tempo lunghe e appuntite. Sullacamicia bianca, un corpetto nero o scarlatto o d’altro colore (corittu o corpet-tu), adorno di doppi bottoni d’argento, stretto al busto con larga cintura dicuoio e una sorta di giacca corta o gabanella (gabbanu), munito di cappuc-cio. Sopra il corittu, poteva esserci il collettu, in genere di cuoio conciato etrapunto di ricami, terminante in gonnellino e stretto alla vita da una largafascia.

Una variante semplificativa era costituita da pantaloni lunghi di orbace odi velluto (Santulussùrgiu, Paulilátino, ecc.). I pescatori avevano le braghe

libere ed erano scalzi (Cabras). A Cagliari, la guardia d’onore a cavallo, icosidetti “miliziani di Sant’Efisio” indossavano il giustacuore scarlatto, conmaniche lunghe e bordato da due strisce nere; berretto rosso, tronco conico,derivato dal fez.

Una giacca corta, senza maniche, più o meno trapunta di ricami, era dipelle di agnello e poteva essere indossata in luogo della gabanella, sopra ilcorittu. Elemento dei più antichi era la mastrucca, di pelle villosa, comune amolti popoli del Mediterraneo. Cicerone la chiama “sarda”, per la sua diffu-sione: indumento pratico e igienico a un tempo, senza maniche, arrivava alginocchio, ma spesso scendeva fino ai piedi.

Invece della mast rucca, poteva essere indossato il gabbano di orbacenero, bordato, lungo anch’esso fino ai piedi; forse, era di derivazione latina.Nel Campidano veniva indossato il cappottu serenicu (cappotto della sera),una sopraveste con cappuccio, col rovescio di color scarlatto. Erano variantidel saccu de coberri, pluriuso, per coperta e giaciglio.

A questo schema fa eccezione il costume maschile di Teulada, nel Sulcis,centro vivace che era, fino a qualche decennio addietro, uno dei più caratte-

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rizzati dell’Isola: privo di ragas, i calzoni molto lunghi sotto al ginocchio, deltipo valenzano–murciano. L’elemento saliente era costituito anche qui dalcopricapo che, invece del berretto frigio usato negli altri centi del

Sulcis–Iglesiente, era costituito da un cappello grigio chiaro a larghe tese, peril riparo dal sole, certamente anch’esso di origine spagnolesca (sumbreri).Dalle braghe a campana, con spacco, di orbace o di velluto nero, fuorusciva-no i borzacchini. La camicia ad ampie maniche aveva un altissimo collettoinamidato, aperto sul davanti, finemente ricamato. I giustacuore erano borda-ti di verde e avevano doppia bottoniera, con monete d’argento. Il pettoralericamato è comune a molti popoli.

A parte questa variante di Teulada e altre meno importanti di Carlofortee di La Maddalena, decisamente di tipo genovese, gli indumenti maschili pos-

sono ritenersi autenticamente indigeni; ma è un pò arduo poter individuare lediverse componenti storiche, senza dubbio molto lontane nel tempo.

Completamento dell’abbigliamento maschile era l’acconciatura deicapelli: i pastori si lasciavano crescere la barba, i contadini usavano di prefe-renza la treccia.

Sono anche interessanti, oltre i gioielli, i tipi di cintura e l’arma da tagliocol manico riccamente lavorato, che veniva infilato nella cintura. Con l’avven-to delle armi da fuoco, alla cintura si sovrappose la cartuccera (carrighera).

Non si può tralasciare di accennare ai costumi delle corporazioni di

mestiere, i gremidi Sassari, di derivazione interamente spagnola. E caratteri-stico il grande cappello nero di feltro a larghe tese montate sui fianchi; unasecentesca cappa nera scende fino ai piedi e una zimarra piuttosto lunga stasopra la giacca a falde corte, nera, e neri sono i calzoni corti, le calze e le scar-pe, con fibbia. Invece della zimarra, altri indossano il cogliettu, di cuoio gial-lo. I maggiorali indossano una casacca nera a falde corte, bordata di bianco,come bianco è l’ampio colletto rigido; la camicia, ricamata, è a collo alto.

Differenti costumi indossavano a Cagliari il rigattiere, il pescatore, ilmacellaio, il maiolu (lo studente inurbato, a servizio d’una famiglia).

L’uomo a cavallo col fucile era un figura frequentissima in tutta l’Isola,come un quadro ottocentesco comune era costituito dalla coppia a cavallo,uno dei motivi ricorrenti nella decorazione dei tessuti.

Oggi, il costume maschile di montagna si è modernizzato in un tipicoindumento detto, appunto, alla montagnina: giacca di velluto o di fustagno,berretto alla ciclista e pantaloni alla cavallerizza tenuti da gambali neri. Equanto resiste di una lunga tradizione, segno della praticità per i lavori agri-coli e pastorali.

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Non è da escludere che certe affinità esteriori possano essere statesemplicemente casuali. Sono stati fatti accostamenti, soprattutto per gli indu-menti femminili, con costumi magiari, dalmati e dei Balcani, che a loro volta

trovano radici nel Mediterraneo orientale (si è pensato anche a Creta). Icostumi della Barbágia ricordano quelli di Corfù e della Macedonia, ornati digioielli alla filigrana. Le sottane a fittissime pieghe e i corsetti con maniche asbruffi si incontrano anche presso altri popoli.

Anche nel costume femminile è soprattutto il copricapo a costituire l’ele-mento distintivo. Può essere la pezzuola bianca di lino di derivazionemedioevale, o colorata, o il cappuccio o la cuffietta, o il fazzolettone a mantoricandente o annodato a cercina o composito, o il velo ricamato a mantiglia.

La bianca camicia ricamata, il corsetto, il giubbotto (gippone), la gonna ed

il grembiule sono le costanti che col mutar di forma e di colore, raggiungonouna varietà veramente sorprendente. Improntati a sobrietà, austerità o a riccafantasia, sono sempre mirabili per l’eleganza, gli accordi cromatici, l’euritmia.

I costumi non sono fissi (i più stabili` sono quelli di area barbaricina).Variano poco strutturalmente, mutano invece le qualità delle stoffe, i colori,le decorazioni.

L’uso di capovolgere il lembo della gonna sul capo è comune a molticentri dal costume differenziato, dai paesi dell’Oristanese, a quelli dellaGallura e del Sassarese.

La camicia, più o meno scollata, più o meno ricamata, valorizza sempreil petto, con la collaborazione dell’attillato corsetto, i cui modelli possonoessere stati tanto italiani che spagnoli. Il corsetto varia notevolmente di forma:dai centri del Goceano a quelli del Gennargentu, a quelli del CampidanoMaggiore. In questi ultimi costumi, dai colori tendenti al giallo e all’avana, ditonalità raffinate, un fazzoletto quadrato o una pezzuola di stoffa bianca e fer-mato dal corsetto, ha contribuito ad attenuare la scollatura della camicia (laquale, tra corsetto e gonna forma un perfetto toro, tutt’attorno). Furono i padrigesuiti, tra la fine del Settecento ed il principio dell’Ottocento, a suggerirequesto accorgimento per smorzare l’effetto del petto esuberante, e l’uso si dif-fuse in altre subregioni. Il corsetto è di velluto nero (Goceano) o di broccato afiorami d’oro e di forme diverse, terminante anche a punte, con ampia apertu-ra sul davanti; il gippone gioca sulle maniche ornate di bottoni a filigrana,dalle cui aperture escono gli sbuffi di diversa foggia della camicia.

La lunga gonna è più o meno scampanata e pieghettata; la reggono più sot-togonne e sul davanti è coperta dal grembiule, che è in genere il capo che carat-terizza maggiormente il costume. Fra i più notevoli, sono quelli delle donne di

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Orgósolo, con ornamentazioni stilizzate. Per le grandi solennità, usano esporlicome un gran pavese, traversalmente alla strada principale del paese, su fili tesiin alto fra le case, conferendo all’ambiente una vivacità straordinaria e mostran-

do altrettanto straordinaria varietà di motivi. Il grembiule è la parte forse piùoriginale del costume di Nuoro: di panno scuro, leggermente più corto all’estre-mità superiore che in quella inferiore, sui quali spicca una fascia larga, dovepiccoli motivi si rincorrono. Gli altri due lati, verticali, sono bordati di colorivivaci. Al di sopra dell’ampia fascia, sono disposti, con visibile contrasto, dellepiccole palmette stilizzate. Nei giorni di festa venivano indossati unitamente aun giubotto scarlatto tutto sciolto con spacchetti sulla gonna di lana nera a cre-spe che, stringendo i fianchi, scendeva fino alla caviglia.

Oltre al grembiule, l’altro elemento che dà tono al costume di Orgósolo

è la benda gialla che avvolge il capo e il mento.In Ogliastra, il costume è contrassegnato da una cappottina sulla testa,

tenuta ferma da una catenella d’argento passante sotto il mento.A Ploaghe, l’elemento distintivo è ancora il copricapo: le donne indossa-

no una pezza rettangolare di panno color arancione; quattro pezzuole di rasoazzurro sovrapposte ad essa, delimitano al centro una croce. Questa manti-glietta è chiamata su manteddu, e compone bene col resto, fatto di raccordi dirosso, nero e azzurro e pezze scarlatte sul nero della gonna, detta sa tùniga,con alta banda azzurra.

Le donne di \lìllanova Monteleone, di Ittiri, di Thiesi, di Bonorva e dialtri centri del Logudoro si distinguono per la mantiglia: un grande velo bian-co ricamato compone col grembiule trasparente sulla gonna.

Le sennoresi indossano sul capo una pezzuola bianca caratteristica, chespicca sul corsetto dorato e l’ampia gonna pieghettata.

Le osilesi indossano sopra il soggolo monacale, una cappetta monocolo-re orlata, la cappitta (il costume è cambiato notevolmente dalla finedell’Ottocento ad oggi: prima era monacale, la gonna veniva rovesciata sulcapo, si vedevano soltanto gli occhi).

E ancora la pezzuola candida sul capo che distingue il bel costume diAtzara, in cui spicca il gippone riccamente decorato.

Il costume delle desulesi è caratterizzato dal cappuccio e dalla cuffietta.In alcuni centri, come Nule, Bitti e Oliena, il copricapo è costituito da un

grande sciallo nero o viola a fiorami; in altri, come ad Anela, il fazzoletto èpiegato sotto mento.

Ma, non rientra nel nostfo assunto fare la descrizione dei numerosi costu-mi femminili. Basterà ancora dire che come i tessuti, i costumi mostrano un

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diffuso, innato gusto del colore e dell’euritmia. Sono accordati oppure a con-trasto, mai stonati. Nello stesso villaggio sussistono diversi modi di vestire:per nubile, per coniugata, per vedova, e per avvenimenti lieti o tristi.

Anzichè sgargianti, le tinte si trasformano in spente, o viceversa. I con-trasti cromatici sono sempre vigorosi, brillanti. C’è inoltre da segnalare undiffuso gusto del particolare.

Facciamo qualche considerazione sulla formazione degli indumenti,senza per altro avere la pretesa di affrontare un profilo stronco che – come siè osservato – è tutt’altro che agevole e ancora prematuro, fino a che non verràaffrontato lo studio etnografico su più vaste aree mediterranee. Un prezioso

contributo ha fornito Francesco Alziator con la presentazione della raccoltaCominotti e della collezione Luzzietti, indicando quale è la giusta via daseguire per uno studio scientifico definitivo.

I costumi sardi per gran parte andarono profilandosi nelle sub–regionistorico–geografiche dell’Isola (Logudoro, Gallura, Goceano, Barbágia,Ogliastra, Campidano, Sulcis) e attorno alle due città di Cagliari e di Sassari,oltre ai centri settecenteschi di Carloforte e di La Maddalena.

Centri di diffusione della moda dovettero essere alcune residenze di feu-datari, soprattutto tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento: i

soffi di mode nuove continentali trovarono nell’Isola terreno fertile ed imodelli aulici dovettero suscitare una certa suggestione sui popolani: il sem-plice, austero vestiario tradizionale si andò sostituendo con fogge di influen-za aulica, aristocratica, tra le quali la più notevole quella di ascendenza spa-gnola. Dal Settecento in poi subentrano, con i Savoia, le mode francesi.Vediamo, ora, tuttavia, di esaminare quei capi di vestiario che sembrano,invece, denunciare una ascendenza molto più lontana.

I bronzetti ci forniscono una testimonianza molto sommaria della foggiadegli indumenti di età nuragica, i quali si possono interpretare piuttosto poveri.Sembra, tuttavia, di scorgere il prototipo di uno dei capi più originali del costu-me maschile, le ragas, in qualcuna di esse figurette. Alcuni altri autori sostengo-no invece che derivano dall’indumento portato dai soldati romani sotto la lorica.

In altri bronzetti si può, forse, scorgere la prima forma del collettu, sequesto indumento è da individuarsi – come dissertava Francesco Cetti, nelCinquecento – nella mastrucca degli antichi, che non coinciderebbe con lamastrucca che intendiamo oggi, altrimenti detta besti ‘e peddi, la pelliccia. Icalzoni di lino bianco risalirebbero invece a epoca bizantina.

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La camicia, tenuta sempre larga, abbondante, sia quella del costumemaschile che quella del costume femminile, è certamente derivata dalla tuni-ca. Oggi, come ci è stato tramandato, i bambini siamo abituati a pensarli sem-

pre vestiti come gli adulti, ma dalla documentazione iconografica ottocente-sca, la veste quotidiana del bambino era costituita in genere da una camicia atunica di lino bianco, stretta sui fianchi.

Nel commento alla famosa terzina di Dante riguardante le donne diBarbágia, Benvenuto da Imola così si esprimeva: “Nam pro calore et 

 prava consuetudine (mulieres) vadunt indutae panno lineo albo, excollataeita ut ostendant pectus et ubera “. Cioè, egli ha dato un accenno all’indumen-to particolare. Qualcuno ha ricollegato questa foggia a quelle raffigurate nellemaioliche micenaiche provenienti dal Cnosso, rappresentanti la cosidetta dea

dei serpenti, dal petto scoperto, tenuto da un corsetto molto stretto alla vita erecante un breve grembiule sulla lunga gonna a campana.

Nella Cronica di Giovanni Villani (VI, 80), là dove parla dei costumi diFirenze, Francesco Alziator crede di aver trovato gli elementi di fondo delcostume femminile: “Par di leggere un brano scritto apposta per la Sardegna:i grossi drappi non possono che essere tessuti di lana, simili all’orbace isola-no. Le pelli senza fodera, le barrette, la gonna scarlatta stretta, la grossa vestedel cambraggio sono elementi ancora vivi nella tradizione popolare sarda”(“La collezione Luzzietti”, pag. 15). La materia usata può certamente farsi

risalire al Medioevo e così alcuni capi di abbigliamento, non certo nella fog-gia come sono giunti fino a noi. Nel Cinquecento e nel Seicento, le fonti let-terarie dicono che i Sardi vestivano “vilmente”, di “vilissimo panno”(Sigismondo Asquer), ma parte della popolazione – come abbiamo già ricor-dato – usava dal tempo dei Pisani e dei Genovesi i broccati e le stoffe prezio-se. Nei documenti settecenteschi si parla più esplicitamente degli indumentiindossati dai popolani, facendo distinzione fra costoro e quelli di città, che –come scriveva Francesco Cetti – “vestono stoffe e forme francesi”.

 Il collettu, che può essere derivato dallo spagnolo coleto, a sua volta daltoscano colletto, può anche avere derivato il nome direttamente, al tempo deiPisani, quando – come abbiamo detto – doveva essere da tempo in uso.

Le opere di pittura non sono molte nell’Isola, ma è davvero significativose non singolare il fatto che non abbiano stimolato la fantasia dei pittori. Siconosce solo un quadro, risalente probabilmente al Seicento inoltrato, conser-vato nella chiesa di San Lussorio di Bórore, il quale contiene figure di popo-lani in costume. Esso ed alcuni ritratti settecenteschi raffiguranti personaggi incostume non sono certo sufficienti a dare un panorama, come quello che tra la

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fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento ci offrono le documen-tazioni grafiche. Diremo che le prime appaiono come costumi ancora non benconsolidati e, soprattutto quelli femminili, non così brillanti come si presenta-

no i costumi fino a noi pervenuti. D’altra parte, certi particolari si sono cristal-lizzati, come le ragas nere e la berritta, parimenti nera, e lunga. A volte leragas potevano essere, infatti, di diverso colore e così il berretto frigio. In una,forse la più antica, raffigurazione del “ballo tondo”, in un bassorilievo dellachiesa di San Pietro di Zuri, dovuta ad Anselmo da Como, appare per la primavolta la berritta sul capo delle cinque figurine che si tengono per mano.

Fenici e Cartaginesi sono stati, verosimilmente, i primi che introdussero ele-menti di costumi, modificati durante il lungo periodo romano e, successivamente,arricchiti da apporti continentali, genovesi, pisani, catalani, spagnoli, piemontesi.

Ma, come si è detto, l’indagine stilistica e i possibili raffronti sfuggono aqualsiasi analisi nel vasto campo degli indumenti femminili. Si può solo direche molti di essi presentano sicure influenze sei–settecentesche, non sono,cioè, di ascendenza molto antica, come generalmente si crede. Per esempio,uno dei più famosi, quello di Osilo, ha di antico solo il modo di inquadrare ilviso in una candida benda, mentre tutto il resto ha caratteri settecenteschi.

Il fatto che il vestiario femminile sia sempre composto di due parti (cor-setto e gonna), non può essere molto antico. La nomenclatura dei capi è quasitutta di derivazione spagnola: mantiglia, cossu, giponi, sumbreri, ecc.

(Sciallu deriva invece dal francese châle).Abbiamo accennato che già gli scrittori dell’Ottocento lamentavano le

infiltrazioni di mode forestiere e la sparizione, fin da allora, addiruttura diindumenti che si usavano nel Settecento. Il La Marmora fu indotto, nelle edi-zioni del suo Atlas di costumi (disegnati dal Cominotti) ad apportare modifi-che, perchè a breve distanza di tempo alcuni centri avevano già mutato indu-menti, soprattutto la foggia del copricapo ed il rapporto cromatico.Confrontando le varie tavole tra la fine del Settecento e quelle che seguirononell’Ottocento, notiamo la sensibile evoluzione e, ciò che desta maggiormeraviglia, che gli ultimi non sono ancora quelli che sono giunti sino a noi.Una buona documentazione, fedele, del primo quarto del presente secolo, èdato dalle tele di Filippo Figari, soprattutto quelle del Palazzo Civico diCagliari, e dalle numerose opere sparse di Giuseppe Biasi: i due illustri pitto-ri fecero in tempo a cogliere e a ritrarre gli ultimi bagliori di una Sardegnaancora incantata.

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141. Costumi di Sénnori

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142. Costume di Ósilo

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143. Costumi di Ploaghe

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144. Costume di Cabras

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145. Costume di Santa Giusta

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146. Costume di Sinnai

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146. Costume di Quartu S. Elena

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144. Costume di Tonara

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149. Costume di Désulo

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150. Costume di Núoro

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Molte pagine sono state dedicate, dall’Ottocento ad oggi, al folklore figurato dellaSardegna, specie all’architettura rustica, ai costumi e ai tappeti; per la maggior parte, però,trattasi di scritti di impressione. La prima trattazione organica, sotto il profilo storico–artisti-co, è stata affrontata egregiamente da G.V. Arata e G. Biasi, nel volume  Arte Sarda, publica-to a Milano nel 1935.

Per la bibliografia sull’architettura rustica, si rimanda al volume dell’autore Architetturadomestica in Sardegna, edito a Cagliari nel 1957. Gli scritti posteriori a questa data sono stati

qui di seguito registrati, seguendo l’ordine alfabetico per autore di tutta la materia trattata:

ALBIZZATI C., Tapinu de mortu, in “Mediterranea”, 1(1927), fase. 9, pag. 14 e segg. Due archibugi sardi in un museo di Milano, in “Mediterranea”, 11(1928), n. 2, pag. 7 esegg. Arche di Sardegna, in “Mediterranea”, 111 (1929), fase. 9, pag. 12 e segg.

ALZIATOR F., Decorazione delle casse sarde, in “Mediterranea”, IV(1930), fase. 10, pag. 29e segg.Fonti letterarie ed iconografiche del costume sardo, Gubbio, 1954.

Costume sardo ecostume miceneo, in “N.B.B.S.”, I, 1955,1V, pag. 1. A Creta i primi modelli dei costumi sardi, in “L’Unione Sarda”, LXVIII, 1956, n. 202.Fonti su antichi indumenti sardi, in “N.B.B.S. “, II, n. 9, pag. 10. Il folklore sardo, Cagliari, 1957. La raccolta Cominotti, Roma, 1963. La collezione Luzzietti, Roma, 1963.

ANGIONI A., Tappeti sardi e moderni, in “Cagliari Economica”, 1958, n. 3.

ARATA G.V., Arte rustica sarda: I: Gioielli e utensili intagliati, in “Dedalo”, 1(1920), fase.10, pag. 698 e segg. II: Ricami e tappeti, ib., 1(1920), 12, pag. 777 e segg. III: Mobili e arredi domestici, ib., 11(1921), fase. 2, pag. 130 e segg.

ARATA G.V., BIASI G., Arte sarda, Milano, 1935.

ARU C., Un’arte che muore ed un museo che nasce, in “Lares”, 1933, nn. 1–2. Argentari cagliaritani del Rinascimento, in “Pinacoteca”, 1928–29, II, pag. 197 e segg.

ATZORI M., Il linguaggio degli oggetti in Sardegna, in” La Nuova Sardegna”, 15 maggio1979, pag. 3. Attrezzi agricoli a Guasila, in” BRADS”, 1968–197 1. Note sull’artigianato di Bosa, in “Il Convegno”, 111–1V, 1977. Artigianato tradizionale della Sardegna. L’intreccio. Co rbuleecanestri diSinnai, Sassari1980.

AUTORI VARI, Plastica effimera in Sardegna, Cagliari, s.d. (a cura della Regione Autonomadella Sardegna, Assessorato all’Industria).

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ni di salice e canna” – “Il motivo della greca nella cestineria” – “Il gatò della Candelorae il miele di Aristeo” – Il Katalufa” – “Erba sacra e palme operate” – “I coltelli di Pattadae la magia dell’integlio” – “A forma di uccello” – “La zucca graffita”).  Architettura epaesaggio in Sardegna, Sassari, 1981; schede nn. 92–93–94–

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CENTRI NOTI NELL’ISOLA PER PARTICOLARIATTIVITÀ ARTIGIANALI IN PASSATO E OGGI

Le attività scomparse sono in tondo, quelle ancora attuali in corsivo.

ABBASANTA Morsi per bardatura di cavallo.AGGIUS Tessitura (tappeti e stoffe).

ALGHERO  Lavorazione del corallo, oreficeria.

ARITZO Cassoni nuziali, canterani e utensili di castagno.

ASSEMINI Sedie, brocche e stoviglie di terracotta, lavorazionelegni (mobili), pipe di terracotta.

ATZARA Tessitura (tappeti).

BANARI Fornelli di terracotta.

BARISARDO Tessitura (tappeti).

BITTI Tessitura (tappeti).

BOLOTANA Tessitura (tappeti).

BONORVA Tessitura (arazzi e tappeti).

BORONEDDU Oggetti di férula, di salice e canna (cestini).

BORORE Tessitura (coperte e tappeti).

BOSA Oreficeria, lavorazione del legno, filet, nasse, cesti-neria di salice e canna, lavorazione pelli.

BUDDUSÒ Cassoni e mobili intagliati.

BUDONI  Lavorazione ferro.BUSACHI Tessitura (tappeti).

CABRAS   Imbarcazioni di stagno (“fassonis “), capanne di“cruccuris ‘ ceramica.

CAGLIARI  Lavorazione legni, ferro; ceramica, bronzo, argente-ria e oreficeria, archibugi, ricami.

CALANGIANUS Sugheri lavorati.

CARBONIA  Lavorazione ferro.

CASTELSARDO Cestineria di palma nana.

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CHIARAMONTI Tessitura (tappeti).

CUGLIERI Trine, tele ricamate, lavorazione legni, oggetti dicanna.

DECIMOMANNU Stoviglie e pitali di terracotta.DESULO Tessitura (orbace), utensili di castagno.

DORGALI Tessitura (tappeti e arazzi), zucche lavorate, cerami-che, cuoi lavorati, lavorazione legni, coltelli, orefi-ceria, archibugi.

FLUSSIO Cestineria di asfodelo.

GADONI Tessitura (orbace).

GALTELLI Oggetti di ferula.

GAVOI Speroni e morsi da cavallo, orbace a più colori,

argenteria (rosari), lavorazione sugheri.GIBA Tessitura (tappeti).

GONNOSNÒ Tessitura (strisce).

IGLESIAS Argenteria

ISILI Tessitura (tappeti), oggeti di cuoio, rami, graticole,cassoni.

ITTIRI Tessitura (tappeti e coperte), trifle e tele ricamate,legni intagliati, cestineria di refe.

LURAS  Lavorazione sughero.

MACOMER Tessitura (orbace), lavorazione legno (cassoni).MAMOIADA  Legni intagliati, maschere carnevalesche, armi inta-

gliate.

MEANA SARDO Tessitura (arazzi).

MILlS Canna tessuta, oggetti di canna.

MOGORO Tessitura (tappeti, arazzi).

MONSERRATO  Lavorazione pelli.

MONTRESTA Cestineria di asfodelo.

MORGONGIORI Tessitura (tappeti, arazzi).

MURAVERA Tessitura (tappeti, bisacce), launeddas.NULE Tessitura (tappeti giganti, arazzi), ricami.

NUORO Oreficeria, argenteria, legni lavorati, maschere car-nevalesche, zucche lavorate.

OLBIA Ceramica

OLIENA  Ricami.

OLLOLAI Cestineria di asfodelo.

OLZAI Cestineria di asfodelo.

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ORANI  Brocche e brocchette di rame. Lavorazione legno.

ORISTANO Stoviglie di terracotta, ceramica, trifle e tele ricamate.

OROSEI Pipe, lavorazione legno (mobili).

ORUNE Tessitura (orbace).OSIDDA Tessitura (tappetini di lana).

OSILO Tessitura (orbace, tappeti, bisacce), tovagliati.

OTTANA  Legni intagliati, maschere carnevalesche.

PABILLONIS Stoviglie di terracotta.

PATI’ADA Coltelli a serramanico, tosatrici, lavorazione dellegno e del cuoio.

PAULILATINO Tessitura (coperte di lino con tecnica “apibionis”).

PLOAGHE Tessitura (coperte, arazzi), lavorazione legno.

POZZOMAGGIORE Tessitura (tappeti, coperte di lino bianco e di lanacolorata).

QUARTU SANT’ELENA Oreficeria, dolci di pasta di mandorle.

SAMUGHEO Tessuti (tappeti).

SANT’ANTIOCO Tessitura (tappeti), filet, lavorazione bisso.

SANTA GIUSTA Tessitura (coperte, tappeti), tovagliati, palma lavo-rata.

SAN VERO MILlS Cestineria di giunco (“zinniga “) e paglia.

SAN VITO Tessitura (tappeti e bisacce).

SANTULUSSURGIU Casse nuziali intagliate, tessitura (tappeti e coper-te), cuoi lavorati, finimenti di cavallo, coltelli e tosa-trici, morsi per bardatura di cavallo.

SARDARA Tessitura.

SARULE Tessitura (tappeti e tappeti giganti).

SASSARI Ceramica, argenteria, oreficeria, lavorazione dellegno, corni intagliati, pupazzi, cestini di vimini ecanna, zucche lavorate.

SCANO MONTIFERRO Tessitura (coperte tipo Pozzomaggiore, tovagliati).

SELARGIUS Cera, ceramica, lavorazione legni.SEDILO Tessitura (coperte e tappeti).

SENEGHE Cassapanche intagliate, tovagliati.

SENNORI Cestineria di palma nana, ceramica.

SERRAMANNA Finimenti per cavalli.

SESTU  Lavorazione legno.

SIAMANNA Tessitura (tappeti).

SETTIMO S. PIETRO Tessitura (tappeti).

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SINISCOLA  Lavorazione legno, ceramica (terracotta).

SORGONO  Lavorazione del legno.

SORSO Cestineria di palma nana.

TADASUNI  Lavorazione sugheri.TEMPIO PAUSANIA  Archibugi, armi bianche, oggetti in pelle e in sughero.

TEULADA Pipe, tovagliati e ricami.

TINNURA Cestineria di asfodelo.

TONARA Campanacci, tessitura (coperte e tappeti), lavora- zione legno, barilotti e fiaschette, cassoni.

TRAMATZA  Zucche lavorate.

TRINITA D’AGULTU Cestini di vimini e canna.

ULASSAI Tessitura (tappeti e tende).

VILLAGRANDE Tessitura (bisacce e asciugamani).VILLANOVA

MONTELEONE Tessitura (coperte e tappeti).

ZEDDIANI Tessitura (coperte di lino), stuoie di biodo, cestine-ria.

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Indice delle illustrazioni

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1. Assémini, portale d’ingresso a uncortile

2. Assémini, cortile fiorito3. Assémini, cavallucci di terracotta sul

crinale d’un tetto4. Villasor, pozzo davanti a un loggiato

5. Villasor, cortile fiorito6. Samassi, casa con loggiato7. Samassi, interno di una “lolla”8. Abbasanta, antica casa con loggiato

su strada9. Ingresso a una casa montanara

10. Serramanna, chiesa campestre11. Cassone nuziale, particolare12. Cassone nuziale, particolare13. Cassone nuziale14. Cassone nuziale, particolare15. Sedia impagliata

16. Mostra di piatti17. Sedie di Assémini18. Mastello in ginepro19. Tagliere intagliato20. Cucchiaio e forchetta in legno21. Maschera22. Corno intagliato23. Scatole in corno con coperchio24. Bicchiere in corno intagliato25. Bicchiere in corno26. Fiaschetta per polvere da sparo, in

corno27. Zucca intagliata28. Zucca intagliata29. Fermacarte in steatite30. Fermacarte in steatite31. Cavallino poggia spiedo, graticola,

spiedo, muflone32. Bueinferro33. Muflone in ferro34. Capra in ferro35. Cavallino in ferro36. Isili, rami37. Castelsardo, cesto in rafia

38. Castelsardo, cesto in rafia39. FlussIo, corbula in asfodelo40. FlussIo, canestro in asfodelo41. Flussio, cesto in asfodelo42. Montresta, cesto in asfodelo43. Montresta, cestone con coperchio

44. Sínnai, canestro in giunco45. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco46. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco47. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco48. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco49. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco50. Sínnai, canestro in giunco51. Ollolai, cestino in asfodelo52. Ollolai, cesto con coperchio, in asfo-

delo53. S. Vero Milis, fuscella in “zinniga”54. S. Vero Milis, vetri impagliati

55. Tinnura, cesto in asfodelo56. Urzulei, cesto in asfodelo57. Oristano, anfore anulari58. Oristano, conche59. Assémini, theiera60. Oristano, galletto61. Oristano, brocchetta62. Dorgali, gallina63. Oristano, boccale64. Assémini, oliera65. Sassari, donna a cavallo66. Cagliari, galline e candeliere67. Oristano, servizio da caffè68. Cagliari, portafiori69. Sassari, anfora70. Sassari, rosario71. Aggius, tappeto “uccelli in grigio”72. Atzara, particolare di coperta73. Bolótana, tappeto74. Bonorva, arazzo “broccato e ghirlande”75. Busachi, bisaccia76. Gadoni, particolare di tappeto77. Giba, tappeto “vasi, fiori e tacchini”78. Isili, arazzo

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79. Isili, arazzo80. Ittiri, tappeto “rombi e fiori”81. Meana Sardo, particolare di coperta

in rosso

82. Mógoro, arazzo83. MOgoro, particolare di arazzo84. Mógoro, arazzo85. Mógoro, arazzo86. Morgongiori, arazzo87. Morgongiori, arazzo88. Morgongiori, arazzo89. Nule, tappeto:: “aquile e cervi”90. Nule, tappeto balletto” in fondo nero91. Nule, tappeto tradizionale “a fiam-

ma”92. Orune,tappeto93. Qsidda, tappetino94. Osilo, tappeto95. Ploaghe, arazzo96. Pozzomaggiore, coperta97. Samugheo, tappeto98. Sant’Antloco, bisaccia99. Santulussùrgiu, tappeto

100. San Vito, tappeto101. Sarule, tappeto “cavalcata in campa-

gna”102. Sarule, particolare del tappeto

“uccelli e cervi”103. Scano Montiferro, stoffa per arreda-

mento104. Sédilo, particolare di tappetino105. Tonara, particolare di tappeto106. Villanova Monteleone, tappeto107. Zeddiani, tappeto “papaveri”108. Ohena, scialle109. Oliena, scialle, particolare110. Oliena, scialle111. Qliena, scialle112. Osilo, scialle113. Villanova Monteleone, tovagliati114. Villanova Monteleone, tovagliati

115. Tovagliati ricamati con applicazioniin filet

116. Collare per cavalli117. Spilla in oro, perle e giada africana

118. Spille in oro e perle119. Spille in oro e perle120. Spillo con pendente121. Rosario e collana122. Cammei, corallo e madreperla con

spilla in oro123. Rosario d’argento e madreperla con

medaglione124. Spillo con pendenti125. Spillo con pendente126. Spillo con pendente formato da bot-

toni127. Spillo con pendente128. Bottoni in oro129. Spillo con pendente130. Spillo con pendente131. Recipiente in sughero e cucchiaio

con forchetta in legno132. Scatola in sugherone133. Recipiente di sughero134. Bamboline135. Donna di Ollolai e uomo di Nuoro136. Girotondo e bambino137. “Launeddas”138. Zuffoli

139. Raganelle140. Báttola141. Costumi di Sénnori142. Costume di Osilo143. Costumi di Ploaghe144. Costume di Cabras145. Costume di Santa Giusta146. Costume di Sinnai147. Costume di Quartu S. Elena148. Costume di Tonara149. Costume di Désulo150. Costume di Nuoro

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Finito di stampare nel mese di settembre 1983dalla tipo–offset “AD” Roma

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